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Riassunto Gomorra Saviano, Appunti di Critica Letteraria

questo è il riassunto di Gomorra

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 14/05/2023

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Scarica Riassunto Gomorra Saviano e più Appunti in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! GOMORRA INTRODUZIONE Il libro “GOMORRA”, scritto nel 2006 da Roberto Saviano, ha dato spesso adito a numerose interpretazioni da parte sia del pubblico-lettore, sia della critica (critici, giornalisti…). Sicuramente bisogna partire dal presupposto che “Gomorra” non è né un saggio né un romanzo, ma piuttosto una cronaca di fatti sottoforma di racconto. Questa cronaca ha come punto focale la camorra, radicata nell’area presa come “oggetto di studio” (la Campania e, più precisamente, Napoli), che conosce solo una regola, gli affari, e, come effetto, la morte, che, più che un rischio calcolato, coincide con il mestiere stesso. Saviano punta i riflettori su una terra in cui lo Stato è assente e che non è il paese conosciuto come la sede dell’arte, del rinascimento, del lusso o dei paesaggi mozzafiato. A darci adito di questa visione negativa è naturalmente anche lo stesso titolo del libro, “Gomorra” appunto, che è un riferimento alla città distrutta da Dio nel Vecchio Testamento, insieme a Sodoma, a causa della corruzione degli abitanti. In conclusione, Saviano non è da considerarsi semplicemente un bravo reporter, che è colui che si sporca le mani, che parla con la gente e guarda tutto con i propri occhi, ma lui si è immerso proprio nel fango, impregnandosi della sporcizia della criminalità organizzata napoletana e infiltrandosi tra gli stessi camorristi. Lo stesso Saviano, nell’introduzione all’edizione del libro che celebra i 10 anni dello stesso, ci racconta l’iter di scrittura e le motivazioni che lo hanno portato a questo. L’intento iniziale era sicuramente letterario, con lo scopo di raccontare la vita attraverso uno stile che conciliasse il rigore della realtà e la suggestione della letteratura, la concretezza del dato e lo slancio della poesia. L’obiettivo di Saviano era di incidere nella realtà, nutrendo l’illusione di riplasmare il mondo, ma ha vissuto la delusione dell’impatto con il reale. Desiderava abbattere il potere di cui scriveva e chiamare figuratamente alle armi coloro che vi si opponevano. Saviano ci parla anche del suo rapporto con il suo stesso libro, identificandosi quasi in esso e odiando tutte le parti del libro in cui scorge sé stesso. Tuttavia, ci porta anche a conoscenza del fatto che gli fu proposto di firmare il libro con uno pseudonimo ma che rifiutò perché voleva che l’utilizzo del suo nome significasse presa di responsabilità e scelta, scelta di dimostrare che la parola letteraria può ancora avere un peso e il potere di cambiare la realtà. Conclude, affermando di aver perso ogni speranza nel cambiamento sociale, ma di continuare a nutrire la speranza che il racconto di una storia possa salvare, nell’uomo, quanto di umano gli sia rimasto. PRIMA PARTE CAPITOLO 1 – Il porto In questo primo capitolo, come si desume dal titolo, si parla del porto, in particolare il PORTO DI NAPOLI. La descrizione verte sul porto di Napoli e, più precisamente, su ciò che avviene quotidianamente nel porto, ovvero un via vai di container che trasportano corpi morti, ma anche merci di ogni tipo e lo fanno nel più breve tempo possibile (la principale qualità del porto viene vista proprio nella velocità) e adottando tecniche per evitare i controlli (Saviano fa l’esempio di più container con su scritto lo stesso numero, in modo che il primo ad essere ispezionato “battezzasse” tutti gli altri). A prevalere sono le merci provenienti dalla Cina: infatti, nel porto, opera il più grande armatore di Stato cinese, la COSCO, che possiede la terza flotta più grande al mondo e che si è consorziata con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. La descrizione è anche fitta di similitudini: per esempio, i corpi che cadono dal container sono visti come manichini; oppure, il porto di Napoli, per capirne il meccanismo, viene paragonato, con immagine evangelica, alla cruna dell’ago e i vari container a dei cammelli che spingono per entrare, ma che comunque entrano con ordine; o ancora, il molo sembra una costruzione Lego e l’acqua che lo circonda, se illuminata dal Sole, ha la lucentezza delle buste di spazzatura nere. Dal racconto di Saviano possiamo notare come il porto di Napoli sia il crocevia di ogni passaggio, quasi una sorta di dogana per le merci. Merci che sono quasi una muraglia, che però non difende Napoli, ma è la città a difendere esse. Merci che sembrano quasi essere più importanti di tutto e prendere il sopravvento sulle stesse esigenze umane. Colpisce, ad esempio, il racconto per cui al lavoro (immagazzinamento delle merci) che egli aveva trovato grazie a Xian-Nino (i cinesi hanno tutti dei nomi napoletanizzati), il proprietario della sua stanza-casa (l’unica parte dell’appartamento abitabile), si tendeva ad evitare, nonostante il caldo estivo, ad utilizzare condizionatori, poiché si constatava che le merci non soffrono il caldo e questa era condizione sufficiente per non spendere soldi in condizionatori. Il capitolo si conclude poi con la descrizione di un viaggio del protagonista su uno scafo di traporto merci e Saviano ci spiega poi come lo scarico in mare aperto era finalizzato proprio ad evitare la zavorra delle tasse e le spese doganali e poi ci parla di un cambiamento, perché se prima vi erano numerosi contrabbandieri, ora sta nascendo la guerra dei prezzi, con la concorrenza che si vince sugli sconti. Scigna”, è stato il primo boss a determinare questa metamorfosi. Egli era luogotenente a Secondigliano di Luigi Giuliano, boss di Forcella, nel cuore di Napoli. La periferia era considerata una zona infame, ma i Licciardi ebbero l’intuizione di considerarla una potenziale piazza di spaccio e un porto franco per i trasporti. Gennaro morì in carcere a 38 anni per un’ernia ombelicale (basti pensare che sopravvisse a 11 coltellate in una rissa!). dopo la sua morte, i fratelli Pietro e Vincenzo presero il potere militare, mentre Maria “a piccirella” deteneva il potere economico. Pietro era chiamato “l’Imperatore Romano”, per il suo spirito autoritario. Dopo l’arresto di Pietro e Maria, fu Vincenzo, boss latitante, a reggere il clan. Il clan ebbe sempre un carattere vendicativo: pensiamo alla vicenda del “principino” Vincenzo Esposito, così chiamato perché nipote di Gennaro Licciardi e quindi della famiglia dei sovrani di Secondigliano. Infatti, essi accusarono i Di Lauro di aver fornito i killer e di aver organizzato l’omicidio: fecero, così, uccidere quattordici persone. Il sistema, comprendendo che i commercianti avevano bisogno di liquidità, favorì il commercio con i contanti, garantendo un prezzo d’acquisto minore. I Nuvoletta di Marano (periferia a nord di Napoli) avevano, invece, innescato un meccanismo più articolato, fondato sul vantaggio reciproco. Giuseppe Gala, detto “showman”, era diventato uno dei più richiesti agenti nel business alimentare (Bauli, Von Holten e aveva conquistato un posto da esclusivista nella Parmalat). Tuttavia, il successo gli fu fatale perché voleva entrare anche nel mercato della droga, ma fu trovato bruciato vivo nella sua auto. I Nuvoletta sono l’unica famiglia esterna alla Sicilia legata a Cosa Nostra e ai Corleonesi. Avevano anche rinnovato il meccanismo degli investimenti nel narcotraffico, creando una sorta di sistema della cocaina: pensionati, impiegati, piccoli imprenditori davano danaro ad alcuni agenti, che lo reinvestivano per l’acquisto di partite di droga. I profitti del narcotraffico venivano poi reinvestiti nell’acquisto di appartamenti, alberghi, scuole private e gallerie d’arte. La persona che coordinava e amministrava i capitali più consistenti dei Nuvoletta era Pietro Nocera, che li investiva nei terreni e nell’edilizia. Dalla scuola di Marano veniva anche Paolo Di Lauro, la cui carriera criminale inizia come loro luogotenente. Come abbiamo visto con “showman”, caratteristica particolare dei camorristi è l’uso di soprannomi, che sono quasi delle stimmate e dimostrano la loro appartenenza al Sistema. In particolare, Paolo di Lauro era chiamato “Ciruzzo O’ Milionario”, un soprannome datogli dal boss Luigi Giuliano, che una sera al tavolo da poker lo vide mentre lasciava cadere dalle tasche decine di biglietti da cento mila lire. Ma i soprannomi possono provenire dagli avi di famiglia, da alcune passioni dei camorristi, da alcuni tratti fisici particolari e da espressioni onomatopeiche. Inoltre, vi sono soprannomi che hanno ottenuto successo mediatico, come “Sandokan”, affibbiato a Francesco Schiavone per la somiglianza con Kabir Bedi. Quindi il soprannome è importante, è un segno di riconoscimento (“tutti possono essere Francesco Schiavone, ma solo uno è Sandokan”). Paolo Di Lauro puntava ad un’organizzazione capillare ma silenziosa, in grado di connettersi direttamente ai cartelli sudamericani e albanesi. Egli fondò la Confezioni Valent (1989) che si occupava del commercio dei mobili, del settore tessile, ma anche di carni e acque minerali. La società, per questioni legate al clan, non era gestita direttamente da Paolo, ma dal figlio Cosimo (uno dei dieci figli, tutti inseriti nel clan), con alcune quote possedute anche dalla moglie Luisa. La preferenza di Paolo era quella di lavorare per la Francia, con l’obiettivo di influenzare, con il made in Italy e, in particolare, attraverso i suoi negozi, la moda in Francia. A Secondigliano, invece, l’azienda dei Di Lauro scricchiolava. A portare la soluzione, fu una bevuta. Tutto avvenne mentre il figlio di Paolo, Domenico, era in ospedale, poiché, dopo un assalto notturno a Casoria, cadde con la moto, per poi morire in ospedale a causa delle ferite riportate. In ospedale andò a trovarlo il delfino di Paolo, Gennaro Marino, detto McKay. Paolo era venuto a sapere che questi voleva rendersi autonomo dal boss (Paolo), ma Di Lauro voleva perdonarlo. Così, volle metterlo alla prova e gli offrì da bere, porgendogli un bicchiere del suo piscio: McKay lo bevve tutto, risolvendo il primo terremoto interno. [PARTE PREFERITA] CAPITOLO 4 – La Guerra di Secondigliano McKay e Angioletto volevano formare un proprio gruppo autonomo, ma senza entrare in conflitto con l’organizzazione. Così chiesero al reggente del cartello, Cosimo di Lauro, di avere un incontro col padre Paolo, il dirigente, per parargli di persona. Cosimo accetta la richiesta, ma manda i fratelli a perlustrare il luogo dell’incontro. Dalla perlustrazione si notava come tutto fosse stato preparato per tendere un agguato a Paolo e a chiunque l’avesse accompagnato. Sarà guerra, ma Cosimo prende tempo per elaborare una strategia precisa e chi sta dalla sua parte e chi no. I Di Lauro giustificano l’assenza del padre con la difficoltà di spostarsi per le ricerche della polizia. Fino a quel momento il clan Di Lauro era stato sempre un’impresa perfettamente organizzata ed era più simile ad un’azienda multilevel che ad un gruppo di criminali. L’organizzazione era composta da un primo livello di promotori e finanziatori, che provvedono a controllare le attività di traffico e spaccio. Il secondo livello comprende coloro che trattano materialmente la droga: tra i componenti di maggiore spicco, Gennaro Marino. Il terzo livello è rappresentato dai capi-piazza, che sono a diretto contatto con gli spacciatori, che coordinano i pali e le vie di fuga. Il quarto livello è il più esposto ed è composto dagli spacciatori. Ogni livello ha poi in sé dei sottolivelli. Saviano lo assimila ad un frattale, proprio come viene descritto nei libri di matematica: un casco di banane cui ogni banana è a sua volta un casco di banane le cui banane sono caschi di banane e così all’infinito. Saviano afferma di frequentare da tempo Secondigliano, girando nell’area nord di Napoli in Vespa. È la luce ciò che più lo affascina, le strade larghe ed enormi: è quasi come se sotto il catrame sopravvivesse ancora la campagna aperta (basti pensare che il nome Scampia viene da un dialetto napoletano scomparso e definiva la terra aperta, zona d’erbacce, su cui a metà degli anni ’60 hanno tirato su il quartiere). La disoccupazione e l’assenza totale di progetti di crescita totale hanno fatto sì che divenisse un luogo di spaccio. La sua faccia era divenuta conosciuta col tempo, ma era considerata neutra. Infatti, vi erano le presenze negative (poliziotti, carabinieri, infiltrati di famiglia rivali…) e quelle positive, gli acquirenti. Chi non è d’intralcio è neutro, inutile. Il meccanismo di spaccio è quello di un orologio: è come se gli individui si muovessero identici agli ingranaggi dell’orologio, poiché non c’è movimento di qualcuno che non faccia scattare qualcun altro. Lo spaccio avviene poi dalle tre del pomeriggio a mezzanotte e da mezzanotte alle quattro del mattino (la mattina difficilmente si spaccia, perché c’è in giro troppa polizia). Una delle novità che il clan Di Lauro ha introdotto a Secondigliano è la tutela dell’acquirente: prima venivano protetti solo i pusher dagli arresti; ora, Di Lauro ha messo i pali anche per proteggere gli acquirenti, così chiunque avrebbe potuto accedere alle piazze gestite dai suoi uomini con sicurezza. Il mercato di Secondigliano ha poi reso la cocaina accessibile al consumo di massa. La coca si è emancipata dalla categoria dello sballo, per divenire un anestetico del dolore: si utilizza per rilassarsi, per avere la forza di fare qualcosa, per guidare di notte o per resistere tante ore di fronte al computer. È questo il salto di qualità compiuto dai Di Lauro, insieme alla liberalizzazione dello spaccio. Se Cosa Nostra e la ‘ndrangheta irradiano ovunque i loro traffici di droga e per essi è fondamentale sapere in che zona si andrà a spacciare e con quale organizzazione, il Sistema di Secondigliano pratica la teoria del liberismo totale e del laissez-faire: la teoria adottata è quella dell’autoregolazione del mercato. A difendere ed esaltare l’uso della cocaina sono i ragazzi delle Case Celesti. Le Case Celesti, chiamate così per il colore azzurrino pallido che in origine avevano, sono divenute una delle migliori piazze della cocaina in Europa. A rendere questa piazza così conveniente è stato Gennaro McKay, a cui il boss Paolo Di Lauro ha dato la piazza in franchising, con la possibilità di fare tutto in autonomia. Gennaro e il fratello Gaetano sono detti così per la somiglianza del padre con un personaggio del telefilm “Alla conquista del West”, il cowboy Zab Macahan (che si pronuncia “Mechein”, da cui McKay). Gaetano, al posto delle mani, ha delle protesi di legno nere, per una bomba a mano che gli esplose tra le mani. Per questo ha sempre un accompagnatore con sé. Proprio la piazza delle Case Celesti ha permesso un inabissamento dei prezzi della coca. Inoltre, la manodopera in qualsiasi altro luogo avrebbe avuto un costo elevatissimo, mentre a Secondigliano la totale assenza di lavoro e l’impossibilità di trovare altra soluzione di vita che non sia l’emigrazione rendono i salari bassi. Il lavoro qui è meticoloso: a determinare la qualità del prodotto è il taglio, che, se fatto male, attira morte, polizia, arresti e occlude le arterie del commercio. Anche in questo caso i clan di Secondigliano sono in anticipo su tutti: qui ci sono i Visitors. Sono gli eroinomani e li chiamano così dal telefilm degli anni ’80, che divoravano topi e sotto un’apparente epidermide umana nascondevano squame viscide. I Visitors sono usati come cavie, cavie umane, per poter sperimentare i tagli e provare se siano dannosi e, nel caso, che reazione generano. Un metodo per testare la qualità del taglio è far scorrere la cocaina, con una siringa, nel sangue. Un Visitors morto a Secondigliano è solo un ennesimo disperato su cui nessuno farà indagini: altrove ci sarebbero analisi e ricerche, qui si tratterà sempre e solo di overdose. Così Saviano decide di seguire in prima persona ciò che stava accadendo a Secondigliano e parte dalla figura di Raffaele Amato, “a vicchiarella”, il responsabile delle piazze spagnole, che si diceva fosse fuggito a Barcellona, con parte del capitale dei Di Lauro. In realtà, egli non aveva versato la sua quota al clan, dimostrando di non volervi più appartenere. Gli uomini legati ad Amato per anni avevano fatto circolare la droga con uno stratagemma geniale: trasportarla nei camion della spazzatura, sotto i rifiuti (nessuno fermerebbe un camion della spazzatura di notte mentre svolge il suo servizio!). La Spagna è stata comunque un’area sempre egemonizzata dai clan: Cosimo di Lauro aveva intuito che i dirigenti stavano versando nella cassa dei clan sempre meno capitale. Così, Cosimo, per cercare di contenere la volontà di emergere di questi dirigenti, attua una sorta di trasformazione strutturale del clan: vengono tutti messi a stipendio, che, anche se corposo, rappresenta pur sempre un elemento di sudditanza; inoltre, i dirigenti non possono avere più di trent’anni e il che significa che non possono né rivendicare l’esperienza e il diritto di rispetto come i vecchi boss, né possono minare la leadership dei figli di Paolo di Lauro (tutti devono confrontarsi con le qualità delle proprie proposte, con la propria capacità di gestione e il proprio carisma). Uno dei primi obiettivi fu Ferdinando Bizzarro, “bacchetella” o anche “zio Fester” (dallo zio calvo, basso e viscido della Famiglia Addams). Questi era il ras di Melito (il ras definisce chi possiede un’autorità forte ma non totale, pur sempre sottoposta al boss). Egli voleva gestire il danaro da solo e prendere anche le decisioni cardine, al di fuori del clan Di Lauro. E proprio colui che era stato riferimento politico di Bizzarro, divenne il suo angelo della morte: Alfredo Cicala, ex sindaco di Melito, che diede al clan dei Di Lauro le informazioni utili per trovare Bizzarro, cioè nell’hotel Villa Giulia dove si rintanava con la propria amante. Viene ucciso. È guerra. Tutti i capi hanno deciso di ribellarsi ai figli di Paolo Di Lauro. A dare origine al conflitto, il 20 ottobre 2004, una dichiarazione di guerra: Fulvio Montanino e Claudio Salerno, fedelissimi di Cosimo, vengono ammazzati con quattordici colpi. I Di Lauro hanno meno uomini e sono molto meno forti e meno organizzati. La strategia di lotta è poi nuova: prendere nella guerra i ragazzini ed elevarli a rango di soldati. CAPITOLO 5 – Donne Le donne sono sempre presenti nelle dinamiche di potere dei clan. La faida di Secondigliano ha visto eliminare donne con ferocia riservata solitamente solo ai boss. Così come centinaia di donne erano scese in strada ad impedire gli arresti di spacciatori e sentinelle, a incendiare cassonetti e a strattonare i carabinieri. Le ragazzine si vedono correre ogni volta che una telecamera spuntava per strada. Qualcuno avrebbe potuto osservarle e chiamarle in qualche trasmissione. Le occasioni qui non capitano, ma si strappano con i denti. E così, anche con i ragazzi nulla è lasciato alla casualità dell’incontro, ma ogni conquista è una strategia e il mezzo utilizzato come esca è la propria bellezza. Saviano ci racconta a tal proposito di un episodio durante il quale, di fronte ad una scuola, la ragazza di un certo Angelo, era scesa dal motorino del ragazzo e rispose al bidello, che le chiedeva se fosse sicura di voler stare con un ragazzo che sarebbe finito a breve nel carcere di Poggioreale, che comunque egli le avrebbe dato la mesata, cioè il salario mensile che i clan danno alle famiglie degli affiliati quando questi muoiono o finiscono in carcere, anche se conviene sempre essere incinta, poiché se sei fidanzata soltanto rischi che si presenti qualche altra ragazza, sino ad allora tenuta nascosta. La maggior parte delle volte, in questi casi, si decide di non dare la mesata a nessuna delle due, ma la si gira direttamente alla famiglia (quindi matrimonio o prole sono gli elementi che garantiscono la mesata). I soldi vengono portati quasi sempre a mano dai “sottomarini”, così chiamati perché strisciano sul fondo delle strade, senza farsi mai vedere. Questi non fanno parte del Sistema: sono quasi sempre pensionati, ragionieri di negozio, contabili di bottega, che arrotondano così la pensione e riescono ad uscire di casa senza marcire davanti alla televisione. Bussano il 28 di ogni mese e portano i soldi in una busta con su scritto il cognome dell’affiliato morto/arrestato. Salgono le scale strisciando le buste vicino alle pareti: questo struscio è il campanello del sottomarino. L’unico sottomarino che Saviano è riuscito a conoscere è Don Ciro: Don Ciro aveva una tale capacità nel trovare tra i vicoli napoletani case, bassi, seminterrati, che a volte i postini, che si perdevano, gli affidavano la posta da portare ai suoi clienti. Don Ciro aveva poi le scarpe sfondate (erano il simbolo del sottomarino e dei chilometri macinati a piedi). I sottomarini danno poi la mesata anche agli uomini delle donne finite in carcere, soltanto che per questi una cosa del genere è umiliante e, per evitare urla e scenate sul pianerottolo, decidono di dare la mesata alle madri delle affiliate, da girare poi alla famiglia della detenuta. Per molte donne sposare un camorrista spesso è come un capitale conquistato. Se il destino e le capacità lo permetteranno il capitale frutterà e le donne diventeranno imprenditrici, altrimenti, per poter andare avanti e dar da mangiare ai propri figli, dovranno concorrere tra di esse per un lavoro da colf. Le donne di camorra, attraverso il loro corpo, concedono fondamento ad alleanze e, con il loro comportamento, dimostrano il potere della famiglia. Tuttavia, vi è stata una trasformazione del mondo camorristico negli ultimi anni, che ha portato ad una metamorfosi del ruolo femminile che da identità materna ed assistente di sventura è diventata una vera e propria figura manageriale. Una figura storica di camorrista donna è ANNA MAZZA, vedova del padrino di Afragola, Gennaro Moccia. La “Vedova Nera della camorra” fu una delle prime donne in Italia ad essere condannata per reati d’associazione mafiosa e fu la vera mente del clan Moccia per oltre venti anni. Fu accusata subito dopo la morte del marito di aver armato la mano del figlio non ancora tredicenne per vendicare l’assassinio del padre. Ma per insufficienza di prove è stata sciolta dalle accuse. Anna Mazza non fu solo vendicatrice, ma comprese anche che sarebbe stato più semplice sfruttare il ritardo culturale dei boss camorristi godendo di una sorta di impunità che veniva riservata alle donne. Con il tracollo poi dei partiti alcuni affiliati, che non volevano pagare al posto dei politici che avevano sostenuto, decisero di pentirsi. Tra questi, Pasquale Galasso, boss di Poggiomarino, le cui parole potevano distruggere in poco tempo un intero clan. Così, Anna Mazza pensò alla dissociazione, ovvero un concetto del terrorismo secondo cui ci si dissociava, cioè si prendeva una distanza ideologia da qualcosa, in questo caso dalla camorra. Così, si poteva eliminare, per Anna, ogni pericolo di pentimento e al contempo far credere che i clan fossero esterni allo Stato. I figli scrissero quindi a un prete facendo mostra di volersi redimere e una macchina piena di armi sarebbe dovuta giungere ad Acerra di fronte alla chiesa come simbolo di “dissociazione” dal clan. Ma quella macchina non fu mai fatta trovare, i pentiti divennero sempre di più, ma al contempo rimasero intatti i piani imprenditoriali e politici e Anna Mazza continuò la sua costruzione di una sorta di matriarcato della camorra. Le donne del clan garantivano maggiore capacità imprenditoriale, minore ossessione riguardo l’ostentazione del potere e minore volontà di conflitto. Donne le dirigenti, donne le loro guardaspalle e donne le imprenditrici. Una sua “dama di compagnia”, Immacolata Capone, fu la madrina di Teresa, la figlia della vedova. Saviano l’ha vista solo una volta, ad Afragola, mentre stava entrando in un supermercato. Le sue guardaspalle erano due ragazze e la scortavano seguendola con una Smart, la piccola auto biposto che ogni donna di camorra possiede. Non avevano niente della virago, ma lo colpì l’abbigliamento. Entrambe avevano i colori della Smart, ovvero il giallo fluorescente (una la maglietta, l’altra la montatura degli occhiali da sole). Il giallo non era scelto per caso: la stessa tonalità di giallo era quella della tuta da motociclista che Uma Thurman indossa in “Kill Bill” di Quentin Tarantino, un film dove per la prima volta le donne sono protagoniste criminali di prim’ordine. [PARTE PREFERITA] Immacolata Capone venne uccisa senza scorta. Questo mostrò il nuovo corso della politica militare dei clan: NESSUNA DIFFERENZA TRA UOMO E DONNA. Tra le donne in trincea per difendere i beni e le proprietà del clan, troviamo ANNA VOLLARO, nipote del boss del clan di Vollaro, Luigi Vollaro. Quando i poliziotti si presentarono per sequestrare l’ennesimo locale della famiglia, una pizzeria, prese una tanica di benzina, se la versò addosso e si diede fuoco con un accendino per protestare il sequestro di un bene acquisito con capitali illeciti che lei considerava solo il risultato di un processo normale. Sino ad oggi, nessuna donna della camorra si è mai pentita. Il volto del potere assume sempre di più i tratti femminili, ma anche gli esseri schiacciati dal potere sono donne. ANNALISA DURANTE, 14 ANNI. Per una ragazza di Forcella quattordici anni è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a quattordici anni sembrano già donne vissute. La loro musica preferita è quella neomelodica, con Gigi D’Alessio assunto a mito assoluto. D’improvviso però due motorini rincorrono qualcuno. Poi gli spari. Annalisa è a terra. Chi è questo qualcuno? Salvatore Giuliano, l’erede di Luigi Giuliano, detto Lovigino perché nell’intimità le sue amanti americane gli dicevano “I love Luigino”. Forcella si è stancata di questa famiglia e chi vuole salire al potere deve far fuori l’erede, poiché Lovigino si era pentito e aveva parlato. Quella sera Salvatore cammina tranquillo quando scopre di essere nel mirino dei killer: con molta probabilità Giuliano passa davanti alle tre ragazze, ma è Annalisa a cadere a terra. È morta, da innocente, per fare da scudo ad un criminale. Al funerale ci sono le due amiche, che imitano le madri nei gesti e nelle cantilene. Eppure, trapela da loro orgoglio. Un funerale per una vittima di camorra è per loro un rito di iniziazione, al pari del primo rapporto sessuale. Con questo evento, come le loro madri, prendono parte attiva alla vita del quartiere. Annalisa è divenuta simbolo tragico perché la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile: l’assassinio. L’unica colpa di Annalisa è quella di essere nata a Napoli. SECONDA PARTE CAPITOLO 6 – Kalashnikov Questo capitolo si apre con l’immagine dei vetri dei negozi forati dai kalashnikov. Quasi nessun commerciante sostituisce poi le vetrine. In fondo, divengono anche attrattiva per gli acquirenti che si fermano per la curiosità di guardare. Piuttosto che sostituire i vetri, si aspetta magari che li facciano implodere con la prossima raffica. Sparare sulle vetrine non è sempre un gesto di intimidazione, quanto piuttosto una necessità militare, perché quando arrivano nuove partite di kalashnikov bisogna testarli e per dimostrare che non c’è cosa che non sia loro e che tutto è una concessione momentanea. E poi vi è anche un altro vantaggio: in zona, infatti, le vetrerie che hanno i migliori prezzi sui vetri blindati sono tutte legate ai clan, quindi più vetrine rovinate, più danaro per le vetrerie e per i clan. Saviano, al bar, una mattina trova l’amico Mariano, estasiato proprio dai kalashnikov, che aveva provato per la prima volta. Egli lo chiamava AK-47, un nome semplice, dove “AK” sta per “avtomat kalashnikova”, ovvero “l’automatica di Kalashnikov”, mentre “47” si riferisce all’anno della sua selezione per l’esercito sovietico. I kalashnikov sono leggeri e facili da usare e la loro forza consiste nel munizionamento intermedio: né troppo piccolo come quello delle rivoltelle per evitare di perdere la potenza del fuoco, né troppo grande per evitare il rinculo e la scarsa maneggevolezza e precisione dell’arma. La manutenzione e il montaggio sono così semplici che i ragazzi dell’Unione Sovietica li imparavano sui banchi di scuola, alla presenza di un responsabile militare, in un tempo medio di due minuti. A questo punto, Saviano racconta di un giorno in cui, insieme a Mariano, si recò a Roma in occasione della morte di papa Giovanni Paolo II (Mariano promise a Saviano del denaro se lo avesse accompagnato, mentre a Mariano fu promesso un mese di ferie per poter andare a visitare Michail Kalashnikov in Russia. A Roma, Saviano rincontra dopo due anni il padre, accompagnato dai parenti rumeni, tra cui spicca il figlio Stefano Nicolae, avuto dalla moglie rumena in Italia (nato qui per questioni di cittadinanza) (Stefano per il padre del padre, Nicolae per il padre della madre). Il piccolino e la sua espressione rattristita quando il padre gli disse che sarebbe venuto a vivere in Italia ricordarono a Saviano il momento in cui il padre, da bambino, lo costrinse ad imparare a sparare per non essere da meno al cugino, portandolo a sparare contro delle bottiglie di birra al Villaggio Coppola. Quando centrò il primo bersaglio, racconta Saviano, provò un sentimento misto di orgoglio e senso di colpa, perché l’arma è un po' come la bicicletta: quando si impara non si smette più di usarla, con la differenza che si tratta di uno strumento ignobile. A questo punto Saviano ci racconta le dritte che il padre gli dava da bambino riguardo al comando: per il padre, prendendo ad esempio dei boss che si sedevano in un ristorante e venivano subito serviti, codesti cemento. Infatti, ogni impresa edile doveva rifornirsi di cemento dai consorzi, le cui navi, oltre a cemento, esportavano anche armi. Il potere del clan è cresciuto a dismisura negli ultimi anni ed è arrivato anche nell’est. Ma proprio in Polonia fu arrestato Francesco Schiavone, il cugino di Sandokan, uno degli ultimi boss della famiglia Schiavone a essere arrestato. Molti dirigenti del clan dei Casalesi erano finiti dentro. Era iniziato il maxiprocesso “Spartacus”, chiamato come il gladiatore ribelle che proprio da queste terre iniziò la più grande insurrezione che Roma avesse conosciuto. Questo processo fu il più grande contro un cartello criminale, quello dei Casalesi, durato ben 7 anni, ma che non fu dovutamente considerato dai media, tanto che si conosce maggiormente questo processo per un numero, 3615, il numero del registro generale attribuito all’inchiesta. Inoltre, diede vita ad altri processi-figli: - “Spartacus 2” - “Regi Lagni”, riguardo il recupero dei canali borbonici che risalivano al diciottesimo secolo - “Aima”, riguardo le truffe che i clan Casalesi avevano fatto nei famosi centri dello “scamazzo”, ossia dove la Comunità Europea raccoglieva, “scamazzandola” (calpestandola, schiacciandola), la frutta prodotta in eccesso in cambio di un indennizzo per i contadini. Saviano non aveva la sensazione che il clan dei Casalesi fosse stato sconfitto. Eppure, i boss pagano sempre, non sono eterni. Anzi, la forza economica del Sistema camorra sta proprio nel continuo ricambio di leader, perché, se il potere di un boss durasse a lungo, farebbe lievitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigidendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato, non esplorandone di nuovi. Dopo “Spartacus”, i boss in carcere inviarono minacce ai giudici, ai magistrati, ai giornalisti: in particolare, il bersaglio principale fu Lorenzo Diana, uno di quei politici che ha deciso non di denunciare la camorra in generale, ma di mostrare la complessità del sistema dei Casalesi. A dissuaderli furono anche le scorte, non tanto perché avessero paura della polizia, ma perché facevano capire che il bersaglio non era solo e che sarebbe stato difficile eliminarlo. A sentenza definita, tra gli Schiavone e i Bidognetti (clan a nord del casertano) i rapporti erano sull’orlo del conflitto. A peggiorare la situazione, interviene Luigi Diana, pentito che confessò che Bidognetti era il responsabile del primo arresto di Schiavone. A salvare la situazione intervenne proprio Sandokan, che, dal carcere, con una lettera aperta a un giornale locale, smentì il tutto, affermando che la soffiata fu di Carmine Schiavone. Il cartello dei Casalesi non era ancora del tutto sconfitto, anzi risultava rinvigorito. I casalesi hanno disseminato la provincia di loro beni. Solo per il processo Spartacus furono sequestrati 199 fabbricati, 52 terreni, 14 società, 12 autovetture e 3 imbarcazioni. Sequestri che avrebbero dissanguato qualsiasi azienda, ma non il clan dei Casalesi. Infatti, Saviano afferma che, ogni volta che leggeva di tali sequestri, gli saliva una sensazione di sconforto perché si rendeva conto che tutto era loro. Una sorta di onnipotenza camorristica. C’era un imprenditore che più di ogni altro aveva avuto questo potere totale, Dante Passarelli, di Casal di Principe, un. Ex salumiere che fu prescelto come investitore di una parte dei beni del clan per le sue grandi capacità commerciali. Il potere dei clan rimaneva però quello del CEMENTO. Per diverse estati Saviano andò a lavorare nei cantieri. Il culmine della consapevolezza del sistema che si aggirava attorno all’edilizia e al cemento fu raggiunto con la morte di FRANCESCO IACOMINO. Questi era caduto dall’impalcatura e nessuno lo aveva soccorso perché si temeva che l’ambulanza fosse più veloce della loro fuga. Così si scatena in Saviano una crisi di rabbia e si genera dentro di lui una sorta di jingle musicale, quello dell’“Io so” di Pasolini. Così si recò sulla sua tomba a Casarsa, dove, come un fiume in piena, cominciò a vomitare il suo sapere. Le prove di ciò non consistono in una pen-drive nascosta sottoterra, ma sono le prove degli occhi, delle parole. Così egli sostiene che TUTTO NASCE DAL CEMENTO, poiché è quello dell’edilizia è il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, conquistare fiducia e seguito. Gli imprenditori italiani vincenti vengono dal cemento, dove si muore di lavoro, in continuazione. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato: il corpo senza vita viene portato via e viene simulato un incidente stradale, viene messo in auto, che viene bruciata e poi gettata in scarpate e dirupi. Chiunque prende parte alla scomparsa/abbandono del corpo sa che lo stesso può accadere al suo corpo e sa di trovarsi di fronte, nei cantieri, a colleghi che possono essere i suoi boia, oppure può essere egli stesso il loro boia. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti quindici operai edili. Al Sud, afferma Saviano, bisognerebbe appendere un cartello di benvenuto/buona fortuna per tutti gli imprenditori desiderosi di fare qui le loro fortune. Qualcuno ha infatti detto che a Sud si può vivere come in paradiso: basta guardare il cielo e non abbassare mai lo sguardo. Ma, sostiene Saviano, è impossibile, perché qui non si pensa che possa cascare qualcosa dal cielo, ma cadi giù: c’è sempre un abisso nell’abisso. CAPITOLO 8 – Don Peppino Diana Saviano afferma che, quando pensa alla lotta ai clan Casalesi, pensa sempre ai lenzuoli bianchi, che sono stati appesi ad ogni balcone o legati alle ringhiere, come segno di protesta per la morte di Don Peppino Diana. Costui era divenuto, giovanissimo, sacerdote della Chiesa di San Nicola di Bari, ma aveva deciso di tornare a Casal di Principe. Il suo mandato coincideva con il periodo in cui si avvicendarono i boss Bardellino e Sandokan. Obiettivo numero uno per Don Diana era quello di comprendere i meccanismi del potere e della miseria, che rendeva quella terra una miniera di cadaveri. Lo strumento necessario per fare ciò fu la porta, tanto che egli scrisse un documento religioso dal titolo forte: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Il tacere in queste terre non è la semplice omertà, ma ha a che fare col “non mi riguarda”. La parola diventa quindi un urlo, la necessità è quella di denunciare per don Diana. Egli sosteneva infatti che “Dio ci chiama ad essere profeti e il profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio”. Don Diana mette dunque in forse la fede cristiana dei clan, ma i clan camorristici, in realtà, hanno un legame molto forte con la religiosità. Innanzitutto, in terra di camorra il messaggio cristiano non è visto in contraddizione con l’attività camorristica: il clan, che finalizza la propria attività a vantaggio di tutti gli affiliati, considera il bene cristiano rispettato. Gli omicidi avvengono per la salvaguardia del clan. ammazzare è un peccato che verrà compreso e salvaguardato da Cristo in nome della necessità dell’atto. Antonio Bardellino affiliava poi attraverso il RITUALE DELLA PUNGITURA, per cui il polpastrello dell’aspirante affiliato veniva punto con uno spillo e il sangue fatto colare sull’immagine della Madonna di Pompei. Poi questa veniva fatta bruciare su una candela e passata di mano in mano a tutti i dirigenti dei clan e, se tutti gli affiliati la baciavano, allora l’aspirante affiliato “superava la prova”. Le famiglie camorristiche spesso considerano il proprio agire come un calvario, un assumersi sulla propria coscienza il dolore e il peso del peccato per il benessere del gruppo e degli uomini. A Pignataro, il clan Lubrano fece restaurare a proprie spese un affresco raffigurante una Madonna. Questa è detta la “Madonna della Camorra”, poiché a lei sono rivolti per chiedere protezione i più importanti latitanti di Cosa Nostra fuggiti dalla Sicilia a Pignataro. A Scampia, nei laboratori di stoccaggio della droga, spesso vengono tagliati trentatré panetti di hashish volta per volta, come gli anni di Cristo. Poi ci si ferma per trentatré minuti, si fa il segno della croce e si riprende il lavoro. Una sorta di omaggio a Cristo per propiziarsi guadagni e tranquillità. [PARTE PREFERITA] Don Peppino sfidò il potere della Camorra nel momento in cui Francesco Schiavone, Sandokan, era latitante. L’obiettivo non era vincere la camorra, perché, come lui stesso ricordava, “vincitori e vinti sono sulla stessa barca”, ma era comprendere, denunciare e trasformare. Tuttavia, lo strumento che era necessario per fare ciò, la parola, lo condannò a morte. Un giorno non casuale, quello del suo onomastico, il 19 marzo 1994, i killer lo uccisero nella sua Chiesa, dove doveva celebrare la prima messa. A ritrovare per primo il suo corpo fu Renato Natale, il primo sindaco di Casal di Principe che aveva posto come priorità assoluta la lotta ai clan. I sospetti di questo omicidio caddero subito sul gruppo di Giuseppe Quadrano. Di conseguenza, Nunzio De Falco, detto “o’ lupo”, che stava a Granada in Andalusia, invitò in Spagna i poliziotti per offrire la sua versione: per cui accusò gli Schiavone, la famiglia rivale dei De Falco. Tuttavia, anche Giuseppe Quadrano era in Spagna e si consegnò alla polizia, rendendosi disponibile a collaborare. Perciò raccontò che egli era capozona di Carinaro e i Casalesi di Sandokan gli avevano ucci so quattro affiliati. Per vendicarsi egli aveva deciso, assieme a Mario Santoro, di ammazzare Aldo Schiavone, un cugino di Sandokan, ma De Falco bloccò tutto perché così Sandokan avrebbe ucciso tutti i parenti di De Falco. Così il boss incaricò di un suo ordine Francesco Piacenti: questi voleva uccidere Don Peppino Diana, ma poi questi si ritirò, secondo Quadrano, perché a Casale lo conoscevano tutti. Così la palla passò a Santoro, con la compagnia di Giuseppe Della Medaglia, ma la notte prima fu tormentosa e Della Medaglia non si presentò. Al suo posto, Vincenzo Verde, non ben visto perché questi soffriva di crisi epilettiche. Così, Quadrano mandò suo fratello Armando ad accompagnare Santoro. In Spagna avvenne poi un incontro tra gli uomini del clan De Falco, in cui Quadrano propose di ammazzare un parente di Schiavone, tagliarlo a pezzi e lasciarlo in un sacco fuori dalla Chiesa di Don Peppino: un modo per far cadere la responsabilità su Sandokan. Nella sentenza del 2001 furono condannati Verga, Piacenti e Della Medaglia, mentre Quadrano aveva cominciato a screditare anche la figura di don Peppino Diana, accusandolo di traffico d’armi, delitti passionali e addirittura di aver rifiutato di celebrare in chiesa i funerali di un parente dello stesso Quadrano. Appena muori in terra di camorra non esiste che tu sia innocente: sei colpevole fino a prova contraria. Tuttavia, nella sentenza del 2003 furono messe in discussione le dichiarazioni di Quadrano, perché la sua strategia era quella di nascondere le proprie responsabilità e scaricare la colpa agli altri. Ma il killer era stato lui. Così venne condannato, insieme a De Falco (in qualità di mandane dell’operazione). La morte di don Peppino fu il prezzo pagato alla pace tra i clan: tra i due clan si doveva trovare infatti un accordo e fu trovato sulla pelle di don Diana. Il capitolo si conclude con la figura di CIPRIANO, un amico di gioventù di don Peppino che aveva scritto un discorso da leggere al funerale, che probabilmente avevano scritto insieme a don Diana. In realtà Cipriano si era un po' chiuso in sé stesso dopo la morte dell’amico, tanto che l’evento scatenante di questo silenzio fu durante un colloquio di lavoro, quando il datore di lavoro si concentrò sul luogo di provenienza di Cipriano, insistendo sulla figura di Sandokan, quando invece Cipriano insisteva sulla figura di Don Peppino Diana. Un giorno, in un parco, però, Cipriano lesse a Saviano, quel famoso discorso, in cui invitava gli uomini ad evitare che quelle terre diventassero una nuova Gomorra, che fossero distrutte nuovamente come fece il Signore con Sodoma e Gomorra. “È giunto il tempo che smettiamo di essere una Gomorra”. beccato al Teatro Bellini a Napoli, mentre assisteva, da latitante, ad un concerto. Esemplare è la sua dichiarazione dopo una condanna: “Sono libero nell’arte, non ho necessità di essere scarcerato”. CAPITOLO 10 – Aberdeen, Mondragone Il boss psicanalista Augusto La Torre era stato tra i prediletti di Antonio Bardellino: da ragazzo aveva preso il posto del padre diventando il leader assoluto del clan dei “Chiuovi”, come li chiamavano a Mondragone. Augusto non era un nome a caso, ma La Torre usava dare ai primogeniti della famiglia i nomi degli imperatori, anche se tra padre e figlio la storia fu invertita: il padre Tiberio, il figlio Augusto (nella Storia viene prima Augusto poi Tiberio). Al delirio storico dei clan si contrapponeva poi l’immaginario diffuso che riconosceva in Mondragone la capitale della mozzarella. Una prova della bontà della mozzarella, per i maestri caseari mondragonesi, riguardava il fatto che se la mozzarella lasciava una sorta di retrogusto (quello che veniva chiamato “‘o ciato ‘e bbufala” – “il fiato della bufala”) allora questa era buona. Mondragone divenne poi una sorta di snodo cruciale per tutti coloro che volevano emigrare in Inghilterra. Si andava a Mondragone per cercare di avere i contatti con le persone giuste. Mondragone era la porta per la Gran Bretagna. A Mondragone prendevano i curricula e vedevano a chi inviarli in Inghilterra: valeva in qualche modo il talento, ma solo a Londra o Aberdeen, non di certo in Campania. È quello che successe a Matteo, amico di Saviano, che, tramite un contatto mondragonese, fu spedito ad Aberdeen. Ad accompagnarlo lo stesso Saviano. Ciò che impressionava Saviano è che, nonostante il suo inglese italianizzato, i suoi coetanei scozzesi lo vedevano non come l’emigrante, ma come una sorta di grammatica del potere criminale e dell’economia. Nascere in terra di camorra significava per costoro avere un marchio impresso a fuoco, una sorta di vantaggio. Aberdeen, prima dell’arrivo dei clan italiani, non sapeva valorizzare le risorse di tempo libero e turismo. È stato Antonio La Torre, fratello del boss Augusto, ad attivare in Scozia una serie di attività commerciali, gran parte delle quali erano lecite: acquisto e gestione di beni immobiliari, commercio di prodotti alimentari con l’Italia. Per di più, intestato ad Antonio La Torre era il Pavarotti’s, ristorante considerato ad Aberdeen un ritrovo di lusso. Tuttavia, Antonio La Torre fu arrestato proprio in Scozia. La potenza internazionale partita da Mondragone era personificata anche da Rockefeller (Raffaele Barbato), così chiamato per l’evidente talento negli affari e per la mole di liquidità che possiede. Rockefeller sarebbe stata una delle menti che progettò assieme ad Augusto La Torre di andare a Caracas per cercare di incontrare gruppi di narcotrafficanti venezuelani che vendessero la droga ad un prezzo più concorrenziale rispetto ai colombiani, fornitori storici dei napoletani e dei Casalesi. Rockefeller era il titolare del lido Adamo ed Eva, ribattezzato La Playa, luogo turistico sulla costa mondragonese riempito da molti affiliati latitanti. Sempre Rockefeller aveva trovato un posto dove far dormire comodo Augusto durante la sua latitanza in Olanda. Proprio in Olanda continua a nascondersi in qualche banca la cassa del clan, vero e proprio simbolo di ricchezza assoluta. Il clan La Torre aveva in mente di dominare, con appoggi in Sudamerica e in Olanda, un traffico di coca sulla piazza romana. Roma, per tutte le famiglie camorristiche casertane, era un po' il punto di riferimento per il narcotraffico. Nella mente di Augusto La Torre Mondragone doveva essere soltanto un’officina, un laboratorio da cui estrarre materia. Vi era il divieto assoluto di spacciare droga a Mondragone: il divieto nasceva da un motivo moralistico, quello di preservare i propri concittadini dalla droga, ma soprattutto per evitare che gli affiliati del clan gestendo droga potessero arrivare ad arricchirsi e a rafforzarsi in seno al potere, scalzando i leader della famiglia. Augusto La Torre era quasi un “preservativo” per Mondragone, una sorta di sicurezza, anche dal punto di vista della salute, tanto che, mentre altrove ci si preoccupava della diffusione dell’HIV, La Torre possedeva una lista con i nomi di tutti gli ammalati di HIV, con l’obiettivo di ucciderli ad uno ad uno per poter bloccare sul nascere la diffusione dell’epidemia. Il traffico di droga si accodava però agli altri traffici legali. Prima venivano merci d’abbigliamento, successivamente diamanti e infine, una volta costruita una fitta rete di alleanze, avveniva il commercio di cocaina. La forza dell’imprenditoria criminale italiana sta proprio nel continuare ad avere il doppio binario legale-illegale. Ad Aberdeen chiamavano questo sistema “scratch”: come i rapper e i dj che bloccano il normale girare del disco sul piatto con le dita, allo stesso modo gli imprenditori di camorra bloccano (scratchano) per un attimo l’andatura del disco del mercato legale, per poi farlo ripartire più velocemente di prima. Gli affari dei La Torre all’estero rendevano indispensabile la partecipazione a vari livelli nella struttura del clan di esponenti inglesi. Uno di questi è Brandon Queen, che risultò in assoluto il primo camorrista di nazionalità inglese della storia criminale italiana e britannica. Egli aveva realizzato il sogno di molti ragazzi scozzesi: non semplicemente prendere parte agli indotti legali, ma divenire parti operative del Sistema. Augusto La Torre per far diventare il cartello così potente era stato spietato. La modalità per l’eliminazione fisica dei nemici era sempre la stessa, tanto che nel gergo criminale si parlò di uccider “alla mondragonese”: occultare nei pozzi delle campagne i corpi macellati da decine di colpi e poi lanciare una bomba a mano, con i resti che si impantanavano nell’acqua. Inoltre, dietro La Torre dovevano stare tutti i suoi fedelissimi: omicidi che potevano essere risolti con uno o al massimo due esecutori venivano portati a termine con tutti i suoi fedelissimi. Così Augusto La Torre aveva fatto con Antonio Nugnes, vicesindaco democratico che si era opposto ai disegni egemonici dei La Torre. In particolare, questi erano interessati a diventare azionisti di una clinica privata in via di costruzione. l’Incaldana, una delle cliniche più prestigiose tra Lazio e Campania, di cui Nugnes stesso possedeva un pacchetto azionario. Così Nugnes fu ucciso e per anni non si seppe nulla di lui, finché La Torre non diede ai carabinieri le informazioni necessarie per ritrovare i suoi resti, accanto a cui furono ritrovati altri resti, quelli di Vittorio Boccolato, camorrista prima legato a Cutolo, che, in una lettera inviata dal carcere, aveva pesantemente offeso La Torre. A ucciderlo mandò un suo amico, anch’egli ex cutoliano, perché i migliori killer sono gli amici, che ti uccidono in silenzio, quando meno te l’aspetti, senza che il bersaglio scappi urlando. Il boss non guardava in faccia nessuno, neanche i suoi affiliati, uno dei quali, Paolo Montano, detto Zumpariello, fu ucciso dallo stesso La Torre per aver iniziato a drogarsi senza riuscire più a staccarsi dalla coca. Nel 2003 il boss, dopo l’arresto della moglie, decise di pentirsi. Solitamente, i boss in carcere hanno nel silenzio la loro arma più sicura per continuare a conservare autorevolezza e potere, ma Augusto La Torre, pur parlando, non doveva temere che qualcuno massacrasse la sua famiglia o che venisse intaccato il suo impero economico. Inoltre, il pentimento di La Torre ha sempre grondato di ambiguità e le rivelazioni da pentito sarebbero state un’estensione del suo potere. Infatti, egli scriveva lettere dal carcere in cui rassicurava lo zio di averlo “salvato” da ogni coinvolgimento nelle vicende del clan o in cui minacciava i suoi parenti scongiurando l’ipotesi che potesse nascere a Mondragone un’alleanza contro il boss o in cui addirittura richiedeva denaro (richieste che, secondo la magistratura, erano chiare estorsioni). Dopo il pentimento di Augusto, il nuovo boss era Luigi Fragnoli, fedelissimo dei La Torre, che dovette affrontare però le brame di potere dell’affiliato Giuseppe Mancone, detto “Rambo”, per la sua somiglianza con Stallone. Così mandò dei killer ad uccidere “Rambo” davanti al solito bar, il Roxy Bar. Qui tutti si gettarono a terra di fronte ai killer per non essere riconosciuti come testimoni. Solo una donna, una maestra elementare ebbe il coraggio di testimoniare e far condannare il killer. Il magistrato la definì una “rosa nel deserto”. Ciò che rende scandaloso il gesto non è la confessione in sé, ma la scelta di considerare naturale quella di poter testimoniare. Possedere questa condotta è come credere che possa esistere la verità in una terra dove verità è ciò che ti fa guadagnare e menzogna ciò che ti fa perdere. Di fronte a ciò Saviano vuole tornare in Italia, avendo però in mente le due linee direttrici: quella che veicolava capitali e quella che portava in Italia, a sud, tutto ciò che vi era di infetto e che aveva gonfiato il sud Italia, come un ventre gravido che abortisce continuamente denaro sporco e ringravida subito. CAPITOLO 11 – Terra dei fuochi In quest'ultimo capitolo Saviano parte con il riflettere sul fatto che non è complicato immaginare, neanche la propria morte. Tuttavia, la cosa più complicata è immaginare l'economia in tutte le sue parti. Forse l'unico modo per rappresentare l'economia è intuire ciò che lascia, inseguirne gli strascichi. Le DISCARICHE erano l'emblema più concreto di ogni ciclo economico. Sono lo strascico vero del consumo e il sud ne è il capolinea. Secondo una stima di Legambiente, se tutti i rifiuti sfuggiti al controllo ufficiale fossero accorpati in un'unica soluzione, si arriverebbe ad avere una catena montuosa di 14 milioni di tonnellate, come una montagna di 14.600 m (basti pensare che il Monte Bianco è alto 4810 m e l’Everest 8844). Una catena montuosa enorme, che si è diffusa maggiormente nel Sud Italia: le regioni di riferimento sono sempre quelle in cui vi sono i maggiori reati ambientali, i maggiori sodalizi criminali, il maggior tasso di disoccupazione, la partecipazione più alta ai concorsi per l'esercito e le forze di polizia, ossia Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. Grazie a questo business di rifiuti il mercato ha avuto negli ultimi tempi un incremento complessivo del 29,8%, paragonabile solo all'espansione del mercato della cocaina. Basti pensare che, dalla fine degli anni 90, i clan camorristici sono divenuti i leader continentali nello smaltimento dei rifiuti. Inoltre, la vita di un boss è breve e il potere di un clan tra faide, arresti, massacri ed ergastoli non può durare a lungo. Dunque, ingolfare di rifiuti tossici un territorio può risultare un problema solo per chi possiede un potere a lungo termine, mentre nel tempo immediato dell'affare esiste solo il profitto elevato. Ogni metro di terra ha il suo carico particolare di rifiuti. Una volta, racconta Saviano, un suo amico dentista gli aveva raccontato di alcuni ragazzi che gli avevano portato dei teschi per fargli pulire i denti. Si trattava di teschi veri, di esseri umani. Saviano capì l'origine di questi teschi perché un giorno, passando vicino Santa Maria Capua Vetere, aveva bucato la ruota della Vespa passando sopra ad una specie di pastone affilato: era un femore umano. Infatti, i cimiteri fanno esumazioni periodiche, tolgono quello che i becchini più giovani chiamano “gli Arcimorti”, quelli messi
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