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Riassunto "Fare Formazione: i fondamenti della formazione e i nuovi traguardi" (Quaglino), Sintesi del corso di Psicologia Della Formazione E Dell'orientamento

Riassunto del testo "Fare Formazione: i fondamenti della formazione e i nuovi traguardi" (Quaglino), utile per superare l'esame di Psicologia della Formazione presso l'Università degli Studi di Firenze.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 18/06/2021

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Jacklennon93 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Fare Formazione: i fondamenti della formazione e i nuovi traguardi" (Quaglino) e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Della Formazione E Dell'orientamento solo su Docsity! 1 RIASSUNTO “FARE FORMAZIONE: I FONDAMENTI DELLA FORMAZIONE E I NUOVI TRAGUARDI” (G. P. QUAGLINO, 2005) CAPITOLO 1: PER UNA TEORIA GENERALE DELLA FORMAZIONE La formazione oggi Ciò che caratterizza la situazione della formazione professionale nel nostro paese (con riferimento più ampio alla formazione degli adulti e più specifico alla formazione manageriale) è certo la sua elevata complessità. La periodizzazione ormai invalsa presso chi si occupa di problemi di formazione tra una prima fase “eroica e pionieristica” (fine anni ’60, primi anni ’70), una seconda fase di “consolidamento e tecnicistica” (metà anni ’70), una terza fase di “ripensamento e ripiegamento” (fine anni ’70) non fa che ribadire quanto meno la possibilità di riconoscere una linea evolutiva nella direzione da semplice a complesso. Parlare di complessità e riconoscere in che cosa essa consista sono due operazioni nettamente distinte tra loro e differenti, e in ogni caso la prima non conduce automaticamente alla seconda: riconoscere la complessità significa ricorrere a un pensiero complesso nel senso di nuove categorie del tutto differenti da quelle utilizzate nel riconoscimento dei caratteri delle fasi o dei periodi “precedenti”. Ciò significa la rinuncia al principio che lega complessità e continuità. Il richiamo alla complessità come carattere di una situazione o di un fenomeno (nel nostro caso la formazione) deve essere inteso non nel senso puramente descrittivo ma nel senso problematico che esso pone, della ricerca di una nuova definizione dell’oggetto (la formazione) e, parallelamente ma prioritariamente, della ricerca di nuovi strumenti di definizione. Nel caso della formazione, il carattere di complessità non è stato poi tanto facilmente riconosciuto negli anni passati. Operatori, addetti e utenti della formazione hanno in larga misura condiviso un’immagine della formazione stessa “orientata alla semplificazione”: il che significa orientata a non porsi il problema della complessità come “evento o eventualità”. Infine, è difficile immaginare questo carattere generale di complessità della situazione attuale della formazione come qualcosa di transitorio, di tendente alla rapida involuzione. Complessità significa realtà multiforme e mutevole come tale difficilmente afferrabile, governabile, prevedibile. Pertanto, complessità, nel nostro caso, non può essere solo un elemento descrittivo del problema: è piuttosto il problema. Il carattere della complessità coincide con il livello più generale di riconoscimento della configurazione della situazione attuale della formazione: come dire che ne è il segno distintivo. Caratteri più specifici, e dunque meglio in grado di descriverci la situazione, sono riconducibili essenzialmente a tre fenomeni.- • Espansione della domanda: crescente richiesta di attività e interventi formativi, crescente ricorso alla formazione da un lato e dall’altro aumento delle occasioni, dei motivi e dei “luoghi” di formazione. Si potrebbe dire che si fa sempre più formazione, sempre più numerose sono le organizzazioni interessate, sempre maggiore il numero di persone coinvolte. Paradossalmente, tuttavia, si può altrettanto facilmente constatare il persistere di una convinzione diffusa di crisi della formazione, di spazi ridotti, di recessione e “impoverimento”. • Stallo dell’offerta: segnali di ripetitività e routinizzazione di certi programmi e attività di formazione, alcune tendenze al mantenimento, alla copia, alla riproduzione fedele. Stallo dell’offerta non significa, in ogni caso, solo questo. Significa anche sfasatura rispetto alla domanda, difficoltà a star dietro alla domanda se non configurandola a uno schema a priori, a una tipologia predefinita: dunque limitatezza nella capacità di risposta, blocco della creatività, insofferenza all’approfondimento, ricerca di automatismi nella risposta. Stallo dell’offerta significa, in una parola, perdita di investimento creativo, progettuale. • Animazione della comunità degli operatori: una certa dinamica, una certa turbolenza di un sistema sociale composto, in questo caso, dai professionisti della formazione. Significa in primo luogo pura e semplice crescita numerica degli operatori, degli addetti. Significa poi crescita di un gruppo professionale, ma anche consolidamento di figure professionali, accettazione istituzionale diffusa, 2 emergenza di un “valore di esperto” nuovo. E anche crescente bisogno di riconoscimento sociale dentro e fuori l’organizzazione, crescente necessità di definizione di un sapere specialistico connesso al “mestiere”, crescente consapevolezza dei vincoli e delle opportunità connesse con la prestazione: dunque diffuso riconoscimento di specifiche esperienze di preparazione e aggiornamento (formazione dei formatori) nonché di bisogni, altrettanto specifici, di confronto e dibattito sugli strumenti professionali. Questi, quindi, sono i tre caratteri distintivi dell’attuale situazione della formazione, all’interno della più generale configurazione di complessità. Quanto all’espansione della domanda, si potrebbe argomentare che è impensabile non fare formazione, che la formazione è parte integrante di un più ampio processo educativo la cui necessità non è virtuale, ma intimamente connessa con il tipo stesso di società e dunque di organizzazione che noi conosciamo. Mutamenti radicali dei contenuti del lavoro, comparsa di nuovi lavori, urgenza dei processi riconducibili al denominatore della qualità della vita di lavoro, rapida obsolescenza delle conoscenze, urgenza dell’aggiornamento e della qualificazione professionale rendono la formazione il luogo e il momento cruciale per l’assunzione e la risoluzione dei problemi che ne conseguono. La consapevolezza che la formazione assume in questo conteso un ruolo non solo prioritario, ma addirittura strategico, non può essere messa in discussione. Diviene imprescindibile impegnarsi non tanto per teorizzare sullo stato della formazione, quanto per teorizzare sulla formazione in sé. I motivi che spiegano lo stallo dell’offerta risultano di ordine estrinseco anziché intrinseco alla formazione: essi sono riconducibili a quanto segue. In generale il processo di istruzione non gode nel nostro paese di una immagine completamente positiva né priva di profonde ambivalenze. In questa linea la pedagogia ufficiale sembra mostrarsi, in più di un’occasione, reticente ed evasiva: l’interesse per il mondo degli adulti nei suoi risvolti educativi trova scarsa teorizzazione e la logica della strumentalità del sapere sembra prevalente. Manca una teoria dell’apprendimento come funzione dell’esperienza e viceversa: domina una teoria dell’apprendimento come prodotto dell’azione educativa finalizzata ed eterodiretta. Inoltre, pochi sembrano disposti a riconoscere l’equivalenza tra processo educativo e fatica. Lo stallo dell’offerta si spiega, perciò, come esito di un mancato riconoscimento dell’istruzione come valore, del sapere e della promozione del sapere come valore. Infine, l’animazione della comunità degli operatori si spiega come più che legittima richiesta, emergente dai formatori, di una professionalità che si esprima in termini di preparazione, tecnologia, efficacia e soddisfazione. Si tratta dell’evidente contraddittorietà di una situazione caratterizzata da domanda crescente e offerta “poco conveniente”: dei rischi connessi con il sottrarsi, il rinunciare a un impegno reale rivolto alla crescita qualitativa dell’offerta a fronte di quella quantitativa della domanda. La qualità della formazione sembra infatti coniugarsi ormai difficilmente con l’adozione dei “vecchi modelli”, delle teorie tradizionali, dei modi abituali di pensare e condurre un progetto educativo. C’è ormai qualcosa di rituale in ogni avvenimento formativo che sembra opporsi, in ultima analisi, all’aumento di efficacia, al raggiungimento di un più elevato livello di risultati: regole del gioco fisse, ripetute e contemporaneamente prive di contenuto. Il problema è che il bagaglio di sapere, informazioni, istruzioni in base al quale la formazione è stata costruita e realizzata, da un lato non basta più, è insufficiente, dall’altro non si rivela più completamente valido, è inadeguato. Esiste un vuoto di teoria che diviene il primo e più cruciale elemento che condiziona l’efficacia dell’azione formativa. Voto di teoria significa in realtà molte cose: • Negazione: il vuoto di teoria è determinato da uno svuotamento di significati, dal principio che la “teoria è vuota”. Illusione fallace: la teoria è una guida all’azione, non qualcosa che vi si oppone né può essere identificata come il “pensiero del filosofo”. Anzi, senza teoria non vi è azione o meglio non vi è consapevolezza di azione né probabilità di azione felice nei suoi risultati. • Disinvestimento: la convinzione è che la teoria si sostenga da sé, viva al di fuori di ogni dimensione temporale, dunque in uno stato di atemporale incorruttibilità. Altra convinzione è che le teorie, pur in apparenza divergenti, non si oppongono in realtà tra loro, non possano entrare in conflitto, respingersi, elidersi, opporsi. Le convinzioni sopra accennate non possono d’altro canto che 5 riferimento che, tramite il formatore, hanno guidato, orientato e controllato la costruzione prima e la realizzazione poi dell’azione formativa. Questo secondo ordine di fatti, sovraordinato rispetto al programma, ha a che vedere con i temi dell’apprendimento pur mantenendosi, rispetto al programma stesso, a un livello semiesplicito o decisamente implicito. Ipotesi, concetti e schemi di riferimento sono dunque altrettanti elementi di una teoria dell’apprendimento. Vale tuttavia un breve inciso di chiarimento sul significato sotteso dall’uso che si fa in questo libro del termine “teoria”. Teoria è un insieme di conoscenze che consentono la “lettura” (spiegazione/descrizione) di un certo oggetto x. Fornendoci conoscenza, esse rappresentano un prezioso strumento per orientare il nostro rapporto con l’oggetto stesso (azione/interazione) anche nel senso dell’anticipazione di un evento (descrizione/spiegazione + previsione). L’esperienza personale, resa possibile tramite molteplici canali o fonti, consente accumulo, consolidamento, trasformazione, arricchimento, abbandono, selezione, conferma e disconferma, ricordo e oblio di conoscenze, dunque di teorie. L’uso del termine teoria tende in ogni caso a essere riferito non tanto a questo livello del sapere individuale e personale, quanto piuttosto al livello del sapere scientifico: al livello, cioè, dei luoghi in cui la conoscenza, il sapere stesso è accumulato, trasformato, consolidato “ufficialmente”. Le proposizioni che compaiono in una teoria ufficiale debbono, per essere ammesse, soddisfare alcuni criteri: in particolare un criterio esterno di ordine empirico quanto alla verificabilità delle proposizioni stesse e un criterio di ordine logico quanto alla coerenza tra esse. Il vero problema è rappresentato dal fatto che non vi è un campo di conoscenze, e dunque un’area di sapere tecnico o scientifico, che oggi si esprime attraverso un’unica teoria: le teorie sono sempre più di una e più o meno divergenti tra loro. Altro problema è rappresentato dal fatto che ciascun campo di azioni può richiedere il ricorso contemporaneo a conoscenze di più di una teoria di altrettanti oggetti tra loro più o meno attinenti o pertinenti. E’ possibile chiarire come la formazione è un oggetto di analisi attraverso queste considerazioni: • La complessità dell’oggetto-formazione è riconducibile anzitutto alla sua definizione di “attività educativa” e alla sua finalizzazione nel senso del legame tra apprendimento individuale e cambiamento organizzativo. • In tal senso i campi di sapere richiamati si posizionano, rispetto alle finalità, entro un’area di sapere pedagogico e un’area di sapere organizzativo. • Oltre a ciò, la definizione di attività educativa implica un necessario chiarimento tra processo di formazione e azione formativa conseguente alla compresenza delle finalità individuali e organizzative: ciò comporta il richiamo a un’area di sapere specificatamente pedagogica in riferimento all’azione formativa e un’area di sapere tecnico in riferimento al processo di formazione. L’azione formativa si identifica infatti nel solo sistema operativo. • Ciascuno dei tre campi di sapere articola differenti sottocampi di conoscenze per ciascuno degli elementi che individuano gli oggetti cui si collegano. • Infine, ciascun campo di sapere contiene quantomeno più di una teoria. Il riferimento è a una Teoria Generale della Formazione (TGF) come sistema di sapere complessivo e sovraordinato che tende a configurarsi nel senso di una pedagogia degli adulti. Il campo di sapere connesso alle finalità del cambiamento organizzativo include così (vedi fig. pg. 27): • Una Teoria del Sistema Organizzativo come opzione di conoscenze sulla natura e il funzionamento dell’organizzazione. • Una Teoria del Soggetto (ad esempio, il manager) come insieme di conoscenze sulla “configurazione organizzativa” dei soggetti della formazione e rispetto alla rete di reciprocità tra apprendimento individuale e cambiamento organizzativo. • Una Teoria del Cambiamento sia nel senso dell’azione finalizzata rispetto alla rete di reciprocità sia nel senso più ampio della dinamica del sistema. Il campo di sapere connesso all’attività educativa in quanto processo di formazione include specifici ambiti di teoria connessi con il sistema informativo e il sistema di innovazione; per gli altri elementi componenti il 6 rimando è al campo di sapere organizzativo, mentre per il sistema operativo il rimando è al campo di sapere più propriamente pedagogico connesso con la finalità dell’apprendimento individuale. Quest’ultimo campo di sapere comprenderà pertanto: • Una Teoria degli Obiettivi come opzione teorica quanto alla natura, alle caratteristiche, all’articolazione e alla direzione delle finalità educativa e formative; • Una Teoria dell’Apprendimento come insieme di conoscenze sui processi soggettivi sottesi all’imparare; • Una Teoria dei Metodi come insieme di istruzioni circa le modalità e i mezzi utilizzabili per agevolare l’apprendimento; • Una Teoria del Formatore come opzione teorica quanto alla natura, alle caratteristiche, alle qualità e alla direzione dell’azione dell’insegnante. Il vero problema a cui si tende ad attribuire oggi gran parte delle difficoltà che la formazione sta incontrando è la cosiddetta concretezza. Il problema della concretezza è risolvibile in un atto di autoconsapevolezza di chi “fa formazione”: in un atto di consapevolezza delle teorie che il formatore usa, a cui ispira la sua azione educativa. CAPITOLO 2: GLI OBIETTIVI Criteri e condizioni di una Teoria degli Obiettivi (TDO) Il valore intrinseco di ogni teoria consiste nel presentarsi come modello concettuale di riferimento con un più o meno elevato riscontro operativo. Ciò che determina tale valore è: • La capacità della teoria di risolvere il suo oggetto, ovvero di garantirne identità sul piano definitorio, e differenziazione rispetto a un ipotetico campo di oggetti cui è riconducibile e per cui rappresenta un’emergenza dotata di specificità; • La capacità di esprimere concettualmente l’oggetto nel senso della chiarezza e della completezza; • La capacità di aderire all’oggetto, ovvero di mantenersi pertinente e adeguata a esso. Anzitutto, una TDO deve garantire sufficiente autonomia al suo oggetto: a volte invece la definizione usata per obiettivi formativi tende a sconfinare, a presentare zone di ambiguità. Una TDO si giustifica precisamente come ambito di sapere e modello concettuale che occupa una propria zona intermedia non sovrapposta né a quella presidiata da una Teoria dell’Apprendimento (TDA) né a quella individuata dal programma formativo. La sua specificità coincide con la definizione del suo oggetto: gli oggetti formativi si definiscono nella duplice accezione di traguardi dell’insegnamento e campi di apprendimento (ovvero all’apprendimento come esperienza soggettiva) oggetto pertinente di una TDA, sia rispetto ai contenuti dell’azione formativa nel senso di una tipologia di programmi. Occorre intendere l’azione formativa come governata e ispirata non solo da una TDA come insieme di conoscenze attinenti la complessità dei processi soggettivi in atto in ogni situazione riferita all’apprendere, ma anche da una TDO come modello concettuale concernente specifici contenuti di apprendimento e corrispondenti traguardi educativi. Per altri versi una TDO rimanda a una Teoria del Soggetto (TDS) come abito di conoscenze pertinente al campo di sapere organizzativo: il modello concettuale che esprime infatti natura e caratteri degli obiettivi dell’azione formativa sia nel senso dei traguardi di apprendimento sia nel senso delle finalità dell’insegnamento, non può che contenere inevitabili riferimenti o una “rilettura” di tali traguardi e finalità, in termini di risultati di cambiamento per i soggetti. Torna opportuno allora richiamare i contribuiti della letteratura cui si accennava in precedenza. Tali contribuiti possono essere riconducibili a una classificazione di sintesi che distingue tra: • Tipologie semplici: il riferimento è alla tipologia di obiettivi che distingue tra: - Conoscenza; - Capacità; 7 - Atteggiamenti. Secondo tale tipologia (tipologia base), gli obiettivi formativi vengono identificati con altrettante aree di sapere considerate tra loro distinte, quanto meno differenziabili. In questa direzione la tipologia di obiettivi predefinisce pertanto una tipologia di contenuti di apprendimento che va intesa come una vera e propria TDA parzialmente o totalmente implicita, ovvero come una tipologia dei processi di apprendimento vincolati ad altrettante finalità: - Obiettivi Apprendimento ▪ Conoscenze → Cognitivo ▪ Capacità → operativo (pratico) ▪ Atteggiamenti → emotivo Tale tipologia, tuttavia, non soddisfa sufficientemente le condizioni poste da una TDO. Può sembrare più opportuno sostituire la tipologia di obiettivi, conoscenze, capacità e atteggiamenti con quella che comprendere: - Sapere; - Saper-fare; - Saper-essere. Ogni tipologia di obiettivi che non soddisfa le seguenti condizioni: 1. Individuazione di un oggetto differenziato rispetto a una TDA; 2. Definizione dei collegamenti con una TDS necessariamente implicata; 3. Articolazione degli elementi (i singoli obiettivi) rispetto a un quadro unitario e superamento di una logica “per elementi distinti e separati”, non si risolve in una TDO forte: dunque capace di guidare, in modo consapevole ed efficace l’azione educativa. Unica eccezione è forse rappresentata da Hawrylyshyn là dove ridefinisce la tipologia-base nel senso dell’articolazione tra: - Conoscenze - Abilità → CAPACITA’ - Atteggiamenti Egli, inoltre, inserisce dei parametri di ponderazione riferiti al tipo di soggetti e al tipo di organizzazione in cui essi operano. La condizione 2 che lega TDO e TDS passa attraverso due sottocondizioni: 2a. olismo (principio di totalità/articolazione parti-tutto: superamento di un modello di soggetto per parti distinte e separate); 2b. contestualismo (principio di determinazione situazionale: superamento di un modello di soggetto indifferenziato). • Tassonomie: una tassonomia si presenta come una lista più o meno complessa, articolata, gerarchizzata e sequenziale di obiettivi educativi, ovvero di traguardi di apprendimento. Peculiarità di una tassonomia sono infatti: - L’esplicita differenziazione dei suoi contenuti rispetto a una TDA implicata o comunque richiamata; - La posizione sovraordinata occupata rispetto al programma, nel senso che essa rappresenta lo schema concettuale di riferimento, il modello, rispetto al quale è “orientata” l’attività di programmazione formativa; - L’articolazione degli elementi componenti (gerarchia e/o sequenza) rispetto a un principio di totalità o sintesi. Oltre a ciò, una tassonomia rappresenta pur sempre un’opzione del tutto particolare rispetto alla programmazione educativa come operazione di definizione del “programma manifesto”: occorre parlare infatti più precisamente di programmazione “curricolare”, e dunque di Teoria del Curricolo, come di una particolare strategia e filosofia dell’insegnamento. Il curricolo è la descrizione sistematica 10 l’impianto modellistico è tutto da costruire. Vi sono tuttavia alcuni contributi che occorre recuperare in quanto ben si collocano in quest’ottica. Il contributo fornito da Burgoyne e Stuart è un modello teorico delle capacità manageriali che si presenta come una vera e propria TDS rispetto a un corrispondente sistema di obiettivi formativi. Il punto di partenza è rappresentato da un lato dal riconoscimento di taluni punti deboli, di taluni vuoti di concettualizzazione, nel panorama delle teorie manageriali quanto a un modello di capacità, dall’altro dalla fissazione di criteri e condizioni per un tale modello a fronte di una preliminare opzione teorica in tema di apprendimento. Gli autori precisano i contenuti dei livelli di apprendimento secondo la gerarchia: a) Rendersi conto di un fatto o di un insieme di dati: questo è un apprendimento di tipo molto semplice, che equivale a una sensazione o percezione, o alla comprensione di uno stimolo esterno; b) Apprendere un nuovo modo di risposta, tipi di risposte appropriate a situazioni specifiche, incluse tutte le forme di capacità specifiche; c) Apprendere nel senso di contenuti che consentono all’individuo di acquisire meglio l’apprendimento di tipo b. E stabiliscono una corrispondente gerarchia di traguardi educativi nel senso di: a) Conoscere dati e fatti di vario genere; b) Disporre di capacità specifiche alle situazioni e di determinati orientamenti di risposta; c) Disporre di qualità che contribuiscono al processo di apprendimento di livello b, che verranno definite “metaqualità”. La conclusione è che un modello pienamente soddisfacente e adeguato in tema di capacità manageriali è vincolato alle condizioni seguenti: • Comprendere i tre livelli sopra discussi; • Tendere a definizioni “strutturali” o “funzionali specifiche” di capacità ed essere compatibile con una rappresentazione delle capacità sotto forma di “programmi” (insiemi di regole e istruzioni interne che guidano il comportamento); • Proporre una classificazione di tutte le possibili capacità e qualità, relative a situazioni manageriali in generale piuttosto che a uno specifico schema universale. Quanto alle dieci caselle che compaiono nel modello (vedi fig. pg. 54), esse individuano altrettanti sottoinsiemi di competenze. Creatività (casella 8) significa competenza innovativa, capacità di generare nuove unità di informazioni, principi e regole; elasticità mentale (casella 9) significa competenza della complessità, essere in grado di afferrare rapidamente i problemi e di analizzarli, di pensare a più cose contemporaneamente, ecc.; capacità di apprendimento equilibrate (casella 10) significa piena consapevolezza di sé e competenza della complessità dell’apprendere. Linee di proposte per una Teoria degli Obiettivi L’esigenza prioritaria che una TDO deve soddisfare è connessa con la definizione dell’oggetto: tale definizione non può coincidere né con un elenco di finalità educative come livelli generali di apprendimento (con una “tipologia semplice”) né con una lista di obiettivi adeguatamente analitica ma priva di articolazione unitaria (con una “tassonomia”). La direzione percorribile richiede anzitutto l’individuazione di un referente unico e differenziato, di una unità obiettivo: nel nostro caso la proposta coincide con l’uso del termine competenza. In secondo luogo, richiede la definizione di un piano generale di traguardi educativi. Nel nostro caso si può parlare di: • Consapevolezza come sviluppo della capacità del soggetto di riconoscere le competenze possedute. • Sviluppo come miglioramento di tali competenze. In terzo luogo, si tratta di configurare un sistema di obiettivi corrispondente a un’articolazione di competenza con carattere di unità e totalità: nel nostro caso ci si può riferire a: • Competenze 1: conoscenze (banche-dati); • Competenze 2: abilità (modelli operativi); 11 • Competenze 3: metaqualità (dispositivi di controllo ed elaborazione). In quarto luogo, occorre individuare i contenuti di tali competenze. Nel nostro caso si può distinguere tra: • Unità di informazione; • Sistemi di regole. Infine, si tratta di definire per ciascun livello di competenza l’insieme degli elementi componenti (delle singole e specifiche competenze). Ovviamente l’individuazione dei singoli elementi componenti per ciascun livello di competenza dipenda di chi è il soggetto dell’azione educativa. Quando alla condizione 2a, essa è messa in evidenza dai legami fra i tre livelli di competenza e l’articolazione rispetto all’azione (vedi fig. pg.59). Non vi è un feed-back a livello di abilità o conoscenze che non sia mediato da un sistema sovraordinato di elaborazione dei dati di esperienza. Al di là degli automatismi appresi, non vi è azione educativa finalizzata, ad esempio, al solo livello delle conoscenze che possa effettivamente escludere la complessità dell’articolazione tra i livelli di competenze sottese: ogni azione educativa, che ignora o nega la totalità del soggetto cui si rivolge in termini di mancato riconoscimento della totalità del sistema di competenze possedute non può che rivelarsi inefficace. Il legame che la unisce alla TDO va esplicitato passando da un piano più generale a uno più specifico in cui il soggetto a cui è rivolta l’azione educativa è considerato rispetto alle sue determinazioni situazionali. Questo passaggio corrisponde al soddisfacimento della condizione 2b. Il riferimento “contestuale” dell’azione educativa può ottenersi in base a una tipologia ristretta che distingue tra: • Area del lavoro: riguarda il contesto dell’attività professionale del soggetto; • Area del ruolo: costituisce un più ampio riferimento alla posizione occupata dal soggetto rispetto al contesto di lavoro; • Area del sé: rappresenta un riferimento ancora più ampio in cui convergono elementi professionali ed elementi personali del soggetto. Ritornando ai collegamenti e alle corrispondenze che si possono ipotizzare privilegiate ma non esclusive, esse debbono piuttosto essere viste come nelle figure a pp.61-62. Le frecce che collegano i livelli di competenza debbono essere lette nel senso della gerarchia, mentre quelle che collegano le aree di riferimento contestuale, nel senso dell’inclusione. Da tutto ciò si ricava facilmente che le configurazioni possibili che il modello può assumere sono nove. Dunque, una tipologia di contesi di riferimento del soggetto quale quella indicata sembra poter costituire l’ulteriore elemento di completamento della TDO non nel senso delle tipologie né in quello della tassonomia di obiettivi ma in quello più adeguato della totalità articolata di sottoinsiemi di obiettivi. Con ciò risulta possibile (vedi fig. pg. 66) ridefinire come traguardo educativo sovraordinato a quello della consapevolezza e dello sviluppo di competenze, quello della realizzazione (del sé) ovvero dell’autorealizzazione; in secondo luogo, di riconoscere, in taluni aspetti, competenze di tipo 2 e in altri competenze di tipo 3; in terzo luogo, di ricollocare o di includere, quali competenze di tipo 3, peculiari qualità del soggetto in quanto positiva configurazione del sé, ovvero “circolo virtuoso” del sé. Resta imprescindibile il contenuto di proposta di un TDO esplicita, dichiarata, consapevole e significativamente adeguata al suo oggetto, che includa la dimensione del sé come specifico traguardo educativo. CAPITOLO 3: L’APPRENDIMENTO I presupposti e condizioni di una Teoria dell’Apprendimento Una TGF si propone come sistema integrato di sapere attinente i processi educativi rivolti a soggetti adulti. La Teoria dell’Azione Formativa, come elemento privilegiato della TGF, non può affatto risolversi come una teoria dell’apprendimento sovraordinata al “programma”. Di fatto, una Teoria dell’Azione Formativa comprende “istruzioni” (unità di sapere) attinenti a più di un oggetto: dagli obiettivi educativi al ruolo di formatore, dai processi di apprendimento ai metodi didattici. Di questi quattro elementi ciascuno 12 condivide ambiti teorici distinti sia rispetto all’oggetto specifico sia ai collegamenti con il piano complessivo di una TGF: seppure non si possa ovviamente negare che tuti sono legati con tutti. Al di là della pluralità di legami tra i vari elementi, esistono certo legami privilegiati tra alcuni di essi. In termini di differenziazione, il primo passo coincide con il ribadire che TDO e TDA si occupano di oggetti tra loro profondamente e sostanzialmente differenti e che è impossibile assimilare tout court l’uno all’altro. La TDO ha per oggetto i traguardi educativi: dunque ciò che si tratta di far apprendere, ovvero i contenuti di apprendimento con riferimento ristretto a un “progetto educativo” (azione formativa). La TDA ha per oggetto i processi di apprendimento: dunque le modalità “soggettive” in base alle quali si apprende o avviene apprendimento, con riferimento allargato all’intero panorama della possibilità di apprendimento dei soggetti, di cui i progetti educativi non rappresentano che una parte. La loro inconciliabile diversità non può che essere ricondotta nelle affermazioni che: • Ciò che si può insegnare rappresenta solo una parte di ciò che si può imparare; • Ciò che si può imparare è solo una parte di ciò che si può apprendere; • Ciò che si può apprendere è in riferimento a una capacità globale di apprendimento che solo in parte può essere oggetto di sviluppo “culturalmente” guidato. L’oggetto della TDA si presenta dunque come di ordine più generale e più ampio di quello implicato dalla TDO. Se anche la TDA costituisce elemento di più vasto orizzonte teorico (e di sapere), non per questo è in grado di risolvere di per sé il più complesso e articolato disegno teorico richiesto dalla TGF. Anzi, proprio l’individuazione dei tratti specifici della TDA consente di contribuire efficacemente a tale disegno. Quanto poi alle somiglianze tra TDO e TDA, esse condividono: il livello di concettualizzazione, nel senso dell’implicazione di ambiti di sapere consolidati, ricchi di contributi e dagli ampi confini disciplinari; i criteri che vincolano una teoria nel senso della sua (più generale) capacità di essere modello concettuale con più o meno elevato riscontro operativo (ovvero della capacità di risolvere, esprimere, aderire all’oggetto). Somiglianze e differenze trovano massima evidenza nella condizioni che vincolano una TDA e che possono essere riconosciute nelle seguenti: • Condizione 1 – definizione di un oggetto: una TDA ha per oggetto i processi soggettivi che presiedono al conseguimento di sapere, ovvero le modalità e i percorsi in base ai quali gli individui realizzano un apprendimento entrando in possesso di un nuovo sapere o maturando un cambiamento di sapere. Da ciò deriva che: il processo di apprendimento si definisce con riferimento al rapporto tra uno stato di sapere iniziale e uno terminale, come differenza di sapere (se non vi è differenza non vi è apprendimento), il che implica una dimensione temporale, o un percorso compiuto dal soggetto, percorso che deve tenere consentire un conseguimento di sapere nel senso della sua acquisizione “dall’esterno” o della sua produzione come elaborazione o come creazione/scoperta da parte del soggetto stesso; tale sapere può ovviamente essere riferito ai più differenti oggetti. In definitiva, una TDA ha per oggetto le modalità in base alle quali avviene apprendimento. • Condizione 2 – riferimento al soggetto: per la definizione stessa dell’oggetto, la TDA richiede l’esplicitazione del legame con una Teoria del Soggetto: si parla infatti di progetti soggettivi. Per confronto con la TDO, mutate sono le sottocondizioni 2a e 2b in quelle di: - Centratura sul soggetto: esclusione di ogni determinazione di ruolo, in primo luogo del ruolo di “allievo”, e centralità dell’apprendere rispetto a una molteplicità di “forme soggettive” lungo il continuum da acquisizione dall’esterno a produzione originale e autonoma di sapere. - Non-riduzionismo: esclusione di ogni definizione dell’apprendere in termini di modalità o processo univoco o privilegiato. Tale sottocondizione segnala la necessità di una definizione “aperta” di soggetto come attore dell’apprendimento rispetto a una pluralità di possibilità di conseguire apprendimento. In definitiva, ciò richiama quanto già esaminato, ovvero di soggetto attivo/molare/agente. • Condizione 3 – definizione di un oggetto “ristretto” all’ambito del progetto educativo: questa condizione è indispensabile per ricollocare opportunatamente la TDA all’interno di una TGF. Questa 15 Linee di proposta per una Teoria dell’Apprendimento Burgoyne e Stuart, prendendo in esame un campione di corsi e programmi di formazione manageriale, sono stati portati a riconoscere come differenti configurazioni di programmi tendano a rimandare ad altrettanti differenti “condizioni” (ipotesi, idee, assunti) in tema di apprendimento e di processi soggettivi implicati. Riconducendo così tale differenziazione a una classificazione o tipologia di base che distingue tra otto grandi aree di scuole di pensiero o modelli di apprendimento (MdA). Ciascun modello di apprendimento rimanda, inoltre, più o meno esplicitamente a un modello di uomo: è cioè un’ipotesi più o meno generale sulla natura umana. Ancora, ciascun modello può essere identificato in una metafora, in un’immagine molto sintetica che ne individua il significato profondo o in funzione del privilegiamento di alcuni principi generali, ovvero di una lista di concetti-chiave. Gli otto modelli sono (vedi fig. pg. 85): • MdA per condizionamento. Il presupposto di fondo coincide con la possibilità di produrre apprendimento secondo l’altrettanto classico schema dello stimolo-risposta. Come dire che in larga misura il processo di apprendimento è inteso come sollecitazione guidata dall’esterno, orientata a produrre le risposte (gli apprendimenti) volute, a consolidare tali risposte secondo principi di conferma o disconferma: associazioni ripetute e rinforzo. • MdA per “aggiustamento”. Il soggetto è visto in funzione di un’articolazione più o meno complessa di parti componenti. L’apprendimento è precisamente finalizzato ad apportare cambiamenti, a modificare, ottimizzare, sostituire, “aggiustare” le singole parti. Evidente la possibilità di riconoscere, per taluni degli attuali programmi di formazione, ancora l’adesione a un modello di apprendimento di questo tipo: ciò che si ritiene del tutto insoddisfacente. • MdA cibernetico. Il soggetto è considerato come sistema in continua interazione con l’ambiente esterno, tendente a mantenere uno stato di equilibrio permanente (omeostasi) o ad accrescere la sua entropia (ordine e organizzazione). Il soggetto in apprendimento è considerato come soggetto-attivo in grado di controllare i propri processi: produrre o sollecitare apprendimento significa così consentire verifiche, fornire feed-back, agevolare processi di scoperta, prevedere percorsi rigidamente programmati e finalizzati. • MdA cognitivo. L’assunto principale riguarda il soggetto come “unità globale”, per cui l’atto del conoscere (dell’apprendere) non è riconducibile ad alcun meccanicismo semplice o complesso. Il processo di apprendimento implica sempre e comunque il soggetto nella globalità della sua esperienza soggettiva. Implica, altresì, non semplicemente acquisizione di elementi “nuovi” ma anche rielaborazioni di ciò che già si sa o produzione originale (scoperta) di nuovi elementi: e ancora possibilità (capacità) di autogoverno dell’apprendimento, di un processo dell’apprendere cioè guidato da “mappe individuali”. • MdA esperienziale. L’approccio condivide l’idea di un soggetto globale e attivo rispetto al quale il processo di apprendimento risulta tanto più efficace quanto più stimola l’autonomia, la ricerca di finalizzazione nel senso dello sviluppo personale, la crescita. Il collegamento privilegiato è tra apprendere e fare (esperienze): dove, in questo caso, il fare tende a indentificarsi con il provare a fare, lo sperimentare, l’agire/riflettere così come è possibile “simularli” in una situazione educativa. • MdA per “influenzamento”. Il soggetto in questione è soprattutto visto per le sue implicazioni sociali: ruoli, responsabilità, relazioni interpersonali, ecc. Il processo di apprendimento tende a finalizzarsi verso un miglioramento di questi aspetti. Presuppone, quindi, un coinvolgimento totale della persona e, altresì, un’azione di apprendimento con limitati margini di autonomia, nel senso dell’attuazione di processi di apprendimento per identificazione o per influenzamento da modelli “esterni”. • MdA pragmatico. Si caratterizza per una esclusione di principio di ogni riferimento o rimando teorico. Vincola l’apprendimento alla logica del senso comune e dell’esperienza quotidiana: la relazione stretta tra imparare e fare è nel senso dell’imparare facendo. 16 Quello degli autori è un tentativo di: • Ricostruire, attraverso il riconoscimento di una pluralità di approcci teorici ai temi dell’apprendimento, un campo complesso di modi dell’apprendere, di processi soggettivi: tutti possibili e dunque tutti legittimi ai fini di un modello teorico sufficientemente integrato. Si stratta di evitare ogni approccio riduzionistico che confonda la teoria dell’apprendimento con l’uno o piuttosto con l’altro dei modelli esaminati. • Ridefinire con precisione le inevitabili implicazioni che ogni modello di apprendimento contiene rispetto a una Teoria del Soggetto: nel senso proprio che ogni opzione teorica sui fatti dell’apprendere è sempre anche opzione più generale sull’individuo. • Accettare come plausibile l’individuazione di una pluralità di progetti educativi non solo rispetto alla pluralità dei modelli di apprendimento di riferimento, ma anche rispetto alla possibilità stessa di pensare a un progetto educativo che richieda più di un modo di apprendere, che solleciti differenti processi soggettivi. Alcuni punti deboli della loro proposta riguardano, anzitutto, il fatto che il campo di modelli di apprendimento contemplati dalla tipologia non è forse né completo né esaustivo. Inoltre, gli elementi della tipologia (i singoli MdA) risultano più che altro “giustapposti” gli uni agli altri: non c’è criterio di classificazione “intrinseco”, ma solo estrinseco. Infine, ogni riferimento in termini di sequenzialità sembra del tutto non considerato. Ed è questo un elemento cruciale per configurare, con più precisione, l’oggetto stesso della TDA, ovvero i processi soggettivi di apprendimento. Il criterio in base al quale ritrovare articolazione interna alla tipologia di modelli di apprendimento non può che rimandare nella direzione della differenziazione tra progetti educativi e nella direzione della differenziazione dei riferimenti contestuali dell’azione formativa. Si tratta così di utilizzare un doppio-criterio in funzione, il primo, della centratura del soggetto, distinguendo tra progetti educativi vincolati a processi di apprendimento nel senso dell’acquisizione di sapere o piuttosto nel senso della rielaborazione/scoperta di sapere: distinguendo cioè tra differenti gradi di guida/controllo e finalizzazione dei processi stessi di apprendimento da parte del soggetto. Ciò ipotizza un continuum da un minimo a un massimo di autonomia del soggetto nel dirigere il progetto educativo rispetto a estremi quali minor controllo (eterodiretti) e maggior controllo (autodiretti). Il secondo, riguarda il riferimento al soggetto, ovvero all’ampiezza dell’area soggettiva coinvolta dal progetto educativo secondo la tipologia che distingue tra le aree del lavoro, del ruolo e del sé. Il ricorso a questo doppio criterio consente pertanto di soddisfare contemporaneamente tutte le condizioni poste per la TDA. Ciascun processo di apprendimento può infatti presiedere a entrambi i tipi di contenuti e consentire un bilanciamento più o meno efficace tra le due finalità. Ogni criterio in funzione di contenuti e finalità di apprendimento risulta più strettamente pertinente, proprio per il tipo di definizioni proposte, a una TDO anziché a una TDA. Ciò che si può semmai constatare è che è proprio il criterio connesso con il riferimento al soggetto a costruire il legame, il punto di contatto e di sovrapposizione tra la prima e la seconda, garantendo al tempo stesso differenziazione e integrazione tra gli elementi della TGF: dunque la sua coerenza interna. Veniamo così al secondo dei punti deboli attribuiti al contributo dei due autori, inerente la completezza del campo di modelli di apprendimento compresi nella classificazione. Il vincolo di ogni tipologia è rappresentato dal contemplare, comunque, un numero contenuto di elementi evitando dispersività e frammentazione. Tuttavia, è possibile includervi un elemento che sembra mancare, un modello di apprendimento già “comparso” più sopra e che denomineremo riflessivo. Tale modello si caratterizza, con riferimento a un processo di apprendimento in larga misura orientato dal soggetto, vincolato a principi di riflessione e rielaborazione a partire dall’esperienza, che condivide un approccio di tipo cognitivo nel senso dell’apprendimento per scoperta e che fa perno su finalità di crescita globale del soggetto proprio a partire dalla totalità delle sue esperienze. E’ possibile, infine, riconsiderare i modelli di apprendimento per condizionamento, per “aggiustamento” e per “influenzamento” come un unico modello le cui caratteristiche evidenziano principalmente la condivisione di un approccio meccanicista rispetto ai processi di apprendimento, un’idea di soggetto sostanzialmente 17 passivo e con basso controllo sul processo stesso. E’ bene chiarire che non è ritenuta plausibile ogni azione formativa, ogni progetto educativo, nei termini di intervento sul soggetto e che escluda ogni margine di controllo sull’apprendimento del soggetto stesso. In ogni caso, vi è continuum e non uno stacco netto tra etero/autodirezione: possibilità di guardare cioè in modo differenziato al ruolo del soggetto (vedi fig. pg. 92). L’ultimo passo da compiere richiama il terzo dei punti deboli evidenziati, ovvero l’assenza di ogni riferimento, che si intende cruciale e vincolante per la TDA in base alla definizione stessa di oggetto proposta, a una più precisa individuazione dei modelli di apprendimento in termini di processi sequenziali). Binsted riprende la tipologia di modelli di apprendimento di Burgoyne e Stuart e ve ne include qualcun altro, schematizzando i processi soggettivi implicati da ciascuno ricorrendo all’impianto che questi stessi autori hanno adottato per raffigurare l’articolazione tra le dieci aree di competenza manageriali: distinguendo, cioè, tra “mondo esterno” e “mondo interno”, input e azione (vedi fig. pp. 95-97). In linea generale, lo spostamento nel senso della maggiore complessità dei processi soggettivi che coinvolgono il “mondo interno” è progressivo lungo il continuum da programmi educativi eterodiretti ad autodiretti. Così come maggiore è la complessità quanto maggiore è l’ampiezza dell’area di riferimento al soggetto (lavoro- ruolo-sé). L’input esterno in linea continua esprime un minor grado di controllo e autonomia del soggetto quanto ai processi di apprendimento sollecitati dal progetto educativo, e in linea tratteggiata una minor dipendenza “da altri”. CAPITOLO 4: I METODI Il problema-metodi Burgoyne e Stuart sono dell’avviso che si stia assistendo, in questi anni, a un processo di profonda e radicale innovazione dei metodi formativi. Si sarebbe “all’inizio di una nuova era in cui sarà possibile costruire metodi con più elevata sistematicità e con riferimento esplicito alla teoria o alle teorie sui processi di apprendimento”. Chiunque abbia presente la situazione della formazione agli inizi degli anni ’70, non faticherà a ritrovare nel tema dei metodi il luogo privilegiato del dibattito e del confronto sia tecnico che operativo. Tale dibattito può essere sintetizzato nelle tre antinomie (opposizioni e contraddizioni allo stesso tempo) seguenti: • Accademismo vs. attivismo. Tra gli impulsi che hanno contribuito a determinare la diffusione nel nostro paese di attività formative rivolte ad adulti, vi è stata certamente la possibilità di utilizzare e impiegare metodologie “di insegnamento” cosiddette attive. Difficilmente ciò avrebbe potuto sostenersi con il ricorso o l’impiego di più tradizionali metodologie didattiche. Accademismo significa distanza tra docente e allievo, rigidità della relazione pedagogica, difficoltà a realizzare progetti educativi intense, “comunicazione a una via”, freddezza, impersonalità, ecc. Attivismo, invece, significa coinvolgimento diretto dell’allievo, riferimento al gruppo, imparare facendo esercizi, sperimentando, risolvendo problemi, “comunicazione a due vie”, discussione e confronto, vivacità, responsabilizzazione, ecc. Il punto di passaggio tra accademismo e attivismo ha come riferimento il metodo dei casi. L’opposizione tra i due approcci si sintetizza come differenza tra una modalità di conseguimento del sapere vincolata all’ascolto e all’attenzione e una basata sul coinvolgimento (attivo) in prima persona dell’allievo; tra un sapere per trasmissione e uno per elaborazione. • Contenuti vs. processi. Altra opposizione storica è quella che contrappone chi punta su finalità di apprendimento e traguardi educativi sostanzialmente espressi dal conoscere contenuti, ovvero vincolati a temi specialistici anche fortemente connotati in senso tecnico, in ogni caso propri del cosiddetto know-how professionale (il “bagaglio di sapere”) e chi invece ritiene di importanza prioritaria traguardi educativi connessi a un sapere aspecialistico e “universale”: quello dei comportamenti di lavoro e delle relazioni interpersonali. Dove, in questo caso, il rimando all’ambito professionale fa riferimento non già ai contenuti di lavoro, quanto piuttosto ai processi implicati nel 20 dell’esperienza del soggetto “nel gruppo” e in funzione di differenti livelli, da quello delle modalità di interazione o di “rapportarsi” con gli altri, a quelli dei vissuti emotivi suscitati o emergenti. Si caratterizza inoltre come progetto educativo in larga misura destrutturato, vincolato a “ciò che succede qui e ora”, ovvero alle verbalizzazioni dei soggetti, al materiale da essi prodotto. Si caratterizza, infine, per il riferimento costante al gruppo come dimensione di vita sociale, come specchio di sé, come luogo deputato alla riscoperta delle modalità personali di “entrare in relazione con gli altri”, ovvero di confrontarsi con la complessa realtà dei rapporti sociali. Questo metodo si propone come soluzione formativa privilegiata a fronte di obiettivi di crescita e sviluppo personale. • Gruppo di studio/Lavoro di progetto/Autocaso: si caratterizzano anzitutto per la condivisione del proposito di ovviare a taluni “inconvenienti” propri dei metodi precedentemente esaminati: in particolare alla estraneità e al basso coinvolgimento dei soggetti per quanto si riferisce al metodo dei casi, e alla situazione di “finzione” propria di esercitazioni e simulazioni. Proposito ugualmente condiviso è quello di favorire un apprendimento maggiormente centrato sul soggetto sia rispetto ai processi attivati che ai contenuti del progetto educativo. Il Gruppo di studio si propone come lavoro di approfondimento di argomenti scelti dai soggetti e per i quali è richiesto di raccogliere materiali, di organizzarli, rielaborarli e predisporre una “relazione” come sintesi del lavoro; nel Lavoro di progetto gli argomenti ripropongono soprattutto situazioni-problema di specifici e reali contesti organizzativi, dove l’obiettivo del progetto educativo consiste nella stesura di un caso, nella ricostruzione “dal vero” di tali situazioni-problema e dove sono previsti momenti di lavoro “sul campo” per l’acquisizione di dati e materiale informativo; l’Autocaso è un caso reale di uno dei partecipanti al progetto educativo ricostruito interamente “in aula” secondo modalità di lavoro che richiedono l’acquisizione di strumenti concettuali di analisi e classificazione dei dati e la loro applicazione ai casi in oggetto. Questo tipo di metodi vuole pertanto caratterizzarsi per il tentativo di favorire un apprendimento maggiormente concreto nei soggetti. (vedi fig. pg. 116) I metodi emergenti, invece, sono: - Outdoor Development/Outward Bound: si tratta di qualcosa oltre il confine, in cui il confine è rappresentato in questo caso proprio da condizioni, situazioni, problemi abituali dei soggetti. Si parla di Outdoor Development come di una metodologia e di un progetto educativo al tempo stesso, caratterizzato da: condizioni di apprendimento assolutamente estranee ai soggetti e prevalentemente del tipo “territori naturali” più o meno hard, inospitali o difficili; compiti legati a esercizi di esplorazione o avventura o sopravvivenza nel territorio naturale scelto. Le finalità del metodo sono quelle di proporre un percorso di apprendimento dalla realtà, ma in situazioni-limite che esigono un completo coinvolgimento del soggetto e in condizioni inabituali assolutamente non familiari, tali da richiedere al soggetto stesso l’utilizzazione di tutte le sue risorse, la ricerca e la sperimentazione attiva in assenza di punti di riferimento stabili e rassicuranti. In definitiva, questa metodologia educativa si caratterizza per il tentativo di “rompere” il confine dell’aula e della classe come riferimenti tradizionali del progetto educativo o dell’apprendimento, attenendosi così di “sbloccare” al tempo stesso gli schemi in base ai quali i soggetti apprendono: schemi diventati abituali, dunque rigidi e inefficaci a garantire apprendimento del nuovo. Ulteriore rimando privilegiato è alla dimensione del gruppo. La logica è: un gruppo solo di fronte a problemi concreti può scoprire effettivamente che cosa è un gruppo: è l’”emergenza” della situazione a provocare l’emergenza del gruppo. - Learning Community/Autonomy Laboratory: l’apprendimento non può che essere favorito dalla costituzione spontanea di un gruppo di soggetti che reciprocamente si scelgono, condividono gli stessi obiettivi di apprendimento e l’intenzione di realizzare un progetto finale. La Learning Community si propone come progetto educativo vincolato al principio che ciascun soggetto è 21 responsabile in prima persona dell’identificazione e realizzazione dei propri obiettivi di apprendimento nonché della collaborazione con altri per identificare e realizzare i loro obiettivi. Il concetto di “comunità di apprendimento” fa riferimento alla “rete” che collega i soggetti, non già alla loro disposizione o collocazione fisica nella stessa stanza. L’Autonomy Laboratory si orienta nella duplice direzione di un apprendimento all’autonomia e alla creatività attraverso il riconoscimento e l’utilizzazione da parte dei soggetti della molteplicità delle loro risorse personali. In questi metodi il docente ha un ruolo di coordinatore e, al tempo stesso, di risorsa e “tramite” per l’acquisizione di altre risorse. Il progetto educativo non tende a proporsi obiettivi di unidirezionalità e sequenzialità del processo di apprendimento in conformità con la linearità del rapporto docente- allievo, ma come pluralità e intreccio di percorsi, dove il ruolo del docente tende a essere assimilato anch’esso a quello di “soggetto in apprendimento” (vedi fig. pg. 121). - Action Learning (AL)/Joint Development Activities: i “principi generali” di questi modelli sono: - Il tentativo di saldare il momento dell’apprendimento con quello dell’azione, ovvero della quotidiana attività di lavoro del soggetto: meglio, il tentativo di ristabilire quella circolarità sempre cruciale tra apprendere-agire come identità inscindibile dei due momenti; - L’ancoraggio del progetto educativo a problemi concreti di lavoro nel senso proprio della trasformazione delle modalità connesse con il gestire un problema in quelle di un vero e proprio progetto di apprendimento; - La sollecitazione di processi di apprendimento complessi finalizzati a promuovere sapere non per semplice acquisizione dall’esterno bensì per rielaborazione e scoperta originale, sapere che ha per oggetto al tempo stesso i contenuti del problema e le modalità del soggetto di affrontarlo, analizzarlo e risolverlo recuperando ampiamente l’esperienza passata; - Il conseguimento richiamo a modelli di apprendimento di tipo pragmatico ed esperienziale confluenti a realizzare compiutamente un percorso di apprendimento di tipo cognitivo. Tali approcci rimandano: - All’opposizione formulata da Revans tra un tipo di apprendimento P e uno Q: dove P sta a indicare il complesso degli approcci educativi tradizionali vincolati allo schema del corso, del seminario, dei programmi, e Q rimanda all’apprendimento “per ricerca”, per interrogazione della realtà, in condizioni di incertezza e di assenza di risposte già predefinite. Dove la vera finalità del progetto educativo è nell’acquisire la capacità di porsi interrogativi nuovi per affrontare situazioni nuove, anziché nell’acquisire conoscenze già definite e consolidate. - A una tipologia di processo di apprendimento che si propone come sistema integrato, composto da tre sottosistemi di apprendimento: sistema α, presiede alla costruzione di una strategia (di azione) connessa con il problema oggetto del progetto educativo; sistema β, concerne la verifica di tale strategia, la sua “negoziazione” in rapporto al più ampio contesto organizzativo entro il quale si ritrovano soggetto e problema; sistema γ, che ha per oggetto le modalità stesse dell’apprendere del soggetto rispetto ai percorsi di definizione e negoziazione delle strategie connesse al problema. Richiami piuttosto evidenti possono essere alla teorie dell’apprendimento formulata da Bateson. A una tipologia di traguardi educativi in termini di: sviluppo della conoscenza dell’ambiente (il campo dei problemi); sviluppo della conoscenza di sé; sviluppo dell’apprendimento del ruolo organizzativo. Morgan e Ramirez ritrovano le caratteristiche di AL nelle sette condizioni seguenti: 1. Orientamento nella democrazia e alla parità (autorità distribuita); 2. Pluralismo; 3. Proattività e completo controllo; 4. Saldatura tra cambiamenti individuali e trasformazioni sociali; 5. Integrazione di differenti tipi e livelli di apprendimento e conoscenza; 22 6. Campo di apprendimento in continua evoluzione e “aperto”; 7. Verifica di successo in termini di capacità di sviluppare un agire “intelligente” anziché di promuovere un sapere “contenutistico”. In sintesi, ciò che definisce AL come metodo è anzitutto l’assunzione di problemi reali (di lavoro e organizzativi) come contenuto del progetto educativo. AL tende così a proporsi come metodologia educativa che copre un campo piuttosto vasto e differenziato di specifici progetti, che può conseguire risultati direttamente a livello della struttura e del funzionamento dell’organizzazione, che prevede scambi di esperienze tra soggetti della stessa organizzazione o di organizzazioni differenti: che, in definitiva, rivela un collegamento molto stretto tra i processo di apprendimento individuali e quelli di cambiamento organizzativo del tutto coincidenti con il percorso complesso descritto nel primo capitolo. Quanto al metodo Joint Development Activities (JDA), esso tende a coincidere in larga misura con AL. L’unica differenza ha a che vedere con l’orientamento “propositivo” dei progetti JDA rispetto a quello tendenzialmente “risolutivo” di AL: mentre questi ultimi vincolano il modello di apprendimento e la struttura del progetto a problemi nel senso proprio delle “cose che non vanno o non funzionano” e per le quali ricercare soluzione, i primi orientano i soggetti nel senso di ricercare nuove idee finalizzate anzitutto alla crescita, allo sviluppo e alla realizzazione di nuove opportunità in riferimento al ruolo ricoperto dai soggetti stessi nonché esplicitamente all’organizzazione coinvolta nel progetto. • Metodi riflessivi: caratteristiche principali di quest’area di metodi sembrano essere la centratura sul soggetto a livello della più generale area del sé; il distacco da più precisi riferimenti sia all’esperienza di lavoro, di ruolo e organizzativa in termini di problemi concreti, sia all’agire; il recupero del più generale campo di esperienza personale come rimando per l’autoriflessione. Si ritrovano, in quest’area, due tipi di metodologie: la prima, in cui l’obiettivo educativo perseguito è quello di favorire una riflessione sulle modalità soggettive del conoscere e del costruire la conoscenza, ovvero di sviluppare consapevolezza in tal senso attraverso la ricostruzione di schemi rappresentazionali, mappe cognitive, contenuti di pensiero (contenuti mentali) che presiedono all’esperienza soggettiva. La seconda, comprende tutte quelle tecniche “riflessive” di meditazione e rilassamento che vanno dalla più nota trascendental meditation, sino alle più recenti proposte in tema di seminari antistress. Riassumendo, si può evidenziare come i metodi emergenti rimandino a una possibile riclassificazione secondo un duplice criterio, in funzione: - Da un lato, del continuum da coinvolgimento a responsabilizzazione. Nessuno di tali metodi prevede in alcun modo il ricorso ad approcci classici di apprendimento per ascolto. Piuttosto, sono postulati differenti gradi di partecipazione al progetto stesso, ovvero differenti livelli di responsabilizzazione e autonomia nella sua condizione e nella sua guida: nel determinare cioè contenuti, condizioni, traguardi e realizzazioni. - Dall’altro, del riferimento a unità di apprendimento più o meno ampie nel senso della maggiore o minore capacità di “investire” o focalizzare l’area del sé come espressione del soggetto globale. Dunque, a unità di apprendimento più o meno complesse quanto ai processi soggettivi implicati. Tutto ciò costituisce ulteriore arricchimento, oltreché indispensabile riferimento per la costruzione di una più compiuta TDM nella logia di ipotesi della proposta di TGF. In questa direzione vanno ancora tenuti presenti i seguenti aspetti: - Tutti i metodi emergenti sembrano caratterizzarsi anzitutto per il principio, comune e condiviso seppure variamente motivato sul piano teorico, di rottura del setting di aula tradizionale. Ciò si compie nel tentativo di ristabilire unità di apprendimento-azione sia rispetto ai contenuti che alle condizioni fisiche del progetto educativo. - Tutti puntano alla sollecitazione di processi di apprendimento complessi, nel senso dell’orientamento al problema reale e del recupero della reale esperienza soggettiva. Il tentativo di 25 potesse tradursi non tanto o semplicemente alla sollecitazione, attivazione, guida e orientamento di processi di apprendimento, ma piuttosto che ciò potesse essere “praticato” ricorrendo alla persuasione, al convincimento, alla suggestione. Che, cioè, apprendere potesse essere anche esperienze condizionante per i partecipanti al corso, mentre insegnare, per i docenti, esercizio di “pressioni”; e che, in definitiva, fosse da richiedersi al formatore anzitutto piena consapevolezza (e controllo) di ciò. - Fantasie. Il tema delle fantasie costituisce più specifico ambito di riflessione e dibattito sui rischi del formatore a un livello di maggior approfondimento teorico. A detta di Enriquez, i rischi del formatore sarebbero sostanzialmente riconducibili all’incapacità di riconoscere la pluralità di figure che per il tramite del formatore possono essere “evocate”, ovvero agite in situazioni di formazione: ciò che costituisce rischio sia come confusività di ruolo (identità presunta) sia come pratica mistificante. - Triangolarità. Tipo di relazioni tra le differenti “parti” che l’attività formativa chiama in causa: ▪ Formatore: colui che gestisce il processo o guida l’azione di formazione; ▪ Committente: coloro che agendo all’interno e per conto dell’organizzazione si trovano a essere estensori e promotori di una richiesta di “intervento formativo”; ▪ Utente: coloro che direttamente saranno coinvolti dalla formazione in quanto “partecipanti al corso”. Il rischio della triangolarità è il rischio di ogni relazione complessa nel senso della possibile confusività e, in particolare per il formatore, dell’agire collusivo (questo sì manipolativo e mistificante) rispetto alle parti coinvolte nella relazione. Il rischio è, cioè, quello dell’incertezza, della non-chiarezza, dell’insicurezza dei ruoli rispettivi. Ulteriore elemento di complicazione è da ritrovarsi proprio nella reale duplicità di ruolo che per ciascuna delle parti in relazione è esprimibile (vedi fig. pg. 145). • Le cosiddette “expertise”. Un terzo tipo di elementi di riflessione ha infine a che vedere con la professionalità del formatore in termini di: competenze/esperienze richieste per un efficace adempimento del ruolo; regole e principi-guida per l’azione “formativa”; iter di preparazione e formazione professionale. Nuovamente, la logica delle opposizioni o del confronto tra ruoli effettivi risulta più o meno implicitamente vincolare tali contribuiti. Così, i risultati di una ricerca evidenziano: nella figura del docente il possesso (o la necessità) di competenze scientifiche specialistiche, didattiche e aziendali; nella figura del formatore il possesso di competenze gestionali e di relazione. Più precise indicazioni, invece, sulla professionalità del formatore, segnalano: - Conoscenze: di metodologie didattiche, organizzazione e management, psicologia, sociologia e specialistiche; - Capacità: di tipo diagnostico, di tipo didattico e di tipo manageriale. Una lista di expertise rappresenta un approccio generico al problema o comunque inattuale: restituire complessità (riconoscere cioè) al ruolo e all’agire del formatore significa tra l’altro ind ividuare con maggior precisione un modello di competenze. La natura pedagogica del ruolo di formatore Si può sostenere che nessuna proposta di TDF potrà essere ritenuta soddisfacente ove non sia esplicito il collegamento con i fatti dell’apprendimento. Si è avuto modo di segnalare le condizioni di profonda trasformazione in atto quanto ai metodi formativi, condizioni che si riassumono nella rottura del tradizionale setting di aula come luogo privilegiato e deputato allo svolgimento di attività formative e nell’ampliamento dei confini del progetto educativo al di là dell’altrettanto tradizionale rimando all’immagine del “corso”. Ristabilire il collegamento tra formatore e progetto educativo, non può che significare allora individuare una nuova configurazione di possibili ruoli di docenza, ovvero di ruoli formativi, che sia da un lato, in sé sufficientemente articolata e integrata (risolvendo ogni logica di 26 “opposizioni” tra coppie di differenti figure professionali) e, dall’altro, coerente con l’analoga nuova configurazione del “campo” dei progetti educativi. In questa prospettiva si collocano alcuni più recenti contributi. • Un modello. Burgoyne e Cunningham formalizzano un modello di ruoli formativi che si distingue da altri contributi per la chiarezza dei contenuti e la coerenza dell’impianto (vedi fig. pp. 148-152). Gli elementi-base intorno ai quali è costruito il modello possono essere individuati come: l’esperto, l’utente e l’oggetto. I termini “esperto” e “utente” corrispondono a etichette convenzionali, qui usate per indentificare al massimo livello di generalità le parti coinvolte nella relazione. E’ in funzione del tipo di “oggetto” implicato che sarà così possibile ridefinire più precisi ruoli e più concrete figure. La figura- base che rappresenta il “grado zero” di articolazione del modello identifica pertanto una situazione relazionale classica nel senso del rapporto di consulenza finalizzato alla soluzione di un problema: dove, cioè il ruolo dell’esperto-consulente è sostanzialmente quello di assumersi “per conto” del cliente il problema e di fornire adeguata soluzione. A partire dalla figura-base è possibile costruire progressivamente differenti ipotesi di relazione. L’oggetto-problema non è più in questo caso assunto come obiettivo dell’azione dell’esperto: piuttosto esso diviene occasione di apprendimento o meglio tramite per l’acquisizione da parte dell’allievo di quegli strumenti che gli consentiranno di far fronte al problema. Schema di relazione pedagogico per eccellenza, si configura qui il ruolo del docente, che trasmette sapere finalizzato in termini di modalità di problem-solving. Mentre il ruolo dell’esperto si caratterizza sostanzialmente per l’inclusione dell’oggetto-problema (che “istituisce” la relazione con l’utente) nella sfera d’azione dell’esperto stesso come diretta responsabilità della sua risoluzione “al posto” del soggetto-utente, il ruolo di docente rinvia piuttosto a responsabilità connesse con il processo di trasmissione di sapere inerente al problema e la soluzione dal docente stesso al soggetto- allievo: dove, tuttavia, problema e soluzione sono per così dire “restituiti” alla sfera d’azione del soggetto. La trasformazione del ruolo di esperto in quello di docente corrisponde pertanto al primo livello di articolazione del modello proposto. Il secondo livello di articolazione del modello prevede una nuova trasformazione del ruolo di esperto: dove la sua azione è identificata nella trasmissione di un tipo di sapere non semplicistico né finalizzato direttamente all’oggetto-problema, quanto piuttosto inerente la relazione tra soggetto e oggetto-problema. In questo senso è anzi la relazione stessa a essere oggetto problema. E’ così possibile individuare, a questo secondo livello del modello, nel soggetto “in relazione” l’oggetto stesso della relazione tra esperto e utente e nella promozione di un sapere “sul soggetto”, anziché nella trasmissione di un sapere di tipo tecnico-operativo, il contenuto dell’azione dell’esperto. La figura di animatore si sostituisce a quella del docente; il ruolo di partecipante a un progetto educativo finalizzato all’acquisizione di sapere per definizione a-specifico quale quello attinente al campo delle relazioni interpersonali di lavoro, organizzative e sociali, si sostituisce a quello dell’allievo. Nel terzo livello di articolazione si identifica nel processo di apprendimento l’oggetto della relazione tra esperto e utente, ovvero ritrovare i contenuti dell’apprendimento stesso incluso nella sfera d’azione dell’utente. L’animatore si trasforma in gestore di un progetto educativo (coordinatore e guida al tempo stesso): assume, cioè, ruolo di presidio delle modalità di svolgimento del progetto nonché di risorsa a disposizione dell’utente. L’azione si esprime nel controllo delle condizioni di svolgimento del progetto educativo rispetto al quale il soggetto ha un margine più o meno ampio di autonomia quanto agli obiettivi e ai contenuti. Il ruolo di “gestore” si risolve nel presidiare l’attivazione, nel soggetto, di un processo di apprendimento per scoperta, ovvero di ri-apprendimento attraverso il recupero della concreta e personale esperienza di lavoro. Nell’ultimo livello di articolazione, alla figura del gestore si sostituisce quella dell’agevolatore dello sviluppo personale. Con analoghe funzioni di guida e coordinatore da un lato, e “risorsa a disposizione” dall’altro, il ruolo di agevolatore va pensato rispetto a una relazione tra esperto e utente che ha per oggetto l’apprendimento delle modalità di apprendimento. Si può parlare di finalità rivolte allo sviluppo di metaqualità, ovvero di focalizzazione dell’azione dell’esperto nella direzione di un trasferimento 27 all’utente del controllo del processo che governa l’apprendere: dunque di crescita globale del soggetto. Ovviamente, punto terminale del percorso è quello della piena autonomia quanto alla gestione dell’oggetto-problema. • Un criterio. Il modello proposto da Burgoyne e Cunningham (vedi fig. pg. 154) ha la sua importanza e il suo significato nell’individuazione di nuovi elementi di articolazione della figura del formatore, di nuovi ruoli connessi con l’ampliamento dei confini del progetto educativo nella direzione self-development e nel passaggio da una logica di ruoli “per opposizioni” a una per continuum: ciò che definisce il modello come approccio integrato al ruolo di formatore, ovvero alla relazione pedagogica. Il criterio in funzione del quale il modello è articolato è nell’ampiezza dell’area di controllo sull’apprendimento rispettivamente attribuito al formatore e al soggetto: il continuum rispetto al quale si ricollocano i differenti ruoli di formatore istituisce così altrettanti momenti di trasferimento o passaggio del controllo sull’apprendimento dal formatore stesso al soggetto. • Un profilo di capacità. Stuart e Burgoyne ci consentono, infine, di riformulare soddisfacentemente il tema delle cosiddette expertises richieste al formatore. Da ciò deriva non già una semplice lista o elenco di expertises, quanto piuttosto un più integrato e articolato profilo di capacità, ovvero un sistema di competenze riconducibili al ruolo di formatore (vedi fig. pg. 157). - Competenze 1 – conoscenze: sapere-di-base (unità di informazioni) richiesto al formatore. Esse fanno riferimento a un ambito di preparazione professionale che comprende, accanto alle più diverse conoscenze specialistiche di ordine tecnico e disciplinare, il possesso di più generali competenze conoscitive in merito all’oggetto-organizzazione da un lato (teoria/e dell’organizzazione) e all’oggetto-educazione degli adulti (teoria/e pedagogiche). - Conoscenze 2 – abilità: “capacità operative” collegate al ruolo di formatore. Sono ipotizzabili due sottoinsieme di competenze: il primo, riconducibile alle operazioni di “gestione” del processo formativo che richiama capacità connesse ad attività di controllo del processo stesso, di progettazione del disegno formativo nonché di presidio dell’innovazione dei “prodotti” di formazione. Il secondo, fa riferimento alle operazioni direttamente connesse con la realizzazione di progetti educativi: dunque con l’attività di insegnamento, ovvero di guida e presidio dell’apprendimento degli utenti. Sono qui ritrovabili capacità e abilità in larga misura analoghe a quelle previste dal modello di competenze manageriali. Unica eccezione è la capacità definita “sensibilità pedagogica” che sostituisce le “capacità analitiche di soluzione di problemi, decisione e giudizio”. Sensibilità pedagogica significa capacità di capire/”sentire”/essere consapevoli di tutto ciò che costituisce evento potenziale in ogni situazione di apprendimento: significa, cioè, capacità di ascolto e comprensione del complesso campo di fenomeni “attivato” dal setting educativo sia con riferimento ai processi di apprendimento sollecitati in ciascuno dei soggetti-utenti sia ai più vari processi di relazione interpersonale stimolati dal gruppo-classe. Ma anche capacità di intervento equilibrato, bilanciato, appropriato. - Competenze 3 – metaqualità: campo di metacompetenze sovraordinate ad abilità operative (“competenza pragmatica”) e conoscenze (“competenza grammaticale”). Compare, inoltre, la consapevolezza di sé a individuare, per il formatore, un ambito di competenze esprimibile come “trasparenza di sé”, ovvero piena conoscenza delle proprie motivazioni/valori/istanze personale nonché delle proprie risorse/limiti/possibilità. Un buon formatore è anzitutto chi è pienamente consapevole del proprio “mondo interno”. 30 difficoltà a ripensare la formazione entro un orizzonte più ampio. Il dibattito sulla formazione (e la sfida di una teoria) ha posto in tensione per tre lunghi decenni tre approcci: • Formazione per le competenze (o formazione per l’organizzazione): formazione con un orizzonte di mestieri di riferimento, per profili di capacità, per contenuti, per programmi, per finalità di breve periodo, per sovrapposizione, per mutazione di istanze “istruttive”, in una prospettiva semplice o complessa di gestione e sviluppo delle risorse umane o più semplicemente di qualificazione professionale. • Formazione per il cambiamento (o formazione in organizzazione): formazione con un orizzonte di strategia e cultura per lo sviluppo organizzativo, non solo per contenuti, ma anche per processi, per finalità di medio periodo, per consolidamento dell’appartenenza e del contratto psicologico, per bilanciamento tra cambiamento individuale e cambiamento istituzionale, in una prospettiva di crescita della relazione tra individuo e organizzazione. • Formazione per lo sviluppo personale (o formazione oltre l’organizzazione): formazione verso un orizzonte di esistenza piena e autentica, per mutazione di istanze educative, per percorsi e traiettorie di lungo periodo al di là di contenuti e processi verso la riappropriazione dell’individualità del progetto di sé, ovvero verso la coltivazione di sé, la conoscenza e la cura, in una prospettiva di continuità e autonomia. Un’idea presente è che la formazione debba essere vista come opportunità di consolidare non solo una migliore qualità professionale, ma anche una più fondata attitudine al governo di quelle discontinuità che segnano, nelle organizzazioni, le molte possibili distanze tra competenze e inefficienza. Dunque, la traiettoria della riflessione sulla formazione conduce con chiarezza a sciogliere il nodo del legame con l’organizzazione come passaggio obbligato verso una nuova e più matura stagione per la formazione stessa. Ma, a ben vedere, sono le stesse transizioni e trasformazioni a cui sono andate incontro, nell’ultimo decennio, le organizzazioni ad aver indirizzato la formazione verso questo passaggio obbligato. Credo che siano stati soprattutto tre fattori o vettori di mutamento che hanno costretto, e costringono, la formazione a ripensarsi: • Un primo fattore è rappresentato dal permanente cambiamento in cui sono sprofondati i sistemi organizzativi e il più ampio ambiente sociale di riferimento, cambiamento all’insegna dell’incertezza, della discontinuità, della turbolenza. • Un secondo fattore è rappresentato dalla conseguente perdita di fondamento di alcune categorie di riferimento organizzativo quali quelle di mestiere, di mansione e di ruolo, categorie che trovano una rilettura convergente nel concetto sempre più omnicomprensivo di competenza. La formazione si trova a “inseguire” profili di competenze flessibili, aperti, in continua ricombinazione, i cui contorni mostrano vistose aree di sovrapposizione. • Un terzo fattore rimanda agli stessi soggetti che si trovano a dover fronteggiare la complessità in termini di discontinuità del ciclo di vita e continuità di evoluzione delle competenze. La direzione è quella della formazione permanente, ovvero di un percorso di apprendimento per tutto l’arco della vita. In questo senso, il vantaggio della formazione è sempre meno legato al determinismo e al finalismo dei suoi contenuti e sempre più alla qualità e all’innovatività dei suoi metodi. Se vale questa ricostruzione di transizioni organizzative, che ridefiniscono il profilo della formazione, c’è da concludere che, forse, la polarità organizzativa compare oggi, anzitutto, come contenitore di esperienza professionale e personale degli individui, esperienza da intendersi nei termini di un intreccio denso di molteplici dimensioni (organizzative, istituzionali, collettive, ma anche culturali, etiche, simboliche, ecc.). La polarità individuale compare, invece, in una forma che si propone di andare ben oltre l’espressione “individui portatori di esperienza”, ovvero dobbiamo intendere gli individui stessi in una relazione altrettanto molteplice nei confronti della propria esperienza professionale e personale. In questo scenario dovrebbe essere sempre più chiaro come il vero nodo della questione del formatore sia rappresentato dalle questioni dell’apprendere. La riflessione sviluppata sin qui dovrebbe portare a concludere che il 31 proposito di ricerca di una teoria per la formazione trova il suo sostegno nell’innesto del legame tra formatore e apprendere: trova il suo fondamento là dove le questioni della formazione siano efficacemente contenute entro i confini e le questioni dell’apprendimento. Tentando di introdurre un minimo di ordine nella variegata galassia in cui si trovano a ruotare le molteplici formule di cui disponiamo, potremmo ricomprendere almeno le principali tessere, articolando cioè le “posizioni” rispetto ai tre principali vertici del nuove scenario (vedi fig. pg. 185). Ciascuna di queste tessere finisce dunque per costituire un ambito prioritario di attenzione per l’elaborazione di una teoria della formazione, in virtù delle questioni che pone e del loro intreccio. Ad alcune di queste questioni è bene accennare: • Apprendimento esperienziale: pone la questione del legame tra il fare e l’apprendere mettendo in luce la dimensione più adattiva e confermandone l’immagine di processo prima che non di risultato. Oltre a ciò, mette l’accento sull’aspetto del conflitto sollecitato in ogni processo, soprattutto in termini di resistenze (reciproche) da parte di tutti coloro che ne risultano coinvolti. • Apprendimento attivo: pone la questione non tanto della concretezza, quanto dell’utilità dell’apprendere, e chiama in causa l’importanza che il processo o il percorso si ancori saldamente all’analisi e alla soluzione di problemi reali. In tal modo, evidenzia anche la dimensione di responsabilità personale connessa all’apprendere, così come la valutazione in termini di successo e insuccesso. • Apprendimento riflessivo: mette l’accento sul tema dell’elaborazione dell’esperienza come riappropriazione dei contenuti di apprendimento e anche come tramite per giungere all’”apprendere ad apprendere”. La dimensione principale sollecitata è nel legame tra riflessione e azione, oltre che nelle molteplici valenze del riflettere in termini sia di pensiero sia di emozione. • Apprendimento trasformativo: vuole affrontare la questione del legame tra costruzione di conoscenza e “interpretazione del mondo”, chiamando così in causa ogni aspetto tacito e implicito dell’apprendere per renderlo parte attiva di un percorso di cambiamento che riesca a conseguire il suo compimento. In questo contesto diviene fondamentale il riconoscimento della dimensione critica. • Apprendimento continuo: rappresenta un ampio territorio di questioni convergenti intorno al tema di come rendere permanente l’apprendimento a fronte del bisogni di sempre nuovo aggiornamento di conoscenze. Pone la questione dei metodi prima dei contenuti, e di come rendere compatibili percorsi di formazione più individualizzati rispetto ai contesti tradizionali. • Apprendimento da sé: pone la necessità di considerare il processo dell’apprendere anche come scelta e condizione di autoformazione. La dimensione centrale diviene quella dell’autoconoscenza che è anche questione di orientamento professionale, riconoscimento di sé e autodirezione. Il nuovo scenario entro il quale dobbiamo ricercare la formazione deve fare i conti con un marcato indebolimento della polarità organizzativa rispetto a quella individuale: il che significa, al tempo stesso, rileggere tutte le questioni del formare come questioni dell’apprendere. Manifesto per una nuova formazione Accanto all’ipotesi di lavoro che le transizioni di scenario aprono per una possibile teoria della formazione, si tratta in questa Postfazione di delineare i carattere di un percorso che rappresenti una riflessione orientata a una nuova formazione. Si tratta del proposito di delineare una formazione nella sua configurazione soggettiva: esistenziale, da un lato, come condizione di terreno e individuativa, dall’altro, come significato e traguardo. Le opzioni che fanno riferimento ad alcune questioni centrali sono: - L’identità di ciò che è formazione, al suo fondo di verità e alle sue molteplici risonanze; - Il profilo del soggetto a cui la formazione si rivolge, che in qualche misura essa insegue; - Il primato che la dimensione dell’esperienza occupa in ogni contesto e in ogni pratica di formazione; - A quanto la riflessione rappresenta in termini di passaggio cruciale per l’interiorizzazione dei fatti formativi; 32 - La svolta verso l’interpretazione che è necessario intraprendere per orientare il cammino formativo al Sé; - All’approdo narrativo che costituisce il compimento trasformativo della formazione. I cinque principali significati della formazione sono: - La formazione condivide uno spazio nucleare che la vede congiunta all’ammaestrare, all’addestrare, all’istruire e all’educare; - La formazione partecipa, nel suo farsi pratica, di quel potenziale compositivo, edificativo, quando non addirittura creativo, che è insito in tutte quelle operazioni che sagomano, modellano, foggiano e plasmano forme. - Una terza area di significati coglie la capacità generativa della formazione nel richiamare determinazioni proprie del dare origine, dell’istituire e del costituire: la formazione viene così configurata come espressione di un atto fondativo; - Una quarta area pone in evidenza l’accostabilità delle pratiche formative a qualità di tipo organizzativo; - La formazione richiama l’idea di squadra, schieramento e unità: è la composizione del gruppo, l’insieme degli elementi e anche il principio del loro coordinarsi. Da queste prime aree di significati emerge un’immagine della formazione che si distingue principalmente per tre aspetti: - Per il suo profilarsi come campo di azioni, tra loro per qualche motivo simili, anche se mai identiche. Ciò che è formazione acquista valenza pragmatica, concreta. - Per il suo istituire e per il suo inaugurare nuovi inizi, esordi e derivazioni, la formazione implica la presenza di un principio d’origine cui è costantemente ispirata e che la rende costitutivamente generativa. - Per il suo essere capace di organizzare, risulta infine vincolata a un principio d’ordine, che costruisce insiemi, li aggrega e li connetti, li rafforza e li consolida. Per procedere oltre, può essere opportuno avvicinare e interrogare le molteplici pratiche entro le quali il formare si declina, in modo tale da rendere conto anche degli usi impropri per giungere a evitare una possibile gerarchia: - L’addestrare richiama la finalità dell’acquisire una certa competenza desunta da schemi di comportamento, i quali diventano oggetto di trasferimento da un soggetto a un altro. L’addestramento esprime una dimensione che è anche sinonimo di auspicio, che annuncia riferimenti a un futuro vantaggioso. - L’ammaestrare si riferisce al rendere esperto e abile nell’esecuzione di una qualche operazione: si tratta dunque di bravura che si misura nel confronto con l’altro. - L’istruire è atto che provvede di dottrina, di sapere e di pratica che si usa nell’accumulazione di saperi e pratiche secondo una logica che sembrerebbe interessata più a procedere per sovrapposizioni che non ad approfondire e solcare. - L’educare dirotta l’attenzione entro una logica non di solo prodotto, bensì di processo ed esplicita il traguardo di uno sviluppo conseguibile grazie all’intersezione delle esperienze e non alla loro semplice sovrapposizione. Mentre l’istruzione si dà secondo una modalità superiore-inferiore, l’educazione sembra più che altro ispirata ai criteri di aggiornamento e perfezionamento che sono propri di qualunque percorso continuo. La formazione viene collocata in posizione mediana rispetto alle polarità dell’istruzione e dell’educazione (vedi fig. pg. 193): per il suo disporsi al crocevia tra educazione e istruzione, la formazione chiama in causa dimensione per forza di cose cruciali, ossia “delicate” e decisive. Da questo suo mediano disporsi derivano al tempo stesso elementi di forza e di debolezza: la plasmabilità, ossia l’adattabilità alle variabilissime esigenze dei contesti della formazione e la fragilità, ossia l’inafferrabilità che l’ha reso oggetto di un così ampio e spesso inconcluso dibattere. Per concludere, al di là dell’ampiezza del campo semantico sotteso 35 nuova interrogazione, mentre l’interpretare abilita continuamente a una pratica interminabile, per questo motivo rigenerativa e dunque ri-fondativa. Il circolo dell’apprendimento trasformativo si compie nella narrazione, intesa come conversione in romanzo di ciò che è stato afferrato con l’interpretazione e, prima ancora, esperito e “assoggettato” alla riflessione. Se, da un lato, è del tutto evidente che la narrazione è uno sforzo di riordino e conferimento di forma al disordine delle esperienze, dall’altro dobbiamo intendere la narrazione come ricostruzione di una possibile trama di significati o di connessioni significative entro una storia per la quale la traiettoria della riflessione tra il passato e il futuro può divenire traccia. Il fare esperienza, il riflettere e l’interpretare non potrebbero condurre, in altre parole, a un apprendere autentico se non fosse per il potere e la competenza trasformativa che risiede nella narrazione di quanto è stato esperito, riflettuto, inseguito e afferrato: ossia la restituzione al soggetto del ruolo di protagonista. Se manca una di queste tre tappe, la narrazione fallirà il traguardo trasformativo, o lo realizzerà solo in parte. Per molti motivi: - Perché l’operazione del narrare rende visibile ciò che altrimenti sarebbe rimasto in ombra, arricchisce la memoria degli eventi soprattutto di quelli dei quali non si sarebbe trattenuta alcuna traccia. - Perché la narrazione accresce in dettaglio, ci arricchisce di nuovi particolari di cui non saremmo stati consapevoli e preserva dalla perdita e dall’estinzione dovute allo scorrere del tempo e al sopraggiungere dell’oblio. - Perché le narrazioni di cui i soggetti si circondano, quello cui scelgono di prestare attenzione e quelle che decidono di dimenticare, sono strumenti per il completamento del cammino, ovvero per il compimento di sé. - Perché nelle storie, narrate o ascoltate, è racchiuso un principio che non solo inviata alla riappropriazione, ma altresì alla riscoperta di sé. Si rende concepibile non soltanto l’inscriversi dell’individualità nelle trame narrative, ma anche il loro risultare legate, per via di un principio di appartenenza collettiva, le une alle altre: è pur vero che la narrazione acquista forma in privato, ma resta un’area di condivisione delle questioni adulte rispetto alle quali molti possono riconoscersi e identificarsi. Il fatto che le storie possano guidare e reindirizzare i percorsi di vita è da vincolarsi, inoltre, a un principio di causalità che va attentamente ponderato. In ogni trama, infatti, possono essere rintracciate sia le ragioni del caso sia quelle della causa. L’esistenza soggettiva è attraversata dal bisogno di continuità e può trovare proprio nella funzione narrativa il suo fronte ultimo, il passaggio decisivo e inevitabile che conduce al riscatto del percorso evolutivo. Anche la formazione di sé, dunque, esprime in qualche modo un implicito bisogno di storie: poiché è per il tramite delle storie che le singole individualità si aprono al cambiamento e alla trasformazione che possono seguire alla messa in condivisione di sé con se stessi. L’atto narrativo si dimostra, pertanto, funzionale alla chiusura della circolarità innescata dall’apprendere nel suo dirigersi verso tre distinti oggetti di attenzione: quello dell’esperienza, quello della conoscenza e quello del significato. Le qualità utili a identificare quelle narrazioni che possono agevolare la restituzione ai territori della soggettività, riuscendo così a incrementare la loro valenza formativa, sono quelle che hanno le seguenti caratteristiche: - La narrazione autentica esprime l’esperienza nella sua essenzialità, nella sua forma più pura, nella sua versione più semplice. - L’essenzialità non implica una totale e assoluta investigabilità di senso: le narrazioni non richiedono di essere spiegate in ogni loro parte per poter essere comunicative, formative ed educative. Vanno, pertanto, salvaguardati quei punti oscuri che nelle storie costituiscono l’apertura, il varco verso il futuro, la visuale verso scenari alternativi. - Le narrazioni contengono sempre una soluzione che è strettamente personale. Le storie di cui la formazione personale dovrebbe imparare a nutrirsi sono, dunque, quelle storie che rifuggono la complessità, che nella loro semplicità non risulteranno banali, bensì essenziali e capaci di 36 attraversare zone d’ombra, non immediatamente significabili, ma utili a condurre verso porte mantenute ancora aperte. Restano, infine, da chiarire ancora un paio di passaggi centrali. Il primo passaggio fa riferimento al modus con cui procedere nell’itinerario verso la trasformazione che è esercizio di formazione volto a sé. Per questo non vi sono altri strumenti e metodi che quelle della critica, da un lato, e della clinica dall’altro. Al procedere di una formazione trasformativa non occorre la condanna dell’errore e dell’”errante”: non occorre, cioè, la “lezione” della critica. Piuttosto, si tratta di considerare la critica come “l’arte di non essere eccessivamente governati. L’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata. Funzione fondamentale della critica sarebbe perciò il disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe definire la politica della verità”. D’altro canto, la clinica va considerata per ciò che, in metafora, rappresenta nel flettersi e inchinarsi, così come nell’inclinare e reclinare: è questa disposizione alla clemenza che deve accompagnare il transito dall’esperienza alla riflessione, all’interpretazione e alla narrazione. Non rimane, quindi, che chiarire: che cos’è questo “passo oltre” dell’apprendere che conduce al Sé? E a quale Sé? Una prima parziale risposta da ritrovare a tali interrogativi è sicuramente rintracciabile in alcuni puntuali caratteri che sono propri del cambiamento, e per i quali si riconosce che: - Il cambiamento è transito di crisi e attraversamento di una discontinuità, dunque è ridefinizione costante dei conflitti tra forze e polarità opposte. Ma, oltre a ciò, il cambiamento è crocevia, dunque passaggio sofferto perché pericoloso. - Il cambiamento è evento di dissipazione: in esso si dà la perdita che segue ogni nuova acquisizione di forme. Così il cambiamento impone l’abbandono e il distacco. - Il cambiamento è rinnovamento profondo, è metamorfosi e rigenerazione, mutazione e trasfigurazione. Se allora si riporta questa immagine del cambiamento non a un generico universo di fenomeni, bensì al cammino della formazione, essa non potrà che essere espressa in quell’immagine di conseguimento dell’adultità che corrisponde alla pienezza del Sé. Il tema del cambiare, quando congiunto a quello della formazione e dunque posto in tensione con l’apprendere, corrisponde evidentemente a ciò che configura il divenire adulto.
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