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Riassunto Etica e Infinito, Lévinas, Dispense di Filosofia morale

Dispensa consentente il riassunto del libro Etica e Infinito di Lévinas, integrata con le lezioni tenute dal professore Riva

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 11/07/2023

Gaia.23
Gaia.23 🇮🇹

4.5

(17)

28 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Etica e Infinito, Lévinas e più Dispense in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! Emmanuel Lévinas ETICA E INFINITO (1982) La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale In Etica e Infinito (1982) di Emmanuel Lévinas compare per due volte un’immagine astronomica capovolta: quella del sole e del cielo immagine che il cogito cartesiano riesce a dare a se stesso facendosi la stella fissa del firmamento, e l’espressione di Maurice Blanchot che forza la parola “dis-astro” spezzandola, per mostrare il fallimento dello sforzo di fare se stessi la leva con cui sollevare il mondo. Il dis-astro non è una catastrofe, ma inaugura la possibilità che l’uomo arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Se questa distrazione da se stessi è possibile, allora sarà possibile sia la libertà che un mondo comune in cui l’umano appare all’altro umano: questo dis-astrarsi da sé è l’etica, il sociale e la stessa filosofia. Questo mostrare e spiegare il distrazione da sé è possibile grazie ad una questione fenomenologia, che permette di rileggere con attenzione le esperienze più normali del quotidiano. La distrazione Il punto di partenza è sostenere se sia possibile che l'uomo arrivi alla propria umanità, cioè è possibile l'umanità dell’umano? Il problema non è l’uomo ma è l’umanità dell’umano. È possibile la distrazione da sé? perché se questo dovesse essere possibile l’etica sarebbe possibile, il che vuol dire che sarebbe possibile anche l’umano, l'umanità dell’umano e l’essere sociale. Il fatto che la distrazione da sé sia possibile, che qualcosa nella vita degli uomini possa essere diverso da come è, non appartiene né all’ordine della volontà, né a quello dell’intenzione: poiché la volontà fa solo riferimento alle cose che sono volute, mentre la distrazione si riduce ad un essere sbadati, a una dimenticanza e a un difetto di concentrazione, della distrazione si riconosce il significato negativo e pericoloso. Tuttavia il distrarsi da sé cambia contesto rispetto alla quotidiana denominazione di essere distratti, facendo riferimento ad un’attenzione di diverso genere che va agli altri, o anche a se stessi considerati come altri di cui si deve essere responsabili. La parola distrazione in italiano viene usata poco e fa riferimento ad una dimenticanza, mentre in francese la parola viene colta come un di-sa-strarsi da sé, il distrarsi da sé non è soltanto un negativo, ma può diventare un positivo (= espressione che richiama quella usata da Maurice Blanchot). Il tema del disastro, che spesso si intende in un senso di tragedia, in questo caso viene visto come uno smetterla di pensare che l'IO sia il solo e l’unico centro dalla propria vita, di quella degli altri e del mondo: il disastrarsi qui è inteso come uno smetterla di fare di sé stessi l'astro di riferimento del mondo. Vi è un essere distratti e vi è un distrarsi da sé: e questo distrarsi da sé per volgersi ad altro, questo essere strappati con forza dall’obbligo fisiologico di rimanere pur sempre presso di sé, inaugura l’apparizione di un mondo differente, che è il mondo dell’umano. La distrazione da sé accade all’umano quasi controvoglia, molti impegni quotidiani, possono sembrare voluti e programmati laddove appartengono invece all’ordine di una sollecitazione che parte dagli altri. Nel quotidiano ci si impegna e ci si distrae da sé senza che sia sempre possibile distinguere chiaramente tra l’una e l’altra cosa. Questa è una filosofia che indaga la questione del nativo e non quella della prima persona singolare, perché il dativo indica e sottolinea la responsabilità per gli altri; l’essere non è più la perfetta identità con sé stessi. Se è possibile distrarsi da sé, si entra nell’ipotesi che l’umano è possibile affrontando diverse discussioni: 1. essere quello che si è 2. si mette in discussione che non ci sia libertà, ma che questo sia un mondo di necessità 3. si mette in discussione i rapporti con gli altri visti come necessariamente violenti. Distrarsi da sé è possibile ed il dis-astrarsi da sé accade quotidianamente => questo sarà uno studio basato sulla fenomenologia del quotidiano. La distrazione da sé accade nella lettura, nel discorso, nell’eros e nella responsabilità per gli altri. La coscienza di Sartre è unica, attiva e protagonista di sé, in questa chiave la coscienza privilegia la vecchia immagine filosofica del pensiero, del pensare e della ragione. Con Lévinas la coscienza è di-sastrarsi, darsi come possibilità di apertura di un mondo umano, perché, appunto, la questione non è l’uomo, ma il problema è l’umanità dell’umano. In questa chiave, la coscienza prende immediatamente un tono non soltanto attivo, ma comprende in prima istanza un tono ricettivo, una coscienza come essere risvegliati. In base a questo studio della coscienza, vi è un riemergere e una lotta intorno alla faccenda dell’intenzionalità della coscienza, che è un stato un problema riemerso attraverso i Medievali con Brentano, alla fine dell'Ottocento è stato codificato da Husserl, che ha portato ad un confronto su che cos'è coscienza. È possibile distrarsi da sé? Questo è possibile ed accade nel quotidiano come non cercato e non voluto, (differenza con Sartre che sosteneva che è fondamentale cercarsi) attraverso delle forme di accadimento che permetto di arrivare a comprendere che il distrarsi da sé avviene non grazie a noi stessi, ma viene suscitato dall’altro. Se questo accade e accade, questo è l'ingresso dell'infinito nel finito. 1 La lettura Leggere è diventata una consuetudine indispensabile per la vita quotidiana da risultare spesso inavvertita nella sua essenza e nel suo significato. La lettura è utile ed strumentale per le faccende di tutti i giorni, essa si trova ricondotta nell’ottica della gestione e della preoccupazione per sé e per le proprie attività, essa è un’esperienza quotidiana per l’uomo, tutta la nostra vita è circondata dalla lettura (esperienza quotidiana inavvertita ed inconsapevole attraverso giornali, orari die treni, autobus, numeri aule lezioni ecc.). La lettura non è strumento ma è modalità del nostro essere, perché questa mi fa partecipare e mi insegna ad umanizzarmi, a rendermi sensibile ad altro che se stessi. La lettura è in questo senso una forma di distrazione da sé, nel senso che io non sono più io nella lettura ma vivo e partecipo alle storie ad altri. La lettura permette di decifrare il vademecum dell’esistenza, e sembra esaurire l’esistenza stessa nella cifra della strumentalità (know how) => la lettura si riduce così ad essere uno strumento di uno strumento. La lettura tende a farsi sempre più veloce e strumentale, anche se a dispetti di questa evidenza quotidiana che la lega nel regno della strumentalità, nell’esperienza della lettura è possibile trovare qualcosa di ben più profondo. Infatti la lettura non si lascia esaurire da un rapporto estrinseco e strumentale, perché con l’umano intrattiene un rapporto ontologico, poiché essa diventa una modalità/lettura del nostro essere. Questa esperienza solleva in alto, rapisce, allontana da sé e dal proprio essere concentrati su se stessi, per far incontrare l’altro. Nell’esperienza autentica della lettura succede un inspiegabile distrarsi da sé, che consiste nell’apparizione di altre voci, pensieri, presenze ed opinioni diverse alle proprie e per questo si dice che la lettura chiama fuori, distrae e fa dimenticare. La lettura discute l’indipendenza degli essere nella loro identità e mette in contatto, fa apparire il volto dell’altro. Per Sartre il problema è farsi uomo e facendosi uomo si diventa tutti, cioè si realizza tutta l'umanità di tutti gli altri, quindi gli altri restano sempre fuori, ma qui il punto di partenza è un altro ovvero il renderci sensibili, in cui si considera l'umanità dell'altro e la speranza dell'altro. Se è possibile distrarsi da sé e questo potrebbe capitare anche grazie alla lettura (inclusa anche una lettura banale del quotidiano) attraverso e grazie ad una contestazione radicale del solipsismo, in cui non si nasce soli e non si nasce nel principio: Lévinas esprime una polemica contro la fiera dell’indipendenza dagli esseri, l’illusione sarà illuministica e moderna: ognuno di noi sia sovrano di un regno di cui tutti gli altri sono soltanto sudditi. Rottura nell’essere, l’essere che si stacca vs la visione di Parmenide simile ad una fiera dell'essere perfettamente liscia, senza crepe né fratture, quello per Lévinas non è il mondo dell’umano e non è neppure in questo senso il mondo dell'uomo se l'uomo è un’essenza. La lettura profonda porta ad un’interiorità, ma non è solipsistica perché non è un’interiorità con sé stessi, perché leggendo si entra in contatto con i drammi e le storie di vite, di amori e amicizie di altri. La lettura fa apparire l'umano nella sua umanità, il che significa appunto l'umanità dell’umano che non è appunto intesa come solitudine, indipendenza ed identità con se stessi. 2 La lettura non si lascia esaurire in un rapporto estrinseco e strumentale perché con l’umano intrattiene un rapporto ontologico: la lettura è ‘’una modalità del nostro essere’’, non è uno strumento esterno, una modalità del nostro essere = modo di essere. La letteratura strumentale non si rivolge a nulla, soltanto a noi stessi e ai nostri bisogni. L’esperienza della lettura solleva in alto, allontana da sé e dal proprio essere centrati su se stessi, fa incontrare dell’altro, essa rapisce, fa dimenticare, ma questa dimenticanza non è un perdere qualcosa, è un ritrovare altri pensieri e altre voci rispetto alle proprie, quindi permette l’ingresso del mondo degli altri nel mio mondo. Cosa accade durante la lettura? Io non sono più dentro solo a me stesso, ma dentro altri. Quando l’esperienza della lettura accade, capita che la lettura “fa apparire l’umano alla sua umanità”. Quindi la lettura è un’esperienza metafisica e significa che allora è falso che il principio di tutto sia l’io, l’io può essere trasportato altrove infinitamente lontano da se stesso e la letteratura fa accadere questo. L’esperienza della “lettura è una rottura dell’essere” (impensabile per i filosofi come Socrate, se so non sbaglio e se sbaglio è perché non so). Per l’essere umano il problema non è più l’essere, ma il come essere. Non si diventa umani nella persistenza dell’essere, ma nella rottura di esso. Fatto questo discorso Lévinas si apre ad un discorso a cavallo fra il fatto che le letture autentiche che portano ad un’esperienza di questo genere fanno parte del grande libro dell’umanità (Dostoevskij, Shakespeare, Tolstoj). Dall’altra parte Lévinas comincia avvisando che forse c’è un libro più libro dei libri. La comunicazione Come già visto la distrazione da sé accade, nella lettura e nel pensiero del come, ma anche nella parola e nella comunicazione. L’esperienza quotidiana della parola si distende tra un mondo in continua comunicazione e il dire dell’altro. Tra il dire e il comunicare passa la stessa differenza che intercorre tra la lettura come rapimento e la lettura come strumento e tra l’esistere e l’essere anonimo: mentre il comunicare relaziona al modo dell’impersonale e del neutro e dello scambio oggettivo di informazioni, il dire mette di fronte l’uno all’altro. La comunicazione è il pendant della lettura come strumento e ricorda il fare comunione, l’unire, e per Lévinas la comunicazione conferma la solitudine dell’essere, perché essa non rappresenta il sociale con cui si nasce a se stessi in quanto uomini. La differenza per Lévinas per la comunicazione viene da due ordini di preoccupazioni: il timore di ricadere nel genetico di un’unità non ancora umana e il suo rapporto con il sapere e la conoscenza. Nel comunicare ci si trova di fronte e di fianco all’altro e questo incontro, viene mediato dall’informazione che si intende comunicare. Il mondo della comunicazione è oggettivo ed oggettivante, poiché essa equipara e smarrisce l’incompatibilità delle singole esistenze che non sono comunicabili. La diffidenza di Lévinas per la comunicazione insiste sul rapporto tra la conoscenza e il sapere in cui si deposita. La conoscenza tiene un rapporto prensile con ciò che la circonda: comprendere è un prendere. La conoscenza impedisce la distrazione da sé nell’attimo stesso in cui sembra farsi rapire dalla meraviglia per le cose da conoscere. - Cartesio ha fatto della conoscenza il modello per rapportarsi al mondo e agli altri, e il risultato è stato la scoperta del cogito. L’io della conoscenza può fare di se stesso il perno del mondo, può darsi da solo “il sole e il cielo”. Vi è un rapporto diretto tra conoscere e comunicare: conoscere al modo della pura oggettivazione è un catturare, e comunicare estende a sua volta questa cattura. La socialità è la stessa responsabilità per l’altro, non può avere la stessa struttura della conoscenza, perché rimane una solitudine e non mette in comunione con il vero altro (Lévinas). La comunicazione che dipende dalla conoscenza e dall’informazione, non fa in quanto tale il mondo degli uomini, questa è la differenza tra Lévinas e Husserl. Il dire Il dire è un’esperienza quotidiana, che si frammischia al comunicare. Il dire quotidiano si presenta nella forma di un parlare con altri e di un salutare altri. Nel parlare e nel salutare avviene qualcosa di diverso rispetto alla comunicazione anonima e scandalizzata. Per parlare a qualcuno o per salutarlo, bisogna guardarsi in volto e accorgersi l’uno dell’altro. Il dire all’altro diventa più di un semplice parlare: il dire all’altro è un vedere altrimenti. La parola e l’accorgersi, il dire e il volto, sono accordati l’uno all’altro. Il parlare o il salutare altri non è solo un cominciare o riconoscere, ma è un rispondere. Rispondere è un farsi responsabili, risposta-responsabilità, la relazione con altri è un discorso in cui il dire diventa dialogo, che è il modo tipico dell’interumano (parola cognata da Buber in un testo del 1932); il dire è il momento fontane e vivo di ogni parlare. L’alternanza del dire e del detto, parallela all’alternanza del sociale e della società, pone un duplice problema: quello della prima parola e quello del metodo. Il problema della prima parola sembra provo di senso dopo aver affermato che il dire autentico è un dialogare. Nel dialogo le parole vanno e vengono in qualche modo senza origine e senza fine. Nel dialogo si sta fra le parole, il problema della prima parola non fa che esplicitare qualcosa che, nel dialogo, è già lì. La prima parola non è più una parola che si rivolge all’altro, ma una parola con la quale si risponde all’altro e questo spiega il passeggiato dal detto al dire, dal parlare all’essere in dialogo. Nel modo di questo dire che è un rispondere, il problema della prima parola si riempie di un contenuto etico. La prima parola è un comando e un ordine, che viene rivolto e dal quale ci si ritrova investiti. La parola non è più relazione con l’altro, la parola diventa rispondere all’altro, la prima parola è un comando e coincide con “tu non ucciderai” perché nel momento in cui non si usa più la parola in modo neutro o contro l’altro, in quello stesso momento si sta facendo una promessa che risponde alla presenza dell’altro e corrisponde alla promessa di non fare violenza. Questo comando indica un orientamento dell'esistenza non come rivolto a sé stessi, ma come rivolto ad altri, non come risposta, come un comando. Dire e disdire La prima parola rappresenta il primo problema del rovesciamento che conduce dal detto al dire. Il secondo problema riguarda il metodo. Il passaggio dal detto al dire mette in una situazione spinosa, che spinge il pensiero del come fin dentro le stesse parole e gli stessi modi del discorso. Il problema del metodo riguarda dunque la parola che si rivolge all’altro. La situazione è davvero paradossale: da un lato non si può fare a meno di depositare il dire in un detto, un dire filosofico che è tale se è un continuo disdire. La filosofia mette a fuoco questa presa di distanza, questa interruzione dell’essere dato in quanto scontato. Il dire filosofico vive nella necessità di disdirsi sempre. La questione di un dire che è un disdire va ben al di là del problema della parola filosofica, riguarda la questione di restituire, nell’universo immenso delle parole, il senso dell’infinito che non può essere catturato in un detto o in sapere chiuso => si tratta di un qualcosa che non può essere detto fino in fondo. Il parlare strumentale e il comprendere prensile si sgretolano, per fare spazio a un essere parlati più che a un parlare. 5 6 PAROLA, COMUNICAZIONE La parola nel quotidiano è lo spazio i un comunicare e conoscere. L’atteggiamento di Lévinas è drastico: tante cose vuote che ci si dice ogni giorno, questa parola per quanto spesa non fa uscire dalla solitudine. Il puro comunicare nel senso di informare non fa ancora uscire dalla solitudine. Perché? Perché è una parola detta a tutti e cioè a nessuno e viene detta fuori contesto dialogico domanda e risposta, non risponde a nulla. Quindi la parola non può essere utilizzata come strumento. PAROLA STRUMENTALE Etimologicamente ricorda ‘fare comunione’, l’unire, ma per Lévinas la comunicazione non rappresenta di per sé l’uscita della solitudine dell’essere, anzi, spesso conferma proprio quella solitudine. Dunque come uscire da questo abuso della parola? C’è un rapporto stretto tra conoscenza e comunicazione: conoscere è in qualche modo catturare e la comunicazione estende a sua volta questa cattura. Perché la comunicazione e la socialità non sono la stessa cosa? La comunicazione deriva dalla conoscenza (che Cartesio considera l’aggancio principale per la relazione con l’altro), proprio perché la comunicazione porta al di fuori quello che un individuo ha assimilato, quindi la comunicazione non ci mette in relazione con il veramente altro. La comunicazione è condivisione, ma non di ciò che si è, ma di quello che si ha. La socialità è l’unica che permette un distrarsi dal sé reale. Tuttavia, entrambi sono un modo di uscire dall’essere, ma la socialità permette la distrazione dal sé, la conoscenza è ancora una solitudine e i godimenti. Con la conoscenza (che è una cosa che si ha) il soggetto inganna la propria solitudine e quindi l’uscire da sé è un’illusione. IL DIRE, PAROLA AUTENTICA Lévinas dice che il saluto è già una risposta all’altro. (Primo problema, La prima parola è un comando e non più una relazione.) Dire è più di una semplice parola, di un semplice parlare. Dire all’altro è un vedere altrimenti, perché quello che ci si scambia non sono solo informazioni, ma anche gli sguardi. Per dire all’altro bisogna accorgersi dell’altro. Perciò la parola è più della parola e rispondere diventa farsi responsabili. La parola (autentica) è il modo tipico dell’interumano, dello stare fra gli altri. DIFFERENZA TRA IL DIRE E IL DETTO Il detto è come le cose si sono depositate e definite, ma conoscere l’anima delle cose. La filosofia ha un problema ha l’idea dell’infinito anche se conosce solo cose finite. L’infinito non si può tematizzare, perché altrimenti sarebbe trascinato in qualche categoria, ma perderebbe così la sua natura di infinito, è ciò che sfugge ad ogni tematizzazione. Dall’altra parte si deve provare a dire, ma non si può dire fino in fondo. Il dire rimane altro dal detto, come una sorgente è separata dal fiume. Così come il dire è il momento frontale e vivo di ogni parlare così il sociale è il movimento sotterraneo rispetto al quale poi una società con le sue leggi e le sue istituzioni e relazioni sociali diventa poi una necessità. Il dire precede e sorregge il detto il sociale precede e sorregge la società. DIRE E DISDIRE L’infinito non è questione di un dire, ma di costruire un discorso che si renda sensibile a far sentire che dentro ogni detto trapassa un filo che è quello del disdire mentre si sta dicendo. La filosofia deve diventare un luogo critico e non chiuso deve lasciare nel suo detto la traccia di un dire, nel suo essere finito la traccia dell’infinito. Quando ci si avvicina all’umano tutto il detto della filosofia perché del bene e dell’essere non c’è una definizione univoca. I diversi significati sono in un rapporto di tipo proporzionale e non di tipo gerarchico. Il problema della filosofia è mantenere aperta la possibilità del dire che è l’infinito. Il dire vive nella necessità di disdirsi sempre quando il dire si mette in forma di detto rompe così da capo le categorie del discorso. La struttura del dire che si disdice di continuo è la stessa struttura dell’infinito l’infinito non si può esprimere in qualcosa di chiuso come un detto e questo che può sembrare un difetto dell’infinito in realtà esprime la sua caratteristica positiva, ovvero la sua stessa infinità. Nel momento in cui tu cerchi di parlare dell’infinito proprio perché parli di qualcosa che non può essere rinchiuso in parole finite, l’unico modo per mantenere viva la trascendenza dell’infinito e non uccidere l’infinità dell’infinito è questo dire e disdire continuo. Se si tematizzasse l’infinito la filosofia morirebbe perché bisogna mantenere aperta la possibilità di dire dell’infinito. Eros, il mistero Eros è un essere concentrati su se stessi e sui propri desideri al punto che Eros e la sua liberazione diventano parte della libertà stessa dell’uomo, quindi da un lato Eros diventa il manifesto della libertà, dall’altro allude ad una pienezza del proprio appagamento, ma questa pienezza in Eros non si trova. Eros non è amore, non è neppure sesso, è piuttosto l’incarnazione stessa dell’amore. Eros è il luogo per eccellenza dell’alterità, rimanda al mistero nel suo bisogno feroce di andare dall’altro strappandomi da me stesso e testimonia che l’alterità è già la prima di ogni scelta e preferenza, persino prima dell’incontro con l’altro, poiché l’alterità è sempre in qualche modo a venire. Eros annuncia una differenza dell’umani che non è equiparabile né al numero = differenza di somme e sottrazioni di singole unità, né alla natura con cui riporta la differenza dell’umano a una diversità di attributi sessuali nei diversi soggetti maschio-femmina. Eros attira verso una zona di opacità intima e verso qualcosa che sfugge alla conoscenza, e in questo senso attiva sia un movimento opposto a quello della conoscenza che pone l’altro a distanza e dopo se stessi, sia uno scacco della comunicazione al modo dello scambio di informazioni. Eros è sfuggenza: nella sua presenza e necessità insegna la presenza dell’infinito nel finito, c’è qualche cosa che sembra di avere sotto gli occhi, eppure se Eros è sotto gli occhi è tutto tranne che Eros. Eros destabilizza ciò che si crede o che si vuole, da Eros si viene presi ed interrompe la logica lineare della centralità della coscienza, attira verso una zona di opacità intima, verso qualcosa che sfugge alla coscienza, il movimento opposto della coscienza (pone l’altro a distanza e dopo se stessi). Eros non è possesso, si manifesta nel velarsi: l’altro in quanto altro non è un oggetto che diventa nostro o si identifica con noi, al contrario, si ritrae nel suo mistero. Eros fa incontrare le differenze non confondendole tra di loro, ma facendo vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. L’Eros è un non sapere continuo, come un gioco con qualcosa che si sottrae, un gioco privo di progetto e piano con qualcosa d’altro che rimane sempre altro, inaccessibile, sempre a venire (es. l’essenza della carezza è il suo stesso cercare, perché non sa cosa cerca). Eros non parla in modo scisso il linguaggio dell’unione e quello della differenza: ne parla in modo contestuale, così che differenza e unione si appartengono da sempre a vicenda, per questo il discorso su Eros resta in dialogo con il tema della comunicazione e del mistero: si tratta però di una comunicazione diversa da quella strumentale e funzionale, non si tratta di un conoscere perentorio e insindacabile delle classificazioni. L’esperienza dell’Eros è attraversata dal discorso sul copro e sulla differenza dei corpi, è attraversata dal maschile e dal femminile, tuttavia Eros non fa incontrare queste differenze, non le fa confondere tra di loro: fa vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. Più che un prendere, in Eros si fa allora esperienza di un cedere, di un essere strappati a se stessi nel momento in cui tutto sembra ricondurre a sé e al proprio afferrare: esperienza di una depossessione. L’esperienza del corpo e della differenza sessuale, il fenomeno del pudore e della ritrosia, la lacerazione interiore che rende difficile controllare Eros rinviano nella direzione di questo rovesciamento. Il corpo neppure la mano può riflettere tutte queste ambiguità del corpo perché anche essa è lo strumento per eccellenza, ma proprio come eros infinitamente altro. La mano è pressa, possesso, tenaglia, ma allo stesso tempo sa accarezzare. Lévinas insiste su due esperienze particolari, quella della carezza erotica e quella del figlio. In entrambe, il movimento del patetico dell'amore e quello del ritrovarsi spossessati emergono con nitidezza. - la carezza: l’esperienza della carezza erotica si distingue dal puro toccare: il toccare e la carezza si contrappongono come il leggere strumentale e il leggere profondo, come il comunicare e il dire, come la società e il sociale. A differenza del toccare qualcosa, la carezza di Eros non Sto arrivando! Quel che cerca e non risponde ad un agire ordinato secondo uno scopo preciso. La carezza erotica è un gioco che domanda sempre di essere giocato di nuovo e nella carezza si esprime un disordine fondamentale che inaugura un ordine e un tempo diversi, il tempo dell’umano. - l’esperienza del figlio: essa è ancora più misteriosa rispetto ad Eros, perché l’altro che ho davanti è pur sempre un altra persona rispetto a me, quindi estranea al mio IO, ma è radicalmente altro pur essendo me in qualche modo perché è sangue del mio sangue. Vi è un paradosso molto preciso: da un punto di vista biologico e scientifico non ha nulla di misterioso visto che esce dall’incontro dell’uomo della donna ed è sangue dello stesso sangue, ma il figlio in nessun modo è proprietà dei genitori. È la propria carne e il proprio sangue, ma è altro, quindi non esiste un rapporto di possesso. Lévinas riprende ampiamente quanto scritto in Il tempo e l’altro (1947) per dire che l’esperienza del figlio è l’esperienza parallela della paternità, poiché si rovescia l’avere, il possesso e la proprietà. => Eros, la paternità: ancora più misteriosa è a relazione di paternità, qui l’Eros porta avanti la responsabilità dell’altro in quanto altro figlio, che non viene intesa come la figura biologica dell’unione tra madre e padre, non è il loro risultato, ma è un essere a parte. Il figlio è l’inspiegabile, così diverso venendo fabbricato biologicamente da due genitori. Il genitore non è proprietario del figlio. La paternità è una relazione con un estraneo che pur essendo altri, è me. Il figlio non è semplicemente un’opera come un oggetto fabbricato e non è neppure una proprietà. La paternità è un esistere pluralista, il pluralismo si impara nella famiglia, di fronte a delle figure non riducibili l’una all’altra, si impara ad esistere in un modo plurale. Il figlio è l’avvenire, ma al di là del mio proprio essere, non è la mia perpetuazione, il figlio è l’eredità di sé stesso. Questo è un caso in cui la causa biologica non coincide con le cause dell’essere figlio e dell’essere padre, non per questo si è genitori, si è ad un livello decisamente diverso. 7 La ricerca di un’unità propria dell’interumano, approda in definitiva a una formula paradossale, la quale chiarisce il pensiero in qualche modo relativizza le stesse parole intorno a cui si sta girando. Il vero insieme dell’umano porta proprio cuore il segreto della pluralità come quello della dignità stessa dell’umano. L’insieme dell’umano è il modo di uno scarto che non si colma: modo però di una vicinanza e non di una distanza. 10 Il problema dell’uno e dei molti, del Medesimo e del Diverso, e del problema di come pensare/fare l’unità dell’umano è il problema dell’insieme. Problema che si destreggia in una diverse continuità tra la teoria (che diventa, in termini hegealiani, la questione della sintesi, tra cil che non coincide; l’etica ( dove prende di petto la questione dell’io e dell’altro) e il sociale che introduce le modalità di convivenza. L’unità di pensiero, la differenza dell’atro, i modi dell’essere insieme si possono raccogliere tutti sotto il problema del fare e del pensare dell’unità, quindi vi è correlazione tra il modo stesso di pensare e le forme pratiche della convivenza, di modo che le figure teoriche del pensiero anticipano o esplicitano le forme pratiche del convivere. L’insieme dell’umano non si può intendere né al modo naturalistico, che riduce le differenze tra gli individui dello stesso genere a degli accidenti e dunque a qualcosa che è in fondo irrilevante, né al modo della sintesi hegeliana, che supera le differenza interumane annullandole in un’unità superiore. Il modo naturalistico della sintesi hegeliana ‘ il segreto’ del singolo si ritrova ‘ridicolizzato’. L’elemento comune che permette di parlare di una società oggettivata, è grazie al quale l’uomo assomiglia alle cose e si individualizza come una cosa, non è primario. L’unità dell’umano va pensata nel faccia a faccia, ossia nella pluralità essenziale: contro ogni notalfia di compattezze sociali, e contro ogni rimpianto dell’ordine, che rispondono a pensieri disumani dell’unità dell’umano. L’insieme dell’umano coincide cona stessa molteplicità, per questo l’etica, vale a dire il pensiero della responsabilità per l’altro, non è secondaria rispetto alla riflessione generale sulle forme del sapere e sul modo di dare unità ‘ la moralità ha una portata indipendente e preliminare. La filosofia prima è un’etica’. La filosofia prima è un’etica. Questa espressione adottata da Lévinas, in etica ed infinito, per ribadire che la sua significazione morale è indipendente e preliminare, comprare rovesciata, scambiando i complementi, per sottolineare che l’etica è la filosofia prima ( Lévinas, etica come filosofia prima, 1948k orefazione e commento di Rollan). Nella versione di etica ed infinito l’affermazione centrale di Lévinas mette in circolo tra di loro, la filosofia, l’etica e la socialità, ma ‘nella sua significazione morale’. Il significato morale dell’esistenza non è secondario, perché pone frontalmente il problema dell’unità dell’umano: unità di ciò che, di per sé, è incomparabile. Quindi questa unità non è un fare sintesi, perché non si tratta di pensare insieme me e l’altro : ma si tratta di essere di fonte. La vera unione o il vere insieme non è un insieme di sintesi, ma un insieme del faccia a faccia’. Pensare il comune deve esprimere l’insieme del faccia a faccia, l’insieme di ciò che resta ( come per Eros- plurale). L’insieme e il comune danno vita all’ennesima tensione, come avviene per il dire e il comunicare, per il sociale e la società l’insieme porta alla pluralità dell’umano, mentre il comune viene collocato sul lato della sintesi e della totalizzazione( in breve dell’accumulo). Ma dell’insieme si registrano delle dimensione autentiche e inautentiche ( quelle appunto della sintesi), e allo stesso modo dell’unità si può dire sia al modo del faccia a faccia, sia in quello della sintesi totalizzante. Il vero insieme dell’umano porta nel proprio cuore il segreto della pluralità come quello della dignità stessa dell’umano. L’insieme è nel faccia a faccia, inteso quando si vuole questo insieme, unità vera all’insieme della sintesi, al comune come l’intende Lévinas, cosa lo segna; il rapporto interumano è ‘il non sintetizzabile per eccellenza’. L’insieme dell’umano è il modo di uno scarto che si colma: modo però di una vicinanza e non di una distanza Né totalitarismo, né liberalismo dal rifiuto della sintesi deriva la critica spietata ad ogni forma di totalitarismo alla quale segue la critica al liberalismo, sembra infatti che l’opzione sociale per il liberalismo si giustifichi per la forza della reazione polemica contro gli orrirei sperimentati collettivamente del totalitarismo. Le parole del pensare quelle dell’etica e quelle del sociale si annodano in una fluidità che permette dei rapidi capovolgimenti, senza perdere nulla in continuità al punto che si può riconoscere che la critica della totalità viene dopo l’esperienza politica dei totalitarismi del Novecento. Il centro della critica del totalitarismo è la perdita del segreto dell’esistenza, che impedisce la sintesi. Nel suo dialogo con Lévinas, Philippe Nemo cita una pagina di Totalità ed Infinito per ricordare che l’umano non sta insieme come gli individui accumulati in un genera: una società oggettivata inspirata a quell’idea di comune così diversa dall’insieme del faccia a faccia sarà una degradazione dell’unità dell’umano. Dalla critica del totalitarismo, vi è un approdo al liberalismo che risponde a questo totalitarismo: il liberalismo pone l’attenzione sugli individui e delle garanzie preliminari, in cui la struttura del ragionamento rimane intatta, di modo che il segreto delle esistenze non si salva nel liberalismo più di quanto non si salvi nei totalitarismi. Nel totalitarismo il segreto dell’esistenza viene negato, nel liberalismo viene fatto difendere da una teoria oggettiva della società che funziona nel momento in cui si lasciano andate le cose in modo liberale. Nel liberalismo si assiste ad un capovolgimento = un’autosmentita, perché non sarà la convivenza a basarsi sul segreto essenziale delle vite, che è la libertà e responsabilità per gli altri, ma si farà dipendere la libertà da un certo tipo di organizzazione ossia da un sistema dell’efficacia. Nel contesto della doppia e parallela critica al totalitarismo e al liberalismo, Lévinas sembra compiere una sorta di autocritica: egli riconosce che la Totalità e Infinito (1961) su primo libro, va in questa direzione, perché intende porre il problema del contenuto della relazione troppo formale, mentre il problema è di sapere in cosa consiste positivamente questa società differente della socialità. Autocritica di formalismo non significa una differenza nei confronti del rigore del pensare, ma una riflessione sulla razionalità del sociale: si tratta di dedurre la necessità di un sociale razionale delle esigenze stesse dell’intersoggettivo. Lévinas è alla ricerca di una razionalità sociale che non risulti schiacciata sul principio della paura reciproca e della limitazione della guerra di tutti contro tutti. Dalla necessità di ripensare il sociale, vi è un collegamento con il tema della politica che viene definita come una seconda dorma di socialità, che rende giustizia al segreto della vita perché questo segreto non è una chiusura che tiene a distanza, ma è la prossimità, non la separazione ma la responsabilità per gli altri. Alla politica come forme di socialità si può collegare il discorso della paura. La politica come limitazione discende dalla paura egoistica per l’altro; vi è un’altra paura che non è per se stessi, ma per l’altro, il timore di non lasciarlo solo di fronte all’inesorabilità della morte. Questo timore non più egoistico per l’altro, è il fondamento della socialità, dell’amore senza eros. Il fondamento della socialità assomiglia molto alla distrazione da sé e questo timore per la vota dell’altro è un’esperienza che rende problematica la normalità e la naturalità di preoccuparsi solo di se stessi. Volto e moderazione Il problema del modo in cui l’umano sta insieme e il rifiuto della sintesi totalizzante, fissa due modelli alternativi di pensiero: - il pensiero dell’uguale => si incentra sul sapere dell’assoluto, odio, più o meno dichiarato, per la finitezza, e auspicio dell’altro uomo divenga lo stesso, in una reciprocità che della differenza mantiene solo il numero e alle fine neppure quello. Il pensiero dell’uguale non va confuso con un principio di uguaglianza e con la richiesta di giustizia. - il pensiero dell’ineguale => sorge dall’idea dell’Infinito: trascendere non significa negare la differenza a favore di un oltre, ma scorgere la trascendenza in ciò che attraverso l’umano, nel suo stesso differire. Fuori dal sapere della totalità e della sua presunzione, si rimane in una sporgenza radicale che è sempre sul punto incipiente, niente nell’umano è mai compito fino in fondo. 11 A proposito del sociale, nel contesto della doppia e parallela critica al totalitarismo e al liberismo, Lévinas compie una sorte di autocritica. Egli riconosce che totalità ed infinito, è il ‘suo primo libro che va in questa direzione’, perché ‘intende porre il problema del contenuto della relazione intersoggettiva, giudica la sua valutazione un più troppo ‘formale’, mentre il problema del sapere è di sapere in cosa consiste positivamente questa socialità’ differente dalla socialità totale e addizionale’. Lévinas è alla ricerca, di una razionalità sociale che non risulti schiacciata sul principio della paura reciproca e della limitazione della guerra di tutti contro tutti. Così porsi la domanda se la società contemporanea, non nasca da una limitazione opposta, quella del ‘principio che l’uomo è per l’uomo’ o dell’infinito che si apre nella relazione etica dell’uomo all’uomo. Se così fosse, se la società sottende quest’altra limitazione, quella del principio che l’uomo è per l’uomo allora il sociale non è ancora fiorito nella sua possibilità L’approdo al sociale è l’infinito nel finito, che non è una negazione bensì l’istituzione radicale di una trascendenza. Sull’idea di di infinito viene in mente Cartesio => l’idea di infinito è l’unica idea che il pensiero non riesce a darsi, la trova piuttosto dentro di sé, ed è ‘infinitamente’ più grande dell’atto mentale con cui la si pensa, al punto che diventa persino una prova dell’esistenza di Dio. L’infinito segnala una ‘sproporzione impensabile’, ‘antigreca’ e ‘antisocratica’: la sproporzione che sopravviene quando non si fa coincidere tutto il senso della realtà con il pensiero che lo pensa. L’dea di infinito in Cartesio rimane solo ‘teoretica’, una forma di sapere, quando invece ‘la relazione all’Infinito non è un sapere, un desiderio’, il desiderio è come un pensiero che pensa più di quanto non pensi. Dall’alternativa tra questi due modelli di pensiero, discendono due registri di riflessione, dei quali l’uno pare dominate se non fosse per il fatto di venire contrappuntato, e in un certo senso anche corretto, dal secondo: il pensiero iconico da una parte e il tentativo di dire il sociale oltre gli stilemi reiterati delle polemiche e delle rotture dall’altra parte. Lévinas procede da un lato pensiero iconico, costruisce le proprie figure a partire dal rovesciamento del sapere dell’assoluto in un pensiero dell’infinito. Il pensiero iconico di Lévinas si scolpisce da una serie di rotture, che muovono tra il paradosso e la provocazione: una fenomenologia alternativa di Volto d’altri, che si presenta nella sua nudità etica senza discriminazione e senza contesto, l’insistenza sull’oltrepassamento del sapere, per motivi dell’al di là, del segreto, della trascendenza (avvertendo che non si tratta di una rinuncia, ma di un altro modo di pensare e di un altro sapere); il superamento della logica della relazione, che continua a tenere l’io al centro nel suo rapportarsi all’altro, quando è Altri che viene verso di me e che mi comanda di arrestare la violenza. Lungo la strada di questo pensiero iconico si approda alla questione delle precedenze: non più l’essere, il sapere, il soggetto, la conoscenza, ma l’etica che si fissa in un esplicativo e ordinario dal punto di vista etico. Alla costruzione delle icone dell’etica fa da un altro lato l’esigenza di dire la relazione sociale, che è poi la stessa etica. Il bisogno di dire da vicino la relazione sociale compare fin nei discorsi più consolidati, che insistono sull’icona del volto e del comando; emerge la responsabilità per l’altro, la prossimità e la giustizia, e si avverte più in generale nell’esigenza di passare da un discorso più girato sul negativo, cioè sui motivi della rottura e del capovolgimento, che costringe il discorso a riproporsi diversamente. Il doppio registro è avvertito dallo stesso Lévinas, che avvisa che il sociale fatica a parlare solo del linguaggio iconico del Volto dell’altro. Proprio nel cuore del discorso sul Volto si irrompe la tematica del terzo che introduce al motivo della giustizia, per cui bisogna soppesare, pensare, giudicare, comparando l’incomparabile. Il terzo è l’altro uomo con cui sono in rapporto mediato, attraverso il rapporto con chi ho di fronte. Nella tematica del terzo, Lévinas apre al problema della giustizia, non importa tanto lo sfondamento dell’icona e l’allargamento dei rapporti, importa di più il fatto teorico che nel terzo avanza la necessita di moderare questo privilegio d’altri con la giustizia.. La giustizia consiste in questo: ‘la relazione interpersonle che stabilisce con altri devo stabilirla anche con gli altri uomini, la giustizia, ‘esercitata dalle istituzioni, che sono inevitabili, deve sempre essere controllata dalla relazione interpersonale inziale’. Responsabilità, prossimità, giustizia Il privilegio etico d’altri, fissato nell’icona del volto, va moderato; la sua moderazione si rivela anche un’intensificazione. Le nuove parole dell’etica (responsabilità, prossimità e giustizia), paiono sorgere in un contesto morale a due, e di questo portano il marchio dell’icona del Volto, anche se tendono ad ampliarsi e a traslitterare. Nel senso iconico Il Volto e le figure correlate, si può leggere come la ricerca di altre parole più rispondenti alla socialità dell’umano, tra queste parola la prossimità, forse si riesce a dire il sociale dell’etica. Motivazione di quanto affermato: la prossimità fa ruotare la distrazione da sé sul lato più positivo, sospendendo il linguaggio della rottura, senza che la prossimità sia per di per sé risolutiva di ogni cosa, essendo anzi solo l’inizio di un mondo umano sempre ancora da venire e da pensare, perché anche la prossimità si ripropone il movimento di parole che l’alterna con la socialità, nel tentativo di dire l’umano accanto all’umano. Infine perché la prossimità si trova nel cuore tanto della responsabilità quanto della giustizia. La prossimità si trova nel cuore della responsabilità. Anche la responsabilità ha la sua icona. In virtù di questa responsabilità, l’io, il soggetto, si disastra in un essere soggetto ad altri. la responsabilità ridefinisce l’identità dell’io per condurla dapprima verso la deposizione di una sovranità usurpata, e quindi alla soggezione nei confronti del compito che incombe da parte dell’altro, e che non si può rifiutare. Dall’altra parte, nonostante le parole come ‘soggezione’, ostaggio’, passività’ ora assegnato all’io, dolo con una certa fretta, e non senza qualche leggerezza, si piò ritenere che questa deposizione e questa soggezione dell’io siano una dismissione della propria persona. Al contrario: la peronavene investita di ritorno della stessa dignità dell’Unico che ha di fronte e che gli orina di diventare responsabile, se si riferisce ad una visione meno provocatoria, ognuno è definito dalle proprie responsabilità. La responsabilità risveglia a se stessi, ma come uno choc di ritorno. Il soggetto non si ritrova nel fare di se stesso l’astro di riferimento dell’universo, ma nel disastrarsi che assume alla fine il nome della ‘diaconia’: termine che orge prima di ogni dialogo. La diaconia interrompe la sostituibilità degli umani e la loro in-differenza:> nessuno adesso è i più sostituibile, nessuno più interscambiabile con nessun alto, cosa che non può succedere in un mondo sociale che si affida o all’accumulo o alla neutralità dell’efficienza. 12 Philippe Nemo, successivamente, chiede a Lévinas quali fossero le sue intenzioni rispetto alla filosofia una volta terminati gli studi. Lévinas risponde che avrebbe voluto lavorare in campo filosofico, ma ciò avrebbe significato produrre libri, dedicarsi alla pedagogia o ripetere l’opera di Bergson. Tuttavia grazie ad Husserl, l’autore ha scoperto il significato concreto della possibilità di lavorare in filosofia senza ritrovarsi in un sistema rigido di dogmi. Lévinas ha conosciuto l’opera di Husserl per puro caso, durante la permanenza a Strasburgo: una sua giovane collega, Gabrielle Peiffer, stava preparando il diploma degli studi superiori, proprio sul testo “Ricerche Logiche” di Husserl. All’inizio, la lettura di questa opera appare molto difficile all’autore, ma con grande costanza e impegno riesce a giungere al suo pensiero. Il primo punto del suo pensiero a cui giunge è la possibilità di conoscersi o di riconoscersi, ovvero il rispondere alla domanda “a che punto siamo?”. Il significato della fenomenologia di Husserl riguarda una riflessione incentrata su di sé, su un cogito che non vuole farsi ingannare da nessuna forma di spontaneità, con una diffidenza soprattutto verso ciò che si impone al sapere; per Husserl, bisogna sempre risalire all’intero orizzonte dei pensieri e delle intenzioni che mirano all’oggettività. Philippe Nemo fa notare a Lévinas che la sua opera è incentrata sulla metafisica in quanto etica e che ci sia poco direttamente derivato dal pensiero di Husserl, che privilegia la riflessione sul mondo e sulla sua costituzione, piuttosto che sull’uomo e sul suo destino. Lévinas risponde a Nemo che egli sta dimenticando l’importanza che Husserl attribuisce all’intenzionalità assiologia. Il valore in Husserl deriva da un atteggiamento specifico della coscienza, ovvero da un’intenzionalità: per Husserl, la relazione con gli altri può essere studiata come intenzionalità irriducibile. Lévinas racconta poi di aver conosciuto Husserl a Friburgo, in qualità di suo uditore per un anno, Husserl era appena andato in pensione, ma insegnava ancora e ricevette Lévinas amabilmente. In quel periodo, i colloqui con Husserl erano costituiti dai suoi monologhi, perché egli si preoccupava in particolare di ricordare gli elementi fondamentali del proprio pensiero. 2. HEIDEGGER Lévinas racconta di aver scoperto il filosofo Martin Heidegger a Friburgo, dove si era recato per seguire gli insegnamenti di Husserl e che questo filosofo avrebbe poi avuto un’importanza primaria nella formazione del suo pensiero. Lévinas legge l’opera “Essere e tempo” e inizia a maturare una grande ammirazione per questa opera, che considera una delle più belle della storia della filosofia; altri libri che secondo Lévinas sono degni di nota sono: il “Fedro” di Platone, la “Critica della ragion pura” di Kant, la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, il “Saggio sui dati immediati della coscienza” di Bergson. La parola “essere” viene abitualmente utilizzata come un sostantivo; con Heidegger si risveglia la verbalità della parola “essere”, ciò che in essa è evento, l’accadere dell’essere; mentre Husserl proponeva un programma trascendentale per la filosofia, Heidegger la definisce chiaramente una ontologia fondamentale. Per Lévinas, in questo contesto, l’ontologia è la comprensione del verbo essere; l’ontologia si distingue da tutte le altre discipline che indagano ciò che è, gli esseri e la loro natura, perché le altre discipline presuppongono la comprensione del senso della parola essere, senza averlo realmente esplicitato. L’opera “Essere e tempo” appare nel 1927; Philippe Nemo chiede a Lévinas se questa opera fosse, effettivamente, una novità assoluta nel panorama filosofico dell’epoca; Lévinas risponde che questa opera gli sembrò particolarmente rivoluzionaria, perché dava vita ad un nuovo linguaggio e a delle teorizzazioni innovative. L’opera “Essere e tempo”, soprattutto per quanto riguarda l’analisi dell’angoscia, della preoccupazione e dell’essere-per-la- morte, costituisce un esercizio supremo della fenomenologia e il suo scopo è descrivere l’essere e l’esistere dell’uomo. Lévinas afferma di essere rimasto particolarmente colpito dall’opera di Heidegger per quanto riguarda l’intenzionalità dell’esistere e tutti quegli stati d’animo che, prima di Heidegger, erano considerati ciechi, semplici contenuti. Per esempio, nell’analisi di Heidegger l’angoscia esiste come oggetto senza significato. Per Heidegger, l’esistenza stessa è determinata dal senso ontologico primordiale del nulla: esso non deriva da ciò che si può sapere sul destino dell’uomo o sulle sue cause, perché l’esistenza, nel suo stesso evento di esistenza, significa il nulla nell’angoscia. “Essere e tempo” si configura come un modello per l’ontologia. Lévinas è rimasto deluso da alcuni aspetti dell’opera: per esempio, dalla scomparsa della fenomenologia vera e propria e il fatto che il pensiero di Heidegger sia permeato da alcuni aspetti della poesia di Holderin (come le etimologie, che sono poco controllabili). Per Lévinas, il linguaggio, il “detto”, non conta tanto quanto il “dire”. Tuttavia, un uomo del XX secolo non può ignorare la filosofia di Heidegger, seppur distaccandosene, perché essa costituisce un punto fondamentale per questo secolo; filosofare ignorando Heidegger significa cadere nell’ingenuità, per come veniva intesa da Husserl (i saperi scientifici sono ingenui perché, una volta assorbiti dal proprio oggetto, ignorano la loro oggettività). In definitiva analisi, secondo Lévinas non si può ignorare Heidegger per quanto riguarda l’ontologia fondamentale. La scolastica heideggeriana scambia le peripezie del discorso con i riferimenti ultimi del pensiero. Inoltre, Heidegger ha ampliato la storia della filosofia. In Heidegger è presente un nuovo modo di dialogare con i filosofi classici e di ricercarvi degli insegnamenti che siano anche attuali. Il filosofo del passato non si concede immediatamente al dialogo, per renderlo attuale è necessario svolgere un lavoro di interpretazione, in cui l’impensato viene ricondotto al pensato e al dire. 15 3. L’IL Y A Philippe Nemo fa notare come Lévinas abbia iniziato la propria carriera pubblicando saggi su Husserl e Heidegger: quindi, possiamo dire che è stato uno storico della filosofia, o comunque un analista dei filosofi. La prima opera in cui Lévinas esprime il proprio pensiero è “Dall’esistenza all’esistente” che, come viene affermato nella prefazione, viene scritto durante la guerra, nello stalag. Nemo gli chiede, quindi, di che cosa si tratti. Lévinas risponde che si tratta di ciò che egli definisce l’”il y a” (anche Apollinaire chiama così una sua opera, riferendosi però ad una espressione di gioia verso ciò che esiste, verso l’abbondanza oppure come es gibt di Heidegger). Per Lévinas, l’”il y a” è il fenomeno dell’essere impersonale (ovvero “il”). L’autore riflette partendo da alcuni ricordi dell’infanzia: il fatto che per gli adulti la vita continui, che i bambini debbano dormire da soli e che percepiscano il silenzio della cameretta come un brusio. Questo brusio è simile a ciò che si sente quando si avvicina all’orecchio una conchiglia vuota: è come se il vuoto fosse pieno, come se il silenzio fosse un rumore. Lévinas sta, quindi, parlando di qualcosa che si può percepire anche quando si pensa che non vi sia nulla. Nemo, successivamente, riprende l’associazione fatta in precedenza da Lévinas tra l’”il y a” e l’”es gibt” di Heidegger (che lo tratta in termini di generosità, dato che nell’espressione tedesca è presente il verbo “geben”, che significa dare). Nemo gli chiede se nell’”il y a” vi sia generosità. Lévinas insiste sul carattere impersonale dell’”il y a”: è un’espressione senza gioia né abbondanza (come “piove” o “fa notte”). Né nulla, né essere; è un rumore che torna dopo la negazione di questo rumore, e per trattarlo, Lévinas spesso ricorre all’espressione “il terzo escluso”: infatti, non si può affermare che è un evento d’essere, ma nemmeno che è il nulla. Nell’opera sopra citata, Lévinas descrive molte esperienze legate all’”il y a”, tra cui quella dell’insonnia. Nell’insonnia, infatti, si può e non si può affermare che c’è un “io” che non riesce a dormire: l’impossibilità di uscire dalla veglia è qualcosa di oggettivo, indipendente dall’iniziativa personale; questa impersonalità assorbe la mia coscienza, che viene spersonalizzata (io non veglio, “ciò” veglia). Lévinas riprende questo concetto da Maurice Blanchot, che tratta del “neutro” e del “fuori”; non si tratta di stati d’animo, ma di fine della coscienza oggettivante, di un rovesciamento psicologico. Lèvinas intende che nelle opere di Blanchot, quando si tratta del “disastro”, si fa riferimento non ad una morte o ad una disgrazia, bensì al modo in cui l’essere si stacca dalla sua fissità di essere e da ogni esistenza cosmologica (dis- astro). Il disastro, per Blanchot, ha un significato quasi verbale e sembra che per lui sia impossibile uscire da questa situazione sconvolgente ed ossessiva. Nell’opera “Il Tempo e l’Altro” del 1948, Lévinas cerca di uscire dall’”il y a”, dal nonsenso. Nella precedente opera “Dall’esistenza all’esistente”, Lévinas aveva analizzato le 3 modalità del suo essere nel suo significato non verbale: la fatica, la pigrizia, lo sforzo. In questi fenomeni, viene mostrato il terrore davanti all’essere, questo arretramento impotente, un’evasione. Di fronte a questa situazione, Lévinas propone una soluzione: in un primo momento, arriva ad elaborare l’idea che l’”essente”, il “qualcosa” che si può indicare con il dito, corrisponde ad un dominio dell’”il y a” che spaventa nell’essere. L’uomo tende a riportare l’essere all’esistente (per esempio, dice che il tavolo è, che le cose sono). Si ha un passaggio dall’essere verso qualcosa, in cui l’essere che si impone viene salvato. Questa idea, però, corrisponde solo ad una prima tappa, poiché l’io che esiste è ingombrato dagli esistenti che domina. L’ingombro dell’esistenza corrisponde alla “cura” di Heidegger. In un secondo momento, Lévinas capisce che per uscire dall’”il y a” non bisogna porsi, bensì deporsi (compiere un atto di deposizione): questa deposizione della sovranità da parte dell’io consiste nella relazione sociale con gli altri, che deve essere disinteressata. Bisogna, quindi, uscire dall’essere. 4. LA SOLITUDINE DELL’ESSERE Philippe Nemo chiede a Lévitas quali siano le circostanze che l’hanno condotto a scrivere la successiva opera “Il Tempo e l’Altro”, un volume in cui sono raccolte 4 conferenze tenute presso il Collège di filosofia di Jean Wahl. Lévinas risponde che Wahl, si interessava in particolare alla continuità tra arte e filosofia, ritenendo necessario l’ascolto dei discorsi non accademici accanto alla Sorbona; Per questo motivo, nel quartiere latino, aveva fondato il Collège, un luogo in cui il conformismo non-intellettuale veniva tollerato. Nemo fa notare a Lévinas che nel periodo intorno al 1948, dopo la guerra e la successiva liberazione, molti intellettuali si occuparono degli aspetti sociali dei problemi e gli chiede se egli rimase fedele al suo progetto metafisico.Lévinas risponde che, in quel periodo, Sartre e Merleau-Ponty stavano dominando l’orizzonte filosofico, in uno scenario in cui si stava facendo strada in Francia la fenomenologia tedesca e Heidegger iniziava ad essere scoperto, quindi non venivano trattati solo problemi sociali: curiosità generale era avvertita verso tutti i temi e secondo Lèvinas, la filosofia pura non può interessarsi solo al problemi sociali. “Il Tempo e l’Altro” è una sorta di ricerca sulla relazione con gli altri perché essa ha come elemento proprio il tempo (il tempo è la trascendenza, l’apertura verso gli altri e verso l’Altro), in cui il Medesimo è non-indifferente all’Altro, non lo soffoca in alcun modo. 16 Philippe Nemo riprende una parte dell’opera di Lévinas, in cui afferma che “il fine dell’opera è mostrare che il tempo non è il fatto di un soggetto isolato e solo, bensì è la relazione stessa del soggetto con altri”, così facendo, Lévinas presuppone che la solitudine in sé sia un problema. Lévinas risponde a questa congettura affermando che la solitudine, per lui, si configurava come problema esistenziale: in quel tempo, l’esistenza era descritta come “disperazione della solitudine” o come “isolamento dell’angoscia”. Questa opera rappresenta il tentativo dell’autore di uscire da questo isolamento dell’esistere (così come il libro precedente era un tentativo di uscire dall’” il y a”). Anche in questa liberazione esistono 2 tappe: la prima consiste in un’uscita verso il mondo della conoscenza (Lévinas cerca di mostrare che il sapere è una immanenza e che nel sapere non c’è alcuna lacerazione dell’essere), la seconda consiste nel dimostrare che nella comunicazione del sapere ci si trova affiancati da altri, senza un diretto confronto con il sapere stesso. Per Lévinas, nulla è più privato del fatto di essere: l’esistenza è l’unica cosa che l’uomo non può comunicare, può raccontarla, ma non può condividerla. La solitudine, quindi, appare come l’isolamento che segna l’esistenza stessa. Philippe Nemo, poi, riprende un altro spezzone dell’opera di Lévinas, in cui quest’ultimo afferma che “è una banalità affermare che non esistiamo mai al singolare. Siamo circondati da esseri e da cose con cui intratteniamo relazioni. Tutte queste relazioni sono transitive perché l’uomo tocca un oggetto, vede l’altro, ma non è l’altro”. Lévinas chiarisce la possibilità di uscire da questa solitudine e si chiede come sia possibile condividere davvero l’esistenza. Riprendendo il pensiero di Heidegger, afferma che la relazione fondamentale dell’essere non è quella con gli altri, bensì quella con la morte (in cui viene denunciato tutto ciò che non è autentico nella relazione con l’altro, perché l’uomo muore sempre da solo). Lévinas, poi, afferma: “Io sono totalmente solo, perciò il fatto che esisto, il mio esistere costituisce l’elemento intransitivo, qualcosa senza intenzionalità e senza rapporto. Tra esseri ci si può scambiare tutto, tutto tranne l’esistere e, in questo senso, esistere significa isolarsi attraverso l’esistere. [...] L’esistere è incomunicabile e, in quanto tale, è radicato nel mio essere, che rappresenta la cosa più privata in me”. La solitudine è solo uno dei segni dell’essere. Il vero problema non è uscire dalla solitudine, bensì uscire dall’essere. Quindi, per Lévinas, il primo vero problema dell’uomo è l’uscita da sé, che si costituisce nel rapporto verso il mondo nella conoscenza e nei “nutrimenti”. I “nutrimenti” sono tutti quelli terrestri: i godimenti con cui l’uomo inganna la sua solitudine (in modo sempre puramente illusorio e apparente). La conoscenza è per essenza una relazione con ciò che viene eguagliato e inglobato, ciò che diventa immanente, perché è alla portata dell’uomo. La conoscenza è sempre un’adeguazione tra il pensiero e ciò che esso pensa. Nella conoscenza è impossibile uscire da sé e, di conseguenza, la socialità non può avere la sua stessa struttura. Philippe Nemo fa notare all’autore che questo ragionamento è, in qualche modo, paradossale: infatti, la conoscenza è ciò che ci fa uscire da noi stessi. Lévinas afferma che, nell’uomo, la conoscenza è sempre stata interpretata come una assimilazione: ogni scoperta finisce per essere assorbita e compresa, ma la conoscenza non mette l’uomo in comunione con l’altro, non rimpiazza la socialità, perché alla fine è sempre e solo una solitudine. Lévinas paragona la conoscenza ad una luce: ciò che viene chiarificato è posseduto e può essere posseduto. La socialità, invece, è un modo diverso di uscire dalla solitudine rispetto alla conoscenza; nell’opera “Il Tempo e l’Altro”, il tempo appare all’autore come una liberazione dell’esistenza. Il tempo non è una mera esperienza della durata, bensì un dinamismo che conduce l’uomo verso le cose che non possiede. Il tempo viene concepito come una relazione con l’alterità intangibile, come interruzione del ritmo e dei suoi ritorni. In questa opera sono presenti due analisi a sostegno di questa tesi: quella che riguarda la relazione erotica, una relazione senza confusione con l’alterità del femminile, e quella che riguarda la relazione di paternità, che va da me ad un altro, il quale è ancora me e tuttavia resta del tutto altro. 5. L’AMORE E LA FILIAZIONE Philippe Nemo prende in analisi l’opera di Lévinas e fa notare come alcune metafore suggeriscano che l’amore è conoscenza (la relazione all’altro con il modello del soggetto che conosce un oggetto riguarda l’eros). Lévinas chiarisce che nell’eros si esalta un’alterità tra esseri che non sono riconducibili alla differenza logico- numerica che, di solito, distingue un individuo dall’altro. Inoltre, l’alterità erotica non può essere nemmeno iscritta nei limiti di attributi diversi che differenziano esseri comparabili. Il femminile è altro per il maschile non solo perché ha una diversa natura, ma anche perché l’alterità è la sua natura stessa. Nella relazione amorosa, dualità e alterità non scompaiono, l’idea di amore come di ‘confusione di due esseri’ è una falsa idea. Il patetico della relazione erotica è il fatto di essere due e il fatto che, in essa, l’altro è assolutamente altro. La relazione è costituita dal non-conoscere-altri, che non va inteso come privazione della conoscenza (tuttalpiù, nell’eros l’alterità è sinonimo di imprevedibilità). Philippe Nemo riporta alcuni passi dell’opera “Il Tempo e l’Altro”, che Lévinas dedica alla relazione amorosa. Lévinas, nell’opera, afferma che il vero carattere dell’amore consiste in una insuperabilità della dualità degli esseri: la relazione non neutralizza l’alterità, bensì la accentua. In particolare, Lévinas è interessato all’analisi del femminile, che fugge davanti alla luce e che si caratterizza per il nascondersi e il pudore. La trascendenza del femminile consiste nel ritrarsi altrove, seguendo un movimento opposto a quello della coscienza (e questo per Lévinas è un mistero). 17
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