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Riassunto ''Francesco Salerno - DIRITTO INTERNAZIONALE Principi e norme'', Sintesi del corso di Diritto Internazionale

Riassunto del libro Salerno di diritto internazionale con aggiunta di norme, sentenze esplicate utili per il superamento dell'esame e appunti integrativi presi a lezione. I capitoli sono in ordine sparso.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 20/06/2020

Giorgio-Sosto
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Scarica Riassunto ''Francesco Salerno - DIRITTO INTERNAZIONALE Principi e norme'' e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Internazionale solo su Docsity! LE TRE FUNZIONI FONDAMENTALI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE 1. Produzione normativa = funzione predisposta alla formazione delle norme internazionali, che sono: - Norme primarie--> impongono agli stati un dovere che automaticamente si trasforma in diritto per l’altro stato (trattati e consuetudini) - Norme secondarie--> entrano in gioco quando uno stato vìola una norma primaria, stabiliscono quando uno stato è internazionalmente responsabile per la violazione di un obbligo - Norme terziarie--> norme che entrano in gioco quando tra gli stati si cerchi di stabilire un meccanismo di soluzione delle controversie, una volta che uno dei due abbia violato un obbligo 2. Accertamento del diritto = obbligatoria nel diritto interno ma non in quello internazionale; se si viola un trattato, il ricorso al giudice non è previsto dalla legge e quindi obbligatorio ma è eventuale, facoltativo. 3. Esecuzione coattiva del diritto = siccome non vi è un organo di accertamento, manca anche un organo che imponga l’esecuzione di un dovere. Per attuare un diritto si fa ricorso ad un istituto non contemplato nel diritto interno ma possibile in quello internazionale; l’autotutela --> da non confondere con l’uso della forza, essa consente di adottare delle contromisure. Da circa 50 anni l’evoluzione del diritto internazionale va nella direzione dell’obbligatorietà; un giudice internazionale in realtà c’è, la Corte internazionale di Giustizia (art. 94 carta Onu). La corte non è sola, il diritto internazionale è diviso in vari settori, e comprende molti ‘’giudici’’ (pensiamo alla Cedu, alla corte penale internazionale, al tribunale di Norimberga, al tribunale internazionale del diritto del mare). Dunque, il diritto internazionale si sta evolvendo in questo senso, ma rimane sempre la questione che deferire la controversia ad un giudice necessita del consenso di entrambi gli stati. STATO --> è il soggetto di diritto internazionale per antonomasia  Definito come quell’autorità di governo indipendente che esercita la propria sovranità, quindi i suoi poteri, su un determinato territorio e sulla popolazione o meglio, su una comunità umana giuridicamente organizzata. Concezione ternaria --> 3 Elementi = territorio, popolazione, autorità di governo (o sovranità) qualità giuridica di uno stato in quanto potere originario e indipendente Originario  non deriva il proprio potere da altre autorità che non sia se stesso Indipendente  non dipende da altre autorità interne o esterne (giudice Anzilotti nella sentenza del 1928 lo dimostra ma coregge il concetto di indipendenza dicendo di far rientrare il diritto internazionale nel concetto di indipendenza in quanto lo stato è indipendente anche se è limitato, se subordinato, dalle norme di diritto internazionale) Nascita di uno stato = nasce qualora eserciti la propria sovranità de facto PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’  Perché uno stato nasca non ha bisogno di un riconoscimento (non ha valore costitutivo) ovvero un atto con il quale un soggetto riconosca un altro soggetto. Lo stato sussiste già quando ha quegli elementi e non ha bisogno di tale atto. A cosa serve il riconoscimento allora? Ha un valore dichiarativo; con il riconoscimento uno stato dichiara di voler intrattenere delle relazioni internazionali con lo stato riconosciuto, quindi ha anche valore politico. Può esistere comunque un atto di riconoscimento che ha in parte valore costitutivo (fenomeno di statualità anticipata) e questo succede in un caso; quando manchi uno dei tre elementi (il riconoscimento sopperisce alla mancanza di un elemento). Quindi quando uno stato ha già i 3 elementi esiste per tutta la comunità internazionale, chi lo riconosce vuole intrattenere delle relazioni internazionali, chi non fa solo un atto inamichevole che può avere ripercussioni negative sulla partecipazione dello Stato alla vita giuridica internazionale. Lo stato che vuole assicurarsi una più repentina partecipazione ai vantaggi della cooperazione internazionale è indotto a sollecitare esso stesso il riconoscimento internazionale; gli altri stati possono sfruttare tale occasione per rendere lo stesso riconoscimento oggetto di trattativa = caso delle cosiddette linee direttrici in cui si enunciavano una serie di requisiti (come il disarmo nucleare, tutela dei diritti umani ecc) e a seguito delle garanzie ottenute avveniva tale riconoscimento, senza che però mutasse la natura dichiarativa. Per il riconoscimento costitutivo valido solo per lo stato che riconosce uno dei tre elementi. ESEMPI DI STATI DOVE MANCA UNO DEI TRE ELEMENTI  Stato Fantoccio, o vassallo Stato protetto Insorti Stato fantoccio  stato a cui manchi l’elemento dell’autorità di governo perché fondamentalmente dipendente da un altro stato ed è considerato ‘stato’ grazie ad un riconoscimento. (ha valore costitutivo SOLO per lo stato che lo riconosce, e non per l’intera comunità) Esempi di stato fantoccio = Manciuria, Bantustan (condannato dall’assemblea generale delle nazioni unite) e la repubblica turca di Cipro del Nord (il consiglio di sicurezza ha ritenuto legalmente invalida la dichiarazione di indipendenza riconoscendo a livello internazionale la sola repubblica di Cipro) Queste diverse entità non hanno presentato né un sufficiente grado di stabilità né un obiettivo grado di autosufficienza operativa e volitiva che le potesse rendere assimilabili al paradigma tradizionale dello stato ‘indipendente’ secondo il diritto internazionale. Insorti  gruppo di persone che prendono il controllo effettivo di un dato territorio e su quel territorio esercitano quella che è la loro potestà di imperio sulla popolazione, quindi un po' come lo stato, ed operano in quella che è la guerra civile. Sembra che abbiano le tre caratteristiche di uno stato, ma hanno la stessa soggettività internazionale? No. Nel momento in cui vi siano degli insorti c’è ancora uno stato precostituito allora gli insorti hanno dei poteri molto limitati nel diritto internazionale perché sussiste ancora lo Stato (principio di conservazione dei valori) ed è in tale prospettiva che il diritto internazionale può rivolgersi agli insorti perché diano luogo ad un processo di pacificazione nazionale anche attraverso intese con l’autorità precostituita che il diritto internazionale stesso garantisce; qualora gli insorti creino un’anarchia allora in quel caso hanno un valore più determinante tant’è che hanno dei diritti differenti a concludere degli accordi internazionali e hanno degli obblighi differenti. Ma la popolazione che si trovano nel territorio occupato dagli insorti e c’è un governo precostituito, da chi deve essere protetta? Dal governo; se c’è anarchia è degli insorti. Stato protetto  stato che definisce in piena autonomia il suo status per mezzo di un accordo avente appunto per oggetto obblighi di protezione a carico di una parte; una condizione simile può anche determinarsi a seguito di un accordo internazionale del quale lo stato protetto non sia parte ma dal quale ugualmente discenda il suo regime giuridico obiettivo erga omnes. PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE  Art.1 para.2 Carta ONU, Art.55 Carta ONU Tra i fini dell’Onu vi è lo sviluppo di relazioni amichevoli tra soggetti, ma vi è anche la promozione di un diritto che viene chiamato ‘autodecisione dei popoli’ che sarebbe appunto l’autodeterminazione, secondo cui i soggetti che fanno parte di un territorio, la popolazione, ha diritto di autodeterminarsi:  valenza esterna implica il diritto di un popolo a scegliere la propria identità geo-politica anche sotto forma di indipendenza, anche cercandolo nella comunità internazionale (ris. 26,25)  valenza interna attiene invece alla libertà dello stato di scegliere la propria forma costituzionale. Risoluzioni importanti: 15.14 – 15.41 – 26.25 --> alcune risoluzioni dell’Onu e sono considerate espressione del diritto consuetudinario riguardante l’autodeterminazione dei popoli tra gli anni 60 e 70 1971 = caso samara occidentale, in questa sentenza la corte ha enunciato che il diritto di autodeterminazione deve essere esercitato via referendum, come in catalogna 1996 = caso Timor est (vicino Indonesia, sopra l’Australia), qui la corte ha detto che il principio di autodeterminazione costituisce un principio inderogabile della comunità internazionale. Posto quest’obbligo internazionale di cui ogni autorità deve garantire alla propria popolazione, che succede quando vi siano condizioni particolari in uno stato e il diritto interna. suggerisce come fare? 3 CAPITOLO Inizialmente lo Stato era considerato indipendente (prima della concezione di Anzilotti) ma quant’è che è nata la prima forma di confessione della libertà statale? Quando sono subentrati dei diritti che col tempo sono diventati più importanti ancora della sovranità statale; il primo diritto che ha compresso l’autorità statale è il mantenimento della pace. Com’è che si è evoluta? Quando si sono unite altre esigenze come il divieto di discriminazione raziale ecc.. (Art. 1 paragr. 3 Carta ONU e art. 22 parag. 1 del Patto sui diritti civili e politici) Prima compressione è che si obbliga lo stato affinché si doti di una buona costituzione, però visto che abbiamo detto che i soggetti non sono solo gli stati ma sono anche i singoli, questa compressione è avvenuta anche a protezione della popolazione che si trova in uno stato; principio della rappresentatività unitaria = stabilisce che lo stato deve rappresentare in maniera unitaria quella che è la propria popolazione, quindi tutelarla non in maniera parziale ma in quanto tale  tutela delle minoranze nazionali (art.27 patto). Stabilisce che lo stato che presenti al suo interno una popolazione composta da minoranze etniche, linguistiche e religiose deve garantire loro la tutela dei propri diritti (non solo quelli fondamentali ma quelli relativi all’esercizio delle loro funzioni religiose ecc...) La tutela internazionale delle minoranze riguarda sia i singoli, preservandoli da trattamenti discriminatori, sia il gruppo nazionale in quanto tale, attribuendo in taluni casi ai suoi appartenenti diritti di autogoverno sul territorio ma ciò senza riconoscere loro alcun diritto di autodeterminazione ‘esterna’. Esempio: trentino alto adige, arbresh. -Si può verificare una situazione in cui in uno Stato vi siano delle popolazioni che non solo presentano caratteristiche diverse da quelle delle altre persone ma addirittura che hanno dei propri istituti giuridici differenti  popolazioni indigene = gruppi di persone caratterizzate da un cosiddetto legame atavico nel proprio territorio, che hanno istituti propri (primitivi) oltre che usanze e gestiscono l’ambiente in maniera naturale. Come vengono tutelati? Vengono garantiti loro un diritto di autodeterminazione degli indigeni che non riconosce una rilevanza soggettiva ma possono stabilire quelle che sono delle relazioni internazio. -Stessa cosa quella che concerne la tutela delle minoranze a formazione collettiva: associazioni sia sindacali (art. 1 OIL, art. 11 CEDU, art. 5 Carta sociale europea ed art. 22 sul patto diritti civili e politici) che religiose (art. 9 della CEDU e art. 18 del Patto sui diritti civili e politici). A quelle religiose viene tutelata la libertà di culto, e la libertà di associazione per i lavoratori. L’unico caso in cui lo stato può andare a reprimere alcune forme di espressione della libertà dei soggetti è quando vi sia un pericolo per l’ordine pubblico (repressione della libertà religiosa nel caso del burka giustificandolo con il mantenimento dell’ordine pubblico) SANTA SEDE E ORDINE DI MALTA = Soggetti a cui la sovranità statale viene estesa OBBLIGO DI PROMUOVERE E CONSERVARE LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA (DA FARE) PARTECIPAZIONE DELLE REGIONI AGLI ACCORDI INTERNAZ. Si parte da due principi espressi dalla Costituzione: 1) Principio di leale collaborazione o cooperazione: lo stato e le regioni in tema di gestione del potere estero devono collaborare tra di loro 2) Principio dell’unitarietà: in forza all’art. 5 Cost. secondo cui quando si tratta di accordi, atti legislativi, l'Italia agisce come repubblica...significa che la competenza ad emanare atti e stipulare accordi è dell'Italia in quanto tale; ciò non significa che le regioni non possano in determinati casi avere competenze in tema di rapporti internazionali. Vi è quindi una competenza primaria dello stato in tema di politica estera (primo gestore) il che significa che le regioni non possono interferire, né decidere sul contenuto dell'accordo e secondariamente una regione non può modificare un accordo fatto dallo stato né tanto meno può indire referendum per questioni di competenza dello stato. Esiste una disposizione nel nostro ordinamento che abiliti le regioni italiane a stipulare trattati? Si, l’art. 117 Cost. = per ciò che è di sua competenza, le regioni possono stipulare accordi internazionali con altri stati e altri enti territoriali interni ad altri stati, nei casi e nelle forme disciplinate dalle leggi e dallo stato. La costituzione stabilisce il c.d. Potere sostitutivo (art. 120 Cost.) ovvero la facoltà dello stato, esercitata dal ministro degli esteri, di ‘’sostituirsi’’ alla regione a tutela degli interessi statali e quindi quando la suddetta stipuli accordi internazionali in contrasto con gli indirizzi manifestati dalla politica estera centrale. (procedimento art. 8 L. 131/2003 ‘’legge la roggia’’) Cosa può fare la regione? Art. 6 legge la roggia --> si parla dell'autonomia regionale per questioni internazionali; accordi di natura programmatica, di natura tecnico-amministrativa o accordi esecutivi e applicativi di precedenti accordi internazionali. Questi accordi devono essere conclusi solo in forma semplificata perché non devono interferire con i trattati dello stato per i quali la costituzione riconosce il potere esclusivo e non delegabile di ratifica da parte del capo dello stato, previa richiesta l’autorizzazione del parlamento ex art. 80 Cost. Per qualunque tipo di accordo che la regione vuole fare deve: 1) informare lo stato, quindi deve avere il permesso dello stato a concludere questi accordi 2) la regione informa le autorità centrali dell'avvio delle trattative (ministro degli affari esteri e il dipartimento per gli affari regionali della presidenza del consiglio), quando la regione va a definire quello che è il progetto di accordo sottopone all'attenzione di questa autorità centrali il provvedimento stesso e allora queste autorità decidono se dare o meno il consenso all'avvio dell'accordo (si impone il coinvolgimento dello Stato) 3) firma del Presidente della regione, sempre autorizzata Ora, le autorità centrali non possono in alcun modo rifiutare il consenso se non attraverso ragioni motivate; se il ministro degli affari esteri dà il consenso allora la regione ha libero margine di apprezzamento, ovvero che la regione ha piena autonomia e tale accordo vincola solo la regione e non tutto lo stato. [Ci sono delle deroghe in cui la regione può agire autonomamente senza chiedere l'autorizzazione allo stato, le deroghe sono due: quando lo consentono norme dettate dallo statuto regionale e quando questo sia giustificato da ordini internazionali (?)]. CAPITOLO 4 ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI Gli stati provvedono con un apposito svolgimento di regole internazionali a costruire una organizzazione internazionale, fissandone obbiettivi, struttura e competenze; l'organizzazione internazionale (di solito intergovernativa = formato da stati) è un insieme di soggetti il cui scopo ha un rilievo internazionale. Quando viene istituita un’organizzazione internazionale generalmente lo si fa perché determinati obbiettivi vengono raggiunti se organizzati in gruppo tramite cooperazione. Come si costituisce un'organizzazione internazionale? Si costituisce tramite manifestazione di volontà degli stati, a prescindere dallo statuto. Questa manifestazione può avvenire con un atto formalmente non vincolante (caso del CSCE trasformato poi in OSCE) ma la forma dell’accordo scritto resta ovviamente quella preferita; attraverso accordo scritto nasce l’atto, o meglio il trattato istitutivo; nel diritto internazionale qualunque tipo di trattato viene regolamentato dalla convenzione di Vienna --> art. 5 = qualunque trattato, anche quelli istitutivi devono essere regolamentati attraverso la convenzione. Ne consegue che il relativo regime giuridico permea la natura internazionale dell’organizzazione e il suo funzionamento, anche quando il trattato contenga al riguardo regole speciali diverse da quelle generalmente vigenti nelle relazioni internazionali. Questo criterio non viene meno se l’atto istitutivo dell’organizzazione assume la qualifica di ‘costituzione’; la natura di ‘costituzione’ può essere assegnata ad un trattato solo se esso esprime uno spostamento irreversibile di sovranità a favore dell’organizzazione internazionale (ma ciò non è accaduto finora neppure a riguardo dell’UE, tanto che lo stato membro può recedere). Il trattato istitutivo dell’organizzazione però risente oggettivamente dell’assetto istituzionale di questa entità; l’organizzazione è capace di determinare in modo autonomo l’effettività normativa del proprio sistema, vale a dire tanto una interpretazione uniforme del trattato istitutivo quanto regole consuetudinarie che lo integrano e lo modificano attraverso la prassi della stessa organizzazione. Questa dinamica sociale è tipica di ogni istituzione ed opportunamente integra le regole contenute nell’atto istitutivo dell’organizzazione internazionale. Però il modo in cui la pratica sociale si obiettivizza in regole non scritte può scaturire anche dalla valutazione di un solo organo sociale se la questione attiene a funzioni di sua esclusiva pertinenza ma si deve in ogni caso registrare l’acquiescenza dell’organizzazione nel suo insieme. -Personalità giuridica di un'organizzazione ---> ovvero se abbia personalità o soggettività giuridica. Nel diritto internazionale si differenziano; soggettività giuridica è la semplice considerazione di un soggetto da parte del diritto internazionale, la personalità giuridica conferisce dei diritti e dei doveri a quel soggetto. Ha personalità giuridica quindi? Si (perché titolare di diritti e doveri, quindi di posizioni giuridiche soggettive tanto attive quanto passive). Ma qual è la differenza della personalità giuridica di un'organizzazione e la personalità giuridica di uno stato? La differenza è che l'organizzazione ha una personalità cosiddetta 'funzionale' = diritti e doveri limitati a quelle che sono le competenze che l'organizzazione internazionale ha e che sono attribuite dai trattati (principio di attribuzione --> le orga. interna. possono avere competenze solo se sono espresse quest'ultime nei trattati, tranne in alcuni casi...ovvero capite bene che sarebbe impossibile elencare tutte le effettive competenze in un trattato --> clausola di flessibilità = permette un'estensione di queste competenze all'organizzazione anche se non sono espressamente previste). Una volta costituita l'organizzazione deve mantenersi, deve finanziarsi; quali sono i metodi di finanziamento dell'organizzazione? 1. Contributo obbligatorio = Finanziamento che avviene periodicamente da parte degli stati membri, cioè uno stato membro periodicamente paga una quota all'organizzazione per far sì che abbia i fondi necessari per poter perseguire i fini; tale obbligo viene ripartito in modo differente per classi di contributori oppure secondo la capacità contributiva degli stati membri che nelle nazioni unite è commisurata secondo il PIL. In rari casi l’organizzazione fruisce di specifici prelievi su redditi privati (nell’UE gli stati destinano a suo favore una percentuale dell’IVA) 2. Tramite contributi volontari degli stati; uno stato può contribuire in maniera volontaria per finanziare l'organiz. (questo per avere un peso maggiore nelle decisioni e avere più seggi) (In base all’art. 19 della carta, lo stato membro dell’ONU perde il proprio diritto di voto in assemblea se non è in regola con il pagamento della propria quota di contributi obbligatori) Come si estingue l'organizzazione internazionale? Questa può avvenire: perché è già prevista dal trattato istitutivo quando l'organizzazione raggiunge tali fini perseguiti (perde la ratio) per volontà degli stati membri per volontà dell'organizza. stessa Una volta estinta, possono accadere due cose; 1. all'organizzazione internazionale estinta se ne succede un'altra (succedendo anche agli obblighi) 2. non succede nulla, si estingue e s’impone il legittimo affidamento delle posizioni giuridiche di soggetti terzi. Per far sì che succeda un'organizzazione ad un’altra è necessario un accordo tra gli stati e la nuova organizzazione o tra le due organizzazioni. Effetti di tale successione = se vi erano obbligazioni o diritti la nuova organizza. le assume totalmente. Effetti dell'estinzione = ripartizione equa tra gli stati sia di diritti che delle obbligazioni DIRITTI ED OBBLIGHI DEGLI STATI A prescindere dall'organizzazione di cui si parla, dobbiamo capire gli stati che fanno parte dell'organizzazione che diritti e quali obblighi hanno; vi è una differenza che concerne lo status che uno stato acquisisce all'interno dell'organizzazione. Può assumere più status all'interno dell'organizzazione= status di paese membro, status di osservatore (l’interesse di questi enti non consiste solo nella partecipazione all’attività dell’organizzazione ma anche all’opportunità di utilizzare ad altri fini un tale ‘foro’ multilaterale senza avere la pretesa di essere i gestori ‘esclusivi’ degli interessi che rappresentano esempio: banca centrale), di paese associato (si consente un limitato coinvolgimento nelle attività dell’organizzazione) ecc.. In relazione allo status cambiano i diritti ed obblighi che ha uno stato; stato membro ha più 'importanza' che possono essere originari o ammessi = originario è quello stato che entra a far parte dell'organizzazione esaurito le sue funzioni con la fine del processo di decolonizzazione, tanto che la sua attività è stata sospesa nel ’94 con l’indipendenza del Palau). Fini e principi delle Nazioni Unite: sono 3 tipologie: 1. Mantenimento della pace e della sicurezza internazionale: le nazioni unite prenderanno misure preventive e successive che tutelino la pace e la sicurezza della nazione; 2. Perseguimento di relazioni amichevoli tra Stati, fondate sulla garanzia dell’uguaglianza dei diritti e dei diritti dei popoli all’autodeterminazione oltre che sul principio del rispetto dei dir. umani; 3. Gestione e risoluzione dei problemi della cooperazione internazionale di ordine economico, sociale e scientifico. - Art. 2: contiene la norma centrale delle nazioni unite e al paragrafo 4 è presente il divieto dalla minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità territoriale che contro l’indipendenza politica di ogni altro stato. - Art. 5 e seguenti: contengono indicazione sui membri e organi delle nazioni unite. Assemblea generale ---> art.9 in poi carta Onu Composizione: da tutti i paesi membri, definito come l'organo rappresentativo dell'Onu e ogni paese ha cinque rappresentati all'interno dell'assemblea Competenze: a) si riunisce una volta l'anno e decide sull'ammissione di nuovi stati all'interno dell'Onu (art. 4,2); b) può discutere di qualunque questione trattata all'interno della carta Onu (art. 10); c) approvazione del bilancio annuale dove l’Assemblea ripartisce i contributi obbligatori tra gli Stati membri (art. 17) d) svolge un'interpretazione uniforme dei trattati e ha una competenza anche in materia del mantenimento della pace, in base al combinato disposto degli art. 11,2 e 35 della carta, di competenza al solo Consiglio di Sicurezza, come indicato dal capitolo 7 di tale carta --> competenza sussidiaria = quando il consiglio di sicurezza rimane inerte, non agisce per il mantenimento della pace, allora è l'assemblea generale che può spingere il consiglio a farlo, sempre tramite raccomandazione [una risoluzione ‘’uniting for peace’’ 3 Novembre 1950  si configura la procedura per la convocazione straordinaria della stessa Assemblea, con richiesta della maggioranza dei suoi membri o anche ad opera del Consiglio di Sicurezza senza che il potere di veto possa impedirlo, quando il Consiglio sia nell’impossibilità di prendere decisioni in tema di mantenimento della pace per il veto di un membro permanente]2. 2 La risoluzione Uniting for Peace fu adottata il 3 novembre 1950 nell’ambito della crisi coreana. Al momento dell’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord comunista, nel giugno 1950, l’URSS stava boicottando i lavori del Consiglio di sicurezza a causa del mancato riconoscimento della Cina popolare come rappresentante della Cina, in luogo della Cina nazionalista di Taiwan. L’assenza dell’URSS consentì l’adozione da parte del Consiglio di sicurezza di due risoluzioni: la prima, la n. 83 del 27 giugno 1950, raccomandò agli Stati membri di soccorrere la Corea del Sud per respingere l’attacco della Corea del Nord (nella storia ONU una risoluzione analoga è stata approvata solo nel novembre 1990, la n. 678, a seguito dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq); la seconda, la n. 84 del 7 luglio 1950, accettò che il comando delle forze operanti contro la Corea del Nord fosse assunto dagli USA ed autorizzò l’uso della bandiera ONU. Tuttavia, in vista di un possibile ritorno dell’URSS alla partecipazione dei lavori del Consiglio di sicurezza, che sarebbero così risultati bloccati in relazione alla crisi coreana, l’Assemblea generale approvò la risoluzione Uniting for Peace. Il dispositivo della risoluzione “stabilisce che, se il Consiglio di sicurezza, a causa della mancanza di unanimità dei membri permanenti, fallisce nell’esercizio della sua primaria responsabilità nel mantenimento della pace internazionale e della sicurezza, in ogni caso in cui appaia presente un rischio per la pace, una rottura della pace o un atto di aggressione, l’Assemblea generale considererà la materia immediatamente al fine di rivolgere le appropriate raccomandazioni ai membri per le misure di sicurezza collettiva, incluso, in caso di rottura della pace o di atti di aggressione, l’uso della forza armata quando necessario, per mantenere o ripristinare la pace internazionale e la sicurezza”. Il precedente della risoluzione Uniting fo Peace fu richiamato dagli USA quando effettivamente l’URSS rientrò nel Consiglio di sicurezza ed esercitò il proprio diritto di veto per impedire ulteriori delibere relative alla crisi coreana. A tale precedente, inoltre, gli USA e gli Stati occidentali si richiamarono in più occasioni nel corso degli anni Cinquanta, incontrando l’opposizione degli Stati socialisti. Successivamente, a seguito della decolonizzazione e dell’aumento degli Stati membri dell’ONU, anche gli Stati propugnatori della Uniting for Peace cessarono di farsene promotori e di richiamare la risoluzione. [Si è così formata una nuova norma di carattere consuetudinario ad integrazione (preater legem) della carta su questioni che il capitolo 7 riserva esclusivamente all’esercizio del Consiglio di Sicurezza]. Votazione = Quando l'assemblea generale va a deliberare lo fa attraverso una votazione; ogni stato ha 1 voto (art. 18) espresso dalla delegazione ufficiale del governo in carica nel paese membro, fino a cinque componenti --> principio della parità = ogni stato ha un voto e per le questioni importanti la votazione richiede i 2/3 degli presenti e dei votanti, per le altre questioni vige la maggioranza semplice) Organo sussidiario = Commissione del diritto internazionale, composta da autorevoli giuristi di vari paesi che definisce la propria agenda dei lavori secondo le indicazioni dell’assemblea. I testi adottati dalla commissione e quindi approvati dall’assemblea possono restare allo stadio di semplice progetto oppure tradursi in una convenzione di codificazione del diritto internazionale  in tale processo la corte internazio. di giustizia ha intravisto 3 tipi di effetti rispetto al diritto consuetudinario ‘non scritto’ o spontaneo: a. Mera trascrizione della regola consuetudinaria preesistente, per quanto la formula scritta sia in qualche modo sempre costitutiva di una norma esistente allo stato fluido b. Cristallizzazione di una regola consuetudinaria in via di formazione c. Modello di riferimento per la formazione di nuove regole consuetudinarie In tutte e tre le ipotesi si riscontra, soprattutto nell’ultima, che il modello normativo debba confrontarsi con il requisito dell’effettività riscontrandola nella condotta di stati o organizzazioni internazionali. Consiglio di sicurezza ---> art. 23 carta Onu La carta assegna estese competenze al Consiglio; -Capitolo 6 per promuovere la soluzione pacifica delle controversie:  Art. 33 = il Consiglio ha il potere di ‘’invitare’’ le parti di una controversia a risolvere il conflitto mediante diversi strumenti di pacificazione (negoziati, inchiesta, mediazione, arbitrato ecc...)  Art. 34 = esso individua un potere materiale al Consiglio, ovvero quello di svolgere delle indagini su un eventuale conflitto o controversia, creando magari una commissione ad hoc. Il limite di questa disposizione è che, per avviare un’indagine si ha bisogno dei 2/3 dei voti tra cui i membri che hanno diritto di veto  Art. 35 = norma che, di fatto, stabilisce quando è possibile adire il consiglio o l’assemblea su un conflitto o controversia ex art. 34. La norma dice che possono far recapito al Consiglio o Assemblea: -stati membri -stati non membri, purché accettino preventivamente gli eventuali obblighi derivanti dal regolamento pacifico previsti dalla suddetta carta  Art. 36 = il consiglio può raccomandare ‘’procedimenti o metodi di sistemazione adeguati’’; essi sono gli stessi procedimenti dell’art. 33 ma la differenza è che nel primo si ha un invito generale, nel secondo si specifica lo strumento da utilizzare; inoltre il consiglio deve prendere in considerazione le procedure per la soluzione della controversia che siano già state adottate dalle parti oltre che, nel dare queste raccomandazioni, deve tener presente che le controversie giuridiche devono essere deferite per regola generale dalle parti alla Corte intern.  Art. 37 = qui il Consiglio, laddove la controversia non si dovesse dirimere ha il potere di agire raccomandando quale via percorrere nello specifico -Capitolo 7 per assumere decisioni vincolanti opportunamente assistite da misure operative. Per agire in base a questo capitolo occorre che si presenti al consiglio: - Atti di aggressione = troviamo la definizione nella ris. 3314 del ‘743 3 La definizione distingue tra aggressività (che "dà luogo a responsabilità internazionale") e guerra di aggressione (che è "un crimine contro la pace internazionale"). Articolo 3 "in conformità alle disposizioni di cui all'articolo 2", definisce alcuni atti come l'aggressività, come invasioni armate o attentati, bombardamenti, blocchi, le violazioni armate del territorio, permettendo ad altri Stati di utilizzare il proprio territorio per perpetrare atti di aggressione e l’impiego di irregolari armate o mercenari per compiere atti di aggressione. Articolo 2 stabilisce che il primo uso della forza in violazione della Carta delle Nazioni Unite sarà prima facie di aggressione, ma il Consiglio di sicurezza ha l'autorità di stabilire che, date le circostanze dell'aggressione, non ha avuto luogo. Una guerra di aggressione è una serie di atti commessi con intento sostenuta. Distinzione della definizione tra un atto di aggressione e di una guerra di aggressione mette in chiaro che non ogni atto di aggressione costituirebbe un crimine contro la pace; solo la guerra di aggressione. - violazione della pace - minaccia alla pace.  Art. 39 = viene riconosciuto al Consiglio un potere di qualificazione o discrezionalità giuridica di raccomandare o decidere misure nel caso di minacce alla pace, violazioni ecc... Si chiede se questo potere è limitato: da un punto di vista politico la discrezionalità del Consiglio è insindacabile, dunque nessuno può confutare la legittimità degli atti posti in essere dal Consiglio, mentre da un punto di vista giuridico la Corte interna. di Giustizia può sindacare sulle misure attuative che il consiglio adotta successivamente alle risoluzioni (es. Caso Lockerbie)  Art. 41 e 42 = Il consiglio può limitarsi ad emanare misure vincolanti non implicanti l’uso della forza per sole esigenze ordinatorie. Il primo: interruzioni totali e parziali delle relazioni economiche e comunicazioni con la rottura inoltre delle relazioni diplomatiche. Il secondo: se le prime non sono efficaci autorizza l’esercizio dell’uso della forza per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.  Art. 43 e seguenti = secondo tali articoli, nel disegno originario della Carta Onu, per dare al consiglio la capacità di adottare sanzioni per mezzo della forza era previsto che il sistema delle nazioni unite si dotasse di un proprio esercito. Questo, mediante accordi di tutti gli stati membri e del segretario generale si sarebbe dovuto costituire in un comitato di stato maggiore (composto dai capi di stato maggiori delle potenze che facevano parte del consiglio e che quindi avevano potere di veto) con l’obiettivo di comandare le operazioni militari di quei contingenti che gli stati membri avessero messo a disposizione del consiglio stesso. Questo era il modello di ‘’uso della forza’’ per le organizza. interna. ma le cose non andarono così; gli art. 43 e seguenti non furono mai rispettati in quanto non esiste un esercito delle nazioni unite (i caschi blu non sono dell’Onu). Qualcuno pensa che tali articoli siano norme cadute in desuetudine, ma nessuno ha mai pensato di abrogarle…forse si pensa che un giorno verranno applicate. -Capitolo VIII per coordinare l’azione di gruppi di stati o organizzazioni regionali sul mantenimento della pace. Composizione = da 15 membri art. 23, 10 che variano (nominati dall’assemblea tramite principio geografico; sia per il territorio sia per il paese che più si è adoperato per il mantenimento della pace e restano in carica per un biennio) e 5 che sono permanenti che sono i 5 paesi vincitori della Seconda guerra mondiale ma è da tempo uno studio di una riforma del Consiglio per renderlo maggiormente rappresentativo. Funzionamento = art. 24 --> i membri conferiscono al Consiglio la responsabilità principale del mantenimento della pace e sicurezza riconoscendo che il Consiglio di sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome. [Il consiglio può intervenire coattivamente quando uno stato membro dovesse violare il divieto dell'uso della forza tramite alcune missioni cosiddette di mantenimento della pace 'peace keeping' oppure di ricostruzione della pace 'peace building' però purché possa intervenire in maniera coattiva ha bisogno dei tre presupposti; aggressione, violazione della pace o anche la sola minaccia della pace. Se è presente anche solo uno di questi presupposti il consiglio si attiva] L’art. 25 --> obbliga gli stati membri dell’Onu ad eseguire le decisioni assunte dal Consiglio di sicurezza in conformità alla stessa carta. Votazione = due procedure di voto; per le questioni procedurali vota a maggioranza semplice, per le questioni sostanziali vota a maggioranza semplice dei membri non permanenti e all'unanimità dei membri permanenti (questo può creare una crisi decisionale). Vi è la possibilità del veto per i membri permanenti (ratio: l'astensione di un paese membro possa evitare che si decida su una questione sostanziale) ma è richiesto il loro consenso sia pure in modo informale per la procedura atipica dello statement del presidente del consiglio di sicurezza. Doppio veto = se il membro permanente possa esercitare il diritto di veto nella fase preliminare in cui il consiglio qualifica la questione come procedurale o sostanziale per poi procedere al voto secondo la maggioranza pertinente; la carta non indica né formula un elenco, ed in realtà la lacuna è intesa a Anche se si tende a privilegiare l’opinio iuris in caso di pochi stati, ma anche in questi casi la regola generale deve sempre rifare sulla concezione binaria e quindi con l’attenzione di entrambi gli elementi costitutivi. La formazione della consuetudine è per sua natura fluida e quindi vi può essere una momentanea tensione tra il precedente modello normativo e l’affermazione di quello nuovo; in nessun sistema giuridico si possono configurare due opposte verità normative. In un sistema dalla struttura anorganica come quello internazionale non è possibile stabilire a livello assoluto la preminenza della precedente regola consuetudinaria o di quella nuova; i due modelli che si contrappongono sono parimenti espressivi di una verità normativa. Nel caso di controversia tra le parti che attuano due opposti modelli normativi andrebbe risolta con un accordo che andrebbe a riflettere il principio dell’unica verità, se quello manchi si deve dare preferenza al modello normativo che denota il maggior grado obbiettivo di effettività nella prassi sociale. Comunque, sia l’accelerazione che la crescente concentrazione delle relazioni internazionali permette di sviluppare una regola consuetudinaria a partire da un testo scritto in qualche modo concordato a livello multilaterale, in questo modo la consuetudine di formazione spontanea è assorbito dall’atteggiamento degli stati di riconoscersi in un modello normativo determinato; ciò relativizza notevolmente l’elemento dell’usus fino ad immaginare regole consuetudinaria di natura quasi istantanea. Il principio secondo cui non si possono presumere restrizioni all’indipendenza degli stati senza il loro consenso viene preservato per effetto dell’acquiescenza (silenzio qualificato) che quei soggetti hanno mostrato nella genesi della regola consuetudinaria; così il giudice internazionale accerta se le parti del procedimento giudiziario osservino un determinato modello normativo o non lo hanno contestato. -Una volta che nasca una consuetudine = si deve fare una differenza tra consuetudine generale e particolare; quella particolare o locale è la consuetudine che vincola solo determinati stati, quella generale vincola tutti gli stati nel diritto internazionale e visto che in genere si parla di norme generalmente riconosciute, quindi consuetudini che vincolano tutti gli stati, significa che quel comportamento che sia nato con errore o no, che sia nato in poco tempo vincolano tutti gli stati. - Obiettore permanente  L'unico modo per non essere vincolato a quella consuetudine è quella di porsi nella condizione di obiettore permanente o persistente --> è un atto unilaterale con cui uno stato dichiara di non voler essere vincolato alla consuetudine ma purché sia accettata dagli altri stati deve essere una dichiarazione tempestiva (sul nascere della consuetudine lo stato deve dire espressamente no), puntuale e deve essere espressa (laddove non si esprima vi è il consenso tacito). Una volta che la consuetudine si sia formata lo stato non può richiamarsi a tale istituto. -La rilevazione della consuetudine avviene sulla base di fatti-prova = insieme di indizi desunti dalla prassi ed idonei a dimostrare l’esistenza delle condizioni costitutive di una norma consuetudinaria; la qualità e quantità dei fatti-prova si commisura in relazione alla natura delle norme, al suo contenuto o agli effetti che conseguono dalla sua violazione. Nella individuazione dei fatti-prova non esistono per l’interprete gerarchie o limitazioni formali, semmai vi sono dei riferimenti alla prassi che vanno comunque compiuti in considerazione del criterio di effettività che permette di tradurre fatti sociali in regole di diritto, parti integranti di un ordinamento giuridico. Se la regola consuetudinaria è ormai consolidata, i richiami potranno essere essenziali quanto basta per provarne tale caratteristica. Per determinare la formazione di una nuova regola consuetudinaria di interesse generale per la società internazionale occorre procedere in primo luogo alla prassi degli stati; per far sì che la prassi possa valere quale elemento costitutivo della consuetudine occorre che si esprima in termini coerenti ed unitari. Per le norme internazionali generali che attengono alla condotta dello stato nei confronti di individui e più in generale di privati, è necessario riferirsi anche a leggi e decisioni giudiziarie nazionali da cui emerge la condotta effettiva seguita dagli organi interni preposti a concretizzare il modello normativo prefigurabile a livello internazionale (ne possono costituire un aspetto qualificato i trattati e la loro cognizione è fatta attraverso raccolte ufficiali). A fatti prova particolarmente qualificati occorre ricondurre la formazione di norme imperative tanto più quando queste costituiscono uno sviluppo ulteriore rispetto a preesistenti norme consuetudinarie generali di analogo contenuto assumendo carattere inderogabile. Data la circostanza che l’art. 53 menzioni solo in riconoscimento di norme ius cogens ad opera degli stati non può certo impedire di considerare anche la prassi delle organizzazioni internazionali; tra le manifestazioni unitarie più significative un rilievo particolare spetta alle risoluzioni del consiglio di sicurezza (una prassi consolidata del consiglio in relazione ad un determinato parametro normativo da far valere erga omnes è indiscutibile indice del suo valore di norma cogente) -Rilevazione fatta anche da vari organismi internazionali, anche di natura non-governativa come la croce rossa, la commissione, la corte interna. di giustizia e la giurisprudenza Trattati La formazione di un trattato attesta in modo puntuale l’avvenuta convergenza di volontà di stati a vincolarsi in ambito bilaterale o multilaterale nelle forme che essi hanno ritenuto di impiegare; la disciplina è stata codificata dalla convenzione di Vienna del ’69 [in base all’art. 1 la convenzione disciplina solo trattati conclusi tra stati, ma nell’86 è stata adottata la convenzione di…. conclusi da organizzazioni internazionali (ancora non in vigore)]. La convenzione del 69 modella prevalentemente la propria disciplina sui trattati bilaterali o multilaterali stipulati secondo la logica sinallagmatica tradizionale del patto con obblighi di natura reciproca; sono stati poco disciplinati i profili specifici del trattato integrale, in cui l’adempimento di una sua parte è il presupposto per l’esecuzione delle altre, scarsa è anche la regolamentazione di trattati che sanciscono obblighi solidali (erga omnes partes) di natura inderogabile ad opera di altri trattati, ed è ignorato il fenomeno dei trattati che creano un regime giuridico obiettivo, vale a dire i trattati-regime aventi efficacia verso terzi. Da questi ed altri aspetti traspare il carattere non esaustivo della disciplina convenzionale, in altre circostanze soccorre il diritto internazionale generale. Art. 26 = Pacta sunt servanda ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede; detta regola secondo la teoria normativista andrebbe postulata come norma-base sulla produzione del vincolo giuridico tra le parti di un trattato, in una successiva configurazione questa stessa regola assumeva valenza consuetudinaria ma anche considerando che la forma giuridica del trattato non è univoca, il diritto internazionale connette l’effetto costitutivo degli obblighi pattizi alla sola intenzione delle parti di vincolarsi in quanto è la loro volontà collettiva il fatto giuridicamente regolato. Quindi l’art. 26 prende in esame la regola rispetto ai trattati già in vigore unicamente per sanzionare loro il mancato rispetto. In considerazione all’autonomia delle parti, la Convenzione del ’69 indica un regime giuridico dei trattati in larga parte derogabile con apposite norme del singolo trattato; convivono anche varie soluzioni normative che tengono conto delle possibili opzioni concrete manifestate dalle parti, a partire dalla forma utilizzata per la conclusione del trattato principio di libertà della forma dei trattati, purché tale procedura sia espressiva del consenso degli stati e pertanto possibili accordi sia scritti che orali purché di provata esistenza. La convenzione però regola gli accordi scritti, a cui i soli si attanaglia l’espressione ‘trattati’ (‘’art. 2 lettera a = accordo internazionale concluso in forma scritta fra stati e regolato dal diritto internazionale, contenuto sia in due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione’’) ma viene applicato anche per analogia a quelli non scritti; ciò però non vale per la procedura di formazione del trattato, in quanto la convenzione si concentra sull’accordo scritto (‘’art. 11 = modi di espressione del consenso ad essere vincolati ad un trattato’’, nel caso in cui venga definito secondo la procedura solenne o ordinaria sono previsti alcuni passaggi quali negoziato, firma, ratifica, scambio o deposito delle ratifiche. Soggetti che possono porre in essere un trattato: Art. 6 ogni stato ha la capacità di concludere un trattato (parallela quella dell’86 richiama tale norma per le organizzazioni internazionali) e fissa un criterio generale su cui non incidono la rottura o l’assenza di relazioni diplomatiche tra stati che intendono stipulare un accordo tra loro (art. 74). Il riferimento allo Stato implica la sua considerazione come comunità giuridica unitariamente organizzata inclusiva degli enti territoriali autonomi ai quali il diritto interno attribuisce la competenza a concludere direttamente un trattato (le regioni ai sensi dell’art. 117 nono comma sono riferibili allo stato in quanto da esso preventivamente autorizzati ed anche le organizzazioni internazionali abilitano organi decentrati a concludere accordi come per le missioni di peace keeping). La conclusione di trattati può altresì avvenire ad opera di soggetti che agiscano erga omnes in rappresentanza dei titolari delle situazioni giuridiche (insorti e movimenti di liberazione nazionale) oltre che alle associazioni multinazionali (OXFAM) Procedimento formazione dei trattati: nel caso il trattato venga definito secondo la procedura ordinaria o solenne, sono previsti alcuni passaggi fondamentali quali: negoziato, firma, ratifica, scambio o deposito delle ratifiche. Per concordare il contenuto del futuro trattato occorre: 1. Negoziato, solitamente svolto direttamente da rappresentanti delle parti abilitati con le credenziali del caso. È principio generale che la decisione di avviare un negoziato comporti l’obbligo per le parti di comportarsi secondo buona fede. 2. Formalizzazione del testo, dopo la conclusione positiva della fase negoziale compresa la versione linguistica che fa fede tra le parti, tramite la sua a) adozione o b) autenticazione. a) L’adozione è normalmente seguita se il testo viene approvato da una conferenza o organizzazione internazionale secondo la procedura del consensus, vale a dire constatando l’assenza di opposizioni, oppure a maggioranza di due terzi dei presenti e votanti (art. 9 Convenzione del 69). b) L’autenticazione avviene, come dettato dall’art. 10 della convenzione, secondo la procedura prevista nel testo medesimo o concordata fra gli stati partecipanti alla elaborazione del trattato oppure, in mancanza di una tale procedura, dalla firma (una volta definito il testo, il trattato viene firmato ad opera di plenipotenziari) o altre forme similari alla prassi diplomatica come la firma ad referendum o ancora dalla parafatura da parte dei rappresentanti di tali stati abilitati mediante i pieni poteri oppure apposite credenziali rilasciate dallo stato o organizzazione di appartenenza (art. 7 indica tali rappresentanti ipso iure che sono il capo di stato e di governo, il ministro degli esteri, il capo della missione diplomatica nonché i rappresentanti stabilmente accreditati da un organizz. interna.) L’effetto della firma varia a seconda che il trattato venga concluso in forma solenne o semplificata. Per i trattati conclusi in forma semplificata la firma ha la funzione di concludere il procedimento di formazione e quindi di esprimere il consenso dello stato ad impegnarsi (art. 12 par. 1 della Convenzione di Vienna). Per i trattati conclusi in forma solenne invece, la firma ha solo la funzione di autenticare il testo. Il consenso dello stato ad impegnarsi è invece espresso da un ulteriore atto, la ratifica o adesione, atto unilaterale rivolto alle altre parti del trattato con il quale uno stato esprime il proprio consenso ad impegnarsi sul piano internazionale. La ratifica può essere sostituita da atti aventi la medesima funzione, quali l’adesione, l’approvazione e l’accettazione (art. 13, 14, 15 della Convenzione di Vienna). Si tratta di atti che spiegano effetti giuridici con lo scambio o il deposito presso un depositario designato a riceverli. Il raggiungimento di un numero minimo di ratifiche per l’entrata in vigore di un trattato è sovente richiesto per trattati multilaterali a carattere universale. Generalmente il depositario ha anche il compito di notificare agli altri Stati il raggiungimento del numero minimo di ratifiche necessarie per l’entrata in vigore. Vi sono trattati che estendono la facoltà di firmare e ratificare il testo anche ad opera di Stati rimasti estranei al procedimento di formazione. Questi trattati sono definiti come “trattati aperti” in contrapposizione ai ‘’trattati chiusi’’ che non ammettono tale facoltà. La scelta fra il procedimento in forma solenne e quello in forma semplificata non è disciplinata da alcuna regola internazionale. Come indicato dall’art.11 della Convenzione di Vienna, i due procedimenti sono anzi perfettamente equivalenti sul piano internazionale. L’equivalenza delle due forme di conclusione di un trattato ha come conseguenza che un trattato concluso in forma solenne potrà essere derogato da uno concluso in forma semplice e viceversa. -La data di adozione o autenticazione costituisce per regola quella ufficiale del trattato, a prescindere dal momento in cui l’accordo entrerà in vigore. Alla firma del trattato seguono alcuni effetti giuridici coerenti con il principio di conservazione dei valori; lo stato o altro ente che ha apposto la firma può anche decidere successivamente di non ratificare il trattato ma non può rifuggire dal significato dell’atto pregresso compiuto, vale a dire di averne autenticato il testo e quindi il suo contenuto. Art. 18  obbligo di non privare un trattato del suo oggetto e del suo scopo prima della sua entrata in vigore e quindi comportarsi secondo buona fede (non deve sembrare generico questo obbligo, poiché vi sono trattati come quelli relativi alla limitazione degli armamenti in cui il contenuto è tale se lo stato firmatario si comporti in buona fede). L’obbligo viene meno se lo stato manifesta espressamente la volontà di non aderire al trattato. consenso rispetto alle disposizioni che li riguardano (secondo l’art. 34) e senza con ciò divenire parte del trattato secondo la definizione di stato terzo dell’art. 2, lettera h. La convenzione distingue se il trattato prefiguri obblighi o diritti per il terzo: Obblighi l’art. 35 richiede l’accettazione dell’obbligo in modo formale e per iscritto dello stato terzo così da poter riscontrare il suo effettivo consenso al formarsi di una nuova situazione giuridica soggettiva passiva e qualora gli stati parti volessero revocare o modificare l’obbligo precedentemente accettato, l’art. 37 richiede ugualmente il consenso dello stato terzo senza specifiche condizioni formali Diritti l’art. 36 dichiara che un diritto per lo stato terzo sorge da una disposizione di un trattato se le parti a questo trattato intendono per mezzo di tale disposizione conferire tale diritto allo stato terzo, o ad un gruppo di stati di cui esso faccia parte, o a tutti gli stati e se lo stato terzo vi acconsente. Il consenso è presunto fin tanto che non vi sia un’indicazione contraria, a meno che il trattato non disponga diversamente. Inoltre secondo l’art. 37,2 il diritto non può essere revocato o modificato dalle parti se risulta che esso era destinato a non essere revocabile o modificabile senza il consenso dello stato terzo. -L’art. 38 definisce l’eventualità che una norma pattizia possa avere efficacia per Stati non parti in quanto espressiva di una regola consuetudinaria di diritto internazionale generale riconosciuta come tale.  Per configurare un regime normativo valido erga omnes se ne deve riscontrare il carattere effettivo della sua opponibilità ai terzi --> in tema di mantenimento della pace la carta Onu attribuisce al Consiglio il potere di coinvolgere soggetti terzi ai sensi dell’art. 2,6.  Effetti erga omnes si ritrovano in trattati che definiscono il regime giuridico internazionale di determinati territori o zone di mare --> riguardo il trattato di Washington sull’Antartide dove aderiscono una minoranza di stati ma con effetti anche per gli stati che non vi hanno aderito, oppure per la convenzione di Montego Bay.  Per quanto riguarda trattati-regime la cui disciplina si estende su altri aspetti di interesse generale della società internazionale --> tutela vita animale e ambientale, disarmo, regime delle comunicazioni o la stessa persona umana (riconoscimento dello status di rifugiato in applicazione della convenzione di Ginevra del ’51); in questo caso sono da considerare validi erga omnes per tutti gli Stati terzi. -Una compressione più netta della libertà di uno stato terzo può avvenire solo se un trattato sia direttamente imposto a quest’ultimo dal Consiglio di sicurezza nell’ambito dei poteri a questo riconosciuti dal capitolo 7 della Carta Onu. È quanto previsto dallo statuto della corte penale internazionale che permette al consiglio di deferire alla corte una situazione che rientra nella giurisdizione di uno stato che non sia parte dello statuto. Criterio generale di successione delle norme nel tempo: art. 30,3 --> tra gli stati parte si applica quello successivo secondo il criterio generale di successione delle norme nel tempo e il trattato anteriore si applica solo se compatibile con quello posteriore. Nel caso di parziale coincidenza tra gli stati parti di trattati contenenti obblighi incompatibili, l’art. 30,4 prevede due soluzioni differenti: a. nei rapporti fra gli stati parti ai due trattati (sia anteriore che posteriore) che si applica quello successivo. b. lo stato parte di entrambi i trattati ma conclusi con Stati diversi applicherà quello che regola i rapporti reciproci con ciascuna controparte, quindi i loro diritti e obblighi reciproci, e rendendo plausibile la violazione del trattato disapplicato; ciò rende il primo stato inadempiente nei confronti di un altro stato e determina la sua responsabilità internazionale (art. 60) e dà modo allo stato contraente del trattato violato di non adempiere invocando la regola ‘’inadimplenti non est adimplendum’’ -Principio dell’unica verità = impone di armonizzare nei limiti del possibile i testi pattizi, derivante sempre dal c.d. principio di conservazione dei valori, e fa sì che l’assunzione di nuovi obblighi da parte di uno stato presume il rispetto di quelli precedenti. Quando ciò non è possibile sovviene: a) Principio dell’integrazione sistematica = art. 31,3 lett. C b) Criterio di specialità = privilegia un trattato in forza della sua specifica attinenza alla materia regolata c) Criterio del trattamento più favorevole = per coordinare obblighi che interferiscono sulla tutela di diritti umani, in modo che lo stato sia vincolato al rispetto della soglia di tutela più elevata che assorbe quella più bassa d) Clausola di compatibilità o di subordinazione (c.d. saving clause) quando le parti enunciano un criterio di coordinamento autonomo con altri trattati e per effetto della quale gli obblighi contenuti in un trattato in cui la clausola sia stata inserita vanno attuati solo se rispettosi del trattato o dei trattati a favore di quali sia stata prefigurata la prevalenza e) La convenzione di Vienna prefigura criteri speciali di coordinamento per i trattati multilaterali l’art. 41 e 58 prevedono accordi tra due o più parti in deroga al trattato multilaterale per sospenderne iter se le disposizioni purché ciò non sia proibito dal trattato; questo regime derogatorio non è praticabile: 1. se pregiudica il godimento dei diritti spettanti agli altri stati nei c.d. trattati integrali la cui applicazione cioè non può essere sospesa nei confronti di singoli stati senza al tempo stesso violare gli obblighi verso le altre parti, 2. sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. f) Art. 103 Onu = primato degli obblighi sanciti dalla Carta rispetto ad obblighi assunti dagli stati membri sulla base di altri trattati. Sovviene anche a norme consuetudinarie e convenzioni di codificazione tranne che per le norme imperative. La norma pattizia, o consuetudinaria, contrastante con la carta va disapplicata e nel caso estremo va denunciato il trattato per la sua incompatibilità. Vengono inoltre compresi a tale primato anche gli obblighi derivanti da decisioni del Consiglio di Sicurezza; l’estensione è data dal combinato con l’art. 25 della carta e dunque riguarda principalmente le decisioni prese dal consiglio di sicurezza nell’ambito del capitolo 7. Lo stesso criterio venne assunto dalla corte intern. di giustizia nel caso Lockerbie (asserendo che la Libia dovesse rispettare la risoluzione n°748/1992 del consiglio in deroga agli obblighi stabiliti dalla convenzione di Montreal in tema di repressione del terrorismo aereo). Riserva dei trattati  definizione art. 2, lettera d= dichiarazione unilaterale con cui lo stato, che si accinge a divenire parte del trattato, ne esclude una o più disposizioni oppure ne modifica il contenuto nei propri riguardi. La facoltà di apporre riserve è data dal diritto internazionale generale: i singoli trattati possono ridurne la portata. L’art. 19 della convenzione disciplina la formazione delle riserve nei trattati a meno che: a) la riserva non sia proibita dal trattato b) il trattato non disponga che possono essere fatte solo determinate riserve consentite c) nei casi diversi da a e b, la riserva non deve essere incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato Questa flessibilità è dovuta innanzitutto al fatto che dopo la seconda guerra mondiale vi fu un incremento del numero degli stati e quindi si è deciso di allargare le opportunità di aderire ai trattati multilaterali dove al momento della negoziazione vari paesi non hanno partecipato ed in secondo luogo è derivata dall’espansione materiale della regolamentazione internazionale. In quanto la disciplina pattizia si articola in rapporti sinallagmatici, la limitazione apportata con la riserva agli obblighi pattizi rileva per lo stato riservante nei rapporti reciproci con lo stato che non l’ha formulata (criterio di reciprocità), nel senso che il secondo è in diritto a svolgere una condotta analoga a quella che impegna il primo stato (art. 21). Lo stato può esprimere la riserva solo in forma scritta, al momento della firma oppure della ratifica o dell’adesione con notifica al depositario. Successivamente alla manifestazione del consenso, lo stato non può più formulare riserve; può solo ritirarle. -Nella prassi sono ammesse riserve tardive subordinatamente all’acquiescenza mostrata da altri stati parti; la competenza a esprimere la riserva, o ritirarla, spetta allo stesso organo che manifesta la volontà dello stato a vincolarsi sul piano internazionale, essendo la riserva parte integrante di quella manifestazione di volontà. L’indicazione espressa dello Stato riservante deve riscontrare il consenso degli altri stati parti salvo che la riserva non sia già espressamente autorizzata dal trattato; tale condizione è in linea di massima inerente al trattato se la riserva vi era già contemplata e quindi l’art. 20 non richiede alcuna accettazione ulteriore, sempre che lo stesso trattato non disponga diversamente. -La riserva ad un trattato nel quale vi siano posti obblighi integrali o inter-indipendenti richiede il consenso espresso di tutte le parti contraenti (art. 20,2), atteso che vi è un interesse diffuso al rispetto del trattato nella sua integralità. Nel caso in cui la riserva non sia riconducibile ad una ipotesi espressamente contemplata dal trattato, l’art. 20 ne prevede la notifica da parte del depositario agli altri stati contraenti e quest’ultimi hanno 12 mesi di tempo per formulare obiezioni sulla sua compatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato. In caso di mancata obiezione, la riserva si deve ritenere accolta, col risultato che il trattato entra in vigore tra le parti suddette nei termini prospettati dalla riserva. -Se lo stato che ha avuto notifica della riserva formula a sua volta un’obiezione alla riserva si aprono due ipotesi: nella prima non è intenzione dello stato obiettore impedire l’entrata in vigore del trattato rispetto allo stato riservante, sicché l’obiezione incide sulla sola norma riservata (‘le disposizioni alle quali la riserva si riferisce non si applicano fra i due stati nella misura prevista dalla riserva’ art. 21,3), nella seconda ipotesi lo stato riservante deve precisare (art. 20,3) che la riserva, incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato, preclude l’entrata in vigore del medesimo tra le parti. La tendenza a preservare l’oggetto e lo scopo del trattato condiziona l’interpretazione della riserva e soprattutto la sua ammissibilità: altrimenti la riserva è suscettibile di essere considerata invalida. -L’esclusione delle riserve si hanno:  nel caso di apporle a trattati istitutivi di organizzazioni internazionali (in ogni caso una simile riserva dovrebbe essere accettata dall’organo competente dell’organizzazione internazionale art. 20,3)  nel caso di singole norme pattizie ricognitive di norme imperative (anche se nella sentenza Congo vs Ruanda, in assenza di contrasto con una norma imperativa di carattere universale, la corte internaz. si è attenuta alla disciplina tradizionale delle riserve)  nei trattati a tutela dei diritti umani è invalsa la valutazione autonoma degli organismi di controllo che tende a restringere l’ammissibilità delle riserve (l’art. 57 della CEDU offre una limitata opportunità agli stati di formulare riserve ed in ogni caso esclude quelle di carattere generale; ha esteso il divieto a riserve nelle quali lo stato riservante operi un riferimento indistinto alla legislazione nazionale. Così è stata considerata invalida la riserva della Turchia alla CEDU volta ad escludere la giurisdizione della Corte europea sulla parte settentrionale dell’isola di Cipro, perché a suo avviso veniva pregiudicata l’uguaglianza tra gli stati parti nella tutela dei diritti umani) Interpretazione dei trattati art. 31 e ss (fino a 33) convenzione Vienna ‘69 Un aspetto fondamentale del diritto dei trattati è la loro interpretazione; le tecniche utilizzabili al riguardo, chiamate criteri ermeneutici, indicate dalla convenzione hanno valenza consuetudinaria tanto che la corte intern. vi fa riferimento per l’interpretazione del suo statuto. In linea generale, la Convenzione di Vienna da questo punto di vista si limita ad indicare quali possono essere i possibili metodi di interpretazione e a stabilire tra loro un ordine di priorità; a) c'è l’interpretazione soggettiva = è quella che da rilievo chiaramente alla volontà delle parti contraenti (common consent), circoscrivendola a ciò che emerge dai lavori preparatori ma l’art. 32 valorizza il metodo soggettivo unicamente in via complementare, vuoi per confermare i risultati già acquisiti con il metodo oggettivo, vuoi per sopperire alle difficoltà di quel metodo nel determinare il significato del trattato b) c’è l’interpretazione oggettiva = l’art. 31,1 indica il metodo letterario ovvero dare rilievo al testo impiegato, il metodo logico-sistematico ovvero dare ai singoli enunciati un significato che tenga conto del contesto in cui essi sono calati in modo tale da dare armonia con le altre norme o prescrizioni nel medesimo trattato, ed il metodo teleologico (o funzionale secondo l’assist.) ovvero che permette di assegnare alle disposizioni pattizie un significato coerente con lo scopo e l’oggetto del trattato. Per ragioni di prevedibilità, il criterio che ha meno esiti controvertibili è quello letterale ma non scevro di difficoltà tanto più che lo stesso ‘’senso ordinario’’ dei termini impiegati nel trattato (specie se sia uno storicamente datato) va comunque contestualizzato alla sua applicazione. Cause di estinzione e di sospensione gli art. 54 e ss. della convenzione Vienna ’69 disciplinano le varie cause di estinzione e sospensione dei trattati andando a precisare nell’art. 42,2 che può avere luogo solo in applicazione delle disposizioni del trattato o della convenzione presente. Diversamente dalle ipotesi di invalidità assoluta, l’estinzione dei trattati ha di norma efficacia irretroattiva (opera ex nunc, vale a dire che giustifica la pretesa estintiva a partire dal momento in cui si concretizza la circostanza giustificativa dell’estinzione); così in forza dell’art. 54 lettera a un trattato si estingue anche al momento del suo termine finale ovvero la data contenuta in quest’ultimo qualora gli stati parti non convengano tempestivamente a prolungarne l’efficacia, se manca un termine finale in ragione del principio di conservazione il trattato si presume di durata permanente, ma secondo la lettera b dell’art. 54 si può estinguere in qualunque momento per consenso di tutte le parti contraenti (l’art. 59 considera tacitamente abrogato un trattato quando tutte le sue parti concludono successivamente un altro trattato che sostituisce ne rapporti reciproci quello precedente). Art. 55 = in coerenza con il principio di conservazione dei valori un trattato multilaterale non si estingue se il numero residuo degli stati parti scenda al di sotto del numero minimo richiesto originariamente dal trattato per la sua entrata in vigore. Sempre in coerenza con il principio di conservazione dei valori la convenzione esclude la facoltà di recesso unilaterale (art. 56,1) a meno che non sia espressamente consentita nel trattato oppure la si possa evincere dalle intenzioni delle parti o dalla natura del trattato = divieto di recesso viene fatto valere per i trattati a tutela dei diritti umani e per trattati che contengono obblighi integrali (restando aperta la possibilità di farlo solo se tutte le altre parti siano d’accordo; in ogni caso il recesso non consente allo stato di violare norme imperative che quel trattato enuncia. Secondo l’art. 56,2 la notifica del recesso deve avvenire almeno dodici mesi prima (termine temporale non esprime però una regola generale). Art. 58 = si può procedere alla sospensione concordata tra due o più parti di un trattato solo se ciò sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato oppure se non pregiudichi i diritti delle altre parti contraenti. -La convenzione di Vienna prende poi in considerazione una serie di circostanze esterne al trattato che possono estinguerne in tutto o in parte l’efficacia normativa (si tratta di cause estintive presenti nel diritto internazionale consuetudinario, che derogano al principio di conservazione dei valori): · art. 61= ipotesi di impossibilità sopravvenuta di esecuzione del trattato; una parte può invocarlo se questa impossibilità risulta dalla scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto essenziale all’esecuzione del trattato e se è temporanea può essere invocata solo per sospendere il trattato. Il comma 2 dice che non può essere invocata se tale impossibilità deriva dalla violazione compiuta dalla parte che invoca di un obbligo di un trattato e di qualunque obbligo internazionale a danno di una qualsiasi parte del trattato. · art. 62= ipotesi di mutamento fondamentale delle circostanze; questo fattore estintivo va tenuto distinto dallo stato di necessità quale circostanza esimente dell’illecito, poiché incide direttamente sulla fonte normativa dell’obbligo qualora il mutamento sopravvenuto determini una radicale trasformazione delle condizioni originarie alla base del trattato (rebus sic stantibus). Queste circostanze diventano rilevanti solo se modificative di quelle che originariamente avevano costituito la ‘base essenziale’ del consenso delle parti a vincolarsi al trattato; il fattore di mutamento rilevante quale causa di estinzione del trattato può essere espressamente configurato oppure rimesso alla valutazione di un meccanismo di controllo. · art. 63= ipotesi di rottura delle relazioni diplomatiche o consolari; non incide sul rispetto degli obblighi pattizi la rottura delle relazioni diplomatiche o consolari a meno che tale evento sia pertinente per l’oggetto e lo scopo del trattato e che l’esistenza di tale relazione è indispensabile per l’applicazione del trattato. Nel diritto internazionale contemporaneo la guerra tra stati non è motivo di per sé sufficiente per l’estinzione dei trattati, come invece veniva sovente asserito in quello classico; il principio di conservazione dei valori vale per ogni trattato previgente tra stati in conflitto armato, a meno che non sia lo stesso trattato a configurare, sia pur in modo implicito, la facoltà di farne valere l’estinzione o la sospensione in considerazione sia della natura che delle dimensioni del conflitto oppure se tale evento configuri un mutamento fondamentale delle circostanze che rimuove in modo imprevisto la base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi. Facoltà che è posta solo dallo stato che abbia legittimamente avviato un intervento umanitario. (il progetto del 2011 nel relativo art. 7 ha elencato una lista indicativi di trattati che in relazione al loro oggetto continuano ad essere vigenti, in tutto o in parte, durante un conflitto armato, includendovi la tutela dei diritti umani fondamentali e la soluzione pacifica delle controversie) · art. 64= per una diversa esigenza di coerenza ordinatoria, la sopravvivenza di una norma imperativa di diritto internazionale generale (ius cogens superveniens) contrastante con il trattato ne sanziona l’estinzione ex nunc (come per l’art. 53 non possono essere ricondotte norme imperative di carattere regionale anche se la CEDU ritiene di poter accertare la validità di impegni pattizi che lo stato parte della CEDU abbia contratto in precedenza). La conseguenza prefigurata nel 64 è inerente alla natura della nuova norma imperativa che imponendosi in ogni caso per la sua superiore valenza precettiva rispetto al trattato legittima la condotta ad essa conforme preservandone diritti legittimamente acquisiti (leggere art. 71,2). · art. 60= contempla infine la facoltà per una delle parti di non continuare ad adempiere in tutto o in parte agli obblighi pattizi unicamente per reagire all’inadempimento della controparte di quello specifico trattato (inademplenti non est adimplendum). L’art. 60 fa rientrare nella regola dell’inadimplenti la sospensione del trattato e anche la sua estinzione (secondo il progetto della commissione del diritto internazionale sulla responsabilità interna. dello stato per fatti illeciti del 2001 le reazioni all’illecito devono essere funzionali ad assicurare l’effettività della norma violata, consentendo al più la sua sospensione temporanea) --> al comma 2 dispone che in caso di trattato multilaterale è richiesta la decisione collettiva di tutte le parti contraenti (lettera a) mentre la parte colpita ‘in modo particolare’ dall’inadempimento può procedere autonomamente alla sospensione. Al comma 3 definisce la violazione sostanziale o material breach come un ripudio del trattato non autorizzato dalla presente convenzione, oppure per la violazione di una disposizione essenziale per il raggiungimento dell’oggetto e dello scopo del trattato e comunque, specificato nel comma 4, che non pregiudichi quelle disposizioni che siano applicabili in caso di violazione. Deve escludersi il ricorso all’inadimplenti se la condotta della controparte sia dovuta ad una causa lecita in base al diritto internazionale generale. In quanto l’autotutela collettiva è esercitata dal consiglio di sicurezza, spetterà a questo decidere sul ricorso all’inadimplenti anche con riguardo al mancato rispetto degli obblighi da esso imposti. Al comma 5 si dice che la sospensione non può essere in ogni caso invocata per obblighi di carattere umanitario quindi relative alla tutela della persona umana. Procedura di denuncia delle cause di invalidità ed estinzione Art. 65 e ss della convenzione Vienna 69 --> stabiliscono una procedura unica per invocare le cause di invalidità o di estinzione del trattato; se la stessa parte invoca più cause deve darsi preferenza a quelle di invalidità. La procedura per accertare l’esistenza delle cause di invalidità o estinzione consente di definire tra le parti le conseguenze dell’evento ‘patologico’ sul trattato; se non si trova alcuna risoluzione dovrebbe prevalere il principio di conservazione almeno fintanto che non si manifesti un diverso giudizio di valore ad opera della società internazionale nel suo insieme. L’interesse ad agire è riconosciuto dalla convenzione alle sole parti del trattato. Le regole generali di certezza del diritto escludono che lo stato possa attivare la procedura se l’abbia in precedenza considerato valido, si sia mostrato acquiescente oppure abbia rinunciato a sollevare la questione oppure abbia rinunciato a sollevare la questione (art. 45); lo stato che può far valere le cause di invalidità o estinzione deve fare la denuncia del trattato alle altre parti (la convenzione non indica un tempo ma si presume non debba essere un tempo troppo lungo perché in quel caso si presenterebbe una condizione di acquiescenza al riguardo). La notifica della causa di invalidità o estinzione deve essere necessariamente scritta (art. 67) ed espressa da un organo dello stato a ciò abilitato. L’art. 65,2 prevede che la denuncia abbia effetto se entro tre mesi dalla sua notifica non vengono sollevate obiezioni degli altri stati; in caso contrario sorge una controversia da comporre tra le parti con mezzi pacifici. Qualora non si addivenga ad un accordo in proposito, la convenzione (art.66) prevede l’avvio di una procedura di soluzione delle controversie che vincola i soli stati parti; nell’eventualità di un contrasto del trattato con norme imperative, è possibile attivare il procedimento dinanzi la corte interna. di giustizia se le parti ne abbiano riconosciuta la competenza. -Relativi effetti --> L’art. 69,2 lettera b e l’art. 70 lettera b fanno salvi gli effetti giuridici acquisiti in forza del trattato prima che si fosse manifestata la causa di invalidità o estinzione, per cui le relative conseguenze non sono retroattive (operano ex nunc). Aderendo al principio di conservazione dei valori, l’art. 44,3 limita l’effetto estintivo alle singole norme su cui incide la causa di invalidità o di estinzione purché separabili dal resto del trattato e sempre che non ne abbiano costituito la ‘base essenziale’ per il consenso, ma secondo l’art. 44,5 stabilisce che nei casi contemplati dagli art. 51, 52, 53 non è ammessa alcuna divisione delle disposizioni del trattato e quindi stabilisce la nullità con effetti retroattivi (ex tunc) sull’intero trattato; questo perché viziano ab origine il momento genetico del trattato. Non vi è ragione di applicare la stessa conseguenza nell’ipotesi in cui singole disposizioni del trattato contrastino con una norma imperativa precedente (soluzioni della convenzione contrapposta al principio di conservazione dei valori = art. 64 e art. 71,2) Criterio di continuità nella successione dei trattati art. 73 lascia impregiudicata la questione della vigenza del trattato in caso di successione fra stati (distacco, smembramento, fusione); è rispetto alla nuova entità internazionale che va stabilito se ed in che modo rilevi nei suoi confronti il trattato concluso dallo stato precedente. Le regole generali sulla successione degli stati ai trattati sono state oggetto di codificazione nella convenzione di Vienna del ’78 entrata in vigore il 6 novembre dell’96; vi si prefigura una diversa disciplina secondo che gli stati di nuova formazione siano o meno espressione del processo di decolonizzazione. Per i paesi decolonizzati (gli stati di nuova indipendenza) si segue il criterio della tabula rasa, ma nel senso che lo stato di nuova indipendenza ‘non è obbligato’ a mantenere in vigore tutti gli obblighi pattizi che facevano capo alla potenza coloniale preesistente. Per i trattati multilaterali lo stato di nuova indipendenza deve fare una notifica di successione presso il depositario, per i trattati bilaterali la continuità si presume semplicemente da fatti concludenti; in aderenza a tale approccio consensualistico lo stato di nuova indipendenza potrebbe formulare proprie dichiarazioni o riserve nel momento in cui subentra al trattato. Per gli stati di nuova formazione la convenzione del ’78 stabilisce come criterio la regola della continuità dei trattati con l’inevitabile esito che lo stato subentrante non può apportare nuove riserve. Atti unilaterali  sono determinazioni riferibili ad un solo soggetto e suscettibili di produrre vari effetti normativi (costituzione, modificazione, estinzione e conservazione dei rapporti giuridici) e soltanto in parte sono riconducibili al regime giuridico dei trattati. Le tipologie possono essere: I. riconoscimento (che determina l’effetto estoppel) II. rinuncia (priva lo stato di una facoltà o un diritto) III. protesta (che preclude l’acquiescenza) IV. promessa L’art. 38 dello statuto non fa menzione degli atti unilaterali quali fonte normativa autonoma. Ne vanno altresì esclusi: i. atti unilaterali che siano solo fatti-prova di una regola consuetudinaria ii. determinazioni fatte da un soggetto internazi. in modo autonomo ma facendo uso di facoltà attivo o passive già prefigurate da norme consuetudinarie o trattati o norme da esse derivate iii. la riserva, che non viene considerata come atto unilaterale in quanto la facoltà di apporla è data dal trattato stesso o dal diritto generale internazionale iv. quegli atti unilaterali posti in essere da uno stato in violazione di obblighi internazi. L’atto unilaterale non può imporre obblighi ad uno stato terzo senza il suo consenso ma invece determina obblighi per lo stato che lo pone in essere se considerato come vincolo idoneo a creare una nuova condizione nella sfera di libertà di quello stato, in quanto tale sfera giuridica è di titolarità di quello stato senza alcun bisogno di acquiescenza di terzi né subordinando tale condizione normativa in una di reciprocità. Nel 2006 la commissione del diritto internazionale ha adottato i ‘’principi guida’’ applicabili alle dichiarazioni unilaterali idonee a creare obblighi giuridici avendo riguardo soprattutto della promessa 6 . 6 con tale atto finale lo stato si impegna a costituire nuove situazioni giuridiche soggettive passive in capo a sé stesso nei confronti di uno o più stati senza che tale impegno sia subordinato ad una forma di consenso da parte loro. il 5 gennaio 2020, a seguito dell'uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani in un raid statunitense ordinato da Donald Trump e a seguito dell'inefficacia dell'Unione Europea nel cercare di contrastare le sanzioni americane, l'Iran annuncia che riprenderà l'arricchimento dell'uranio «senza restrizioni in base alle sue esigenze tecniche». DIFFERENZA TRA OBBLIGHI ERGA OMNES E OBBLIGHI IUS COGENS C’è una profonda differenza. Quando noi analizziamo una norma giuridica lo facciamo con riferimento a due profili: 1) contenuto (ovvero quale disciplina che una certa norma dà alla fattispecie concreta) 2) effetti (quali sono gli effetti che derivano dalla violazione od osservanza) La risposta a questa domanda la dà una famosa sentenza, il caso Barcelona Traction (1970). La corte internazionale di giustizia ha, in primis, distinto due grandi categorie di norme: - norme che per loro natura hanno un’efficacia reciproca tra le parti - norme che non riguardano solo gli obblighi bilaterali, ma è erga omnes. Queste norme hanno una importante caratteristica sotto il profilo del contenuto, in considerazione del bene oggetto di tutela si indirizza nei confronti della comunità internazionale, oppure di una certa comunità internazionale ristretta ‘’erga omnes partes’’. Tale indirizzamento alla comunità fa sì che gli stati hanno diritto di esigerne l’osservanza. (ps. Esempio di erga omnes partes la convenzione europea dei diritti dell’uomo) Sul piano dei contenuti le due tipologie di norme si trovano, ma per quanto riguarda gli effetti no; la violazione di una norma del diritto cogente porta l’invalidità del trattato mentre la violazione della convenzione UE non porta all’invalidità del trattato, piuttosto ad una conseguenza congiunturale diversa ovvero il diritto per ogni stato di invocare non l’invalidità ma l’osservanza del diritto violato. (art. 53 conve. Vienna = invalidità per la violazione di una norma ius cogens. Nel caso di violazione di norme erga omnes le conseguenze sono tante ma mai l’invalidità del trattato) IL PROBLEMA DELL'ADATTAMENTO DEL DIRITTO INTERNO A QUELLO INTERNAZI. Questa operazione trova due grosse problematiche:  il metodo, ossia i mezzi che lo stato adotta per introdurre le norme del diritto internazionale nell’ordinamento  il rango che le norme internazionali hanno nella gerarchia delle fonti In riferimento al rapporto del diritto interno e il diritto internazionale, storicamente, si sono formate due correnti di pensiero: --> Monista = il diritto interno e quello internazionale rappresentano un ordinamento giuridico unico; il diritto interno ha il suo fondamento in quello internazionale. Non vi è nessuna necessità ad adattare il diritto interno a quello interna.; è direttamente efficace quest'ultimo in quello interno. La teoria monista ha due sottocategorie: 1. monista nazionalista 2.monista internazionalista 1) Il suo principio cardine è quello della supremazia del diritto interno rispetto a quello internazionale; quest'ultimo non rappresenterebbe un corpo di norme giuridiche vincolanti ma semplicemente un insieme di linee di comportamento cui è interesse dei singoli stati dover adattarsi al diritto internazionale. Ovviamente questa teoria ha come presupposto ideologico un estremo nazionalismo ed un estremo autoritarismo. 2) Parte da un presupposto contrario; prevalenza del diritto internazionale rispetto al diritto interno. In questo modo l'ordinamento giuridico è visto come una piramide; all'apice vi è il diritto internazionale (Kelsen), di conseguenza essendo posto all'apice non soltanto è direttamente applicabile rispetto a tutti gli altri ordinamenti giuridici ma quest'ultimi sono sottoposti al diritto internazionale quindi significa che le norme interne devono essere necessariamente conformi al diritto internazionale che ha una supremazia dato che gode di un rango superiore e tutte le norme sottostanti contrarie devono essere eliminate dall'ordinamento. In riferimento al presupposto ideologico è quello dell'internazionalismo e del pacifismo; non ha un fondamento scientifico molto radicato questa teoria ma è più rispondente ad un tipo di valutazione morale e politico. Altro presupposto è che i soggetti del diritto interno e del diritto internazionale non differiscono; i soggetti del diritto interna. sono gli stati mentre nel diritto interno il soggetto destinatario finale è l'individuo e le norme giuridiche regolano i rapporti tra lo stato e l'individuo. Secondo questa teoria non vi è differenziazione perché i destinatari finali sono sempre gli individui. --> Dualista = il presupposto fondamentale è quello della separazione, della distinzione tra l'ordinamento statale e l'ordinamento internazionale quindi questo significa che l'ordinamento statale è originario; distinto da quello internazionale, non trovandone fondamento (in Germania Triepel, in Italia Santi romano e propugnata da Anzilotti e Perassi). Secondo questa teoria il diritto internazionale differisce rispetto al diritto interno per tre aspetti:  per i soggetti (stati per diritto intern., individui per diritto interno)  per l'oggetto (contenuto delle norme giuridiche; per quelle interna. sono quelle delle relazioni fra gli stati, per quelle interne il contenuto è quello delle relazioni tra stato e individui)  per le fonti di produzione normative (la fonte normativa principale nel diritto interna. sono i trattati e gli accordi tra stati oltre il diritto consuetudinario mentre nel diritto interno sono le leggi ordinarie ecc..). Proprio da tale teoria nasce il problema riguardante l'adattamento del diritto interno a quello internazionale dato che in quella monista si ha un unico ordinamento. Questa teoria è stata seguita per molto tempo principalmente dai paesi anglosassoni e anche la dottrina e la giurisprudenza italiana hanno seguito per lungo tempo questo tipo di teoria; storicamente l’Italia, anche per come è strutturato l'ordinamento e per quella che è la tradizione giuridica, ha privilegiato da sempre la teoria dualista. Ultimamente però qualche autore ritiene che ci sia una diversa propensione verso la teoria monista internazionalista; sempre più spesso il giudice interno (e quindi il principale interprete delle norme giuridiche statali) fa riferimento durante l'interpretazione e applicazione delle norme a norme internazionali specialmente per trovare un'interpretazione della norma interna che sia il più possibile conforme alla norma internazionale (la utilizza come ausilio nell'interpretazione, soprattutto in quelle evolutive). Adattamento --> per adattamento significa il processo attraverso il quale una norma di diritto internazionale diviene efficace e dispieghi i suoi effetti all'interno dell'ordinamento interno. Non esiste una disciplina generale sull'adattamento; vi è un obbligo generale di dover procedere all'adattamento del diritto interno a quello internazionale ma, più che altro, è interesse di ogni stato nel momento in cui fa parte di una comunità internazionale di trovare il meccanismo per rendere efficaci quelle norme all'interno del proprio stato. Ovviamente esiste in astratto un obbligo internazionale di adattare i trattati e, comunque, il diritto internazionale all'interno dell'ordinamento giuridico nazionale e astrattamente costituisce un illecito internazionale, nel senso che uno stato potrebbe agire per far valere la violazione di quest'obbligo però per prassi questo non succede perché c'è una sorta di rispetto per gli affari interni degli altri stati. Dal momento che non vi è una disciplina unica è chiaro che ogni paese adotti il proprio modo. In Italia:  procedimento ordinario  vengono riformulate le regole internazionali in un atto interno, appunto ordinario, perché assunto secondo le modalità normalmente richieste dall’ordinamento per disciplinare in modo compiuto una data materia nella forma richiesta dal diritto interno7. Tuttavia, questo procedimento, oltre che essere laborioso, presenta il rischio che l’attuazione dell’obbligo avvenga in maniera imprecisa dato che il legislatore può sovrapporre delle proprie indicazioni non esattamente in linea con l’obbligo stesso8. 7 viene utilizzate per l’attuazione di regole non vincolanti o per l’attuazione di obblighi internazionali che richiedono un’autonoma disciplina legislativa nazionale, dato che in ambito di materie penali sovviene l’esigenza di determinatezza della fattispecie -art. 25 cost, oppure per le ‘’regole di ingaggio’’ (direttive emanate in via amministrativa falle autorità politiche e militari dello stato per stabilire circostanze e modalità per l’uso legittimo della forza da parte dei militari italiani) 8 il pregiudizio che ne deriva è quello che non si ha una perfetta aderenza tra l'ordinamento interno e l'ordinamento internazionale nel senso che mentre con un adattamento mediante rinvio nel momento in cui per esempio una norma di diritto internazionale si estingue e quindi viene abrogata, automaticamente viene abrogata anche nel diritto interno perché facendo rinvio a quella norma si fa rinvio non soltanto al suo contenuto ma anche a tutte le vicende che riguardano quella norma. Con tale procedimento tutto ciò non succede perché nell'atto pratico esiste una norma che contiene una norma internazionale, se tale norma dovesse estinguersi ovviamente per poterla abrogare all'interno  procedimento speciale o mediante rinvio  la norma nel diritto interno si limita sostanzialmente ad ordinare, ad imporre allo stato, l'esecutività di quella norma di diritto internazionale cui fa rinvio. Non contiene al suo interno il contenuto della norma internazionale, non traspone il contenuto della norma internazionale, ma fa rinvio9. Quindi non c'è un passaggio di mezzo; è più originario perché non c'è uno stato in mezzo alla norma che debba tradurre o trasferire il contenuto di quella norma. Tipico esempio è l'art. 10 comma 1 della Costituzione secondo il quale l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che poi è il diritto consuetudinario; attraverso tale articolo si impone che lo stato italiano si conformi alle norme di diritto consuetudinario cui si fa rinvio quindi in questo modo tutte le norme di diritto consuetudinario entrano sostanzialmente all'interno del diritto nazionale L’art. 10 cost. è stata il frutto di un dibattito tra 4 internazionalisti italiani; l’assemblea costituente premiò la proposta Ago-Morelli, su suggerimento di Perassi e quindi un maggior rigore dualista che monista. L’art. 10 venne quindi considerata come un ‘’trasformatore permanente’’ ovvero una norma che crea nell’ordinamento interno tutte le condizioni necessarie affinché la norma internazionale entri, si trasformi e si estingua. Come cita la norma, l’ordinamento italiano si conforma automaticamente alle sole norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, e non solo suggella a livello costituzionale il ‘’principio conformativo’’ ma impone che alla norma di diritto internazionale generale si accosti quella di adattamento a norma di rango costituzionale. Tecnica del rinvio mobile = l’art. 10 --> stabilisce una volta per tutte l'adattamento del diritto internazionale presente e futuro, quindi impone allo stato di applicare le norme di diritto internazionali attuali e successive; viene consentita una incorporazione automatica del diritto interno a quello internazionale perché il diritto interno segue l'evoluzione di quello internazionale, quindi è: a) automatico (o continuo), ovvero investe permanentemente ogni norma generalmente riconosciuta che si manifesti come tale nel diritto internazionale. Si deve trattare di norme valevoli per tutti i membri della comunità internazionale perché contengono le regole fondamentali dirette ad assicurare una civile coesistenza. Inoltre, la norma non contiene limiti ratione materiae al rinvio e quindi include norme internazionali generalmente riconosciute in materia costituzionale, compresa la tutela dei diritti umani b) immediato, perché l’attuazione della norma di diritto internaz. generale nell’ordinamento interno avviene contestualmente alla sua formazione nell’ordinamento d’origine e senza che vi si frappongono le puntuali condizioni poste dall’art. 11, anche le modifiche della norma consuetudinaria generalmente riconosciuta nel suo ordinamento d’origine c) completo, perché ne trae dall’ordinamento d’origine non solo il contenuto ma anche la peculiare valenza precettiva; il giudice nazionale deve distinguere, in relazione alla gerarchia delle fonti di diritto internazionale, una norma consuetudinaria derogabile dalla norma imperativa che invece non lo sia e apprezzarne le conseguenze anche sul piano ‘’individuale’’ Infine, l’art. 10 secondo comma impone agli organi politici il vincolo costituzionale a regolare con legge la condizione giuridica dello straniero in conformità delle norme e dei trattati internazionali. L’art. 11 però si discosta dalla teoria dualista tradizionale in particola modo quando consente limitazioni di sovranità in condizione di parità con gli altri stati, necessarie per un ordinamento che assicuri la pace e giustizia fra nazioni; in questi termini l’art. 11 si prospetta come sola norma nella Costituzione che pone il coordinamento tra diritto interno e diritto internazionale nei termini propri della dottrina ‘’istituzionale’’ di Santi Romano10. Con tali presupposti, l’art. 11 comprende ogni dimensione organizzata ed ordinante della dello stato sarebbe necessaria un'altra legge cioè una legge ad hoc che abroghi la precedente perché nella forma la forma di adattamento è identica a qualunque altra norma, quindi non segue le vicende della norma di diritto interna. e non viene assicurata la genuinità e l'originarietà di quella norma perché non è l'interprete che deve verificare l'esistenza e l'interpretazione di quella norma perché diventa sostanzialmente una norma di diritto internazionale 9 Esempio: ordine di esecuzione di un trattato, cioè esiste una norma in cui si dice che si dà attuazione di quel trattato...in questo modo è l'interprete di diritto interno che si deve far carico sostanzialmente non soltanto di individuare la norma nella sua materialità cioè nella sua oggettività ma anche di interpretarla alla luce dei principi della comunità internazionale e in questo modo è come se venisse sostanzialmente assicurata la genuinità perché si fa riferimento direttamente alla norma all'interno della fonte, all'interno della comunità in cui è stata creata SELF EXECUTING Le norme idonee a disciplinare direttamente rapporti giuridici interni sono dette self executing. L' idoneità di una norma ad essere applicata a rapporti interni si desume dalla completezza di contenuto dispositivo dal quale se ne ricava la disciplina. Se la norma non ha un contenuto idoneo a disciplinare rapporti soggettivi interni, essa si dirà non self executing e non potrà essere applicata direttamente dagli operatori giuridici interni, poiché per la sua attuazione è necessario l'intervento del legislatore. L'ordine di esecuzione le conferisce carattere normativo consentendogli di produrre effetti nell’ordinamento, ma non ha completezza di contenuto tale da poter essere utilizzata per disciplinare direttamente rapporti giuridici individuali. Essa infatti può essere utilizzata sia a fini interpretativi sia allo scopo di costituire il parametro di validità di norme inferiori. La nozione di norma self executing è stata distorta rispetto al suo contenuto originale ed è stata utilizzata per impedire che il diritto interno possa fungere da strumento di garanzia del diritto internazionale. Un contributo decisivo è venuto dalla giurisprudenza di alcuni giudici interni secondo i quali, per valutare se una norma internazionale ha carattere self executing non è sufficiente guardare alla sua completezza espositiva, ma occorre valutare se essa è stata posta in essere al fine di disciplinare direttamente fattispecie interne. Questo orientamento emerge da due linee giurisprudenziali: 1. La corte di giustizia dell'unione europea ha costantemente negato che l'accordo generale sulle tariffe e sul commercio [G.A.T.T General Agreement on Tariffs and Trade] possa essere applicato nell'ordinamento interno nonostante le sue disposizioni siano formulate in maniera tale da poterne dedurre una disciplina applicabile ai rapporti individuali poiché affidare al giudice interno la garanzia dell'attuazione delle decisioni giudiziarie del OMC, comporterebbe un'alterazione dell'equilibrio normativo sotteso a tali accordi, poiché gli Stati parte hanno espresso la volontà di affidare la garanzia della osservanza degli accordi contenuti nel OMC unicamente a dinamiche strumenti di garanzia di tipo internazionale. 2. In una seconda linea giurisprudenziale la corte di giustizia ha indicato che l'effetto diretto di un accordo consegue alla intenzione delle parti di conferire diritti e obblighi a favore di individui. Prima di applicare un accordo nei rapporti interni il giudice dovrebbe verificare se sulla base dell'oggetto del trattato e dell'intenzione delle parti, questo è stato concepito come norma destinata ad operare solo sul piano dei rapporti fra Stati, oppure anche al fine di disciplinare rapporti giuridici individuali. Un ulteriore orientamento tendente a ridurre l'impatto del diritto internazionale nell'ordinamento interno si è affermato negli Stati Uniti d'America. Nel caso dei trattati sui diritti dell'uomo gli Stati Uniti hanno apposto una riserva interpretativa secondo la quale tali convenzioni non sono di natura tale da spiegare effetti diretti nell'ordinamento interno. La corte di cassazione ha menzionato la circostanza che sono gli stessi trattati a strutturare i procedimenti per accertare le violazioni, a prevedere le sanzioni in caso di responsabilità e a indicare le corti internazionali competenti. La giurisprudenza interna ha utilizzato tre diversi argomenti per evitare l'applicazione interna di norme internazionali:  L'esigenza di mantenere la reciprocità fra le parti  L'esigenza di non alterare il sistema di garanzia disposto a livello internazionale  l'esigenza di non alterare il contenuto interstatale delle norme. Questi argomenti hanno nucleo comune: tendono a sottolineare l'esigenza che l'applicazione interna non alteri la natura e il contenuto delle norme internazionali. La dottrina prevalente a sottolinearlo come l'applicazione ad opera degli ordinamenti nazionali costituisca la forma naturale di garanzia delle norme internazionali. L'applicazione ha un doppio effetto: da un lato essa tende ad aprire l'ordinamento interno ai valori espressi dalle norme internazionali, dall'altro ha l'effetto di assicurare l'effettività delle norme internazionali attraverso rimedi interni. Riguardo il problema dell'adattamento degli atti delle organizzazioni internazionali, come si adattano nell'ordinamento interno le decisioni delle organizzazioni internazionali? Solitamente gli ordinamenti giuridici non contengono delle disposizioni specifiche in materia a parte la Spagna, la Francia, l'Olanda e la Grecia; ovviamente se un trattato dispone espressamente la diretta applicabilità delle decisioni degli organi all'interno dello stato, nulla questio... nel senso che è lo stesso stato a stabilire la diretta applicabilità. Se invece questo non è previsto secondo alcuni sono necessari degli specifici atti, quindi sempre attraverso il meccanismo ordinario o il rinvio, secondo altri invece il contrario perché la ratifica di un trattato reca con sé anche l'aspettativa che le decisioni vincolanti degli organi siano rispettate. Per prassi vengono sempre adottati dei singoli atti per recepire gli atti dell'organizzazione internazionali. -Per quanto riguarda l’adattamento delle sentenze delle corti internazionali, abbiamo due tipologie di norme: a) norme di natura nazionale = art. 10, 11, 117 b) norme di natura internazionale = art. 94 carta Onu (obbligo di adattamento di ciascuno stato membro Onu alle sentenze della corte, ed inoltre qualora lo stato soccombente non dovesse rispettare quelle che sono le sentenze la controversia si porta di fronte al consiglio di sicurezza caso Nicaragua) e art. 59 dello statuto della corte interna. (l’obbligo riguarda solo le parti in causa) Nonostante non siano appellabili le decisioni della corte, sia quelle della Cedu che di quest’ultime possono essere sottoposte ad un processo di revisione qualora dovessero venir fuori, a sentenza emanata, degli elementi che se fossero stati noti all’epoca della sentenza avrebbero modificato l’esito. CASO RUSSEL (1979) Il colonnello Russel, addetto militare dell’ambasciata canadese a Roma, aveva in affitto un appartamento di proprietà della società immobiliare Soblin. Viene convenuto in giudizio per il mancato pagamento di canoni di locazione arretrati e oppone il difetto di giurisdizione del giudice italiano poiché, essendo diplomatico, godeva dell’immunità dalle giurisdizioni in virtù di una norma internazionale generale in base alla Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche. Il giudizio si era svolto davanti al tribunale di Roma, il quale Il Tribunale di Roma sollevava dinanzi alla Corte la questione dell’incostituzionalità della norma sull’immunità diplomatica per contrasto con l’art. 24 della Carta costituzionale ovvero la disposizione che sancisce il diritto alla tutela giurisdizionale. La corte costituzionale ha risposto affermando che l’ordinamento italiano si è conformato, ancor prima dell’entrata in vigore della Costituzione, alla norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta che ha sancito l’obbligo per gli stati di riconoscere l’immunità reciprocamente ai propri rappresentanti diplomatici; questa immunità è riconosciuta non solo in qualità di organo dello stato straniero ma anche per la propria attività privata, al fine che questo possa compiere il proprio ufficio. La corte ritiene che il contrasto della questione con le norme costituzionali sia solo apparente e risolvibile col principio di specialità, infatti le deroghe alla giurisdizione derivanti dall’immunità diplomatica non sono incompatibili con le norme costituzionali invocate, poiché necessarie all’espletamento della missione diplomatica. La corte costituzionale dichiara dunque infondata la questione di legittimità. IMMUNITA’ DALLA GIURISDIZIONE Regole pattizie come la Convenzione europea sull’immunità degli stati del ’72 (non in vigore per l’Italia) disciplinano l’esercizio della giurisdizione civile nei confronti di uno stato estero. L’adozione da parte dell’assemblea generale dell’Onu della Convenzione di New York del 2004 sulle immunità giurisdizionali degli stati e dei loro beni per quanto non ancora in vigore (adesione depositata dall’Italia il 6 maggio 2013) permette di rinvenirvi alcune regole generali sufficientemente definite e codificate. Par in parem non habet jurisdictionem --> ‘’non si ha giurisdizione tra eguali’’, gli enti sovrani non possono essere convenuti in giudizio davanti ai tribunali di un paese straniero, salvo il loro consenso. L’immunità dalla giurisdizione civile dello stato estero si configura quindi fin dall’inizio come una condizione di non procedibilità nei suoi confronti davanti al giudice di un altro stato. Le attività statali si suddividono in: - attività iure imperii = atti compiuti dallo stato nell’esercizio delle funzioni pubbliche vi è l’immunità - attività iure gestionis =atti con natura privatistica in quanto lo stato opera come normale operatore economico. Sono essenzialmente; stipulazione di un contratto da parte dello stato B allo stato A e poi non viene rispettato, azioni successorie, controversie di lavoro  non vi è immunità. Esiste una casistica individuata nella convenzione di Basilea, che sposa il cosiddetto ‘’metodo della lista’’, ma la complicazione sta nel fatto che non sempre è facilmente individuabile (caso Borri vs Argentina) Esempi di immunità delle attività iure imperii --> Tragedia del Cermis Caso guerra del golfo (Giuliana Sgrena) Caso Enrica Lexie Caso Rainbow Warrior IMMUNITÀ DALLA GIURISDIZIONE DEGLI ORGANI DI STATO (art. 4 paragrafo 2 progetto di articoli) L’organo diplomatico è colui il quale rappresenta il proprio stato sul territorio di uno stato straniero, le norme che disciplinano lo status, i privilegi e le prerogative del personale diplomatico sono contenute nella Convenzione di Vienna del 1961 in materia sulle relazioni diplomatiche e consolari:  immunità funzionale = è goduta dall’organo di stato per ogni atto connesso alla funzione di diplomatico e dunque nell’esercizio di funzioni di governo riconducibili, in modo pubblico e diretto, all’apparato dello stato in base a norme del suo diritto interno (caso marò per parlare dell’immunità). La particolarità sta nel fatto che questa immunità è perenne, non cessa al finire del mandato. Non sottrae alla giurisdizione penale se la persona è accusata di crimini internazionali di individui e non può essere invocata tale immunità se lo stato non lo avesse preventivamente autorizzato. I c.d. private contractors impiegati nei conflitti armati, proprio perché estranei all’apparato istituzionale dello stato (in senso lato), essi non beneficiano della regola generale dell’immunità funzionale a meno che non vi siano disposizioni speciali.  immunità personale = riguarda tutti gli atti e fatti compiuti in qualità di privato, che non riguardano l’esercizio della funzione ed è circoscritta per i soli organi costituzionalmente rilevanti o ad essi assimilabili nel caso di un’organizzazione internaz... Dura per tutto il tempo del mandato e limitatamente al periodo in cui ricoprono la carica pubblica ed ottengono l’immunità dalla giurisdizione penale e civile da parte di stati stranieri. Può essere revocata dallo stato o anche dall’individuo, se lo stato non la contesti. Entrambe le immunità non sono un privilegio dell’individuo, ma è un privilegio dello stato o dell’organizzazione interna. Agente diplomatico = è un funzionario dello Stato e sicuramente rappresentante dello stesso, quindi per essere più generici è sicuramente un funzionario dello stato il quale svolge delle specifiche funzioni in un altro stato. Quindi gli Stati da tenere in considerazione quando si parla di agente diplomatico sono: stato accreditatario e stato accreditante. L’agente diplomatico proviene dallo stato accreditante e va a svolgere quelle che sono le proprie funzioni in un altro Stato straniero che è lo Stato accreditatario; si chiama così perché esiste una procedura che prende il nome di accreditamento, quando si parla di agenti diplomatici e di missioni diplomatiche, perché l’agente diplomatico agisce sempre in un altro stato a seguito di una missione diplomatica. Art. 2--> l’istituzione delle relazioni diplomatiche tra stati avviene sulla base del ‘’consenso vicendevole’’. Di fatto, non esiste un obbligo di diritto internazionale a intrattenere relazioni diplomatiche con gli altri stati; così come lo stabilimento anche la cessazione delle relazioni diplomatiche avviene per consenso vicendevole. Le funzioni dell'agente diplomatico le troviamo all'articolo 3. Le funzioni consistono:  rappresentare uno stato accreditante presso lo Stato accreditatario  proteggere nello stato accreditatario gli interessi dello Stato accreditante e dei cittadini di questo nei limiti ammessi dal diritto internazionale  negoziare con il governo dello Stato accreditatario  informarsi con ogni mezzo lecito delle condizioni dell'evoluzione degli avvenimenti nello Stato accreditatario e fare rapporto a tale riguardo allo stato accreditante  promuovere le relazioni amichevoli e sviluppare le relazioni economiche culturali e scientifiche tra lo Stato accreditante e lo Stato accreditatario. INQUADRAMENTO DELLA PERSONA FISICA/GIURIDICA NEL DIRI. INTERNAZ. E TUTELA DEI DIRI. DELL’UOMO Nel diritto internazionale tradizionale erano scarne le regole internazionali in materia perché vigeva un principio abbastanza ampio di libertà, tanto da configurarsi la teoria del ‘’dominio riservato-gestione domestica dello stato’’, ovvero che in queste materie giurisdizionali lo stato si riteneva libero da impegni internazionali e quindi poteva disciplinare come meglio credeva l’individuo o lo straniero. Ne costituiva conferma l’art. 2 paragr. 7 della carta delle nazioni unite, che appunto riconosceva questa competenza domestica essenzialmente di competenza dello stato, ponendo però un limite a questo principio, cioè che quando le nazioni unite decidono di intervenire (magari con l’uso della forza) lo stato non può sollevare la questione di domestic jurisdiction. Nel campo dei diritti civili l’erosione dell’area tradizionalmente riservata alla competenza domestica dello stato è stata graduale e inesorabile dopo l’adozione del 1948 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ad opera dell’assemblea generale delle nazioni unite; su questa scia sono state adottate a livello universale convenzioni internazionali come il Patto sui diritti civili e politici (1966) e strumenti in ambito regionale come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950) e la Convenzione americana sui diritti dell’uomo12. Per effetto dell’interazione tra le varie disposizioni dei diversi strumenti convenzionali, alcune norme pattizie assumono natura di regole internazionali generali dal valore anche imperativo. Il punto è capire l’avverbio ‘’essenzialmente’’; quali sono le materie essenzialmente di competenza nazionale? La prima, e più tradizionale, è quella relativa all’attribuzione della cittadinanza caso di riferimento, l’affare del 1923 della Corte permanente di giustizia internazionale dei decreti di nazionalità in Tunisia e in Marocco. I criteri di acquisto della cittadinanza sono:  A titolo originario - ius sanguinis --> si trasmette di diritto al neonato, anche se la nascita è avvenuta all’estero, la cittadinanza dei suoi genitori o anche di uno solo di essi - ius soli --> si attribuisce la cittadinanza per il solo fatto della nascita dell’individuo nel territorio dello stato, includendovi la nave di sua nazionalità - infine, vari paesi prefigurano una combinazione delle due soluzioni  A titolo derivato - In ragione di legami acquisiti successivamente alla nascita, perché lo straniero ha sposato un cittadino/a dello stato e sia residente da almeno 2 anni oppure è stato adottato in quel paese. In Italia l’acquisti tramite matrimonio ha natura puramente amministrativa ed è di competenza del prefetto.  Naturalizzazione - Attribuzione della cittadinanza per particolari meriti e sempre che ricorra un interesse dello stato ed avviene con decreto del presidente della repubblica (esempio due bambini egiziani in Italia) Vi sono anche casi in cui un individuo può trovarsi a possedere la cittadinanza di due o più stati (conflitto positivo di cittadinanza), oppure non averne nessuna ovvero l’apolidia, in cui nessuno stato considera come proprio cittadino (conflitto negativo di cittadinanza). Per quanto riguarda la nazionalità di persone giuridiche, la tecnica normativa maggiormente seguita è fondata sul principio di incorporazione della società nell’ordinamento dello stato che l’ha costituita, solitamente coincidente con lo stato in cui la società ha la sua sede legale (caso Barcelona Traction 1970). -Nel diritto internazionale generale non esiste un diritto dello straniero di fare ingresso nel territorio dello stato; significa che lo stato, nell’esercizio dei propri diritti sovrani, ha il diritto di regolare l’ingresso dello straniero sul proprio territorio. Esistono però obblighi pattizi per lo stato di ammettere sul proprio territorio persone fisiche; il caso più importante per noi europei è costituito dal trattato sull’unione europea che 12 Gli obblighi enunciati a tutela dei diritti umani denotano la loro natura assoluta e solidale, per cui nessuno stato non può astenersi nel rispettarli ed è nel contempo abilitato a far valere eventuali violazioni anche senza aver subito un danno diretto. obbliga l’Italia e agli altri paesi membri ad aprire il proprio territorio ai cittadini europei i quali vogliono stabilirsi sul territorio per la ricerca di occupazione (questo è il trattato di Roma del ‘57). Con il trattato di Maastricht invece si parla dell’istituzione della cittadinanza europea, significa godere dei diritti tipo il diritto di circolazione e soggiorno anche se non si è lavoratori. -Altro vincolo fondamentale al potere sovrano è la concessione dello status di rifugiato. Essendo l’Italia firmataria e ratificando la convenzione di Ginevra del ’51, ammette lo status di rifugiato ovvero il singolo che si trovi in uno stato diverso da quello di cittadinanza e che non possa fare ritorno nel proprio stato perché rischierebbe la persecuzione per motivi politici, razziali, religiosi o per la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale (caso Hirsi vs Italia). L’Alto Commissario delle nazioni unite per i rifugiati ha il compito di sorvegliare l’applicazione della Convenzione su coloro che beneficiano della protezione internazionale escludendo determinate categorie, tra queste vanno considerati sia gli individui che beneficiano effettivamente di una protezione internazionale alternativa senza avervi rinunciato di prima volontà, sia le persone che abbiano commesso un crimine internazionale o atti contrari a fini ed i principi delle nazioni unite. L’aspirante rifugiato che abbia fatto ingresso clandestinamente, o si accinga a farlo per mare, nello stato ha la protezione internazionale. L’UE, a partire dagli anni 90 con lo scoppio della guerra in ex Jugoslavia, ha ampliato il principio di rifugiato con una protezione sussidiaria per gli stati membri per chi, pur non rientrando nella categoria di rifugiato, si troverebbe ugualmente esposto (tornando in patria) al ‘’rischio effettivo di subire un grave danno’’ quale la pena di morte, tortura o comunque minaccia grave in una situazione di conflitto armato; inoltre vi è un regime di protezione temporanea se vi sia una preventiva delibera del consiglio in tal senso, consentendo agli interessati di beneficiare del regime di libera circolazione delle persone nell’ambito UE. L’art. 10.3 Cost. configura l’asilo politico per lo straniero che fugge dal proprio paese per l’assenza di libertà democratiche ed è il giudice civile che accerta le regioni dell’asiliante. Vi è anche l’asilo diplomatico concesso nei locali dell’ambasciata o del consolato dello stato estero in cui lo straniero si rifugia nelle aree latino-americane, ma per la corte di giustizia può costituire un abuso del regime di extraterritorialità. Di fronte al rifugiato di fatto (che fugge da luoghi di conflitti) il consiglio di sicurezza ha configurato per gli stati ospitanti una condizione di accoglienza umanitaria in campi appropriatamente predisposti. Inoltre, la sovranità dello stato implica il suo diritto all’espulsione di stranieri che non siano oggetto di protezione internazionale come i rifugiati o i titolari di protezione sussidiaria; in ragione di tale sovranità lo stato esercita anche il refoulement, vale a dire il diritto di respingimento alla frontiera. Il divieto di espulsione dei propri cittadini è sancito da specifiche norme convenzionali. Vi è il principio di non- refoulement che si estende a tutti gli spazi di giurisdizione statale per assicurare il diritto dell’asilante a chiedere lo status di rifugiato o il diritto dello straniero; lo stato ha l’obbligo di assicurarsi preventivamente che l’espulsione non rechi pregiudizi irreparabili all’individuo interessato. Inoltre, ancora vi è il divieto di espulsione collettiva di stranieri (art. 4 del protocollo n.4 alla CEDU). TRATTAMENTO DEI BENI DELLO STRANIERO Per quanto riguarda il rispetto dovuto alla persona dello straniero ed ai suoi beni, le soluzioni sono varie: a) Nazione più favorita = lo stato si impegna a trattare lo straniero applicando il regime più favorevole praticato nei confronti di uno stato terzo b) Principio del trattamento nazionale = vale a dire le stesse condizioni riconosciute ad un proprio cittadino c) Reciprocità di trattamento = cioè la stessa condizione principalmente (ma non solo) legislativa che lo stato di appartenenza del privato riserva al cittadino del primo stato in una fattispecie identica Gli stati uniti nel 1938 pretesero che in base al diritto internazionale lo stato espropriante elargisse un indennizzo pronto, adeguato ed effettivo (c.d. Formula Hull = se il bene di uno straniero viene espropriato per ragioni di pubblica utilità, lo stato deve allo straniero un indennizzo). In concreto l’indennizzo deve essere: 1. Senza dilazioni temporali 2. Commisurato nell’ammontare al valore di mercato (anche internazionale) del bene espropriato 3. Corrisposto in una valuta convertibile sul mercato monetario internazionale Nonostante le critiche a tale formula agli inizi del Novecento, soprattutto dai paesi socialisti che volevano la sovranità permanente sulle proprie risorse economiche, tale formula dalla prassi emerge come regola di diritto internazionale generalmente riconosciuta; è questa la posizione da tempo seguita dalla corte europea dei diritti dell’uomo nell’interpretare il richiamo dell’art.1 del Protocollo addizionale alla CEDU = ogni persona fisica/giuridica ha il diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto. PROTEZIONE DIPLOMATICA = viene richiamata in una sentenza ‘’Affare Mavrommatis’’ ed è un istituto mediante il quale una persona fisica o giuridica legalmente presente in uno stato, avendo subito un danno materiale, chiede l’intervento al proprio stato affinché ripari questo pregiudizio Nazionalizzazione --> provvedimento normativo con il quale lo stato rende statale/nazionale una proprietà straniera. Istituto sul quale la commissione del diritto internazionale ha adottato nel 2006 un progetto di articoli (Draft) che fa leva sul legame del privato con il suo stato di nazionalità, o cittadinanza prima condizione. La seconda condizione è l’esaurimento dei ricorsi interni allo stato estero, la terza è l’assunzione della causa da parte dello stato di nazionalità per far valere il presunto illecito commesso a loro danno e quindi pretendere la giusta riparazione (protezione tramite sostituzione). Poiché l’iniziativa dello stato per il rispetto della norma internazionale è normalmente non dovuta, anche l’esercizio della protezione diplomatica è facoltativa a meno che non sovvengano determinati obblighi. La facoltà dello stato di nazionalità di agire a protezione di interessi privati non è condizionata dall’eventuale rinuncia del privato a sollecitarla, includendo un’apposita clausola nei contratti di investimento da lui conclusi con lo stato estero (clausola Calvo). A proposito della protezione diplomatica di società e persone giuridiche si privilegia il loro legame con lo stato nel cui ordinamento sono state costituite secondo la dottrina dell’incorporazione seguita per l’attribuzione della nazionalità alle società. Nel caso Barcelona Traction del ’70 la Corte internaz. di giustizia ritiene che solo lo stato nel quale avesse sede legale la società fosse abilitato ad esercitare la protezione diplomatica, senza dare rilievo allo stato che invocava il legame di cittadinanza degli azionisti; nel più recente caso Diallo nel 2010, la corte ha ribadito la distinzione anche rispetto all’unico azionista. Il Draft (art. 9) accoglie in linea di principio la titolarità all’esercizio della protezione diplomatica da parte dello stato nel cui ordinamento la società sia stata incorporata ma considera preminente la nazionalità dello stato in cui la società ha sia la sua sede sociale che il suo ‘’cuore’’ finanziario senza svolgere alcuna attività nello stato di incorporazione. (Caso Bernadotte pag. 385) GIURISDIZIONE PENALE INTERNAZIONALE L’evoluzione del diritto internazionale processuale è avvenuta dal:  Tribunale di Norimberga = istituito dalle grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale dall’accordo di Londra del 6 agosto ’45 per giudicare i grandi criminali del terzo reich. Lo statuto del tribunale ne sanciva la competenza per giudicare i crimini di guerra (gli usi e le consuetudini consolidate in guerra, ad esempio l’uccisione di prigionieri di guerra) e contro l’umanità (due fattispecie; uccisione, sterminio e deportazione della propria popolazione e persecuzioni per motivi etnici, razziali e religiosi) commessi da individui ‘’per conto dei paesi europei dell’Asse’’. Vi son state delle obiezioni mosse al tribunale--> (a) Non rispondeva ai parametri obiettivi di imparzialità ed indipendenza, poiché non era precostituito ai fatti criminosi, era inoltre composto dai giudici delle potenze alleate (b) Con tale accordo il tribunale ha violato il principio di legalità della pena, ovvero che nessuno può essere giudicato per un fatto commesso quando ancora non era erato (c) Violazione del principio di irretroattività della sanzione penale (d) Gli imputati erano organi di stato, dunque obbedivano ad ordini dello stato13 13 Il tribunale ha scelto un’ottica giuridicamente fondata: ‘’nel momento in cui esso è stato creato, si è posto in un’ottica di sviluppo progressivo del diritto internazionale. Il tribunale non si è limitato ad applicare il diritto vigente, La scelta di fondo del progetto del 2001 è di regolare la responsabilità internazionale attraverso un complesso di norme secondarie 15 concernenti:  i presupposti dell’illecito  le circostanze eventualmente esimenti l’illecito  le conseguenze giuridiche dell’illecito  l’esercizio delle relative pretese inerenti alla riparazione dovuta a favore del soggetto leso Il Progetto del 2001 non ha carattere esaustivo (art. 56), ciò impone il necessario richiamo ad altre norme internazionali generali per quei profili della responsabilità di Stati che il Progetto non disciplina; le relative norme del Progetto però sono idonee ad offrire i principi regolatori della responsabilità alla luce dei quali vanno interpretate le disposizioni in materia anche presenti alla convenzione di Vienna del ’69. Le norme del Progetto sono volutamente generali, ma senza escludere norme speciali sulla responsabilità internazionale (art. 55); esse si sostituiscono alle regole generali del Progetto ma rispettando la scala di valori in esso prefigurata a proposito del regime differenziato di responsabilità. Se le norme speciali riguardano singoli profili della responsabilità esse andranno necessariamente integrate con il regime unitario della responsabilità internazionale ed applicate in senso restrittivo per la loro valenza derogatoria. Le norme generali per la responsabilità delle organizzazioni internazionali sono state codificate in un apposito progetto di articoli adottato nel 2011 dalla commissione del diritto, che enuncia una disciplina in più punti ‘’parallela’’ a quella del progetto del 2001. Art. 2  sussiste un atto internazionalmente illecito di uno Stato quando un comportamento consistente in un’azione o in un’omissione: a) può essere attribuito allo Stato alla stregua del diritto internazionale b) costituisce una violazione di un obbligo internazionale dello Stato Sostanzialmente, è composto da due elementi; soggettivo (a) consistente nell’attribuzione di un determinato comportamento ad uno stato e oggettivo (b) consistente nella violazione di un obbligo che ‘’deve essere in vigore per lo stato che lo vìola’’ Che si intende per illecito internazionale? 16 Può meglio essere definito come un comportamento, oppure una serie di comportamenti, posti in essere dal soggetto di diritto internazionale, in questo caso da uno 15 Sappiamo di una ripartizione delle norme in primarie (quelle di condotta) e secondarie (stabiliscono le conseguenze che derivano dalla commissione di un fatto illecito e dunque definiscono una ‘’nuova relazione giuridica che si instaura tra due stati’’) 16 Parliamo di distinguere il fatto illecito in funzione della sua natura gravità e conseguenza: nel progetto di articoli responsabilità internazionale per fatto illecito significa che non ci sono tipologie di fatto illecito (presumere che la categoria del fatto illecito sia unica) ma questo è vero in parte. Tradizionalmente i fatti illeciti sono: • Illecito ordinario denominato delitto • Illecito di particolare gravità definito crimine che è quel fatto illecito commesso in determinate aree del diritto internazionale (es: mantenimento della pace, ambiente, uguaglianza tra i popoli) con particolare gravità. Esempio di crimine: segregazione razziale che non esiste più (esiste il razzismo) Questa classificazione è stata proposta dal Professor Ago che però non è stata accolta perché gli stati non accettava di essere definiti criminali. L’abolizione di questa categoria non ha abolito del tutto qualunque distinzione in ordine alla gravità del fatto illecito. I fatti illeciti sono ordinali e speciali in ragione della natura dell’obbligo violato. Abbiamo fatti illeciti composti nell’ambito di un rapporto sinallagmatico o bilaterale: stato A viola una prestazione nei confronti di B Fatti illeciti conseguenti alla violazione di obblighi solidali: caso Barcellona (fatto illecito commesso nei confronti di omnes ovvero tutti) Fatti illeciti conseguenti violazione di obblighi integrali (obblighi integrali: obblighi la cui violazione da parte di 1 legittima tutti gli altri stati a considerarsi stati lesi. Es: trattati su Disarmo. La Corea del Nord minaccia il recesso unilaterale dai trattati sul Disarmo il presidente Trump ha dichiarato di volere recedere dal trattato antiballist (?) che è stato negoziato e concluso tra Reagan e Gorbaciov. L’eventuale mancato rispetto da parte di Trump in questo trattato pone tutti gli altri contraenti nella condizione di sentirsi lesi proprio per la natura particolare dell’obbligo per il mancato adempimento da parte americana condiziona l’adempimento da parte di tutti gli altri. Stato oppure se non vogliamo ancora considerare la responsabilità dell’Iraq da parte di soggetti individuali, nei confronti di un altro stato o un’altra Organizzazione Internazionale e addirittura della Santa Sede. Però purché si parli di illecito internazionale noi abbiamo bisogno di due elementi: 1. è la violazione di una norma, meglio, un elemento oggettivo. In cosa consiste l'elemento oggettivo dell'illecito internazionale? Nell’antigiuridicità del comportamento tenuto; significa che uno stato che vada a compiere un determinato atto oppure qualora lo stato non vada a compiere alcun atto, perché si parla sia di comportamenti omissivi che commissivi per illecito internazionale, deve essere necessariamente un comportamento antigiuridico e quindi contrasti con quelle che sono le norme di diritto internazionale 2. un elemento soggettivo; si intente più che altro la possibilità di attribuire quel comportamento allo Stato. Detto in termini giuridici questo è il nesso di causalità, un soggetto per rispondere ad un comportamento antigiuridico deve esserci un nesso di causalità tra quello che è il comportamento del soggetto (in questo caso dello Stato o dei singoli soggetti) e l’evento, cioè la conseguenza che scaturisce da quel determinato comportamento. Nel diritto internazionale vi è senz'altro un nesso di casualità affinché possa essere attribuito un illecito allo stato quando il comportamento antigiuridico sia posto in essere da organi dello Stato, perché sappiamo che lo Stato agisce per mezzo di individui quindi è normale che lo Stato sia responsabile per un comportamento posto in essere individui. Però sicuramente questi individui devono essere collegati allo stato e sono collegati allo stato da un rapporto cosiddetto organico cioè perché lo Stato sia responsabile del comportamento individuale di un soggetto, quel soggetto deve essere un organo dello Stato quindi deve aver compiuto il lecito nell'esercizio delle proprie funzioni e non agendo da privato. In realtà anche quando si parla di organi di fatto dello Stato c'è una responsabilità statale cioè può anche essere che l'individuo non sia un organo statale ma se è connesso in un certo qual senso allo stato e se comunque agisce in relazione ad alcune funzioni che lo Stato riconosce, lo Stato ne sarà responsabile. Quand’è che lo stato è responsabile (se può essere considerato responsabile) per azioni poste in essere da soggetti come privati? Tre casi: 1. Mancanza di misure necessarie per la prevenzione e per la messa in opera di quello che è un comportamento antigiuridico17 2. L’avallo da parte dello stato, cioè quando lo Stato acconsente a quello che è un comportamento antigiuridico 3. Aggressione diretta, cioè lo stato che per non essere responsabile di determinati illeciti manda soggetti privati a compiere l’illecito. Quindi questi sono i tre casi in cui uno stato può essere responsabile anche per illeciti compiuti da soggetti privati. Art. 1  ogni fatto internazionalmente illecito di uno Stato ne comporta la responsabilità internazionale Art. 3  è principio generale che l’ordinamento internazionale determina in modo autonomo i criteri di attribuzione dell’illecito dello stato in base alla sua condotta Il diritto internazionale riconduce il fatto illecito allo stato nell’assunto che vi sia sempre un nesso di causalità tra la condotta (omissiva o commissiva) dello stato ed il fatto illecito, ed è evidente che solo il comportamento di organi dello stato determina effetti giuridici nei suoi confronti Art. 4  il comportamento di un organo dello stato sarà considerato come un atto dello Stato ai sensi del diritto internazionale, sia che tale organo eserciti funzioni legislative, esecutive, giudiziarie o altre, qualsiasi 17 Vi è un parametro costituito dalla c.d. due diligence --> diligenza dovuta = deriva dal principio di sovranità e consiste in un obbligo ad impiegare tutti i mezzi adeguati e a fare ogni sforzo possibile per impedire che il proprio territorio venga usato per nuocere agli altri stati. La regola ha particolare rilevanza per obblighi di natura solidale in materia ambientale e soprattutto a tutela della persona umana senza che si frappongano i limiti della propria sovranità territoriale. La due diligence oltre che per prevenire l’illecito, si esplica anche in relazione ad obblighi di natura promozionale, come il regime di protezione internazionale dei rifugiati ai sensi della conven. di Ginevra, e si ripropone soprattutto in applicazione della CEDU e Patto sui diritti civili e politici. posizione abbia nell’organizzazione dello stato e quale che sia la sua natura come organo del governo centrale o di un’unità territoriale dello stato. Pertanto, qualunque organo dello stato, come dell’organizzazione internazionale, può essere autore dell’illecito anche quando la condotta avvenga all’estero o vi abbia effetti purché sussista uno stretto nesso di causalità funzionale. Al secondo comma (ripreso in modo più puntuale dalla convenzione del 2004) dà il concetto di organo sia all’apparato centrale dello stato che alla sua articolazione decentrata. In ragione delle caratteristiche dell’ente considerato il legame organico va accertato secondo le norme proprie di detta entità, salvo per caso in cui si rilevano direttamente da norme internazionali (qui si include anche il funzionario di fatto) CASO BOSNIA V. SERBIA E TADIC18 PAG. 495 Art. 7  la responsabilità dello stato sorge anche quando l’organo agisce o eccedendo propri poteri, oppure contravvenendo alle funzioni assunte (caso mallen) Art. 8 parla della figura dell’organo di fatto, singoli o gruppi che agiscono sotto il controllo dello stato e sono definiti tale; lo stato ne è responsabile. Vi sono due sentenze collegate: CASO NICARAGUA, CASO TADIC-BOSNIA VS SERBIA Art. 9  prevede che quando finalmente si stabilizzi l’organizzazione statuale momentaneamente venuta meno allo stato andranno attribuiti i comportamenti di privati che abbiano svolto di fatto in quel periodo funzioni di supplenza delle pubbliche autorità. In tale ipotesi si fa rientrare tradizionalmente la ‘’levata di massa’’ della popolazione civile che si oppone spontaneamente all’invasione in atto del territorio nazionale Art. 11  riguarda la possibilità o meno dello stato di rispondere del fatto del privato cittadino CASO TEHERAN VS USA Art. 47  quando più stati sono responsabili in solido del medesimo illecito si prevede che si possa invocare la responsabilità di ciascuno stato senza escludere la responsabilità degli altri stati. L’obbligo di riparazione va ripartito tra i vari soggetti responsabili dell’illecito secondo parametri di ragionevolezza. Diversamente dall’art. 16 per l’ipotesi di complicità nell’illecito internazionale per lo stato che aiuta o assiste un altro stato nella commissione del medesimo illecito. Perché si verifichi la complicità, occorre che l’entità complice sia anch’essa vincolata dallo stesso obbligo disatteso dallo stato responsabile a titolo principale nella medesima fattispecie concreta. CIRCOSTANZE ESCLUDENTI L’ILLECITO 18 Infine, merita grande attenzione la “sentenza Tadic” che ha offerto al Tribunale dell’Aja la possibilità di ribadire l’esistenza della propria giurisdizione e la legittimità delle decisioni prese dal Consiglio, attraverso un ragionamento che presenta importanti spunti innovativi per il diritto internazionale. La difesa di Dusko Tadic aveva eccepito davanti alla camera di prima istanza l’illegittimità dell’azione intrapresa dal Tribunale stesso, sostenendo che si trattava di un organo creato con atto unilaterale del Consiglio di sicurezza e non attraverso la via canonica del trattato internazionale, e che il Consiglio non aveva titolo per prendere una misura che non era contemplata tra quelle degli articoli 41 e 42 della Carta dell’Onu. La camera di primo grado con sentenza del 10 agosto 1995, respinge l’eccezione, sottolineando come una tale constatazione avrebbe dovuto essere presentata all’organo di cui si contesta l’operato (il Consiglio di sicurezza), e non davanti al Tribunale. La difesa tuttavia fa appello contro tale decisione. La camera di secondo grado, presieduta dal giudice Antonio Cassese, emette così la sentenza del 2 ottobre 1995, contenente le seguenti statuizioni. In primo luogo, innovando rispetto alla giurisprudenza della stessa Corte internazionale di giustizia e cassando in parte qua la precedente sentenza, il Tribunale afferma la propria competenza ad esercitare il controllo di legittimità sulle decisioni del Consiglio, motivandolo con l’esigenza di salvaguardare la stessa natura giurisdizionale del potere del quale è stato investito, non sussistendo nell’ordinamento internazionale alcun altro organo giudiziario in grado di farlo. In questo modo il Tribunale caratterizza nettamente gli organi giurisdizionali internazionali rispetto a quelli nazionali, descrivendoli come organi che, non essendo ancora inquadrati in un sistema giudiziario organizzato e unificato, sono “auto-sussistenti” e quindi “giudici di sé stessi”. Una volta accertata la propria competenza a rispondere sul merito, la camera d’appello ribadisce che rientra nelle facoltà del Consiglio adottare ogni misura ritenuta idonea allo scopo di garantire la pace e la sicurezza e dichiarando incontestabile il principio “non c’è pace senza giustizia”, per cui la punizione dei colpevoli dei crimini più gravi e la lotta all’impunità sono correttamente stati considerati dal Consiglio passi obbligati per il ristabilimento della pace. La base giuridica riguardo all’istituzione del Tribunale viene individuata nell’articolo 41 del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, riguardante “le misure non implicanti l’uso della forza armata”, il cui elenco sarebbe quindi da considerarsi non esaustivo dato che non si parla di tribunali penali. Nonostante la procedura d’emergenza che caratterizza l’investitura dei due Tribunali ad hoc, per la competenza limitata sia nel tempo che nello spazio, essi costituiscono tuttavia un precedente straordinario per l’istituzione di una Corte penale internazionale permanente. b) Obblighi a tutela dei diritti umani fondamentali c) Obblighi di carattere umanitario che vietano rappresaglie d) Obblighi derivanti da norme imperative di diritto internazionale generale Ed inoltre lo stato che adotta contromisure non è esentato da obblighi derivanti procedure di soluzione delle controversie applicabile nei rapporti con lo stato responsabile e di rispettare l’inviolabilità di agenti, locali, archivi e documenti diplomatici o consolari. Il 51 tratta di limiti di natura procedurale, ossia quali sono le condizioni purché lo stato adotti delle contromisure, e tratta quindi della proporzionalità; la contromisura deve essere commisurata al pregiudizio subito tenendo conto della gravità dell’atto illecito ed i diritti in gioco. Nei self-contained regimes si aggiungono ulteriori limitazioni alle contromisure, fino ad escluderle del tutto come nel caso della UE. Art. 52 = condizioni del ricorso a contromisure  lo stato leso dovrà: - Invitare lo stato in conformità all’art. 43 ad adempiere ai propri obblighi in base alla parte 2 - Comunicare allo stato responsabile ogni decisione di contromisura ed offrire di negoziare, ma nonostante ciò lo stato leso può prendere contromisure urgenti che siano necessarie per preservare i propri diritti Non possono essere prese contromisure e se già prese devono essere sospese se l’atto internazionalmente illecito è cessato, se la controversia pende innanzi ad una corte o tribunale che abbia il potere di adottare decisioni vincolanti tra le parti (tale paragrafo non si applica se lo stato responsabile non attiva la procedura di soluzione delle controversie in buona fede) -L’art. 40 configura una disciplina speciale di responsabilità in caso di loro violazioni gravi, vale a dire di natura massiccia (‘’gross’’) o sistematica (‘’systematic’’), cioè reiterata perché frutto di una condotta deliberata. L’indicazione, ripresa poi nell’art. 41, ha senso in una prospettiva unitaria dell’ordinamento internazionale nel quale si voglia tutelare l’effettività delle sue regole essenziali. Art. 40  si applica tale capitolo alla responsabilità che discende da una violazione grave di un obbligo derivate da una norma imperativa del diritto internazionale generlae. Continua dicendo che la violazione di tale obbligo è grave se implica da parte dello stato responsabile una violazione evidente o sistematica del dovere di adempiere l’obbligo. Art. 41  gli stati devono cooperare per porre fine con mezzi leciti ogni grave violazione ai sensi dell’art. 40. Nessuno stato riconoscerà come legittima una situazione creata attraverso tale grave violazione ai sensi dell’art. 40 né presterà aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione (obbligo di cooperazione). La regola stabilisce una sanzione privativa che è senz’altro ricognitiva del principio di disconoscimento delle situazioni territoriali illegittime enunciato dalla Dottrina Stimson del ’32; l’obbligo di non-riconoscimento grava erga omnes sui singoli stati e può essere preteso da chiunque. Art. 42  caratteristica di stato leso = uno stato è legittimato come stato leso ad invocare la responsabilità di un altro stato se tale obbligo sussiste nei confornti di quello stato individualmente o un gruppo di stati comprendente quello stato o della comunità internazionale e tale violazione dell’obbligo riguarda specialmente quello stato o è di natura tale da modificare radicalmente la posizioni di tutti gli altri stati. Art. 48  invocazione della responsabilità da parte di uno stato diverso da quello leso = è legittimato lo stato terzo ad invocare la responsabilità se l’obbligo violato sussiste nei confronti di un gruppo di stati comprendente quello stato per la tutela di un interesse collettivo del gruppo o l’obbligo violato si pone nei confronti della comunità internazionale. Ogni stato legittimato dal paragrafo 1 può: - Chiedere la cessazione dell’atto internazionalmente illecito ed assicurazioni e garanzie di non reiterazioni - Chiedere l’adempimento dell’obbligo di riparazione in conformità con gli articoli precedenti, nell’interesse dello stato offeso o dei beneficiari dell’obbligo violato Art. 54  non si parla di contromisure ma di misure lecite da parte di stati legittimati dall’art. 48 contro lo stato responsabile per assicurare la cessazione della violazione e la riparazione nei confronti dello stato offeso o leso. Art. 59  gli articoli non recano pregiudizio alla carta delle nazioni unite, ossia del consiglio di sicurezza (organo principale per il mantenimento della pace) L’azione in riparazione per violazione grave del diritto internazionale esercitabile dal privato leso dinanzi al giudice di uno Stato terzo Deve invece rilevarsi, al di fuori di particolari sistemi normativi e giurisdizionali specificamente rivolti a garantire agli individui, beneficiari d’obblighi internazionalmente assunti dagli stati (ad esempio in materia di diritti umani), la disponibilità di strumenti processuali internazionali idonei a realizzarne, anche nei confronti degli stati d’appartenenza degli stessi individui, l’ effettivo godimento che, come si è sottolineato in dottrina, gli obblighi nascenti dall’illecito internazionale sono sempre e soltanto obblighi di soggetti dell’ordinamento giuridico internazionale verso altri soggetti dello stesso ordinamento. Non vi è responsabilità internazionale dello stato verso individui. DIFFERENZE TRA CONTROMISURA E RAPPRESAGLIA Son due termini (in diritto) sinonimi, ma ad oggi l’uso della forza è vietato e non si parla più di raprresaglia ma di contromisura. Ovviamente anche per la contromisura vige il divieto all’uso della forza. DIFFERENZA TRA CONTROMISURA E RITORSIONE Qui si hanno due fattispecie diverse; la ritorsione non è un fatto illecito bensì un comportamento che viene manifestato o a seguito della violazione di un obbligo oppure di un comportamento inamichevole Es. ritorsione  Usa vs Urss dopo invasione Afghanistan, gli usa non hanno inviato gli atleti alle olimpiadi di mosca dell’anno dopo nel 1980 Es. di rappresaglia  1986, Gheddafi considerando l’alleanza ita/usa lancia due missili contro l’isola di Lampedusa (atto di guerra). L’Italia per mezzo di Andreotti, ministro degli esteri, alla camera dichiara che l’Italia si sarebbe astenuta dall’adottare delle contromisure CONTROVERSIA INTERNAZIONALE È una composizione di interessi giuridici tra gli stati. La controversia deve essere risolta pacificamente con i mezzi indicati dall’art. 33 della carta ONU oltre che dall’art. 2 paragrafo 3 della stessa. Nelle istruzioni sulla soluzione pacifica delle controversie troviamo il principio in base al quale gli stati devono astenersi dalla minaccia dell’uso della forza. In caso di controversia che verte sulla violazione presunta di una norma ius cogens uno degli stati può investire nella controversia la corte internazionale di giustizia. MEZZI DI SOLUZIONE PACIFICA DELLE CONTROVERSIE L’art. 33 della Carta dell’ONU ribadisce il principio generale secondo cui gli stati sono liberi di scegliere un mezzo pacifico di soluzione della controversia ed elenca gli strumenti adoperati dalla prassi; vi si menzionano i negoziati, l’inchiesta, la mediazione, la conciliazione, l’arbitrato, il regolamento giudiziale, il ricorso ad organizzazioni regionali ed accordi regionali. Una prima importante distinzione va fatta tra l’accordo e gli altri mezzi; costituisce l’unico mezzo contemplato dal diritto internazionale generale, è un mezzo attraverso il quale si addiviene ad una soluzione giuridica della controversia. Soluzione è un fatto giuridico che consegue ad un atto giuridico. Attraverso l’accordo si individuano quelli che sono ‘’i procedimenti’’ tra i quali possiamo annoverare il trattato. La sentenza invece è un mezzo adottato da un terzo, è senz’altro finalizzata ad accertare de lege lata le regole di diritto ma può anche ‘’produrle’’ quando al giudice o all’arbitro sia chiesto di pronunciarsi secondo equità (questa è la pronuncia ex aequo et bono dell’art. 38 dello statuto della corte che ha valenza costitutiva, e non di accertamento, del diritto). Tra i mezzi ancillari ve ne sono alcuni tipici della tradizione diplomatica e non menzionati dal 33:  I buoni uffici = evidenziano l’iniziativa di un terzo che previa disponibilità delle parti si limita a stimolare l’avvio di un negoziato diretto tra loro  Mediazione = il terzo cerca di facilitare l’accordo avvicinando le parti ad una reciproca intesa  Conciliazione = il terzo prospetta l’ipotesi di accordo, il regolamento materiale della controversia, rimettendo alle parti la decisione di adottarlo  Inchiesta = è preposta all’accertamento di fatti utili se non determinanti per definire la composizione delle controversie anche di natura giuridica, a tal fine l’organismo d’inchiesta raccoglie testimonanze, documentazioni e consultazioni di esperti e ispezioni Questi istituti hanno carattere occasionale e quindi isolato, nel senso che sono costituiti solo con l’accordo tra gli stati parti di una specifica controversia. Nell’ambito dell’ONU la carta dà al Consiglio di sicurezza l’opportunità di raccomandare alle parti non solo una determinata procedura per la soluzione delle controversie (art. 33.2) ma anche i termini di regolamento della stessa (art. 38) svolgendo direttamente e d’ufficio una funzione di conciliazione. CONTROLLO INTERNAZIONALE Esso è un’attività esercitata da organi composti da rappresentanti di stati i quali, in materia di diritti umani si pronunciano perlopiù con atti non vincolanti e il cui esito è verificare la distanza tra lo standard fissato dalla norma e la prassi dello stato. Svolgono una precipua funzione di monitoraggio il Comitato europeo per la prevenzione della tortura o il Comitato internazionale della Croce Rossa. Per esempio, nella CEDU sussistono questi due tipi di procedimenti: controllo politico e giurisdizionale. L’organo di controllo politico della CEDU ossia il comitato dei ministri (composto dagli esteri dei paesi membri) per anni ha inviato all’Italia una serie di raccomandazioni per quanto riguarda le carceri; il controllo politico è piuttosto inefficace perché realizzato per lo più da organi di stato tramite atti non vincolanti. Nel controllo di tipo giurisdizionale ad effettuare questo controllo non sono più organi di tipo politico ma di tipo giurisdizionale, dunque il giudice è un terzo. L’atto di controllo giurisdizionale è una sentenza ed a differenza di quello politico non si limita ad accertare la distanza tra la norma ed il comportamento dello stato ma (tramite sentenza) ad accertare la violazione della norma. L’ obbligo di evitare l’’uso della forza per risolvere le controversie tra stati, s’inscrive all’interno di un sistema dei rapporti internazionali che tradizionalmente individua lo stato come ente sovrano superiorem non recognoscens. Così a differenza degli ordinamenti interni, non esiste un potere superiore in grado di imporre a stati tra i quali penda una controversia né il meccanismo per risolverla né, tantomeno i contenuti della sua eventuale risoluzione. Tanto che come affermato nel caso dello status della camelia orientale:” costituisce un principio acquisito nel diritto internazionale quello secondo cui nessuno stato, senza il suo consenso, può essere obbligato a sottoporre le proprie controversie con altri stati a mediazione, arbitrato o qualsiasi altro meccanismo di risoluzione pacifica”. Anche la dichiarazione sulle relazioni amichevoli conferma che “le controversie internazionali saranno risolte sulla base dell’uguaglianza sovrana degli stati in conformità col principio della libera scelta dei mezzi di risoluzione”. Si comprende da tutto ciò che si è soliti definire il sistema di risoluzione delle controversie nel diritto internazionale come “totalmente rudimentale”. In questa prospettiva si è soliti altresì descrivere questo sistema come sostanzialmente volontaristico e basato sulla tradizionale bipartizione tra mezzi diplomatici e mezzi arbitrali o giurisdizionali. ARBITRATO E GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE La funzione giurisdizionale internazionale ha ancor oggi natura arbitrale, essendo ancorata al principio per cui un giudice internazionale non può giudicare se la sua giurisdizione non è stata preventivamente accettata da tutti gli Stati parti di una controversia. In un’epoca, come la nostra, che vede crearsi solidarietà internazionali al livello degli individui componenti le varie comunità statali, solidarietà fondate sulla comunanza di ideologie, il fatto che l’applicazione del diritto internazionale finisca col dipendere dal giudice dello stesso Stato che magari ha interesse a disapplicarlo, significa poco: il giudice interno può essere più internazionalista del proprio Stato, ed anche più internazionalista di un giudice internazionale. Gli Stati sono liberi di deferire ad un tribunale internazionale una qualsiasi controversia che riguardi i loro rapporti; ciò che è importante è che essi siano d’accordo nel sottoporre la controversia ad un’istanza giurisdizionale internazionale accettandone come vincolante la decisione. La Corte Permanente di Giustizia Internazionale nella sentenza del 1929 nell’affare Mavrommatis disse che la controversia è un disaccordo su di un punto di diritto o di fatto, un contrasto, un’opposizione di tesi giuridiche o di interessi tra due soggetti. Non esistono controversie “giustiziabili” e controversie “non giustiziabili”. Il patto aveva molte lacune, che si aggravarono con l’aumento delle tensioni internazionali sfociate nella Seconda guerra mondiale, la quale segnò anche l’insuccesso della Società delle Nazioni, che si sciolse. La rinuncia alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali è contenuta nel Trattato di Parigi (Patto Briand-Kellogg nel 1928) attraverso il quale le parti contraenti rinunciano alla guerra come strumento di politica internazionale, condannandone il ricorso come strumento per la soluzione delle controversie internazionali e come strumento di politica nazionale nei loro reciproci rapporti. Nel Patto Briand-Kellogg non vi era un organo capace di porsi come valida alternativa: nel giro di poco tempo con tale carenza ristoppiò la guerra. Successivamente gli stati vincitori della Seconda guerra mondiale crearono e aderirono alla Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945. Tale Carta ha come priorità “a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità” e riprende senza opportunità di riserve quanto detto nel patto del ’28:  Art. 1.: I fini delle Nazioni Unite sono: mantenere la pace e la sicurezza internazionale  Art. 2.4. I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.  Art. 2.3.: I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo. L’obiettivo di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale” deve essere conseguito attraverso il divieto quasi assolto dell’uso della forza da parte degli Stati. Il monopolio dell’uso della forza è in capo alle Nazioni Unite secondo il modello del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Il divieto dell’uso della forza è ribadito in molte “Dichiarazioni” espressa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In particolare, la Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra stati, in conformità della Carta delle Nazioni Unite. Il ricorso alla minaccia o all’uso della forza viene qualificato come violazione della Carta, e quindi del diritto pattizio, ma anche del diritto internazionale, riguardante una norma consuetudinaria. Il divieto di rappresaglia armata Il divieto di uso della forza sancito dall’articolo 2 della carta è sganciato dal funzionamento del sistema di sicurezza collettiva dell’Onu, perché ha assunto il valore di regola autonoma del diritto internazionale generale, come conferma la corte di giustizia. Una puntuale applicazione della regola generale è il divieto di rappresaglia armata per reazione a torti o anche ad atti inamichevoli. L’unica deroga ammissibile è costituita da un eventuale autorizzazione preventiva da parte del consiglio di sicurezza. L’attuale regime giuridico della legittima difesa L’art. 51 della Carta qualifica la legittima difesa come un diritto inerente o naturale spettante ad ogni stato. La legittima difesa, così come intesa dalla carta, è elencata tra le circostanze che escludono il carattere illecito di un determinato comportamento. Le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali menzionate dall’art. 51, devono rivelarsi in concreto efficaci per neutralizzare l’attacco armato e le sue conseguenze. Non è sufficiente, per escludere il diritto di legittima difesa dello stato attaccato, una mera adozione di una decisione da parte del Consiglio di Sicurezza, se questa non sortisce l’effetto voluto. Quindi in determinate circostanze uno stato può reagire anche applicando la forza purché questa reazione abbia alcune caratteristiche che vengono conosciute con il nome di 'formula Webster', cioè le tre caratteristiche che deve avere la legittima difesa per poter essere, appunto, legittima; deve essere necessaria, immediata e proporzionata:  Necessaria = se lo stato non può attuare altre misure se non la forza per legittima difesa  Proporzionata = deve essere proporzionata all'offesa  Immediata = essendoci la ratio nella legittima difesa (serve per bloccare l'aggressione da parte dell'altro soggetto) se non è immediato cade questa ratio La legittima difesa può essere individuale, se lo stato oggetto di un attacco armato si difende, o collettiva, se uno stato terzo, che non è attaccato, difende lo stato attaccato. In quest’ultimo caso occorre, però, che lo stato attaccato richieda un intervento a sua difesa, non essendo consentito usare la forza solo sulla base di valutazioni unilaterali della situazione. La solidarietà collettiva è talora assicurata all’aggredito da apposite disposizioni pattizie, quali l’art. 5 del trattato NATO e in forme più incisive l’art. 42,7 del Trattato UE che deroga al divieto dell’uso della forza. Purtroppo, non vi può esserci una costituzione di una forza permanente e di un comando militare unificato delle Nazioni Unite per via della Dottrina Clinton del ’94 promulgata dagli stati uniti che assimila un concetto di sicurezza nazionale unilaterale. Si discute se sia giustificabile a titolo di legittima difesa la risposta ad un attacco armato non ancora in atto, ma solo minacciato (legittima difesa preventiva). La questione della legittima difesa preventiva diviene particolarmente delicata nel caso in cui uno stato tema di essere oggetto di un attacco con armi nucleari. E' un dibattito contestato sia da chi è affermativo nella risposta, sia negativo; per chi dice di no si basa sul concetto che manchino due elementi della proporzionalità e immediatezza, mentre poi esiste una dottrina chiamata 'dottrina Bush' (se vi viene chiesta ricordatevi che si ricollega alla possibilità di ammettere una guerra preventiva) che è a sostegno di tale legittima ma non soltanto; ammetteva anche una guerra preventiva ovvero che se uno stato si sente minacciato può disporre uno stato di guerra invocando la legittima difesa. Tutto ciò però non è stato accettato dal diritto internazionale. La legittima difesa è invocabile anche in caso di aggressione indiretta attuata da gruppi di individui che agiscono agli ordini dello stato aggressore. Ulteriori problemi determinano i tentativi di dilatare la nozione di attacco armato, fino a comprendervi i casi in cui l’azione contro la quale uno stato si difende non consista nell’uso della forza contro il territorio o le installazioni o i mezzi militari dello stato attaccato, ma consista in azioni dirette contro gli agenti civili di uno stato o i suoi cittadini. Sembra difficile accettare eccessive dilatazioni del concetto di attacco armato e del conseguente presunto diritto di usare la forza a titolo di legittima difesa da parte degli stati vittime di lesioni dei loro diritti. La legittima difesa è consentita nella sola ipotesi prevista dall’art. 51 della Carta ONU. Nella logica della Carta, l’uso difensivo della forza militare costituisce una risposta, di natura eccezionale, a un corrispondente uso aggressivo della forza militare, consistente in un attacco armato diretto contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno stato. Il ricorso a mezzi coercitivi circoscritti per la protezione di propri cittadini all’estero Il diritto internazionale consente in date situazioni il ricorso all’uso della forza per fini diversi dalla legittima difesa, quali le iniziative militari di uno Stato volti a liberare i propri cittadini sotto sequestro in un altro stato o che si trovino in condizioni di obiettivo pericolo immediato per la loro incolumità personale. L’intervento, su richiesta delle autorità locali, è pienamente legittimo anche se nel corso delle operazioni dovessero registrarsi scontri con coloro che detengono gli ostaggi. Solo se manca il volere del sovrano territoriale di detenere gli ostaggi si profila il titolo autonomo di intervento in deroga al divieto di uso della forza (ad esempio l’intervento dell’Inghilterra in Egitto nel 1956). In questi casi, in cui l’intrusione non autorizzata da parte dello Stato deve avvenire funzionalmente alla sola protezione effettiva dei propri cittadini, allora lo Stato stesso invoca l’esimente della legittima difesa, anche se tale titolo è improprio – perché manca la minaccia di un attacco armato il territorio dello Stato-, così come quello dello stato di necessità. L’intervento umanitario nei conflitti Problemi delicati sollevano un’ulteriore causa di giustificazione che è stata a volte invocata per legittimare interventi armati sul territorio di altri stati, ossia il cosiddetto intervento a fini umanitari. La prassi sembra avallare la legittimità dell’intervento umanitario in paesi ove sia in atto una politica di genocidio20. La corte di giustizia ha ritenuto che questi elementi, oltre che determinare il crimine internazionale di singoli individui, siano costitutivi dell’illecito internazionale da attribuire allo stato. In effetti, la principale spiegazione data dagli stati che hanno nel 1999 bombardato la Jugoslavia si basava proprio sulla necessità di prevenire una catastrofe umanitaria causata dalla repressione operata dalle forze e milizie jugoslave a danno degli abitanti del Kosovo di etnia albanese. I diritti dell’uomo devono essere tutelati con mezzi diversi dall’intervento armato contro altri stati, se non si vuole correre il rischio di moltiplicare le violazioni di tali diritti, aggiungendo violenze e distruzioni a situazioni già di per sé gravi. A ben vedere, il diritto internazionale generale già prevede un’ipotesi eccezionale in cui un intervento armato è giustificato per fini umanitari, cioè per tutelare persone la cui vita sia messa in pericolo. Si tratta dell’ipotesi di estremo pericolo. L’esimente dell’estremo pericolo opera entro limiti ben precisi. Vanno in particolare segnalate due condizioni: • l’azione deve costituire l’unico mezzo per salvare vite umane in pericolo • l’azione non deve creare un pericolo più grave di quello che intende scongiurare. Occorre però valutare il mezzo impiegato nell’intervento, e cioè l’uso della forza tramite bombardamenti aerei, e le sue conseguenze; occorre che il comportamento tenuto costituisca l’unico mezzo per salvare le vite umane in pericolo e che esso non determini un pericolo più grave di quello che intende scongiurare. Era facilmente prevedibile che la decisione di bombardare l’intera Jugoslavia avrebbe ulteriormente aggravato la situazione delle popolazioni albanesi del Kosovo, determinando un inasprimento della repressione e delle violazioni dei diritti dell’uomo compiute dalle forze militari e paramilitari jugoslave e un sostanziale aumento del numero di rifugiati. Forti dubbi suscita il concetto di intervento militare umanitario, soprattutto quando esso si traduce nella variante del bombardamento aereo umanitario: questa variante appare una contraddizione in termini. Come è stato rilevato, la somma di un grave illecito (le violazioni dei diritti dell’uomo in Kosovo) e di un altro grave illecito (i bombardamenti della Jugoslavia, Kosovo compreso) dà come risultato due gravi illeciti, non potendo un illecito cancellare l’altro. Non sembra che gli stati attivi nei bombardamenti abbiano inteso promuovere la formazione di una nuova norma, come tale avente portata generale, secondo la quale ogni stato avrebbe il diritto di bombardare un altro stato (o usare altrimenti la forza), qualora ritenesse che quest’ultimo sia responsabile di violazioni alle norme del diritto umanitario applicabili sul nostro territorio. Una simile regola è improponibile. L’intervento in Jugoslavia potrebbe qualificarsi come un tentativo di eliminare il sistema fondato sulla Carta delle Nazioni Unite, senza contestualmente proporre alcun sistema alternativo fondato su regole generali e predeterminate, che rappresentino qualcosa di meglio dell’occasionale decisione di bombardare uno stato. L’intervento nei conflitti interni Il divieto di uso della forza ex articolo 2.4 della carta vale solo nei rapporti tra Stati e non ha come destinatari gli insorti: quando gli insorti si contrappongono ad un governo precostituito con formazioni organizzate ed esercitando un controllo stabile su una parte del territorio sia una situazione di guerra civile. Finché il consiglio di sicurezza non decide di intervenire, in queste situazioni, si ricorre al diritto internazionale generale ed ogni componente della guerra civile può fare un sollecito della forza senza violare l’articolo 2. Una prassi prevalente, successiva al secondo conflitto mondiale, ha fatto sì che il fatto che gli insorti non siano riconosciuti come belligeranti rafforzi il diritto esclusivo del governo precostituito di chiedere assistenza a Stati terzi. È accaduto anche quando gli Stati Uniti, nel quadro di competizione con l’ex URSS, enunciarono la cosiddetta dottrina Truman per poter assistere militarmente i governi filoccidentali impegnati in guerre civili contro i comunisti. 20 Art. 2 della Convenzione per la prevenzione e repressione del genocidio (1948) --> rientra nel crimine di genocidio ogni atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o razziale, religioso; esso può concretarsi nell’eliminazione fisica di membri del gruppo, recando lesioni gravi, sottoponendo i medesimi a condizioni di vita che ne determinano la distruzione, trasferendo in modo coatto a fanciulli o impedendo nuove nascite all’interno del gruppo. consiglio, dipende dalla volontà delle parti. Da ciò si concludono trattati di pace che disciplini la restituzione dei territori acquisiti e l’istaurazione di rapporti di buon vicinato nel rispetto delle regole del diritto internazionale generale. Gli effetti della guerra sugli Stati terzi L’esistenza di una guerra formalmente dichiarata pone gli Stati terzi in una posizione di neutralità; così li garantiva anche dall’essere oggetto di conquista da parte di uno dei belligeranti. Tuttavia, ciò non libera gli stati dalle conseguenze delle relazioni belliche nei loro confronti: infatti una parte belligerante ha diritto di proclamare una zona di esclusione marittima con conseguente blocco della navigazione anche per Stati terzi che abbiano una posizione di neutralità (ad esempio come accadde per il regno unito con le isole Falkland). Inoltre, quando uno stato terzo esprime un giudizio di disvalore rispetto alle ragioni di una delle parti in conflitto, egli può assumere una posizione che non è di neutralità ma di “non belligeranza” che non preclude allo stato di appoggiare una delle parti in conflitto se ne ritiene legittimo l’uso della forza. Inoltre, sono legittimi gli aiuti ai paesi vittime di una guerra di aggressione, così come vige un divieto di aggressione sancito dalla carta dell’Onu per cui lo stato terzo deve evitare di esportare armi verso lo Stato aggressore, altrimenti si troverà in una condizione di complicità nell’illecito. Il diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati In una situazione di conflitto o di occupazione, tutte le parti in conflitto, ossia Stati e gruppi armati non statali, devono osservare il diritto internazionale umanitario: nelle azioni militari tra Stati (conflitti internazionali) si applicano le quattro Convenzioni di Ginevra nel ‘49, i due Protocolli addizionali del 1977 e la Convenzione dell’Aia del 1907 (c.d. diritto de L’Aja). Nei conflitti armati nazionali le regole da applicare sono più scarne e si limitano all’articolo 3 delle Convenzioni di Ginevra e al secondo Protocollo aggiuntivo del 1977. Nei conflitti armati interni e in quelli internazionali, trovano inoltre applicazione numerose regole del diritto consuetudinario. Ad esempio, è senz’altro di natura consuetudinaria la cosiddetta clausola Martens, che impone il rispetto della persona umana -civile o combattente- anche in situazioni non puntualmente regolate dal diritto internazionale comunitario. Le convenz. Ginevra impegnano le parti contraenti a rispettare ed a far rispettare i relativi obblighi; lo stato parte è tenuto ad osservare gli obblighi pattizi che così assumono un forte connotato solidale (erga omnes partes). Le violazioni alla Convenzioni di Ginevra si distinguono in ‘’infrazioni non gravi’’ e ‘’infrazioni gravi’’. Il diritto internazionale umanitario deve essere rispettato da chiunque partecipi al conflitto armato. Di regola, le violazioni gravi del diritto internazionale umanitario sono considerate crimini di guerra: ecco qualche esempio: - tortura e trattamenti inumani di prigionieri - stupri - attacchi alla popolazione civile - deportazione illegale di civili - presa di ostaggi - impiego di bambini-soldato In caso di gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra ogni Stato è tenuto a perseguire penalmente o a estradare in un altro Stato o a una Corte penale internazionale il presunto colpevole. Inoltre, il diritto internazionale appresta una serie di meccanismi per garantire l’osservanza delle norme umanitarie: ad esempio la “Potenza protettrice”, o il comitato internazionale della Croce Rossa cui è riconosciuta una funzione di protezione umanitaria; o ancora l’Unesco che svolge compiti analoghi per la tutela dei beni culturali nel corso di conflitti armati. Limiti ai mezzi ed ai metodi di combattimento Il diritto internazionale umanitario vieta tutti i mezzi e metodi di guerra che non consentono di distinguere tra i combattenti e i non combattenti; tale divieto consente di proteggere la popolazione civile, il personale civile e i beni di natura civile. A fianco del principio di umanità, il diritto internaz. umanitario è guidato da altri criteri quali il principio della necessità militare (giustifica la commissione di atti che diversamente non sarebbero legittimi), il principio di proporzionalità (limita la conduzione delle ostilità in modo da evitare che i danni alla popolazione civile siano talmente elevati da non giustificare l’ipotetico vantaggio militare) ed il principio di precauzione (vincola le parti in conflitto a preservare il più possibile la popolazione civile ed i suoi beni dalle conseguenze del conflitto). Vieta inoltre tutti i mezzi e metodi di guerra che causano danni superflui o sofferenze inutili, o anche danni gravi e permanenti all’ambiente. Il diritto umanitario ha inoltre messo al bando numerose categorie di armi, quali pallottole esplosive (dichiarazione di san pietroburgo del 1868), armi chimiche e biologiche, armi laser accecanti e mine anti-persona. In ogni caso va sempre valutata la compatibilità dell’arma con i principi della clausola Martens. Solo la produzione di armi convenzionali rientra nel regime di libertà garantito dal diritto internazionale. Il divieto di uso di armi di distruzione di massa, che colpiscono principalmente la popolazione civile, è stato adottato col protocollo di Ginevra del 1925 e successivamente ribadito durante il secondo conflitto mondiale e fino ai nostri giorni. Naturalmente il divieto di determinati mezzi di combattimento non è di per sé sufficiente a salvaguardare ogni esigenza umanitaria, perciò il diritto internazionale limita le modalità di impiego delle armi ai cosiddetti obiettivi legittimi che siano strettamente militari: non è però legittima la prassi di evitare i bombardamenti avvalendosi di scudi umani, cioè collocando strumentalmente la popolazione civile intorno ad obiettivi militari in modo da mettervi al riparo dai bombardamenti. L’uso di armi nucleari non è oggetto di un divieto assoluto nel diritto internazionale; la corte internazionale di giustizia non ha escluso il ricorso ad armi nucleari per casi eccezionali di legittima difesa21 Lo statuto dei combattenti (principio di distinzione tra combattenti e civili) Art. 44.3 del I Protocollo addizionale del ’77  il combattente si distingue dalla popolazione civile quando prende ‘’parte ad un attacco o ad una operazione militare preparatoria ad un attacco’’. Il legittimo combattente, unico con un regime speciale di protezione internazionale, è colui che appartiene ad un’unità organizzata di una parte del conflitto o di uno stato belligerante impegnato nelle ostilità: se viene catturato dallo Stato nemico quest’ultimo ne deve preservare la vita e l’onore (status di prigioniero di guerra). In particolare, è a lui riconosciuta l’immunità dalla giurisdizione penale, fatta salva la punibilità per crimini di guerra. Nella prassi vi sono numerosi dubbi di qualificazione della nozione di legittimo combattente in relazione a svariate figure di combattenti volontari, irregolari, da individui non riconducibili stabilmente all’organizzazione militare di una parte belligerante, dell’appartenente a movimenti di liberazione nazionale ma rientrano in tale qualifica se sussistono le condizioni per applicarvi il regime normativo dei conflitti armati internazionali. Non è consentita la condizione dei mercenari, vale a dire stranieri assoldati da una parte del conflitto a cui partecipano solo per profitto personale. Non sono invece mercenari i cosiddetti “private contractors” cioè dipendenti di una società che fornisce all’autorità di governo servizi militari, di polizia o semplicemente logistici. Infine, non si può riconoscere la 21 Parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari (1996) La questione della liceità dell'arma atomica è stata oggetto di un parere consultivo della Corte internazionale di giustizia, reso l'8 luglio 1996. La Corte non ha espresso una posizione definitiva sulla liceità della minaccia e dell'uso delle armi nucleari. Per un verso, ha riconosciuto che l'impiego di tali armamenti è generalmente contrario ai principi del diritto internazionale umanitario e costituisce una violazione dei diritti umani – in particolare del diritto alla vita: in questa chiave, l’impiego o la minaccia dell’arma nucleare risulta vietato "nella maggior parte dei casi". Tuttavia, la Corte ha affermato: "in considerazione dello stato attuale del diritto internazionale così come degli elementi di fatto a sua disposizione, la Corte non può tuttavia concludere in modo definitivo se la minaccia o l'impiego delle armi nucleari sarebbe lecita o illecita in una situazione estrema di legittima difesa in cui la stessa sopravvivenza dello Stato sarebbe messa in causa". In altre parole, la Corte ha deciso (per otto voti contro sette, con il voto decisivo del suo Presidente), che ci possono essere casi in cui l’uso di armi nucleari tattiche, nonostante il loro devastante impatto sulla vita e la salute di un certo numero di persone, civili inclusi, può risultare proporzionato al pericolo corso dal soggetto che le utilizza e quindi lecito. La Corte ha peraltro aggiunto, con voto unanime, che “esiste un obbligo di perseguire in buona fede e portare a termine dei negoziati in vista del completo disarmo nucleare da realizzare sotto stretto ed effettivo controllo internazionale”. Il parere è stato da più parti criticato per l’ambiguità delle sue conclusioni finali. qualifica di combattente legittimo al terrorista internazionale, cioè colui che intraprende iniziative che abbiano non solo obiettivi civili, ma anche obiettivi militari con conseguenze sui civili (ne è un esempio sulla situazione degli Stati Uniti rispetto ai terroristi di al Qaeda). Il regime giuridico dell’occupazione bellica a protezione della popolazione civile Il trattamento della popolazione civile acquista un rilievo centrale nel regime giuridico dell’occupazione bellica: la quarta convenzione dell’Aja del 1907 – modificata integrata dalla convenzione di Ginevra del 49 e dal I protocollo addizionale del 77- disciplina l’occupazione ostile effettiva, sia temporanea che duratura, da parte di uno Stato a prescindere se esista una resistenza armata. Il diritto internazionale riconosce il diritto di conservazione allo Stato-ordinamento precostituito che ha perso il controllo effettivo del proprio territorio a vantaggio del nemico: così perdura il rispetto dovuto alle sue leggi e alle sue giurisdizioni anche se in presenza di un’occupazione ostile. La Potenza occupante deve inoltre mantenere l’identità geopolitica della popolazione occupata (per questo il consiglio di sicurezza ha ritenuto illegittima l’annessione di Gerusalemme ad opera di Israele). Inoltre, lo Stato occupante non ha la libertà di depredare il patrimonio artistico culturale dello Stato occupato. Il protocollo stabilisce una serie minima di diritti umani che lo Stato occupante deve rispettare nei confronti di tutte le persone sottoposte alla sua giurisdizione, anche se questi diritti non siano riconosciuti nell’ordinamento dello Stato occupante. In questo contesto le norme di diritto internazionale umanitario sono applicate a titolo di norme speciali, integrandosi con le regole generali a tutela dei diritti umani. Si parla di cosiddetta “occupazione terapeutica” nel caso in cui un intervento militare coercitivo è giustificato da un’azione di realizzazione di valori importanti: ne è un esempio il tribunale di Norimberga istituito dalle potenze alleate in chiara deroga alle regole sul potere dell’autorità occupante, ma legittimate dal fatto di agire ‘’nell’interesse delle nazioni unite’’. Uso della forza e costituzione italiana Il divieto di uso della forza come sancito nella carta dell’Onu ha subito conferma nell’articolo 11 della costituzione, in base al quale “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. L’Italia ha mostrato anche la propria disponibilità ad usare la forza per ragioni umanitarie (si pensi all’intervento contro la Serbia per salvare la popolazione kosovara) ed ha partecipato più volte ad operazioni di peace keeping talvolta su richiesta delle parti interessate, talaltra su decisioni o autorizzazioni dell’Onu. Nelle operazioni di peace enforcement l’Italia ha spesso partecipato con funzioni di polizia internazionale anche se la costituzione non fa menzione di questa funzione. Disposizioni che disciplinano l’uso della forza o il ricorso alla guerra:  Art. 10 = grazie ad esso tutto il diritto internazionale (sia quello inibitorio che quello permissivo) viene recepito dall’Italia grazie alla sua funzione di traduttore, trasformatore permanente delle norme  Art. 11 = ripudio alla guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali, quindi non ripudia totalmente la guerra ma ripudiarla soltanto come mezzo di offesa, dunque per legittima difesa si. Tale ripudio della guerra, quindi, non equivale tuttavia ad una formula di neutralità assoluta che altrimenti non spiegherebbe il richiamo della stessa costituzione allo stato di guerra, ma va letto nel senso che la costituzione impone una visione degli apparati militari dell’Italia non finalizzata all’idea della potenza dello Stato ma legata all’idea della garanzia della libertà dei popoli e dell’integrità dell’ordinamento nazionale.  Art. 78 = le camere deliberano lo stato di guerra  Art. 87 = Il PDR dichiara lo stato di guerra e dirige le forze armate  Art. 117 Importante è la legge 145/2016  L’Italia ha disciplinato in modo organico l’invio di forze ‘’di pace’’ in missioni internazionali. Dunque, tutte le missioni a cui l’Italia ha partecipato in questi anni, non avevano una copertura normative; erano deliberate dal governo ed il parlamento ne prendeva atto. Questa legge dispone che le missioni sono decise dal governo, previa informativa al PDR e autorizzazione del parlamento. Ogni anno, il parlamento deve essere aggiornato. Inoltre, queste missioni devono essere compatibili con il diritto internazi., con il diritto pattizio, con i diritti umani e umanitari. sorgono delle controversie internazionali visto che c’è l’obbligo di risoluzione pacifica delle controversie, è bene che gli stati riescano a cooperare tra di loro anche per la risoluzione delle stesse. Quindi si sarebbero dovute mettere d’accordo per l’ammontare della riparazione. La sentenza di condanna della corte nei confronti degli usa ha avuto dei seguiti, cioè in un primo momento gli usa avevano deciso di non conformarsi a quella che era stata la decisione della corte, ma la sentenza alla fine è stata caratteristica anche perché è andata ad affermare con incisione il principio di non interferenza… gli usa sono stati condannati non perché avessero utilizzato l’aggressione indiretta ma perché di fatto erano intervenuti in questioni che non riguardavano gli stessi…. Il seguito è stato quello di confermare un principio di diritto internazionale che è quello di non interferenza! Se e in quale misura il comportamento posto in essere da militari e paramilitari possa essere imputato ad uno stato? L’approccio seguito dalla corte in questo caso è stato criticato dal tribunale per la ex Iugoslavia che ha adottato un approccio molto più ampio = per la corte int. di giustizia affinché si possa attribuire ad uno stato il comportamento di gruppi militari o paramilitari è necessario provare che l’attività di supporto\sostegno dello stato sia provato in ogni singolo passaggio. Il giudice Cassese invece, parlando della stessa questione nel caso Tadic, ha detto che si dimostri che lo stato debba avere un atteggiamento di sorveglianza e controllo generale sull’insieme dell’attività per poter attribuire il comportamento di questi gruppi. L’approccio seguito in Nicaragua è quello sposato dalla commissione di diritto int., dell’art 8, e confermato nella sentenza di cui abbiamo parlato. Il prof vuole precisare del fatto che gli usa non si sono voluti conformare…. Ai sensi dell’art 94 della carta Onu, la sentenza resa nella controversia è vincolante per le 2 parti, tuttavia può porsi il problema che lo stato soccombente non la rispetti e allora secondo quella disposizione la parte vittoriosa può adire il cons di sicurezza affinché questo emani delle raccomandazioni o prenda le misure necessarie per indurre lo stato soccombente a rispettare la sentenza. Quando però lo stato soccombente è un membro permanente del consiglio di sicurezza delle nazioni unite, questa mossa ha pochissime possibilità di successo. Ancora il prof aggiunge che per il principio di non interferenza, questo è un principio che nella sentenza viene declinato in modo molto dettagliato…. Attenzione, la corte parte dal principio di non intervento negli affari interni di un altro stato che costituisce un illecito internazionale!! Ora però le modalità attraverso le quali questo principio può manifestarsi può essere molteplici, ad esempio nel caso in questione, c’è l’uso della forza. La corte distingue l’uso della forza a seconda che implichi o meno la fattispecie di aggressione… Maria Ida ha detto che gli usa sono stati ritenuti responsabili di atti che hanno integrato la fattispecie di aggressione indiretta, mentre altre manifestazioni da parte degli usa (finanziamento) non sono state considerate dalla corte come una manifestazione di aggressione ma solo come una violazione del principio anche dell’uso della forza! Attenzione quindi quando parliamo del divieto dell’uso della forza dobbiamo scomporre il divieto che integra la fattispecie dell’aggressione dal divieto dell’uso della forza che non integra la fattispecie dell’aggressione… è una violazione di intensità diversa… sono 2 condotte che afferiscono alla stessa norma ma il livello di responsabilità è diverso!! Ultimo aspetto, art. 51 è una norma pattizia! Nella sentenza viene chiaramente detto che il diritto internaz. in materia di uso della forza ha una duplice natura = pattizia e consuetudinaria. Quello che non è scritto nell’art. 51 è detto dalla corte in Nicaragua che dice ad esempio, per essere legittimo l’uso della forza deve essere necessario, proporzionale ecc.… questo nell’articolo 51 non lo trovo eppure è appartenente al diritto consuetudinario e la corte lo dice! C’è un’interazione tra i 2 diritti, che non entrano in conflitto ma si integrano a vicenda. Ancora, gli usa prima di accettare il giudizio hanno cercato di escludere la controversia della corte… tra gli argomenti utilizzati gli usa hanno detto che ai sensi dello statuto della corte, art. 38, la corte è competente a risolvere le controversie di natura giuridica… secondo gli usa quella con il Nicaragua non era una controversia giuridica ma era politica e quindi a essere competente era il consiglio di sicurezza…. loro avrebbero avuto il diritto di veto. La corte ha sostenuto che non c’è controversia politica che non possa essere risolta in modo giuridico. SENTENZA IRAN CONTRO STATI UNITI La prima sentenza di cui parleremo è sulle relazioni diplomatiche e consolari statunitensi in particolar modo a Teheran ed è una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1980. Che cos'era successo? Il 4 novembre del 1979 alcuni studenti, che poi erano dei militanti islamici i quali appoggiavano il pensiero tanto politico quanto religioso dell’ayatollah Khomeini, che era un Imam ovvero un capo politico e spirituale dell'Iran, avevano invaso l'ambasciata statunitense a Teheran il 4 novembre non che, il giorno dopo, avevano invaso anche due consolati statunitensi sempre a Teheran. Di conseguenza gli Stati Uniti aveva adito la Corte Internazionale di Giustizia lamentano una violazione tanto di quelle che erano le norme consuetudinarie del diritto internazionale tanto del diritto pattizio, perché sussistono due convenzioni che riguardano e regolano i rapporti diplomatici tra stati e consolari. Una è la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, l'altra è sempre la Convenzione di Vienna del ‘63 sulle relazioni consolari. Questi studenti islamici appoggiavano un'idea giuridica e politica un po' particolare dell'ayatollah perché basava quello che era il proprio pensiero giuridico su quella che era la religione islamica, di conseguenza erano state inserite alcune disposizioni in quello che era il regime giuridico dell'Iran che riguardano per esempio l'abbassamento dell'età minima delle donne in età di matrimonio a 9 anni o ancora c'era l'obbligo per le donne di portare il velo e comunque di coprire il volto interamente… era stata introdotta per esempio la pena di morte per la bestemmia, per l'adulterio. E questo gruppo di islamici di studenti avevano invaso l'ambasciata statunitense pensando che gli Stati Uniti fossero i responsabili di tutte le disgrazie dell’Iran. Quando venne adita la Corte Internazionale di Giustizia intervenne il consiglio di sicurezza; voi sapete che ruolo ha il consiglio di sicurezza? Il consiglio di sicurezza ha come funzione principale quella del mantenimento della pace e della sicurezza e aveva ordinato nel caso di specie che l'ambasciata venisse immediatamente liberata e che insieme all'ambasciata venissero liberarti quelli che erano stati tenuti in ostaggio che era il personale diplomatico di ben 52 membri che poi vennero liberati nel 1981. Addirittura il presidente dell'assemblea generale ha scritto una lettera al Khomeini affinché spronasse quelli che erano gli studenti a liberare gli ostaggi; queste non sono informazioni futili perché con queste informazioni cioè il fatto che il Khomeini non abbia adottato misure necessarie alla liberazione degli ostaggi, il fatto che l’Iran non abbia agito per metter fine a quelle che erano delle violazioni di diritto internazionali può far sorgere allo Stato iraniano per atti commessi da soggetti privati (di questo ne abbiamo già parlato). Quindi cosa venne chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia dagli Stati Uniti? Innanzitutto venne chiesto che venisse accertato esistesse o meno e in che misura una responsabilità da parte dello Stato Iraniano per gli atti compiuti da questi studenti islamici e secondariamente venne chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di verificare la compatibilità di quel comportamento adottato dagli studenti con le norme di diritto internazionale consuetudinario generale perché secondo gli Stati Uniti si parlava di una violazione del diritto consuetudinario generale quindi quello adottato da tutti gli stati della comunità internazionale e anche dalle norme pattizie, cioè quelle contenute nella Convenzione di Vienna del 61 e del 63. Quindi a che cosa si può ricollegare come macro-argomento la sentenza? All’immunità diplomatica e quindi a tutta quella serie di norme poste a tutela per personale diplomatico, dell’agente diplomatico che è una tutela contenuta come abbiamo detto nelle due convenzioni e nel diritto consuetudinario. Ma noi abbiamo detto che un altro argomento di diritto internazionale a cui si ricollega la sentenza è quello in relazione alle immunità del personale diplomatico, dell'agente diplomatico in particolar modo, ma per quale ragione? Sia perché è stata violata una sede diplomatica (e adesso vediamo che la sede diplomatica è protetta da diritto internazionale) sia perché erano stati tenuti in ostaggio dei soggetti che facevano parte del personale diplomatico e di conseguenza godono dell’immunità. Quando la corte Internazionale di Giustizia ha esaminato il caso ha deciso di analizzarlo suddividendolo in due momenti. Una prima fase che è quella del 4 novembre e 5 novembre, cioè la mera violazione della sede diplomatica ed il 5 novembre dei due consolati statunitensi. E un secondo momento, che invece riguarda tutto ciò che è avvenuto dopo quell’occupazione. Questo è importante perché vedremo che in un primo momento l'Iran non è stato considerato direttamente responsabile mentre in un secondo momento è stato considerato proprio direttamente responsabile. Analizziamo la prima fase: il 4 novembre gli studenti occupano questa ambasciata, il 5 novembre il consolato ed agiscono da soggetti privati cioè non c'era un legame organico con lo Stato. Lo stato non li riconoscerà come propri funzionari, di conseguenza per la generalità del diritto internazionale l’Iran non ha alcun tipo di collegamento con quelli che sono i soggetti, i militanti. Eppure l'ayatollah aveva più volte affermato che gli Stati Uniti in realtà erano responsabili di tutti i mari dell’Iran, cioè Khomeini aveva più volte affermato che gli Stati Uniti non soltanto spiassero quelli che erano gli affari interni (ricordate che vi è un obbligo a carico dello stato accreditatario cioè il capo di missione o l’agente diplomatico che viene mandato ad esercitare nello Stato accreditatario, deve esercitare quelle che sono le proprie funzioni senza andare al di là di queste ultime quindi non può interferire negli affari interni dello Stato accreditatario ma deve mantenere quelle che sono le proprie funzioni di rappresentanza). Ora, secondo Khomeini, gli Stati Uniti in realtà spiavano l’Iran; non soltanto, avevano arrecato danni ai cittadini iraniani privando Iran di alcuni beni. Anche se aveva affermato questo la corte Internazionale di Giustizia non ritenne responsabile in via diretta Iran perché sarebbe stato troppo interpretare queste affermazioni come un ‘via’ all'occupazione di un'ambasciata, cioè è vero che Khomeini poteva aver fatto nascere dei pensieri negativi da parte degli studenti nei confronti degli Stati Uniti però questo non significava ‘andate, occupate l'ambasciata e tenere in ostaggio quelli che sono i soggetti all'interno dell'ambasciata’ eppure noi abbiamo detto che la responsabilità dell'Iran c’è. Non sarà diretta dice la Corte Internazionale di Giustizia nella prima fase ma sicuramente una responsabilità indiretta… perché secondo voi? Per quello che abbiamo detto prima, non ha posto in essere alcuna misura per poter prevenire o per poter mettere fine a quello che è un comportamento illecito, anche perché la Corte Internazionale di Giustizia analizzando il caso si è resa conto che tutto questo era avvenuto senza l'intervento di forze armate iraniane, tutto questo è avvenuto senza che l’Iran avesse mandato qualcuno a protezione degli agenti diplomatici e delle sedi diplomatiche e quando voi leggete gli articoli della convenzione soprattutto quelli che riguarda (sempre il 61 ovviamente) l'immunità dell’agente diplomatico e delle sedi diplomatiche leggerete sempre un carico da parte dello stato accreditatario di proteggere e garantire quelle immunità; questo non era avvenuto da parte dell'Iran quindi già era stata accertata una responsabilità indiretta. Quand'è che questa responsabilità diventa diretta? Nella seconda fase, che è stata quella susseguente all’occupazione cioè la presa in ostaggio di 52 membri del personale diplomatico. Ci si rese conto che le autorità iraniane, giudici, giuristi, anche televisive e in particolar modo lo stesso Khomeini avevano espresso il loro consenso a questo comportamento, cioè addirittura Khomeini con un documento ufficiale affermò che i soggetti in ostaggio sarebbero rimasti tali finché gli Stati Uniti non avessero consegnato i beni all’Iran e se non avessero posto fine a quella che secondo l’Iran erano delle gravi violazioni di diritto internazionale; queste fasi di spionaggio. Quindi cosa c’era stato da parte dell’Iran in questo caso, un secondo elemento; non solo la mancanza delle misure necessarie adottate ma anche l’avallo. Ecco la motivazione per cui uno stato può essere considerato responsabile per azioni di privati quindi a quel punto avvenne questo; quelli che erano dei semplici militanti e studenti islamici scollegati dall’Iran divennero membri dello Stato riconosciuti, dei soggetti riconosciuti dallo Stato che operavano allo svolgimento delle funzioni che lo stato aveva assegnato loro (responsabilità diretta dell'Iran). Però abbiamo detto che l’Iran aveva anche posto a proprio favore quelli che erano alcune considerazioni cioè l’Iran si era giustificata, ha detto ‘sì è vero che io sono responsabile direttamente di ciò che è avvenuto anche perché Khomeini ha stabilito che resteranno in ostaggio i soggetti finché gli Stati Uniti non metteranno fine a quelle che sono le violazioni diritto internazionale. Proprio vero che questo comportamento è una causa di giustificazione proprio perché gli Stati Uniti hanno commesso delle violazioni di diritto internazionale quindi lo stato iraniano si giustificava dicendo ‘Io in realtà sto rispondendo a delle ulteriori violazioni di diritto internazionale da parte degli Stati Uniti’ e allora si chiede questo alla Corte Internazionale di Giustizia; è possibile che lo Stato accreditatario venga meno a quelle che sono i propri obblighi se è anche lo stato accreditante a farlo? Anche qua la Corte Internazionale di Giustizia dà torto all’Iran, secondo voi per quali ragioni? Sicuramente non è un modo per difendersi questo, quindi la corte internazionale di giustizia dice due cose; innanzitutto che non sussiste alcuna prova, nel senso che non è detto da nessuna parte che gli USA abbiano commesso queste violazioni, poi se anche gli Stati Uniti avessero commesso queste violazioni dice la Corte Internazionale di Giustizia la risposta alle violazioni di diritto internazionale non è una risposta lecita, nel senso che è già il diritto internazionale in particolar modo la stessa Convenzione di Vienna del 61 a dare delle risoluzioni a eventuali problematiche cioè voluto specificare, quasi a giustificarti, quella che è la ratio delle immunità. Secondo voi a cosa serve l’immunità dell'agente diplomatico? Che nulla sia di intralcio a quella che la missione, a garantire quindi di conseguenza l'esercizio delle funzioni dell’agente diplomatico; per cui la Corte Internazionale di Giustizia dice ‘garantisco l'immunità dell’agente diplomatico non perché voglia fare un favore all’agente diplomatico, un favore personale, ma perché essendo Ministro degli Esteri svolge delle funzioni fondamentali se io tolgo l'immunità per accuse anche se queste sono gravi violazioni diritto internazionale non permetto alla stato di appartenenza del ministro degli Esteri di svolgere adeguatamente le funzioni. Questa è una motivazione per cui teoria dell'immunità dell’agente diplomatico sussiste anche in caso di gravi violazioni, poi però un secondo punto che la Corte Internazionale di Giustizia prende in considerazione è questo; non sussiste inoltre nel diritto internazionale alcuna norma consuetudinaria né tanto meno esiste in giurisprudenza (lo vediamo anche nel caso Pinochet) che affermi una venuta meno dell'immunità nel caso di gravi violazioni del diritto internazionale. Cioè In realtà e in effetti non c'è nulla che dica che l'immunità viene meno nel momento in cui il crimine internazionale individuale è compiuto, però a seguito delle numerosissime critiche che poi son state fatte alla sentenza stessa e anche per prevenire queste critiche la Corte Internazionale di Giustizia ha aggiunto un'altra spiegazione alla decisione perché ha dato ragione a Congo quindi ha fatto revocare un mandato d'arresto del Belgio dicendo ‘il Belgio non giudicare innanzitutto in maniera universale un crimine internazionale individuale, secondariamente il Belgio viola le norme di diritto internazionale sull'immunità’ però dice la Corte Internazionale di Giustizia ‘non sto dicendo che un soggetto è immune e allora resta impunito’; scinde questi due concetti…immunità e impunità. Secondo voi che significa questo? Tu puoi anche essere responsabile ma se sei immune non posso giudicarti, però chi non può giudicarti dice la Corte Internazionale di Giustizia? L’altro Stato. Quindi in realtà esistono dei Tribunali appositi (ecco perché abbiamo parlato di corte penale internazionale) che possono giudicare anche la gente diplomatica in caso violi norme di diritto internazionale fondamentali quindi l'unica motivazione per cui è stato ritirato il mandato d’arresto è questo; il Belgio non ha assolutamente alcuna competenza e giurisdizione per poter giudicare la questione secondariamente sono già istituiti Tribunali appositamente creati per poter giudicare i soggetti che commettono dei crimini internazionali individuali. In realtà l’immunità può venire meno eccome, nel senso che un agente diplomatico può essere giudicato se lo permetta la legislazione del proprio stato (in questo caso poteva essere il Congo, non sicuramente in Italia non è così; l’agente diplomatico non è giudicato nel caso del Congo invece si) se la legislazione interna lo permette nel caso di gravi crimini internazionali si può fare e comunque anche a causa di questi tribunali create appositamente, ciò che importa è che si ricollega a quello che abbiamo detto sulla ratio dell'immunità è che l’agente diplomatico è immune ma non resta impunito a vita cioè, una volta che abbia finito di esercitare quelle che sono le proprie funzioni allora può essere processato ma questo perché….non viene più intaccata quella che è la continuità delle funzioni dell’agente, e quando il Belgio ha detto ‘dobbiamo fare una differenza tra immunità personale e immunità funzionale perché comunque Yelodia ha agito al di fuori delle proprie funzioni’ anche in questo caso la Corte Internazionale di Giustizia ha dato torto al Belgio perché dice ‘quando si parla di agenti diplomatici non possiamo fare differenze tra gli atti che sono compiuti, specie quando si parla di ministro degli Esteri, nell'esercizio delle funzioni e gli atti compiuti personalmente perché come la si gira comunque viene intaccata la funzione del ministro degli Esteri e allora il ministro degli Esteri può essere giudicato, cioè cade l’immunità del ministro soltanto qualora abbia finito quelle che sono le funzioni e anche quando il comportamento illecito in questo in questo caso sia stato compiuto precedentemente all’avere le proprie funzioni, alle funzioni del ministro. FABBRICA DI CHORZOW Il caso della fabbrica di Chorzàw (in francese: Affaire relative à l'usine de Chorzàw) è stato un caso ascoltato dinanzi alla Corte permanente di giustizia internazionale nel 1927. Fu una delle prime autorità del diritto internazionale che stabilì una serie di precedenti nel diritto internazionale Nell'Alta Slesia vi fu un plebiscito con la maggioranza di 31.864 elettori che votò per rimanere in Germania mentre 10.764 voti sono stati dati per la Polonia. Dopo tre rivolte silesiane, la parte orientale della Slesia, tra cui Chorzow e la Huta di Krolewska, fu separata dalla Germania e assegnata alla Polonia nel 1922. Le migrazioni di persone sono seguite e a causa del suo valore strategico, il caso della fabbrica di azoto Oberschlesische Stickstoffwerke è stato sostenuto per anni davanti alla Corte permanente di giustizia internazionale, stabilendo finalmente alcune nuove precedenti giuridiche su ciò che è "giusto" nelle relazioni internazionali. La Corte ha ritenuto che: - Uno Stato è ritenuto responsabile dell'espropriazione di proprietà aliene - Al Diritto Internazionale, una nazione è responsabile per gli atti di organi del governo o ufficiali - È un principio generale del diritto internazionale che deve essere fatto un risarcimento per le violazioni del diritto internazionale. PARERE SUL MURO La costruzione di un “muro” nei territori palestinesi occupati da Israele è stata oggetto di una pronuncia della Corte internazionale di giustizia dello scorso 9 luglio. La Corte ha riconosciuto il diritto di Israele di difendere la propria popolazione dai numerosi atti di violenza, ma ha sottolineato che le misure a tal fine adottabili devono conformarsi al diritto internazionale, mentre la costruzione del muro è in contrasto con diverse norme di diritto internazionale. In primo luogo la Corte ha riscontrato una violazione del divieto di annessione dei territori occupati, perché la costruzione del muro favorisce il consolidamento degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Essa, inoltre, creando una situazione di fatto che rischia di diventare permanente, si pone in contrasto con il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese. Secondo la Corte, la costruzione, chiudendo e isolando città, territori e popolazione della Palestina, viola poi il diritto alla libertà di movimento e di scegliere la propria residenza, il diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione e a un adeguato livello di vita. Anche altre importanti regole del diritto internazionale umanitario risultano violate, come quelle che vietano, in principio, la distruzione e la confisca di beni degli abitanti dei territori occupati; la costruzione del muro, infatti, è stata realizzata mediante la confisca e la distruzione di vaste aree agricole particolarmente fertili, appartenenti a Palestinesi. Il progressivo abbandono delle terre chiuse dal muro, da parte della popolazione palestinese, e, per altro verso, il rafforzamento degli insediamenti israeliani, determinano, inoltre, un'alterazione della composizione demografica dei territori, anch'essa vietata dal diritto internazionale. Israele – afferma la Corte – deve cessare la costruzione del muro nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est, e smantellare le parti già realizzate. Esso, inoltre, deve revocare le misure legislative e amministrative concernenti la costruzione del muro e l'“Area chiusa”, restituire i beni confiscati per tale costruzione e, ove ciò non sia possibile, risarcire i danni subiti da persone fisiche o giuridiche. Quale potrà essere l'efficacia della pronuncia della Corte? Contrariamente a quanto spesso dichiarato (erroneamente) dai media, essa non ha alcuna efficacia obbligatoria; la pronuncia del 9 luglio 2004 non è, infatti, una sentenza, ma un parere consultivo, che né gli Stati (a cominciare da Israele), né la stessa Assemblea generale, che pure lo ha richiesto, hanno l'obbligo giuridico di eseguire. Sul piano politico- morale, però, ha un'indubbia autorità. La pronuncia della Corte ha il merito di richiamare, nelle conclusioni, l'urgente necessità per l'intera Organizzazione delle Nazioni Unite di raddoppiare i propri sforzi per condurre a una rapida conclusione il complessivo conflitto Israelo-Palestinese. Il monito pressante della Corte, rivolto sia all'Assemblea generale che alle parti del conflitto, consiste nella necessità di riprendere gli sforzi per una soluzione negoziata, seguendo la traccia oggi segnata dalla Road Map (approvata dal Consiglio di sicurezza con risoluzione 1515 del 19 novembre 2003), fondata, in conformità delle numerose risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite, sulla creazione di uno Stato palestinese, che viva “side by side” con lo Stato di Israele e i suoi vicini, soluzione che possa assicurare pace e sicurezza per tutti nella regione. Dinanzi alle continue violenze che insanguinano tale regione, provocando immani sofferenze e tante vittime innocenti, è da augurarsi che il monito della Corte sia accolto dalle Nazioni Unite e, principalmente, che Israele e l'Autorità palestinese comprendano che solo il reciproco e sincero riconoscimento del diritto inalienabile a vivere in un proprio Stato sovrano e in condizioni di sicurezza può condurre alla fine di una tragedia che si protrae da decenni e aprire la speranza su un futuro di pace e di prosperità per i loro popoli. [Altro materiale Muro Palestina] Il parere della Corte internazionale di giustizia, prima di addentrarsi ad esaminare le conseguenze della costruzione del muro nei Territori palestinesi da parte di Israele, si è innanzitutto soffermata sulla liceità della costruzione stessa dal punto di vista del diritto internazionale. Ritenendo che la costruzione del muro secondo il tracciato prescelto da Israele comportasse una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli e del divieto di annessione con la forza di territori altrui, oltre ad altre violazioni relative ai diritti umani ed alle norme di diritto internazionale umanitario, la Corte ha affrontato la questione dell'invocabilità di cause di esclusione dell'illiceità. In proposito, la Corte ha escluso la sussistenza della necessità militare, non essendo provato che il tracciato prescelto fosse imposto da ragion di carattere militare. Ha escluso inoltre l'invocabilità della legittima difesa, a motivo del fatto che gli attacchi militari subiti da Israele non provenivano da una forza esterna, come è necessario al fine dell'invocazione della causa di esclusione in questione, bensì dall'interno degli stessi Territori palestinesi occupati. Infine, ha escluso l'invocabilità dello stato di necessità, causa d'esclusione dell'illiceità la quale presuppone la contestuale presenza di una serie di presupposti destinati ad applicarsi cumulativamente, non essendo in particolare provato che la costruzione del muro secondo quel particolare tracciato fosse l'unico mezzo per salvaguardare l'interesse essenziale della sicurezza dello Stato di Israele. In merito alle conseguenze derivanti dall'illecito in questione, la Corte afferma il carattere erga omnes degli obblighi violati, in quanto concernenti il rispetto del diritto all'autodeterminazione dei popoli e delle disposizioni del diritto internazionale umanitario, con la conseguenza che tutti gli Stati hanno l'obbligo di non riconoscere le conseguenze, in termini di delimitazione territoriale, derivanti dalla costruzione del muro, nonché l'obbligo di non prestare assistenza allo Stato di Israele nel mantenimento della situazione derivante dalla costruzione stessa, nonché più in generale l'obbligo di assicurare il rispetto da parte di Israele dei diritti violati (cfr. art. 41 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati). Bosnia vs Serbia e Montenegro 2007 La sentenza affronta la problematica dell'elemento soggettivo dell'illecito internazionale, con riferimento all'imputabilità alla Serbia del massacro di Srebrenica del 1995, che la Corte stessa ha qualificato alla stregua di un genocidio ai sensi della Convenzione del 1948 relativa alla prevenzione e repressione di tale crimine. Nella specie, si trattava di accertare se gli esecutori materiali del massacro, pur non essendo organi de iure della Serbia, nondimeno potessero considerarsi alla stregua di organi de facto di quest'ultima. A tal fine, la Corte, richiamandosi anche alla precedente sentenza del 1986 relativa alle Attività militari e paramilitari in Nicaragua (v.), ha affermato che affinché soggetti non facenti parte dell'apparato organizzativo di uno Stato possano nondimeno considerarsi alla stregua di organi di fatto dello stesso, è necessario che essi agiscano in completa dipendenza dallo Stato stesso, senza godere di alcun margine di autonomia nella condotta delle azioni rilevanti. Nella specie, la Corte ha ritenuto che gli esecutori materiali del massacro non potessero dirsi operare in completa dipendenza dalla Serbia, nonostante il notevole sostegno ricevuto da quest'ultima nello svolgimento delle proprie azioni.
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