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Riassunto "Filosofia, cultura, cittadinanza" da Agostino alla fine, Sintesi del corso di Filosofia

Riassunto completo ed esauriente della fine dell'unità 6 e di tutta l'unità 7 del manuale "Filosofia, cultura, cittadinanza" (da Agostino a Wyclif), per la preparazione dell'esame di storia della filosofia medievale.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 19/01/2021

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Scarica Riassunto "Filosofia, cultura, cittadinanza" da Agostino alla fine e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! 1 MANUALE STORIA DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE AGOSTINO E BOEZIO: I. AURELIO AGOSTINO:  Un’anima inquieta: Aurelio Agostino nacque nel 254 a Tagaste, in Numidia. Durante l’infanzia ricevette un’educazione cristiana dalla madre Monica. In una figura come Agostino la vicenda esistenziale si intreccia con la biografia intellettuale e l’evoluzione spirituale. Questo intreccio emerge per la prima volta nel 373, quando egli legge l’Ortensio di Cicerone. Libro che, modellato sul Protrettico di Aristotele, gli trasmette l’amore per la speculazione filosofica e nello stesso tempo lo turba poiché non contenente alcun riferimento alle dottrine cristiane insegnategli dalla madre in giovane età. Il passo successivo compiuto da Agostino è l’adesione al manicheismo (374), dottrina filosofico-religiosa sorta in Oriente nel corso del III secolo. Egli ne apprezza in particolare la tensione verso una fede vissuta come scelta razionale e consapevole (condivisa dagli gnostici), nonché le critiche rivolte alla presenza nell’Antico Testamento di prodigi del tutto inverosimili e di frequenti descrizioni antropomorfiche di Dio. Più ancora egli è affascinato dalla soluzione che i seguaci del manicheismo danno alla domanda: perché gli uomini compiono il male? Il manicheismo individua nell’uomo una parte buona (lo spirito) e una malvagia (il corpo), che derivano da due divinità contrapposte (il “signore della luce” e il “signore delle tenebre”) in perenne lotta fra loro. A causa dei danni che sono stati inflitti al “regno della luce” da quello delle tenebre, piccole scintille del Dio del bene si sono sparpagliate in tutti gli esseri viventi e sono venute a trovarsi imprigionate nel mondo tenebroso della materia, che le opprime. Nel corso degli anni cresce in lui l’insoddisfazione verso certe tesi del manicheismo; ciò finisce col suscitare in Agostino una profonda sfiducia nei confronti della capacitò della ragione umana di pervenire a una qualche genere di conoscenza certa. In seguito, fa propria la tesi scettica secondo cui all’uomo è concesso formulare esclusivamente ipotesi verosimili. Il distacco definitivo dalle dottrine manichee è determinato dall’incontro con il pensiero neoplatonico e con il platonismo cristiano del vescovo Ambrogio (383), che dava un’interpretazione allegorica delle Sacre Scritture basata su una rilettura in chiave fortemente neoplatonica. Agostino entra dunque in contatto, per la prima volta, con un sistema di pensiero che risolve in modo originale e convincente il problema da cui egli era assillato, descrivendo il male come puro non essere. Agostino, dunque, scopre negli scritti neoplatonici una concezione dell’Intelletto come mediatore fra l’Uno e il mondo della molteplicità, che presenta evidenti analogia con il ruolo assegnato al Verbo (Logos) divino nel prologo del Vangelo di Giovanni, in cui esso viene descritto come il mezzo attraverso cui il Padre crea il mondo. Quindi, il lungo cammino di Agostino sulle tracce della verità si conclude con una duplice conversione, al cristianesimo e al platonismo.  L’anima come luogo della verità: Il cristianesimo e il platonismo appaiono ad Agostino come due facce della stessa medaglia: a suo giudizio l’autorità (Cristo) e la ragione (Platone) sono due vie parallele che conducono alla verità. Secondo Agostino però nessuna indagine può fare a meno del contributo decisivo che viene da Dio, mediante quella forma suprema di ragione che è il Verbo. Quest’ultimo è lo strumento del quale Dio Padre si serve per illuminare le menti degli uomini, come può constatare chiunque “rientri in sé stesso” e come il nostro va ripetendo in quasi tutti i suoi scritti, dal Contra academicos alle Confessiones. Questa capacità che l’anima umana ha di ripiegarsi su di sé e riflettere sulla propria natura ricopre una funzione determinante nel percorso attraverso cui Agostino ritiene si possa giungere alla verità. Tale percorso prevede che ci si spinga sino al più intimo nucleo della propria interiorità, per poi cogliere, al di là di esso, Dio. È all’interno dell’anima che Agostino trova l’elemento di certezza grazie al quale 2 supera la fase scettica: chi mette in dubbio l’esistenza della verità è per lo meno certo, dentro di sé, di dubitare, da di esistere in quanto essere dubitante. Agostino ritiene che la verità sia dotata di un non meglio definito “senso interno” o “occhio dell’anima” in virtù del quale la nostra ragione riconosce sopra di sé una verità assoluta ed eterna, “una luce immutabile completamente diversa da tutte le luci di quaggiù” (Settimo libro, Confessiones). La scoperta di criteri stabili e universali, ai quali la ragione fa riferimento per giudicare le cose che la circondano e per rintracciare quanto vi è di non mutevole nei dati sensibili, testimonia la presenza nell’uomo della sapienza divina, del Logos. Cristo è quindi descritto da Agostino come la fonte luminosa grazie alla quale il nostro intelletto scorge la verità: “il Maestro interiore” che guida l’anima nella sua risalita verso Dio.  Credere e comprendere: Diviene allora comprensibile la posizione assunta da Agostino sulla relazione che sussiste fra fede e ragione: Senza la fede il sentiero della riflessione filosofica si rivela insufficiente. Occorre innanzitutto accettare per fede le verità rivelate, se poi si vuole approfondirle con l’obiettivo di acquisirne un certo grado di comprensione. Il percorso conoscitivo non può prescindere dal coinvolgimento di un’altra facoltà dell’anima: la volontà, l’atto decisionale con cui si sceglie di assentire a quanto ci viene rivelato da un Dio nel quale si ha fede. A sua volta, comunque, questo atto di volontà e di amore può essere preceduto (come è accaduto ad Agostino) da un certo lavoro preliminare della ragione, attraverso cui è possibile provare che ci sono buoni motivi per credere alle verità di fede. Si spiega cosi ̀ la formula “credo ut intelligam, intelligo ut credam” (credo per comprendere, comprendo per credere): è una sorta di percorso circolare, nel quale dapprima la ragione prepara la strada al nostro assenso al messaggio divino, per poi tornare nuovamente in azione e sforzarsi di chiarire il significato della verità. Per Agostino la fede è fondamento e condizione della ricerca razionale, che senza di essa non avrebbe guida; ma è altrettanto vero che la speculazione filosofica può svolgere una funzione introduttiva alla fede e, soprattutto, permette di delucidarne i contenuti, di risolvere i problemi concettuali che essa pone. La funzione della filosofia spiega il valore riconosciuto da Agostino alle cosiddette arti liberali, in cui ciascuna di quelle discipline è ritenuta preziosa per rinvenire l’ordine che Dio ha posto in ogni cosa e per una comprensione della Scrittura. Le arti liberali, divise in grandi aree disciplinari, si chiamavano così in quanto si addicevano a persone di condizione libera, ossia a chi non doveva guadagnarsi da vivere. Lo schema più diffuso annoverava sette arti liberali, le arti del trivio (grammatica, dialettica e retorica) e le arti del quadrivio (aritmetica, geometria, musica e astronomia) e lasciava scorgere una scala da percorrere per giungere alla più alta forma di conoscenza. Secondo Agostino gli uomini apprendono tutto quello che sanno dialogando fra loro e i loro predecessori, attraverso i libri. Ne deriva il suo invito, formula nel De doctrina christiana, a “servirsi in maniera L’approfondimento razionale del dogma trinitario: Un esempio dell’approfondimento razionale delle verità di fede ci viene dal mondo in cui, nel De Trinitate, Agostino dimostra che il concetto di un Dio uno e trino non è un’offesa alla ragione. Quel concetto può invece essere compreso per analogia, analizzando l’immagine che Dio ha impresso in ognuno di noi, ossia grazie a un’indagine sull’anima umana. Questa presenta tre componenti: memoria, intelligenza e volontà che, pur nella loro distinzione, costituiscono un’unità assoluta. Analogamente, in Dio vi è una sola natura che sussiste in tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, i cui nomi non indicano delle sostanze, bensì relazioni. Agostino si avvale dunque di argomentazioni razionali basata sull’analisi che l’anima umana può fare di sé stessa, con l’obiettivo di difendere il dogma trinitario da chi vi scorgeva un vuoto gioco di parole. 5 che antepongono a tutto l’amore di sé e il desiderio di affermarsi. La distinzione fra le due città non si traduce in una contrapposizione fra istituzioni, ma verte su due differenti modi di vivere la vita. Le comunità percorreranno la storia mescolate tra loro e solo alla fine dei tempi saranno separati buoni e cattivi, e risulterà chiaro chi è stato destinato alla salvezza della grazia divina e chi, invece, sarà chiamato a pagare le proprie colpe con la dannazione eterna. Fino al giorno del giudizio, dunque, queste due comunità sono costrette a convivere e a servirsi degli stessi beni, ma con scopi diversi. Entrambe mirano alla pace, ma se la città di Dio aspira alla pace eterna, la città terrena ha come unico scopo il raggiungimento di una condizione di assenza di conflitti. Agostino riconduce, dunque, la nascita del potere politico alla necessità di porre rimedio ai guasti prodotti dalla caduta, privando l’anima umana della capacità di mantenere il controllo del corpo, essa ha reso gli uomini schiavi dei propri desideri materiali e ha cancellato in loro ogni tendenza socievole. Il governo temporale risulta una sorta di male necessario, è inevitabile ricorrere ad esso se si vuole impedire che i governati si taglino reciprocamente la gola. II. SEVERINO BOEZIO:  Boezio traduttore: il recupero della cultura antica: Nato a Roma nel 480, ricevette un’istruzione di alto livello e intraprese una brillante carriera politica. Trascorsi solo pochi decenni tra la morte di Agostino e la sua nascita, la storia tuttavia li separa nettamente. Se infatti Agostino appartiene a tutti gli effetti all’età tardoantica, la mentalità di Boezio può essere definita “medievale”. Egli sente il bisogno di tramandare il più possibile il patrimonio greco al mondo latino, il suo piano originario prevedeva la traduzione dal greco e il commento dei dialoghi di Platone e delle opere “accessibili” di Aristotele. Il lavoro realizzato si ispira al modello della “settuplice via alla sapienza”, cioè recupera dalla tradizione classica la consuetudine di organizzare l’enciclopedia del sapere secondo lo schema delle sette arti liberali. Boezio, tuttavia, apporta una modifica a tale schema per quanto concerne le arti del trivio: assegna una collocazione speciale alla logica, che, in quanto arte di discernere il vero dal falso, non è solo un particolare ramo della filosofia, ma anche uno strumento da applicare in tutti gli altri. L’importanza riconosciuta a questa disciplina trova ulteriore conferma nel fatto che il suo impegno di traduttore i concentra sugli scritti logici di Aristotele, i trattati che ne derivano sono i cosiddetti sette codici della logica vetus. Altrettanto importante è il contributo di Boezio nell’ambito del quadrivio: concepisce infatti le sue arti come quattro sentieri da percorrere in sequenza, capaci di condurre l’intelletto alla scoperta dell’ordine matematico che contraddistingue il cosmo: l’aritmetica studia la moltitudine in sé (i numeri), la musica la considera in relazione ad altro (suo oggetto sono i rapporti fra i numeri), la geometria si occupa della grandezza immobile (le figure) e l’astronomia studia le grandezze in movimento (gli astri). A ognuna di queste discipline Boezio dedica un trattato. Fra i molti temi affrontati da Boezio nei manuali che lasciò in eredità al Medioevo, spicca quello dell’armonia cosmica, di derivazione pitagorico-platonica: le pagine del De institutione musica che più sono celebri sono quelle in cui si dice che l’universo è costruito sul modello di accordi musicali.  Una filosofia che consola: Se la teoria musicale permette di decifrare l’armonia che è stata impressa al mondo e di svelare i meccanismi che mantengono gli elementi in equilibrio fra di loro, spetta alla filosofia cogliere la ragione profonda di tale equilibrio armonico, ossia comprendere come tutto ciò sia l’effetto del governo di Dio: si apre così lo spazio riservato al tema dell’ordine provvidenziale del mondo nella Consolatio philosophiae, il capolavoro che egli scrisse mentre si trovava in carcere, a Pavia, in attesa di essere giudiziato. Il testo è scritto sotto forma di dialogo fra Boezio e una figura femminile, la personificazione della filosofia, che gli appare in sogno e lo scuote dalla condizione di torpore in cui è precipitato: poco alla volta, lo 6 conforta, insegnandogli dove e come cercare il vero bene. Il primo dei cinque libri contiene l’appassionata autodifesa di Boezio, il quale protesta la sua totale innocenza e si chiede perché la giustizia divina permetta che sia fatto del male a chi ha sempre agito in buona fede. Ascoltato il grido di dolore di Boezio, Filosofia gli rimprovera di ver dimenticato la sua vera natura, la sua meta e la sua patria: il mondo al quale appartiene non è quello del soggetto alle continue incertezze della vita politica, bensì quello dove tutto è retto da un solo re. Con l’inizio del secondo libro, l’argomento scelto da Filosofia per consolare Boezio è la dottrina stoica del fato, secondo la quale l’unica libertà che l’uomo ha a disposizione consiste nell’accettare serenamente la sorte assegnatagli e nell’uniformare ogni sua azione al volere di colui che regola ogni evento. In un mondo dominato dal determinismo la vera felicità deve essere cercata in sé stessi, invece l’ignoranza impedisce agli uomini di alzare lo sguardo. Nel terzo libro giunge quindi ad affrontare il tema della reale natura del sommo bene. L’esistenza del sommo bene viene provata in base al principio secondo cui la nostra capacità di percepire le imperfezioni presenti nel mondo presuppone l’esistenza di una perfezione assoluta, che funga da termine di paragone. La ricerca di questo sommo bene riporta il discorso sull’ordine dell’universo: il sommo bene va identificato in chi “governa saldamente tutte le cose e le ordina con dolcezza”. Essa pare ricalcare un passo della Scrittura, contenuto nella Sapienza. Tuttavia, egli non fa riferimenti alla fede e non c’è nessun richiamo alla rivelazione. Filosofia, per cancellare ogni traccia di sconforto, riformula la dottrina storica dell’ordine provvidenziale in termini platonici: ne deriva l’invito a cercare il sommo bene nel creatore dell’universo. È dunque questo intervento divino a portare ordine in un mondo dove tutto potrebbe apparire caotico e casuale; è Dio la forza che impedisce alle tendenze disgregatrici di prevalere e tiene armoniosamente uniti gli elementi del cosmo, conservando fra loro un equilibrio fondato sui rapporti matematici.  Il male, l’ordine provvidenziale e la libertà dell’uomo: Una volta appurata l’esistenza di un supremo reggitore dell’universo, viene spontaneo domandarsi se egli possa compiere anche il male. La risposta di Boezio è negativa: Dio è la fonte di tutto ciò che è, mentre il male è non essere, non ha sostanza. Il tema viene ripreso nel quarto libro della Consolatio, con argomentazioni tratte dalla tradizione platonica. Di fronte all’obiezione di Boezio, che fa notare come il male proceda apparentemente impunito nel mondo, Filosofia lo invita ancora a valutare le cose nella giusta prospettiva: per rendersi conto che i visi non restano mai impuniti, Boezio deve innalzarsi sino alla dimora del “signore dei re”. Da quell’altezza si può vedere che tutti gli uomini sono inclini per natura a cercare la felicità, ma una parte di loro non ha la capacità (il potere) di raggiungerla. I malvagi sono paragonati ai cadaveri: per quanto le cose possano sembrare diverse, la loro è una condizione di assoluta impotenza, poiché sono in grado di operare solo il male, che è il nulla. Poter fare il male è una forma di debolezza, quanto più a lungo costui conserva la facoltà di agire in modo malvagio, tanto più aumenta il suo grado di infelicità. Egli non riesce a liberarsi dell’impressione che nel mondo le cose “vadano all’opposto di come dovrebbero” se davvero tutto fosse ordinato per il meglio. Filosofia allora ribadisce che ogni sorte ha un senso, anche quando mette a dura prova i buoni o concede ai malvagi di proseguire i loro progetti: l’intelligenza divina ordinatrice ha predisposto la norma che presiede allo svolgimento ordinato di qualsiasi evento. Il quinto libro si apre proprio con questa constatazione: in questo universo governato dalla provvidenza divina non rimane spazio per la casualità. Se infatti ogni evento è determinato da una serie ininterrotta di cause il cui ordine deriva da Dio, che cosa resta della libertà di volere? Secondo Filosofia, qualunque essere razionale detiene il libero arbitrio, che consiste nell’uso della ragione e nella capacità di svincolarsi dalla dimensione della corporeità. La prescienza divina delle cose future non conferisce loro alcun carattere di necessità. La conoscenza di Dio opera su un piano atemporale, Dio vede simultaneamente tutte le cose. Quindi ha presenti di fronte a sé anche i cosiddetti futuri contingenti, ovvero gli eventi causati dalle libere decisioni degli uomini, ma la sua preconoscenza non ne modifica minimamente la natura, li vede cosi ̀come accadranno un giorno: atti liberi e contingenti. 7 LA FILOSOFIA NEL MEDIOEVO:  La storia: Il Medioevo inizia nel 476 d.C. anno in cui fu deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, e finisce dieci secoli dopo, con la scoperta dell’America nel 1492. Viene suddiviso in Alto Medioevo (fino al XI secolo) e Basso Medioevo (dall’XI al XV secolo). Tra il 476 e l’800 il mondo mediterraneo si divide in tre zone, l’area bizantina, l’area araba e quella romano-germanica. All’inizio del IX secolo si delinea una nuova area geopolitica con il Sacro romano impero, che si estende da Aquisgrana a Roma, dal Barcellona al fiume Elba e al Danubio. In Occidente, la fusione della cultura della società romana con la cultura dei barbari e gli ideali del cristianesimo da origine a una nuova forma di civiltà, all’origine dell’Europa moderna. La Chiesa di Roma contribuisce all’evangelizzazione, fungendo da elemento unificatore ed esercitando una fortissima influenza sulle strutture di potere e sulla società. Dal punto di vista culturale, nell’Alto Medioevo il monachesimo costituisce il riferimento principale per le attività culturali e trasmette i testi antichi. I Franchi favoriscono il rafforzamento della chiesa e il suo sviluppo. Incoronando imperatore Carlo Magno, papa Leone III gli conferisce il titolo di difensore della Respublica Christiana. Al tempo stesso il papa assume un ruolo politico che avrà una straordinaria importanza per tutto il Medioevo. L’impero carolingio (769 – 814) si presenta come restaurazione dell’Impero Romano e il simbolo dell’unità dei cristiani nella lotta contro gli infedeli. Dopo il Mille ci furono diversi cambiamenti, e si inizia ad affermare un’identità europea. Una data emblematica è il 1054, l’anno dello scisma tra il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli. Dal 1050 al 1250 si registra un incremento demografico che porta a un grande sviluppo agricolo e alla ripresa della produzione. Le popolazioni vivono ora riunite nelle città e nei villaggi. L’espansione economica porta a cambiamenti sociali: accanto alla feudalità laica ed ecclesiastica, si affermano nei centri urbani il ceto artigianale e il ceto mercantile. Il Papato e l’Impero sono entrambi alla ricerca del dominio sull’Europa (dominium mundi). Allo scontro tra i due poteri universali si affianca la lotta con i Comuni, che rivendicano la propria autonomia; intanto si impongono nuovi protagonisti nello scenario politico, le monarchie nazionali di Francia e Inghilterra. Alla lente decadenza dell’impero non tarda ad affiancarsi una crisi del Papato, con il contrasto tra Bonifacio VIII e il re di Francia Filippo IV il Bello, e nel trasferimento della sede pontificia ad Avignone. In questo momento inizia un processo di laicizzazione del potere con il dominio di classi privilegiate (aristocrazia e ricca borghesia in ascesa) e lotte come la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra (1337 – 1453).  La filosofia medievale: Al centro della riflessione filosofica medievale c’è il rapporto fede-ragione, ma un’importanza sempre più rilevante assumono anche gli ambiti della logica (questione degli universali) e della filosofia della natura, oggetto di un’indagine razionale e sistematica. La nascita delle università nel XIII secolo segna una trasformazione importante nella cultura europea e nello stesso tempo la riscoperta delle opere di Aristotele produce un rinnovamento degli studi nel segno della libertà di pensiero e di insegnamento. Fondamentale è la riflessione di Tommaso d’Aquino che ripensa la dottrina aristotelica per mostrarne la compatibilità con la dottrina cristiana. Ma dalla seconda metà del Duecento al Trecento la ricerca filosofica si affianca alla teologia. La netta separazione tra i due ambiti è teorizzata da Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Anche il pensiero politico risente del nuovo clima culturale: al centro della riflessione troviamo il rapporto tra potere temporale e spirituale e la confutazione delle pretese egemoniche del papato. 10 Nel Monologion (Soliloquio, 1076), infatti, Anselmo cerca di costruire un argomento a posteriori per sostenere l'esistenza di Dio senza assumere per ipotesi alcuna conoscenza delle verità rivelate della fede: nella sua argomentazione, infatti, cerca di immedesimarsi in un uomo che non sia mai stato esposto al dogma cristiano, e che cerchi con le sole forze della sua ragione di arrivare ugualmente alla consapevolezza che Dio esiste, partendo dagli effetti, dalle cose sensibili per poi ritrovare, a ritroso, la necessità di un Dio che le spieghi (ecco perché a posteriori, a differenza dell'argomento a priori che troveremo nel Proslogion). L'argomento consiste in: a. Constatare che le cose sensibili si presentano sempre in una forma di gradualità, secondo caratteristiche distinte e misurabili attraverso un rapporto ed un paragone implicito con un essere che possegga ognuna di queste caratteristiche al sommo grado, completamente. (Platonicamente, vedo che ogni cosa è più o meno grande, ma lo è sempre poiché partecipa relativamente della Grandezza in sé). b. Comprendere che la gradualità vale a maggior ragione per il bene: ognuno ordina una serie di beni che desidera secondo priorità gerarchica, implicando la presenza di un sommo bene, che rende "relativamente buone" tutte le altre cose; idem per i gradi dell'essere (che implicano l'essere assoluto) e di perfezione (che implicano un perfettissimo dal sommo valore). Questo significa che, dalla gradualità sensibile, ho già implicato l'esistenza di un essere sommo e perfettissimo. c. Dimostrata l'esistenza di Dio, se ne inferiscono immediatamente le qualità imprescindibili: Dio è necessariamente eterno, intelligente, creatore, ingenerato ed incorruttibile. Questo significa che Dio è l'unico essere privo di generazione da cui però ogni altra cosa prende forma sulla scorta di un modello pensato nella mente di Dio stesso, in cui sono contenute le forme esemplari di tutte le sue creature che poi modella come un artefice che abbia in testa il progetto che vuole compiere (la Parola interiore è quindi già atto creativo del modello). d. Afferrato ciò, si comprende dunque che la ragione umana può spingersi senza ostacoli a cogliere la natura trinitaria dell'essere sommo, proprio perché Dio ha creato l'uomo in analogia a come l'uomo crea qualcosa mantenendolo in mente. Se l'uomo, agostinianamente, guarda in sé stesso e scopre le proprie facoltà trinitarie (intelletto, memoria e volontà) è facilmente condotto alla comprensione del mistero del Dio uno e Trino, che è il Dio della rivelazione cristiana.  L’intelligenza della fede: il Proslogion Tuttavia, Anselmo non è pienamente soddisfatto dalla macchinosità con cui ha cercato di dimostrare a posteriori l'esistenza di Dio per un ipotetico uomo ignaro della rivelazione della fede, e arriva cosi ̀ a costruire un Proslogion (Colloquio, 1077-1078) che punta a dimostrare, questa volta attraverso un argomento a priori che parta quindi dall'assunzione della fede rivelata come requisito imprescindibile, l'esistenza di Dio in un unico argomento ontologicamente autosufficiente. Per farlo, ipotizza un dialogo di un uomo rivolto a Dio per chiedergli di aiutarlo a comprendere (non a caso il titolo del Proslogion era Fidens quaerens intellectum, cioè la fede in cerca dell'intelletto/intelligenza, in analogia con il motto già ripreso da Agostino del "credo ut intelligam"), utilizzando la ragione a corroborazione ed approfondimento delle verità rivelate; infatti, tra la semplice fede e la piena comprensione che sarà concessa con la vita eterna, Anselmo individua un livello intermedio: è il livello su cui si colloca chi vive la propria fede in maniera consapevole, ossia chi si sforza di innalzarsi sempre più verso una conoscenza adeguata delle verità credute. Consapevole che non tutte queste verità potranno essere compiutamente comprese in vita, ma considera comunque essenziale porsi l’obiettivo di progredire ogni giorno nella loro comprensione. Per dimostrare l’esistenza di Dio, il Proslogion non procede a posteriori, ma tra invece spunto da una definizione che riassume ciò che i cristiani credono a proposito di Dio; si tratta dunque di un argomento a priori, fondato cioè su quello che la ragione comprende da sé. L’argomento funziona così: a. Chiunque, anche chi non crede in Dio, è in grado di comprendere semanticamente la frase "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, di maggiore" (Cioè, parte dall'assunto che tutti, credenti e non credenti, possano accettare un ragionamento che assuma come ipotesi teorica la definizione di Dio). Di conseguenza, nella mente di costui che comprende la frase, si è già implicitamente formato il concetto 11 (teorico) di Dio come l'essere del quale non si può pensare alcunché di più grande, anche se lo stolto non sa o pensa che questo essere possa esistere non solo in via teorica ma anche in via effettiva. b. A questo punto però si rischia di cadere in contraddizione: se si pensa che il Dio1 suddetto esista solo in via teorica, de facto si sta implicando che possa esistere un Dio2 teorico avente un ulteriore grado di perfezione, ossia l'esistenza extramentale. Ma questo implicherebbe che il Dio1 non era davvero ciò di cui non si può pensare alcunché di più perfetto, perché vi era il Dio2 che era più perfetto di lui. Per evitare questa contraddizione, l'unica possibilità è quella di ammettere che Dio delle Scritture esista tanto in via teorica quanto in via effettiva (nella realtà). c. Appurata l'esistenza effettiva di tale Dio, alcune conseguenze derivano necessariamente dalla definizione stessa (pena il cadere in contraddizione), e su tutte spicca quella che Dio esiste necessariamente (altrimenti, se fosse contingente, si potrebbe pensare qualcosa di più perfetto di lui), con un'inevitabile approfondimento della dottrina degli attributi divini. A questo punto Anselmo tenta di dare risposta all'ultima obiezione possibile: come può lo stolto, in cuor suo, aver pensato che Dio non esiste (effettivamente)? Per Anselmo, la risposta è che lo stolto si limita a pensare quell'insieme di sillabe senza fermarsi analiticamente al contenuto (una prolatio verborum, un'emissione di suoni senza comprendere col pensiero tematico il significato di ciò che pronuncia), impossibilitato cioè a cogliere il significato reale di quelle parole. Proprio quest'ultimo punto sembra rendere molto fragile, insieme col primo, l'argomento di Anselmo soprattutto agli occhi di Gaunilone (un monaco di Marmoutier morto nel 1083), il quale obietta ad Anselmo che se è vero ciò che dice alla fine, non si comprende per qual motivo allora lo stolto suddetto possa essersi formato il concetto di Dio dalla definizione teorica di "ciò di cui non si può pensare nulla di più perfetto". Per Gaunilone infatti tale definizione non è mai pienamente comprensibile da parte di qualsivoglia uomo, poiché il suo significato profondo gli resta irreprensibile, a prescindere da istruzione o provenienza; in particolare, questa impossibilità è dovuta al fatto che quella del perfettissimo è un'idea irreprensibile in quanto inesperibile sul piano sensibile e dunque non inferibile, per congettura, da qualcosa di ad essa analoga. A questo argomento, Anselmo stesso risponde de facto riproponendo uno schema argomentativo a posteriori utilizzato nel Monologion (cioè l'idea di risalire all'idea del perfettissimo partendo dai graduali stati di perfezione esperibili nella vita quotidiana), e sembra quindi suggerire la possibilità di fondare sulle cose di cui si ha esperienza il concetto di Dio. In questo modo, però, Anselmo sembra rendere palese la non-autosufficienza dell'argomento del Proslogion, che sembra quindi presupporre il lavoro preparatorio della ragione e della sua sintesi dell'esperienza sensibile. In sostanza, i due scritti anselmiani, se letti insieme, appaiono come due fasi di un unico grande percorso di ricerca, nel quale la ragione umana dapprima indaga su alcuni dati che sono alla sua portata e successivamente si sforza di capire ciò che è insegnato dalla fede.  Divina onnipotenza e libero arbitrio umano: Anche nel Proslogion è presente la sezione dedicata agli attributi divini, dedotti dall’idea “ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore”; in quanto tale, Egli è quindi il sommo ente, suprema giustizia, piena beatitudine, in generale “tutto ciò che è meglio essere piuttosto che non essere”. Inoltre, Dio è onnipotente, dove la potenza di Dio è già sempre potenza rivolta al bene, giacché ogni azione rivolta al male è, in realtà, sintomo di una impotenza di fondo. Questo chiarimento terminologico serve ad Anselmo per evitare che nell'onnipotenza di Dio vengano fatte rientrare la facoltà di peccare, di compiere del male o di dire il falso, senza che questo sminuisca l'onnipotenza stessa. Dunque, non vi è alcuna contraddizione fra il definire onnipotente Dio e l’affermare che egli non è in grado di compiere determinate azioni, come mentire o fare sì che qualcosa non sia accaduto. In base al medesimo principio, Anselmo nega (nel De libertate arbitrii) che il potere di peccare sia un vero potere e, diversamente da Giovanni Scoto Eriugena, egli respinge l’idea che la libertà dell’uomo debba essere intesa come facoltà di decidere se commettere peccato oppure no, se ne dovrebbe concludere che Dio e gli angeli non sono davvero liberi. Anselmo intende per libero arbitrio la capacit à di serbare la propria volontà retta per amore della rettitudine, cosi ̀come il termine “vista” indica il potere di vedere. In caso contrario la libertà non sarebbe un bene. La rettitudine è data all’uomo da Dio e la piena libertà 12 l’uomo la riacquista attraverso la grazia. La libertà coincide dunque con l'adeguare la propria volontà al disegno Divino volendo le cose che accadono perché Dio le ha volute giustamente e non per interessi personali, cosa che è resa possibile, in seguito alla Caduta dal Paradiso, attraverso la grazia concessaci da Dio padre. Come conciliare il libero arbitrio degli uomini con la prescienza divina? Problema affrontato del De concordia, anche in questo caso Anselmo ritiene di poter dimostrare come non vi sia alcuna contraddizione. Si è soliti parlare di prescienza di Dio rispetto ad avvenimenti futuri ma in Dio non ci sono un prima e un dopo, un passato e un futuro, ma un eterno presente in cui egli ha di fronte tutti gli avvenimenti, passati, presenti e futuri. Il fatto che Dio conosca le azioni degli uomini non le rende necessarie: egli prevede tutte le cose cosi ̀come sono, necessarie se sono tali (sorgere del sole), libere se sono libere (lo scoppio di un’insurrezione). III. PIETRO ABELARDO:  Introduzione e biografia: Su Abelardo abbiamo notizie innanzitutto autobiografiche, lasciateci da lui nell'Historia calamitatum mearum (1134 ca.). Abelardo nasce in Bretagna intorno al 1079 (morto 1142), e dopo aver studiato a Tours e Loches scopre un grande talento per la logica che lo spinge a rinunciare ad armi e primogenitura per andare a studiare a Parigi presso il maestro (e poi competitor) Guglielmo di Champeaux. Costretto ad allontanarsi, insegna a Melun e Corbeil, per poi tornare a Parigi dove finalmente ottiene la cattedra sconfiggendo il maestro Guglielmo stesso. Nel 1113, mentre studia e approfondisce teologia a Laon (all'odierno Panthéon), conosce Eloisa da cui ha un figlio e che sposa in segreto (contro il celibato imposto agli insegnanti di scuole gestite dalla Chiesa). Una volta uscita la notizia, però, è costretto a lasciarla e nasconderla in un convento, in cui però dovrà ritirarsi anche lui per quasi 15 anni a seguito della condanna che le autorità comminano alla sua Theologia Summi Boni (1121), fino al 1136 quando, tornato a Sainte Genevieve, si trova di li ̀a breve nuovamente condannato nel Sinodo di Sens (1140) per via delle critiche subite da Bernardo di Clairvaux, da cui dovette ritirarsi e morire a Cluny. Il suo corpus vede spiccare la Theologia christiana (1124), e l'Ethica (o Scito te ipsum, 1130-33).  L’uso della dialettica in teologia: L’opera di Abelardo si caratterizza per la costante applicazione della logica o dialettica a qualsiasi tipo di discorso. In quanto scienza che permette di discernere il vero dal falso, essa detiene una sorta di naturale primato su tutti gli altri saperi, e dunque, secondo Abelardo, la logica fornisce il metodo generale di tutte le scienze. Egli ne deduce l’impossibilità di prescindere dalle regole della logica anche ai fini della comprensione della Scrittura. Questo, beninteso, non significa che per Abelardo la dialettica debba servire a mettere in dubbio i contenuti della rivelazione della fede cristiana, bensi ̀la forma verbalmente umana con cui essi sono veicolati nelle Scritture e soprattutto nei testi dei grandi Padri della Chiesa, che però pur sempre uomini restano e pertanto possono incorrere in fraintendimenti (oppure aver mutato la loro opinione su temi sacri nel corso della vita). Questa è infatti la linea di lavoro adottata sin dalla sua prima opera, la Theologia summi boni; il compito del teologo consiste quindi nell’utilizzare la logica al servizio di una chiarificazione delle espressioni usate dall'uomo per parlare di Dio, la cui natura ineffabile può essere soltanto designata da parole ambigue, con la conseguenza che i nomi con cui lo indichiamo sono semplici metafore. Un discorso analogo vale per il linguaggio della filosofia pagana: Abelardo ritiene che esso abbia una natura fortemente metaforica. Infatti, se si leggono gli scritti dei filosofi dell’Antichità si scopre che vi sono nascoste alcun fondamentali verità di fede (ad esempio l’immortalità dell’anima). Si svela quindi una naturale convergenza tra fede e ragione: i principali filosofi greci e latini sono pervenuti alla comprensione di alcuni dogmi della religione cristiana prima della rivelazione (Platone). Entrambi questi aspetti hanno una precisa finalità apologetica: a giudizio di Abelardo, l’ostilità di chi non riconosce validità alle verità rivelate va combattuta mediante argomenti puramente umani, razionali. 15 individui, attribuendo realtà solo alle singole parti della totalità. Nel secondo caso, quindi, si tenderà a privilegiare il bene e i diritti dei cittadini singoli cives o fideles, mentre il primo punto di vista è portato ad anteporre il bene della comunità agli interessi individuali. A seconda delle risposte date al problema sugli universali, dunque, variano anche le posizioni assunte in merito a un gran numero di questioni di natura etico-politica, religiosa e giuridica. Per fare un ultimo esempio, l’opzione realista si concilia più facilmente con il dogma del peccato originale: un singolo uomo che ha fatto peccare tutta l’umanità. Il primo ad interrogarsi sugli universali fu Porfirio (III sec., neoplatonico) nell'Introduzione (Isagoge) alle Categorie di Aristotele, ma lasciava irrisolta la questione. Tre secoli dopo fu ripresa da Boezio che commentò l’Isagoge porfiriana partendo dal presupposto aristotelico secondo cui solo l’individuo è reale, poiché ciò che è comune a gruppi di individui non può costituire a sua volta una realtà individuale. Boezio giunse a concludere che gli universali sono concetti. Se però fossero solo nozioni del nostro intelletto, ai quali non corrisponde una realtà, non sarebbero neanche veri pensieri, in quanto privi di un oggetto. Allora la soluzione che propone è questa: pur non corrispondendo ad alcuna res, i predicati di generi e specie hanno comunque un fondamento reale nella relazione di somiglianza fra determinati insiemi individuali. “Gli universali sussistono in unione con le cose sensibili, ma possono essere conosciuti solo considerandoli separatamente”, attraverso un processo di astrazioni che li distingua dai corpi di cui sono forma. Caso analogo agli enti geometrici che anche senza sussistenza possono essere colti dalla mente. Nel tentativo di risolvere la questione degli universali, Boezio si ispira soprattutto ad Aristotele e a uno dei suoi più noti commentatori, Alessandro di Afrodisia, ma nel contempo ricorda anche come Platone attribuisse a generi e specie un’esistenza separata, indipendente dai singoli esseri corporei. Inoltre, nel De consolatione philosophiae fa propria la tesi platonico-agostiniana che ammetteva la realtà degli universali come idee contenute nell’intelletto divino.  Il realismo di Guglielmo di Champeaux e lo scontro con Abelardo: Nei primi decenni del XII il dibattito fu riacceso da Pietro Abelardo. Nel commentare l’Isagoge, sulla scia di Boezio, egli muove dalla definizione aristotelica di universale come “ciò che è preposto alla predicazione di molti”, per analizzare poi la tesi secondo cui gli universali sarebbero nomi ai quali corrispondono vere e proprie realtà, entità per sé esistenti. Esistono due versioni di questa tesi realista, sostenute entrambe dal filosofo Guglielmo di Champeaux: - Radicale: La forma più radicale del realismo attribuisce agli universali una realtà sostanziale separata (la Servitù, l’Umanità), una res dotata di esistenza autonoma, che prescinde dall’esistenza dei singoli. Secondo questa tesi gli individui di una stessa specie o le specie di uno stesso genere hanno un’essenza comune e si distinguono solo per qualità accidentali (più grasso, più magro) o le differenze specifiche (l’uomo differisce dagli animali per la razionalità). Abelardo osserva che, se le cose stessero così, l’individuo sarebbe solo il risultato della somma di aspetti accidentali, inessenziali (il colore della pelle, le dimensioni) tolti quelli non rimarrebbe nulla. Inoltre, una stessa essenza potrebbe comprendere cose tra loro contrarie e avere accidenti contraddittori; ciò sarebbe in contrasto con il principio di non contraddizione. - Moderata: Guglielmo, sotto le critiche incalzanti del suo allievo, si sarebbe allora rifugiato in un’altra forma di realismo, più moderata. Il fondamento reale attribuito agli universali da questa nuova versione non consiste più in un’unica essenza comune, bensi ̀nella non-differenziazione che sussiste fra individui di una stessa specie: pur essendo fra loro distinti, non sono differenti, in quanto presentano un nucleo di caratteri comuni. L’universale sta in questa in-differenza. Facendo propria tale posizione, Guglielmo rinunciava a descrivere gli universali come realtà dotate di un’esistenza separata; Secondo la teoria dell’indifferentia generi e specie esistono esclusivamente nelle singole cose sensibili (in re), le quali non si distinguono solo per gli accidenti ma anche per le loro essenze. Ma Abelardo rifiuta anche questa tesi: a suo dire, infatti, non ha senso parlare di non-differenziazione 16 fra individui che sono differenti essenzialmente. Nel 1108 scoppia un dibattito pubblico sugli universali, da cui Guglielmo esce sconfitto perdendo la cattedra di logica a Parigi.  Abelardo: gli universali sono parole dotate di significato: L’origine di tutte le difficolta sorte a proposito degli universali risiede, secondo Abelardo, nella convinzione illusoria che essi siano nelle cose reali, nella non-differenziazione che contraddistingue un certo gruppo di individui. Al contrario gli universali non rientrano nel dominio delle cose, ma in quello dei segni linguistici: sono termini che si predicano di più individui, parole utilizzate per “significare” una pluralità di singole cose reali. I termini con cui Abelardo indica spesso gli universali sono vox (parola istituita per la significazione) e nomen (nome dotato di un significato). A questo proposito dissente da un altro maestro, Roscellino di Compiègne, accusato di aver sostenuto che gli universali erano fatti puramente vocali, soltanto suoni (materia vocis), pure e semplici emissioni di voce (flatus vocis) prive di qualsiasi corrispettivo nella realtà. Abelardo ritiene invece che gli universali siano dotati di significato, cioè si riferiscono a qualcosa. La loro funzione significativa però non consiste in un rapporto diretto fra la parola e la cosa da essa indicata (come invece avviene con i termini singolari, tipo Napoleone rimanda a quel preciso personaggio storico), bensi ̀nella capacità di generare, in chi ascolta, un concetto generale (ad esempio: Impero): un concetto che rimanda a un insieme di enti individuali (l’impero britannico, quello di Napoleone ecc.) considerati nei loro aspetti comuni, non a qualcuno di loro in particolare. I concetti di questo tipo, non avendo come corrispettivo una singola res, risultano vaghi e indeterminati, ma devono comunque avere un fondamento nella realtà: tale fondamento va ricercato nel “modo d’essere” comune a una pluralità di individui, nell’insieme di caratteristiche che li accomuna e li rende simili, sebbene siano e restino distinti. È proprio nel “modo d’essere” comune ai vari imperi della storia che Abelardo individua il motivo per cui li indichiamo con un unico termine. Il significato dei termini universali non è quindi una res, un’essenza, come pensavano i realisti, ma uno stato di cose (status rei): una quasi-cosa. (giustifica perché gli studiosi chiamino quello di Abelardo un quasi-realismo). Come si formano quei concetti generali nei quali si individua il significato degli universali? Essi sono il risultato di un’operazione della mente mediante la quale si prendono in considerazione gli aspetti che accomunano gli individui di una specie o le specie di un genere, ignorando le differenze che esistono fra loro. L’intelletto ricava dunque i concetti universali dalle cose sensibili, a posteriori (post rem), attraverso un processo di astrazione: grazie a quest’ultimo la mente umana considera separatamente ciò che nella realtà non è separato e può quindi raccogliere nella medesima classe tutti gli individui che condividono uno specifico “modo d’essere”. Pur non riproducendo esattamente la realtà, i concetti universali colgono uno “stato reale”, fotografano un aspetto della realtà. Come si è visto, la posizione di Abelardo ebbe la meglio sulle tesi sostenute da altri maestri a lui contemporanei, ma la questione non era certamente risolta una volta per tutte: avremo modo di vedere che essa tornò al centro di vivaci discussioni tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo. V. LA RISCOPERTA DELLA NATURA NEL XII SECOLO  Un’epoca di rinascita: Dopo l’anno Mille si è aperta una stagione di straordinario sviluppo, innanzitutto economico. La produzione agricola conosce un impennata, e a sua volta, lo sfruttamento più intenso della terra è connesso al vero e proprio boom demografico dei secoli XI e XII. Il miglioramento della produzione agricola, poi, porta allo sviluppo del commercio e un ulteriore effetto di queste trasformazioni sono la rinascita dei traffici e il risveglio dei centri urbani. Oltre ai mercati e alle fiere, in cui si vendono prodotti agricoli provenienti dalle campagne e quelli artigianali realizzati all’interno delle mura cittadine, i centri urbani cominciano ben presto a ospitare nuove scuole. Sebbene pochi fra questi centri scolastici di nuova fondazione siano laici, essi pongono fine al monopolio culturale esercitato per molti secoli dai 17 monasteri, ed elaborano un tipo di sapere più aperto. Si attenua così la convinzione che ogni forma di studio debba sempre essere ricondotta a finalità religiose, permettendo a materie come il diritto, la medicina e la fisica di acquisire autonomia rispetto allo studio delle Sacre Scritture. Rivolgendosi ora a un pubblico più vasto, che comprende i ceti urbani emergenti, i maestri discutono di questioni nuove e offrono risposte originali ai problemi già posti in precedenza. Le scuole cittadine diventano ben presto luoghi dove si sperimentano forme di insegnamento e di riflessione radicalmente innovative. Protagonista indiscusso di questa rivoluzione culturale è un nuovo tipo di intellettuale, perfettamente incarnato da Pietro Abelardo, che esercita la sua professione in scuole che appaiono come laboratori artigianali in cui ci si può avvalere di libri antichi. Infatti, ci fu un enorme lavoro di traduzione dal greco e dall’arabo, restituendo all’Europa molti testi filosofici (Platone e Aristotele, innanzitutto) e scientifici (Euclide, Tolomeo, Galeno) dell’antichità. Il patrimonio di conoscenze dell’Europa aumenta a dismisura.  Verso una nuova immagine del mondo: Fra gli elementi di originalità introdotti nel XII dagli intellettuali, spicca un nel modo del tutto nuovo di guardare alla natura, che viene percepita come un insieme ordinato di fenomeni, una catena di cause ed effetti, in grado di diventare oggetto di un’indagine razionale e sistematica. Si fa strada l’idea, dunque, che la natura sia una realtà le cui forze e leggi possono, o meglio, devono essere studiate e spiegate. Questo segna un forte distacco dalla tradizione culturale precedente, che tendeva a vedere i fenomeni naturali una manifestazione diretta e immediata della volontà divina. Alla base di questa lettura del mondo c’era l’idea che dietro gli eventi straordinari e quelli consueti vi fosse sempre e soltanto il volere di Dio, il cui intervento causava qualsiasi fenomeno naturale e bastava a spiegarlo. Ne derivava una visione della natura come continua manifestazione di Dio (teofania), che investiva di sacralità il mondo fisico e gli sottraeva ogni autonomia, riducendolo a semplice simbolo di un ordine soprannaturale. La polemica contro quello che veniva ritenuto uno sterile tentativo di cogliere i principi fisici con gli strumenti della ragione aveva raggiungo il culmine, nel XI secolo, con il monaco Pier Damiani, che affermava che non aveva senso che l’uomo pretendesse di individuare le leggi dell’universo, dato che ogni aspetto della realtà naturale trae origine da un atto imperscrutabile della volontà divina. Sulla base di questi presupposti, nei suoi scritti più importanti egli denunciava la debolezza della logica e del linguaggio umani, del tutto incapaci di cogliere e descrivere la realtà intima delle cose.  La scuola di Chartres e lo studio del mondo fisico: Un gruppo di maestri che insegnavano nella scuola sorta presso la cattedrale di Chartes si schierò per la prima volta contro la concezione della natura sino ad allora dominante. Contestano soprattutto il ricorso della volontà divina come spiegazione necessaria e sufficiente di ogni evento naturale e affermano la legittimità della fisica come disciplina di studio dotata di un metodo specifico e di valore autonomo. Quindi il cosmo non è più solo un oggetti di fronte al quale inginocchiarsi pieni di stupore e ammirazione, ma anche qualcosa di cui bisogna analizzare le regole di funzionamento. Si tratta di un atteggiamento ben esemplificato da un passo delle Quaestiones naturales di Adelardo di Bath, un maestro inglese che insegna a Laon e Tours: egli affermava che sebbene gli eventi abbiano luogo per volere di Dio, gli eventi fisici avvengono secondo un ordine che “deve essere interpretato, per quanto è possibile alla scienza umana”. Dalla scienza araba, Adelardo dice di aver imparato a osservare attentamente le circostanze in cui si danno i fenomeni del mondo, così da coglierne i nessi causali. Troviamo lo stesso atteggiamento metodologico lo troviamo in Guglielmo di Conches, anch'egli assai critico verso la tradizione. Nei suoi scritti (fra cui un commento al Timeo, il trattato Philosophia mundi e il Dragmaticon philosophiae) conduce una polemica contro chi fa continuamente appello all’onnipotenza divina per comprendere quanto accade in natura. In tutte le cose, secondo lui, si deve cercare la ragione e indagare le cause dei fenomeni fisici, indagare i meccanismi della natura. Egli respinge la tesi secondo 20 Al-Kindi fa propria la distinzione aristotelica fra i due intelletti e attribuisce al singolo uomo unicamente quello “potenziale” (o “possibile”), che passa dalla potenza all’atto solo per influsso dell’intelletto attivo: quest’ultimo è considerato da al-Kindi un’intelligenza trascendente, separata dal corpo e dall’anima di ciascun individuo, unica e universale, cioè comune a tutti gli uomini. Mezzo secolo più tardi, la dottrina aristotelica dell’intelletto richiama l’attenzione di un altro illustre pensatore islamico, il filosofo di origine turca al-Farabi, il quale tiene ben distinti l’ambito religioso e quello filosofico. L’Epistola sull’intelletto e le pagine della Città virtuosa prendono avvio dalla tesi di al- Kindi secondo cui solo l’intelletto potenziale è parte dell’anima individuale, per poi compiere un passo ulteriore: al-Farabi colloca l’intelletto agente (che fa uscire l’intelletto potenziale dal suo stato di inerzia e di passività illuminandolo e attualizzandolo, cosi ̀come il sole dona all’occhio l’effettiva capacità di vedere) al grado più basso di una scala di intelligenze, ognuna delle quali presiede al movimento di una sfera celeste. Egli, quindi, rilegge la teoria dell’intelletto contenuta nel De anima alla luce di un concetto cardine del neoplatonismo, l’idea che il cosmo sia formato da una molteplicità di intelligenze motrici che discendono da Dio “per emanazione”, secondo un ordine rigorosamente gerarchico. Questa era considerata l’idea più adatta a preservare l’assoluta trascendenza di Dio, poiché lo sottraeva a ogni contatto con la realtà. Al-Farabi identifica l’intelletto separato del De anima con l’ultima delle intelligenze celesti, facendone la causa efficiente di tutta la conoscenza umana. III. METAFISICA E TEORIA DELLA CONOSCENZA IN AVICENNA: La soluzione farabiana della questione dell’intelletto viene poi ripresa da Ibn Sina, noto in Occidente come Avicenna (980 – 1037), il quale la inserisce in un contesto più ampio, che riguarda la struttura del reale: nella sua riflessione teoria della conoscenza, cosmologia e metafisica sono strettamente collegate. Affronta i temi metafisici nell’ultima parte del suo scritto più importante, il Libro della guarigione, una grande enciclopedia filosofica in cui le dottrine aristoteliche vengono esposte in maniera sistematica e spesso interpretate alla luce di alcune tesi neoplatoniche. Il punto di partenza obbligato della metafisica sia “l’essere in quanto tale” infatti qualunque sia la cosa alla quale pensiamo la concepiamo innanzitutto come un ente, come qualcosa dotato di esistenza. L’oggetto corrispondente a tale nozione astratta si suddivide in: essere necessario, ossia ciò la cui non esistenza implica contraddizione e essere possibile (o contingente), ossia ciò che può essere concepito come non esistente. L’esperienza sensibile però non ci fa mai conoscere nulla che sia di per sé necessario, ma solo realtà contingenti, la cui esistenza è prodotta da determinate cause, che a loro volta traggono il loro essere da altro. Perciò il mondo che conosciamo è un insieme di esseri semplicemente possibili, la cui esistenza effettiva (cioè in atto) richiede una causa necessaria: questa causa, l’essere che esiste necessariamente e conferisce l’esistenza a tutto il resto, è Dio. Secondo la definizione di Avicenna, dunque, Dio è l’unico nel quale essenza ed esistenza coincidano, il solo, cioè, la cui essenza abbia in sé la causa della sua esistenza: in ciò sta la sua assoluta semplicità. In tutte le altre cose invece l’essenza e l’esistenza sono distinte. Il processo per cui ogni cosa riceve da Dio la propria porzione di essere è come un processo “emanativo”: il mondo deriva da Dio come l’acqua fluisce da una sorgente o la luce si irradia da una fonte luminosa. Il passaggio da Dio a tutti gli altri esseri (che presi in sé sono puri, possibili e divengono necessari solo grazie all’intervento divino) non è ricondotto a una libera decisione divina, ma Avicenna ritiene che si tratti di un processo necessario ed eterno: un processo alla cui origine vi è la scienza che Dio ha di sé stesso, l’atto intellettivo con cui si conosce. Questo atto innesca una reazione a catena, ossia una sequenza di operazioni di tipo intellettivo, attraverso cui il flusso di essere che sgorga da Dio produce una scala di intelligenze celesti, ognuna delle quali genera la successiva: l’ultima di queste intelligenze (quella che presiede al cielo della luna) coincide, per Avicenna come per al-Farabi, con l’intelletto agente separato del De anima. Ne discende che è questa intelligenza, comune all’intera umanità, a illuminare l’intelletto potenziale di ciascun individuo, fornendo gli intelligibili che lo fanno passare dalla potenza all’atto e rendono cosi ̀ possibile il processo conoscitivo. Nello schema di Avicenna essa funge anche da principio ordinatore del mondo sublunare, dando origine alle forme di tutti gli esseri materiali che appartengono a quel mondo. 21 Fra le forme ordinatrici che si “irradiano” dall’intelletto agente celeste e si uniscono alla materia del mondo sublunare ci sono anche le anime umane. Avicenna fa propria la definizione aristotelica di anima come forma e perfezione di un corpo organizzato, ma sottolinea che questa è solo una delle sue funzioni (e neppure la più alta): l’unione dell’anima e il corpo è una relazione accidentale. Avicenna, quindi, concorda con la tradizione platonica (pur adottando una terminologia aristotelica) nel presentare l’anima come una sostanza spirituale, indipendente dal corpo, che essa usa come uno strumento e al quale è temporaneamente congiunta in qualità di suo motore. Questa natura di sostanza separata trova ulteriore conferma nel fatto che fra le funzioni dell’anima umana rientra anche una capacità di conoscenza intellettiva, l’intelletto potenziale, che non opera necessariamente attraverso il corpo, non ne dipende primariamente. Nella riflessione di Avicenna, per questo, l’attribuzione di un intelletto possibile a ogni essere umano mira a dimostrare la spiritualità e l’immortalità dell’anima individuale, in accordo con il Corano. Affinché l’attitudine di ciascun uomo a ricevere le forme intelligibili smetta di essere solo potenziale è necessario l’intervento di un’intelligenza in atto. Occorre che il nostro intelletto potenziale acquisisca le orme intelligibili irradiate continuamente dall’ultima delle intelligenze motrici che emanano da Dio. IV. LA SFIDA DI AVERROÈ: Nato a Cordova nel 1126 da un’illustre famiglia, studiò diritto, medicina e filosofia. Nel 1168 entrò a far parte della corte almohade, presso la quale ricoprì incarichi di prestigio, prima di cadere in disgrazia. Averroè fu infatti processato con l’accusa di anteporre il pensiero greco alle verità rivelate: il processo si concluse con il suo esilio e la condanna delle sue dottrine filosofiche. La notorietà di Averroè è legata soprattutto ai commenti di tutti gli scritti aristotelici – con l’unica eccezione della Politica – che gli valsero il titolo di “Commentatore” per eccellenza. Per quanto riguarda il De Anima, egli condivide con Avicenna l’idea che l’intelletto agente sia separato e comune a tutti gli uomini, gli attribuisce un ruolo centrale nel processo intellettivo e lo identifica con la più bassa delle intelligenze celesti. Tuttavia, colloca all’esterno del singolo essere umano anche quello che Aristotele aveva definito “intelletto passivo” e che Averroè chiama “Intelletto materiale”. Averroè lo ritiene unico per l’intera specie umana: se avesse una natura individualizzata priverebbe della loro universalità le forme intelligibili astratte accolte dall’intelletto agente. Averroè elimina qualsiasi legame fra anima intellettiva e singolo essere umano, facendo dell’intelletto “potenziale” una sostanza separata dal corpo di ciascun individuo. Solo l’anima vegetativa e quella sensitiva possono dirsi propriamente “forma del corpo”. Non c’è quindi una parte dell’uomo che sopravviva alla morte corporea. Averroè garantisce l’immortalità solo all’umanità nel suo complesso, a differenza di Avicenna, concependola come sopravvivenza dell’intelletto universale. Sotto questo profilo era una dottrina inaccettabile per chi professasse una religione fondata sul dogma dell’immortalità individuale, per questo incontrò una severa opposizione della Chiesa cristiana quando iniziò a diffondersi in Occidente. Un altro aspetto della sua riflessione riguarda la relazione tra filosofia e ragione, tema trattato in due scritti: Lo svelamento dei metodi di prova dei dogmi religiosi e il Trattato decisivo sulla connessione della filosofia con la religione. Composti sul finire del XII, entrambi i tesi (il secondo soprattutto) mirano a provare come la speculazione filosofica sia consentita e, anzi, prescritta dalla legge rivelata. (Nel Corano, infatti, c’è un invito a studiare la natura per cogliere il piano razionale in base al quale è stata creata). Ha un ruolo centrale la convinzione che tutti debbano accogliere le verità religiose, rispetto alle quali gli uomini possono apprendere in modo diverso. Li suddivide quindi in 3 categorie: - Il volgo: massa di individui sprovvisti di istruzione e impossibilitati a spingersi oltre il significato letterale del Corano. - I teologi: le cui conclusioni sono ottenute mediante sillogismi dialettici. - I filosofi: gli unici ad avere alla loro portata un’interpretazione certa della rivelazione coranica, grazie al rigore del metodo dimostrativo. 22 Averroè, dunque, rivendica la superiorità della filosofia con la distinzione aristotelica fra argomenti dialettici e argomenti dimostrativi, fra sillogismi basati su premesse semplicemente probabili e sillogismi costruiti su principi evidenti. Ne deriva che soltanto i filosofi sanno affrontare e risolvere le più complesse questioni sollevate dalla lettura del testo sacro. Nella dottrina di Averroè non c’è traccia della “dottrina della doppia verità”, ovvero della tesi secondo cui la verità filosofica si opporrebbe a quella religiosa. Ci sono parti in cui sembra suggerire implicitamente che i filosofi possano “mettere da parte” la rivelazione ma l’obiettivo di quelle parti è affermare il diritto di praticare liberamente la filosofia, purché questo sia rispettato, filosofia e religione possono darsi reciproco sostegno. Quindi il filosofo accetta il Corano ma dispone di un sapere che gli permette di valutarne alcune verità da un punto di osservazione privilegiato. Filosofia e religione, in ultima analisi, trattano in modi diversi della stessa realtà. A vantaggio del filosofo gioca il fatto di poter contare su un linguaggio e un metodo più evoluti, grazie ai quali è possibile pervenire, per via razionale, a un grado superiore di comprensione della realtà. V. AVICEBRON E IL PENSIERO EBRAICO NELL’IX SECOLO: Il primo pensatore ebraico che attirò l’attenzione del mondo latino fu Salomon Ibn Gabirol (1021 – 1051), che la cristianità conobbe come Avicebron. Lo scritto filosofico più significativo fu Il libro della fonte della vita, tradotto in latino nel 1150 da Gundisalvi (figura di spicco per le traduzioni di quegli anni a Toledo). Il libro è particolarmente importante perché contiene una tesi con cui si confrontarono i principali teologi cristiani del XIII secolo: l’affermazione secondo cui, escluso Dio, tutti gli esseri sono composti da una forma e da una materia. Teorizzare che in natura non è mai esistita una materia del tutto informe, e dunque ipotizzare una composizione “ilomorfica” per l’intero creato, significa attribuire un qualche genere di materialità anche alle sostanze spirituali, come le intelligenze celesti o l’anima intellettiva. In questi casi la materia a cui si unisce la forma non è una materia corporea, bensi ̀ spirituale: va intesa come un principio di indeterminazione che oppone resistenza alla forza ordinatrice della forma. Molti maestri francescani, fra i quali Alessandro di Hales, Tommaso di York, Bonaventura da Bagnoregio accolsero questo principio perché poneva una distinzione netta fra le creature e l’assoluta semplicità del creatore. Tale principio fu invece contestato da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, secondo i quali la capacità intellettiva delle anime e degli angeli ne dimostrava l’immaterialità. In Avicebron la dottrina dell’ilomorfismo si accompagna a quella della “pluralità delle forme”, all’idea che in ogni ente vi sia una molteplicità di forme. Consideriamo un corpo qualsiasi, esso non ha un’unica “forma sostanziale” (come riteneva Aristotele) ma viene determinandosi per quello che è grazie alla progressiva acquisizione di varie forme, ognuna delle quali si sovrappone alle precedenti, qualificando ulteriormente il corpo in questione. È l’insieme di tali forme che distingue ciascuna creatura da tutte le altre: se infatti la materia è l’elemento comune a tutti gli esseri, a differenziarli devono necessariamente essere le loro forme. VI. L’INCONTRO FRA LA FILOSOFIA EBRAICA E LA CRISTIANITÀ: MAIMONIDE: In Spagna meridionale fu molto famoso Moseh ben Maymun, conosciuto come Mosè Maimonide (1135 – 1204) il cui pensiero influì sulla filosofia cristiana tardomedievale. La sua opera principale è la Guida dei perplessi, un testo rivolto a chi era incerto sul modo in cui le conclusioni della filosofia potessero coesistere con una riflessione basata sulla rivelazione. Nelle principali università europee si guardò al testo di Mosè come a un modello al quale rifarsi per superare il disorientamento suscitato dalle numerose dottrine di Aristotele inconciliabili con la rivelazione. Ciò che venne più apprezzato fu il suo atteggiamento di fondo ispirato a un sano realismo. La convinzione che il più delle volte la ragione sia in grado di dimostrare i dati di fede si accompagna alla consapevolezza dell’impossibilità di provare tutti i dogmi religiosi. A suo parere alcune verità rivelate rimangono fuori dalla portata della filosofia, ad esempio che Dio ha creato il mondo nel tempo. Altri materiali che i cristiani trassero dalla Guida dei perplessi sono la teoria dell’intelletto (identica a quella di Avicenna) e le considerazioni sul tema degli attributi divini. Al centro di queste considerazioni 25 approfonditi soprattutto temi medici, matematici e astronomico-astrologici, in continuità con gli interessi scientifici coltivati a Chartres nel secolo precedente. Questo atteggiamento accomuna pensatori che studiano e lavorano all’università di Oxford. Emblematica è la figura di Roberto Grossatesta, i cui scritti contengono un sistema filosofico che coniuga scienza aristotelica e metafisica platonica. Roberto trae uno dei cardini della sua fisica da Platone, la convinzione che la luce abbia un ruolo fondamentale nella costituzione dell’universo, ruolo connesso alla tendenza di irradiarsi in tutte le direzioni. Egli crede di trovare nella testimonianza della Genesi una conferma della sua idea che la luce rappresenti la prima forma di tutte le cose create: Dio crea dal nulla la materia prima e la forma di questa materia, cioè la luce, si diffonde per sua natura in ogni direzione dilatando la materia a cui è inseparabilmente unita, fino a segnare i confini estremi del creato. Il limite massimo di propagazione della luce coincide con la prima sfera del cosmo aristotelico, le stelle fisse. Una volta esaurita la spinta, la luce compie a ritroso il cammino precedente, tornando verso il centro dell’universo. In questo modo traccia un reticolo luminoso che si può paragonare allo scheletro del sistema cosmologico descritto nel De caelo, composto da dieci sfere concentriche. Grossatesta ritiene essenziale fondare lo studio della natura sulle scienze matematiche, le uniche capaci di cogliere il tessuto dell’universo e di individuare le ragioni di ogni fenomeno. La consapevolezza della necessità di assegnare un ruolo chiave alle arti del quadrivio è ciò che ha più influenzato il suo allievo più celebre, Ruggero Bacone. Egli condivide con il suo maestro la convinzione che la struttura metafisica del mondo reale sia matematico-geometrica e che le qualità fisiche siano interamente riconducibili a elementi quantitativi.  Aprire le porte ad Aristotele: Alberto Magno: Un altro pensatore del XIII secolo importante è il maestro domenicano Alberto Magno, egli avverte con forza l’esigenza di immettere la filosofia e l’opera scientifica di Aristotele e dei suoi principali commentatori nella cultura del tempo, sebbene sia conscio dell’impossibilità di conciliarle pienamente con la rivelazione cristiana. Egli studia soprattutto Aristotele, e ne fa propria la tesi secondo cui il divenire del mondo sublunare dipende dal moto delle sfere celesti, ma la rilegge alla luce dell’interpretazione platonizzante dei commentatori islamici. Questi vedevano nei cieli gli strumenti grazie ai quali le idee presenti nell’intelletto divino si uniscono alla materia generando ogni singolo essere. Da tutto questo Alberto deduce una concezione magico-astrologica del cosmo: se si esclude l’anima razionale (che dipende direttamente dal creatore), ogni cosa naturale è mossa in prima istanza da forze celesti, che possono essere utilizzate dalla magia naturale. Una simile visione del mondo è connessa alla teoria della creazione che Alberto riprende da Avicenna e dal Liber de causis attribuito erroneamente ad Aristotele, in cui la creazione viene descritta come un processo di emanazione da Dio: in tale processo, infatti, Dio dà alla materia le forme di tutti gli esseri attraverso la mediazione delle “intelligenze celesti”, cioè quelle che presiedono al movimento delle diverse sfere celesti.  Il controllo dottrinale delle università: Di fronte alla scoperta dei “libri naturali” e della Metafisica di Aristotele, l’azione delle autorità ecclesiastiche fu rivolta immediatamente a contrastarne la diffusione, nel tentativo di impedire il “contagio” della concezione del mondo contenuta in quegli scritti. Esemplari furono, all’università di Parigi, i divieti del 1210 e del 1215. Accomunavano nella condanna la filosofia naturale di Aristotele e gli scritti di Amalrico di Bène e Davide di Dinant, che pare fossero approdati a una sorta di panteismo, portando a conseguenze estreme aspetti del platonismo di Scoto Eurigena. Nel 1210 il massimo organismo della Chiesa parigina, il sinodo vescovile, dispose che alla Sorbona nessuno facesse lezione sulla fisica aristotelica, pena la scomunica. Era ammessa la consultazione dei “libri naturali” ma potevano far parte dei corsi. Alcuni discepoli di Amalrico e il principale scritto di Davide di Dinant finirono sul rogo. Cinque anni dopo, su incarico di papa Innocenzo III, il cardinale Roberto di Courcon ribadì i divieti del 1210, in cui si stabiliva che le opere logiche di Aristotele e la sua etica potevano 26 essere inserite nei programmi di studio della facoltà delle Arti, non potevano invece la fisica e la filosofia naturale e ogni altro testo che contenesse una sintesi di quegli argomenti. Si mirava a colpire un sistema di pensiero che offriva una spiegazione complessiva del cosmo ma prescindeva dalle verità rivelate. Una parziale inversione si ebbe nell’anno 1231 quando papa Gregorio IX decretò che gli scritti aristotelici di argomento fisico e metafisico non avrebbero potuto essere oggetto di lezione alla Sorbona fino a che non fossero stati depurati da tesi sospette. Il papa, quindi, mitigava i divieti e sembrava riconoscere ai testi una qualche utilità didattica. Ma nulla poteva impedire il dilagare delle nuove idee: negli statuti del 1252 e del 1255 la facoltà delle Arti adottò come manuali tutte le opere di Aristotele conosciute a quella data, inclusi il De caelo, la Fisica, la Metafisica e il De generatione et corruptione. II. TOMMASO D’AQUINO: L’auctoritas di Aristotele ha un peso decisivo nel pensiero di Tommaso d’Aquino, il quale muove da essa per provare a dare risposta a una serie di grandi interrogativi intorno ai quali si impegna quasi tutta la riflessione filosofica tardomedievale. Il sistema di pensiero di Aristotele viene ripensato radicalmente, sulla scia di quanto avevano fatto i suoi interpreti arabi, in modo da eliminarne gli aspetti più controversi e mostrarne la piena compatibilità con la dottrina cristiana.  La vita e le opere: Tommaso nacque intorno al 1225 nel Regno di Napoli. Intorno al 1240 si reca a Napoli e inizia a frequentare la facoltà delle Arti. Qui viene in contatto con alcuni frati domenicani e decide di entrare nell’ordine. Da Napoli fu mandato a Colonia, dove segue i corsi di teologia tenuti da Alberto Magno grazie al quale inizia la carriera universitaria. Dopo il baccalaureato insegna due anni all’università di Parigi e torna in Italia nel 1259, per poi tornare a Parigi nel 1269. Tommaso poi fu coinvolto nella polemica tra maestri secolari e professori provenienti dagli ordini mendicanti. Prese posizione contro la nuova corrente “averroista”. Nel 1272 torna a Napoli e muore il 7 marzo 1274 nell’abbazia di Fossanova, sulla via che doveva condurlo al concilio di Lione indetto da papa Gregorio X. Della produzione di Tommaso, particolarmente ampia, sono da ricordare: Commento alle Sentenze, De ente et essentia, Summa contra gentiles (esposizione sistematica dei capisaldi del credo cristiano, che vengono difesi dalle critiche dei pagani (i Gentili) e dei miscredenti, il commento al De trinitate di Boezio, Contra impugnantes Dei cultum et religionem (scritto per rispondere ai duri attacchi di Guglielmo di Sant’Amore, capofila dei maestri secolari), le Quaestiones disputatae de veritate, la Summa theologiae, Quaestiones disputatae de potentia, il De regimine principum, il De perfectione vitae spiritualis, De aeternitate mundi (in polemica con gli averroisti latini), il commento al Liber de causis e un gran numero di commenti agli scritti aristotelici che utilizzano le traduzioni del domenicano fiammingo Guglielmo di Moerbeke.  L’approdo a una teologia scientifica: L’aspetto piu rilevante della sua speculazione filosofica è il modo in cui tenta di conferire alla teologia una struttura e un carattere “scientifici”, nel farlo si cimenta con il problema del “se lo studio delle cose sacre sia una scienza”, se il sapere fondato sui contenuti della rivelazione possa essere impostato secondo i criteri di scientificità stabiliti dagli Analitici secondi di Aristotele. Il primo a suggerire una risposta affermativa a tale quesito fu il teologo Guglielmo di Auxerre, secondo il quale è possibile assimilare gli articoli di fede ai principi primi delle scienze. Differente fu la direzione presa dai più illustri intellettuali francescani del XIII secolo, fra i quali Alessandro di Hales, che consideravano la teologia un sapere di tipo eminentemente pratico, ossia volto a difendere le verità di fede e a insegnare la vita per la salvezza. Sull’importanza del coinvolgimento della volontà insiste un altro grande maestro francescano, Bonaventura da Bagnoregio, convinto che il solo intelletto sia insufficiente ad assicurare una reale comprensione della fede. Più sfumato appare il giudizio 27 di Oddone Rigaldi, il quale non teorizza esplicitamente la possibilità di una teologia scientifica, ma nelle sue Quaestiones disputatae recupera l’idea di Guglielmo di Auxerre e sottolinea come sia del tutto legittimo istituire un’analogia fra gli articoli di fede e gli assiomi delle varie scienze. Oddone rimane però convinto che la teologia sia superiore a qualsiasi altro sapere. In modo analogo, Bonaventura afferma che la filosofia e ogni altra scienza umana sono soltanto i gradini preliminari attraverso cui l’uomo si può sollevare fino alla teologia, vista come il culmine della conoscenza umana. Il domenicano Alberto Magno è attestato su posizioni diverse: egli dice che alcune dottrine teologiche non si accordano con quelle filosofiche, tuttavia non giustifica chi si oppone allo studio della filosofia. La soluzione che propone consiste nel tenere separate teologia e filosofia, le quali si fondano su principi diversi: le teorie teologiche si basano sulla rivelazione e non possono essere oggetto di discussione, la filosofia si deve occupare di ciò che è accessibile alla ragione umana. Alberto, quindi, rivendica l’autonomia della speculazione filosofica. A segnare una svolta decisiva in questo dibattito fu Tommaso: infatti, egli intende dimostrare come sia possibile impostare il lavoro del teologo secondo i criteri di ogni vero sapere scientifico. L’ostacolo maggiore di chi cercava di conferire alla sacra doctrina uno statuto scientifico era rappresentato dalla natura tutt’altro che evidente delle verità rivelate. Secondo gli Analitici secondi, invece, perché un sapere sia veramente scientifico deve procedere da principi evidenti, noti di per sé, e dedurre da queste premesse indimostrabili tutte le conclusioni che ne derivano. La soluzione adottata da Tommaso per aggirare questo ostacolo passa attraverso l’equiparazione fra gli articoli di fede, cioè le verità essenziali della rivelazione, e i principi sui quali si regge qualunque scienza. Egli ammette che la profondità dei principi appresi per fede è superiore alle forze della ragione umana, la quale non può averne una comprensione piena, però è Dio che illumina la mente del credenti fino a conferire una certa evidenza a quei principi. A suo dire, il caso del teologo che accoglie per fede i principi della sua disciplina senza possederne un’evidenza assoluta non è poi tanto diverso da quanto avviene in altre forme di sapere umano. Qui si rifà alla dottrina aristotelica della subalternatio delle scienze (Analitici secondi), secondo la quale il campo del sapere è strutturato gerarchicamente e vi sono scienze che ricevono da altri saperi i principi su cui sono costruite. È questo, ad esempio, il tipo di relazione che sussiste fra la farmaceutica (scienza subalterna) e la medicina (scienza subalternante). Qualcosa di simile accade, secondo Tommaso, nel caso della “teologia nostra”, cioè il sapere teologico a portata dell’uomo: l’evidenza delle premesse dei suoi sillogismi deriva dalla conoscenza che Dio ha di sé. Sia nel commento al De trinitate boeziano sia nella Summa theologiae, la teoria della subalternazione è il pilastro su cui il filosofo domenicano fonda la sua trattazione della scienza teologica. In definitiva la ragione teologica procede applicando le regole della dimostrazione scientifica ai misteri della fede che Dio ha rivelato a ogni credente: il significato di questi misteri rimane sempre parzialmente oscuro alla mente umana, che ne ha conoscenza inferiore a quella di Dio.  Teologia e filosofia: Tommaso ritiene impossibile che le sue conclusioni siano in contrasto con quelle ottenute dalla ragione filosofica. La verità è una, infatti, e né l’intelletto, né la rivelazione possono essere ingannevoli. A detta Bonaventura da Bagnoregio: È l’esponente più illustre di un filone del pensiero medievale che viene solitamente definito mistico. Coloro che ne fanno parte recuperano dal neoplatonismo cristiano l’idea di un itinerario di avvicinamento a Dio: una sorta di pellegrinaggio, all'inizio del quale l’uomo è chiamato a cercare nel mondo esterno le tracce del creatore, per poi sollevarsi dal mondo della materialità, rientrare nella propria anima e trascendere anch’essa. Al termine di questo percorso, Dio si rivela al singolo individuo. Questa unione spirituale dell’uomo con Dio viene descritta come un’esperienza di tipo affettivo, resa possibile dal lavoro preparatorio della ragione, che poi però supera, spingendosi oltre le capacità della ratio. Fra gli autori che condividono queste idee sono da citare almeno Bernardo di Clairvaux e Gregorio Magno. 30 Nel pensiero di Tommaso, dunque, assumono grande rilievo le idee di ciascuna creatura contenute nella mente divina. Tommaso respinge la tesi di chi considera gli esseri naturali solo un riflesso delle idee divine e li priva di qualsiasi autonomia e valore. Privarli della capacità di produrre effetti equivale a misconoscere la bontà e la perfezione di Dio, il quale invece ha voluto che le cose create gli fossero simili anche per quanto concerne l’agire (non solo l’essere). Le creature, quindi, sono dotate di una natura piena e di un’attività loro propria. Tornando a Dio, dobbiamo aggiungere che proprio la sua particolare natura spiega le difficoltà incontrate da chiunque cerci di darne una definizione, come pure i limiti del linguaggio con cui gli uomini vi si riferiscono. Un primo modo corretto di procedere è rimuovere da Dio tutto quello che non gli deve essere attribuito (mutevolezza, potenzialità, corporeità). Inoltre, non sapendo esattamente che cosa Dio sia, non essendo in grado di coglierne la realtà piena, possiamo mostrare che cosa non è. Tommaso, tuttavia, pensa che esista una seconda strada per parlare di Dio: possiamo conoscerlo e designarlo sulla base di analogie che sussistono fra lui e le cose, riferendoci quindi a quegli aspetti per i quali le creature gli sono parzialmente simili. Diversamente da Maimonide, Tommaso ritiene che i nomi con cui indichiamo Dio non siano equivoci, ma che invece ci permettano di farci un’idea (seppur imperfetta e approssimativa) sugli attributi divini: se riferito a Dio e agli enti finiti, il termine “essere” non conserva il medesimo significato, ma ha comunque un significato analogo.  Il mondo e l’uomo: A giudizio di Tommaso, la tesi della creazione temporale del mondo, l’idea che esso abbia avuto inizio nel tempo per libera iniziativa di Dio, rientra tra le verità di fede che superano la ragione umana: solo la rivelazione ci garantisce che l’universo ha una data di nascita, che c’è stato un istante t0 in cui il mondo ha iniziato ad essere. Il cosmo descritto da Tommaso è caratterizzato da una struttura rigorosamente gerarchica. Al vertice del creato si trovano gli angeli: sostanze semplici e immateriali (forme pure) che Tommaso identifica con le intelligenze motrici dei cieli. Esse sono ordinate gerarchicamente a seconda di come realizzano l’atto che è loro proprio, cioè la conoscenza intellettiva delle idee presenti nella mente di Dio. A un livello inferiore troviamo l’uomo, che ha una collocazione mediana, al confine fra il mondo delle sostanze spirituali e il mondo della corporeità. In ogni uomo si ha infatti l’unione di un corpo (materia) con un’anima intellettiva (forma) che costituisce l’ultima delle intelligenze angeliche. L’uomo è quindi una sostanza composta. Pertanto, agli occhi di Tommaso, l’anima umana rappresenta l’unico caso in cui la forma di una sostanza composta è anche, contemporaneamente, una sostanza semplice, spirituale e immortale. Tommaso condivide con Aristotele l’idea che la conoscenza umana cominci sempre dai sensi. L’anima intellettiva umana non è in grado di apprendere direttamente gli intelligibili, ma può conoscere le forme delle cose solo nella loro unione con i corpi, vale a dire soltanto grazie all’esperienza sensibile. Tuttavia, l’anima non considera queste forme cosi ̀ come si trovano nelle cose sensibili ma nel loro aspetto universale, andando oltre l’esperienza e astraendo gli elementi comuni (gli universali) dalle specificità degli individui; funzione che prescinde dalla mediazione dei sensi, a conferma della sua natura “separata”. Accanto all’intelletto, l’altra facoltà che caratterizza ogni essere umano è la volontà, concepita da Tommaso come la tendenza dell’uomo a realizzare pienamente la propria natura. Gli uomini sono inclini ad agire in vista di determinati scopi: ciascun ente corrisponde a un’idea divina su cui è modellato, ossia esiste solo in quanto conosciuto e voluto da Dio, e tende a svolgere la funzione assegnatagli. Nell’uomo però, tale tendenza a realizzarsi è consapevole e razionale: egli è conscio delle proprie finalità e vi si dirige volontariamente, avvalendosi delle indicazioni dell’intelletto. Da ciò discendono due conseguenze: 1. La volontà umana tende in maniera del tutto libera verso quello che le si presenta come bene (perché solo un oggetto che fosse bene sotto ogni aspetto potrebbe attirarla irresistibilmente). Perciò 31 l’uomo decide sulla base di un ragionamento di tipo pratico, con cui pone a confronto i diversi beni e sceglie quello giudicato più utile al raggiungimento del suo fine. 2. L’anima intellettiva ha un certo primato nei confronti della volontà, la cui libertà è garantita proprio dal fatto di operare secondo il giudizio dell’intelletto. (Pensiero sulla scia di Aristotele).  L’uomo, la società, lo Stato: L’influenza del pensiero aristotelico fece sentire i suoi effetti anche nell’ambito della riflessione politica di Tommaso e degli intellettuali del suo tempo. La riscoperta dell’Etica nicomachea, tradotta integralmente da Grossatesta intorno al 1245, e della Politica, tradotta da Moerbeke nel 1260, avevano permesso agli intellettuali di concepire lo Stato da una nuova prospettiva. Prima (come Agostino) si pensava che senza il peccato originale gli uomini non avrebbero mai avuto la necessità di associarsi, né di instaurare fra loro rapporti di autorità e obbedienza. Ora, invece, la tesi aristotelica secondo cui l’uomo è un “animale sociale” induce a considerare le istituzioni politiche come fenomeni naturali, frutto di bisogni radicati in ogni uomo. Si afferma cosi ̀l’idea secondo cui le varie forme di governo debbano essere giudicate esclusivamente sulla base della loro capacità a rispondere ai bisogni e alle esigenze naturali dei gruppi di individui senza tenere conto la finalità ultraterrena di quegli individui. La teoria politica di Tommaso si fonda sull’affermazione della naturalità dell’associazione politica. Provenendo da un creatore intelligente, il mondo degli uomini è un universo nel quale ciascuna cosa risponde a un’idea divina e ha un compito ben preciso da svolgere. Tommaso chiama “legge eterna” quest’ordine del creato presente nella mente di Dio e sottolinea come le creature razionali siano le sole a prendere parte consapevolmente a tale piano provvidenziale. Egli usa l’espressione “legge naturale” per riferirsi all’insieme di indicazioni che l’uomo trova dentro di sé circa il modo in cui adempiere la funzione che ricopre nel progetto divino. Tale legge ordina a tutti gli esseri umani di perseguire volontariamente i due principali scopi verso cui tendono per natura: l’inclinazione a conoscere la verità e quella ad associarsi. Tommaso condivide dunque con Aristotele la convinzione che vivere in società sia una caratteristica tipica dell’uomo. Infatti, come osserva Tommaso nei commenti all’Etica nicomachea e alla Politica, la ragione della naturale propensione degli esseri umani all’associazione politica va ricercata nella loro incapacità di soddisfare da soli le proprie esigenze essenziali, ogni essere umano appartiene alla società ed essa deve sacrificare gli interessi personali in nome del bene comune, ossia quella condizione di tranquillità e benessere senza la quale nessuno può realizzare la propria natura. La tutela del bene comune è affidata alle leggi dello Stato, che servono a garantire una convivenza pacifica fra i cittadini, tenendo a freno chi nutre intenzioni malvagie. Nella concezione di Tommaso le “leggi positive” sono norme stabilite convenzionalmente dalla ragione umana per disciplinare il comportamento degli uomini: esse si fondano sulla “legge di natura” e ne specificano i precetti. Inoltre, il benessere collettivo deve avere un’autorità suprema che funga da principio ordinatore dello Stato. Il governo è lo strumento per raggiungere il fine della società civile, ossia la difesa degli interessi della collettività. Richiamandosi alle forme costituzionali distinte da Aristotele nella Politica Tommaso individua tre tipi di regimi giusti: “Monarchia”, “Aristocrazia” e “Politia”, e tre generi di regimi perversi: “Tirannide”, “Oligarchia” e “Democrazia”. Tutti i tre regimi giusti possono andare bene purché si scelga la soluzione giusta in base alle caratteristiche del popolo governato. Si esprime anche a favore di una “costituzione mista”, grazie a un sistema in cui si mescolano elementi tratti da ognuno dei tre regimi tradizionali è possibile temperare il potere del principe in modo da impedirgli di diventare tiranno, diminuiscono i rischi di sedizione perché anche il popolo viene parzialmente coinvolto nel governo della comunità. Nel De regimine principum Tommaso invece mostra una preferenza per la monarchia (perché anche un solo Dio regge l’intero universo e lo mantiene ordinato). Tuttavia, la sua corruzione, cioè la tirannide, è la peggiore delle sciagure perché una forza che opera ingiustamente è più nociva nelle mani di una sola persona. Per questo è giustificabile una insurrezione volta a rovesciare quel regime. Tuttavia, Tommaso dice che sarebbe meglio evitare una resistenza armata, occorre piuttosto prevenire l’instaurarsi della 32 tirannide adottando modelli costituzionali (“regimi politici”) che pongono limiti precisi all’autorità del sovrano e prevedono strumenti per deporlo. La prudenza con cui Tommaso tratta il tema della tirannide si spiega anche con la sua adesione alla tesi di San Paolo, secondo cui ogni potere deriva da Dio, quindi resistere alle autorità costituite equivale a disobbedire al volere divino. Tale tesi si combina con l’idea che qualsiasi governo tragga la propria investitura dal basso, cioè dal popolo: Dio è la fonte ultima di ogni dominio temporale, ma sono poi gli uomini a determinare in concreto, con le loro scelte, chi lo debba esercitare. Il ruolo che Tommaso riconosce al popolo nell’assegnazione del potere politico è la conseguenza della sua visione dello Stato come prodotto dell’istinto naturale dell’uomo, il quale scorge in esso il mezzo per raggiungere la piena felicità terrena. Diverso è invece il discorso relativo alla Chiesa: questa si colloca su un altro piano, poiché ha il compito di indirizzare l’uomo al suo fine ultimo, ultraterreno, cioè alla più alta forma di conoscenza. Tuttavia, il raggiungimento di quello stato di beatitudine eterna che consiste nella contemplazione di Dio passa necessariamente attraverso la mediazione del corpo ecclesiastico, il quale conduce i credenti a quella felicità soprannaturale che è il massimo grado di perfezione umana. Il tema dei rapporti fra Stato e Chiesa viene trattato in modo inconclusivo da Tommaso. Da una parte sembra che i poteri temporali debbano sottostare a quelli spirituali, dall’altra Tommaso si limita ad attribuire ai vertici ecclesiastici una superiorità morale e una funzione di semplice vigilanza sull’operato dei governanti temporali.  L’eredità di Tommaso: Dopo la morte di Tommaso, l’ordine domenicano avverti ̀il dovere di difendere i suoi scritti dai frequenti attacchi di cui furono fatti oggetto. Ci furono però anche confratelli che espressero perplessità, come il caso di Durando di San Porziano, il cui Commento alle Sentenze nega che la teologia sia una scienza e concepisce invece la sacra doctrina come fede nella rivelazione incomprensibile. Dalla fine del XIII secolo si va comunque consolidando un indirizzo di pensiero strettamente legato all’insegnamento di Tommaso, la via Thomae. A questa scuola tomistica appartengono Tolomeo da Lucca, Erveo di Nèdellec e altri pensatori non domenicani come Goffredo di Fontaines e Egidio Romano. Nell’estate de 1323 Tommaso fu proclamato santo da papa Giovanni XXII, cessò cosi ̀ ogni polemica sull’ortodossia delle sue tesi e da quel momento la Chiesa cattolica lo assunse a modello di santità e di dottrina. Il suo pensiero fini ̀per essere considerato l’apice della filosofia cristiana e che le tesi contenute nella sua imponente produzione divenissero il nucleo di una sorta di “filosofia perenne”. Con il termine Seconda Scolastica si indica un gruppo di teologi attivi nella Spagna del Cinquecento che cercarono di adattare la filosofia di Tommaso alle esigenze del loro tempo. Significativa è la figura di Francesco da Vitoria (1483-1546) che si servi ̀degli aspetti del pensiero tomista riguardanti l’etica e la filosofia del diritto per individuare norme giuridiche con cui regolare le relazioni internazionali e per analizzare le argomentazioni con cui si giustificava la conquista del Nuovo Mondo e la sottomissione violenza dei suoi abitanti da parte degli spagnoli. La tradizione tomista assunse un ruolo ancora maggiore nell’Italia della seconda metà dell’Ottocento. La ripresa della filosofia di Tommaso fu sancita ufficialmente da papa Leone XIII nel 1879, con un documento solenne (enciclica Aeterni Patris) che invitava tutte le scuole ecclesiastiche a basare i corsi sulle Contrasti tra teologi domenicani e francescani: La tesi secondo cui la volontà agisce in base alle indicazioni dell’intelletto è una delle dottrine di Tommaso che ben presto suscitarono polemiche, soprattutto tra i teologi francescani. Costoro reagirono a tale tesi affermando il primato della volontà e sottolineando come essa operi sull’intelletto. Ai loro occhi, Tommaso aveva commesso l’errore di allontanarsi dalla tradizione ispirata al neoplatonismo agostiniano, accogliendo invece le interpretazioni dell’aristotelismo radicale. 35 Ne deriva che l’arte di combinare (ars combinatoria) in tutte le maniere possibili le proprietà fondamentali delle creature svela, a chi la possiede, ogni possibile combinazione delle perfezioni divine, nonché tutti i “segreti della natura”. Per indicare gli attributi essenziali sui quali si fonda la sua “arte”, Lullo usa lettere o simboli, e si serve di figure mobili per studiare i modi in cui tali attributi possono essere in relazione fra loro. Ci troviamo di fronte al tentativo di definire una specie di linguaggio artificiale e alcune regole rigorose che permetterebbero di risolvere qualunque problema, semplificando i ragionamenti mediante tecniche combinatorie e potenziando la memoria mediante appositi metodi. È il sogno di trovare la chiave per decodificare l’alfabeto con cui il creatore ha scritto il mondo. In questo quadro, il valore di ogni scienza consiste nella sua capacità di ritrovare nel creato le tracce lasciate da Dio, le “similitudini della natura divina impresse in qualsiasi creatura”. Lullo avverte perciò con la medesima intensità di Bacone l’esigenza di ristabilire l’unità di filosofia e teologia, colmando il fossato che in quello stesso periodo andavano scavando fra ragione e rivelazione alcuni maestri attivi nei più importanti centri universitari. II. TEOLOGIA E FILOSOFIA AL BIVIO:  I “maestri averroisti” e la condanna del 1277: Negli scritti di Lullo e di alcuni suoi contemporanei fa la sua comparsa, attorno al 1270, il termine “averroisti”, usato in senso spregiativo per indicare quegli autori che dei testi metafisici e fisici di Aristotele davano un’interpretazione molto influenzata dall’aristotelismo arabo. Questi autori concentravano l’interesse su alcuni temi difficilmente armonizzabili con la dottrina cristiana. La loro interpretazione si fondava su due capisaldi: 1. La tesi secondo cui da Dio, causa prima, deriva un solo effetto (l’intelligenza prima), quindi la molteplicità delle cose esistenti presuppone una molteplicità di cause intermedie (o “seconde”). 2. La tesi dell’eternità del mondo la cui derivazione dalla causa prima è un processo necessario. Da questi presupposti si giungeva alla conclusione che l’universo procedeva in maniera necessaria e ordinata da Dio, attraverso una serie discendente di intelligenze separate. Questa concezione dell’universo fu il principale obiettivo delle condanne ecclesiastiche del 1270 e del 1277. Alle dottrine degli averroisti vennero contrapposte, soprattutto nella seconda condanna, l’assoluta libertà e onnipotenza del Dio biblico: un Dio non sottoposto a nessuna regola e capace di “mandare in fumo la sapienza dei sapienti”. Sebbene il numero degli autori coinvolti nella condanna del 1277 fosse elevato, molte delle proposizioni censurate erano tratte dagli scritti di due docenti di filosofia della Sorbona, il fiammingo Sigieri di Brabante e il danese Boezio di Dacia, i più importanti esponenti dell’aristotelismo radicale. Al centro delle dottrine contestate vi era una visione del cosmo che combinava il neoplatonismo di Avicenna e l’interpretazione averroista di Aristotele: essa descriveva il mondo come universo gerarchizzato che discende (“emana”) dalla causa prima in virtù di un processo necessario. Spiccava inoltre anche la tesi secondo cui la volontà dell’uomo agisce per necessità e l’affermazione dell’esistenza di un unico intelletto eterno comune a tutti gli uomini. La prima negava il libero arbitrio, la seconda equivaleva a sostenere che l’anima intellettiva (principio grazie al quale possiamo conoscere) è un’intelligenza unica e separata (dal singolo soggetto conoscente): in questa maniera si attribuivano a ogni uomo solo un’anima vegetativa e un’anima sensitiva (le cui attività sono legate al corpo) con la conseguenza di negare l’immortalità dell’anima individuale. I maestri vengono accusati di teorizzare una doppia verità. Essi difenderebbero le loro tesi sostenendo che “sono vere secondo la filosofia”, alla luce di quanto insegnato da Aristotele, “ma non secondo la fede cattolica”, quasi esistessero due verità contrapposte e potesse esservi nelle parole dei filosofi pagani una verità contraria a quella della Scrittura. I filosofi, scrive Sigieri di Brabante, “formulano i loro giudizi mediante il solo lume della ragione”. Parimenti conscio della differenza incommensurabile fra filosofia 36 e rivelazione è Boezio di Dacia, concorde con Sigieri nell’affermare che il filosofo segue soltanto la ragione, mentre il dato di fede è estraneo al suo lavoro. Secondo Boezio, dunque, ogni problema che può essere impostato e risolto mediante argomenti razionali rientra nelle competenze del filosofo, il quale cessa di essere tale nel momento stesso in cui fa appello a spiegazioni non accessibili all’indagine dell’uomo. Con la condanna del 1277 i vertici della Chiesa vollero colpire la nascente consapevolezza della loro autonomia teorica, accademica e professionale. A questa si accompagnava la rivendicazione della piena libertà di ricerca e di insegnamento, in nome di una pratica intellettuale basata solo e soltanto sulla ratio. Comune a tutti gli autori etichettati come averroisti è l’idea che la filosofia sia contraddistinta dall’uso di procedimenti esclusivamente razionali, ossia strutturati in maniera rigorosa secondo il paradigma aristotelico. In particolare, l’attacco di Tempier è riconducibile a una lotta interna alla Sorbona: ai maestri delle arti non si perdonava il fatto di sentirsi e autodefinirsi con orgoglio “filosofi” e rivendicare per il proprio sapere uno spazio autonomo e una maggiore dignità. La condanna del 1277 fu anche il frutto delle tensioni sorte nello studium parigino in seguito alla progressiva trasformazione della facoltà delle Arti: non più solo un luogo in cui si offriva una formazione di base, ma un’istituzione dedita in modo specialistico alla ricerca filosofica e scientifica. Tuttavia, condanne come quella del 1277, non produssero sempre l’effetto voluto: contribuirono a volte a richiamare l’attenzione della comunità intellettuale sulle tesi colpite dalla condanna, dando loro pubblicità. Gli interventi censori ebbero anche un’altra conseguenza: in diverse occasioni condussero alla distruzione sistematica delle opere censurate, i cui contenuti finirono dunque con l’essere conosciuti solo nella versione (distorta) offerta dai documenti di condanna.  Fine di un’era: il divorzio fra teologia e filosofia: Ai maestri averroisti rimaneva il problema di come regolarsi quando la ricerca filosofica perveniva a risultati in contrasto con la fede. Essi appaiono convinti che, in caso di conflitto, la Verità in senso pieno del termine sia quella rivelata. Tuttavia, giustificano il loro lavoro collocandolo su un piano diverso da quello del teologo: il compito del maestro delle Arti consiste nell’esporre con onestà le opinioni dei più grandi filosofi, anche se contrarie agli insegnamenti della rivelazione. La fede non va respinta a causa della ragione filosofica, poiché anche Aristotele, per quanto grande, può cadere in errore. Il problema delle inevitabili discrepanze fra filosofia e rivelazione viene trattato nel De aeternitate mundi di Boezio di Dacia, il quale ritiene impossibile dimostrare l’inizio del mondo nel tempo. Boezio però non contesta la dottrina cristiana sull’origine dell’universo: pur in presenza di alcuni punti di discordanza, filosofia (naturale) e religione possono coesistere pacificamente grazie a una precisa delimitazione dei rispettivi ambiti. Boezio osserva come ciascuna delle scienze del sapere filosofico poggi su un insieme di principi che ne fissano i limiti: chi si dedica a una di tali discipline non dimostra mai nulla in senso assoluto, ma “può provare, concedere o negare qualcosa solo in base ai principi fondativi della sua scienza”. Cosi,̀ il filosofo naturale afferma unicamente quello che discende dalle premesse generali del suo sapere. In quanto studioso di fisica, Boezio deve negare che il mondo sia stato creato nel tempo: sebbene conosca i limiti della sua disciplina, non può che ritenere falsa la tesi che il mondo abbia avuto una nascita. Come credente, però, sa benissimo che la rivelazione insegna l’opposto, quindi accetta per fede la tesi della creazione nel tempo, ritenendo falsa “in senso assoluto” la tesi contraria. Quindi non esistono due verità contrapposte, ma solo due diverse prospettive. Attribuire agli “averroisti” la teoria della “doppia verità” è una forzatura. Per Boezio e Sigieri la filosofia si pone sul piano della probabilità, possiede un grado di certezza inferiore rispetto a quello della verità rivelata. La verità di fede è l’unica, le varie scienze hanno le loro verità particolari, valide in quanto discendono dai principi sui quali è costruita ognuna di quelle scienze. Gli autori di cui ci stiamo occupando, dunque, danno vita a un ripensamento del ruolo della filosofia. Con loro, il sapere filosofico proclama una sovranità assoluta su un territorio imitato. Negli scritti dei 37 maestri averroisti torna l’affermazione dei diritti della ragione, purché questa operi sul proprio terreno. Nel De summo bono Boezio afferma due tesi centrali: - La massima felicità coincide con la conoscenza intellettuale. - Il supremo modello morale è rappresentato dalla condotta di vita del filosofo. Dunque, nelle pagine di questi maestri è possibile quindi trovare una specie di codice deontologico, cioè un’etica professionale che impegna i docenti della facoltà di filosofia a riferire correttamente agli allievi ogni dottrina filosofica rilevante del passato. Tali prese di posizione segnano un punto di non ritorno nella storia del pensiero medievale: interrompono quella che Etienne Gilson chiamava la “luna di miele” fra filosofia e teologia, alle quali Sigieri e Boezio propongono una sorta di separazione consensuale. Viene cosi ̀meno l’aspirazione a una fede sorretta dalla ragione e tramonta l’ideale dell’unità del sapere che era stato di Tommaso e Ruggero Bacone. La condanna del 1277 dimostra alla successiva generazione di teologi l’inutilità di invertire la tendenza appena descritta. Ai loro occhi essa prova in maniera drammatica che la filosofia non è capace di cogliere con le sue sole forze le verità fondamentali della religione cristiana, ma giunge a conclusioni inconciliabili con il dato rivelato. Questa considerazione vale soprattutto per le due figure che dominano il periodo compreso fra la fine del Duecento e la metà del Trecento: i maestri francescani Giovanni Duns Scoro e Guglielmo di Ockham.  Duns Scoto: la teologia in cerca di nuove strade: Giovanni Duns Scoto (1266 – 1308) si forma filosoficamente dopo la condanna del 1277 e questo ne fa la più rappresentativa figura di transizione fra il XIII secolo e il XIV secolo. Al centro della sua riflessione teologica c’è il rifiuto del determinismo greco-arabo, il desiderio di spezzare i pesanti vincoli ai quali i commentatori arabi di Aristotele avevano sottoposto l’iniziativa divina. Filosofi come Avicenna e Averroè, non erano andati oltre ad una causa prima che agisce necessariamente, il mondo discendeva da tale causa “per emanazione”, si generava attraverso un processo necessario da un Dio inteso come essere dotato di infinita energia. Di fronte a queste tesi Scoto pone l’accento sulla libertà della volontà divina e sul carattere contingente dei suoi effetti, lo fa però sapendo che la natura totalmente libera e infinitamente potente di Dio non può essere colta dalla ragione naturale, ma è soltanto verità rivelata. Ci troviamo qui di fronte all’intrinseca debolezza della mente umana e dunque al fallimento della filosofia: davanti a questioni come la creazione del mondo è inevitabile il ricorso alla fede. Si assiste cosi ̀alla rinuncia al sogno di una scienza teologica universalmente valida e alla dissociazione di filosofia e teologia: differiscono tanto nel metodo quanto nei risultati, parlano in modo diverso di cose diverse. La teologia scotista non è una scienza speculativa, basata su dimostrazioni rigorose, non ha nulla in comune con Tommaso, al contrario, è una scienza pratica, il cui fine consiste nel regolare le azioni dei credenti in vista del raggiungimento della felicità ultraterrena. Il tipo di conoscenza che gli uomini sono in grado di ottenere a proposito di Dio si fonda interamente sulla Scrittura, nella quale Dio ha rivelato alcune verità utili alla salvezza. Dunque, secondo Scoto, conosciamo di Dio soltanto quello che egli vuole svelarci. Questa condizione è uno dei principali effetti del peccato originale in seguito a quel peccato l’intelletto umano ha perso la capacità di conoscere direttamente le realtà intelligibili mediante quella che Scoto chiama “intuizione intellettuale” e ha la possibilità di apprendere i concetti solo partendo dai dati dei sensi. La sfera della volontà è invece meno compromessa e contaminata; dunque, Scoto teorizza (in contrasto con Tommaso) il primato della volontà, la sua superiorità sull’intelletto, del quale essa si serve come di uno strumento. In piena sintonia con la tradizione francescana, concepisce la libertà del volere come capacità di autodeterminarsi: è questo il tratto essenziale dell’essere umano, la forma più alta di realizzazione dell’uomo. La volontà dipende unicamente da sé stessa, nessun oggetto la costringe ad assentire. È buona la volontà che vuole il bene, che è tale solo perché lo vuole Dio. Non esiste quindi un bene oggettivo, assoluto, in grado di imporsi al volere divino. Dio non vuole il bene perché è il bene, ma è bene ciò che Dio decide di volere, in maniera totalmente libera. Perciò, l’unica legge morale per l’uomo è data dal comando della volontà di un Dio onnipotente, il quale in ogni momento può modificare la nozione di bene. 40 III. LA QUESTIONE DEGLI UNIVERSALI DOPO ABELARDO:  La “logica dei moderni”: Nella seconda metà del XII secolo e per tutto il secolo successivo il nesso fra logica e grammatica si fa sempre più stretto: il terreno comune nel quale i rispettivi maestri si trovano a operare è costituito dallo studio delle proprietà dei termini. Inoltre, i maestri concentrano progressivamente la loro attenzione sui modi significandi, le varie modalità in cui un termine può svolgere la propria funzione semantica (può rimandare a un certo significato). Nelle opere dei protagonisti della cosiddetta “logica dei moderni”, l’elemento centrale diventa il significato intraproposizionale dei termini: il ruolo, cioè, che ciascun termine ha all’interno della frase. Questo significato è chiamato “suppositio” (“supposizione”) poiché indica ciò al posto del quale sta una determinata parola nell’enunciato che la contiene: ciò che essa sostituisce. L’esigenza di evitare equivoci e paralogismi (errori di ragionamento) è avvertita con forza crescente a partire dalla metà del XII secolo, anche per effetto dell’influenza degli Elenchi sofistici di Aristotele. Pietro Abelardo nel Sic et Non e Adamo Parvipontano nell’Ars disserendi (Arte del ragionamento) sono fra i pionieri di uno studio che si interessa alle possibili variazioni di significato dei vocaboli in contesti differenti. Tale studio darà vita a un genere di letteratura filosofica in cui si analizzano casi di sophismata (“proposizioni sofistiche”). Per analizzare correttamente i sophismata, i logici del Duecento, fra i quali Pietro Ispano e Guglielmo di Sherwood, sviluppano alcune tecniche di analisi del linguaggio. Nei primi decenni del XIV secolo si fa strada l’idea che un gran numero di questioni fisiche, etiche e teologiche nascano dalla natura equivoca dei termini usati nelle proposizioni con cui tali questioni vengono formulate. Una proposizione risulterà vera, valida, se le parole che contiene sono usate in maniera rigorosa (tecnica utilizzata anche per dare risposte sulla causa dei moti violenti o la natura del tempo).  Universalità e individualità in Duns Scoto e Ockham: La graduale tendenza ad affrontare i problemi della filosofia e della teologia a livello logico-linguistico, senza riferirsi alla realtà esteriore, è uno dei principali effetti della diffusione delle dottrine di Guglielmo di Ockham, il più autorevole sostenitore del proposizionalismo, ossia della tesi secondo cui ogni conoscenza scientifica ha per oggetto non le cose ma esclusivamente enunciati (per essere precisi ciò che corrisponde nella nostra mente alle proposizioni scritte/ orali). Per comprendere queste posizioni bisogna partire dalla risposta che da Ockham alla questione degli universali. La domanda se gli universali abbiano o meno un’esistenza extramentale è infatti ancora oggetto di dibattito; in particolare, Ockham si scontra con Duns Scoto. Secondo il filosofo scozzese, i concetti universali che l’intelletto si forma sulla base dei dati dei sensi hanno una base oggettiva nelle cose singolare, sebbene queste siano le uniche effettivamente esistenti: tale base consiste nelle “nature comuni” (o essenze) delle cose, nature che in sé non sono né universali né particolari, ma costituiscono il fondamento tanto dei concetti universali quanto delle res individuali. Per Scoto, la natura comunis “ippopotamo”, cioè l’insieme delle caratteristiche per cui tutti gli ippopotami sono tali (e si assomigliano), non si identifica né con questo o quell’ippopotamo né con l’idea generale che la nostra mente applica loro; tuttavia, la natura comune sta a fondamento di tutti i molteplici ippopotami reali e, nello stesso tempo, è all’origine dell’universale con cui li pensiamo. È l’indeterminatezza delle nature comuni, il loro carattere neutrale a fornire all’intelletto la “materia” da cui trarre gli universali mediante l’astrazione. Per spiegare in che modo la natura comune si concretizza nelle singole cose, Scoto postula l’esistenza di una certa entità individuante, che si aggiunge alla natura comune e la individua (la determina) facendola essere questa particolare cosa o quest’altra. Si serve del termine haecceitas (“ecceità” o “questità”) per indicare il principio di individuazione che rende ciascuna natura comune di volta in volta particolare, nei vari individui che la condividono. 41 Per Ockham, invece, il piano dell’essere non contiene nemmeno un’ombra di universalità: nella realtà non esiste nulla di universale, neppure allo stato potenziale, poiché essa consta esclusivamente di sostanze e qualità individuali (l’essere è sempre e ovunque un essere). Però alcune di queste sostanze sono simili e Ockham concorda con Scoto che è questa relazione di somiglianza a permetterci di comprendere un dato insieme di cose sotto un medesimo concetto; tuttavia, egli esclude che a tale somiglianza corrisponda, nella realtà, una qualche natura comune, della quale partecipano i singoli oggetti simili. La somiglianza non è una relazione a tre termini (due realtà simili fra loro e un’essenza comune), perché ci sia un rapporto di somiglianza è sufficiente la loro esistenza.  Termini e proposizioni nella logica di Ockham: Ciò premesso, Ockham offre la sua verità sugli universali: lungi dall’avere un’esistenza reale, essi sono concetti, segni mentali, predicabili di una molteplicità di enti particolari. Il ripetersi di atti di conoscenza che riguardano cose fra loro simili determina nell’intelletto la formazione di concetti che significano insiemi di individui simili. Si tratta di segni naturali, poiché sono il frutto della reazione spontanea della mente umana quando viene a trovarsi in presenza di gruppi di oggetti simili. Quindi i concetti universali non sono semplicemente immagini o rappresentazioni mentali delle cose extramentali, poiché in tal caso si limiterebbero a fotografare cose già note; egli invece attribuisce loro un carattere intenzionale, ossia un’inclinazione naturale (in-tentio, tendere verso) a indicare molteplicità di individui fra loro simili. Se però li si considera in quanto parole corrispondenti ai concetti di genere e specie, gli universali significano (cioè rimandano ad altro) in base a una convenzione: sono cioè solo strutture linguistiche utili ad abbreviare i nostri discorsi. La dottrina della suppositio, esposta al termine della prima parte della Summa totis logicae, rappresenta il punto più originale della logica di Ockham. Il maestro inglese individua tre forme di suppositio: 1. Personalis: si ha quando il termine in questione “suppone per” il suo significato proprio e originario, quando cioè sta al posto di cose o concetti individuali. Suppone in modo personale il termine che conserva all’interno della frase la sua capacità naturale di rinviare a realtà singolari, siano esse esterne o interne alla mente. 2. Simplex: si ha quando il termine sta al posto di un concetto che non costituisce il suo significato proprio. Ad esempio, in “l’ippopotamo è una specie”, “ippopotamo” non è utilizzato nel suo significato naturale, che rimanda agli ippopotami concretamente esistenti. 3. Materialis: si ha quando il termine in esame non viene preso nel suo significato proprio e “suppone” per sé stesso in quanto suono o segno grafico, come nella frase “cane è un nome composto da due sillabe”. Questa distinzione ha un’applicazione concreta importante nella seconda parte della Summa, dove Ockham tratta dei requisiti necessari delle proposizioni perché siano vere. Egli distingue due gruppi di proposizioni: - Quelle categoriche o semplici: composta da un soggetto e un predicato. Una proposizione categorica, come “Ockham è un uomo”, è vera se soggetto e predicato suppongono per la stessa cosa: perché risulti vera, quindi, non si richiede che il predicato sia unito al soggetto nella realt à extramentale ma Il “rasoio di Ockham”: Nell’affermazione secondo cui la somiglianza fra due cose non comporta la presenza di un terzo elemento, ossia una natura comune, troviamo applicato quello che viene spesso chiamato “rasoio di Ockham”: un principio di economia in base al quale si deve evitare di moltiplicare gli enti ed è inutile chiamare in causa un numero maggiore di fattori quando qualcosa può essere spiegato con una soluzione più “economica”. 42 soltanto che esista un individuo al posto del quale stanno tanto il soggetto “Ockham” quanto il predicato “uomo”. - Quelle ipotetiche: formate da più proposizioni categoriche collegate fra loro da connettori. Le proposizioni di tipo condizionale, come “se Ockham è un uomo, allora è dotato di ragione”, sono vere a patto che lo sia l’implicazione fra antecedente e conseguente; quelle di tipo disgiuntivo, come “Ockham è o non è inglese”, lo sono se è vera una delle due categorie da cui risultano composte. I criteri di verità delle proposizioni sono rigorosamente formali, vale a dire prescindono completamente dal contenuto. La verità di un enunciato è affermata o negata sulla base non del riscontro con la realtà esteriore, bensi ̀dal rapporto fra tali termini. In questo modo il problema della verità viene ricondotto interamente all’ambito del linguaggio. La verità di una proposizione non ha nulla a che fare con la realtà extramentale e coincide con la proposizione vera, ossia viene determinata soltanto dalla struttura della proposizione (rapporto che intercorre fra i suoi termini). È quindi corretto parlare di verità, di dimostrazione scientifica, unicamente in relazione agli enunciati. IV. IL PENSIERO POLITICO NEL TARDO MEDIOEVO: Il periodo compreso fra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento segna una svolta importante anche per quanto concerne la dimensione politica: in particolare, cambia il modo di concepire la relazione fra il potere della Chiesa e quello temporale. Nel corso del XIII secolo si era perfezionata la dottrina ierocratica, che attribuiva al papa il primato spirituale e una supremazia politica assoluta sull’intera cristianità. Ma i sogni dell’egemonia del Papato furono infranti dall’opposizione delle nascenti monarchie nazionali.  Marsilio da Padova: Il primo a scagliarsi contro la presunta “pienezza del potere” papale fu Marsilio da Padova (1280 – 1343), il cui Defensor pacis è uno dei grandi classici del pensiero politico occidentale. Il suo intento era quello di smascherare l’infondatezza delle pretese assolutistiche del Papato. Però l’opera contiene altre tesi che vanno al di là di questa funzione polemica. In particolare, la riflessione marsiliana si fonda sull’idea che le diverse forme di comunità politica traggano origine dal desiderio innato che qualsiasi individuo ha di raggiungere e conservare una sufficientia vitae, ossia “un’esistenza degna di essere vissuta”. Gli uomini farebbero a meno di associarsi ma si accorgono che da soli non si va da nessuna parte. In disaccordo con la tesi della naturale socievolezza dell’uomo (che Tommaso aveva ripreso da Aristotele), egli insiste sulla presenza di tensioni e contese come tratto dominante delle società umane. Se non ci fossero leggi, sulla cui base giudicare gli inevitabili conflitti fra i membri della stessa comunità e un guardiano in grado di farle rispettare, nessuno Stato potrebbe sopravvivere a lungo. Definendo le leggi “Norme per la cui osservanza viene stabilito un comando coercitivo”, individua la loro essenza nel fatto di essere imposte con la forza da chi ne ha l’autorità, qualunque sia il loro contenuto; la validità delle leggi umane, perciò, non dipende dal loro uniformarsi a qualche norma di giustizia superiore, bensi ̀soltanto dall’essere emanate in maniera corretta. La facoltà di fissare le norme che regolano la vita di una comunità spetta all’assemblea dei cittadini o alla sua “parte preponderante”, chiamata a valutare le proposte. L’idea che il potere legislativo appartenga al popolo discende ancora una volta dal desiderio naturale che ogni essere umano ha di garantirsi una vita degna. Poiché le società sono indispensabili per soddisfare tale desiderio e le leggi contribuiscono in misura decisiva a mantenere in pace tali società, occorre coinvolgere tutti i membri, ognuno è in grado di riconoscere i suoi interessi. Stando cosi ̀ le cose, le uniche leggi in vigore entro i confini di uno Stato sono quelle stabilite dalla volontà popolare. La legge divina non è affatto vincolante in questo mondo. Nel sottolineare la natura rigorosamente non coercitiva dei precetti divini, Marsilio mira a contestare qualsiasi ricorso alla forza da parte del clero, in polemica con la pretesa del Papato di esercitare funzioni di governo temporale.
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