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Riassunto Procedura Penale - Fondamenti di Procedura Penale (terza edizione) - Camon ecc., Dispense di Diritto Processuale Penale

Riassunto completo manuale Fondamenti di Procedura Penale (terza edizione) - Alberto Camon, Maria Lucia di Bitonto, Marcello Daniele, Daniele Negri, Claudia Cesari, Pier Paolo Paulesu

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 16/05/2023

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Scarica Riassunto Procedura Penale - Fondamenti di Procedura Penale (terza edizione) - Camon ecc. e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! 1 RIASSUNTO FONDAMENTI DI PROCEDURA PENALE – TERZA EDIZIONE PARTE I – I PRINCIPI CAPITOLO 1: SFONDI 1.LE FORME DEL PROCESSO Francesco Carrara definiva il processo come “una serie di atti solenni, coi quali certe persone a ciò legittimamente autorizzate, osservato un certo ordine e forma determinata dalla legge, conoscono dei delitti e dei loro autori, affinché la pena si storni dagli innocenti e si infligga ai colpevoli”. ➔ Possiamo dire che il processo è un fenomeno regolato da norme e secondo forme (si pensi che gli atti solenni sono quelli a più alto tasso di formalità): chi vi agisce sa di doverlo fare secondo tempi, modi e luoghi predeterminati. Ma a cosa servono, nel processo, regole e forme? 1) “Processus” evoca l’idea di un cammino, infatti i processi sono successioni di atti che si snodano da uno stato di dubbio iniziale verso uno stato di relativa certezza e sono finalizzati a stabilire se qualcosa sia avvenuto e chi l’ha causato. Le regole, dunque, mirano ad indirizzare un percorso di conoscenza. Va precisato, inoltre, che al termine del giudizio, quando l’imputato viene dichiarato innocente o colpevole del reato attribuito, il giudice si esprime in termini di certezza, ma si tratta di una convinzione: la certezza, la conoscenza assoluta sono traguardi ideali che non verranno mai pienamente raggiunti; dunque, l’unica conoscenza a cui si può aspirare è contingente e approssimativa. La verità processuale, infatti, non può essere affermata sulla base di un’osservazione diretta, essendo il reato un evento passato, bensì vi si perviene sulla base di “segni” che sono stati lasciati nel presente: le prove, le quali però però non sono mai oggettive e fedeli rappresentazioni di un fatto; per tale ragione, il giudice deve compiere un’illazione in cui si annida il rischio dell’errore. In ogni caso, tutto ciò non sminuisce l’importanza delle regole, anzi le rende l’unico modo per garantire il risultato. Infatti, il processo è “una ricerca ordinata di verità” e l’attività del giudice ricorda quella dello storico: entrambi devono servirsi dei documenti e delle testimonianze, valutando e scegliendo le informazioni più attendibili e, dunque, scoprendo anche le falsificazioni. 2) Il processo penale però si distingue dalle altre forme di conoscenza soprattutto perché implica l’uso della forza: infatti esso compie azioni che, effettuate altrove, sarebbero reato (es. ispezioni, perquisizioni, intercettazioni, accompagnamento coattivo, custodia cautelare, ecc.), infliggendo sofferenza non solo alla fine, quando arriva alla pronuncia di colpevolezza, bensì anche durante il suo svolgimento. Per questa ragione le regole hanno anche la funzione di controllare l’uso della forza, stabilendo quando e come essa possa legittimamente esplicarsi, tracciando un limite al potere dello Stato e scongiurando eventuali arbitri. Dunque, si hanno due anima, due scopi delle regole di procedura penale, i quali talvolta cooperano tra di loro, ma altre volte sono caratterizzati da un rapporto problematico. ➔ Di qui si comprende la c.d. teoria dualistica elaborata dalla Scuola classica, secondo cui la procedura penale punta a “due contrari estremi”: a) scoprire i reati; b) Fare ciò adoperando strumenti il meno incivili possibile. ➔ Inoltre, si comprende anche perché il codice adoperi pochissimo la parola “verità” e sempre riguardo a soggetti che non governano il processo (l’interprete, il perito, il testimone), mentre nel caso del giudice usa formule più caute come “completezza dell’esame” o “accertamento dei fatti”. La relazione dialettica tra i due obiettivi perseguiti dalle regole processuali ha portato a due conflitti che segnano la storia della procedura penale degli ultimi decenni: 2 1) uno sincronico, che contrappone legislatore e magistratura: quest’ultima tende ad aggirare le regole (ad es. quelle sull’invalidità) e a caricare sulle proprie spalle il peso dell’accertamento della verità; 2) uno diacronico, che non riguarda solo l’Italia. Un esempio ne è l’esperienza statunitense in cui, nel 2001, è scoppiato un dibattito che ha portato alla teorizzazione dell’opportunità di legittimare delle forme controllate di tortura verso gli arrestati sospettati di essere legati ad Al Quaida. È stato messo in discussione uno dei pilastri delle democrazie liberali: l’intangibilità del corpo di chi subisce un procedimento penale. Calamandrei in merito ha scritto che il diritto processuale è “una fragile rete dalle cui maglie preme e a volte trabocca la realtà sociale”: nei periodi di pace la rete tiene, nei periodi di emergenza invece tracimano pulsioni autoritarie. 2.DIRITTO E PROCESSO In ambito penale, i nessi fra diritto sostanziale e processo sono più stretti che in altri settori dell’ordinamento. Infatti, mentre nel diritto civile l’azione dei privati da sola può costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche senza intervento del giudice, il diritto penale vive solo nel processo: in forza del principio “nulla poena sine iudicio”, le conseguenze sanzionatorie possono essere irrogate solo all’esito di un procedimento giurisdizionale. Tradizionalmente si parlava di strumentalità del processo, il quale era considerato ancillare rispetto al diritto sostanziale (: serve solo ad applicare le sue norme), mentre oggi la dottrina parla di strumentalità reciproca o speculare; infatti, è vero che senza una sentenza irrevocabile la pena non può essere applicata, ma durante tutto il procedimento il rapporto è invertito: la fattispecie incriminatrice astratta si proietta sull’imputazione, che a sua volta fissa il tema del processo. Inoltre, i tempi della giustizia sono molto dilatati e spingono la condanna verso un futuro lontano e incerto; perciò, vengono scaricate sul processo le aspettative di una pronta difesa sociale: gli istituti processuali diventano anche mezzo per placare l’allarme sociale causato dal reato (es. custodia cautelare: nella prassi viene illegittimamente usata come surrogato di una sanzione che arriverà – forse – più tardi). Infine, diritto e processo sono due componenti inscindibili della politica criminale, tanto che spesso il legislatore interviene in uno dei due rami per ottenere effetti sull’altro. Infatti, le fattispecie incriminatrici vengono pensate e costruite in funzione del processo. Esempi: - Reati di sospetto ex artt. 707 e 709 c.p.: un comportamento viene punito non perché in sé dannoso, ma perché lascia presumere l’avvenuta o futura commissione di altri reati, che non si è riusciti a dimostrare. In questi casi l’incriminazione punta a risolvere un problema processuale, una questione di onere probatorio. - Delitti associativi: nascono per liberare il p.m. dall’onere di dimostrare la commissione del reato-scopo. Dal 1938 la procedura penale costituisce oggetto di un insegnamento universitario autonomo. Questa scissione ha avuto ricadute positive in tema di maggiori approfondimenti dei meccanismi del processo, ma comporta anche il rischio che si dimentichi l’insieme, il sistema diritto-processo. 3.DIRITTO PROCESSUALE PENALE E PROCEDURA PENALE Si tratta di due denominazioni che si somigliano ma non dicono la stessa cosa. - Da una parte, “procedura” mette l’accento sul percorso, un’attività ed evoca uno strumento malleabile affidato all’inquisitore; “diritto” evoca valori da salvaguardare, un congegno preciso che incontra i diritti come limiti effettivi. - Dall’altra parte, il diritto processuale penale è una branca del sapere che studia, con metodo tecnico, non tanto il processo ma le norme che lo regolano; dall’altro, la procedura analizza un fenomeno sociale, fatto di prassi e strutture, ideologie della magistratura e del singolo giudicante. ➔ Da entrambi i punti di vista procedura è un termine più completo. 5 viene prevista la presenza di giudici “laici”, non tecnicamente preparati, per demolire il sistema delle prove legali associato alla struttura inquisitoria del processo, eliminando l’arbitrio dei magistrati togati. Altre conquiste del sistema accusatorio sono state: 1. La valutazione delle prove basata sul criterio del libero convincimento; 2. la modalità di formazione della prova, secondo la quale i giurati prendono contatto con la materia del processo solo tramite il confronto paritario tra le parti in udienza pubblica ed hanno un rigido divieto di lettura, che preclude loro la conoscenza dei verbali delle deposizioni raccolte dagli organi istruttori durante le fasi anteriori al dibattimento. La rapida evoluzione storica nella Francia Postrivoluzionaria, invece, vede un regresso ai principi inquisitori ed il varo del code d’instruction criminelle del 1808, frutto della restaurazione autoritaria in età napoleonica. Quest’ultimo influenzerà tutti gli ordinamenti processuali seguenti, compreso quello italiano, grazie alla previsione delle due arcate consecutive: a. Prima la fase dell’istruzione, condotta segretamente dal giudice, mira alla raccolta delle prove all’insaputa dell’imputato e in assenza di contraddittorio; b. In seguito, il dibattimento pubblico e orale, in cui l’imputato è assistito dal difensore, funge da luogo di discussione critica sui risultati acquisiti. Dunque, il codice napoleonico è il “tentativo di mediazione tra metodi processuali opposti” e di conciliare con essi l’esigenza sociale di repressione dei reati e il diritto dell’accusato di difendersi. Per tale ragione ogni sistema così concepito viene definito misto, anche se nell’insieme ha più una natura inquisitoria, dato che viene attribuito valore di prova a tutti o quasi tutti gli atti raccolti nella fase preliminare dagli organi incaricati del perseguimento penale. 4.SCUOLA CLASSICA VS SCUOLA POSITIVA Benché la stagione del processo accusatorio sia finita in pochi anni, l’esperienza illuministica ha diffuso l’idea che la legge processuale debba difendere l’imputato dal potere della pubblica autorità e che il modello processuale adatto a soddisfare ciò sia quello accusatorio. Questo pensiero viene sviluppato nell’Ottocento dai giuristi della c.d. scuola classica, in particolare Francesco Carrara. Nel suo insegnamento si ritrova l’atto fondativo della procedura penale: il processo penale muove dalla presunzione di innocenza, cioè dalla negazione della colpevolezza e perciò il sistema è costruito come un insieme di limiti all’attacco portato contro l’imputato dall’inquirente e dall’accusatore. A partire dalla presunzione di innocenza, Carrara elabora una serie di corollari (es. il contraddittorio, la necessaria dimostrazione della colpevolezza, la natura pubblica e orale dei giudizi); di qui, si arriva all’affermazione del principio di legalità processuale necessario a contenere la violenza e l’arbitrio dei magistrati. Dunque, la scuola classica si distinse per il tentativo di mostrare l’irriducibile conflitto tra l’interesse dell’imputato a difendere la propria libertà e l’esigenza pubblica di repressione del reato. I codici dell’Ottocento e della prima metà del XX secolo rispecchiano pochissimo queste idee, restando invece fermi al processo misto di estrazione inquisitoria, di modo che lo Stato non perdesse mai il controllo sulla giustizia penale. La scuola classica, verso la fine dell‘800, viene trascinata dentro una bufera scatenata da Enrico Ferri, il quale avvia una corrente di studi avversa alla tradizione liberale: la scuola positiva di diritto criminale, che integra il penale e le scienze mediche, antropologiche e sociologiche. Alla teoria dualista dell’antinomia tra Stato e individuo si contrappone la teoria unitaria: l’unico fine del processo diventa l’attuazione dell’interesse pubblico mediante la punizione del reo (il c.d. delinquente). Il problema penale, qui, è proteggere l’organismo sociale dal pericolo della devianza criminale con misure preventive e terapeutico- repressive. I diritti di libertà del cittadino scompaiono assorbiti nelle istanze della collettività, identificata con lo Stato, travolgendo di conseguenza il postulato della presunzione d’innocenza. L’attacco al principio cardine del processo, poi, viene portato avanti anche da Vincenzo Manzini, redattore del codice fascista, 6 secondo cui l’esperienza dimostra che la maggior parte degli imputati è in realtà colpevole: del resto, il delinquente è tale per ragioni psicofisiche, dunque è accettabile che la condanna lo colpisca a prescindere dalla colpevolezza sullo specifico reato, a compensazione di tutti i casi in cui l’ha fatta franca per gli illeciti commessi e non scoperti. Questa nuova stagione inquisitoria è sostenuta dal positivismo scientifico e le sue certezze sperimentali; lo scopo della difesa sociale cui tende il processo, si specifica nel bisogno di scoprire la verità materiale, assoluta e oggettiva. Il metodo probatorio non è più caratterizzato da scontro dialettico tra le parti, contraddittorio, oralità e pubblicità ma è risposto nelle mani del solo giudice, mente indagatrice che analizza il fenomeno criminale come uno scienziato e con la massima discrezionalità (: senza le regole sul modo di procedere invocata dagli illuministi fino a Carrara, che rallentano il libero corso della potenza razionale del giudice). 5.L’AUTORITARISMO DEL CODICE PROCESSUALE FASCISTA Le premesse giuridico-politiche della trasformazione del processo penale in epoca fascista risalgono alle dottrine della seconda metà dell’Ottocento tedesco, che disconoscevano la natura originaria delle libertà individuali considerandole effetto riflesso della volontà dell’ordinamento di autolimitarsi. Si sancisce così il primato dell’autorità nel perseguire e punire i reati sulle ragioni dell’imputato che si difende, capovolgendo la visione illuminista e liberalista: l’accento si sposta dai diritti al doveroso rispetto di regole fissate dal legislatore e che tutelano interessi considerati superiori; dunque, le libertà hanno valore solo residuale. L’esasperazione di questo indirizzo porta allo statualismo della cultura fascista: se la garanzia dell’individuo consiste nella fiducia a che l’ordinamento decida di mantenere limitato l’esercizio del proprio potere di compressione dei diritti, con l’avvento della dittatura tale volontà di temperamento viene a mancare, prevalendo, invece, l’opposta tendenza vessatoria nei confronti dell’imputato. Il codice del 1930 vede, così, una “crociata contro il garantismo” ed un rovesciamento dei capisaldi di tradizione liberale riguardanti il processo penale; infatti: vengono eliminati e contrastati: - Viene innanzitutto eliminata l’antitesi tra l’individuo e lo Stato (perché avrebbero portato a considerare l’autorità come “insidiosa sopraffattrice del singolo” e detentrice di un potere incline all’abuso); - Cade, pertanto, il postulato della presunzione di innocenza; - Vengono eliminate le “superfluità”; - Si combattono “le cause e le manifestazioni di cavillosità” dei difensori, imprendendo ad es. le impugnazioni infondate. L’obiettivo, in sostanza, diventa far sì che la giustizia sostanziale abbia sempre il sopravvento su quella meramente formale. Le soluzioni normative puntano sullo schema del processo misto, bipartito tra: 1) Fase dell’istruzione, a sua volta distinta in sommaria (condotta dal p.m., magistrato alle dipendenze del governo) e formale (condotta dal giudice istruttore, autorità con ampi poteri) e connotata da segretezza e scrittura. Il fine che il codice le assegna è la ricerca della “verità”, traguardo considerato raggiungibile a prescindere dalla dialettica con la difesa; 2) Fase del dibattimento, sul cui esito influiscono i verbali formati durante l’istruzione. Dunque, l’udienza pubblica e orale, quando si celebra, concede alla difesa la mera occasione di discutere sul piano retorico-argomentativo il significato di quegli atti, e non anche l’opportunità di contribuire al formarsi delle prove. Quanto alla libertà personale, predominano gli automatismi della carcerazione preventiva, tanto che la condizione regolare dell’imputato nel corso del processo è quella di detenuto. 7 SEZIONE 2 – Dalla Costituzione ai nostri giorni 1.DIRITTO COSTITUZIONALE APPLICATO L’uscita dalla Seconda guerra mondiale insieme al varo delle Carte internazionali dei diritti e delle Costituzioni rigide, negli Stati caduti sotto i regimi totalitari portò al rovesciamento della visione conferita agli scopi e all’organizzazione del processo penale. La legislazione nazista aveva condotto all’annichilimento dell’individuo. Il fascismo fece leva sul concetto di strumentalità tra processo e legge penale sostanziale, per concludere come il miglior processo sia quello che subordina i diritti dell’individuo al mero prospettarsi dell’ordine e della sicurezza pubblica. Fu quello il momento, in Italia, di interrogarsi sui perduti valori liberaldemocratici che si ritrovavano scolpiti nella Costituzione in attesa di rispecchiarsi nella disciplina del processo penale. Definire quest’ultimo come “diritto costituzionalmente applicato” gli retribuiva il compito di garantire la dignità dell’imputato quale titolare di una sfera di diritti intoccabile dal pubblico potere. La matrice è antitotalitaria e riflette le idee fondative delle neodemocrazie. Inizialmente il cambiamento imposto dalla Costituzione fu avvertito da pochi a causa della continuità con il clima culturale che accompagnò la nascita del codice fascista: la scienza processuale rimaneva ancorata al tecnicismo giuridico di Manzini. Doveva ancora farsi strada la consapevolezza della finalità da imprimere alla regolamentazione processuale penale: proteggere e garantire i diritti della persona, di modo che l’imputato non fosse più lasciato in balìa dello Stato, né il processo ridotto a strumento per l’attuazione di obiettivi politici contingenti. I principi costituzionali non lasciavano spazio ad un processo inquisitorio, la cui struttura non era idonea a tutelare a pieno i diritti individuali. 2.GARANTISMO INQUISITORIO La soluzione a lungo preferita, tuttavia, fu di mantenere l’impalcatura inquisitoria del c.p.p. del 1930, apportandovi specifici interventi per eliminare le storture maggiori rispetto all’insieme dei diritti inviolabili sancito dalla Costituzione. Il legislatore e la Corte costituzionale iniziarono ad adattare alcuni istituti processuali al mutato quadro di valori (es. il diritto di difesa, il regime di restrizione anticipata della libertà personale, il sistema delle impugnazioni); tale fenomeno di stratificazione venne chiamato garantismo inquisitorio, per sottolineare il tentativo di concedere all’imputato saltuari diritti in funzione compensativa della matrice processuale autoritaria. Ciò in realtà finiva per sbilanciare ulteriormente (nella direzione contraria all’imputato) l’equilibrio tra le fasi dell’istruzione e del dibattimento: gli atti istruttori, una volta corroborati dalla partecipazione difensiva, acquisivano maggior peso nella valutazione del giudice dibattimentale, più facilmente indotto ad attribuire loro maggiore attendibilità rispetto a prima. 3.UN’IDEA FECONDA: L’INCHIESTA PRELIMINARE DI PARTE Va a Francesco Carnelutti il merito dell’intuizione per le scelte legislative alla base dell’odierno c.p.p.: al fine di garantire la formazione delle prove in contraddittorio bisogna porre un “diaframma” tra il dibattimento e la fase anteriore, convertendo la vecchia istruzione in una mera inchiesta preliminare di parte, utile al p.m. nella raccolta degli elementi per verificare la fondatezza dell’azione ma con il divieto, nei confronti del giudice incaricato della decisione finale, di conoscere quanto avvenuto in precedenza. Il principale difetto del processo penale era il pregiudizio arrecato dall’istruzione all’accertamento dibattimentale, declassato a ripetizione dei risultati probatori provenienti dalla fase anteriore. Alla separazione funzionale e all’irrilevanza probatoria della fase preliminare, i cui atti si sarebbero conseguentemente improntati a libertà di forme, era perciò ispirato lo schema di ricostruzione del sistema processuale elaborato nel 1962 dalla commissione ministeriale presieduta da Carnelutti. Era evidente la rottura con il processo misto a prevalenza inquisitoria. L’esperimento, forse troppo audace, incompiuto nel dettato e con una marcata identificazione con il pensiero dell’autore, rimase senza esito legislativo; in ogni caso, la sua idea cardine fu rilanciata negli anni seguenti fino a diventare il tratto distintivo dell’attuale c.p.p. Con Franco Cordero il paradigma di riferimento diventa il processo adversary di stampo anglosassone. Il principio del contraddittorio è davvero rispettato se il dibattimento funge da centro di gravitazione del 10 agosto 1992, n.356) per potenziare l’efficacia dell’attività investigativa e favorire l’uso in dibattimento dei relativi risultati, agevolando le decisioni di condanna. La polizia giudiziaria (p.g.) si emancipava dalla subordinazione al p.m. e gli atti compiuti da entrambi venivano dotati di una struttura incline ad assimilarli ai mezzi di prova (es. prescrizioni legali da rispettare, oneri di documentazione). Il fine era promuovere la fase preliminare a baricentro del sistema capace di condizionare gli esiti del successivo giudizio; ne usciva emarginato l’esercizio del diritto al contraddittorio da parte della difesa, già estranea all’operato investigativo di p.m. e polizia. Oltre a ciò si voleva che la decisione sulla colpevolezza dell’imputato finisse ipotecata dal peso dei verbali e sentenze provenienti da altri processi, utili a ricostruire certi fatti complessi (es. in contesti mafiosi) senza bisogno di riconvocare ogni volta a deporre testimoni e collaboratori di giustizia. Il provvedimento normativo accentuava la linea del c.d. doppio binario: si tratta di quell’insieme di norme che ricava nel sistema un regime d’eccezione per l’accertamento di determinate tipologie delittuose per la loro gravità, derogando al trattamento processuale uniforme dei fatti di reato per avvantaggiare l’azione punitiva nel bilanciamento con le garanzie di difesa. Altro problema che si poneva era quello del rischio che la fase delle indagini preliminari degenerasse in una riedizione della vecchia istruzione, con un enorme differenza: l’attività di ricerca della prova non sarebbe stata più affidata al giudice, bensì al p.m.; tale squilibrio avrebbe assunto proporzioni enormi. E, infatti, il gigantismo del p.m. caratterizzò tutta la stagione post 1992 in cui, insieme ai processi di criminalità organizzata, ebbero effetti travolgenti sulla vita pubblica le numerose inchieste per fatti di corruzione politica (c.d. Mani pulite o Tangentopoli). In estrema sintesi sa dinamica era caratterizzata dall’abituale ripetersi di una concatenazione meccanica. Il p.m. acquisiva informazioni sufficienti a privare qualche indagato della libertà personale con la custodia in carcere (misura cautelare disposta con facilità, dietro sua richiesta, dal giudice per le indagini preliminari); lo stato detentivo, poi, induceva alla collaborazione sotto forma di confessioni e chiamate in correità (concorso) a carico di altri soggetti, sicchè il delatore veniva premiato con l’uscita dal carcere e, più tardi, dalla vicenda giudiziaria, grazie al consenso del p.m. al rito speciale dell’applicazione di pena su accordo delle parti (patteggiamento). L’imputato aveva così poche chances una volta raggiunto dalle altrui dichiarazioni accusatorie che, ottenute dal p.m. senza la garanzia della difesa, diventavano prova in dibattimento. “Mani pulite” comportò anche altro: emblematico fu anche l’abbandono della necessaria autorizzazione, da parte della Camera competente, per sottoporre a processo un membro del Parlamento: l’ostilità verso la classe politica, suscitata presso i cittadini dall’azione della magistratura, costrinse ad eliminare la guarentigia/garanzia dell’inviolabilità della funzione legislativa, percepita come ingiustificato privilegio personale. Gli anni successivi saranno dominati da questo conflitto tra potere politico ed ordine giudiziario, in cui giocherà un ruolo decisivo anche il clamore mediatico delle indagini penali. Si accentuava la tendenza dei magistrati a impiegare gli atti iniziali del procedimento come sanzioni anticipate rispetto alla sentenza (strategia ora esaltata dai mezzi d’informazione, pronti a divulgare coram populo ogni iniziativa probatoria o cautelare dei p.m.). In conclusione, i risultati delle indagini preliminari erano resi veri sul piano sia giuridico che sociale; assumevano qualità di prova, anche se formati nella prospettiva unilaterale degli organi inquirenti. 7.IL PRECARIO RIPRISTINO DELLE GARANZIE NEL PERIODO INTERMEDIO Nella seconda metà degli anni ’90 vengono apportate una serie di modifiche alla legge processuale che si spiegano con la volontà del Parlamento di ripristinare l’equilibrio tra accusa e difesa, soprattutto nel campo delle limitazioni alla libertà personale, ove si erano verificate distorsioni di vario tipo (es. l’uso deliberato della custodia in carcere al fine di ottenere confessioni); il rifiuto di collaborare con la giustizia comportava la permanenza dell’imputato in cattività, rievocando la logica inquisitoria della tortura. Si tentò di rimediare con la l. 332/1995, il cui art.274 vietava al giudice di desumere l’esistenza del pericolo d’inquinamento probatorio – tale da legittimare la restrizione della libertà a fini cautelari– dall’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato. Per scoraggiare ingerenze indebite nell’autodifesa si presidiò anche lo svolgimento degli interrogatori di persone in vinculis con la modalità di documentazione audiovisiva. Per il resto l’intervento legislativo mirava a porre il giudice cautelare in condizione sia di controbilanciare le risultanze a carico dell’imputato con gli elementi emersi a suo favore, sia di adottare misure meno afflittive di quella carceraria. Non si era ancora riusciti a rendere il g.i.p. garante della libertà individuale, in quanto aveva accesso solo agli atti d’indagine che il p.m. voleva sottoporgli per la decisione. 11 A ciò si univano motivi di accondiscendenza alle strategie del p.m. dovute alla prossimità istituzionale tra i due magistrati, appartenenti allo stesso ordine giudiziario. La l. 267/1997, invece, si concentrava su un aspetto specifico dei rapporti tra fase preliminare e dibattimento: l’uso probatorio delle dichiarazioni rese durante le indagini da alcuni imputati a carico di altri, senza che questi ultimi potessero esercitare il diritto al confronto con l’autore delle accuse quando non fosse comparso in giudizio o fosse rimasto in silenzio di fronte al tentativo d’esame della difesa. La nuova legge tornò a chiudere l’accesso dei verbali d’indagine al fascicolo dibattimentale, condizionando il superamento del divieto probatorio al caso (remoto) che l’imputato destinatario di una chiamata in correità prestasse il consenso alla lettura delle dichiarazioni anteriori. Si prefigurava un ritorno all’assetto accusatorio, perciò la magistratura fece resistenza e di nuovo la Corte costituzionale, adita dai giudici remittenti, si fece interprete delle loro doglianze. La sent. 361/1998 – con toni attenuati rispetto alle pronunce precedenti, ma manipolando il codice oltre i limiti del sindacato di costituzionalità - autorizzò tante letture parziali del verbale d’indagine, contenente le dichiarazioni accusatorie di un imputato, quanti fossero i silenzi da costui opposti alle singole domande rivoltegli dalle parti in dibattimento. Al termine della sequela, l’atto unilaterale formato nella fase pregressa sarebbe entrato per intero tra le prove utilizzabili ai fini della condanna. Nei confronti di questo meccanismo giunsero, successivamente, le censure della Corte europea dei diritti dell’uomo che ne ravvisò la contrarietà al diritto per l’accusato di interrogare i testimoni a carico, contestando le dichiarazioni servite da unica base legale della condanna. 8.IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITORIO PER LA PROVA NELLA COSTITUZIONE La revisione della Carta fondamentale all’insegna del giusto processo, modificata con l. cost. 2/1999, innalzò il principio del contraddittorio nella formazione della prova al massimo livello delle fonti normative (art. 111.4 Cost.). Si inseriva così una clausola tipica del modello processuale accusatorio: entrambe le parti avrebbero concorso direttamente, a pari titolo e da posizioni contrapposte, ad elaborare i materiali utilizzabili dal giudice ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, con esclusione di valore probatorio agli atti della fase preliminare. La successiva riscrittura delle disposizioni del codice a presidio della separazione tra le fasi processuali non portò però alla versione originaria del 1988. Inoltre, si era fatta strada l’idea che il contraddittorio, per essere realizzato, implicasse il vincolo del dichiarante a presentarsi e a rispondere il vero alle domande delle parti, anche quando non si trattasse di un testimone ma di un imputato. Tale concezione era incline a pretendere condotte processuali collaborative in vista di un accertamento da svolgersi passando necessariamente attraverso il metodo del contraddittorio. La magistratura tornò all’attacco di alcune norme cruciali del codice, ma stavolta non trovò ascolto presso la Corte costituzionale, che invece rilevò il mutato quadro costituzionale rispetto alle doglianze passate. La Corte diede una serie di corollari al principio del contraddittorio: l’impermeabilità del processo al materiale raccolto in assenza di dialettica tra le parti, la necessità di preservare il dibattimento dalla contaminazione probatoria con atti acquisiti in via unilaterale nel corso delle indagini preliminari, il convincimento del giudice circoscritto alle sole prove formate in maniera legittima. 9.FINE DELLA STORIA L’impianto accusatorio della riforma del 1988 cadde nel 1992, con l’attacco frontale della magistratura ai canoni dell’oralità e del contraddittorio. Con la nuova riforma l’ostilità verso il metodo dialettico non è venuta meno, ma la strategia è cambiata e ha preso la forma di erosioni silenziose. Queste manovre sono favorite dall’attuale crisi della legalità processuale: il codice non è più percepito quale sistema di disposizioni cogenti ma come contenitore di indicazioni meramente orientative per la condotta del magistrato, suscettibile di applicazione con margini di scostamento funzionali al risultato ritenuto preferibile di volta in volta. Anche la dottrina ha perso il ruolo di guida delle riforme legislative e di presidio critico contro la tentazione di indebolire le garanzie individuali da parte dei detentori del potere. A ciò si aggiunge anche la tendenza alla compulsiva attività novellistica autonoma sia parlamentare che ministeriale. In breve, possiamo individuare due indirizzi, entrambi tendenti ad affievolire i diritti dell’accusato: a. Il primo punta alla riscoperta della vittima, mettendola al centro del processo penale. Nella sua figura il legislatore ha trovato un catalizzatore del consenso sociale intorno a politiche criminali di segno repressivo; 12 b. Il secondo va collegato al predominio della c.d. ossessione securitaria: la catena di attentati susseguente all’attentato dell’11 settembre 2001 ha innescato la reazione guerresca degli Stati occidentali, accentuando la pulsione a trasformare gli strumenti del processo penale che colpiscono la sfera dei diritti fondamentali in dispositivi utili a combattere la criminalità organizzata ed il terrorismo apocalittico o, più banalmente, talune manifestazioni illecite Il contenuto dei “decreti” o “pacchetti sicurezza” si ripete sempre: poteri d’indagine, di arresto e di carcerazione cautelare ampliati e facilitati per la lotta contro il nemico. In conclusione, il processo penale si sta trasformando da sede istituzionale deputata all’accertamento di fatti di reato che si suppongono già commessi, a strumento poliziesco attivato per prevenire pericoli ancora da realizzarsi. SEZIONE III - LINEE DEL SISTEMA ODIERNO 1.PANORAMICA DEL PROCEDIMENTO PENALE: A) STRUTTURA BIFASICA E STADIO DELLE INDAGINI PRELIMINARI Nell’attuale struttura del procedimento penale sono ancora riconoscibili le due arcate dello stile accusatorio progettato dalla riforma del 1987-1989: la fase preliminare e il dibattimento. Si presentano contrapposte e separate da un elemento: le conoscenze raccolte prima del dibattimento, in difetto del contraddittorio, non hanno efficacia di prova e dunque restano fuori dal dibattimento stesso. Inoltre, esiste una regola d’esclusione collocata a cerniera tra i due segmenti: i risultati delle indagini servono all’azione penale; eventualmente saranno utili alla definizione del processo in uno dei riti alternativi al dibattimento. Quest’ultimo è il luogo privilegiato di assunzione della prova, di cui sono pilastri la formazione del fascicolo per il dibattimento e il divieto d’uso ai fini della sentenza di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel corso di tale stadio conclusivo. La fase anteriore si articola in più tappe, di cui le indagini preliminari sono la prima e immancabile. Il dibattimento può a volte essere preceduto dall’udienza preliminare. Le indagini prendono avvio con la notizia di reato, presupposto necessario dell’attività di perseguimento penale ed embrione dell’accusa che andrà esplorata, specificata, contestata a chi sia eventualmente individuato come possibile autore del fatto di rilevanza penale (può anche darsi che costui resti ignoto). Il procedimento è un continuo interrogarsi sulla fondatezza dell’addebito di responsabilità, prima con il compimento di atti d’indagine mirati a scoprire se sussistano gli elementi a sostegno dell’illecito; poi mediante l’assunzione di prove a conferma o smentita dell’ipotesi accusatoria formulata, con l’atto di imputazione, sulla base dei risultati della fase preparatoria. L’imputazione cristallizza l’addebito fino a lì provvisorio (mutevole alla luce delle acquisizioni investigative) ed è contenuta nell’atto di esercizio dell’azione penale che, a indagini preliminari concluse, segna l’apertura del processo propriamente detto. Quest’ultimo è la porzione del più ampio procedimento penale (dalla notizia di reato al giudicato) compresa tra l’azione e la sentenza definitiva (inclusi gli eventuali gradi di giudizio successivi al primo: appello e ricorso per cassazione). La fase delle indagini preliminari viene anch’essa contraddistinta con il termine di procedimento. Lì si muovono i soggetti processuali, mentre di parti (costituite) parliamo soltanto le processo stricto sensu. Le indagini sono dominate dal p.m. in funzione inquirente, che si serve della polizia giudiziaria (p.g.) dirigendone l’operato (anche se ora questa trova allargati spazi di autonomia investigativa). L’individuo a cui il reato è attribuito in via precaria è la persona sottoposta alle indagini, distinta dall’imputato, che è invece colui che viene tratto a processo come destinatario di un’accusa stabile e corroborata. Facoltà in misura crescente poi sono state attribuite alla persona offesa dal reato. In generale, alle difese spetta un potere di investigazione privata parallelo (ma non perfettamente speculare) a quello degli organi pubblici. La novità è la sostituzione del giudice istruttore con il g.i.p., privo di poteri investigativi e con un duplice ruolo di controllo sull’operato del p.m. e di garanzia rispetto alle situazioni soggettive della persona indagata (essendo la difesa normalmente in svantaggio durante le indagini). Il g.i.p. non ha piena giurisdizione ma interviene episodicamente su sollecitazione delle parti potenziali, specie quando c’è la necessità di adottare provvedimenti limitativi di libertà fondamentali (es. intercettazioni e misure cautelari). Di fronte al g.i.p. (ma senza sua iniziativa) si svolge l’incidente probatorio, una sorta di anticipazione di un frammento dibattimentale alla fase preliminare. Il p.m. resta l’unico titolare della scelta (non discrezionale, ma sottoposta a parametri vincolanti) da compiersi all’esito delle indagini preliminari sul 15 L’Unione è dotata di un’apposita Carta dei diritti fondamentali (c.d. Carta di Nizza), con lo stesso valore giuridico dei Trattati, che influenza il modo in cui le garanzie processuali dovranno essere modellate anche a livello interno. ➔ In definitiva, la C.e.d.u. e le norme eurounitarie hanno una sempre maggiore importanza nella procedura penale. Quanto alla legittimazione, la Cedu e le norme europee entrano nel nostro sistema tramite appositi atti del Parlamento italiano (la cedu è stata ratificata nel ’55), mentre le direttive e i regolamenti sono l’esito di una cessione di sovranità nazionale all’Unione operata dalle leggi che hanno recepito i Trattati. 3.IL VALORE ORIENTATIVO DEL DIRITTO GIURISPRUDENZIALE Nei sistemi di common law, dove c’è il vincolo del precedente giurisprudenziale (stare decisis), una delle fonti ufficiali della procedura penale sono le sentenze dei giudici, che si affiancano alle leggi degli organi parlamentari. Nel nostro ordinamento invece le decisioni dei giudici di merito, della Corte di cassazione e della Corte costituzionale non sono fonti dotate di rango formale. Il loro valore vincolante è confinato ai dispositivi emessi in rapporto a ciascun singolo caso; non si estende alle interpretazioni delle norme che ne stanno alla base, che possono sempre essere mutate dai giudici successivamente chiamati a decidere su casi analoghi. Lo stesso vale per le decisioni della Corte Edu, la quale è competente a decidere su tutte le questioni che riguardano l’interpretazione e applicazione della Convenzione europea e le decisioni della Corte di giustizia dell’UE, che ha il compito di assicurare il rispetto del diritto UE nell’interpretazione e applicazione dei Trattati. Anche queste pronunce generano un vincolo che riguarda i soli dispositivi dei singoli casi e ciò si ricava dall’art. 46 Cedu, secondo cui gli Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea “sulle controversie nelle quali sono parti”. Queste ultime sono anzitutto le sentenze con cui i giudici accertano una violazione della Convenzione e condannano l’Italia al pagamento di un equo indennizzo, magari prospettando anche il riesame del caso; oppure le c.d. sentenze-pilota, con cui la Corte europea, a seguito di violazioni plurime della Convenzione, riconosce l’esistenza di difetti sistemici di un ordinamento nazionale e suggerisce allo Stato una serie di misure legislative da adottare per porvi rimedio (es. sent. Torreggiani: ha ritenuto incompatibile con la Convenzione le condizioni di sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani). Lo stesso ancora vale per i dispositivi rinvenibili nelle decisioni della Corte di giustizia, con cui i giudici di Lussemburgo accertano un’infrazione degli obblighi assunti dagli Stati in forza del diritto dell’Unione, annullano una norma dell’Unione o decidono un ricorso in via pregiudiziale. L’assenza del vincolo del precedente nel nostro sistema deriva dalla netta separazione dei poteri, di matrice illuministica: il potere di produrre norme spetta solo agli organi direttamente eletti dai cittadini, caratteristica che i giudici italiani ed i giudici della Corte europea e della corte di giustizia non possiedono. L’art. 101.2 Cost. prevede che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, intesa come diritto di matrice parlamentare. Nulla vieta che qualsiasi giudice, indicandone le ragioni, si discosti dalle interpretazioni delle norme di legge italiane, della Convenzione europea e dell’Unione precedentemente adottate da altri giudici. In ogni caso, anche se il diritto giurisprudenziale non ha valore formale, esso risulta comunque indispensabile in alcuni contesti per tradurre le norme del legislatore in regole concretamente applicabili nel singolo caso. Ciò avviene ad esempio a causa di ambiguità o incompletezze del diritto legislativo, oppure a causa del mancato impiego di una tecnica legislativa sufficientemente rigorosa o dell’imprecisione congenita del linguaggio. Inoltre, nel nostro sistema ci sono norme che non fissano regole bensì si limitano a porre principi, i quali di conseguenza devono essere tradotti in regole più precise dalla Corte costituzionale. Struttura simile hanno le prescrizioni della Convenzione europea, per questo oggetto di una grande implementazione ad opera della Corte Edu, che ne integra il significato ricavandone regole che trascendono la portata dei singoli casi e non trovano appigli letterali nella Convenzione. Divenuto operativo il XVI Protocollo alla Cedu, tale funzione cerativa sarà rinforzata dalla possibilità per i giudici nazionali di sospendere i processi in corso e domandare ai giudici di Strasburgo pareri consultivi sull’interpretazione della Convenzione: così il case law della Corte europea potrà cominciare a produrre effetti in rapporto al singolo caso già durante il processo e non, come finora, dopo la sua chiusura. Per ultimo, le norme dell’Unione europea in materia penale solo raramente sono complete ed autosufficienti, mentre tendenzialmente fissano obiettivi che devono essere attuati dagli Stati e ricorrono a clausole discrezionali fondate sul rispetto dei principi fondamentali degli ordinamenti nazionali o dei diritti fondamentali; dunque, inevitabilmente la Corte di giustizia ne deve specificare la portata. 16 In conclusione, il diritto giurisprudenziale interno ed europeo ha un importante valore orientativo, per cui i giudici rimangono liberi di adottare interpretazioni diverse da quelle dei precedenti, tuttavia saranno portati a seguirle (soprattutto se provenienti da Corti supreme). Il loro dissenso, da presentare solo in presenza di solide ragioni, rischierebbe infatti di determinare: • A livello nazionale, la riforma della decisione in sede di impugnazione; • A livello sovranazionale, la condanna dell’Italia da parte della Corte europea per violazione della Convenzione o l’apertura di una procedura di infrazione per inosservanza delle norme UE. Ciononostante, non opera alcun vincolo formale del precedente, che anzi entrerebbe in contrasto con l’art. 101.2 Cost. 4.LE GERARCHIE: DALLA PIRAMIDE ALLA RETE Un altro criterio di distinzione è dato dalla gerarchia delle norme processuali penali (a sua volta dipendente dalla gerarchia delle fonti), tradizionalmente di stampo piramidale e fondata sul binomio Costituzione-legge ordinaria: secondo questo assetto, il giudice sarebbe tenuto ad interpretare la seconda conformemente alle indicazioni della prima e, qualora ciò non fosse possibile, a sollevare questione di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. Ora però, con l’apertura ai formanti europei, la struttura ha assunto una configurazione più a rete in cui i rapporti di forza sono meno netti: la supremazia della Costituzione sulla legge ordinaria rimane, ma la sovranità in materia processualpenalistica non è più di esclusiva competenza dello Stato, in quanto si è distribuita su vari livelli non più solo interni. 4.1. La componente convenzionale della rete Il rango della Convenzione europea nel sistema delle fonti trova la sua origine nell’art. 117.1 Cost. (: il potere legislativo statale va esercitato nel rispetto dei vincoli che provengono non solo dalla Costituzione ma anche dagli obblighi internazionali), grazie al quale si può affermare che essa, sebbene sia stata recepita nel nostro sistema con una legge ordinaria, abbia un valore superiore rispetto a quello delle norme parlamentari, arrivando ad integrare un parametro di legittimità che giustifica l’eventuale proposizione di questioni di fronte alla Corte costituzionale. Se le norme convenzionali risultassero self-executing, in quanto non avessero bisogno di alcuna integrazione normativa da parte del legislatore nazionale, potrebbero essere direttamente applicate dai giudici interni nelle situazioni in cui non si rinvengano regolamentazioni nazionali. Le prescrizioni della Cedu, come si è già detto si esauriscono in un catalogo di generici principi, equiparabile a quello contenuto nella nostra Costituzione; infatti, la Corte costituzionale ha precisato che ad integrare il parametro di legittimità sono le prescrizioni convenzionali non in sé considerate ma nel significato che viene loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte europea. Secondo alcuni da ciò deriva un vero e proprio vincolo formale alle letture della Cedu operate dai giudici di Strasburgo, tuttavia abbiamo già visto che il nostro sistema non consente di attribuire tale efficacia al diritto giurisprudenziale; dunque, il case law della Corte europea possiede un valore orientativo destinato a pesare tanto più quanto più siano rispettate alcune condizioni: a) Le norme desumibili dalle decisioni della Corte europea vanno considerate in stretto collegamento rispetto al caso concreto nell’ambito del quale sono state elaborate; dunque, esse appaiono invocabili solo in rapporto ai casi successivi che siano contraddistinti da elementi di significativa somiglianza, altrimenti non è detto che i giudici di Strasburgo decidano nello stesso modo (c.d. tecnica del distinguishing, che impedisce di ricavare dai precedenti norme giuridiche valide in astratto e quindi universalizzabili); b) Le norme della Corte europea sono invocabili se espressione di un’interpretazione consolidata nella giurisprudenza di Strasburgo; c) Non possono mai assumere il rango di parametri di legittimità le norme della Corte europea in radicale conflitto con le prescrizioni della Costituzione italiana (infatti si parla di parametri solo “interposti”); d) Le norme della Corte europea elaborate per casi analoghi, espressioni di un’interpretazione consolidata e compatibili con la Costituzione, sono comunque soggette al c.d. margine di apprezzamento nazionale: vanno applicate tenendo conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui dovrebbero inserirsi. I giudici nazionali possono non tenerne conto se esistono norme interne che, seppur non identiche, risultano equivalenti, capaci di attuare i medesimi valori; 17 e) I margini per discostarsi dalle norme della Corte europea aumentano quando queste esprimono standard di tutela dei diritti meno elevati di quelli nazionali (c.d.principio di massima espansione delle garanzie). 4.2. La componente eurounitaria della rete Gli artt. 11 e 117.1 Cost. consentono che la sovranità e la potestà legislativa nazionali trovino limitazioni anche nelle norme dell’UE, tra cui quelle nella Carta di Nizza, nelle direttive e nei regolamenti. Sono prescrizioni che, a certe condizioni, hanno efficacia diretta: generano l’obbligo in capo ai giudici nazionali di disapplicare le eventuali norme interne contrastanti, senza sollevare questioni di incostituzionalità. Il requisito essenziale affinché tale efficacia diretta possa sprigionarsi è che siano norme precise ed incondizionate, cioè a contenuto sufficientemente definito e suscettibili di essere applicate senza ulteriori interventi. A ciò si aggiunge la circostanza, per le direttive, che sia inutilmente scaduto il termine per la loro recezione da parte del legislatore nazionale. Tuttavia, si è visto che in ambito processuale raramente le norme UE contengono fattispecie complete e quindi sono raramente direttamente applicabili in sé considerate. La loro effettiva valenza si capisce nelle implementazioni date dalle interpretazioni della Corte di giustizia. Inoltre, secondo l’art.52 § 3 della Carta di Nizza, la portata dei diritti fondamentali riconosciuti dall’UE deve essere uguale a quella assicurata dalla Cedu, perciò il contenuto delle garanzie processuali viene precisato anche dalle interpretazioni della Corte EDU. Inoltre, l’efficacia diretta delle norme UE non giustifica la disapplicazione delle norme interne quando ne derivi una lesione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana (c.d. controlimiti), tali da esprimere valori così importanti da non poter essere sottoposti neppure a revisione costituzionale. Nelle situazioni invece in cui le norme UE non sono in grado di esprimere un’efficacia diretta, ne determinano una efficacia indiretta che si concretizza in un obbligo di interpretazione conforme: i giudici nazionali devono attribuire alle norme interne il significato maggiormente compatibile con le prescrizioni UE, salvo il rispetto dei controlimiti costituzionali nonché della littera legis. In caso di insanabile contrasto tra norme interne e UE, deve essere sollevata questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. 5.LE TECNICHE INTERPRETATIVE Le norme processuali penali sono oggetto di una continua elaborazione interpretativa, finalizzata a stabilirne il significato più corretto. La tecnica di interpretazione classica è quella letterale (art. 12.1 delle disposizioni sulla legge in generale – c.d preleggi), secondo la quale nell’applicare la legge non si può attribuirle “altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. È un metodo funzionale al massimo rispetto della separazione tra poteri. È pero insufficiente a causa delle ambiguità e incompletezza delle prescrizioni legislative, perciò si ricorre anche all’interpretazione estensiva, che consiste nel maggior ampliamento possibile dell’area operativa delle norme sulla base della littera legis. Un’ulteriore possibilità è l’analogia, cioè l’applicazione di norme dettate per casi simili o materie analoghe, situazioni che pur non perfettamente identiche presentano significativi elementi di somiglianza con quella esplicitamente regolata. Vanno poi nominate l’interpretazione sistematica, che consiste nell’attribuzione alle norme del significato più in linea con i principi generali del sistema processuale, e quella teleologica, che tenta di ricostruire il significato delle norme alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. Non sempre tutte queste tecniche interpretative sono risolutive, ma incontrato tutte un limite invalicabile: nessuna di queste tecniche potrebbe mai legittimare un’interpretazione contra legem, la quale consentirebbe di dare alle norme una portata incompatibile con i possibili significati delle parole usate dal legislatore e quindi di attribuire ai giudici una funzione creativa. Consente di superare questo limite la disapplicazione, permessa a favore delle norme UE con efficacia diretta: grazie ad essa i giudici possono rendere inefficaci le norme nazionali e sostituirle con quelle europee, anche in caso di contrasto con il significato letterale delle seconde con le prime. L’ultima tecnica interpretativa, praticabile per norme che si limitano ad esprimere principi, è il giudizio di proporzionalità, volto a bilanciare i principi tra loro e che consta di tre passaggi: 1) l’individuazione della capacità della misura processuale di tutelare valori di preminente importanza; 2) la stretta necessità del sacrificio dei valori contrapposti; 3) la salvaguardia del nucleo fondamentali dei valori sacrificati, in modo che il pregiudizio per questi ultimi non risulti eccessivo. È un vaglio alla base delle valutazioni di 20 principio di tassatività. In quest’ottica sarebbe costituzionalmente sospetto un istituto processuale la cui disciplina fosse lasciata in massima parte al potere discrezionale del giudice. Nonostante la giovane età, il principio di legalità processuale appare già in crisi a causa di un complesso di fattori politici, storici, ideologici e culturali: 1) Anzitutto, l’esasperata produzione legislativa ha sfilacciato il codice, rendendolo disomogeneo, prolisso e incoerente (es. la moltiplicazione di articoli contrassegnati da ordinali latini quali bis, ter …). 2) In secondo luogo, nel processo penale la magistratura mostra spesso atteggiamenti antiformalistici, cioè tende ad aggirare le regole fissate dal legislatore, soprattutto in vista dell’obiettivo dell’accertamento della verità. Così facendo però dimentica che un processo non è giusto semplicemente perché scopre cos’è accaduto, ma solo se lo fa secondo un certo rito e certe cadenze. 3) In terzo luogo, il quadro è stato scomposto dalle disposizioni sovranazionali, che hanno fatto penetrare nell’ordinamento precetti molto indeterminati, perché costruiti più su principi che su fattispecie. Le disposizioni UE, in particolare, vengono prima redatte in un linguaggio volutamente atecnico (per adattarsi a svariati ordinamenti) e poi tradotte nelle varie lingue ufficiali dell’UE da giuristi che non sempre hanno grandi competenze nel settore a cui le disposizioni si riferiscono. Ancora, l’obbligo per i giudici interni di disapplicare la normativa nazionale contrastante con quella UE, favorisce l’immagine di un giudice che può ergersi al di sopra della legge. Infine, il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie rischia di indebolire negli operatori il rispetto verso la norma italiana, perché al provvedimento straniero (formato senza rispettarla) dovrà essere attribuito lo stesso valore che spetta alla decisione nostrana. Uno dei campi su cui queste tensioni si scaricano è quello delle nullità: la materia è dominata dal principio di legalità, nel senso che quando si tratta di decidere intorno alla validità di un atto, l’unico parametro da considerare dovrebbe essere il rispetto o l’inosservanza della disposizione che lo regola, mentre nessun peso dovrebbe essere attribuito alle caratteristiche del caso concreto e all’accertamento dell’effettiva lesione dell’interesse tutelato dalla norma. Nella prassi recente invece la nostra giurisprudenza spesso rifiuta di dichiarare una nullità quando la violazione non abbia pregiudicato in misura sensibile l’interesse salvaguardato dalla norma trasgredita. 4) Inoltre, rileva anche un fenomeno recente: la proliferazione di fonti di soft law (protocolli, linee guida, circolari..) emanate dai capi degli uffici giudiziari per fornire direttive sull’interpretazione ed applicazione dei precetti legali. Si tratta allo stesso tempo di un sintomo e di una causa della crisi. 3.LA LIBERTÀ PERSONALE (domanda: Art. 13 Cost. E art.5 CEDU = probable cause —> Nel diritto penale degli Stati Uniti, la probable cause è lo standard in base al quale le autorità di polizia hanno motivo di ottenere un mandato di arresto di un sospetto criminale o l’emissione di un mandato di perquisizione: fondato motivo). La salvaguardia della libertà costituisce la radice politico-costituzionale della procedura penale, tant’è che all’art. 13 co. 1 Cost. se ne afferma l’inviolabilità. Quest’ultima è interpretata come clausola normativa volta a sottrarre i diritti inviolabili al procedimento di revisione costituzionale ex art. 138 Cost. L’inviolabilità implica cioè l’esistenza di un contenuto minimo di garanzie, riconosciute dall’ordinamento a prescindere dalla volontà dell’interessato: la libertà personale è perciò indisponibile, intrasferibile, irrinunciabile ed imprescrittibile (es. non è ammissibile la spontanea sottoposizione a pena restrittiva della libertà personale, in quanto il titolare di questo diritto non può disporne ad libitum fino a sacrificarlo completamente). Ancora, l’inviolabilità costituisce il fondamento del c.d. favor libertatis, che impone di individuare tra più soluzioni interpretative possibili di un testo normativo, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale. I commi dell’art.13 successivi al primo sono quelli a più marcato contenuto processuale: - Il c.2 stabilisce la triplice garanzia della riserva assoluta di legge, di giurisdizione e dell’obbligo di motivazione. (“Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.) - Il c.3 disciplina i poteri coercitivi della polizia, eccezionali, provvisori e sempre assoggettati al successivo controllo giurisdizionale. (“In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere 21 comunicati entro quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.) - Il c.4 vieta “ogni violenza fisica e morale” sulle persone ristrette; - Il c.5, nonchè ultimo comma, impone limiti massimi alla durata della carcerazione preventiva, al fine di evitare che il sacrificio della libertà sia interamente subordinato alle vicende del procedimento. All’art. 13 Cost. si collegano altre regole della Costituzione: da un lato, la ricorribilità per cassazione per violazione di legge di tutti i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali (art. 111.7 Cost.); dall’altro, il divieto di trattare l’imputato come il condannato (art. 27.2 Cost.). Tramite l’art. 117.1 Cost. la tutela della libertà personale ricomprende le garanzie previste dall’art. 5 Cedu, secondo cui: • la persona arrestata “deve essere informata al più presto e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa a suo carico” (§2) • La persona arrestata o detenuta per finalità di giustizia “deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie” (§3) • Ogni persona arrestata o detenuta per fini giudiziari “ha diritto di indirizzare un ricorso a un tribunale perché esso decida, entro brevi termini, sulla legalità della detenzione, e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale” (§4) Ciascuna delle condizioni del provvedimento restrittivo della libertà imposte dalla Costituzione è connessa con le altre e fonda la dimensione garantista della procedura penale quale “esercizio del potere secondo regole, leggi e valori..” e antidoto “per scongiurare gli arbitri”; l’accertamento della verità in funzione della tutela della libertà rappresenta, infatti, la fonte primaria di legittimazione del giudice penale. 3.1 Riserva di legge, di giurisdizione e obbligo di motivazione La riserva di legge consiste nella necessità della previa individuazione legale dei casi e dei modi dell’eventuale restrizione della libertà personale (principio di legalità) e comporta la tassatività delle ipotesi restrittive. La riserva di legge ha rilievo politico, assicurando che l’unica fonte abilitata ad incidere sulla libertà della persona sia la legge, diretta emanazione della sovranità popolare. Però, la portata della garanzia discende anche dalla sua indissolubile connessione con la riserva di giurisdizione e l’obbligo di motivazione. Infatti, la previa individuazione per legge dei casi e modi della restrizione consente la sindacabilità del provvedimento e perciò pare implicare la procedimentalizzazione della decisione sulla libertà attraverso lo schema giurisdizionale, da intendersi come costituzionalmente imposto nonostante l’impiego, nell’art.13.2 Cost., della locuzione “autorità giudiziaria”. Quest’ultima si riferisce sia alla magistratura giudicante che a quella requirente, legittimando così anche il p.m. all’esercizio di poteri restrittivi della libertà personale. È però preferibile interpretare l’art. 13 Cost. quale fondamento di una vera e propria riserva di giurisdizione, con il riferimento all’autorità giudiziaria da intendersi volto alla sola autorità giurisdizionale (solo al giudice e non al p.m.). Ciò discenderebbe dal raccordo con la previsione che assicura la ricorribilità per cassazione di tutti i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali (art.111.7 Cost). La riserva di giurisdizione esige che l’autorità investita del potere di limitare la libertà di una persona sia indipendente dal potere politico e dall’esecutivo e impone una valutazione caso per caso del provvedimento restrittivo. Inoltre, a seguito della riforma dell’art.111 Cost., esige il rafforzamento in chiave difensiva dei presupposti applicativi delle misure cautelari e dell’attuazione del contraddittorio nel procedimento di emanazione dei provvedimenti restrittivi. Correlata alla riserva di giurisdizione, infine, è la garanzia dell’obbligo di motivazione del provvedimento limitativo della libertà personale che ha una duplice funzione: 1) propizia il controllo dell’opinione pubblica sul provvedimento coercitivo del giudice (il quale amministra la giustizia in nome del popolo); inoltre, consente il sindacato giurisdizionale sul provvedimento stesso circa l’effettiva sussistenza nel caso concreto dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la restrizione della libertà personale. 3.2 Libertà personale e sistema cautelare (domanda: Art.13 Cost. Ed esigenze cautelari —> + pag.250 ss.) Se la libertà personale è inviolabile e può subire restrizioni solo tramite gli istituti della procedura penale (c.d. “Indefettibilità della giurisdizione penale), allora l’adozione di provvedimenti restrittivi deve seguire e non precedere la conclusione dell’iter giudiziario volto a stabilire se una persona abbia commesso un fatto 22 di reato e sia meritevole di pena, oppure no. La libertà personale precede e condiziona tutte le altre libertà, consentendone l’esplicazione: per tal motivo gli ordinamenti prevedono quale extrema ratio la possibilità di adottare provvedimenti limitativi della libertà personale solo attraverso la sanzione penale, quando cioè si tratti di punire condotte illecite che mettono a repentaglio beni giuridici essenziali, di valore omogeneo a quello della libertà. Ciononostante, è comune a tutti i sistemi di giustizia penale la previsione di misure restrittive eventualmente adottate prima dell’irrevocabile pronuncia di condanna. La stessa Costituzione si riferisce alla carcerazione preventiva (ult.comma art.13), autorizzando, quindi, misure restrittive già nel corso del procedimento. È pacifico che la limitazione della libertà debba essere un’eccezione e, per questo, può riguardare solo la persona che ha commesso un illecito punito dalla legge penale con la detenzione e riconosciuta colpevole da una sentenza irrevocabile di condanna. A maggior ragione allora deve essere eccezionale l’assoggettamento a misura restrittiva di una persona non ancora condannata ma solo sottoposta a procedimento penale. Viene in considerazione qui l’art. 27.2 Cost., da cui si sono ricavate: 1. regola di giudizio, l’imputato deve rimanere esente da conseguenze sfavorevoli nel caso in cui, a conclusione del giudizio, la prova della colpevolezza risulti insufficiente o contraddittoria; 2. regola di trattamento, il divieto di trattare l’imputato come il colpevole. Deve essere letta in combinato disposto con l’art. 13 Cost. quale vincolo negativo posto dal costituente al legislatore. Si vieta che l’eventuale limitazione della libertà personale nel corso del procedimento possa avere funzioni preventive analoghe a quelle derivanti dall’irrogazione della pena ed esclude che la detenzione in carcere prima della condanna definitiva possa mai servire ad anticipare la punizione del colpevole/ la pena (che può esserci solo dopo sentenza passata in giudicato). Secondo la Corte costituzionale l’antinomia tra presunzione d’innocenza e l’espressa previsione di una detenzione ante iudicium (art.13.5) è solo apparente, perché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato durante il procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che assumano connotazione differenziate da quelle della pena; ciò ancorché siano misure ad essa corrispondenti nel contenuto afflittivo. Il principio ex art. 27.2 Cost, insomma, rappresenta uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale a quella propria del diritto penale sostanziale, nonostante gli elementi in comune. Su queste premesse, sono state individuate le ragioni che possono legittimare l’adozione di misure restrittive prima della pronuncia irrevocabile di condanna, consistenti nel perseguimento di finalità eminentemente processuali poste a salvaguardia del procedimento penale stesso: pericolo di inquinamento probatorio e pericolo di fuga. Tuttavia, ciò non basta a rendere costituzionalmente ammissibile una misura restrittiva, perché se fosse possibile adottare misure restrittive giustificate solo da esigenze processuali, ne deriverebbe l’asservimento della persona alle esigenze del procedimento. Al contrario, è congeniale alla logica dell’inviolabilità della libertà personale un sistema legale costruito in funzione della minimizzazione del rischio che l’imputato sia soggetto ad un provvedimento coercitivo. Quando si tratta di limitare la libertà di una persona prima del giudizio di colpevolezza, è la stessa legittimazione dell’autorità giurisdizionale in materia di libertà personale ad atteggiarsi quale prerogativa d’eccezione; un potere così incisivo deve giustificarsi attraverso una motivazione in cui trovino riscontro condizioni ulteriori e più dettagliate di quelle che giustificano l’irrogazione della pena in esito di una sentenza di condanna. Ai fini di quest’ultima è sufficiente che il fatto contestato rientri fra quelli puniti dalla legge penale, che sia stato posto in essere dall’imputato e risultino integrate tutte le condizioni oggettive e soggettive di punibilità e che sia stata correttamente individuata la pena da applicare secondo i canoni legali. Notevolmente più ampio, invece, lo spettro delle condizioni legittimanti la misura restrittiva nei confronti dell’imputato la quale, come si vedrà più avanti, dovrà riguardare la totalità delle condizioni del potere cautelare, senz’altro più numerose e stringenti di quelle poste a fondamento dell’esercizio del potere punitivo. Ad esempio, rispetto al numerus clausus dei reati codificati, il legislatore è tenuto a individuare una cerchia marcatamente più ristretta di casi per i quali è astrattamente possibile provvedere alla restrizione della libertà personale in via cautelare. Inoltre, è necessario che il provvedimento restrittivo sia fondato su un giudizio che abbia riguardo alla sussistenza di un consistente quadro probatorio a carico della persona nei cui confronti sta per essere adottata la restrizione (c.d. fumus commissi delicti), oltre che delle situazioni di fatto che giustificano l’esercizio del potere coercitivo in funzione di tutela di esigenze specifiche (c.d. pericula libertatis). 25 della funzione; a questo proposito, in particolare, è proibito che altre autorità diano ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare). Sebbene attengano all’architettura dello Stato ed ai rapporti tra poteri, questi principi non sono privi di ricadute processuali. Ad esempio l’art. 101.2 Cost. ha a lungo agito come freno verso chi proponeva di introdurre nel nostro ordinamento il vincolo del precedente, che avrebbe assoggettato il giudice non alla legge ma ad un’altra decisione giudiziaria. La garanzia dell’indipendenza, però, viene in considerazione soprattutto come prerequisito rispetto al tratto più eminente del ruolo giurisdizionale: l’imparzialità. Fino alla riforma cost. del 1999 l’esigenza che il giudice fosse imparziale era rimasta sottintesa. Invece ora, a seguito della riforma del 1999, l’art. 111.2 Cost. prevede che il giudice debba essere “terzo e imparziale”. Ma cosa distingue l’imparzialità dalla terzietà? Secondo l’opinione più convincente, la terzietà riguarda lo status, cioè la collocazione istituzionale del giudice, la sua equidistanza dalle parti; l’imparzialità invece concerne la funzione concretamente esercitata, l’esigenza che la decisione sia immune da interessi o pregiudizi. Si comprende, così, come la costituzionalizzazione del giudice quale organo terzo abbia spinto a progetti di separare le carriere dei giudici da quelle dei p.m. Il tema è al centro di polemiche. Nel 2006 (d.lgs.160/2006) si è raggiunto un compromesso: giudici e p.m. continuano ad essere reclutati congiuntamente, attraverso un concorso unitario, ed è possibile transitare da una funzione all’altra, ma questi passaggi sono stati resi più difficili (comportano un cambiamento di sede, non possono essere chiesti più di quattro volte durante la carriera e richiedono la frequenza di un corso di aggiornamento ed il conseguimento di un giudizio di idoneità alle nuove funzioni). L’esigenza di preservare l’imparzialità del giudice si proietta in più settori del codice. Il suo primo corollario è il principio della domanda, cioè la distinzione tra chi chiede (p.m.) e chi rende giustizia (il giudice) – ne procedat iudicio ex officio: la sua violazione provoca nullità assoluta. In secondo luogo, l’imparzialità del giudice è la ragion d’essere di istituti come l’incompatibilità, l’astensione e la ricusazione, sotto qualche profilo anche la rimessione del processo, ma si trova anche in disposizioni che non riguardano direttamente l’organo giurisdizionale (ad esempio, la regola secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte, non serve solo a garantire il diritto alla prova delle parti stesse, ma mira anche ad assegnare al giudice un ruolo passivo (neutrale) nel procedimento di ricostruzione del fatto storico; nella cross examination – in cui vengono interrogati i testimoni e le fonti di prova dichiarative – le domande sono tendenzialmente poste dalle parti, mentre il giudice ha il compito di assicurare la correttezza e la lealtà della contesa). Infine, legato ai valori di indipendenza ed imparzialità, nonché di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è il principio per cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge ex art. 25.1 Cost. Oltre a dettare una riserva di legge per le disposizioni sulla competenza, questa norma opera in due direzioni: 1) Stabilisce l’irretroattività delle leggi sulla competenza: il giudice deve essere costituito prima del fatto per cui si procede. Su questo punto, tuttavia, la disposizione è piuttosto ambigua: la particella «pre» (giudice precostituito) indica che il giudice dev’essere costituito “prima”, ma prima di cosa? La risposta più rigorosa sarebbe: prima del fatto per cui si procede (temp U.S. commissi delicti regit judicem). Sennonché, nel caso di leggi che modifichino la competenza per certi reati, questa tesi renderebbe problematica la transizione verso i nuovi assetti: se si ancorasse la competenza al dies delicti, coesisterebbero a lungo processi incardinati presso certe sedi in forza delle regole vecchie, con processi incardinati altrove in forza delle nuove regole; per non dire dell’ipotesi in cui determinati uffici giudiziari venissero radicalmente eliminati. Per queste ragioni sarebbe senz’altro più agevole considerare, come punto prima del quale la competenza dev’essere stabilita definitivamente non il momento del fatto bensì quello in cui, attraverso l’esercizio dell’azione penale, inizia il processo vero e proprio. Ma anche qui c’è una difficoltà. Questa soluzione è stata avanzata nel vigore del codice precedente, nel quale l’azione penale veniva esercitata all’inizio del procedimento; come vedremo, il sistema attuale ha spostato quest’atto in avanti, alla fine delle indagini. Dopo varie impostazioni, si è convenuto che il momento prima del quale il giudice deve essere costituito sarebbe segnato dall’inizio del procedimento, che coincide con l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro. 2) La seconda direttrice lungo la quale si snoda il principio di pre costituzione legale implica l’obbligo di distribuire le cause con meccanismi automatici: occorrono disposizioni costruite intorno a concetti precisi, tali da non lasciare spazio a valutazioni di opportunità. Anche in quest’ambito ci sono state discussioni, tant’è che il legislatore ha dovuto fare alcune modifiche. Anzitutto ora la connessione è 26 stata elevata a criterio autonomo di attribuzione della competenza, per cui i suoi effetti sulla determinazione del giudice deputato a trattare i procedimenti si verificano sempre, indipendentemente dal fatto che le cause connesse vengano trattate in modo cumulativo o separato. Inoltre, si è tentato di attrarre nell’orbita della precostituzione i meccanismi che portano ad individuare il giudice-persona fisica. È stato così designato il c.d. sistema tabellare: la ripartizione degli uffici giudiziari in sezioni, la destinazione dei singoli magistrati alle sezioni e alle corti di assise, la formazione dei collegi giudicanti e i criteri per l’assegnazione degli affari alle singole sezioni, ai collegi ed ai giudici sono stabiliti ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia in conformità alle deliberazioni del Csm. L’art. 25.1 Cost. prescrive anche che il giudice sia naturale. Questa formula risale all’ancien régime, in cui il re poteva avocare ogni causa a sé o al proprio consiglio, oppure rimetterla ad altro giudice o ad una commissione straordinaria. Nella versione approvata dall’assemblea costituente francese “naturale” significava istituito per legge. Alcuni ritengono che il vocabolo sia stato conservato in omaggio a questa tradizione storica, ma che non aggiunga nulla al concetto di giudice precostituito per legge. Secondo altri le due locuzioni vanno lette disgiuntamente, per cui “giudice naturale” può essere inteso come il giudice “idoneo” o “specializzato” o “efficiente” oppure quello del luogo in cui il reato è stato commesso: secondo quest’ultima tesi, il processo dovrebbe radicarsi lì perché in quel posto è particolarmente forte l’interesse della comunità sociale a controllare come viene amministrata la giustizia. A quest’ultimo proposito, la Corte costituzionale in una sentenza del 2006 ha affermato che la naturalità assume, nel processo penale, un carattere particolare in ragione della fisiologica allocazione di quel processo nel locus commissi delicti; il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati. 7. IL PUBBLICO MINISTERO E L’OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE 7.1. L’indipendenza del pubblico ministero La distinzione del p.m. dal giudice costituisce garanzia dell’imparzialità di quest’ultimo (“il giudice è veramente tale – ossia imparziale – solo se l’accusatore è inequivocabilmente parte”). Il compito assegnatogli dalla Costituzione è la gestione dell’azione penale, improntata al principio dell’obbligatorietà, ossia legata a scelte vincolate dalla sola legge e perciò imparziali. Se il p.m. dipendesse da poteri esterni (es. potere politico) o fosse organo gerarchicamente sottoposto a superiori dotati di poteri prescrittivi, la sua soggezione alla sola legge in sede di esercizio dei poteri di accusa rischierebbe di essere labile. Come titolare dell’azione penale e contraddittore naturale dell’imputato, in posizione distinta ed equidistante dal giudice, il p.m. è funzionalmente parte. È un organo pubblico e come tale deve orientare le proprie scelte secondo canoni di imparzialità e tutela del pubblico interesse. In questa prospettiva, indipendenza e titolarità del dovere di agire secondo la legge sono interconnessi e costituiscono corollari della posizione di organo pubblico che il magistrato d’accusa riveste. La sua indipendenza è: 1) esterna, poiché attiene all’autonomia del p.m. dal potere esecutivo ed in genere da altri poteri dello Stato o centri di potere esterni alla magistratura; 2) interna, poiché riguarda l’assetto degli uffici del p.m. e l’assenza di vincoli di soggezione gerarchica del singolo magistrato rispetto ad altri in posizione sovraordinata. Su entrambe le tipologie la Costituzione sembra essere vaga, non recando riferimenti espliciti e diretti all’indipendenza del p.m. in quanto tale; per quanto riguarda in particolare l’indipendenza esterna, la norma di riferimento è l’art.107.4 Cost.che, però, si limita ad affermare che “ il p.m.gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”: tale formula, oggettivamente debole rispetto all’orologio art.101.2 Cost.riferito ai soli giudici, sembra delegare alla legge ordinaria la definizione delle guarentigie del p.m. lasciando pensare che l’indipendenza dello stesso non sia presidiata a livello costituzionale. In realtà, la garanzia dell’indipendenza è desumibile dal complesso delle sue norme. Anzitutto, come magistrato, il p.m. fruisce della garanzia dell’indipendenza esterna rispetto ad ogni altro potere (104), dell’inamovibilità (107) e dell’autogoverno, attraverso le competenze del Csm (105). Lo stesso art. 107 Cost. esige esplicitamente che siano riconosciute al p.m. specifiche garanzie, distinguendolo così rispetto ad altri pubblici funzionari. L’art. 108 Cost. prevede infine che la legge debba assicurare l’indipendenza del p.m. presso le giurisdizioni speciali, e non è pensabile che tale garanzia non sia assicurata anche all’omologo organo presso la giurisdizione ordinaria. È incerto anche il quadro dell’indipendenza interna dei p.m., che 27 dovrebbe comportare l’assenza di vincoli gerarchici a doppio livello, ossia tra il singolo magistrato e il capo del suo ufficio (es. rapporti tra sostituto e Procuratore capo) e tra diversi uffici (es. rapporti tra Procure della Repubblica presso i tribunali e le Procure generali presso le Corti d’appello). Non ci sono indicazioni espresse in Costituzione tant’è che il dibattito è aperto, tuttavia al suo dettato si può dare un’attuazione avanzata, basata sulle funzioni di coordinamento che si possono assegnare ai capi degli uffici senza per questo innestarvi elementi di verticizzazione gerarchica: così si tutela sia l’autonomia dei singoli magistrati coordinati che l’unitarietà degli indirizzi degli uffici a fini comuni. 7.2. L’obbligatorietà dell’azione penale L’art. 112 Cost. (“il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) è un principio-cardine del sistema processualepenalistico, che funge parametro di riferimento di numerosi istituti e condiziona, oltre che la fisionomia del p.m., anche la struttura del rito penale. In particolare, la clausola fondamentale in esame funge da cinghia di trasmissione del principio di eguaglianza ex art.3 Cost. Infatti, non servirebbe a niente assicurare che i singoli siano uguali davanti alla legge penale senza creare le condizioni per cui, a parità di condotta illecita, non avessero le stesse possibilità di vedersi perseguiti, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche o condizioni personali e sociali. L’art. 112 Cost. in questo senso è fonte di un canone di legalità processuale complementare a quello di legalità del diritto penale sostanziale, con cui condivide lo scopo di assicurare ai consociati un ordinamento penalistico che non operi mai in modo discriminatorio. Anzitutto, la norma attribuisce il compito di esercitare l’azione penale al p.m. e lo configura come un adempimento obbligatorio. Il p.m. è dunque il dominus dell’azione penale e deve individuare i casi in cui esercitarla ed elaborarne i contenuti. Ciò pone innanzitutto il problema se l’art.112 Cost.imponga che l’azione sia affidano a esclusivamente al magistrato d’accusa escludendo, dunque, la legittimazione ad agire di soggetti diversi. A questo proposito, va precisato che il p.m. non è titolare esclusivo dell’azione penale, dal momento che sarebbe compatibile con la Costituzione una disciplina che legittimasse all’esercizio dell’azione soggetti diversi dal p.m. solo in via sussidiaria o concorrente con esso. Secondo la Corte costituzionale, la titolarità dell’azione penale può essere legittimamente conferita a soggetti diversi dal p.m. se così facendo non si vanifica il suo obbligo di esercitarla. L’ordinamento può prevedere insomma azioni penali sussidiarie o concorrenti, mentre sono in conflitto con l’art. 112 e 3 Cost. disposizioni che attribuiscono ad organi diversi dal p.m. la titolarità esclusiva dell’azione penale per alcuni reati. Analoghi dubbi di compatibilità con l’art.112.Cost.sono sorti con riferimento alle condizioni di procedibilità (es. querela, istanza, richiesta, autorizzazione a procedere), in quanto queste rappresentano degli ostacoli all’azione penale che dipendono in toto dalle determinazioni di soggetti privati o pubblici. Anche in questo caso la Consulta ha ritenuto compatibili con l’art. 112 Cost. le condizioni di procedibilità le quali, infatti, sono estranee all’obbligo di agire, in quanto incidono non su di esso ma sulla fattispecie che ne integra il fondamento; in altre parole: la presenza o assenza di una condizione di procedibilità fa parte solo del complesso degli elementi che, in base alla legge, devono integrarsi e che il p.m. deve valutare per verificare la sussistenza dell’obbligo di agire. Quanto al contenuto, è da escludersi che ad ogni notizia di reato debba fare necessariamente seguito un’azione, infatti altrimenti ci sarebbe un enorme numero di processi, celebrati anche per notizie di reato palesemente infondate. È necessario, dunque, contemperare il senso dell’obbligatorietà con l’esigenza di gestione razionale dei carichi di lavoro e le risorse disponibili. In questa prospettiva, l’obbligatorietà dell’azione penale va intesa nel senso di precludere il suo contrario, cioè il principio di opportunità, che in altri ordinamenti consente ai p.m. di scegliere se esercitare o no l’azione penale in base a considerazioni strategiche o politiche; dunque, l’art.112 Cost.vieta al legislatore ordinario non può ammettere che sia facoltativa: le scelte del p.m. sull’alternativa tra azione e inazione non devono essere libere (c.d. discrezionalità vincolata, tecnica). In ogni caso, al fine di evitare che tale discrezionalità sfoci sul terreno della libera gestione dell’iniziativa penale è previsto un controllo giurisdizionale ed ex post sulle scelte del p.m. che consenta di sindacare l’uso corretto delle valutazioni tecniche affidategli. Tale controllo si colloca nello snodo tra azione ed archiviazione, a valle di quest’ultima, cioè del momento in cui il p.m. ha deciso di non agire (al fine di verificare che la scelta sia fondata e non arbitraria); di qui la previsione che il g.i.p. attui un controllo sulla richiesta di archiviazione. Inoltre, vanno individuati i parametri che vincolano le scelte del p.m. (che operino da punti di riferimento per l’esercizio della discrezionalità tecnica costituzionalmente 30 presunzione – perché perseguono scopi processuali e non danno necessariamente per scontato che l’imputato sia colpevole – l’esigenza di prevenzione speciale resta costituzionalmente sospetta, perché si regge su una doppia prognosi di colpevolezza: 1) che l’imputato abbia probabilmente commesso il reato e 2) che possa in futuro realizzarne altri. Da un lato, la presunzione di non colpevolezza dovrebbe implicare anche la presunzione di non pericolosità; dall’altro, il processo serve ad accertare un reato già commesso, non ad impedire che l’imputato possa compierne altri. Infine, la Corte costituzionale ha sottolineato la distinzione tra custodia cautelare e pena, facendo risultare la figura dell’imputato sempre meno compatibile con il carcere preventivo. Secondo alcuni, il divieto di punire prima della condanna definitiva sarebbe eroso anche dalla sospensione del processo con messa alla prova, rito speciale che presenta una componente afflittiva perché soddisfa istanze specialpreventive e di risocializzazione attraverso la sanzione dell’affidamento in prova ai servizi sociali, applicata prima che la colpevolezza del soggetto risulti accertata definitivamente. Va però detto che esistono validi argomenti di segno opposto, nel senso della piena compatibilità della sospensione del processo con la presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2), come sostenuto di recente anche dalla Corte costituzionale. 9.3. Presunzione di non colpevolezza e informazione La regola di trattamento si proietta anche fuori dal processo nel divieto di far apparire l’imputato come colpevole prima della condanna definitiva. Qui si parla dei rapporti tra la presunzione di non colpevolezza, la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di cronaca ex art. 21 Cost. Da un lato c’è la necessità di assicurare, attraverso l’imposizione di momenti di segretezza o riservatezza, che le indagini non siano vanificate o che il processo non venga turbato da fughe di notizie; dall’altro l’esigenza di garantire una corretta informazione dell’opinione pubblica sulle vicende giudiziarie. Il divieto di punire prima della condanna definitiva può essere inficiato anche da una distorta informazione del processo, quando notizie relative alle vicende processuali producono effetti pregiudizievoli per l’imputato Si pensi al fenomeno di allestire sondaggi in internet sulla colpevolezza o innocenza degli imputati. Spesso si crea una specie di paradosso mediatico per cui la notizia di reato, l’informazione di garanzia, gli arresti o i provvedimenti cautelari hanno una resa mediatica superiore rispetto ad una sentenza di assoluzione, soprattutto se intervenuta a distanza di anni dal tempus commissi delicti. Inoltre, il problema spesso viene ingigantito dalla lentezza dei processi, i cui tempi lunghi generano tensioni, false opinioni, pregiudizi e aspettative pubbliche contrari rispetto alla posizione di colui che non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva. In un’ottica di bilanciamento tra valori costituzionali, la presunzione di non colpevolezza autorizza la previsione di limiti al diritto di cronaca giudiziaria (fedeltà ai fatti, linguaggio sorvegliato, regole deontologiche chiare, sanzioni disciplinari, ecc.). La Corte Edu, inoltre, attribuisce alla presunzione valenza extraprocessuale, per cui nessun rappresentante dello Stato o di un’autorità pubblica può dichiarare una persona colpevole di un reato prima che la sua responsabilità sia stata accertata da un tribunale. Secondo i giudici europei bisogna distinguere: 1) da una parte le dichiarazioni che riflettono un’idea di colpevolezza violano la presunzione, 2) mentre quelle che denotano uno stato di sospetto sono in linea con l’art. 6 Cedu. Inoltre, con riferimento ai rapporti tra presunzione di innocenza e mass media, è fondamentale la scelta delle parole quando si devono divulgare fatti che riguardano una persona non ancora riconosciuta colpevole di un reato. L’esigenza di informare la collettività sulle vicende giudiziarie è una prerogativa delle società democratiche moderne; tuttavia, ciò non esclude che l’attività dei mezzi di informazione debba essere svolta con tutta la discrezione e il riserbo imposti dal rispetto della presunzione di innocenza. La Corte di Strasburgo censura anche gli effetti stigmatizzanti prodotti da dichiarazioni rese dalle autorità pubbliche nell’informare la collettività sui procedimenti penali (esternazioni di giudici, p.m., ufficiali di polizia). Persino una pronuncia di proscioglimento per insufficienza di prove potrebbe determinare una violazione della presunzione di non colpevolezza laddove la motivazione riflettesse l’opinione che l’accusato sia colpevole. 9.4. La dimensione temporale della presunzione di non colpevolezza La presunzione di non colpevolezza è un principio giurisdizionale che presuppone la presenza di un’accusa relativa ad un reato già realizzato e non un principio di ordine pubblico che opera nella prevenzione criminale; dunque, essa produce effetti solo dal momento della formale acquisizione della notizia di reato. 31 Quanto al suo termine finale di durata, lo si individua nella condanna con efficacia di giudicato, perciò l’art. 27.2 Cost. sembra dare base costituzionale all’effetto sospensivo delle impugnazioni. In questa prospettiva la condanna definitiva non sarebbe quella di primo grado, che quindi non è provvisoriamente esecutiva né legittima l’immediata applicazione della pena. Tra i motivi a sostegno di questa soluzione troviamo la cronica lentezza dei processi, alimentata spesso da impugnazioni pretestuose. Chi invece è favorevole alla provvisoria esecuzione della sentenza di condanna fa leva sull’art. 6 § 2 Cedu che, collegando la presunzione di innocenza al raggiungimento della prova legale della colpevolezza, pare agganciare la sua durata alla prima sentenza che afferma la responsabilità dell’imputato. In realtà il motivo per cui l’art. 6 § 2 Cedu non parla esplicitamente della durata della presunzione di innocenza è per lasciare ad ogni Stato membro la libertà di individuare il momento esatto in cui la colpevolezza può dirsi raggiunta. A ciò si aggiunge l’art. 111.7 Cost. secondo cui ogni decisione è sempre soggetta al vaglio in Cassazione, per cui non è mai di per sé definitiva, ma lo diventa solo quando l’impugnazione non è stata proposta o non è proponibile (o all’esito del giudizio di legittimità). Il blocco normativo ex artt. 27.2 e 111.7 Cost. quindi rappresenta un ostacolo insuperabile per chi vuole tentare di introdurre nel sistema forme di esecuzione anticipata della pena con una legge ordinaria. Va ricordato anche il ruolo della presunzione di non colpevolezza quale antidoto all’errore giudiziario, suscettibile di riparazione ex art. 24.4 Cost.: la Costituzione si preoccupa della necessità di prevenire tale errore attraverso la presunzione di non colpevolezza. Limitare la sfera operativa dell’art. 27.2 Cost. alla sentenza di primo grado infatti significherebbe introdurre nel sistema una sorta di presunzione di verità del giudizio di primo grado: prospettiva pericolosa dal momento che non tiene conto dei problemi cognitivi della prassi giudiziaria quali, ad esempio, i vari errori tecnici nelle indagini, testimonianze inattendibili, confessioni ritrattate, ecc.; dunque, un controllo sulla condanna, prima che questa produca i suoi effetti, diventa un’esigenza addirittura etica prima che giuridica. Infine, va sottolineato che la Costituzione accoglie una concezione ideologica o normativa della presunzione di non colpevolezza, la quale rappresenta un limite oggettivo che la potestà punitiva statuale pone a sé stessa; invece, l’art.27.2 Cost.non accoglie una concezione psicologica della presunzione e, dunque, essa nè si affievolisce con il progredire del processo, quando si accumulano gli elementi a carico dell’accusato, né dà rilievo alla convinzione di chi esercita la potestà punitiva o cautelare. L’imputato non è considerato colpevole dal sistema: non deve essere punito fino alla sentenza irrevocabile a prescindere dall’entità del quadro probatorio a suo carico emerso prima di tale momento e dall’opinione di chi agisce nel processo (p.m. o giudice). —> in questa prospettiva, la presunzione costituzionale non è mai indebolita dall’evoluzione delle conoscenze processuali, ma resta intatta fino alla condanna definitiva. 9.5. Presunzione di non colpevolezza e dinamiche cognitive Sul terreno dell’accertamento, la presunzione di non colpevolezza funge da regola di giudizio per la decisione sul fatto incerto, cioè stabilisce come ripartire il rischio della mancata prova tra le parti e come risolvere il dubbio insoluto sul fatto descritto nella imputazione. In ambito civile vi è l’esigenza di rispettare l’equilibrio delle parti: gli interessi in conflitto sono equivalenti e la ripartizione del rischio della mancata prova attinge al principio di eguaglianza; nel processo penale invece la presunzione di non colpevolezza dà all’imputato una posizione di oggettivo vantaggio, perché bisogna salvaguardare la sua non colpevolezza dalla pretesa punitiva statuale. Nel dubbio quindi il sistema privilegia l’interesse individuale di libertà, ed il canone dell’in dubio pro reo rappresenta il corollario della presunzione costituzionale di non colpevolezza. A questo criterio decisorio continentale si affianca quello anglosassone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, introdotto nel nostro sistema nel 2006 all’art. 533.1, che offre una tutela maggiore all’imputato. La non colpevolezza deve essere smentita attraverso la condanna, che dovrebbe scaturire sempre da una verifica completa dei fatti descritti nell’imputazione. Gli elementi cognitivi che giustificano l’ipotesi della colpevolezza devono risultare più persuasivi di quelli che sorreggono l’ipotesi dell’innocenza; non basta però che la prima sia più probabile della seconda (regola della c.d. Preponderanza dell’evidenza) ma è costituzionalmente imposta l’adozione di uno standard probatorio più solido, ossia quello di condannare l’imputato solo se risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. L’attuale assetto delle regole di giudizio è: L’art. 530.2 equipara la prova insufficiente a carico alla prova mancante, per cui il giudice è tenuto a pronunciare la sentenza di assoluzione quando “manca, è 32 insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”. L’incertezza della tesi accusatoria equivale alla certezza dell’innocenza (il criterio in dubio pro reo copre anche le cause di giustificazione, infatti l’art. 530.3 equipara il dubbio sulla scriminante alla prova positiva della stessa). L’art. 530.2, pertanto, fissa i requisiti sufficienti per l’assoluzione in presenza del fatto incerto. L’art. 533.1 individua il livello cognitivo necessario per la condanna. Le due disposizioni sono complementari. Se la prova della colpevolezza manca, è insufficiente o contraddittoria il giudice assolve; se esiste, non è insufficiente né contraddittoria il giudice condanna solo se sussiste anche il requisito dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Quest’ultimo è rispettato quando il giudice riesce ad eliminare ogni ipotesi alternativa suscettibile di venire concretamente in rilievo. 10.IL DIRITTO DI DIFESA 10.1. Profili generali La difesa compete all’accusato e consiste in quell’insieme di attività dirette a far valere nel procedimento i suoi diritti e interessi. Il diritto di difesa è tutelato dall’art. 24.2 - .3 Cost. e comprende due componenti: l’autodifesa e la difesa tecnica. L’autodifesa è il diritto dell’imputato di essere presente nel processo che lo riguarda e di contribuire personalmente alla funzione difensiva, fornendo argomenti in proprio favore. L’autodifesa è un diritto, non un obbligo, e deve essere effettivamente garantito. L’imputato, perciò, deve essere in grado di partecipare coscientemente al processo, cioè di comprendere il senso elementare degli eventi che si svolgono attorno a lui. L’imputato inoltre è libero di non presenziare alle udienze, ma la sua assenza deve essere volontaria e non può dipendere dall’ignoranza dello svolgimento del procedimento. La difesa tecnica è affidata all’avvocato e riconosciuta in tutti i modelli, perfino in quelli inquisitori o misti (anche se in tali casi l’attività difensiva è prevalentemente retorica nonché affidata all’arringa conclusiva). Nel sistema accusatorio il difensore ha più poteri, corrispondenti però a maggiori responsabilità (es. procedimento probatorio: le nuove disposizioni in tema di ricerca e ammissione delle prove danno al difensore prerogative importanti, ma questo ha anche l’onere di attivarsi per reperire le informazioni favorevoli all’assistito, altrimenti corre dei rischi). La difesa tecnica ha un costo, infatti la Costituzione impone alla legge di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. L’obiettivo è rimuovere gli ostacoli economici che impediscono una piena protezione dei diritti (proiezione del principio di uguaglianza sostanziale). A differenza di quella personale, la difesa tecnica è obbligatoria: se l’imputato non ha un difensore di fiducia, gliene viene nominato uno d’ufficio. A prima vista questa regola sembra in contrasto con la Costituzione: se la difesa è un diritto, il titolare deve essere lasciato libero di esercitarlo o no. Negli anni di piombo i terroristi contestarono la legittimità del processo come istituzione e, nell’ambito di tale rifiuto, alcuni dichiararono di rinunciare a presenziare all’udienza e di revocare la nomina dei difensori di fiducia, rifiutando qualsiasi imposizione di avvocati di regime. Si pose cos’ un problema di legittimità costituzionale delle disposizioni (artt.125 e 128 c.p.p. 1930) che imponevano la nomina di un difensore d’ufficio anche all’imputato che avesse rifiutato qualsiasi assistenza. Nel processo alle Brigate Rosse, in seguito alla revoca dei difensori di fiducia, il patrocinio venne affidato ad un pool di avvocati capitanato dal presidente del consiglio dell’ordine della città – Fulvio Croce – il quale, per aver accettato l’incarico, venne assassinato dai terroristi rimasti in libertà. La Consulta, tuttavia, ritenne le disposizioni legittime per due motivi: da un lato vi è l’idea che la difesa non solo è un diritto individuale ma anche una garanzia oggettiva di regolarità del procedimento che ne assicura l’equità e riduce il rischio di errori; dall’altro lato abbiamo la concezione paternalistica, in forza della quale l’ordinamento tende ad evitare manovre autolesionistiche dell’imputato. Ciò spiega anche perché quest’ultimo non possa difendersi da sé nemmeno quando sia avvocato; l’inevitabile coinvolgimento emotivo gli farebbe mancare il distacco emozionale necessario a difendersi meglio. L’art. 24.2 Cost. definisce la difesa come diritto inviolabile, tuttavia questa inviolabilità non è equivalente a quella sancita ex artt.13, 14 e 15 Cost.per la libertà personale o il domicilio o la corrispondenza, bensì è una situazione di diritto (“artificiale”) che esiste nella misura in cui la legge che regola il processo la fa esistere; di conseguenza, non è un limite netto per il legislatore. La l. cost. 2/1999 ha modificato l’art. 111.3 Cost. per dare più concretezza al contenuto del diritto di difesa. Anzitutto, l’articolo in questione prescrive che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei 35 prontamente e a tono. Il fondamento del contraddittorio allora è duplice. Anzitutto è etico-politico poiché vi si riflette la propensione degli ordinamenti liberaldemocratici ad aprire il dibattito pubblico alla pluralità di opinioni, rappresentative dell’antagonismo tra i differenti interessi sociali. Ciò si riflette anche a livello processuale: dove l’individuo rischia di perdere la libertà, gli va riconosciuto il diritto di interloquire e ribattere alle asserzioni dell’accusa per attrarre il giudice nell’orbita della propria tesi, con pari titolo rispetto alla controparte. In tal senso il contraddittorio è la tecnica usata dalle Carte dei diritti per contenere la spinta a concedere il primato alle esigenze dell’autorità e della repressione penale, ignorando le ragioni della difesa. In secondo luogo, si ritiene che il convincimento del giudice risulti meglio fondato se si giova del contrasto di opinioni promosso dalle parti, ognuna capace di mettere in crisi l’altra ottenendone un vantaggio, anziché affidarsi a prospettazioni unilaterali. Dunque, l’esercizio del diritto al contraddittorio, consiste nell’occasione, per ognuna delle parti, di argomentare sul contenuto del materiale probatorio acquisito al processo (: attribuirgli, sulla base di congrui ragionamenti, un certo significato, così da trarne sostegno alla propria posizione) e perciò il risultato dei singoli mezzi di prova e quello d’insieme sarà suscettibile di letture differenti a seconda dell’ottica prescelta dagli interessati. Il valore della prova finisce per dipendere dall’attività retorico- argomentativa delle parti, cioè dal discorso tenuto e rivolto a persuadere il giudice (c.d. contraddittorio sulla prova). 12.2. Il contraddittorio nella formazione della prova Il quarto comma dell’art. 111 sancisce che il processo penale è regolato dal «principio del contraddittorio nella formazione della prova». Siccome la prova va prima assunta e poi valutata, il contributo dialettico delle parti concorre a produrre l’efficacia dimostrativa del dato istruttorio (c.d. contraddittorio per la prova). La tecnica migliore di contraddittorio è l’escussione diretta della persona ad opera delle parti stesse, cioè l’esame di testimoni, imputati, esperti condotto senza mediazioni da chi vuole far prevalere la propria tesi. L’archetipo è rappresentato dalla cross-examination anglosassone, in cui accusa e difesa si alternano cercando di mettere in dubbio l’attendibilità delle affermazioni e la credibilità del teste di controparte. Alla fine, ne esce avvalorata la versione dei fatti dimostratasi capace di superare il tentativo di confutazione, coerentemente con l’idea che alla verità ci si avvicini meglio grazie all’abilità di ciascuna parte di scoprire l’altrui menzogna. Rilevante, a questo proposito, è il divieto di fondare l’accertamento penale su conoscenze ottenute senza passare per il confronto dialettico tra le parti. La fase del dibattimento va resa impermeabile al flusso dei dati provenienti dagli stadi processuali anteriori, che di norma non contemplano l’esercizio del diritto al contraddittorio; in questo modo è preservata dalla contaminazione con materiali raccolti secondo la visione unilaterale di chi ha proceduto a formarli e, perciò, di dubbia affidabilità (es. atti acquisiti durante le indagini preliminari dal solo p.m., dalla p.g. o anche dalla difesa con investigazioni private). Dunque, l’art. 111.4 Cost. pone un’implicita regola di esclusione, volta a bandire l’uso come prova dei fatti oggetto del processo di elementi generati al di fuori del contraddittorio. Emerge qui la differenza tra concezione forte del contraddittorio, propugnata dalla nostra Costituzione, e facoltà di interrogare o far interrogare i testimoni a carico ex art. 6.3 Cedu: quest’ultima garanzia non implica un’esclusione dalle prove utilizzabili di quanto si sia originariamente formato a prescindere dal contributo dialettico della difesa. Per rispettare il diritto al confronto basta che all’imputato sia concessa un’occasione adeguata, nel corso delle fasi processuali, per contestare le dichiarazioni accusatorie, non importa se al momento della deposizione o in seguito (il contraddittorio, perciò, può essere differito). All’art. 111.4, secondo periodo Cost. si trova il divieto di basare l’accertamento di colpevolezza dell’imputato sulle dichiarazioni rese da persone ascoltate come fonti di prova che, per libera scelta, si siano sempre volontariamente sottratte al contraddittorio con il destinatario delle loro accuse nelle sedi processuali dedicate. Questa regola è frutto della volontà di scongiurare il ritorno agli schemi probatori pre-riforma del 1999, in cui coimputati o imputati in altri procedimenti chiamavano in causa l’imputato principale nel corso delle indagini davanti al p.m. Venuto poi il momento di sottoporsi al contraddittorio in dibattimento, non si presentavano in udienza o si trinceravano dietro la facoltà di non rispondere. Le dichiarazioni precedenti allora venivano acquisite e valutate come prova senza che l’imputato avesse mai avuto occasione di porre domande all’accusatore. Di conseguenza, il c.p.p. presenta degli istituti per impedire l’ingresso nel fascicolo del dibattimento, con valore di piena prova, agli atti delle fasi preliminari (es. limiti all’uso di conoscenze acquisite in via unilaterale fissati nella disciplina delle contestazioni e letture). 36 12.3. Le eccezioni tollerate L’art. 111.5 Cost. autorizza la legge ordinaria a prevedere casi eccezionali di deroga al contraddittorio e stabilisce le ragioni tassative in base alle quali possono essere utilizzate legittimamente, in funzione di prova, gli atti venuti ad esistenza a prescindere dal contraddittorio. Sono 3: Accertata impossibilità di natura oggettiva: si riferisce alle cause che escludono in rerum natura la realizzazione del contraddittorio o per motivi congeniti (es. documento o risultati di un’intercettazione telefonica) o in virtù di circostanze accidentali che le parti non fossero in grado di prevenire (es. morte, infermità, irreperibilità della persona da esaminare). La carenza della componente dialettica è irrimediabile, perciò, ammettendo il recupero al dibattimento dell’atto preformato, la Costituzione accetta che la sentenza finale sia sorretta da prove poco attendibili, in quanto non vagliate nel contraddittorio. Può esserci una compensazione pretendendo che la condanna non si basi esclusivamente o in misura determinante su quelle conoscenze. Restano fuori dalla portata dell’eccezione (vista la natura soggettiva dell’impossibilità) i comportamenti che dipendono dalla libera volontà di chi, rilasciate una prima volta certe dichiarazioni a qualcuna delle parti, ostacoli il successivo dispiegarsi del contraddittorio (es. esercizio del diritto di tacere, far perdere le proprie tracce allo scopo di non sottoporsi all’esame incrociato, ecc.). Provata condotta illecita: si ha quando c’è esercizio di pressioni sul dichiarante per indurlo a tacere di fronte alle domande o a rifuggire l’esame. È dubbia l’ipotesi del teste che, minacciato, deponga in modo non genuino, perché qui il contraddittorio si tiene (anzi può mostrarsi come tecnica per svelare la menzogna). L’interferenza deve assumere i contorni di un illecito penale (violenza, minaccia, subornazione) compiuto nei confronti della persona da esaminare quale fonte di prova e suscettibile di essere verificato. Non sembra necessario accertare che autore della condotta sia l’imputato o la parte interessata ad impedire che la fonte di prova rilasci dichiarazioni in contraddittorio. La ragione per cui è accettabile il recupero probatorio dell’atto unilaterale consiste nel supporre vere le dichiarazioni in esso contenuto, proprio perché chi subirebbe pregiudizio dal loro uso si è attivato per evitarne la ripetizione. Consenso dell’imputato: egli è abilitato a rinunciare all’esercizio del diritto al contraddittorio e a conferire valore di prova per la decisione sulla responsabilità penale ad atti formati senza il metodo dialettico. L’intento è salvaguardare la legittimità dei riti alternativi al dibattimento, dove la componente negoziale è alla base di una semplificazione delle forme processuali che sacrifica in primis l’elaborazione della prova mediante il contraddittorio, giustificando un accertamento meno attendibile in cambio di benefici per l’imputato. La previsione copre anche l’istituto del concordato sulla prova in sede dibattimentale introdotto nel 1999, che comporta l’uso di verbali delle fasi preliminari ai fini della sentenza. La prestazione del consenso va intesa come implicito riconoscimento, ad opera dell’imputato, di non essere in grado di ottenere attraverso il proprio contributo dialettico risultati diversi da quelli fissati nell’atto istruttorio acquisito in solitudine dalla controparte; il contraddittorio sarebbe quindi superfluo e la rinuncia dell’imputato ne attesterebbe l’inutilità, sanando la mancanza di contraddittorio. Secondo alcuni lo stesso deve valere per il p.m. quando si tratti di innalzare al rango di prova i frutti dell’ investigazione difensiva e sulla base del principio di parità delle parti; tuttavia, secondo la Corte costituzionale il contraddittorio nella formazione della prova è un aspetto del diritto di difesa e l’imputato può rinunciare unilateralmente all’elaborazione dialettica; questo, almeno, finché la scelta non determini uno squilibrio intollerabile tra i contendenti o l’alterazione dell’intero sistema. Così ridefiniti i termini della questione, sarebbe legittimo che il solo imputato attribuisca valore probatorio alla propria indagine privata ogni qual volta l’esito del giudizio resti comunque condizionato dalla mole preponderante di atti raccolti dal pubblico ministero durante le indagini preliminari. 13.LA MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI GIURISDIZIONALI La motivazione è la giustificazione del provvedimento giurisdizionale contenente le ragioni a sostegno della pronuncia adottata. I sistemi processuali a verdetto immotivato fanno affidamento sulla giuria composta da giudici non professionali, in cui la giustizia è amministrata direttamente dal popolo; la correttezza della decisione nasce da questo stretto vincolo tra chi giudica e la società. I sistemi che prevedono sentenze motivate invece puntano su giudici professionali, tenuti ad illustrare il percorso logico-argomentativo che 37 sorregge la sentenza. La Costituzione stabilisce che la giustizia è amministrata dal giudice in nome del popolo (artt. 101.1 e 102.1) e fissa il principio secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati (art. 111.6) —> La carta fondamentale vincola così il dovere di decidere al dovere di motivare e vieta al legislatore ordinario di sostituire i giudici professionali con la giuria. La Cedu non menziona l’obbligo di motivazione delle sentenze, ma la Corte di Strasburgo ritiene che costituisca una componente fondamentale dell’equo processo. Nel nostro ordinamento l’obbligo di motivazione si raccorda con il principio di legalità: la motivazione rivela se il giudice ha agito nel pieno rispetto della legge. Inoltre, c’è uno stretto legame tra il dovere di motivare ed il libero convincimento del giudice, infatti ex art. 192.1 il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. La libertà del giudice di assegnare un valore alla prova è bilanciata dal dovere di giustificare ogni scelta valutativa. La motivazione protegge così l’imputato dall’arbitrio del giudice, perché conosce il percorso argomentativo sotteso alla decisione adottata e può impugnarla se la ritiene errata. In questo modo anche il popolo è posto nelle condizioni di sindacare il modo in cui è amministrata la giustizia. L’obbligo di motivazione ha una duplice funzione: 1) quella endoprocessuale consente alle parti di ricostruire il ragionamento che ha portato alla sentenza ed eventualmente di attivare il controllo di un diverso giudice tramite l’impugnazione (art.111.7 Cost.); 2) quella extraprocessuale permette alla collettività di giudicare chi giudica, esercitando così un sindacato democratico diffuso sull’esercizio del potere giurisdizionale. Si distingue tra: 1) la motivazione in fatto che si articola in una sequenza argomentativa fondata su prove e si propone di convincere della verità e plausibilità della ricostruzione dei fatti in causa; 2) la motivazione in diritto che si traduce in un discorso volto a giustificare la correttezza delle norme da applicare al caso concreto. La motivazione è modulabile a seconda della specificità e dell’importanza dei singoli provvedimenti e del contesto procedimentale in cui vengono adottati. Si passa dal modello di motivazione complessa tipica delle sentenze dibattimentali e delle ordinanze de libertate, alla motivazione succinta della sentenza di patteggiamento, a provvedimenti privi di argomentazioni in senso proprio (es. il decreto di citazione a giudizio) che rispondono all’esigenza di evitare condizionamenti del giudice nelle fasi successive. La motivazione è indisponibile, in quanto garanzia oggettiva della giurisdizione e le parti non possono rinunciarvi; pubblica, poiché non sono tollerate motivazioni segrete; completa, poiché il processo penale impone standards qualitativi e quantitativi elevati volti a delineare un modello analitico di motivazione in fatto. Nella sentenza sono indici rivelatori della completezza l’esposizione (anche se concisa) dei motivi di fatto e di diritto su cui si basa la decisione, con l’indicazione dei risultati acquisiti, dei criteri di valutazione adottati e le ragioni per cui il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie in relazione ai punti indicati nell’art. 187, cioè i fatti e le circostanze inerenti all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena, alla responsabilità civile derivante da reato, nonché i fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali. Nelle ordinanze cautelari la completezza deriva dall’obbligo del giudice di esporre e valutare autonomamente il grave quadro indiziante, le esigenze cautelari e i motivi che lo hanno spinto a considerare irrilevanti gli elementi forniti dalla difesa. 14.IL RICORSO PER CASSAZIONE L’art. 111.7 Cost. stabilisce che contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge. —> Triplice funzione: 1) In primo luogo, la norma sancisce il generale principio di giustiziabilità degli atti degli organi giurisdizionali: sono ricorribili per cassazione le sentenze emesse da qualunque giudice (tranne quelle della Corte costituzionale, mai impugnabili). 2) In secondo luogo, affida alla Cassazione il compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale (c.d. funzione nomofilattica). 3) Infine, assegna alla Cassazione il ruolo di giudice ultimo di legittimità: la Corte verifica che la sentenza impugnata sia esente da vizi, astenendosi dal sindacare il merito della causa, cioè la fondatezza dell’imputazione e l’attendibilità delle prove. La norma si riferisce genericamente ai provvedimenti sulla libertà personale e quindi non solo i provvedimenti restrittivi ma anche le pronunce di rigetto di domande cautelari avanzate dal p.m. o di richieste di scarcerazione presentate dalla difesa. Non viene fatto riferimento all’appello, tanto che secondo alcuni il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è presente nella Costituzione e sarebbe liberamente gestibile dal legislatore ordinario. In realtà si potrebbe fare riferimento al combinato disposto degli artt. 24.2 e 27.2 40 responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Altre persone che partecipano al procedimento pur non avendo la qualifica di soggetti e tanto meno di parte sono: CT, periti, personale di cancelleria e segreteria, ufficiali giudiziari, custodi giudiziari, testimoni, ecc. 2.IL GIUDICE: PREMESSA POLITICO-ISTITUZIONALE L’esplicazione del metodo dialettico presuppone la presenza di un organo terzo ed imparziale, senza il quale non sarebbe realizzabile lo schema triadico el contraddittorio (processus est actus trium personarum). Il rispetto del contraddittorio rappresenta un sistema obbligato per il giudice affinché la sua sentenza spieghi i suoi effetti immutabili sulla vita dell’imputato. Dalla funzione “sovrana” di giudicare sulla punibilità o meno di una persona derivano due diverse tipologie di giudice. Nei Sistemi dell’Europa continentale il giudice appartiene all’apparato statuale e viene selezionato secondo procedure burocratico-amministrative sulla base della sua qualificazione tecnico-giuridica. Nei sistemi di common law, invece, da un lato c’è un organo a composizione laica (la giuria, composta da persone comuni) che pronuncia un verdetto immotivato di colpevolezza/non colpevolezza dell’imputato; dall’altro c’è il giudice professionale che dirige il giudizio, presiede all’attività di assunzione delle prove e risolve le eventuali questioni di diritto. Le norme del cpp dedicate alla figura del giudice si radicano nella concezione tipica dell’esperienza processuale continentale: giudice funzionario, selezionato per concorso, cui la legge demanda la decisione in ordine ai profili sia di fatto che di diritto e che la Cost garantisce con la massima indipendenza nei confronti del potere esecutivo e delle giurisdizioni superiori. Non a caso, la prima norma dedicata al giudice (Art.1 c.p.p.) rubricata “Giurisdizione penale” rinvia alla disciplina dell’ordinamento giudiziario (“La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice”), cioè ad un corpus normativo che conserva i tratti della fisionomia originaria. 3.I GIUDICI PENALI Il giudice esercita la funzione giurisdizionale come organo terzo ed imparziale dinanzi a cui interloquiscono due parti dialetticamente contrapposte in funzione dell’emissione di un provvedimento – la sentenza – la cui caratteristica è la sua attitudine a passare in giudicato, ossia a divenire statuizione giuridica tendenzialmente immodificabile. L’esercizio delle funzioni giurisdizionali penali presuppone la qualifica di magistrato, che si consegue per concorso ed è formalizzata con decreto ministeriale; l’assegnazione all’ufficio compete al CSM (Art.104 Cost.). La nomina e ammissione alla funzione giudicante in uno specifico ufficio determina la c.d. capacità generica del giudice. Il nostro ordinamento prevede una molteplicità di giudici penali. Il c.p.p. fa esplicito riferimento a: 1) Il Tribunale, che può pronunciarsi in composizione collegiale (3 magistrati) o monocratica. L’ambito territoriale del Tribunale è il c.d. circondario. Le sue sentenze sono impugnabili di fronte alla Corte d’appello. La corte d’appello è composta da 3 magistrati e l’ambito territoriale si chiama “distretto” e ricomprende una molteplicità di circondari di Tribunale. In Italia vi sono 29 Corti d’appello (26 più tre sezioni distaccate), giudici di 2°grado in relazione ai provvedimenti pronunciati dai Tribunali presenti nel distretto. Presso ogni Corte è istituito: il tribunale di sorveglianza (2 magistrati ordinari di sorveglianza e 2 esperti in psicologia, psichiatria, servizi sociali nominati dal CSM) con funzioni di controllo sull’esecuzione della pena e sul trattamento del condannato; il tribunale per i minorenni (2 magistrati e 2 – un uomo ed una donna - esperti nel campo dell’assistenza sociale), per giudicare tutti i reati commessi da coloro che, al momento del fatto, non abbiano ancora compiuto la maggiore età: il giudice dell’impugnazione è la Corte d’appello, sezione per i minorenni. 2) La corte d’assise è composta da 6 cittadini comuni + 2 magistrati. Il suo ambito territoriale è il c.d. circolo. Le sue pronunce si impugnano dinanzi alla corte d’assise d’appello (sempre a composizione mista). 41 3) Infine, c’è la corte di cassazione, supremo organo giurisdizionale del paese: ha sede a Roma e si pronuncia sui ricorsi contro le sentenze della Corte d’appello ovvero le sentenze di primo grado inappellabili o impugnate per saltum direttamente in Cassazione. Apposite leggi speciali individuano ulteriori giudici penali, quali il giudice di pace: è giudice onorario, nominato dal Ministro della Giustizia previa deliberazione del CSM, subordinato ad un giudizio di idoneità post tirocinio di sei mesi. Il giudice dell’impugnazione è il Tribunale in composizione monocratica del circondario in cui ha sede il Giudice di pace che ha pronunciato la sentenza impugnata. Altri giudici sono: il Tribunale militare (art.103.3 Cost.); la Corte costituzionale per giudicare il Presidente della Repubblica. 4.LA COMPETENZA: PROFILI GENERALI Con la disciplina della competenza il legislatore fissa i criteri per determinare quale sia l’organo giurisdizionale tenuto ad esercitare la funzione giurisdizionale relativamente ad un fatto concreto, in attuazione dell’art. 25 Cost. Va precisato, però, che quanto a effetti, nulla distingue la sentenza emessa dal giudice competente, da quella pronunciata dal giudice incompetente: anche quest’ultima, se non impugnata, è suscettibile di diventare irrevocabile e passare in giudicato. Quando ciò accade il sistema prevede una serie di rimedi. Le regole sulla competenza hanno anche la funzione di suddividere il lavoro giudiziario tra i diversi giudici in maniera equa (: rappresentano un criterio organizzativo che assicura l’efficienza delle istituzioni giudiziarie). La competenza dei giudici si ripartisce tramite due criteri tradizionali ed uno aggiunto dal c.p.p. 1) Il criterio per materia considera il fatto oggetto del processo in relazione agli effetti sanzionatori ad esso collegati dalla legge penale quindi alla qualità e quantità della pena irrogabile; 2) quello per territorio individua il giudice sulla base del locus commissi delicti; 3) quello per connessione consiste nell’eventuale legame tra più fatti di reato o tra più persone coinvolte nel medesimo fatto. In aggiunta, pur in mancanza di riferimenti normativi espressi, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato la nozione di “competenza funzionale”, equiparandola quanto a regime alla competenza per materia: indica quale sia il giudice tenuto a pronunciarsi nelle specifiche fasi del procedimento (es. il g.i.p. è il giudice ad acta nella fase preliminare). Il giudice è costantemente tenuto a verificare la propria competenza e ha sempre il potere di dichiarare ex officio la propria incompetenza (Artt. 21.1 e 22.2 cpp). Si ha incompetenza quando la cognizione del procedimento spetta ad un giudice diverso da quello adito, ma appartenetene allo stesso plesso giurisdizionale. In ogni caso, l’incompetenza del giudice si atteggia diversamente a seconda che sia stata già esercitata l’azione penale o meno e la differente veste formale della declaratoria d’incompetenza, in funzione del diverso stato in cui si trova il procedimento, esprime la differenza di peso che la stessa assume nei due contesti procedimentali: 1) Azione penale non ancora esercitata—> la declaratoria di incompetenza è dichiarata con ordinanza; infatti, quando l’incompetenza viene pronunciata prima del pro movimento dell’azione (prima che si instauri il processo vero e proprio), essa ha natura solo incidentale e non condiziona l’attività del p.m. procedente, cui sono restituiti gli atti (22.1), dal momento che l‘incompetenza dichiarata nelle Indagini Preliminari “produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto” (22.2). Questo avviene perché in questa fase il fatto oggetto del procedimento ha contorni vaghi e mutevoli, da precisare proprio grazie all’attività investigativa svolta dal PM e dalla PG; inoltre, nel corso delle IP non esiste un giudice che procede, ma esiste un giudice ad acta – il g.i.p. – che si pronuncia su sollecitazione di parte quando bisogna adottare dei provvedimenti limitativi dei diritti fondamentali. Entrambi questi fattori hanno indotto il legislatore ad escludere che durante la fase delle IP le questioni di competenza eventualmente insorte debbano essere affrontate e risolte compiutamente. Fermo restando il dovere del giudice incompetente di rivelare la sua incompetenza in ogni stato e grado del procedimento, si è pensato che prima dell’esercizio dell’azione penale questo provvedimento non dovrebbe in alcun modo condizionare l’organo che dirige le indagini e che ha responsabilità della conduzione del procedimento nella fase preliminare. 2) Azione penale già esercitata —> Dopo l’esercizio dell’azione penale, invece, il fatto è precisato in tutti i suoi elementi rilevanti e, inoltre, esiste un giudice che procede in relazione al fatto delineato. Di conseguenza, quando l’azione è stata esercitata davanti al giudice incompetente, sono previsti 42 degli antidoti volti ad incardinare la regiudicanda davanti al suo giudice naturale. Quando il giudice ritiene che la competenza appartenga ad altro giudice, in udienza preliminare (22.3) o nel dibattimento di primo grado (23.1), l’incompetenza è dichiarata con sentenza e gli atti non vengono restituiti al PM procedente, ma vengono trasmessi al PM istituito presso il giudice competente. Nel caso in cui l’incompetenza sia dichiarata in seguito al giudizio di secondo grado, il giudice d’appello pronuncia una sentenza di annullamento di quella di primo grado e trasmette gli atti. (Pag.171 libro —> termini) 4.1. Competenza per materia e territorio La competenza per materia prevede una distribuzione in senso verticale degli affari penali fra i diversi giudice secondo un ordine progressivo che tiene conto della gravità dei reati: i reati più gravi alla Corte d’assise, quelli meno gravi al Giudice di pace, gli altri al Tribunale (competenza residuale). Il giudice competente per materia si individua guardando ai limiti edittali (criterio quantitativo) o a specifiche tipologie di reato (criterio qualitativo). Nello specifico, ai fini dell’applicazione del criterio quantitativo, per determinare la competenza bisogna tener conto del massimo della pena stabilita per ciascun reato e delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena diversa (art. 4). La competenza per materia della Corte d’assise è individuata attraverso entrambi i criteri, perché risulta sia l’indicazione di precisi limiti edittali (pena a ergastolo e a reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni) sia l’indicazione di specifici reati. Es. reati di competenza della Corte d’assise: omicidio volontario, omicidio del consenziente, omicidio preterintenzionale, delitto di strage, ecc. La competenza per materia del Tribunale, invece, è residuale e si ricava per sottrazione perché a questo giudice sono attribuiti i reati non appartenenti alla competenza né della Corte d’assise, né del Giudice di pace. Sono di competenza del Tribunale ad esempio i reati tributari, l’omicidio colposo, i delitti contro la p.a., l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Sono di competenza del Giudice di pace i reati espressione di una micro-conflittualità interindividuale (es. percosse, ingiuria, diffamazione, minaccia). Sono sottratti alla competenza per materia i reati attribuiti a giudici specializzati (Tribunale per i minorenni e Tribunale militare). La competenza per territorio invece presuppone una distribuzione orizzontale, sul suolo nazionale, di una molteplicità di Corti d’assise, Tribunali e Giudici di pace. Il giudice competente per territorio è quello nel cui ambito territoriale è stato commesso il reato. Gli artt. 8 e 9 fissano nel dettaglio i criteri. Art 8: • Bisogna fare riferimento al luogo di consumazione del reato (art.8.1); • Al luogo in cui è avvenuta l’azione o omissione, se dal fatto è derivata la morte di una persona (art.8.2.); • Al luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, se il reato è permanente (anche se ne è derivata la morte di una persona – art.8.3); • Al luogo in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a commettere il delitto, se il delitto è tentato (art.8.4). Nel caso in cui non sia possibile individuare il giudice territorialmente competente alla stregua dei criteri stabiliti nell’art. 8, sono fissate ulteriori regole suppletive, elencate dal legislatore alla stregua di un ordine non modificabile dall’interprete. In altri termini, ove restino ignoti i riferimenti fattuali cui l’art. 8 condiziona l’individuazione del giudice territorialmente competente, quest’ultimo va individuato alla stregua dell’art. 9 comma 1 (giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione); se non è possibile applicare nemmeno quest’ultimo criterio, allora vale quello fissato nel comma successivo (giudice della residenza, della dimora o del domicilio dell’imputato) e, se neppure questo è praticabile, allora la competenza per territorio appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nell’apposito registro (art. 9 comma 3). I criteri appena enunciati si applicano anche quando il reato sia stato commesso in parte all’estero (art. 10 comma 3). Diversamente, se il reato è stato commesso interamente all’estero, sono previste regole specifiche fissate nei primi due commi dell’art. 10. 45 ma sono utilizzabili solo in udienza preliminare o ai fini delle contestazioni di cui agli 500 e 503 le dichiarazioni ripetibili raccolte davanti al giudice incompetente per materia. 4.4 Giudice monocratico e giudice collegiale Fra i reati di competenza del Tribunale, è prevista una ripartizione interna degli affari penali fra organo collegiale e monocratico, effettuata sulla base del duplice criterio quantitativo e qualitativo (art.33 bis). L’articolazione in due distinti organi giurisdizionali interna all’ufficio del Tribunale costituisce un’innovazione introdotta con la riforma del giudice unico (d. lgs. 1998, n. 51). Sono attribuiti al Tribunale collegiale i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, anche nell’ipotesi di tentativo, nonché altri reati indicati specificatamente, che risultano quindi sottratti dal gruppo di quelli affidati alla cognizione dell’organo monocratico; sono attribuiti al Tribunale in composizione monocratica i reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a 10 anni, più altri reati specificamente indicati che altrimenti rientrerebbero nel novero di quelli attribuiti al collegio. Questa distribuzione è stata ricondotta dal legislatore ad un fenomeno denominato attribuzione. Questa scelta è stata mossa dall’intento di distinguere l’incompetenza per materia dall’inosservanza delle norme circa l’attribuzione di un reato al giudice monocratico o collegiale. Il legislatore ha quindi cercato di mitigare le conseguenze invalidanti dell’erronea attribuzione del processo al giudice monocratico piuttosto che a quello collegiale. Congeniale a questa logica è la regola secondo cui le disposizioni sull’attribuzione degli affari penali al Tribunale collegiale o monocratico “non si considerano attinenti alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante” (art. 33.3). La distinzione fra incompetenza per materia e viziata distribuzione degli affari tra Tribunale collegiale e monocratico deve essere criticata perché esprime l’indifferenza normativa per la garanzia della collegialità. Al contrario, la collegialità costituisce supporto e fondamento d’imparzialità e qualità ed è un rimedio alla fallibilità del giudizio, poiché il confronto tra opposte alternative, costituisce un limite alla imprevedibilità delle decisioni. L’erronea attribuzione al giudice monocratico, invece che a quello collegiale, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima delle conclusioni dell’udienza preliminare o, quando questa udienza non è prevista, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, entro il termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari ex art. 491. Entro questo ultimo termine, può essere riproposta l’eccezione circa l’erroneità dell’attribuzione, nel caso in cui sia stata respinta in udienza preliminare (art. 33quinquies). Gli effetti della rilevazione dell’erronea attribuzione di un reato mutano a seconda che l’udienza preliminare sia prevista oppure no nel procedimento male incardinato e/o in quello che invece deve correttamente incardinarsi dopo la rilevazione del difetto di attribuzione. Occorre distinguere in base a quando l’inosservanza è dichiarata: a. se il difetto di attribuzione è rilevato in udienza preliminare e il reato è ricompreso fra quelli per cui al 550 dispone la citazione diretta, il giudice dispone con ordinanza che gli atti siano trasmessi al PM (33sexies, comma 1); b) se invece l’inosservanza delle regole sul riparto degli affari penali tra collegio e giudice monocratico è rilevata nel dibattimento di primo grado, occorre distinguere in funzione di quanto accaduto prima della sua instaurazione. Se è stata celebrata l’udienza preliminare e il giudice del dibattimento rilevi che il fatto è attribuito al Tribunale in altra composizione, allora pronuncia ordinanza di trasmissione degli altri all’altro giudice (33septies co 1); Se, invece, non è stata celebrata l’udienza preliminare, e questa andava celebrata (cioè fuori dei casi di cui al co1, quando il giudice monocratico ritiene che il reato appartenga alla cognizione del collegio), bisogna rimediare attraverso la regressione del procedimento: viene disposta con ordinanza la trasmissione degli atti al PM perché proceda alla formulazione dell’imputazione con la richiesta di rinvio a giudizio (33septies co 2); c) nel caso in cui l’erronea attribuzione sia stata tempestivamente e correttamente eccepita e, tuttavia, il giudice di primo grado non l’abbia rilevata, al vizio può essere posto rimedio dal giudice di appello o dalla Corte di Cassazione. Il giudice di appello quando ritenga che in primo grado dovesse pronunciarsi il giudice collegiale emette sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al PM (33octies co 1). Se invece il difetto di attribuzione riguarda una sentenza di primo grado emessa dal collegio e non dall’organo monocratico, il giudice di appello si pronuncia nel merito, e non si ha regressione del procedimento (33octies co 2); d nel caso in cui l’erronea attribuzione sia stata tempestivamente e correttamente eccepita e, tuttavia, il giudice di primo grado non l’abbia rilevata, al vizio può essere posto rimedio dalla Corte di cassazione, che può essere adita sulla corretta attribuzione del Tribunale, o: - in esito a ricorso ordinario: interloquisce sulla questione solo se il processo è stato erroneamente giudicato dall’organo monocratico ed il vizio risulti eccepito entro il termine previsto a pena di decadenza e non rilevato (33octies co 1) (questo perché ex 33octies co 2 il giudice di appello che rilevi l’appartenenza del reato giudicato in sede collegiale alla cognizione del Tribunale in composizione monocratica è tenuto a pronunciarsi nel merito senza 46 procedere all’annullamento in appello); - omisso medio (si pronuncia per saltum): la Corte di cassazione può rilevare il vizio di attribuzione non solo nel caso di erronea attribuzione all’organo monocratico invece che al collegiale, ma anche nell’ipotesi inversa. 5.GLI ISTITUTI A SALVAGUARDIA DELL’IMPARZIALITÀ DELLA PERSONA DEL GIUDICE: INCOMPATIBILITÀ, ASTENSIONE E RICUSAZIONE L’imparzialità è uno dei fondamentali principi che la Costituzione detta in materia di giurisdizione ed è previsto ex art. 111.2 cost. Il legislatore prevede apposite regole per consentire alle parti di escludere il giudice che non risulti tale, sulla base di elementi di fatto obiettivi e concreti; al tempo stesso altre regole impongono al giudice di esimersi dall’esercitare la funzione giurisdizionale ogni qualvolta risultino delle contingenze tali che potrebbero estrometterlo dal processo. Gli istituti che consentono di allontanare dalla trattazione di un procedimento il magistrato cui paiono riconducibili le situazioni che ne pregiudicano l’imparzialità, sono: 1) l’incompatibilità, 2) l’astensione e 3) la ricusazione, la cui disciplina ha carattere eccezionale e tassativo. Talvolta, i fatti che determinano il venir meno dell’imparzialità del giudice, sono riconducibili allo stesso espletamento di compiti istituzionali; altre volte, essi discendono dall’esistenza di peculiari relazioni fra un giudice medesimo e una delle parti in causa. L’incompatibilità del giudice è determinata da: - ragioni di parentela (art. 35): nello stesso procedimento non possono esercitare alcuna funzione giudici che siano tra loro legati da vincoli di coniugio, parentela o affinità; - atti del procedimento (art. 34): quando il giudice afferma o nega che una persona abbia commesso un fatto di reato, perde la sua imparzialità perché non è più in una posizione di equidistanza fra accusa e difesa. Per questo la legge qualifica come incompatibile il giudice che abbia adottato provvedimenti in cui sia implicita una presa di posizione sul merito della regiudicanda. Il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare sentenza in un grado del processo non può esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento o al giudizio di revisione (art. 34.1). Non può partecipare al giudizio nemmeno il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, o ha disposto il giudizio immediato, o ha emesso decreto di condanna, o ha deciso sulla impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere (art. 34.2). Non può esercitare l’ufficio del giudice chi, nel medesimo procedimento, ha esercitato funzioni di PM, o ha svolto atti di PG o ha prestato ufficio di difensore, procuratore speciale, curatore di una parte o di testimone, perito, consulente tecnico o ha proposto denuncia, querela, istanza o richiesta o ha deliberato o ha concorso a deliberare l’autorizzazione a procedere (art. 34.3). L’elenco delle situazioni destinate a integrare un’ipotesi di incompatibilità del giudice per atti compiuti nel procedimento si è ampliato nel tempo, in ragione dell’elevato numero di declaratorie di incostituzionalità dell’art.34 di tipo “additivo”. Sintetizzando, ciò che pregiudica la necessaria imparzialità del giudice è che questi abbia conosciuto e valutato le risultanze delle indagini, e su tali basi, abbia assunto una delibazione in ordine al fatto addebitato; mentre la sede pregiudicata (il contesto procedimentale in cui la predetta delibazione pregiudicante determina l’estromissione del giudice) è la valutazione sul merito dell’accusa, quindi il giudizio dibattimentale, il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta del le parti, il decreto penale di condanna. Così, sono stati inseriti anche ulteriori commi all’art 34, prevedendo al co 2 bis che non può tenere l’udienza preliminare e nemmeno partecipare al giudizio, o emettere il decreto penale di condanna, il giudice che nel medesimo procedimento abbia esercitato la funzione di gip. Ricorrendo uno dei casi di incompatibilità, il giudice è tenuto a spogliarsi spontaneamente del procedimento formulando dichiarazione di astensione. In particolare, il giudice ha l’obbligo di astenersi se (art. 36.1): - si trova in una delle situazioni di incompatibilità di cui agli artt. 34 e 35; - ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli; - è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private o se il difensore, 47 procuratore o curatore di una di queste parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; - ha dato consigli o pareri sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle funzioni giudiziarie; - vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; - alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; - un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di PM; - esistono “altre gravi ragioni di convenienza”. In mancanza della spontanea astensione del giudice dal procedimento (in tutti i casi in cui il giudice dovrebbe astenersi), le parti possono ricusarlo (art. 37) entro i termini stabiliti ex art. 38. Ulteriore causa di ricusazione si realizza se il giudice, nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, manifesti indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione (37.1 lett b)). A questo proposito, si è affermato che una delibazione incidentale su una questione processuale può configurare un caso di “Indebita” manifestazione del convincimento da parte del giudice, solo se la decisione medesima abbia anticipato la valutazione sulla colpevolezza dell’imputato, senza che tale apprezzamento fosse imposto o giustificato dalla specificità procedurale della pronuncia adottata. La dichiarazione di astensione è presentata con atto scritto e motivato al Presidente della Corte o del Tribunale, che decide con decreto senza formalità di procedura. Sulla dichiarazione di astensione del Presidente del Tribunale decide il Presidente della Corte di appello; su quella del presidente della Corte di appello decide il presidente della Corte di cassazione (art.36 co 3 e 4). Sulla dichiarazione di ricusazione decide la Corte di appello, se il giudice ricusato è del Tribunale o della Corte di assise o della Corte di assise di appello; la stessa regola vale se il giudice ricusato è della Corte d’appello, ma sulla sua ricusazione decide una sezione diversa da quella di appartenenza (art. 40.1). Sulla ricusazione di un giudice della Corte di cassazione decide una sezione della Corte, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato (art. 40.2). Non è ammessa la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione (art. 40.3). I motivi della ricusazione devono essere indicati nella dichiarazione di ricusazione, a pena di inammissibilità (art. 38.4), unitamente alle prove sulle quali la stessa si fonda (art. 38.3). Il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione (art. 37.2). La Corte Cost ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del 37.2 nella parte in cui risulti applicabile al caso in cui sia stata nuovamente proposta una dichiarazione di ricusazione fondata sui medesimi motivi di altra già rigettata (allora in questo caso può pronunciare/concorrere a pronunciare). Quanto agli effetti dell’astensione e della ricusazione: in caso di accoglimento, il giudice non può compiere alcun atto del procedimento. La sentenza emessa dopo la dichiarazione di astensione o ricusazione, se queste sono accolte, è affetta da nullità assoluta. Il giudice astenuto o ricusato è sostituito con altro magistrato. Se proposte insieme, la dichiarazione di astensione prevale su quella di ricusazione. 6.LA RIMESSIONE NEL PROCESSO La rimessione del processo consiste nello spostamento della sede di celebrazione del giudizio penale al fine di evitare che situazioni locali esterne rispetto al processo influenzino negativamente la serenità del suo svolgimento, determinando condizioni tali da pregiudicare l’imparzialità dell’ufficio giudiziario competente. La ricusazione e l’astensione tutelano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale in relazione al singolo giudice persona fisica, la rimessione, invece, riguarda l’istituzione giurisdizionale di un dato luogo indipendentemente dalla singola persona fisica investita della regiudicanda (cioè riguarda il giudice come ufficio): ciò che rileva non è la sussistenza di orientamenti o relazioni personali e condotte riconducibili ad uno specifico magistrato, bensì l’accertamento di situazioni ambientali estrinseche a ciascun soggetto del procedimento, che rischiano di turbare il giudice, le parti, i testimoni o qualsiasi altra persona che prenda parte al suo svolgimento. Il rimedio consiste nello spostamento del luogo di celebrazione del processo, disciplinato attraverso la predeterminazione legale delle situazioni di fatto alla cui ricorrenza connettere la traslatio iudicii. L’individuazione dei presupposti determinanti costituisce la condicio sine qua non della compatibilità costituzionale di questo istituto, che altrimenti rischierebbe di contrastare con il principio del giudice naturale (25 Cost). Il trasferimento da una sede all’altra si risolve nella individuazione del giudice competente sulla base di una valutazione ex post, mentre la Costituzione impone la predeterminazione legale dell’ufficio giurisdizionale avente cognizione su una determinata regiudicanda. La salvaguardia dei 50 Si delinea così un “concorso di funzioni” tra PM di primo grado e secondo grado, le cui prerogative sono esercitate prima dalla Procura della Repubblica, cui si sostituisce il Procuratore generale in caso di presupposti indicati tassativamente ex lege, al fine di contrastare l’inerzia del primo ufficio mediante in coinvolgimento di quello istituito presso la Corte d’appello. La Riforma Orlando (L.103/2017) ha valorizzato il ruolo sussidiario della Procura generale presso la Corte d’appello, attraverso il coinvolgimento dei suoi componenti nella determinazione dell’esercizio dell’azione penale. La relazione tra PM di primo e secondo grado si conforma alla stregua del modello cooperativo, in cui i diversi uffici si armonizzano per adempiere meglio i doveri istituzionali dell’organo di accusa. Le peculiarità di alcuni fenomeni delittuosi hanno indotto il legislatore ad attribuire, in taluni casi, le funzioni di PM nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado all’ufficio della Procura della Repubblica che ha sede presso il Tribunale del luogo in cui si trova la Corte d’appello, cd Procura distrettuale. Con riguardo a fenomeni criminosi di rilevante complessità l’efficienza investigativa dipende anche dalla capacità degli inquirenti di mettere in relazione fra loro diversi fatti di reato posti in essere in diversi luoghi, quindi appartenenti alla competenza di diversi giudici. L’allargamento ad altre tipologie di reati della legittimazione dell’ufficio del PM presso il Tribunale del capoluogo del distretto ha perso il suo esclusivo riferimento alle “mafie” (51.3 bis); si è esteso prima ai delitti, consumati o tentati, con finalità di terrorismo (51.3 quater) poi a quelli concernenti cybercrimes e tecnologie informatiche (51.3 quinquies). Al fine di realizzare l’effettivo coordinamento dell’attività investigativa è stato istituito l’ufficio della Direzione nazionale antimafia (DNA), divenuta successivamente antiterrorismo (l. 43/2015). Al vertice della Direzione c’è il Procuratore nazionale; l’ufficio si compone poi di due Procuratori aggiunti e di almeno venti magistrati con funzioni di sostituto Procuratore. 7.2. La disciplina dei contrasti Nella formulazione originaria del codice non era previsto alcun controllo che assicurasse che il PM procedente fosse proprio quello istituito presso il giudice competente a pronunciarsi in ordine ai fatti oggetto delle indagini. Lo scopo era evitare delle situazioni di stallo e a tal fine soccorreva la disciplina dei contrasti negativi fra i PM (art. 54), che si realizzano quando due distinte procure della Repubblica escludono entrambe la propria legittimazione a svolgere le indagini. In questo caso, dirimere il contrasto spetta alla Procura generale presso la Corte d’appello (nel caso in cui i PM rimasti inerti appartengano allo stesso distretto di Corte d’appello) o a quella istituita presso la Corte di cassazione (nel caso in cui gli uffici del PM siano di distretti diversi). Il Procuratore determina quale ufficio debba procedere e ne dà comunicazione sia a quello riconosciuto legittimato allo svolgimento delle indagini, sia all’altro (art. 54.2, primo periodo). Questo criterio verticistico di soluzione del contrasto è stato impiegato anche per i contrasti positivi, consistenti nella moltiplicazione o duplicazione di indagini da parte dei PM appartenente a diverse procure, in relazione al medesimo fatto e a carico della stessa persona (art. 54 bis). Nel caso di contrasto positivo o negativo relativo ai reati di cui al 51 co 3bis e 3quater occorre distinguere tra due situazioni, entrambe disciplinate ex art. 54ter: 1) se il contrasto sorge fra diverse direzioni distrettuali, la soluzione spetta sempre alla Procura generale presso la Corte di cassazione, ma quest’ultima deve prima chiedere alla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo un parere, di cui tenere conto per la decisione; 2) se invece il contrasto riguarda una Procura della Repubblica del distretto e la Procura distrettuale, la sua soluzione è affidata alla Procura generale presso la Corte d’appello, che è tenuta ad informare la Procura nazionale del provvedimento adottato. Con l’introduzione del 54quater è stata riconosciuta la facoltà della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa dal reato di dare impulso al procedimento incidentale di verifica di legittimazione allo svolgimento delle indagini dell’ufficio del PM che sta procedendo. Presupposto della procedura è che ci siano elementi per ritenere che il reato ipotizzabile sia di competenza di un giudice diverso da quello presso cui è istituito il PM che sta procedendo. In tali casi, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa dal reato possono presentare presso la segreteria del PM procedente, una richiesta di trasmissione degli atti a favore di un altro PM ritenuto legittimato. L’ufficio destinatario della richiesta si pronuncia entro 10 giorni e, se l’accoglienza, trasmette gli atti alla Procura della Repubblica indicata. Se, invece, non riconosce la legittimazione allo svolgimento delle indagini 51 dell’ufficio del PM indicato nella richiesta, la parte che l’ha presentata può investire della questione il Procuratore generale presso la Corte d’appello o presso la Corte di cassazione, a seconda che l’altra Procura della Repubblica ritenuta legittimata si trovi nello stesso distretto di Corte d’appello oppure no. Al Procuratore generale viene presentata richiesta di determinazione dell’ufficio legittimato all’espletamento delle indagini e su tale richiesta la Procura generale è tenuta a pronunciarsi entro 20 giorni, individuando il PM a cui spetti il potere-dovere di svolgere le indagini. In tutti i casi in cui un ufficio del PM succede ad altro istituito presso diverso Tribunale in esito alla trasmissione o alla designazione disciplinate agli artt. 54 ss, gli atti d’indagine compiuti prima conservano il regime di utilizzabilità consueto. 8.LA POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia giudiziaria è l’organo di cui dispone il PM ai fini dell’espletamento delle sue prerogative istituzionali e che il codice disciplina fra i soggetti, dopo il giudice ed il PM. Anche l’autorità giurisdizionale può avvalersi della PG per eseguire dei provvedimenti ordinatori (es. accompagnamento coattivo) e ordinanze applicative di misure cautelari personali o reali. La PG è così qualificata per distinguerla dalla polizia amministrativa o di prevenzione, il cui compito è quello di impedire la commissione di illeciti penali o amministrativi. La PG, invece, interviene successivamente alla commissione del reato e svolge, ex art. 55 una funzione informativa (: prendere notizia dei reati, anche di propria iniziativa), una funzione investigativa (ricercare gli autori) e una funzione assicurativa (assicurare le fonti di prova e raccogliere ciò che può servire per l’applicazione della legge penale). In altre parole, la commissione del reato è il discrimine per distinguere tra polizia amministrativa e giudiziaria, riconducendo alla prima tutto ciò che sta prima della commissione del reato e alla seconda quanto c’è dopo. Sul piano operativo, però, questa distinzione non è sempre agevole. Le funzioni enumerate ex 55 (prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercare gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova, svolgere ogni indagine e attività disposta o delegata dall’autorità giudiziaria) trovano proiezione nelle corrispondenti attività informativa, investigativa e assicurativa disciplinate nel V libro del codice (dedicato a indagini preliminari e udienza preliminare). Infatti, anche la polizia giudiziaria, insieme al PM, svolge nell’ambito delle sue attribuzioni le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (art. 326 cpp). Le funzioni della polizia giudiziaria possono essere esercitate a iniziativa della medesima polizia giudiziaria oppure sotto la direzione o su delega del PM. La diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell’autorità giudiziaria sancita nell’art. 109 Cost. serve ad assicurare l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione penale, evitando che l’esecutivo possa condizionare l’accertamento processuale, le cui sorti dipendono dalle indagini svolte dagli organi di polizia. Conformemente a ciò, l’art. 56 ribadisce che le funzioni della polizia giudiziaria sono svolte, alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria (PM e giudici), a) dai servizi di polizia giudiziaria previsti dalla legge, b) dalle sezioni di polizia giudiziaria istituiti presso ogni Procura della Repubblica e composte da personale dei servizi di polizia giudiziaria, c) dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria appartenenti agli altri organi a cui la legge impone di compiere indagini a seguito di una notizia di reato. L’art. 57 individua gli appartenenti ai diversi corpi di polizia che svolgono funzioni di polizia giudiziaria e distingue tra agenti e ufficiali di polizia giudiziaria, legati da un vincolo gerarchico che subordina i primi ai secondi. Nei Comuni nei quali non abbia né sede né ufficio la polizia di Stato, né un Comando dell’arma dei Carabinieri o della Guardia di finanza, il Sindaco è qualificato ufficiale di polizia giudiziaria. Ogni Procura della Repubblica dispone delle rispettive sezioni di polizia giudiziaria, mentre la Procura generale presso la Corte d’appello dispone di tutte le sezioni istituite presso il distretto (art. 58.1). La relazione tra gli uffici del PM e i servizi della polizia giudiziaria è di tipo gerarchico (art.59.1): l’eventuale esercizio del potere disciplinare è rimesso esclusivamente al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale (art.59.2). Al fine di evitare interferenze da parte del corpo di polizia di provenienza è stabilito il divieto per questo di distogliere gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti alle sezioni dalla loro attività, se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono (art. 59.3). La Procura nazionale antimafia e antiterrorismo è supportata dall’attività di un corpo di polizia esclusivamente deputato alle indagini in tema di criminalità 52 organizzata: Direzione Investigativa Antimafia (DIA), coordinata dal Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata. 9.IMPUTATO E PERSONA SOTTOPOSTA ALLE INDAGINI All’imputato sono dedicate le previsioni contenute nel titolo IV del primo libro del cpp. La norma di apertura è l’art 60 che riconnette l’assunzione della qualità di imputato all’avvenuto esercizio dell’azione penale da parte del PM attraverso una delle modalità previste dalla legge. Qualunque sia l’iter di definizione del processo prescelto dal PM (sia che si tratti di processo ordinario, sia che si tratti di uno speciale), l’esercizio dell’azione penale implica sempre la formulazione dell’imputazione, cioè la formale attribuzione ad una persona, da parte dell’accusa, di un fatto di reato concreto preciso. La circostanza che il PM formuli l’imputazione dopo aver svolto tutte le attività investigative necessarie per vagliare il grado di fondatezza della notizia di reato, evidenzia la natura di vero e proprio giudizio di tale atto, che assume una presa di posizione del PM circa il merito dell’ipotesi accusatoria, in base alle consapevolezze che gli derivano dagli elementi probatori già raccolti contra reum. Elevare un’accusa a carico di qualcuno significa che la persona accusata sia posta nelle condizioni di difendersi. La difesa è la funzione contrapposta all’accusa, dove c’è l’una non può mancare l’altra: il dialogo che ha per posta la pena – si dice – assume la forma del contraddittorio e, infatti, accusa e difesa sono concetti e istituti che si implicano reciprocamente. La qualità di imputato permane per tutta la durata del procedimento, fino alle conclusioni, cioè fin quando non diviene irrevocabile la sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato (art. 60.2). In caso di revisione (: impugnazione esperibile contro una sentenza irrevocabile di condanna con il fine di sostituire a quest’ultima una sentenza di proscioglimento nel merito) la persona condannata assume nuovamente la qualità di imputato nel corso del procedimento, perché la revisione determina una nuova instaurazione del giudizio. Ciò accade anche a seguito della revoca della sentenza di non luogo a procedere (434) o di rescissione del giudicato 629bis. Inoltre, è importante sottolineare che prima che il PM abbia esercitato l’azione (l’iniziativa atta a instaurare il processo) – e dunque quando non esiste ancora nessuno qualificabile come imputato – la salvaguardia della posizione difensiva risulta ancora più imprescindibile. Durante le indagini preliminari lo squilibrio fra posizione dell’accusa e quella della difesa è molto più marcato rispetto a quanto accade dopo l’instaurazione del processo che, invece, realizza delle condizioni di effettiva parità delle parti davanti a un giudice terzo ed imparziale. La formulazione dell’imputazione presuppone il dispiegamento di un’azione investigativa, funzionale a superare il deficit conoscitivo che l’organo dell’accusa ha all’inizio del procedimento. Infatti, per fare luce su un fatto ignoto l’investigatore formula ipotesi e cerca elementi che le verifichino o le invalidino. Le risultanze investigative condizionano le sorti del procedimento: perché da esse dipendono le determinazioni del PM in ordine all’esercizio dell’azione, e anche perché gli atti d’indagine assumono valore di conoscenza utilizzabile dal giudice in diversi contesti. Per queste ragioni, l’art. 61 estende alla persona sottoposta alle indagini i diritti e le garanzie dell’imputato e l’applicabilità di ogni altra disposizione relativa a quest’ultimo. Quanto stabilito nel 61 ha il merito di sottolineare la centralità della salvaguardia della posizione difensiva in ogni stato e grado del procedimento, perché la sua inviolabilità è sancita nella Cost senza restrizioni (24.2 Cost) ed esige condizioni di effettività della tutela che prescindono dalla formale acquisizione della qualità di imputato. L’estensione alla persona sottoposta alle indagini dei diritti e delle prerogative previste per l’imputato non opera in senso inverso: le previsioni dettate con riguardo al primo non risultano applicabili all’altro. 9.1. Diritto al silenzio Il diritto al silenzio è un fondamentale corollario del diritto di difesa. Il diritto al silenzio esclude ogni dovere di collaborazione in capo all’imputato, libero di scegliere se svolgere o no attività probatoria, se controdedurre per confutare le prove o limitarsi a negare ogni addebito oppure tacere. Il legislatore se ne 55 Non è applicabile il 66 quando una condanna sia stata emessa nei confronti di un imputato correttamente individuato, che però abbia dichiarato falsamente come proprie le generalità di altra persona, cui formalmente risulta intestata la sentenza: in tale caso va annullata senza rinvio la condanna a carico della persona che si era fatta processare sotto falsa identità; inoltre, va disposta la restituzione degli atti al PM, perché proceda nei confronti della persona correttamente identificata. Altro aspetto rilevante è quello che concerne l’eventuale età minore dell’imputato: nel nostro ordinamento la convinzione di tutti i reati commessi da persone che al momento del fatto non avevano ancora raggiunto la maggiore età, è devoluta al Tribunale per i minorenni. Quando si ha ragione di ritenere che l’imputato sia minorenne, in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si spoglia del procedimento e trasmette gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni (art. 67). Se, invece, risulta la morte dell’imputato o della persona sottoposta alle indagini, il procedimento è immediatamente concluso con archiviazione (411 cpp) o con sentenza che dichiara l’estinzione del reato, a seconda che la notizia del decesso sopraggiunga prima o dopo l’esercizio dell’azione penale. 9.3. Capacità dell’imputato La difesa può essere esplicata sia dalla persona cui è attribuito il fatto di reato (autodifesa), sia dal suo difensore (difesa tecnica). Per garantire l’effettivo esercizio dell’autodifesa occorre la capacità processuale (è l’idoneità a partecipare liberamente e consapevolmente al procedimento, esercitando diritti e facoltà di legge; è presupposto fondamentale del diritto di difesa ex art. 24 Cost, e deve sussistere in ogni momento del procedimento): l’imputato deve essere in possesso delle sue capacità psico-fisiche e non devono esservi condizioni attuali tali da pregiudicare l’esercizio consapevole delle prerogative difensive. Ove risulti pregiudicato l’esercizio consapevole dell’autodifesa, manca la capacità processuale e non si può dar corso al procedimento penale. Distinta dalla capacità processuale è, invece, la capacità di essere parte, che è qualità che difetta negli infraquattordicenni e nelle persone immuni. L’art. 70 consente al giudice di disporre perizia per accertare le condizioni di infermità mentale che impediscano all’imputato di partecipare coscientemente al processo. Quel che conta ai fini del 70 è la circostanza che l’imputato non appaia nelle condizioni di comprendere gli eventi processuali di cui è protagonista e che il giudice ritenga di dover accertare lo stato di incapacità attraverso l’ausilio specialistico d i un medico. Se la perizia è disposta nella fase delle indagini preliminari, restano sospesi i termini di durata massima della fase preliminare, ma il PM può assumere gli atti che non richiedano la partecipazione cosciente della persona sottoposta alle indagini e richiedere l’assunzione delle prove non rinviabili con le forme dell’incidente probatorio (art. 70.3). Ove le condizioni mentali dell’imputato ne impediscano una partecipazione cosciente, e tale stato di infermità appaia reversibile, il giudice sospende il processo con ordinanza e nomina all’imputato un curatore speciale (art. 71 co 1 e 2). Dopo l’esercizio dell’azione penale l’ordinanza di sospensione è pronunciata, sempre che non debba essere emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere (art. 70.1). Nonostante la sospensione il giudice può comunque raccogliere le prove che possono condurre al proscioglimento dell’imputato (art.70.4). Dopo 6 mesi dall’emissione dell’ordinanza di sospensione il giudice dispone nuovi accertamenti, per verificare la permanenza delle condizioni di incapacità dell’imputato; se le cause che impedivano la partecipazione consapevole dell’imputato siano venute meno, revoca l’ordinanza di sospensione. In assenza di revoca, il controllo sulle condizioni psico-fisiche dell’imputato vengono ripetute ogni 6 mesi. Se, invece, lo stato di incapacità risulta irreversibile il giudice deve provvedere alla revoca dell’ordinanza di sospensione del procedimento e pronuncia sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza personale diversa dalla confisca (art. 72 bis). Ove ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza personale, o quando l’imputato irreversibilmente infermo di mente risulti pericoloso e ciò precluda l’emissione di provvedimenti di cui al 72bis, alla sospensione del procedimento penale di cui al 71 si accompagna l’applicazione in via provvisoria della misura di sicurezza personale. Il giudice deve verificare la permanenza delle condizioni di pericolosità. Prima dell’esercizio dell’azione penale, a fronte dell’irreversibilità delle condizioni di salute che impediscono la consapevole partecipazione al procedimento, il PM deve procedere alla formulazione della richiesta di archiviazione ex 411, per mancanza di una condizione di procedibilità. 56 10.AZIONE CIVILE E PROCESSO PENALE La possibilità di individuare il processo penale come sede giurisdizionale per tutelare gli interessi civili lesi dal reato, costituisce un aspetto tipico della procedura penale continentale. L’azione civile arricchisce il processo penale di una parte “eventuale”, a differenza del PM e dell’imputato che sono parti necessarie. La parte civile è definita in questo modo perché la sua presenza nel processo dipende da un’opzione libera e insindacabile: quella del titolare della posizione giuridica soggettiva che decida di rivolgersi al giudice penale e non a quello civile per trovare soddisfazione alla sua pretesa risarcitoria originata dalla commissione di un fatto di reato. La relazione tra processo penale e civile intentato per le restituzioni ed il risarcimento del danno derivanti da reato è disciplinata dal principio di autonomia dei rispettivi giudizi. Spetta al titolare della pretesa civilistica (ossia chi afferma di essere il danneggiato) scegliere in quale ambito (civile o penale) azionarla. Inoltre, l’azione intentata davanti al giudice civile può essere trasferita davanti a quello penale, prima che il giudice originariamente adito pronunci sentenza di merito (art. 75.1). *Il danneggiato che abbia esercitato l’azione in sede civile prima dell’inizio del processo penale può: a. proseguire il giudizio in sede civile: gli esiti del giudizio penale non hanno effetti nei suoi confronti b. trasferire l’azione in sede penale costituendosi parte civile e rinunciando agli atti del giudizio in sede civile. L’eventuale assoluzione avrà effetti nei suoi confronti. Il trasferimento in sede penale non è possibile se il giudice civile abbia pronunciato sentenza di merito (ancorché non coperta da giudicato) o quando siano scaduti i termini per la costituzione in sede penale. Se il danneggiato prima esercita azione in sede penale e successivamente l’azione in sede civile, allora il giudizio civile è sospeso fino a pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione. La sentenza penale irrevocabile avrà efficacia vincolante nel giudizio civile ex 651 e 652.* 10.1. Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria La parte civile nel processo penale non svolge il ruolo di accusatore privato ma quello di un soggetto teso al soddisfacimento delle sue pretese di carattere civilistico. L’art. 74 stabilisce che l’azione civile per le restituzioni o il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, riconducibili al reato oggetto di accertamento, può essere esercitata dal soggetto al quale il reato ha recato danno o dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile. L’azione civile può essere esercitata anche verso l’ente plurisoggettivo privo di personalità giuridica, quindi la successione universale è anche quella fra diversi enti. La parte civile, come nel processo civile, non può stare in giudizio personalmente: può rivestire il ruolo di parte nel processo penale solo attraverso il ministero di un difensore munito di procura speciale (art. 82 co 2 e 3). Effettuata la costituzione, il danneggiato dal reato partecipa al processo in tutti i suoi gradi. La costituzione di parte civile può essere revocata in ogni stato e grado del procedimento attraverso una revoca espressa ex 82.1, fatta con dichiarazione fatta personalmente dalla parte o dal suo procuratore speciale in udienza o con atto scritto depositato presso la cancelleria del giudice e notificato alle altre parti oppure tacita ex 82.2: in particolare, si ha implicita revoca della costituzione con la mancata presentazione delle conclusioni scritte ex 523.2, comprensive di richiesta di risarcimento danni. Implicita revoca della costituzione si attua anche in caso di proponimento dell’azione davanti al giudice civile. La revoca di costituzione di parte civile non preclude il successivo esercizio dell’azione nella sede propria (art.82.4). L’atto di costituzione di parte civile è scritto e deve contenere, a pena di inammissibilità: a. l’indicazione delle generalità della persona fisica o denominazione dell’ente che intendano costituirsi + l’indicazione delle generalità del suo legale rappresentante; b. le generalità dell’imputato; c. il nome e cognome del difensore e l’indicazione della procura speciale; d. l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda (causa petendi, ovvero l’esposizione del nesso esistente fra la commissione del reato e le conseguenze pregiudizievoli subite dal danneggiato); e. la sottoscrizione del difensore. La costituzione di parte civile presuppone l’avvenuto esercizio dell’azione penale e non può avere luogo nelle indagini preliminari (art. 79.1). La dichiarazione può essere presentata: - per l’udienza preliminare, prima del suo inizio ma dopo che essa risulti instaurata; - nel corso dell’udienza; - nel giudizio, anteriormente al compimento per la prima volta dell’accertamento della regolare costituzione delle parti. 57 Se la dichiarazione di costituzione è presentata fuori dall’udienza, bisogna notificarla alle altre parti (78.2). Si ritiene che i termini stabiliti dal 79 siano vincolanti esclusivamente in relazione alle imputazioni contestate e che, in caso di contestazione di un nuovo fatto-reato ex 529, occorra porre la persona offesa dal reato in condizioni di esercitare l’azione civile dinanzi al giudice penale in relazione alla contestazione suppletiva. Qualora non sussistano i requisiti per la costituzione di parte civile, il giudice ne dispone con ordinanza l’esclusione prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche nel caso in cui la richiesta di esclusione della parte civile sia stata già formulata in udienza preliminare e poi rigettata dal giudice. Le ordinanze con cui la parte civile è ammessa o esclusa dal processo penale sono di carattere processuale, quindi l’eventuale ammissione non pregiudica la successiva decisione sul suo diritto alle restituzioni e al risarcimento; mentre l’eventuale esclusione è priva di riflessi sull’esercizio dell’azione civile in sede propria. Oltre che nei confronti dell’imputato, l’azione per le restituzioni e per il risarcimento del danno può essere intentata anche nei confronti del responsabile civile, cioè la persona fisica o l’ente che risponde per il fatto dell’imputato sulla base delle regole sulla responsabilità aquiliana previste dalla legge civile. Il responsabile civile è obbligato in solido con l’imputato e, quindi, può intervenire volontariamente nel processo penale o esservi citato su richiesta della parte civile, o su richiesta del PM nel caso in cui il danneggiato sia incapace per infermità, minore età e l’azione civile nel suo interesse sia stata esercitata dal PM a causa di assoluta urgenza (art 83.1). La richiesta di citazione del responsabile civile deve essere formulata massimo per il dibattimento (83.1), mentre l’intervento volontario deve avvenire negli stessi tempi stabiliti per la costituzione della parte civile, cioè entro il compimento per la prima volta della verifica per la regolare costituzione delle parti, anteriormente alla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 85.1). La citazione del responsabile civile ordinata dal giudice presuppone una valutazione da parte del giudice circa il fumus boni iuris della richiesta. La presenza del responsabile civile nel processo penale resta legata a quella della parte civile: l’intervento del responsabile civile presuppone la previa costituzione del danneggiato nel processo penale e la sua estromissione è collegata alla revoca o esclusione della parte civile. Al responsabile civile è estesa la regola dell’immanenza della costituzione (art. 84.4). Nel caso in cui la legge penale sostanziale assoggetti una persona fisica o giuridica ad un’obbligazione civile pecuniaria pari all’importo della multa o dell’ammenda inflitta al condannato, è possibile citare tali soggetti davanti al giudice penale. Citazione, costituzione ed esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (è il soggetto chiamato a rispondere del pagamento della pena pecuniaria quando l’imputato è insolvibile; è chi ha potere di autorità/vigilanza o è datore di lavoro dell’autore del reato) sono disciplinate attraverso un rinvio alle norme concernenti il responsabile civile (art. 89.2). Talvolta però l’instaurazione del giudizio abbreviato comporta l’esclusione d’ufficio del responsabile civile (87.3), ma non della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (89.2), nei cui confronti è destinata a esplicare i suoi effetti pure la sentenza pronunciata ai sensi dell’art.442. 11.PERSONA OFFESA DAL REATO La persona offesa dal reato (è soggetto del procedimento ma non è parte) è quella titolare dell’interesse protetto dalla norma penale, che si presume essere stata violata con la commissione del fatto oggetto del procedimento. La persona offesa è il soggetto che viene comunemente definito vittima del reato. Nella maggioranza dei casi, la persona offesa dal reato è anche danneggiata: quindi la persona offesa è destinata a promuovere l’azione di risarcimento e le restituzioni derivanti dal reato, divenendo parte civile se sceglie di far valere la propria pretesa all’interno del procedimento penale. Tuttavia, persona offesa e persona danneggiata sono nozioni distinte: la persona offesa è slegata dalla necessaria sussistenza del danno civilistico, la persona danneggiata è colui che ha subito il danno patrimoniale e/o non patrimoniale causalmente riconducibile alla commissione del reato, senza essere titolare dell’interesse protetto dalla norma penale. A prescindere dalla scelta di costituirsi parte civile, alla persona offesa sono riconosciuti ex art. 90.1: - la legittimazione, in ogni stato e grado del procedimento a presentare memorie e ad indicare elementi di prova; - i diritti e le facoltà espresse da specifiche disposizioni di legge. Il coinvolgimento della persona offesa è molto incisivo in tema di archiviazione, stante il suo potere di provocare l’intervento del 60 Negli uffici dei difensori e degli investigatori privati incaricati di svolgere indagini difensive le perquisizioni e le ispezioni sono ammesse solo quando, essendo imputato il titolare dell’ufficio o una persona che ci lavora stabilmente, l’atto investigativo serve a far emergere prove a suo carico; o anche quando, indipendentemente dallo status di indagato o imputato del difensore o di chi lavori presso il suo studio, gli inquirenti cerchino segni tangibili del reato oppure specifiche cose o persone già individuate (art. 103.1). In ogni caso, dell’ispezione, della perquisizione o del sequestro nell’ufficio del difensore è avvisato a pena di nullità il consiglio dell’ordine forense del luogo in cui è svolto uno di questi atti, affinché il presidente o un consigliere suo delegato possa assistere alle operazioni (art. 103.3). Il riferimento a cose o persone “specificatamente predeterminate” contenuto nel 103.1 lett b serve ad escludere ogni possibilità di intrusione e funge da ulteriore criterio di riduzione dei poteri investigativi esperibili nei confronti dei soggetti a cui l’ordinamento demanda il compito di salvaguardare l’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado. 12.2. Colloqui fra difensore e persona assistita in vinculis Chi sia sottoposto a custodia cautelare o è in stato di fermo o arresto, ha il diritto di conferire con il difensore subito dopo essere stato privato della libertà personale (art. 104). A salvaguardia di questo diritto, gli artt. 293.1 ter e 386.2 impongono di avvisare immediatamente il difensore (al quale è riconosciuto il diritto di accedere ai luoghi in cui si trova il ristretto) dell’avvenuta esecuzione della misura restrittiva. La legge delega ha riconosciuto all’imputato sottoposto a misura restrittiva della libertà personale il diritto di conferire immediatamente con il difensore, o comunque non oltre 7 giorni dal provvedimento limitativo della libertà personale. Anche il detenuto condannato in via definitiva, può conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena. Pure la persona in vinculis assoggettata al regime di cui al 41 bis ord. Penit. gode del diritto incondizionato di prendere contatto e interloquire con il proprio legale sin dall’inizio dell’esecuzione. Vi sono atti garantiti che l’autorità giudiziaria può compiere solo dopo aver avvisato il difensore, che deve essere presente (interrogatorio, ispezione personale su indagato/imputato, confronto con indagato/imputato, accertamento tecnico irripetibile). Vi sono atti a sorpresa ai quali il difensore ha diritto di assistere pur non dovendo essere avvisato (perquisizione, sequestro). La prerogativa difensiva che assicura in tempi brevi il contatto tra persona ristretta e avvocato vuole evitare che le esigenze investigative possano risultare pregiudicate in relazione del tempestivo colloquio tra le parti in questione. È quindi stabilito che nel corso delle indagini preliminari per i delitti di cui all’art. 51 co 3bis e 3quater, quando sussistono specifiche ed eccezionali ragioni di tutela (art. 104.3), tale colloquio può essere ritardato di 5 giorni. In caso di differimento del colloquio, l’imputato destinatario di un provvedimento cautelare potrà consultare l’avvocato solo dopo l’espletamento dell’interrogatorio di garanzia ex 294. Dove è disposto l’arresto o il fermo, invece, è lo stesso PM a poter ritardare l’incontro con il difensore dell’arrestato/fermato, fino a quando non sia stata presentata la richiesta di convalida. 12.3. Difensore di fiducia L’imputato ha il diritto di scegliere due difensori (art. 96.1). La nomina del difensore può essere fatta anche in via preventiva (per l’eventualità che si instauri un processo penale) con il fine di consentire al difensore l’espletamento delle indagini difensive (art. 391nonies co1). In questo caso il mandato deve essere scritto e contenere – oltre alla nomina del difensore – l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce, per la necessità di precisare l’oggetto dell’indagine (art. 391nonies co2). La nomina consiste nell’instaurazione di un rapporto contrattuale fra difensore ed assistito che produce i suoi effetti per tutto l’arco del procedimento di cognizione. L’investitura effettuata per il giudizio di cognizione è automaticamente prorogata con il fine di presentare l’istanza finalizzata alla concessione di una misura extracarceraria in luogo della pena detentiva. La nomina è un atto personale e quindi non può essere effettuata da procuratore speciale. Tuttavia, le particolari condizioni in cui versa la persona detenuta hanno fatto sì che il legislatore attribuisse ai suoi prossimi congiunti una legittimazione sostitutiva alla nomina del difensore, eccezionale e temporanea (art. 96.3). La facoltà dei prossimi congiunti di nominare un 61 difensore è suscettibile di estensione anche nel caso del latitante perché la ratio è quella di agevolare l’intervento di un difensore di fiducia quando l’interessato non può procedervi personalmente. L’atto di nomina può assumere: 1) forma di dichiarazione orale resa all’autorità procedente; 2) di dichiarazione scritta consegnata o trasmessa per raccomandata alla medesima autorità da parte del difensore. La dichiarazione di nomina del difensore di fiducia può essere presentata personalmente dal detenuto. Tale atto ha efficacia immediata, come se fosse ricevuto direttamente dall’autorità giudiziaria, alla quale deve essere comunicato con urgenza. La giurisprudenza ha riconosciuto la nullità di carattere generale a regime intermedio dell’atto compiuto in mancanza di previo avviso al difensore di fiducia nominato in carcere ai sensi del 123, ancorché la nomina effettuata prima della fissazione dell’atto medesimo sia pervenuta all’ufficio dell’autorità procedente solo successivamente. La legge consente al difensore di fiducia di indicare un sostituto per l’espletamento dell’attività difensiva relativa ad un suo assistito (art. 102.1). Il difensore sostituto è il professionista che, su incarico del titolare dell’ufficio difensivo, ne esercita i medesimi diritti e ne assume gli stesi obblighi (art. 102.2). La nomina del sostituto può essere ad acta o generica. In caso di nomina generica il sostituto esercita i suoi poteri fino a quando il sostituito non riassuma la condizione di difesa. Non può escludersi la designazione di un sostituto in via preventiva, cioè prima dell’insorgere della situazione di fatto che indurrà il titolare dell’ufficio difensivo a farsi sostituire. 12.4. Difensore nominato d’ufficio Quando l’imputato o la persona sottoposta alle indagini rimangono privi de difensore, si procede alla nomina di un difensore d’ufficio (art. 97.1). Con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (l. 247/2012), l’imputato non può difendersi da solo, senza un avvocato, nemmeno se risulti abilitato all’esercizio della professione forense davanti alle magistrature superiori. Il difensore d’ufficio svolge un ruolo sussidiario rispetto a quello del difensore di fiducia, tanto che cessa dalle sue funzioni non appena sia effettuata la nomina di quest’ultimo e ciò esprime la preferenza accordata dall’ordinamento per il rapporto fiduciario. La sussidiarietà del difensore d’ufficio è implicita all’obbligo di avvertire l’imputato assistito del difensore d’ufficio che può nominare in qualsiasi momento un difensore di fiducia (28 disp. Att.) ed alla previsione che l’informazione alla persona sottoposta alle indagini sul diritto di difesa deve contenere la comunicazione della nomina del difensore d’ufficio e l’indicazione della facoltà di nominare un difensore di fiducia con l’avvertimento che, in mancanza, l’indagato sarà assistito dal difensore d’ufficio (369 bis). L’individuazione e la designazione del difensore d’ufficio costituiscono l’atto formale da cui prende avvio il rapporto tra assistito e difensore. Presupposto per la designazione del difensore d’ufficio è la mancanza di quello di fiducia: derivante da assenza di nomina o dall’interruzione del rapporto fiduciario precedente (97.1). Il difensore d’ufficio deve essere nominato in caso di decesso di quello di fiducia, o in caso in cui questo perda i requisit i professionali per espletare il mandato, oppure diventi incompatibile. La nomina del difensore d’ufficio è dovuta pure in caso di rinuncia al mandato da parte del difensore di fiducia. Il difensore d’ufficio cessa dalle sue funzioni dopo la designazione del difensore di fiducia; tuttavia, l’eventuale successiva revoca dal mandato di quest’ultimo non fa rivivere la nomina del primo difensore d’ufficio, con la conseguenza che deve procedersi ad altra nomina dell’avvocato d’ufficio. La procedura di designazione del difensore d’ufficio si articola in due fasi: 1. Predisposizione degli elenchi e delle tabelle degli avvocati idonei e disponibili ad assumere incarichi ex officio 2. Attribuzione effettiva dell’incarico quando ne ricorra la necessità, cui è correlata l’informazione all’interessato circa l’avvenuta nomina officiosa del difensore. Il difensore d’ufficio ha l’obbligo di prestare patrocinio e l’eventuale rifiuto di assumere l’incarico configura un illecito disciplinare. Può essere esentato da tale obbligo in presenza di giustificato motivo (art. 97.5), da intendersi come impossibilità concreta di adempiere all’incarico. Il difensore d’ufficio deve comunicare immediatamente all’autorità giudiziaria le ragioni che gli impediscono di svolgere l’incarico affinché possa essere nominato un altro avvocato. L’attività difensiva espletata ex officio dal professionista è retribuita e, ex 369 bis cpp, la nomina del difensore d’ufficio è inviata alla persona sottoposta alle indagini. Il 97.4 disciplina un meccanismo di designazione del sostituto processuale di carattere temporaneo e transitorio, che rappresenta l’omologo, per la difesa d’ufficio, della facoltà di farsi sostituire prevista dal difensore di 62 fiducia ex 102. Il difensore d’ufficio ex 97.4 è un sostituto del difensore, titolare in base alla nomina ai sensi del 97.1, o in base ad una nomina fiduciaria. È nominato dall’autorità giudiziaria per svolgere una sostituzione ad acta, nei casi di temporanea assenza del difensore titolare della funzione. 12.5. Il patrocinato dei non abbienti L’art. 24.2 Cost assicura ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e per difendersi davanti ad ogni giurisdizione. In linea con ciò, l’art. 98 attribuisce la legittimazione in capo all’imputato, alla persona offesa dal reato e al danneggiato che intenda costituirsi parte civile a chiedere di essere ammessi a patrocinio a spese dello Stato, garantito anche dall’art. 6 Cedu che sancisce il diritto delle persone accusate di un reato, di poter beneficiare dell’assistenza tecnica anche quando non dispongono dei mezzi per retribuire un difensore. 12.6. Incompatibilità della difesa di più imputati nello stesso procedimento La relazione tra il difensore e l’assistito può presentare dei profili di patologia che il legislatore descrive per eliminare ogni situazione che possa creare pregiudizio alla persona assistita. La prima situazione patologica a venire in esame è l’incompatibilità del difensore: si delinea quando uno stesso avvocato presta assistenza difensiva ad una pluralità di imputati, ciascuno dei quali ha una posizione confliggente con quella degli altri. In altre parole, quando la difesa di un imputato o di una persona sottoposta alle indagini è inconciliabile con quella di altra persona imputata o sottoposta alle indagini, in quanto per difendere la prima occorre sostenere una ricostruzione in fatto o in diritto pregiudizievole alla difesa dell’altra, i diversi indagati o imputati non possono avvalersi dello stesso difensore. L’incompatibilità in esame delimita la libertà di scelta del difensore da parte dell’imputato sancita nell’art. 106.1 “la difesa degli imputati può essere assunta da un difensore comune”, cioè esclude che l’avvocato abbia obblighi di esclusività nei confronti dell’assistito. L’incompatibilità del difensore compromette in radice l’effettività della difesa e rappresenta un insanabile vulnus al contraddittorio. Se l’incompatibilità non viene rimossa spontaneamente, attraverso la revoca del difensore da parte dell’imputato, oppure per iniziativa dello stesso difensore che rinuncia alla difesa, è previsto l’intervento del giudice che indica la situazione d’incompatibilità, espone i motivi su cui si fonda e fissa un termine per la rimozione dell’avvocato incompatibile (art. 106 co. 2 e 4). Se, nonostante la presa di posizione dell’autorità procedente, gli interessati persistono nella loro inerzia senza sostituire il difensore, il giudice pronuncia ordinanza con la quale viene dichiarata l’incompatibilità e si procede alle designazioni dei difensori d’ufficio. Nel corso delle indagini preliminari questo provvedimento è adottato previa richiesta del PM o di un’altra parte privata. Non è autonomamente impugnabile il provvedimento con il quale il giudice dichiara, a norma dell’art. 106 co 3 e 4, che un difensore si trova in una situazione d’incompatibilità rispetto all’incarico conferitogli dal cliente. La mancata osservanza di tali previsioni è vizio rilevabile d’ufficio e determina la nullità assoluta o a regime intermedio, a seconda che il pregiudizio difensivo riguardi l’attività processuale in cui l’assistenza difensiva è stabilita come obbligatoria oppure no. L’orientamento prevalente in giurisprudenza è nel senso di ritenere che la nullità sia configurabile solo quando risulti un effettivo e concreto pregiudizio alla difesa del singolo assistito. Allo stesso modo risulta configurabile la nullità in caso di illegittimo ricorso da parte del giudice all’asserita incompatibilità del difensore, con conseguente sua rimozione, in assenza dei presupposti codificati. La legge sui collaboratori di giustizia (l.45/2001) ha introdotto una nuova ipotesi di incompatibilità del difensore (art. 106.4bis), che tutela l’interesse di una persona estranea al rapporto che lega difensore/assistito: non può essere assunta da uno stesso difensore la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di un altro imputato nel medesimo procedimento o in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 o collegato ai sensi del 371.2 lett b). Correlato è l’art.105.4 che prevede che l’autorità giudiziaria deve comunicare al Consiglio dell’ordine competente la violazione da parte del difensore del divieto ex 106.4 bis, affinché possano essere adottati i provvedimenti disciplinari. Obiettivo della previsione è di minimizzare il rischio che l’assistenza da parte di un medesimo difensore a favore di una pluralità di collaboratori di giustizia possa costituire situazione propizia a favorire ricostruzioni dei fatti in qualche modo 65 CAPITOLO 6: L’ATTO PROCESSUALE SEZ. 1: FISIOLOGIA 1.PROFILI GENERALI Agli “atti” è dedicato il libro II del codice di rito penale. Il codice non offre alcuna definizione del concetto di “atto processuale penale”, che va ricostruito a partire da nozioni più ampie di fatto e di atto giuridico. Se fatto giuridico è qualsiasi accadimento, naturale o umano, idoneo a produrre effetti giuridici, l’atto giuridico ne è una species perché si tratta di una condotta umana volontaria, suscettibile di determinare tali effetti. Nell’ambito di quest’ultima categoria si iscrivono gli atti processuali penali, identificabili in ragione di determinati fattori concorrenti: 1. sono suscettibili di produrre effetti giuridici di rilevanza processuale penale; 2. sono compiuti da soggetti del procedimento penale, sia pubblici che privati; 3. trovano luogo nel contesto del procedimento penale. Inoltre, è importante distinguere tra: 1) atto: ciò che è compiuto in seno al procedimento penale, da uno dei suoi soggetti e per le sue finalità; 2) documento: ciò che si è formato fuori dal procedimento ed indipendentemente da esso. La nozione di “atto” è strettamente connessa al concetto di “procedimento” perché non si può predicare la natura di un atto come atto processuale penale se non basandosi sulla definizione di procedimento penale e sulla determinazione dei suoi confini. Per procedimento si intende una sequenza ordinata di atti “legati tra loro da criteri di logica relazione, tali per cui ogni atto legittima il successivo ed è legittimato dal precedente, mentre l’intera serie è preordinata al conseguimento di un effetto finale che scaturisce dall’ultimo atto della sequenza”. Se questo è il genus “procedimento”, la species “procedimento penale” è connotata dal suo essere preordinata alla decisione giurisdizionale su una notizia di reato. Il procedimento inizia formalmente con l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro ex 335 cpp, e finisce nel momento in cui diviene irrevocabile la sentenza che lo definisce. Però, il momento iniziale del procedimento implica che si debbano escludere dalla nozione di atti processuali tutti quelli compiuti prima del sorgere della notizia di reato. Inoltre, gli atti contenenti l’informazione sulla commissione di un reato (denuncia o querela) sono anteriori alla nascita del procedimento e quindi non possono essere considerati atti. Talvolta un rito comincia prima dell’iscrizione della notizia di reato. Nel caso in cui la notizia di reato sia stata acquisita dalla polizia giudiziaria o dal PM, essa è soggetta al vaglio da parte di organi inquirenti. Quanto alla fine del rito, invece, si deve considerare che esso talvolta si conclude prima della pronuncia irrevocabile: - se si chiude con un’archiviazione, la sua fine coincide con il momento in cui diventa inoppugnabile l’atto archiviato; - se termina, prima del dibattimento, con una sentenza di non luogo a procedere, il procedimento finisce nel momento in cui essa diviene esecutiva, cioè non più impugnabile. Inoltre, viene individuata una specifica area del “processo”: infatti, con la formulazione dell’imputazione il procedimento diventa processo e l’indagato imputato. Dove il testo normativo faccia riferimento al “procedimento” indica l’insieme della sequenza procedimentale, dalla notizia di reato fino all’esito finale; invece, con il “processo” si riferisce al segmento del rito che va dall’azione penale in poi. 2.LA LINGUA DEGLI ATTI La lingua ufficiale del procedimento penale è quella italiana, perché in italiano sono compiuti i relativi atti (109.1). La regola risponde ad una esigenza di uniformità, efficienza e pubblicità del rito penale che impone che i protagonisti della vicenda processuale possano instaurare una dialettica tra di loro e che le dinamiche siano comprensibili alla collettività. Però, la legge si preoccupa di dare adeguata attuazione all’obbligo posto a carico del legislatore dalla Carta costituzionale di tutelare con apposite norme le minoranze linguistiche (6 Cost), che trova riscontro anche in altre carte fondamentali dei diritti. Di qui l’applicazione del 109.2 che, in deroga al comma precedente, ammette l’impiego nel processo di lingue diverse dall’italiano, quando ne faccia richiesta il cittadino italiano appartenente ad una minoranza linguistica 66 riconosciuta, che si trova davanti ad un giudice di merito competente sul territorio in cui questa è insediata, indipendentemente dal fatto che questi conosca la lingua italiana. La legge specifica le condizioni cui è subordinato l’uso di una lingua minoritaria nel processo: - è necessario che ci si trovi di fronte ad un’autorità giudiziaria di primo grado o di appello; - tale aut.giud. deve avere competenza sul territorio in cui è insediata una minoranza linguistica riconosciuta; - deve esserci un provvedimento legislativo che attribuisca alla minoranza tale riconoscimento; - il cittadino italiano che vuole avvalersi della lingua minoritaria deve appartenere a tale minoranza e farne richiesta. Al sussistere di queste condizioni il cittadino verrà interrogato (se indagato o imputato) od esaminato (se imputato, testimone, perito o consulente tecnico) nella sua lingua, e il verbale sarà redatto in doppia lingua. Una speciale tutela è predisposta per chi sia affetto da specifici deficit uditivi o della parola. Il 119 prevede che la comunicazione nel procedimento con chi sia sordo, muto o sordomuto, possa avvenire in tutto o in parte per iscritto. 2.1. Il diritto all’interpretazione e alla traduzione L’impiego della lingua italiana come strumento di comunicazione privilegiato comporta che la legge si faccia carico di tutelare chi non la comprende o non la parli, assicurando l’intermediazione linguistica. Per l’imputato, la norma cardine è il 143 che testualmente si riferisce all’imputato ma che va estesa a chi è sottoposto alle indagini (61). Quindi, l’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete con il fine di comprendere l’accusa che gli è stata mossa, seguire il compimento degli atti e lo svolgimento dell’udienza. Il 143.2 aggiunge che l’autorità procedente deve disporre la traduzione di una serie di atti, cruciali per l’esercizio delle facoltà difensive (es.: i provvedimenti che dispongono misure cautelari personali; l’avviso di conclusione delle indagini ecc.). La traduzione deve essere effettuata entro un termine congruo, tale da consentire l’esercizio di diritti e facoltà diversi. Il giudice, sia d’ufficio che su richiesta di parte, può disporre con provvedimento motivato la traduzione gratuita (in tutto o in parte) anche di altri atti ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico. Il 143 precisa come deve essere verificata la conoscenza della lingua italiana, disponendo che l’accertamento è compiuto dall’aut.giudiz. Ai fini del processo è sufficiente una competenza linguistica di medio livello. Se l’imputato è cittadino italiano, la conoscenza della lingua è presunta fino a prova contraria. Alla tutela di soggetti diversi dall’imputato provvede il 143bis. Il co1 prevede la nomina di un interprete da parte dell’autorità procedente quando occorra tradurre uno scritto in lingua straniera o quando una persona che vuole/deve fare una dichiarazione non conosca l’italiano. I commi successivi, invece, prevedono dettagliatamente la tutela linguistica assicurata in favore della vittima. Per l’offeso che non conosce la lingua italiana, poi, è previsto che l’autorità procedente nomini un interprete; inoltre, ha diritto alla traduzione gratuita, in tutto o in parte, degli atti contenenti informazioni utili all’esercizio dei suoi diritti. La tutela della vittima è garantita per tutta la sequenza processuale, anche in fase molto precoce. Gli esperti preposti alle attività di mediazione linguistica sono traduttori e interpreti (artt. 144ss). Il loro ufficio è obbligatorio (143.6) e vengono avvisati dell’obbligo di bene e fedelmente adempiere il proprio compito, mantenendo il segreto sugli atti del procedimento cui partecipano. Il codice elenca le cause di incapacità e incompatibilità dell’interprete disciplinandone i casi di ricusazione e di astensione (144-145). 3.FORMA DEGLI ATTI: ATTI DI PARTE ED ATTI DEL GIUDICE La disciplina codicistica non contempla un’articolazione generale di norme sulla forma degli atti, ma solo alcune previsioni specifiche, riferibili ad atti di parte ed atti del giudice. Quanto agli atti di parte, la disciplina è frammentaria costituita solo da alcune clausole generali. A tutela della regolarità degli atti è prevista la figura dei testimoni ad atti del procedimento: sono esclusi gli infraquattordicenni, chi sia palesemente infermo di mente, in stato di ubriachezza o di intossicazione da stupefacenti o chi sia sottoposto a misure di sicurezza detentive o di prevenzione (120). Il 121 prevede in ogni stato e grado del procedimento che le parti possano “accedere” al giudice che procede mediante deposito in cancelleria di: - richieste scritte: istanze volte ad ottenere un provvedimento o una decisione; - memorie scritte: scritti difensivi di carattere argomentativo, miranti a supportare le ragioni di parte, sia in fatto che in diritto. L’atto può essere presentato in altro modo, alternativo al deposito, ad esempio tramite fax. 67 Se le richieste sono ritualmente formulate, fanno sorgere in capo al giudice un obbligo di provvedere senza ritardo e, comunque, entro 15 gg. Tale termine è ordinatorio ma idoneo, se violato, a far sorge una responsabilità disciplinare in capo al giudice che non lo rispetti. Il 121 opera solo per il giudice, ma una norma affine, il 367 è prevista in sede di indagini preliminari: contempla la possibilità pe le parti di presentare memorie e richieste scritte al PM, per il quale, non è previsto alcun termine per darvi corso. Il 122 che precisa le forme che deve tenere la procura speciale nei casi in cui la legge consente che un determinato atto sia compiuto per mezzo di un rappresentante. Si prevede che la procura sia rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata a pena di inammissibilità, e che debba contenere la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti cui si riferisce. Per quanto riguarda gli atti del giudice, c’è meno frammentarietà. Ex 125 i provvedimenti del giudice possono assumere 3 forme: decreto, ordinanza e sentenza. Il codice aderisce al principio nominalistico per cui è la legge a stabilire quale delle tre fisionomie il provvedimento del giudice assume di volta in volta (125.1): si impedisce all’interprete l’attribuzione discrezionale del nomen iuris agli atti del giudice. 1. le sentenze costituiscono il maggior peso, costituendo provvedimenti decisori sulla regiudicanda, idonei a definire il processo o una fase/grado di esso. Come massima espressione del potere giurisdizionale e in ossequio al 101.1 Cost, le sentenze sono pronunciate in nome del popolo italiano (125.2). Sono motivate attraverso l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, esponendo gli argomenti che sorreggono il dispositivo. In ragione del tema decisorio si distinguono in sentenze: a. di merito: accertano il fondamento della pretesa punitiva e le questioni, suddividendosi in sentenze di condanna e di proscioglimento b. processuali: sono idonee a definire il giudizio ma solo in ragione di questioni processuali, quindi senza entrare nel merito dell’imputazione e della responsabilità dell’imputato. Un’ulteriore distinzione si ha tra sentenze: a. dichiarative: si limitano ad accertare l’esistenza di una data fattispecie di natura processuale (declaratoria di incompetenza del giudice); b. costitutive: producono esse stesse un effetto giuridico configurandosene come titolo costitutivo (sentenza che concede la riabilitazione). 2. le ordinanze, invece, sono provvedimenti che governano lo svolgimento del procedimento, innestandosi in un segmento di esso ma non sono idonee a definirlo o ad esaurirne una fase. Ci sono, però, delle rilevanti eccezioni perché alcune ordinanze assumono efficacia definitoria, come quella che chiude il procedimento di archiviazione (409) o quella che dichiara inammissibile l’impugnazione (591). Le ordinanze hanno in comune con le sentenze il fatto di dover essere sorrette da una motivazione. 3. i decreti sono la forma più semplice di provvedimento in quanto possono essere emessi anche dal PM. Pur recando un comando all’autorevole.giudiz. sono volti a dare disposizioni solo incidentali all’interno del rito e hanno natura prevalentemente ordinatoria (amministrativa). Non implicano lo svolgimento di un confronto dialettico preventivo, quindi è normale che non debbano essere necessariamente motivati, salvo che la motivazione sia espressamente prevista dalla legge (125.3). Quando un provvedimento deve essere motivato l’assenza di essa ne comporta la nullità (125.3). Secondo l’opinione maggioritaria il 125.3 dovrebbe essere ricondotto ai casi di mancanza grafica della motivazione, ad esempio ipotesi di illeggibilità della motivazione manoscritta. Non si possono invece ricondurre a questa ipotesi i deficit logici dell’apparato giustificativo del provvedimento perché costituiscono una patologia con autonomo riconoscimento normativo ex 606.1. La motivazione per relationem (: che riproduce il contenuto di un altro atto o ne fa rinvio) è considerata una tecnica di redazione della motivazione ammissibile, ma con alcune cautele tra cui il fatto che l’atto cui si fa rinvio deve essere trascritto o allegato nel provvedimento da motivare oppure deve almeno essere conosciuto o conoscibile da parte dell’interessato alla decisione, ecc. 4.IL PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO La disciplina del procedimento in camera di consiglio non allude al luogo di svolgimento del rito ma alla modalità di esercizio dell’attività giurisdizionale, funzionale all’adozione di determinati provvedimenti, di cui alcuni adottati incidentalmente (innestati come parentesi nel procedimento principale) ed altri idonei persino a definirlo in via tendenzialmente definitiva. L’articolazione del procedimento in camera di consiglio è prevista all’art. 127 come un modello-base sul quale gli altri istituti possono far riferimento: in tal modo si realizzano una ragionevole economia normativa ed un’efficace semplificazione interpretativa, nonché una certa omogeneità tra i vari schemi operativi. Il richiamo alla norma generale può essere effettuato sia in modo esplicito, sia in maniera implicita. Il modello è riferibile sia a procedimenti che si snodano dinanzi ad un organo monocratico, sia di fronte ad un organo collegiale, considerando che il 127.1 fa riferimento al “giudice” o al “presidente del collegio”. Lo schema di riferimento ex 127 è suscettibile di differenti 70 parte essenziale delle dichiarazioni. I verbali sono nulli nei casi ex 142: quando vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o manca la sottoscrizione del PM redigente. Eccezione rilevante è fornita dal 141bis che impone la documentazione integrale, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva, dell’interrogatorio di persona che si trovi in stato di detenzione, in caso di inosservanza la sanzione concerne l’inutilizzabilità che preclude ogni impiego probatorio delle dichiarazioni. L’obiettivo del legislatore è quello di innalzare il livello di tutela in favore di chi si trovi in condizioni di minorata difesa per il suo essere in vinculis. Gli artt. 373 e 357 sono dedicati alla documentazione degli atti di indagine, rispettivamente, del PM e della polizia giudiziaria. Per questi atti è prevista una forma di documentazione estremamente sintetica (per alleggerire gli incombenti formali e speditezza delle indagini) ma si impone comunque la redazione di un verbale per l’assunzione delle dichiarazioni e per gli atti irripetibili. Ex 373 gli atti compiuti nel corso delle indagini del PM devono essere documentati mediante verbale, quando si tratta di: denunce, querele o istanze presentate oralmente; interrogatori e confronti con l’indagato; ispezioni, perquisizioni e sequestri, sommarie informazioni; interrogatorio di imputato in procedimento connesso; accertamenti tecnici irripetibili. Se si tratta di attività diverse da queste è consentita la documentazione mediante verbale redatto solo in forma riassuntiva. Quando gli atti hanno contenuto semplice o limitata rilevanza, lo standard di completezza ed affidabilità della documentazione (verbale) si abbassa ulteriormente, essendo consentita la mera annotazione: è sufficiente dare atto di data, luogo e ora di compimento dell’atto, dell’indicazione di chi lo ha compiuto e della enunciazione succinta del suo risultato. Quest’ultima forma di documentazione è prevista anche per gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria che, ex 357.1, deve solo annotare le attività svolte. Anche per la polizia, però, è imposta la redazione di un verbale con riferimento a denunce, querele o istanze orali; sommarie informazioni o dichiarazioni spontanee dell’indagato; sommarie informazioni da altre persone; perquisizioni e sequestri; attività di identificazione personale, acquisizione di plichi o corrispondenza e accertamenti urgenti; altri atti che descrivano fatti o situazioni, eventualmente compiuti prima che il p.m. abbia impartito direttive(357.2). Tutta la documentazione è messa a disposizione del PM che la allega al proprio fascicolo (art.357.3 e 373.5). Alle modalità di documentazione degli atti di indagine difensiva provvede il 391ter dedicato alle dichiarazioni raccolte dal difensore e distingue tra quelle: - ricevute, che essendo preconfezionate al momento in cui il difensore le riceve, sono contenute in un atto apposito – con sottoscrizione autenticata – a cui il difensore allega una relazione; - assunte, ove la confezione della documentazione avviene direttamente ad opera del difensore o di un suo sostituto. In ordine ad atti diversi dalle dichiarazioni è previsto l’obbligo di verbalizzazione. Anche in relazione al verbale dibattimentale sono previste delle specifiche previsioni per assicurare completezza e affidabilità della documentazione. Gli artt. 480-483 affidano all’ausiliario il compito di redigere il verbale descrivendo le attività svolte in udienza, riportando richieste e conclusioni del PM e delle parti e riproducendo i provvedimenti orali del giudice (481). Sono assicurati anche specifici diritti delle parti sulla documentazione dell’udienza, sia di controllo, per verificare la fedeltà e la completezza, sia di intervento diretto (482). Una specifica previsione assicura completezza della documentazione dell’assunzione dei mezzi di prova di natura dichiarativa, imponendo di riprodurre integralmente sia le domande poste dalle parti sia le risposte date degli esaminati. Poi, il verbale di udienza viene inserito nel fascicolo di dibattimento (480). 7.LA CONOSCENZA DEGLI ATTI PER I SOGGETTI DEL RITO: IL SISTEMA DELLE NOTIFICAZIONI Nel procedimento penale è predisposto un metodo affinché le parti, i soggetti o le persone coinvolte nel rito possano conoscere gli atti compiuti da altri. Le notificazioni sono preposte a ciò: forme di comunicazione ufficiale degli atti funzionali ad assicurare che i destinatari ne abbiamo davvero conoscenza o che questa possa essere ragionevolmente presunta (conoscenza legale). Il complesso sistema delle notificazioni è frutto di un bilanciamento tra interessi contrapposti (conoscenza effettiva degli atti e sei degne di economia processuale), ed è affidato agli artt. 148-171. Organi e forme delle notificazioni sono disciplinate dal 148 che, di regola, affida le notificazioni all’Ufficiale Giudiziario. Se il destinatario è detenuto, in caso di urgenza, la notifica viene effettuata dalla polizia penitenziaria del luogo di detenzione. 71 Mentre, per gli atti del PM durante le indagini, le relative notificazioni vanno eseguite di regola dall’ufficiale giudiziario, con rimando alla polizia giudiziaria solo per le notizia di atti di indagine o di atti che la polizia è delegata/tenuta a compiere o eseguire. L’atto per intero è l’oggetto della notificazione, salvo che la legge non disponga diversamente. È il caso della notifica per estratto (171.1 lett.a)): comunicazione che riguarda solo il contenuto essenziale dell’atto medesimo. La forma tipica di notificazione è la consegna di copia al destinatario o, in mancanza, a persone legittimate dalla legge a riceverla (indicate nel 171, che ricevono la notificazione in busta sigillata a tutela della riservatezza). Della consegna è redatto un verbale (cd relazione, o relata, di notificazione) sull’originale e sulla copia notificata. Gli artt. 149 e 150 prevedono, però, delle forme di notificazione differenti per quanto riguarda gli atti del giudice. In casi di urgenza, il giudice può disporre, d’ufficio o su richiesta delle parti, che le persone diverse dall’imputato siano avvisate o convocate, dalla cancelleria, a mezzo di telefono. La comunicazione telefonica, effettuata al numero corrispondente alla casa di abitazione, al luogo di lavoro abituale o alla dimora o al recapito temporanei, ha effetto solo se ricevuta personalmente dal destinatario oppure da persona con lui convivente (di essa va data conferma per telegramma). In circostanze particolari, il giudice può prescrivere che la notificazione a persona diversa dall’imputato si esegua mediante l’impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell’atto, una clausola volutamente aperta, a garanzia dell’adeguamento all’evoluzione tecnologica (150). Inoltre, per inviare un avviso o notificare un atto ai difensori, l’autorità giudiziaria può disporre l’impiego di “mezzi tecnici idonei”, anche questa è una clausola aperta. Infine, le notificazioni richieste dalle parti private possono essere validamente sostituite con l’invio di una copia dell’atto del difensore mediante raccomandata con avviso di ricevimento (152). In generale, comunque, le notifiche si possono effettuare a mezzo posta (170). Parte significativa della disciplina delle notificazioni è dedicata alle diverse articolazioni del procedimento di notifica in relazione al tipo di destinatario, tra cui spicca la figura dell’imputato, intorno al quale circolano numerose garanzie che tendono ad assicurare l’effettiva conoscenza degli atti processuali in capo all’accusato, in linea con il principio di difesa. Norma chiave è l’art. 157 relativo alla prima notificazione all’imputato non detenuto. Questa va eseguita mediante consegna di copia alla persona (c.d. Consegna “a mani proprie”) o presso l’abitazione o il luogo in cui l’imputato lavora abitualmente o nel luogo in cui ha temporanea dimora, mediante consegna a persona con lui convivente o al portiere. In tali casi chi riceve la copia sottoscrive l’originale dell’atto che gli è stato notificato e l’ufficiale giudiziario ne dà comunicazione al destinatario con raccomandata con avviso di ricevimento. A tutela dell’effettività della notifica effettuata a un terzo sono previste delle guarentigie: non può avvenire la consegna ad un minore di 14 anni o in mano a chi è in stato di incapacità di intendere e di volere. Se le persone indicate mancano o non sono idonee o si rifiutano di ricevere l’atto, è previsto un “secondo accesso”, con conseguente obbligo di cercare nuovamente l’imputato. Solo quando, dopo questi tentativi, si rileva l’impossibilità di procedere alla notificazione, allora si pone in essere la procedura che prevede il deposito dell’atto presso la casa comunale del luogo in cui l’imputato ha dimora o lavoro, l’affissione dell’avviso del deposito sulla porta di casa/luogo di lavoro, e che l’ufficiale giudiziario mandi avviso del deposito per raccomandata con avviso di ricevimento (157 co 7 e 8). Per le notificazioni successive alla prima si provvede mediante consegna al difensore di fiducia. Ci sono situazioni particolari: se l’imputato è detenuto, le notificazioni sono effettuate presso il luogo di detenzione tramite consegna di copia alla persona (156); per i militari in servizio attivo, le notificazioni avvengono tramite consegna personale nel luogo in cui risiede per ragioni di servizio (158); per il latitante o evaso, mediante consegna al difensore che lo rappresenta; per l’interdetto presso il tutore, per l’incapace presso il curatore speciale. Per semplificare la notifica ed il reperimento dell’imputato si chiede la sua collaborazione. Perciò, nel primo atto compiuto con l’intervento dell’indagato o dell’imputato libero l’autorità procedente lo invita a dichiarare o eleggere il suo domicilio, avvisandolo dell’obbligo di comunicare gli eventuali mutamenti (161). Se tale indicazione manca, è insufficiente o inidonea le notificazioni vengono effettuate tramite consegna al difensore. Il legislatore si preoccupa anche di garantire la controllabilità a posteriori del rispetto del procedimento di notificazione, contemplando una specifica forma di documentazione: la relazione di notificazione nella quale l’ufficiale giudiziario elenca dettagliatamente le attività svolte e la sottoscrive 72 (168). Il 171 enuncia i casi nei quali può ravvisarsi la nullità della notificazione di un atto (situazione distinta dalla nullità dell’atto singolarmente considerato), ai quali devono aggiungersi i casi di inosservanza che possono essere ricondotti nel 178. La notifica è nulla es. se l’atto è notificato in modo incompleto, o quando vi è incertezza assoluta sul richiedente o sul destinatario, oppure quando manca la sottoscrizione di chi riceve l’atto. 7.1. La dichiarazione di irreperibilità È dichiarato irreperibile l’imputato al quale non è possibile notificare un atto nei modi previsti dal 157. Il decreto di irreperibilità consente di effettuare validamente le notificazioni mediante consegna di copia al difensore dell’imputato: l’irreperibile è rappresentato dal difensore (159). Questo istituto vuole andare a semplificare tutti gli adempimenti necessari per mettere a conoscenza degli atti del rito l’imputato, privilegiando la conoscenza legale a scapito di quella processuale. Si fonda sulla presunzione per cui il difensore sia in grado di tenersi in contatto con l’irreperibile e quindi la consegna in capo al difensore è sufficiente ad ipotizzare la conoscenza dell’atto in capo all’imputato. Tale procedura è da considerarsi eccezionale, quindi non applicabile a casi che godono di una disciplina speciale. Verificato che la notificazione ex 157 non può essere effettuata, l’autorità giudiziaria procedente dispone nuove ricerche dell’imputato (soprattutto in: luogo di nascita, ultima residenza, ultima dimora, luogo abituale di lavoro ecc, MA non soltanto —> questi luoghi non sono alternativi tra di loro, quindi la ricerca va effettuata in ognuno di essi); se questa ricerca dà esito negativo allora l’autorità giudiziaria emette il decreto di irreperibilità. Se il decreto è pronunciato dal giudice o dal PM delle indagini preliminari, perde efficacia con il provvedimento definitorio dell’udienza preliminare o, se manca, con la chiusura delle indagini. Ogni decreto di irreperibilità deve essere preceduto da nuove ricerche nei luoghi indicati ex 159. 8.LA DIVULGABILITÀ DEGLI ATTI: SEGRETO INVESTIGATIVO E DIVIETI DI PUBBLICAZIONE Gli artt. 114ss sono dedicati alle dinamiche della circolazione degli atti del procedimento al di fuori del rito, alle informazioni che da essi si possono ottenere, alla loro divulgabilità ed ai limiti entro i quali possono essere diffusi al pubblico il testo o i contenuti. Gli interessi in gioco sono molteplici e confliggenti quindi il relativo bilanciamento è delicato ed è effettuato dal legislatore. È necessario che l’attività investigativa non avvenga, almeno nella prima fase, alla luce del sole e che i relativi risultati non siano oggetto di immediata comunicazione all’indagato né di pubblico dominio, poiché altrimenti si esporrebbero fonti, risultati, strategie di inchiesta, aspetti della vita privata ecc. Se così fosse, l’efficacia delle indagini ne sarebbe compromessa e si rischierebbero effetti pregiudizievoli. Però, l’attività di accertamento investigativo prima e processuale poi, non potrebbe svolgersi del tutto nell’ombra, pena la compromissione di di principi fondamentali del sistema, ad esempio: 1) il diritto di difesa esige che, da un certo momento in poi, l’indagato sia consapevole del procedimento a suo carico e del compimento di singoli atti, avendo bisogno del tempo e delle condizioni indispensabili per approntare un’efficace strategia difensiva (24 e 111.3 Cost); 2) il principio di obbligatorietà dell’azione penale implica che vi sia un controllo – anche pubblico – sulle modalità di esercizio delle scelte affidate al pm quanto alla decisione di agire o meno (112 Cost) ecc. Si distingue tra: - segreto “interno”: si riferisce alla non conoscibilità degli atti del procedimento da parte dei soggetti; - segreto “esterno: si riferisce alla non conoscibilità degli atti del rito da parte di chi ad esso non partecipi, quindi alla generalità degli individui. L’esistenza del primo tipo di segreto implica la sussistenza anche del secondo, mentre il secondo può essere mantenuto anche una volta superato il primo. A tal proposito rileva anche la differenza tra: - pubblicazione dell’atto: comporta la divulgazione della sua forma testuale; - pubblicazione del contenuto dell’atto: è riferita alla diffusione delle informazioni ivi contenute, senza che ne sia riprodotto materialmente il tenore letterale. Sono coperti dal segreto di indagine (non rivelabili e non pubblicabili) tutti gli atti di indagine compiuti dal PM e dalla polizia giudiz., nonché le richieste del PM di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste (329.1). La durata del segreto cessa quando l’imputato ha conoscenza degli atti e non oltre la chiusura delle indagini preliminari (329.1). La ratio di questa clausola è solo quella di impedire 75 riscontrato sia riconducibile alle fattispecie ex 178. Le nullità generali si contrappongono alle nullità speciali, espressamente contemplate dalla legge (es: nullità conseguente al mancato avviso ai prossimi congiunti dell’imputato circa la facoltà di astenersi dal testimoniare ex 199.2). Si distingue quindi in base alla modalità di previsione tra: a. nullità generali: riconducibili alle categorie di vizi ex 178, anche quando il cpp non prevede espressamente la sanzione della nullità, se una violazione di legge è riconducibile a una di quella categoria, allora è nullo; b. nullità speciali: sono quelle espressamente previste dal legislatore nelle disposizioni. 3.REGIME DI TRATTAMENTO Il raffronto con le fattispecie del 178 è un passaggio obbligato anche per individuare il regime di trattamento delle nullità. Le nullità generali possono essere assolute (179) (insanabili + rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento) o intermedie (180) (sanabili se non rilevate nei termini previsti e soggette al regime di sanatoria generale (183 cpp) + rilevabili anche d’ufficio). Per esclusione, quindi, le fattispecie di nullità che esulano dalle macro-categorie di cui all’art.178 sono: speciali assolute (179.2) o relative (181). 3.1. Le nullità assolute Le nullità assolute hanno 2 caratteristiche essenziali. Da un lato l’insanabilità: tale condizione si protrae fino alla sentenza irrevocabile: le nullità assolute restano quindi soggette alla forza sanante del giudicato. Solo in un caso la sanatoria opera prima del momento preclusivo, per effetto di un giudicato “implicito”: nel giudizio di rinvio non sono rilevabili le nullità assolute verificatesi anteriormente (627.4). Dall’altro la rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (declaratoria ex officio): è un atto dovuto (ferma restando la possibilità in capo alle parti di dedurre autonomamente il vizio) per prevenire negligenze del giudice o porvi rimedio. La possibilità di dichiarare la nullità durante tutto l’arco del procedimento, implica che le nullità assolute sopravvivano al passaggio del procedimento da uno stato all’altro, da un grado all’altro, a prescindere dall’inerzia del giudice/parti. Per quanto concerne la tipologia delle nullità assolute, queste riguardano, ex art. 179: a. Le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessari per costituire i collegi previsto dall’ordinamento giudiziario. Quanto alle condizioni di capacità del giudice(art. 178.1 lett. a): l’atto compiuto dal giudice incapace è nullo. La categoria della capacità del giudice, quindi lo spazio operativo della nullità assoluta, risulta molto limitata dal 33.2: non attengono alle capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle sezioni, e quelle sulla formazione dei collegi e sull’assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici; l’obiettivo è sottrarre il profilo della validità del processo a questioni di ordinamento giudiziario e di organizzazione degli uffici, evitando tutte le possibili interferenze tra procedure amministrative, eventuale contenzioso, e questioni di nullità. Questa soluzione appare però costituzionalmente sospetta sotto il profilo della naturalità e della pre-costituzione del giudice (25.1 Cost), perché lascia sguarniti vari settori (assegnazione del giudice ai singoli processi, supplenze e applicazioni degli organi giurisdizionali) che rischierebbero di subire delle strumentalizzazioni. La Corte costituzionale ha ritenuto infondata, alla luce del 25 Cost, la questione di legittimità ex 33.2 nella parte in cui non contempla, tra le condizioni di capacità del giudice, le norme che regolano l’assegnazione dei processi ai singoli giudici. Dall’area della capacità del giudice esulano le cause di incompatibilità, che dovrebbero rilevare solo come motivi di astensione o ricusazione. Quanto al numero dei giudici necessari per costituire i collegi previsto dall’ordinamento giudiziario, le violazioni valgono sia in difetto che in eccesso. Ai fini della nullità pesa sia l’assenza fisica di un componente del collegio ma anche la mancata integrazione del numero minimo dei giudici a causa di mancanza di requisiti per la partecipazione al collegio. b. Nella categoria delle nullità assolute rientrano anche le violazioni delle disposizioni che riguardano le iniziative del PM nell’esercizio dell’azione penale (178.1 lett b prima parte): l’atto di proponimento dell’azione penale manca o è invalido. L’eventualità che il processo nasca d’ufficio è poco probabile 76 nell’attuale sistema, imperniato sulla netta separazione delle funzioni tra PM e giudice e sulla previsione delle modalità di esercizio dell’azione penale attraverso atti tipici (60). In ogni caso, le situazioni maggiormente coinvolte nel sistema delle nullità assolute riguardano le modifiche all’imputazione per reato concorrente o fatto nuovo (in udienza preliminare o nell’istruzione dibattimentale) non precedute da una formale contestazione da parte del PM. Ricadono anche le violazioni delle disposizioni in materia di capacità e di legittimazione del PM, purché esse si ripercuotano sull’esercizio dell’azione penale: ipotesi in cui l’azione penale viene promossa davanti ad un giudice diverso da quello in cui è istituito l’ufficio del PM. Cosa accade quando l’azione penale viene irritualmente promossa? Il problema sorge in riferimento ai procedimenti speciali instaurati in assenza dei presupposti stabiliti dalla legge. È il caso della richiesta di giudizio immediato presentata dal PM a prescindere dal requisito dell’evidenza probatoria o del giudizio direttissimo avviato al di fuori dei casi tassativamente previsti dal 449. Due sono le soluzioni possibili: 1. optare per la nullità assoluta, ravvisando nell’inadempimento una situazione idonea a pregiudicare l’iniziativa del PM nell’esercizio dell’azione penale; 2. individuare una nullità a regime intermedio per lesione del diritto di difesa. c) L’estensione del regime delle nullità assolute anche in capo all’imputato ed al difensore mira a rendere effettiva la garanzia del contraddittorio. Risulta, anzitutto, presidiata dalla nullità assoluta l’omessa citazione dell’imputato: la citazione si riferisce al dibattimento di I grado e di II grado ed al giudizio immediato. Le SSUU hanno esteso il presidio della nullità assoluta anche gli avvisi per l’udienza preliminare. Inoltre, l’omissione della notificazione di citazione, è presidiata dal regime delle nullità assolute come garanzia del principio del contraddittorio, ogni qual volta in cui l’inadempimento impedisca all’imputato di conoscere il contenuto dell’atto e di preparare la propria difesa; tutti gli altri vizi della notificazione (ad esempio gli errori di notifica) restano assoggettati al regime delle nullità intermedie. È esteso il regime delle nullità assolute anche al difensore dell’imputato in caso di assenza, quando la sua presenza sia prevista come necessaria ex lege: si mira ad assicurare un livello di tutela adeguato all’importanza della difesa tecnica negli snodi procedimentali. Il difensore è un interlocutore indefettibile nei seguenti contesti: sommarie informazioni di polizia giudiziaria assunte dalla persona sottoposta ad indagine in stato di libertà (350.1); udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo (391.1); interrogatorio di garanzia (294.4); incidente probatorio (401.1); udienza preliminare (420.1); udienza del giudizio abbreviato; udienza ai fini del proscioglimento prima del dibattimento (469), udienza in camera di consiglio in appello a seguito della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (599.3); udienza nel procedimento di esecuzione (666.4), udienza dinnanzi alla Corte d’appello nel procedimento di estradizione passiva (704.2), ecc. La nullità assoluta presidia anche la qualità e l’effettività della difesa tecnica. Quindi al difensore assente andrebbe equiparato il difensore fisicamente presente ma privo dei requisiti necessari (soggetto non abilitato all’esercizio della professione perché non iscritto all’albo o radiato). La nullità assoluta colpisce anche gli atti compiuti dal difensore che versi in una situazione di incompatibilità. Le regole dell’insanabilità e della rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento si estendono anche alle nullità assolute da specifiche disposizioni (179.2). Nel codice si rinviene quella a tutela del principio di immediatezza del giudizio, nel caso in cui la sentenza non sia adottata dagli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento (525.2). Nullità assolute speciali sono presenti al di fuori del codice: es a proposito delle violazioni delle norme che impongono, nei procedimenti giudiziari, l’uso della lingua tedesca e della lingua ladina nella regione del Trentino-Alto Adige. 3.2. Nullità a regime intermedio Sono una categoria residuale: le nullità generali diverse da quelle individuate come assolute sottostanno ad un regime di trattamento peculiare ex art. 180. Possono essere rilevate anche d’ufficio dal giudice (come le nullità assolute) e sono sanabili prima del giudicato (come le nullità relative): per questo vengono definite nullità a regime intermedio. Il vero tratto distintivo delle nullità intermedie consiste nello sbarramento temporale entro il quale sono deducibili dalle parti o rilevabili ex officio dal giudice. A) Se il vizio dell’atto si realizza prima del giudizio, le nullità in discorso non possono essere dedotte o rilevate dopo la 77 deliberazione della sentenza di I grado. La parte deve dedurle prima della chiusura del dibattimento o della discussione (se si procede in camera di consiglio), mentre il giudice è tenuto a rilevarle nel momento delle deliberazioni: il giudice, in camera di consiglio, potrebbe ancora rilevare una nullità intermedia che le parti, invece, non avrebbero più la possibilità di dedurre. Si tratta di nullità verificatesi nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare. Risulta compresa anche la nullità del decreto di citazione a giudizio per omesso avviso di conclusione delle indagini. Il riferimento alla deliberazione della sentenza dovrebbe consentire di includervi anche le nullità verificatesi nel giudizio abbreviato o in sede di applicazione della pena su richiesta delle parti. B) Se il vizio dell’atto si verifica nel giudizio, la preclusione scatta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Il riferimento al giudizio orienta a ricomprendervi sia gli atti preliminari al dibattimento, sia gli atti introduttivi del dibattimento. Nella tempistica della deduzione delle nullità intermedie assume rilievo la circostanza che la parte abbia assistito al compimento dell’atto. In tal caso, infatti, vale la regola del 182.2: la nullità va dedotta prima del compimento dell’atto o, se non è possibile, immediatamente dopo. La parte decade dal potere di dedurre il vizio laddove vi abbia dato causa o abbia concorso a darvi causa (182.1), ciò vale anche per le nullità relative. L’inerzia della parte o del giudice oltre i confini temporali predeterminati dal legislatore produce la sanatoria della nullità intermedia. La parte che non si attiva tempestivamente non potrà più dedurre la nullità ma ciò non condiziona il potere/dovere del giudice di dichiararla ex officio: il giudice resta libero di attivarsi nei termini stabiliti ex 180.1. Con riferimento alla nullità intermedia resta aperta la questione della cd perpetuatio nullitatis: la nullità, tempestivamente dedotta dalla parte, ma non dichiarata dal giudice nel termini ex 180, è automaticamente devoluta al giudice dell’impugnazione? La risposta positiva poggia sull’assioma secondo cui il legislatore non ha esteso alle nullità intermedie la regola ex 181.4 che vincola le parti ad eccepire le nullità relative insorte nel giudizio con l’impugnazione della sentenza che chiude la fase. Quanto alla tipologia delle nullità intermedie, queste riguardano: a. la partecipazione del PM al procedimento (178.1 lett b seconda parte), cioè agli atti mediante i quali si realizza il contributo dialettico del rappresentante dell’accusa: pareri, richieste e conclusioni. Non integra invece una nullità intermedia il caso del PM che, pur avendo la possibilità di concludere, decide di tacere: opera un canone di autoresponsabilità. È evidente il diverso livello di tutela previsto in capo al PM e all’imputato circa la loro partecipazione al procedimento. L’assenza del PM, nei casi in cui la presenza è indefettibile dà luogo ad una nullità intermedia; lo stesso vizio riferito al difensore determina, invece, una nullità assoluta. Questa distinzione mira a salvaguardare il diritto di difesa dell’imputato (24.2 Cost), parte debole del processo, ma sembra trascurare il valore della par condicio di cui al 111.2 Cost. b. Attività delle parti private: intervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato e della persona sottoposta alle indagini (178.1 lett c). La formula “intervento dell’imputato” allude alle situazioni in cui si realizza il diritto di autodifesa: partecipazione personale al procedimento mediante la presenza fisica, ma anche esercizio di diritti, poteri e facoltà. Tipiche manifestazioni di autodifesa sono il diritto al silenzio e le dichiarazioni spontanee, rileva poi la gestione dei poteri dispositivi attraverso il consenso: scelta di riti speciali, manifestazioni di volontà per l’assunzione concordata al fascicolo per il dibattimento di atti di indagine, accordi in materia di letture dibattimentali. La partecipazione dell’imputato al compimento degli atti deve essere effettiva e cosciente. Rientrano quindi tra le nullità intermedie le violazioni in materia di accertamenti sulla capacità dell’imputato (70 ss). L’effettiva partecipazione dell’imputato si sostanzia anche nel diritto all’interprete. L’ l’assistenza dell’imputato denota il complesso di attività nelle quali si realizza la difesa tecnica: il concetto di assistenza evoca una partecipazione “passiva” dell’imputato. La mancata assistenza del difensore genera una nullità intermedia in tutti i casi in cui la presenza sia facoltativa. Occorre però distinguere: o in alcuni casi il difensore ha il diritto di essere avvisato del giorno e dell’ora e del luogo in cui si procederà al compimento dell’atto (es, accertamenti tecnici non ripetibili compiuti dal PM ex 360: il mancato avviso alla persona sottoposta alle indagini determina una nullità intermedia; interrogatorio dell’indagato senza previo avviso al suo difensore come imposto dal 364.3) o in altri casi il difensore non ha diritto ad essere avvisato, pur potendo assistere all’atto (atti a sorpresa: ispezioni, perquisizioni e sequestri); per quanto concerne la rappresentanza dell’imputato, rilevano gli atti collegati al 80 tacitamente, gli effetti dell’atto viziato. Ratio: è antieconomico invalidare l’atto imperfetto se colui che può ricavarne un beneficio non mostra interesse in tal senso. Nella prassi non è facile individuare le ipotesi di acquiescenza tacita, fermo restando che si deve trattare di “fatti concludenti”, cioè oggettivamente incompatibili con l’intenzione di eccepire o dedurre la nullità. Una peculiare figura di sanatoria è prevista in materia di giudizio abbreviato. L’art. 438.6 bis fa discendere dalla richiesta di giudizio abbreviato presentata nell’udienza preliminare la sanatoria delle nullità non assolute. Analoghi effetti scaturiscono dalla richiesta di giudizio abbreviato a seguito di conversione del giudizio direttissimo, del giudizio immediato, e dall’istanza di giudizio abbreviato formulata con l’opposizione al decreto penale di condanna. B) il conseguimento dello scopo (183 lett b), che si realizza con la scelta della parte di avvalersi della facoltà al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato. La sanatoria per il conseguimento dello scopo sottende un pragmatismo che punta al profitto processuale. È inutile invalidare l’atto imperfetto se esso ha comunque raggiunto l’obiettivo prefissato dalla legge. Lo scopo dell’atto è porre la parte nelle condizioni di avvalersi di una determinata facoltà; sicché l’effetto sanante si realizza solo se la stessa viene effettivamente esercitata (es. la nullità derivante dalla mancata notifica dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado è sanata se il difensore impugna tale decisione). Diversamente, l’effetto sanante non si realizza, anche se l’atto raggiunge il suo scopo. La categoria della sanatoria generale risulta peraltro integrata dal fattore tempo, cioè dalla mancata deduzione o rilevazione del vizio entro i termini previsti dalla legge, secondo le scansioni cronologiche già previste per le nullità intermedie e relative. Le sanatorie speciali riguardano gli atti volti ad assicurare la presenza di un soggetto dinnanzi al giudice (citazioni, avvisi, notificazioni e comunicazioni). Il codice ne prevede due: la comparizione e la rinuncia a comparire. Sono peculiari figure di sanatoria per il raggiungimento dello scopo: è evidente che la parte, comparendo o rinunciando a comparire, si avvale della “facoltà” al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato. Le sanatorie speciali si applicano al PM, alle parti private, ai difensori e alla persona offesa e coinvolgono solo le nullità originarie: non si estendono alle nullità derivate (quelle che dipendono da un precedente atto invalido). La parte interessata deve comparire personalmente (sicché la comparizione del difensore non sana la nullità attinente all’imputato) e spontaneamente. L’accompagnamento coattivo dell’imputato ex 132 non vale a sanare l’atto imperfetto. Dovrebbe produrre effetto sanante la traduzione dell’imputato detenuto perché questo può rifiutare di presentarsi davanti al giudice. Controversa è l’applicabilità delle sanatorie speciali alla nullità derivante dall’omessa citazione dell’imputato (art. 179). La soluzione negativa si regge sul carattere insanabile delle nullità assolute. Quella positiva sul silenzio della legge e sulla mancanza di una clausola di salvezza volta a limitare l’operatività della sanatoria in questione (a differenza di quanto previsto dal 183.1). Un ampliamento del raggio d’azione delle sanatorie speciali potrebbe trovare conforto nel principio della durata ragionevole del processo che rafforza il principio di conservazione degli atti imperfetti, nel segno dell’efficienza e della semplificazione. Discorso a parte riguarda l’ipotesi in cui la vocatio in iudicium dell’imputato risulti non omessa bensì invalida: verificandosi una nullità intermedia, la comparizione dell’imputato andrebbe considerata alla stregua di una sanatoria per conseguimento dello scopo dell’atto. Per la rinuncia a comparire si ritiene che questa si realizzi o con una dichiarazione o con comportamenti univoci. Se l’interessato rinuncia a comparire e il suo difensore eccepisce la nullità, si deve ritenere come prevalente la volontà dell’interessato di rimuovere il vizio dell’atto. Se la parte compare e dichiara che la sua presenza è volta solo a sanare il vizio ha diritto ad un termine a difesa non inferiore a 5 gg. I giorni diventano 20 se si tratta di citazione per il dibattimento dinanzi al Tribunale o alla Corte d’assise. La mancata concessione del termine a difesa o l’assegnazione di un tempo insufficiente producono un’altra nullità, di tipo intermedio, ex 178.1 lett c e 180. 6.EFFETTI DELLA DECLARATORIA DI NULLITÀ Se non sussistono limiti alla deduzione o cause di sanatoria, il giudice è obbligato a dichiarare la nullità (185.1). Il provvedimento del giudice ha la forma di ordinanza o sentenza, ha efficacia costitutiva e determina la caducazione ex tunc degli effetti dell’atto viziato. La dichiarazione di nullità può produrre 3 81 effetti: a. la diffusione del vizio (cd nullità derivata) coinvolge solo gli atti consecutivi (cioè successivi a quello dichiarato nullo) che dipendono dall’atto imperfetto. I due parametri devono coesistere. Il riferimento agli atti consecutivi impedisce di estendere gli effetti della dichiarazione di nullità ad atti coevi o anteriori a quello viziato. La citazione a giudizio può essere considerata come un esempio di fattispecie a formazione progressiva. In questa prospettiva la nullità della notificazione del decreto di citazione a giudizio non produrrebbe anche la nullità di quest’ultimo. Il decreto di citazione risulterebbe solo temporaneamente idoneo a raggiungere il suo scopo: situazione rimediabile attraverso la rinnovazione della notificazione. Il criterio della dipendenza valorizza il rapporto logico-funzionale tra due atti: l’atto nullo deve integrare la condizione necessaria dell’atto successivo. Es: la nullità della citazione a giudizio e gli effetti sugli atti del dibattimento. Irrilevanti sono i vincoli meramente cronologici e occasionali tra gli atti, es. nullità dell’udienza di convalida dell’arresto o del fermo non contamina la misura cautelare eventualmente adottata in tale contesto. Nella prassi, il fenomeno della nullità derivata coinvolge di solito gli atti propulsivi, che integrano il presupposto necessario per il compimento di ulteriori atti del procedimento (imputazione, decreto di citazione a giudizio, sentenza) Delicato è il rapporto tra la prova viziata e la decisione: la nullità della prova travolge il provvedimento decisorio ogni qual volta in cui quest’ultimo risulti fondato esclusivamente sull’atto probatorio imperfetto. b. la rinnovazione dell’atto nullo mira a ripristinare la corretta struttura formale dell’atto imperfetto. Questa procedura coinvolge l’intero atto, anche se la nullità è solo parziale. L’attività di ripristino dell’atto viziato è condizionata da due fattori: deve essere necessaria e possibile. La rinnovazione è sempre necessaria per gli atti propulsivi; la rinnovazione di una prova viziata resta subordinata alla circostanza che la stessa sia ripetibile, rilevante ed utile in chiave decisoria. Le spese per la rinnovazione dell’atto nullo sono a carico di chi ha cagionato il vizio per dolo o colpa grave. c. la regressione del procedimento alla fase o al grado in cui l’atto viziato è stato compiuto: se il compimento dell’atto viziato e la declaratoria di nullità si realizzano nella stessa fase procedimentale non c’è problema perché il giudice che dichiara l’invalidità è investito anche del potere di rinnovare l’atto viziato. La questione diventa più complessa se la dichiarazione di nullità interviene in un contesto procedimentale diverso da quello in cui si è realizzata l’imperfezione. In tal caso, il procedimento regredisce allo stato o al grado nel quale è sorto il vizio. Soluzione antieconomica ma ineccepibile dal punto di vista logico perché permette alle parti di collocarsi nella stessa posizione in cui si trovavano quando è sorta l’imperfezione. Per gli atti propulsivi il procedimento riprende dal punto in cui il nesso funzionale che li unisce si è interrotto a causa del vizio. Se la declaratoria di nullità interviene nel giudizio di primo grado, il procedimento regredisce allo stato in cui si è prodotta l’imperfezione. Se il vizio si rileva in appello, occorre distinguere: - se emerge nullità assoluta (179) o una nullità intermedia non sanata (180) il giudice di appello le dichiara con sentenza e rinvia gli atti al giudice procedente nel momento in cui si è verificato il vizio; - se emerge una nullità relativa (181) non sanata il giudice ha due alternative: rinnovare l’atto nullo (se necessario ai fini del giudizio) o decidere nel merito. Nel caso in cui la nullità venga rilevata in Cassazione, il procedimento retrocede al grado in cui è stato emesso il provvedimento annullato. Il fenomeno della regressione del procedimento a stati o gradi anteriori non coinvolge le prove, scelta motivata dalla constatazione che le prove costituiscono atti eventuali del procedimento. La prova viziata viene rinnovata dallo stesso giudice che dichiara la nullità o dal giudice di rinvio nel caso in cui l’imperfezione emerga in Cassazione. 7.NULLITÀ E INUTILIZZABILITÀ: DIFFERENZE E INTERFERENZE L’inutilizzabilità è la sanzione che consegue alla violazione di un divieto probatorio ed è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (191 e 526). La previsione di una specifica figura sanzionatoria in materia probatoria crea dei problemi di coordinamento con il settore delle nullità. Nel sistema vi sono disposizioni dal duplice profilo sanzionatorio (cioè si verifica un concorso di sanzioni sul 82 medesimo atto): talvolta la nullità si accompagna ad inutilizzabilità per vizio di forma (c.d. inutilizzabilità patologica): es. in materia di dichiarazioni indizianti, l’omissione da parte dell’autorità procedente, degli avvisi ex art. 63.1; oppure l’interrogatorio reso senza che l’imputato sia avvertito della sua facoltà di non rispondere ex 64. In entrambi i casi l’atto si discosta dal modello legale, perché l’autorità procedente non ottempera alle prescrizioni legislative. Il pregiudizio che colpisce l’indagato o l’imputato consente di far rientrare tali vizi nella categoria delle nullità generali ex art. 178 lett c; ma le omissioni trattate sono espressamente presidiate anche dalla sanzione di inutilizzabilità. Da qui deriva l’esigenza pratica di individuare una scala di priorità tra le due figure di invalidità, la nullità e l’inutilizzabilità: - se l’inutilizzabilità per difetto di forma si sovrappone ad una nullità assoluta le due figure sono sottoposte ad un identico regime di trattamento (insanabilità e rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento); - se l’inutilizzabilità coesiste con una nullità intermedia o relativa, cioè sanabile, si può far leva sul principio di specialità. Quando c’è una nullità comminata in via specifica (è il caso delle nullità relative) dovrebbe prevalere la nullità: se la nullità viene sanata non è più possibile rilevare l’inutilizzabilità. In caso di nullità generale a regime intermedio prevale l’inutilizzabilità (è la situazione delineata dal 63). Nullità e inutilizzabilità sono distinte sotto il profilo della rinnovabilità dell’atto viziato: la nullità, ancorchè assoluta, non preclude tale operazione, quando ciò risulti possibile e necessario, mentre l’inutilizzabilità, presupponendo l’inosservanza di un divieto, è refrattaria (resistente) alla ripetizione, la quale implicherebbe una nuova trasgressione del divieto medesimo. 8.INAMMISSIBILITÀ E DECADENZA Inammissibilità: sanzione che colpisce gli atti di parte, in particolare le domande. L’atto è inammissibile nei soli casi previsti dalla legge. Le disposizioni sull’inammissibilità si dividono in due categorie: a) Quelle che esigono determinati requisiti o adempimenti a pena di inammissibilità (es. presentazione delle liste testimoniali); b) Quelle in cui si fa riferimento ad una pronuncia del giudice, qualificandola come “dichiarazione di inammissibilità”. L’inammissibilità è un autonomo motivo di ricorso per cassazione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Non conosce sanatorie diverse dal giudicato (ad eccezione del giudizio di rinvio). Però, peculiarità si hanno nel caso di mancato o intempestivo deposito delle liste testimoniali, che può avere due sanatorie: 1) una nel caso della parte che dimostri di non aver potuto depositare tempestivamente la lista; 2) la seconda da parte del giudice che, al termine dell’istruzione dibattimentale, recuperi una prova originariamente non inserita nelle liste. Decadenza: si sostanzia nella consumazione di un potere causata, in presenza di termini perentori, dal trascorrere del tempo e dall’inerzia della parte. Rileva solo la negligenza del soggetto interessato a compierlo sommata al fattore cronologico. Inoltre, è speculare all’inammissibilità perché entrambe si riferiscono allo stesso fenomeno colto da prospettive differenti: la decadenza dà risalto alla vicenda estintiva del potere di compiere un atto, mentre l’inammissibilità alla sorte dell’atto compiuto in mancanza di quel potere. Es. La parte ha il potere di depositare la lista dei testimoni nei termini ex art. 468: se non lo esercita tempestivamente il decorso del tempo consuma il potere e la lista risulterà inammissibile. 9.INESISTENZA Si ha quando l’atto non presenta i requisiti minimi indispensabili per ricondurlo ad uno schema normativo e si riferisce a patologie talmente gravi da sfuggire alla previsione legislativa ed al principio di tassatività (c.d. “Invalidità innominata”). L’atto inesistente si colloca al di fuori del sistema, integrando un c.d. non-atto inidoneo a produrre effetti (è come se non fosse mai stato compiuto). L’inesistenza è rilevabile d’ufficio ed insanabile (nemmeno dal giudicato). Si ha inesistenza nel caso di carenza di potere giurisdizionale (es. la sentenza emessa nei confronti di persona immaginaria, defunta, penalmente incapace o totalmente immune (es. agenti diplomatici); il provvedimento in cui manchi la volontà per violenza fisica, delirio, sonnambulismo). 10.ABNORMITÀ 85 IN SINTESI —> il problema dell’applicabilità delle norme contenute nel libro III agli atti a contenuto probatorio raccolti nell’indagine dev’essere risolto così: titolo I, tendenzialmente sì; titolo II, tendenzialmente no; titolo III, senz’altro sì. 3.IL PROCEDIMENTO PROBATORIO: AMMISSIONE Il procedimento probatorio, ossia la sequenza di atti finalizzati alla formazione del risultato di prova vede tre fasi: l’ammissione, l’acquisizione e la valutazione. L’ammissione è la valutazione preventiva con cui il giudice stabilisce se le prove devono entrare nel processo. Di regola sono le parti a domandare l’ammissione al giudice (190.1); questo è un assetto tipico del sistema accusatorio e serve a garantire l’imparzialità del giudice, evitando che questi possa introdurre di propria iniziativa le conoscenze volte a confermare una sua ipotesi ricostruttiva del fatto. Al contempo, sono le parti a dover ricercare e introdurre i materiali utili alla decisione e, dunque, hanno sì maggiori poteri ma anche oneri. L’art. 190.1 fissa i parametri che guidano il giudice nella decisione sulle domande di prova. Le prove sono ammissibili quando rispettano tre condizioni: 1) Non devono essere vietate: la maggior parte dei divieti deriva dall’esigenza di preservare valori extraprocessuali – c.d.regole di esclusione estrinseche – (es. diritti di libertà: è proibito prelevare coattivamente materiale biologico dal corpo di un individuo se l’imputazione non raggiunge certi livelli edittali) e dal bisogno di garantire l’attendibilità dell’accertamento – c.d.regole di esclusione intrinseche – (es. divieto di acquisire documenti che contengono informazioni sulle voci correnti del pubblico). 2) Non devono essere manifestamente irrilevanti: la rilevanza va valutata in base al principio di pertinenza ex art. 187, cioè l’esigenza di un rapporto tra l’oggetto della prova ed il processo. La prova è pertinente quando riguarda l’imputazione. L’oggetto della prova sicuramente viene fissato in prima battuta dal p.m. con la formulazione dell’imputazione, ma può essere allargato da ciascuna delle parti, che possono inquadrare i fatti descritti all’interno di un diverso contesto di ricostruzione della vicenda. La prova è pertinente anche quando cade sui fatti che si riferiscono alla punibilità o che rilevano per la determinazione della pena, perché da essi può essere desunta la gravità del reato o la capacità a delinquere del responsabile. 3) Non devono essere manifestamente superflue: sono superflue le prove sovrabbondanti, che si hanno quando altre prove già acquisite vertono sullo stesso tema oppure quando si tratta di fatti notori, cioè che rispondono a cognizioni comuni in un determinato contesto storico-sociale. Da notare che il parametro è rovesciato: non sono ammesse le prove che la parte ha dimostrato essere utili e pertinenti, ma le prove sono ammesse sempre, a meno che non siano manifestamente irrilevanti o superflue (esigenza di economia processuale). È un filtro pensato per bloccare pochissime domande di prova, per questo addirittura si parla di presunzione di ammissibilità della prova richiesta dalle parti. L’art. 190 è rubricato “diritto alla prova” perché le parti hanno diritto di impiegare le prove di cui dispongono per dimostrare la verità dei fatti a loro favorevoli. L’art. 111.3 Cost. protegge esplicitamente il diritto alla prova solo per la persona accusata, mentre per i bisogni di prova del p.m. si deve far leva sul principio di parità fra le parti. Le domande istruttorie sono proposte nei primi momenti del dibattimento e ciò rafforza ulteriormente il diritto alla prova perché in questa fase il giudice può consultare solo gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento. Questi generalmente sono pochi, perciò tenderà a venire incontro alle parti. Il giudice provvede con ordinanza senza ritardo, perché quando l’istruzione inizia, le parti devono sapere su quali prove contare e su quali prove conta l’avversario. L’iniziativa delle parti è fondamentale ma non si arriva a configurare un principio dispositivo; secondo l’art.190.2, infatti, la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio (es. perizia). Si tratta, comunque, di previsioni derogatorie e tassative e, quindi, non estensibili per analogia (“presunzione di completezza della prova formulata dalle parti”). 4.LIMITE DEL DIRITTO ALLA PROVA 86 L’articolo di riferimento è il 190bis, introdotto in una situazione socio-politica allarmata dalle stragi di Cosa nostra, che puntava ad evitare l’usura di determinate fonti di prova. Accadeva che gli autori di dichiarazioni utili per l’accertamento di delitti mafiosi, in particolare i collaboratori di giustizia, venissero chiamati a parlare in numerosi processi con una serie di rischi: logoramento psicologico, essere raggiunti da intimidazioni, più occasioni per contraddirsi su qualche aspetto. Di qui la scelta di limitare i casi in cui venivano sentiti. In origine l’art. 190bis valeva solo nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata ex art.51 comma 3bis: quando veniva richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone ex art. 210 (imputato in reato connesso o collegato a quello per cui si procede) e queste persone erano già state sentite in un contesto garantito (incidente probatorio o altro processo) i cui verbali erano stati acquisiti ex art. 238, l’esame era ammesso solo se il giudice lo riteneva assolutamente necessario. Successivamente il campo applicativo dell’istituto è stato esteso a: - Procedimenti su reati sessuali su minori o con violenza, quando deve essere sentito un minorenne o una persona offesa maggiorenne e in condizioni di particolare vulnerabilità (comma 1 bis). La ratio è proteggere l’equilibrio psichico del teste fragile o del minorenne e spingere affinché la loro testimonianza si svolga solo nell’incidente probatorio. - Casi in cui la fonte è stata sentita in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni saranno utilizzate: l’audizione pregressa può rendere superfluo il nuovo esame. L’art. 190bis nel complesso ha alzato il parametro all’assoluta necessità, ma ha anche sollevato dei problemi, perché si finiva per usare sempre dichiarazioni raccolte in precedenza, senza esaminare l’autore in dibattimento. Era un limite grave soprattutto quando la dichiarazione precedente era stata rilasciata in un altro processo, con imputazioni e strategie difensive diverse. Per questi motivi nel 2001 sono stati allargati i casi in cui la richiesta di esaminare oralmente il dichiarante deve essere accolta e ora comprendono anche il caso in cui la parte chieda di sentirlo su circostanze diverse da quelle oggetto della prima dichiarazione e il caso in cui il giudice o una parte lo ritenga necessario sulla base di specifiche circostanze. 5.LE PROVE ATIPICHE Le prove atipiche (o innominate) sono al di fuori del catalogo legislativo, come le riprese visive durante il procedimento per filmare di nascosto le mosse dell’imputato. Oltre ai presupposti tipici (assenza di divieti, non manifesta superfluità, non manifesta irrilevanza) occorre anche l’idoneità all’accertamento dei fatti (art. 189): la prova deve essere capace di offrire una ricostruzione attendibile. In presenza di questo requisito il giudice può (però è un potere-dovere, altrimenti la discrezionalità urterebbe contro il diritto alla prova) assumere la prova atipica. Quest’ultima inoltre non deve pregiudicare la libertà morale dell’individuo. L’art. 189 crea però un rischio, cioè che vengano portate come atipiche prove raccolte secondo modalità diverse da quelle stabilite dalla legge. La prova formata violando la legge è tipica (la legge la regola); non necessariamente invalida: però, la sua validità o invalidità non deve essere aggirata invocando impropriamente la prova atipica. L’art. 189 va più inteso come una porta sul futuro con cui abbracciare le prove che verranno portate dagli sviluppi del progresso (es. prove scientifiche). 6.L’ACQUISIZIONE L’acquisizione (o assunzione) è la seconda fase del procedimento probatorio in cui si estraggono, dalla prova ammessa, gli elementi per l’accertamento dei fatti. Una volta che la prova sia stata ammessa, in capo al giudice sorge il dovere di acquisirla. L’acquisizione varia da prova a prova (≠ ammissione). Si può, tuttavia, tracciare un distinguo: -per le prove precostituite o extracostituite (formate prima o fuori del procedimento: il documento) ammissione e acquisizione tendono a fondersi (es. il gesto con cui il giudice riceve il documento); -per le prove costituende l’acquisizione segna il momento in cui la prova viene costruita nel processo (es. testimonianza). Talvolta, anche in questa fase rileva il diritto alla prova (es. cross examination: le parti non solo possono introdurre la fonte di prova orale (es. il testimone ecc.), ma anche esaminarlo direttamente senza la mediazione del giudice scegliendo le domande, il tono di voce il ritmo, ecc.). Per le prove atipiche le 87 modalità di acquisizione non sono fissate dalla legge, ma le stabilisce il giudice dopo aver sentito le parti (a pena di nullità intermedia). 7.LA TUTELA DELLA LIBERTÀ MORALE Fra i divieti probatori di carattere generale (cioè dettati per i vari mezzi di prova), un posto speciale è occupato dall’art. 188 che prevede che “non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti”. La libertà di autodeterminazione è quella di formare senza costrizioni la propria volontà e di muovere il proprio comportamento esteriore in conformità alle spinte psichiche interne, senza intromissioni e senza la sottoposizione coatta ad introspezioni che ne svelino il concreto funzionamento. Quello sancito al 188 è un divieto centrale, ribadito da molte altre disposizioni: es. il 499.2 prevede che nel corso della cross examination siano vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte, o il 191.2bis secondo cui le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Le tecniche che rientrano nel 188 sono di due categorie: 1) quelle che mirano direttamente ad estrarre una risposta: la tortura, la narcoanalisi, l’ipnosi o strumenti meno rari quali gli interrogatori prolungati; 2) gli strumenti che puntano ad agevolare la diagnosi sulla verità delle dichiarazioni fornite: il poligrafo (apparecchio che misura le reazioni del dichiarante attraverso parametri tipo la sudorazione, la frequenza cardiaca, ecc). Su questi ultimi strumenti si è aperto un dibattito, alimentato anche dagli sviluppi delle neuroscienze: per quanto il 188 può essere inteso anche come baluardo che impedisce l’esplorazione della psiche a fini processuali, ci si chiede se sia ancora giusto non utilizzare tali mezzi anche quando potrebbero servire all’imputato per provare la propria non colpevolezza. 8.LA VALUTAZIONE 8.1. Il principio del libero convincimento del giudice L’ultimo stadio del procedimento probatorio consiste nella valutazione, cioè un giudizio con il quale il giudice definisce il peso dell’elemento di prova, al fine di stabilire se esista o meno il fatto che ne forma oggetto. Si distingue tra sistema delle prove legali e quello del libero convincimento. Nel primo il risultato dell’operazione probatoria è predeterminato dalla legge e quindi il valore della prova è normativo e non logico. La regolamentazione può svolgersi in due direzioni: - la legge può vincolare il giudice a considerare dimostrata un’affermazione in presenza di determinate condizioni (prova legale positiva); - oppure può costringerlo a ritenere inaffidabili certi elementi di prova (prova legale negativa). Nel sistema del libero convincimento del giudice la legge lascia all’apprezzamento del giudice (che è libero da vincoli normativi) il compito di stabilire quanto siano persuasive le prove assunte. Valgono in ogni caso i principi di ragione e gli elementi di prova devono essere valutati secondo le comuni regole della logica, della scienza e dell’esperienza. Del resto, l’art. 192.1 impone al giudice di motivare il giudizio dando conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. I criteri che guidano il ragionamento si basano su leggi scientifiche universali, che sono così robuste da poter essere considerate come certe, e leggi scientifiche meramente probabilistiche, che si caratterizzano per il fatto che la regola non esclude l’esistenza di singoli eventi che la smentiscono, ma il loro impiego è comunque inevitabile. Il libero convincimento può dispiegarsi soltanto sulle prove che la legge consente di usare, cioè solo dopo che il giudice abbia emesso il suo parere positivo circa la loro validità. L’art. 191 è la principale disposizione che limita il campo su cui si può esplicare il libero convincimento. Delicati sono i problemi che ruotano intorno alla valutazione della perizia e della prova scientifica. Vi è però un paradosso: per giudicare il consiglio del perito il giudice dovrebbe sapere quello che non sa e che confessa di non sapere in seguito alla chiamata del perito. L’unico rimedio sarebbe da rinvenire nella crescita intellettuale dei magistrati che li porti ad acquisire una cultura dei criteri, cioè dei parametri che possono consentire al giudice di valutare 90 costituzionali non possano essere direttamente applicati, per escludere dal processo conoscenze raccolte violandoli; l’ammissibilità delle prove potrebbe essere valutata solo alla stregua di disposizioni del codice; ove certi provvedimenti probatori risultassero contrati alla Cost ma non vietati dalla legge ordinaria, il giudice potrebbe sollevare una questione di costituzionalità. Questi studiosi portano avanti un ragionamento analogo a quello esaminato per le prove illecite: come accade per la violazione di un precetto del cp (prova illecita) anche la violazione della Cost (prova incostituzionale) non avrebbe ricadute nel processo, il quale obbedirebbe a regole autonome. Un punto debole di questo parallelismo è dato dal fatto che sul piano ideologico si finisce per sterilizzare i principi costituzionali, impedendo al giudice di trarne conseguenze all’interno del processo. Si allarga, così, il monopolio di cui la Corte Cost gode nel dichiarare l’invalidità di una legge ordinaria, per farvi rientrare pure l’applicazione e l’interpretazione dei precetti della Cost. Ma queste attività non sono riservate in esclusiva alla Corte Cost. Infatti, l’opinione più diffusa è quella secondo cui è il giudice a dover dichiarare inutilizzabili le prove incostituzionali. 9.2. Il dovere di non usare la prova invalida L’inutilizzabilità (patologica) si compone di due distinti comandi. Il primo proibisce di raccogliere la prova in un determinato modo: è vietato intercettare se il giudice non ha autorizzato (art. 267.1); è vietato esaminare l’imputato secondo le regole della testimonianza (art. 197 lett a e b) ecc. Il secondo si presenta quando il primo viene trasgredito e ordina di non utilizzare la prova (intercettazione, testimonianza, ecc) raccolta in quei modi. Ma a chi si rivolge, e come opera questo secondo ordine? In dottrina ci sono due posizioni. Una sostiene che la prova viene usata nelle decisioni: misure cautelari, vocatio in iudicium, sentenza. Solo questi sono gli atti che non possono reggersi su prove invalide. Nulla invece proibirebbe di porre a fondamento di un successivo atto probatorio la prova viziata (es. sarebbe consentito disporre una perquisizione sulla base delle notizie ricavate da un’intercettazione non autorizzata). A questa tesi si obietta che essa ragiona solo in base a schemi tipici della nullità: la propagazione del vizio dipenderà dal fatto che tra l’atto nullo ed i successivi si possa ravvisare un nesso di dipendenza (art. 185.1). Ma l’inutilizzabilità è una categoria autonoma e diversa dalla nullità e, proprio perché vieta di utilizzare una conoscenza invalida, appare proiettata in avanti e qualifica come invalido l’atto che si regge sulla conoscenza viziata. Questo non significa che ogni prova scoperta grazie ad una conoscenza inutilizzabile sia anch’essa invalida. Infatti, si devono distinguere due gruppi di prove: - quelle che possono essere disposte liberamente, “gratuitamente”, cioè non subordinate a nessun requisito (es. il PM non ha bisogno di nessuna giustificazione per convocare in procura una persona informata sui fatti); - quelle che sono ancorate a dei presupposti (es. si può perquisire una casa solo se c’è “fondato motivo di ritenere” che vi si trovi il corpo del reato). In pratica, secondo questa tesi l’intercettazione non autorizzata può portare ad ascoltare validamente un testimone scoperto grazie ad essa, ma non può essere posta a fondamento di una successiva perquisizione o di una successiva intercettazione, le quali risulterebbero anch’esse invalide. Ma, la prova viziata è inutilizzabile anche in bonam partem? Il principio del favor rei potrebbe far rispondere negativamente: l’accertamento dell’innocenza è troppo importante per essere sacrificata agli idoli della procedura. Ma è bene distinguere in base agli interessi di volta in volta salvaguardati. Ad esempio, se l’inutilizzabilità obbedisse solo all’esigenza di proteggere determinati diritti dell’imputato, il giudice potrebbe effettivamente usare la prova favorevole. Se invece la sanzione dipendesse da una radicale mancanza di attendibilità, come nel caso della dichiarazione fornita da un veggente, allora la prova sarebbe inutilizzabile anche in bonam partem. In alcuni casi il legislatore avverte l’esigenza di neutralizzare i possibili sviluppi di una prova invalida al punto da aggiungere dei presidi aggiuntivi come il divieto di documentare un’informazione e la sua eliminazione fisica: si parla di inutilizzabilità rafforzata. 9.3. Il regime di rilevazione del vizio Occorre distinguere tra inutilizzabilità generale e speciale. Si ha inutilizzabilità generale quando la violazione rientra nella categoria di cui al 191.1 (prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge); quindi, ricorre quando una disposizione si limita solo a stabilire il divieto probatorio senza aggiungere altro 91 (es. 197: non possono essere assunti come testimoni …); la sanzione è comminata dal 191.1; il co2 stabilisce che l’inutilizzabilità è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. L’inutilizzabilità non è suscettibile di sanatorie e può essere dichiarata fin dalle indagini preliminari e rimane tale fino al giudicato. Se il vizio viene scoperto dopo la deliberazione della sentenza la soluzione è diversa a seconda del grado in cui ci troviamo: - nel giudizio di appello, il giudice deve ri-decidere senza avvalersi della prova inutilizzabile; - davanti alla Corte Cass, la giurisprudenza fa ritornare la verifica sull’utilizzabilità della prova in un controllo sulla motivazione della decisione impugnata. La Corte Cass deve procedere alla “prova di resistenza” che serve a verificare se, una volta idealmente sottratta la prova inutilizzabile dal ragionamento della sentenza impugnata, la parte di motivazione superstite basti a giustificare la pronuncia. In caso affermativo il ricorso viene rigettato, altrimenti la corte annulla. In questo modo due motivi distinti di ricorso finiscono per essere accorpati e la prova di resistenza è un tipico giudizio di merito. Sarebbe più corretto ritenere che la sentenza fosse automaticamente viziata (e destinata all’annullamento) ogni qual volta in cui si facesse uso di prove inutilizzabili. Si ha inutilizzabilità speciale quando una specifica norma sulle prove non pone solo un divieto ma impone anche una sanzione. Ciò può avvenire per vari motivi: per evitare a priori qualsiasi dubbio sulle conseguenze d’una certa trasgressione, per dettare regole derogatorie rispetto al 191.2, ecc. L’inutilizzabilità speciale, a sua volta, si sdoppia: - alcune volte la legge si limita solo a dichiarare inutilizzabile la prova (art. 271) e anche in queste ipotesi il regime della sanzione deve essere ricavato dal precetto generale, l’art.191.2; in altre circostanze, la norma speciale è completa: detta divieto, sanzione e regime di rilevazione del vizio. Essa allora prevarrà, appunto in quanto speciale, sul 191.2 (es. 360.5 prevede che una certa violazione renda l’accertamento tecnico inutilizzabile nel dibattimento; in deroga al 191.2, quell’accertamento potrà valere nelle indagini, nel giudizio abbreviato, nel patteggiamento). SEZIONE 2: I MEZZI DI PROVA 1.LA TESTIMONIANZA 1.1. Profili generali La testimonianza consiste nella dichiarazione in giudizio di un fatto oggetto di prova da parte di un soggetto (testimone o teste), estraneo al giudizio, che ne ha avuto conoscenza diretta o indiretta. Il testimone deve riferire i fatti, non opinioni o apprezzamenti personali (art. 194.3): deve far conoscere un evento, e non il suo atteggiamento/reazione di fronte all’evento. Un caso particolare è la testimonianza tecnica che si verifica quando il testimone è depositario di un particolare sapere specialistico e ha percepito il fatto attraverso il filtro delle sue conoscenze professionali. Fa parte della famiglia delle prove dichiarative, insieme all’esame delle parti, esame degli imputati di un reato connesso o collegato, testimonianza assistita, confronto, ricognizione, perizia e consulenza tecnica. L’ordinamento cerca di favorire l’ingresso degli apporti testimoniali, lo si nota nella disciplina della capacità a testimoniare che adduce l’obbligo di testimoniare in capo ad ogni persona (art.196.1), quindi tutti possono deporre: bambino, malato di mente, alcolizzato cronico. Il contraddittorio nell’assunzione della testimonianza è garantito dalla tecnica dell’esame incrociato. Le domande devono essere pertinenti, cioè riguardare i fatti che costituiscono oggetto di prova ex art. 187 e concernere fatti determinati. Al fine di consentire la valutazione del giudice sull’attendibilità e credibilità, secondo l’art. 194 è possibile rivolgergli domande sui rapporti di parentela o di interesse che il teste abbia con le parti o con altri testimoni, nonché su circostanze il cui accertamento è necessario per valutare la credibilità dei fatti. Invece, sempre ex 194 non è consentita la testimonianza su: - moralità dell’imputato, a meno che si tratti di fatti specifici ed idonei a qualificarne la personalità e la pericolosità sociale in relazione al reato contestato; - personalità della persona offesa, a meno che il fatto dell’imputato debba essere valutato alla luce del comportamento dell’offeso (es nei reati sessuali); - vita privata o sessualità della persona offesa, a meno che non si proceda per i reati sessuali e le domande in questione siano necessarie per la ricostruzione del fatto; - voci correnti nel pubblico; - che si sostanzi in apprezzamenti personali, a meno che sia impossibile scinderli dalla 92 deposizione sui fatti. Gli obblighi del testimone sono disciplinati dall’art. 198. A) Presentarsi al giudice, cioè deve comparire nel luogo, giorno ed ora stabiliti; se, dopo essere stato citato, non si presentasse (senza addurre un legittimo impedimento) il giudice può disporre l’accompagnamento coattivo (art. 133). B) Attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le esigenze processuali (es uscire dall’aula d’udienza prima che arrivi il momento della deposizione, 149 dsip att). C) Deve fornire le proprie generalità D) Se ha almeno 14 anni deve, a pena di nullità, recitare la formula d’impegno contenuta nell’art. 497.2; E) Rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte; la testimonianza falsa o reticente è punita ex art. 372 cp. Nel complesso il testimone è gravato da una specie di servitù di giustizia. L’obbligo di declinare le generalità subisce una deroga nel caso ex 497.2 bis: gli ufficiali e gli agenti di polizia, i dipendenti dei servizi segreti, nonché le persone di cui si siano avvalsi nel corso di un’operazione sotto copertura, quando sono chiamati a deporre sulle attività svolte, non indicano le generalità autentiche ma quelle di copertura. Ratio: 1) proteggere l’agente undercover dal rischio di ritorsione; 2) garantire che possa essere impiegato anche in futuro. Questa è però una disposizione preoccupante perché è in deroga alle regole che bandiscono l’anonimo dal processo: consente di testimoniare anonimamente e rende difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa: l’attendibilità di una dichiarazione non dipende solo da quello che viene detto e da come viene detto ma anche da tratti personali e biografia del dichiarante, che qui rimangono sconosciuti. L’audizione dell’agente infiltrato si svolge secondo modalità che indeboliscono ulteriormente il contraddittorio: l’esame a distanza è obbligatorio e il viso dell’agente viene schermato. La testimonianza anonima è stata accettata dalla Corte edu: ma, consapevoli delle difficoltà che essa rovescia sulla difesa, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto necessario che l’utilizzo di questo istituto venisse circondato da una serie di contrappesi, es che la vera identità del testimone fosse svelata almeno al giudice (contrappesi che però il legislatore italiano non ha considerato). 1.2. Le eccezioni agli obblighi testimoniali: note introduttive Nonostante l’eterogeneità, la materia delle eccezioni agli obblighi testimoniali è regolata da due canoni. 1) L’obbligo di deporre è un principio e le disposizioni che introducono delle deroghe a ciò costituiscono delle regole di eccezionalità, insuscettibili di essere estese per analogia. 2) Inoltre, gli obblighi del testimone possono essere ricondotti ai doveri inderogabili di solidarietà sociale ex 2 Cost, e possono essere derogati solo in nome di un bene di pario rango. Infatti, tra le eccezioni incontriamo interessi tutelati dalla Cost: l’incompatibilità riconosciuta all’imputato ed alle parti eventuali (197 lett a,b e c) discende dal diritto di difesa (24 Cost); facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato (199) discende dalla tutela della famiglia (29 Cost) e delle altre formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’uomo (art.2 Cost); il segreto professionale, da valori di volta in volta diversi a seconda dei titolari. 1.3. L’incompatibilità con l’ufficio di testimone Ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196.1), ma in concreto, cioè con riferimento ad uno specifico processo, alcuni soggetti possono essere privi di legittimazione ed essere quindi esclusi dall’ufficio (conservando la capacità di deporre in tutti gli altri processi). L’esclusione nasce dalla precedente/ concomitante assunzione di un’altra qualifica processuale, che viene considerata incompatibile con la posizione di testimone: l’incompatibilità deriva da un conflitto tra status, che viene sciolto vietando la testimonianza. L’art. 197.1 esordisce con “non possono essere assunti come testimoni…”: è un divieto probatorio e se, contravvenendo, uno dei soggetti deponesse, la testimonianza sarebbe inutilizzabile ex 191. L’incompatibilità con l’ufficio del testimone (disciplinata ex 197) riguarda innanzitutto l’imputato (lett. a). Il testimone ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di presentarsi al giudice, rispondere, dire la verità. Questi doveri non possono essere estesi all’imputato, che gode del diritto di non collaborare con chi lo sta processando, da qui la sua incompatibilità. Il principio nemo tenetur se detegere (nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale), dal quale scaturisce l’incompatibilità dell’imputato, garantisce anche soggetti che, estranei alla regiudicanda, sono però accusati di un reato 95 insindacabile); qualora diano esito negativo, ordinerà di rispondere. Anche per il segreto d’ufficio, il titolare non può farlo valere quando ha l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria(es, pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio che devono denunciare i reati di cui hanno avuto notizia nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio). 1.8. Il segreto di stato In base all’art 39.1 L.124/2007, “sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività ed ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”. I beni salvaguardati riguardano la sicurezza esterna e interna e la tutela delle relazioni diplomatiche. Ex art. 202.1 i pubblici ufficiali, pubblici impiegati e incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti da segreto di Stato (: il segreto di Stato può essere fatto valere dalle stesse figure che possono opporre il segreto d’ufficio). Diversamente dal segreto professionale, la tutela del segreto di Stato è oggettiva, cioè destinata ad operare in tutti i casi in cui il segreto stesso sia riconoscibile: anche se viene opposto da un soggetto che non è menzionato dalla legge, e persino se non viene opposto affatto. I funzionari chiamati a deporre sull’argomento riservato hanno l’obbligo di astenersi; è la stessa formula adoperata per il segreto d’ufficio, e pone gli stessi problemi nell’ipotesi in cui il testimone, senza esservi costretto, scelga di rispondere. Qui vanno considerati gli indici normativi che sembrano configurare il segreto di Stato come un limite oggettivo al giudizio: bisognerebbe concludere che il giudice che s’avvedesse del segreto di Stato dovrebbe comunque arrestarsi, anche se il testimone non l’avesse fatto valere. Quando il testimone oppone il segreto di Stato, il giudice deve informarne il Presidente del Consiglio dei ministri, ai fini dell’eventuale conferma; è prevista la sospensione di ogni iniziativa volta ad acquisire la notizia oggetto del segreto. Se il premier non dà conferma o, entro 30gg dalla notificazione, non risponde (: silenzio-rigetto), il giudice ordina al testimone di deporre. Se il segreto viene confermato, l’autorità giurisdizionale è quasi inerme e (diversamente da quanto è previsto per i segreti professionali e d’ufficio) non può svolgere alcuna verifica sulla fondatezza dell’atto e gli è inibita l’acquisizione e l’utilizzazione, anche indiretta, delle notizie coperte dal segreto, salva solo la possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato (202.5) La conferma del segreto di Stato deve essere motivata: per consentire al Parlamento un sindacato di natura politica sull’azione del Governo e per permettere al giudice di sollevare davanti alla Corte Cost un conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato. Abbiamo visto che la prova che non può essere raccolta in conseguenza del veto del premier potrebbe essere determinante per risolvere l’alternativa condanna- proscioglimento, e in tal caso, il giudice emetterà una sentenza di non doversi procedere. La regola ex art. 202.3 richiede attenzione: di solito, quando manca una prova fondamentale all’impalcatura accusatoria, il processo s’incammina verso una sentenza d’assoluzione (nel merito); qui, invece, l’esito è l’improcedibilità. Infatti, una volta passata in giudicato, l’assoluzione impedirebbe per sempre di aprire un nuovo processo sullo stesso fatto (ne bis in idem, 649); invece, la sentenza di non doversi procedere non blocca un nuovo esercizio dell’azione penale se in seguito interviene la condizione di procedibilità che era mancata (345.2). Ecco perché il legislatore ha imposto di dichiarare che non si può procedere: in questo modo, se in futuro il segreto di Stato cadesse, il processo potrebbe ripartire. 1.9. Il segreto di polizia L’art. 203 permette ai funzionari di polizia e ai dipendenti dei servizi segreti di nascondere il nome dei loro informatori (coloro che, nell’ambito di un rapporto fiduciario, forniscono notizie alle forze dell’ordine, ricevendone in cambio la promessa di restare nell’anonimato); se i confidenti della polizia non vengono sentiti come testimoni, le informazioni da essi rilasciate sono inutilizzabili. La ragione è che i confidenti della polizia sono preziosi per le indagini su ambienti criminali ma non direbbero nulla se rischiassero delle 96 ripercussioni; quindi l’ordinamento offre loro una garanzia di segretezza. L’istituto è al centro di sospetti d’illegittimità per violazione del: 109 Cost la decisione di serbare l’anonimato è lasciata alla polizia, che dispone di un potere autonomo dall’autor.giudiz.; del 3 Cost (disparità di trattamento) rispetto agli altri segreti: prevedono tutti una procedura finalizzata al controllo circa l’effettiva sussistenza del segreto; per il segreto di polizia questa procedura non è contemplata; 24 Cost perché la prova inutilizzabile potrebbe anche essere favorevole all’imputato. 1.10. Casi di esclusione del segreto Quando l’imputazione è particolarmente grave, la legge privilegia le esigenze dell’accertamento penale su quelle del segreto. Secondo l’art. 204, i segreti d’ufficio, di Stato e di polizia non possono essere fatti valere per notizie che riguardano reati eversivi, o altri gravi reati tassativamente indicati, o condotte illecite poste in essere da membri dei servizi segreti in violazione della disciplina concernente l’apposita causa di giustificazione prevista in loro favore dalla legislazione speciale. Il 204 tace sul segreto professionale, lasciando il titolare libero di opporlo anche quando si procede per reati eversivi. Tuttavia, il 66 disp att, al co 1 prevede che nelle notizie ex 204.1 “non sono compresi i nomi degli informatori”: ripristina il segreto di polizia per tutti i reati indicati ex 204.1. Il co 2, per i segreti di Stato, prevede che il Presidente del consiglio dei ministri può confermare il segreto se ritiene che non ricorrano i presupposti del 204 perché il fatto, la notizia o il documento coperti dal segreto di Stato non concernono il reato per cui si procede. 1.11. La testimonianza indiretta L’art. 195.1 prevede che quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte dispone che queste siano chiamate a deporre. Quindi, la testimonianza indiretta (o de relato) è una testimonianza della testimonianza: una rappresentazione processuale di una rappresentazione extraprocessuale —> cioè si ha quando il teste ha avuto conoscenza dei fatti solo tramite dichiarazioni di terzi, e in questi casi il giudice non ha modo di effettuare le sue valutazioni senza sottoporre all’esame anche il teste di riferimento (o teste diretto). Se nessuna delle parti chiede di sentirlo, il testimone diretto può essere introdotto d’ufficio dal giudice (195.2). Nella testimonianza de relato possiamo distinguere due temi: - uno immediato, cioè la percezione delle dichiarazioni altrui;- l’altro mediato, il fatto oggetto di quelle dichiarazioni. In questo secondo punto, la testimonianza indiretta offre una conoscenza derivata che rende difficile svolgere il contraddittorio, esercitare il diritto di difesa e sondare la genuinità del dichiarante nonché la veridicità dei fatti: questo spiega la tendenza a favorire l’ingresso della testimonianza diretta. La legge pone una condizione minima: l’ art. 195.7 prevede che non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame. Quindi, il teste indiretto deve indicare la persona o la fonte originaria da cui ha appreso l’informazione, a pena di inutilizzabilità della testimonianza. È necessario che la persona sia individuata, ancorché non identificata. Se la fonte di prima mano viene svelata, alle parti è lasciata una scelta: - possono accontentarsi della dichiarazione de relato che sarà utilizzabile; - oppure possono chiedere di sentire la fonte diretta. Quando una delle parti domanda di sentire la fonte originaria (se una parte richiede l’esclusione del teste diretto), il giudice deve chiamarla a deporre; se non lo fa (: in caso di inosservanza del co.1), la testimonianza indiretta è inutilizzabile a meno che la fonte di prima mano non sia morta, inferma o irreperibile (195.3). Si esclude che il 195.3 sia applicabile quando il testimone de relato riferisca dichiarazioni stragiudiziali dell’imputato inerenti alla propria responsabilità (es reo confessa il fatto ad un amico e questo racconta in giudizio la confessione): dato che la fonte primaria è l’imputato, questi può controbattere le parole del testimone indiretto; se vuole, può rendere le dichiarazioni che ritiene opportune; non vi è ragione di assoggettare le dichiarazioni del teste di secondo grado a particolari cautele. Nelle ipotesi di inutilizzabilità ex 195.3, la testimonianza indiretta dovrà essere riscontrata con altre prove data la difficoltà di valutarne l’attendibilità. Alcune disposizioni vietano di deporre per sentito dire (de auditu). Es in base al 195.6 “i testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli artt 200 (segreto 97 professionale) e 201 (segreto d’ufficio) in relazione alle circostanze presenti nei medesimi articoli”. La regola vuole evitare dei raggiri alla protezione accordata ai titolari di un segreto e quindi il divieto cade quando il titolare ha tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi del segreto, cioè abbia deposto o divulgato la notizia confidenziale. (: Vuol dire che non è ammessa la deposizione su fatti appresi da soggetti vincolati da segreto, a meno che questi non li abbiano in qualche modo divulgati). 1.12. La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria Il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria (art. 195.4) è legato al principio di separazione delle fasi: le dichiarazioni raccolte dagli organi dell’indagine durante la fase preliminare, fuori dal contraddittorio, sono inutilizzabili nel dibattimento; sarebbe quindi incoerente che quelle stesse dichiarazioni potessero entrare attraverso il racconto del funzionario di polizia che le ha raccolte. Ci sono casi eccezionali nei quali quelle informazioni possono filtrare, ma anche in questi frangenti il divieto conserva una ragion d’essere, perché serve a garantire le regole sulla documentazione degli atti: il contenuto della dichiarazione dovrà essere appreso dal verbale, non dalla rielaborazione che inevitabilmente ne farebbe il funzionario di polizia. Il 195.4 odierno impone il divieto di riferire le dichiarazioni raccolte dal funzionario di polizia nell’assorbimento dei suoi compiti istituzionali ( si impedisce di riferire su un dialogo fra teste e polizia giudiziaria). Negli altri casi la deposizione è ammissibile e segue le regole della testimonianza indiretta. Es. Agente in borghese che, mentre beve un caffè al bar, ascolta per caso un testimone oculare del reato raccontare all’amico quello che ha visto. 1.13. Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato L’art. 62.1 proibisce di deporre sulle dichiarazioni “comunque rese” nel corso del procedimento dall’imputato (o dalla persona sottoposta alle indagini), esse possono essere introdotte nel giudizio solo se ed in quanto contenute in un verbale dal quale risulti il rispetto delle forme e dei limiti previsti dalla legge (es. deve essere menzionato l’avviso circa la facoltà di non rispondere). La regola è molto vicina al divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e mira agli stessi scopi: da un lato evitare che gli sbarramenti per l’uso di informazioni fornite dall’imputato vengano raggirati; dall’altro assicurare che, quando le affermazioni dell’imputato sono utilizzabili, di esse si faccia fede solo con la documentazione scritta. In coerenza con queste finalità, il 62.1 limita il divieto alle dichiarazioni rilasciate all’interno del procedimento; nulla vieta di testimoniare sulla confessione stragiudiziale che l’imputato abbia fatto ad un conoscente. Il 62.2 obbedisce ad un’esigenza diversa: proibisce di deporre sulle dichiarazioni che l’imputato ha fatto nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori. Per favorire il percorso di recupero dell’imputato, la legge lo lascia libero di confidarsi col terapeuta e lo mette al riparo dal rischio che un’eventuale confessione possa refluire nel procedimento. 2.L’ESAME DELLE PARTI Gli obblighi del testimone non sono conciliabili con la posizione di chi è sotto processo. Quando si deve sentire l’imputato intorno al fatto che gli è addebitato, non lo si fa applicando le regole della testimonianza ma si ricorre ad istituti diversi. Il principale strumento per raccogliere le dichiarazioni delle parti private è l’esame delle parti, la cui caratteristica eminente è la volontarietà dell’esame: infatti, l’art.208.1 prevede che nel dibattimento, l’imputato, la parte civile che non debba essere esaminata come testimone, il responsabile civile e la parte civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono esaminati se ne fanno richiesta o vi consentono. È importante l’interferenza con l’art. 513: ove la persona sottoposta alle indagini avesse reso delle dichiarazioni, la decisione di acconsentire alla richiesta di esame potrebbe essere dettata dall’esigenza di evitare il recupero delle dichiarazioni pregresse. L’imputato che accetta l’esame non ha comunque l’obbligo di rispondere né di dire la verità (art.209). L’esame delle parti eventuali – diverse dall’imputato – (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria), si svolge con le stesse forme della testimonianza (esame incrociato, domande
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