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Italia nella politica internazionale: dalla WWII alla guerra fredda - Prof. De Leonardis, Sintesi del corso di Storia Dei Trattati E Politica Internazionale

La politica estera italiana dal termine della seconda guerra mondiale alla guerra fredda. Si discute della necessità di considerare l'Italia nella politica internazionale invece che solo della politica estera italiana, e della fama negativa degli italiani come alleati preesistente alla seconda guerra mondiale. Viene inoltre descritta la continuità tra la politica estera fascista e quella repubblicana, e il ruolo degli italiani nella guerra fredda.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 28/10/2021

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Scarica Italia nella politica internazionale: dalla WWII alla guerra fredda - Prof. De Leonardis e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dei Trattati E Politica Internazionale solo su Docsity! GUERRA FREDDA E INTERESSI NAZIONALI L’Italia nella politica internazionale del secondo dopoguerra INTRODUZIONE Il titolo del libro da un lato vuole ricordare che la Guerra Fredda, ovviamente, non cancellò specifici interessi nazionali. Dall'altro, sottolinea la necessità d parlare di “Italia nella politica internazionale” e non di “politica estera italiana”, in quanto, nell'analisi del periodo, non bisogna dimenticare che non va solo considerata la posizione del Governo di Roma ma anche quella dei Governi con cui questo di confrontò (anche perché gli attori fondamentali erano le maggiori potenze, come USA o UK, non certo l’Italia). CAPITOLO I: Forze politiche e diplomazia di fronte alle continuità e discontinuità nella politica estera dopo la SGM Gli spartiacque della politica estera italiana A partire dall’unificazione nel 1861 furono gli anni 1943-1945, non la Grande guerra o l'avvento del fascismo, a segnare una svolta fondamentale nella storia della politica estera italiana. Due tra i più importanti diplomatici italiani del secondo dopoguerra hanno posto l'accento sull'importanza dello spartiacque del 1943. Nel 1967 Pietro Quaroni scriveva: “L’armistizio del 1943 non è stato solo il crollo di tutta la politica estera italiana che, più o meno vagamente, era stata seguita dal Regno d’Italia, dal momento del suo inizio.” Nel 1993 Sergio Romano osservava che gli avvenimenti del 1943 dimostrarono che l’Italia non poteva né badare da sola alla propria sicurezza né dare un contributo determinante alla difesa del proprio territorio. Era la fine dell’Italia come Grande Potenza. In realtà la fine dell’Italia come Grande Potenza era già avvenuta con il fallimento dell'idea mussoliniana di guerra parallela e la satellizzazione dell’Italia da parte della Germania, dopo gli insuccessi delle campagne militari in Grecia e in Africa settentrionale. Comunque, la IIWW diede vita a un sistema internazionale allo stesso tempo bipolare e non omogeneo, nel quale il concetto di Grande potenza perdeva valore rispetto a quello di Super potenza, mentre il confronto tra i due blocchi nella Guerra fredda rese impossibile per l’Italia giocare il suo tradizionale ruolo di ago della bilancia. È anche vero che se l’Italia parve esagerare in cinismo, nazionalismo e machiavellismo (ragion di stato), ciò dipese dalla sua condizione di ultima arrivata che doveva farsi spazio. Le tradizioni itari dell’Italia Le tradizioni militari di Casa Savoia e dell’Italia, esaltate nella IWW, subirono appunto un colpo gravissimo con le vicende del settembre 1943. La fama degli italiani di scarso valore militare e d’inaffidabilità come alleati è peraltro molto anteriore alla IIWW e anche alla IWW, quando l’Italia, già membro della Triplice alleanza (germania, austria ungheria e italia), si schierò poi dalla parte della Triplice Intesa (uk, FR, Russia — italia si allea nella 1WW). Lo stereotipo negativo dell’Italia ha in verità un sottofondo ideologico-religioso nella “leggenda nera” costruita a partire dal XVI secolo dai protestanti contro tutto quanto era cattolico. Fino a quell'epoca l’Italia era stata considerata all'avanguardia in ogni campo (Erasmo da Rotterdam affermò Italiani siamo noi tutti che siamo dotti) + che cos'era accaduto? La riforma protestante aveva trovato le porte sbarrate soprattutto in Italia e Spagna, i due paesi pilastri della Controriforma e contro quei due popoli fu scagliata una campagna denigratoria per denunciarne e irriderne il fanatismo cattolico e imputare a esso tutti i loro mali. Gli italiani, poi, sono i migliori denigratori di sé stessi; è da questo momento, infatti, che si sviluppa nel nostro popolo la propensione ai mestieri “servili” in cui tutt'ora gli italiani eccellono. È questa la visione di Indro Montanelli, principe del giornalismo e della divulgazione storica in Italia. È curioso, tuttavia, che la lingua di questi “servi” fosse la lingua elegante dell’aristocrazia internazionale, e che nel XIX fosse ancora la lingua franca della cultura europea e fosse parlata e compresa da molti statisti di Londra e di Vienna. Pertanto, pregiudizi sintetizzabili nei detti “Franza o Spagna basta che se magna”, oppure “gli italiani non si battono”, non sono veritieri. Basti pensare che alcuni dei più grandi generali dell’epoca erano italiani; esempi sono il principe Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli e Ambrogio Spinola. Tutti i grandi condottieri italiani, in ogni caso, furono accomunati da una caratteristica, l'aver combattuto contro gli eretici e gli infedeli al servizio del Papa, dell'Impero, della Spagna cattolica o di Venezia, baluardo cristiano nel Mediterraneo orientale. Allora i denigratori osservano che sì, vi furono grandi generali e coraggiosi soldati, ma dovettero disgraziatamente servire non la Patria, l’Italia unita che non c’era, ma lo straniero. Curiosa osservazione, come se combattere per la civiltà cristiana ed europea fosse meno nobile che servire le ambizioni espansionistiche di un singolo Stato. In un'epoca pre-nazionalista, nella quale un territorio passava senza scandalo da un sovrano all’altro in seguito a vicende belliche o dinastiche, come gli altri popoli europei, gli italiani, giustamente non si ribellavano all'autorità costituita, comunque sempre cattolica e sempre rispettosa dei diritti naturali, in primo luogo quello della vera religione. Quando entrava in gioco la fede gli italiani si battevano sempre. + Esempi sono: Nel 1480 gli ottocento martiri di Otranto rifiutarono di avere salva la vita e i beni abiurando la fede cattolica, secondo la promessa degli assedianti turchi. Presero invece le armi e continuarono a combattere, anche dopo il ritiro delle truppe aragonesi; Nel 1620 gli abitanti della Valtellina insorsero contro i Grigioni luterani (Cantone dei Grigioni — Svizzera) in difesa della religione cattolica e li sconfissero. Dunque, gli italiani si battevano e come quando erano in gioco i loro valori supremi. L'Italia Unita: un popolo “di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, di trasmigatori” o di traditori? L'unità d’Italia si compì, più che per la forza delle armi, come nel caso tedesco, grazie all'abilità diplomatica di Camillo Benso conte di Cavour. Harold Nicolson: “lo scopo della politica estera italiana fu l’acquisizione sul terreno diplomatico di un'importanza maggiore di quella che possa essere assicurata dalla sua potenza reale. Essa è pertanto l’antitesi del sistema tedesco (si parla della Germania bismarkiana e guglielmina), poiché invece di basare la diplomazia sulla potenza, basa la potenza sulla diplomazia. È l’antitesi del sistema francese poiché, invece di sforzarsi di assicurarsi degli alleati stabili contro un nemico permanente, considera i suoi alleati e i suoi nemici intercambiabili. La sua concezione dell’equilibrio di potenza non è identica a quella britannica; infatti in Italia essa è intesa come quel particolare equilibrio di forze che le consenta di far inclinare col proprio peso l'ago della bilancia. Di qui la politica dei giri di valzer (1902), del peso determinante e in un rigido contesto bipolare che non permetteva i più ampi margini di manovra dei periodi precedenti, il neoatlantismo (1955-1960), che, pur nella piena fedeltà alla NATO, doveva consentire di svolgere un ruolo di protagonista nel Mediterraneo. ( - Giri di valzer perché l’Italia pur essendo alleata di Austria-Ungheria e Germania, nel 1915 cambiò fronte e, nel mentre fece “giri di valzer” con le altre potenze ottenendo concessioni (in particolare riguardo alla Tripoltania e Cirenaica, cui erano rivolti gli interessi italiani) - ) Nel 1880, il Cancelliere Bismarck confidò all’ambasciatore francese “l’Italia non è uno stato serio essa dovrebbe produrre pittori, musicisti, cantanti e ballerini, quello è il suo vero ruolo». Oggi, forse, aggiungerebbe alla lista stilisti e calciatori. Vi è incompatibilità tra l'eccellenza artistica e una degna politica estera? L’UNESCO attribuisce all'Italia il 35-40% dell'intero patrimonio mondiale archeologico, architettonico, storico-artistico e documentario. L'Italia però non gode di una grande reputazione in campo diplomatico. “L’arte ci uccide” esclamato dal generale Durando, rimpiangendo che tutta l’Italia non fosse più militare / austera come il suo Piemonte. Infatti l’unità d’Italia si realizzò grazie alla dinastia guerriera che regnava in Piemonte, l’unica nella Penisola con forti e ancor vive tradizioni militari, ma di scarsa sensibilità artistica confidò il Re Vittorio Emanuele IIl al suo aiutante di campo: “la tradizione vera, quella più importante per un Paese è quella militare. Dante Alighieri non ha fatto l’Italia, ma le baionette l'hanno fatta”. L'Italia, fino alla Prima Guerra Mondiale è stata descritta come “l’ultima delle Grandi Potenze”, perché se da un lato la sua posizione geopolitica (pianura Padana e posizione marittima che separa Mediterraneo Occidentale e Orientale) e ragioni ideali (il mito della “terza Roma”), la spingevano ad essere una Grande Potenza, dall'altro ragioni pratiche (una compagine nazionale giovane e divisa e la scarsità di materie prime) la ponevano in una condizione di inferiorità rispetto alle altre Potenze. È emblematico che la Democrazia Cristiana, tra il 47 e il ’53, lasciò per la maggior parte del tempo la titolarità dei ministeri degli esteri e della difesa a uomini (Carlo Sforza nel primo caso, Randolfo Pacciardi e altri nel secondo), eredi di una tradizione risorgimentale che non si era certo nutrita di pacifismo. Durante la prima legislatura la politica estera italiana fu pesantemente condizionata di riunire Trieste al territorio nazionale e di recuperare la piena sovranità in campo internazionale. Quindi, fino al 1955 l’Italia ebbe stabilità politica, ma non libertà d'azione in politica estera. Nelle Organizzazioni Internazionali l’Italia vide strumenti ottimali per realizzare non solo i suoi obiettivi di sicurezza politica e militare, ma anche quelli di sicurezza economica e sociale. Inoltre, negli organismi multilaterali (01), le medie potenze (Italia) possono far meglio valere i propri punti di vista, possono svolgere un ruolo più incisivo e possono esprimere una maggiore influenza negoziale. Guidarono questa considerazione anche la difficile posizione geopolitica dell’Italia (frontiera est = ultimo baluardo contro il Comunismo), il tentativo di trovare spazi di manovra al di fuori del rigido bipolarismo, la cultura internazionalista della classe dirigente cattolica e l'influenza della Santa Sede. Permasero, tuttavia, alcune delle caratteristiche della tradizionale diplomazia italiana, in particolare l'aspirazione ad essere nuovamente considerata una Grande Potenza, specialmente dopo il 1955, quando da un lato l’Italia aveva liquidato tutte le eredità diplomatiche negative della sconfitta e dall'altro la situazione internazionale sembrava offrire spazi di manovra. Nella NATO, nella CEE-UE e all’ONU, l’Italia ha sempre lottato per partecipare all’inner circle degli attori chiave. Di qui la definizione di “politica della sedia”, per la sua aspirazione di averne una ai tavoli importanti. Purtroppo, nel periodo post-bellico, la politica estera italiana fu sempre ostacolata dall’instabilità politica, dall’inefficienza di molti settori della P.A., e dal divario economico e civile tra il Nord e il Sud della Penisola. La classe politica al Governo italiano dovette fare i conti con il Partito Comunista più forte dell'Europa Occidentale. Dato il sistema bipolare, in Italia la politica estera prevaleva su quella interna, quindi i politici e i diplomatici italiani cercarono di trasformare tale debolezza in uno strumento di pressione, spesso chiedendo concessioni in campo internazionale per evitare la caduta del Governo o il crollo del sistema politico: invece di ostentare potenza, talvolta i Governi italiani proclamavano la loro impotenza. Qui troviamo il primo elemento di continuità con il passato, eccone altri: 1. L’attitudine dell’Italia al compromesso, voleva dire essere leale nelle alleanze, cercando al contempo un dialogo col nemico. Nel’57 la rivista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale scriveva che all'ONU l’Italia, non essendo direttamente implicata nelle controversie, ed essendo sostanzialmente in buoni rapporti con tutti i contendenti, era in grado di esercitare un’opera generale di moderazione e di equilibrio. 2. Idea che l’Italia potesse giocare un ruolo ambizioso nel Mediterraneo (data la sua posizione geografica che la qualificava come quadrivio della civiltà). Nella potenziale tensione tra atlantismo ed europeismo: Il Regno Unito scelse sempre l’America; La Francia, al contrario, cercò di contrastare l'egemonia americana; L'Italia, come la Germania, si mantenne sempre in equilibrio tra Washington e Parigi/Bruxelles (almeno fino al XIX sec l’Italia sembrò non percepire la potenziale tensione tra atlantismo e europeismo), anche se il rapporto con la Casa Bianca fu preminente. Perché questo primato dell’atlantismo in Italia? Come disse il ministro plenipotenziario Roberto Ducci nel ‘63: “L’Italia, non potendo essere indipendente da sola, e l'Europa essendo incapace di procedere con un'integrazione reale, allora il padrone più ricco e più lontano è sempre il migliore”. Anche perché gli alleati vicini, francesi e inglesi, erano ben lungi dal riconoscere all'Italia status di loro pari. 3. Sebbene sotto la Repubblica le Forze armate non godessero della posizione di prestigio occupata durante il Regno d’Italia, tuttavia, la loro situazione non fu per nulla cattiva e i governi italiani le utilizzarono come strumento per valorizzare lo status internazionale del paese. Possiamo quindi concludere che la classe politica dell’Italia repubblicana dovette moderare il suo utopismo iniziale e fare i conti con la realpolitik, di fronte alla situazione internazionale. CAPITOLO 2: Le premesse militari della ricostruzione della politica estera italiana: la cobelligeranza (1943- 1945) Il ruolo delle forze armate italiane nelle trattative per l'armistizio «breve» L'impegno militare dei militari italiani al fianco degli anglo-americani cominciò la sera stessa dell’8 settembre ‘43 e trovò espressione politico-diplomatica nella «cobelligeranza». Caduto Mussolini, Churchill si dichiarò subito disponibile a trattare con qualsiasi governo italiano non fascista che fosse in grado di consegnare la “merce”, la “merce” erano i vantaggi da trarre da una resa dell’Italia, ed erano specificati nel messaggio inviato dal premier inglese al Presidente americano Franklin Roosevelt il 26 luglio ‘43 non si prevedeva esplicitamente un concorso delle forze armate italiane nelle operazioni future contro i tedeschi; tuttavia, si parlava di «non fare a meno di qualsiasi aiuto ci venga nell’annientare i tedeschi», specificando che si trattava di «stimolare il furore delle popolazioni italiane contro il tedesco invasore». Nelle trattative si intrecciavano due aspetti: 1. Piu politico concernente la natura dello strumento di resa 2. Piu militare riguardante sbarco alleato nella penisola. Per l’armisti. io gli anglo americani avevano bisogno, per sbarcare, della preventiva resa italiana. Per ottenere tale resa, si pensò alla firma, in due tempi diversi, di due documenti: un “armistizio breve” e un “armistizio lungo”. Questo sistema fu chiamato da Eisenhower (allora Comandante in capo alleato nel Mediterraneo) lo «sporco affare» (crooked deal), poiché conteneva un “inganno”: l'armistizio breve non parlava di resa incondizionata, ma gli angloamericani pretendevano una resa incondizionata, aggiungendo che i termini avrebbero previsto una capitolazione onorevole. Harold Macmillan, futuro premier inglese dopo Churchill, affermò: «Che significato ha il termine “resa incondizionata”? Evidentemente non può voler dire resa senza condizioni dal momento che Londra e Washington sono state impegnate per quattro mesi a scrivere le condizioni e hanno già raggiunto le 42 clausole. È perciò presumibile che significhi, due significati: primo; “resa alle nostre condizioni” e secondo: senza trattativa. Viene concepita un’altra classificazione, divisa ancora in due; prima: arrendetevi senza che nemmeno vi sia concesso di conoscere le condizioni e, poi, una volta arresi, vi saranno mostrate le condizioni». La disputa non era solo nominalistica ma aveva fondamentali riflessi sulla sorte delle forze armate italiane. In campo alleato vi erano differenti vedute sull’opportunità di usare contributo militare italiano: ai due estremi vi erano il primo ministro e il ministro degli esteri Eden. Per il Ministro degli Esteri Anthony Eden, l'apporto militare italiano sarebbe stato di scarso valore e, per di più, avrebbe richiesto il pagamento di un prezzo politico. La posizione di Churchill era alquanto diversa: egli era più disposto del suo ministro degli Esteri a fare qualche concessione agli italiani se ciò fosse tornato utile alla condotta della guerra e, soprattutto, se avesse permesso di condurre ad una rapida vittoriosa conclusione la campagna d’Italia, di cui egli, al contrario degli americani, era paladino. Dalla caduta del fascismo e dalla conseguente possibile resa italiana, Churchill si aspettava conseguenze strategiche di vasta portata. Tuttavia, come è pienamente comprensibile, neanche Churchill intendeva accogliere l’Italia a braccia aperte quale alleata. Il Generale Castellano, che si era indirizzato all’ambasciatore britannico a Madrid offrendo la cooperazione militare italiana, non sembrava preoccuparsi eccessivamente dei termini di resa, quanto di accertarsi che gli alleati fornissero la massima assistenza contro i tedeschi. Gli italiani, a questo proposito, insistettero che non avrebbero firmato niente se gli alleati non avessero garantito di sbarcare alcuni reparti a nord di Roma (questo per assicurarsi che l’Italia non sarebbe stato un fronte secondario) ma gli alleati non disponevano di forze sufficienti per invadere l’Italia settentrionale (cosa che, ovviamente, non intendevano confidare). La questione della collaborazione militare italiana riguardava due fasi ben distinte: - La non opposizione, o meglio, la cooperazione italiana agli sbarchi anglo-americani nella penisola; - Gli sviluppi successivi della campagna d'Italia. In realtà erano gli alleati, che potevano contare su nove-dieci divisioni, contro le diciannove tedesche e le sedici italiane, che avevano bisogno della resa italiana come prerequisito. Sulla base così di un “puro bluff", nel quale 6 rientrava anche l'offerta di lanciare una divisione aviotrasportata su Roma, si ottenne la firma dell’armistizio breve. Quindi, per ottenere l'indispensabile cooperazione italiana al momento degli sbarchi si sarebbe fatto firmare a Castellano l'armistizio breve, che non parlava di resa incondizionata e non conteneva clausole oltraggiose; tuttavia, esso avrebbe contenuto un articolo che rinviava al successivo armistizio lungo, ben più duro. Nei confronti del Generale Zanussi, al quale era stato incautamente consegnato il testo dell'armistizio lungo, fu messa in opera una “politica del sorriso”, alla quale egli abboccò pienamente, tanto da scrivere il 29 agosto al Generale Carboni che gli alleati «manifestavano una notevole comprensione nei riguardi di noi, che considerano “un valoroso avversario” », e che le clausole dell'armistizio lungo avevano un «valore molto relativo». L’inganno non riguardava solo la procedura di duplice armistizio, ma anche la questione della data, della località e della consistenza degli sbarchi. Insomma, alla fine il bluff ebbe successo: gli italiani si convinsero che gli alleati sarebbero sbarcati con maggiori forze, più a nord e più tardi di quanto avvenne in realtà; gli alleati non diedero apertamente informazioni false al riguardo, ma alimentarono tali erronee impressioni, per convincere gli italiani ad arrendersi. Dobbiamo ora chiederci quale poteva essere la collaborazione militare italiana dopo lo sbarco, cioè l’Italia sarebbe divenuta un alleato? Riguardo all'impegno futuro delle forze armate italiane, Churchill era l’unico a volerla promuovere su larga scala. Churchill, come sempre, pensava in grande, e si riprometteva di spingere e sfruttare a fondo la Campagna d'Italia, di ottenere ripercussioni e successi nei Balcani e, in generale, sull'andamento del conflitto. Tuttavia, gli americani erano scettici sulla volontà degli italiani di battersi contro i tedeschi e, inoltre, il gabinetto di guerra britannico condivideva la visione di Eden rispetto a quella più lungimirante di Churchill. L'incertezza anglo americana sulla collaborazione anglo americana emerge dall’ambiguità dei vari documenti che costituirono le tappe della cobelligeranza, un esempio è La Dichiarazione di Québec (17-24 agosto) esordiva con l'affermazione: «le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell’Italia nel combattere» affermazione poi contraddetta dalle frasi successive: «la misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’apporto dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra». L’armistizio breve fu firmato il 3 settembre a Cassibile, toccò brevemente il problema delle ostilità tra tedeschi e italiani. AI punto 2 affermava: «l’Italia farà ogni sforzo per negare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite». A sottolineare l’inferiorità dell’Itaia, vi è il fatto che solo il testo inglese del documento era considerato ufficiale, cosi come sarà per l'armistizio lungo. Non vi erano chiarezza e identità di vedute tra gli alleati sul contributo militare futuro dell’Italia. Oltre alle posizioni già viste di Churchill e Eden, Macmillan aveva annotato nel suo diario: «A noi preme solo annientare le forze armate italiane e usare il territorio italiano per continuare la guerra alla Germania». Interessava soprattutto a Churchill l’utilizzo della Regia Marina Italiana, della quale era rimasto favorevolmente colpito. In particolare, sottopose agli Stati Maggiori la possibilità di impiegare unità navali italiane nel Pacifico. Anche il premier inglese, tuttavia, non era alieno da misure dure verso gli italiani: mentre secondo l’Ammiraglio Ernest King, capo delle operazioni navali degli USA, le corazzate della classe Littorio (ribattezzata Italia nel luglio ‘43) dovevano combattere sotto bandiera italiana e con equipaggi italiani, Churchill era di opinione diversa: «ho fatto notare che queste navi preziose devono avere equipaggi ben decisi, ma che forse vi si può aggiungere una manciata di italiani». L'esercito non fu mai esplicitamente menzionato dai generali britannici, che preferirono parlare di «contadini italiani armati, che combatterebbero brevamente con la guerriglia». Se l’esercito italiano fosse intervenuto, inoltre, successivamente ci si sarebbe dovuti preoccupare del prezzo politico da pagare agli italiani per la loro collaborazione militare. La quadratura del cerchio, ovvero non rinunciare al contributo militare italiano, ma allo stesso tempo non pagarne il prezzo politico-diplomatico, fu trovata ostacolando l’impiego di truppe combattenti, sfruttando uomini e risorse italiane nelle retrovie, sottraendo ai depositi del Regio esercito; armi, materiali e munizioni. L'impiego del regio esercito tra necessità militari e considerazioni politiche Le nuove clausole dell'armistizio lungo di Malta (29 settembre) peggioravano molto quelle dell'armistizio breve, ma la contemporanea lettera di Eisenhower a Badoglio lasciava sperare in un loro superamento o attenuazione. Riguardo alla partecipazione delle divisioni italiane al conflitto, Eisenhower ci tenne a precisare che: «solo divisioni di élite perfettamente equipaggiate, con i mezzi rimasti agli italiani, o con preda bellica alleata, avrebbero combattuto, mentre le altre truppe avrebbero avuto solo compiti di retrovia»: interpretando le parole di Eisenhower, Comando Supremo e Stato Maggiore del Regio Esercito si posero all'opera per costituire nuove Grandi Unità, anche nella convinzione che da questo sarebbe dipesa una diminuzione delle imposizioni dell'armistizio. Il 6 ottobre, a Santo Spirito, presso il Comando di Alexander, si svolse un incontro molto cordiale, dove il Generale britannico affermò che: - Il contributo italiano non integrava in alcun modo lo sforzo bellico congiunto degli anglo-americani, rispetto al quale era un di più; - Questo ridotto contributo non sarebbe stato aumentato prima della conclusione del ciclo operativo che aveva come obiettivo la presa di Roma. Le posizioni alleate furono formalizzate in un promemoria del 17 ottobre: le forze armate italiane venivano suddivise in tre categorie: - Truppe combattenti; - Truppe nelle linee di comunicazione, difesa contraerea, difesa costiera e dei servizi; - Mano d’opera civile mobilitata. Si cercò da parte italiana di offrire un maggiore contributo operativo, ma risultò chiaro, entro la fine di ottobre, che le proposte italiane sarebbero state sempre tutte respinte, perché non gradite: il Generale Ambrosio e il Generale Roatta (Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito), quindi, convennero sul fatto che bisognasse mettere da parte ogni relazione tra «i/ nostro contributo bellico e il trattamento che ci sarà riservato a fine guerra». Gli alleati giudicarono, attraverso una serie di esercitazioni, le unità italiane da inviare al fronte: il giudizio sull’addestramento fu positivo, ma assai negativo fu il giudizio sulla quantità e sulla qualità dei mezzi. Tuttavia, all’inizio di novembre, Radio Londra annunciò «la costituzione di un forte e potente raggruppamento motorizzato dell’Italia libera», che doveva essere il primo da avviare al fronte. Secondo il Generale americano Mark Clark, l’entrata ditruppe italiane al fronte era un ottimo fattore propagandistico contro itedeschie i fascisti repubblicani, ma militarmente si rischiava di mandare uomini al macello: i loro equipaggiamenti, infatti, nonostante l'ottimo addestramento, lasciavano molto a desiderare. | già scarsi equipaggiamenti italiani erano continuamente impoveriti da direttive alleate che impedivano il trasferimento di truppe, munizioni e equipaggiamenti dalla Sardegna e dalla Sicilia, e requisivano mezzi per destinarli ai partigiani di Tito, ritenuti indispensabili nella strategia alleata. In novembre i Generali Ambrosio e Roatta, accusati di crimini di guerra in Jugoslavia, furono sostituiti nei rispettivi ruoli dal Maresciallo d’Italia Giovanni Messe e dal Generale Paolo Berardi. Il Maresciallo Messe era un forte sostenitore del suo Re, per cui, quando fatto prigioniero in Tunisia, interrogato dagli inglesi, egli si era dichiarato un Fascista, perché il suo Re aveva accettato Mussolini come Capo di Governo. Quando invece il suo Re congedò Mussolini ed autorizzò l'armistizio, egli si era dichiarato pronto a combattere i tedeschi, se il suo Re glielo comandava. Messe era rispettato anche dagli ex nemici, inglesi e americani. Messe e Berardi furono assai attivi nel promuovere la partecipazione del regio esercito alla campagna d’Italia in ruoli combattenti. Il 29 novembre ‘43, Berardi protestò che l’esercito «stava conducendo un'esistenza precaria di fronte alla continua serie di richieste fatte dalle armate alleate attraverso le MMIA [Military Mission Italian Army] in quantità tali che gli era del tutto impossibile formulare un programma». Anche Messe protestò in tal senso. Le proteste servirono a poco, in quanto il 15 dicembre l'americano Generale Maxwell Taylor (nuovo Capo di Stato Maggiore della Allied Control Mission) presentò una nuova richiesta di armi e munizioni da mettere a disposizione degli alleati traendole dalle disponibilità italiane nella penisola e in Sardegna. Il 18 dicembre Messe rese noto a Taylor: «Con tutta franchezza tale ordine costituisce una vera e inaspettata delusione», sottolineandone le 10 ripercussioni morali sulle truppe e sui Comandanti, la pessima impressione sul pubblico italiano e la grave menomazione di efficienza materiale che ne deriverà. In realtà le proteste di Messe e Berardi non caddero nel vuoto, come si può evincere da un memorandum del 3 dicembre dello stesso Taylor, che sottolineava l'evidenza dello spreco dell'esercito italiano a causa di piccoli distaccamenti di unità e proclamava l'esigenza di fornire un uso piu proficuo dell'esercito italiano. Il 21 dicembre si svolse (nuovamente) a Santo Spirito una seconda riunione nella quale fu accettata come «questione di principio una più ampia partecipazione futura»: qualche assicurazione fu data sulla disponibilità di materiali per gli italiani; ma fu anche ribadita la necessità di armare i partigiani jugoslavi. Nel settembre ‘40, al culmine della Battaglia d'Inghilterra, Churchill pronunciò a proposito dei piloti da caccia della RAF le famose parole: «mai nel campo delle umane lotte, tanto fu dovuto da un così gran numero di uomini a così pochi». Tali parole potrebbero essere a pieno diritto riferite anche ai 5000 uomini del | Raggruppamento motorizzato del Regio Esercito Italiano. Peccato che, invece di Churchill i soldati italiani furono denigrati dal “Conte” Sforza, che affermò che il Maresciallo Badoglio permetteva a «tutti i fascisti di diventare un corpo di nuove reclute». In questa situazione, intanto, i partiti antifascisti credettero che l'atteggiamento punitivo degli alleati verso l’Italia fosse dettato da ragioni ideologiche e che attaccando la monarchia e offrendo i loro servizi agli angloamericani avrebbero ottenuto condizioni migliori. Non fu così, perché, soprattutto gli inglesi, non erano mossi dall’ideologia (antifascista o conservatrice), ma da considerazioni di potenza. Con il loro comportamento i partiti antifascisti resero solo più agevole per gli alleati l'imposizione della politica punitiva. La prima metà del ‘44 fu occupata dal continuo sforzo di accrescere il numero delle truppe combattenti. Tuttavia, il 26 marzo il Comitato dei Capi di Stato Maggiore britannici ribadì «di non ritenere elevato il valore degli italiani come truppe combattenti». Ma il Generale Alexander aveva una linea di pensiero diversa. Egli era convinto che far combattere divisioni italiane sarebbe stato un investimento fruttuoso, come ribadì il 25 aprile’44, e che le necessità basilari diequipaggiamento della divisione italiana sarebbe dovuta essere un impegno alleato. Inoltre, preso atto che era nell'interesse militare alleato che l'aeronautica italiana continuasse ad operare e che i suoi mezzi andavano esaurendosi, gli Stati Maggiori britannici proposero il 3 aprile di riequipaggiare alcune squadriglie con aerei alleati di modelli superati. Fu così che l'aeronautica italiana fu rifornita, in luglio, di cinque squadriglie. Il 24 aprile, Messe aveva scritto a Badoglio (che aveva appena costituito il suo secondo Governo con partiti antifascisti dopo la “Svolta di Salerno”) per fare il punto della situazione sull’atteggiamento contraddittorio degli alleati: «La parte alleata continua a seguire sempre la stessa linea di condotta — contraddittoria in apparenza — ma forse aderente a precise intenzioni per il futuro», quindi «la nostra partecipazione attiva alle operazioni è stata e continuerà ad essere unicamente basata sul concetto morale del dovere e del diritto degli italiani di battersi nella più larga misura possibile per cooperare direttamente alla liberazione del Paese». Gli stessi concetti venivano ripresi un paio di mesi dopo in una lettera di Messe al nuovo Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi: l’obiettivo massimo — concludeva il Maresciallo — sarebbe l'applicazione a nostro vantaggio della legge affitti e prestiti?. L'obiettivo massimo rimase sempre una cosa irraggiungibile, ma l'evoluzione della situazione strategica determinò l'aumento delle forze combattenti italiane. Il 2 luglio gli Stati Maggiori combinati comunicarono al Generale Henry Wilson, comandante supremo alleato nel Mediterraneo, la direttiva di preparare uno sbarco nella Francia Meridionale (nome in codice “Anvil”, poi ribattezzato “Dragoon”) entro il 15 agosto. Le armate in Italia perdevano così sette divisioni, un gruppo di bombardieri e 23 squadriglie di caccia. Nello stesso periodo, invece, i tedeschi vennero rinforzati da otto divisioni. Fu così che, il 16 luglio, Wilson scrisse agli Stati Maggiori combinati, elogiando il combattimento delle truppe italiane e proponendo che queste dessero un contributo considerevole alle forze delle Nazioni Unite: fu il primo atto ufficiale da cui derivò la costituzione dei sei gruppi da combattimento. 1 “Lend-lease” = Nome originario del sistema di affitti e prestiti adottato dagli USA nel 1941 per le forniture ai paesi amici e alleati durante la Seconda guerra mondiale. 11 Per ragioni politiche, non fu consentito di chiamare “divisioni” le nuove Grandi Unità italiane, né fu consentito che venissero raggruppate in un comando italiano. Per evitare scontri fratricidi, il Generale Alexander diede ordine che, per quanto possibile, i gruppi non sitrovassero a combattere direttamente con divisioni della Repubblica Sociale Italiana. Il 3 maggio, Badoglio aveva rinnovato agli inglesi la richiesta per l’Italia dello status di alleato. Ne era seguito un ampio dibattito per i dirigenti britannici, che fecero prevalere ancora una volta per l’Italia la diffidenza e la tattica del rinvio, senza concretizzare alcuna delle probabili concessioni proposte. La sostituzione di Badoglio con Bonomi irritò fortemente Churchill, che scrisse il 16 giugno a Eden: «Non ci saranno favori speciali per il nuovo Governo italiano. Essi devono guadagnarsi il pedaggio. Badoglio almeno consegnò la flotta». Dopo la visita di Churchill in Italia in agosto, egli rivide il suo giudizio sul Governo Bonomi: la Dichiarazione Churchill-Roosevelt di Hyde Park del 26 settembre ‘44 riguardava la decisione di stabilire normali relazioni diplomatiche con l’Italia, la trasformazione della Allied Control Mission in “Allied Commission” e l’inizio di un programma di aiuti tecnici ed economici. Ma i sentimenti negativi dei britannici verso gli italiani restavano. Come si vedrà nei capitoli successivi, a riprova della natura ambigua della formula della cobelligeranza, l’Italia ebbe da essa benefici limitati, in particolare per la frontiera orientale. La “riabilitazione” dell’Italia dipese poi più dalla sua importanza politica e strategica che dal cambio di fronte del ’43, che anzi verrà ricordato tra gli elementi a suo sfavore, come riprova di una tradizionale inaffidabilità. CAPITOLO 3: La questione di Trieste dalla cobelligeranza al memorandum d'intesa (1943-1945) La “corsa per Trieste”: | progetti militari ital Fin dal 10 giugno 1944, un Appunto segreto della Segreteria Generale del Ministero degli Esteri italiano aveva raccomandato al maresciallo Badoglio, che stava per lasciare la guida del Governo, di prospettare agli angloamericani «la necessità, al momento del crollo della Germania, dell’immediato invio di unità navali italiane nei porti di Trieste, Fiume e Zara e di forze armate italiane nei principali centri della Venezia Giulia accanto alle unità ed alle forze anglo-americane, nonché la necessità di una diretta amministrazione anglo-americana nella zona della frontiera orientale». Occorreva evitare che le forze di Tito creassero un fatto compiuto attraverso l'occupazione di regioni delle quali i Comitati di liberazione di Slovenia e Croazia avevano già proclamato l'annessione, e che «i partigiani comunisti slavi ripetessero su più vasta scala i massacri della popolazione italiana già compiuti nel settembre-ottobre ‘43». Tale necessità fu ribadita dal direttore generale degli affari politici Conte Vittorio Zoppi al sottosegretario agli esteri Marchese Giovanni Visconti Venosta. In tal senso vi era anche una iniziativa italiana: suggerire al nostro Comando Supremo, per l'eventualità che esso avesse contatti segreti con Comandi e Unità della Repubblica Sociale, di interessare tali comandi a presidiare i Paesi della Venezia Giulia appena si fossero verificati i primi segni del collasso germanico. Gli italiani cercavano di percorrere due strade: la prima, lo sbarco in venezia giulia delle forze amate regie in accordo con gli alleati, e la seconda, è sensibilizzare le forze armate repubblicane al problema della difesa dei confini orientali. A metà giugno ‘44 il Comandante supremo alleato nel Mediterraneo, Sir Henry Wilson aveva proposto che lo sbarco alleato non fosse effettuato nel sud della Francia, ma in Istria. Questo doveva quindi essere il presunto sbarco secondario nell'Europa meridionale in appoggio all'invasione in Normandia. Roosevelt, tuttavia, era contrario a questa proposta, deciso a non farsi coinvolgere nei Balcani al seguito dei britannici. Wilson non si era dato per vinto, ed era tornato alla carica a fine settembre con due progetti alternativi di sparco: - A Trieste e in Istria; =. A suddi Fiume. In novembre propose un nuovo progetto, uno sbarco da effettuare in Dalmazia a inizio ‘45. Questi progetti si arenarono definitivamente di fronte alla crisi dei rapporti tra gli occidentali e Tito, che oppose un secco rifiuto a collaborare allo sbarco a Zara di due reggimenti, a rinforzo di alcune unità britanniche. 12 Il 4 settembre ‘44 fu siglato un accordo tra il CLNAI e il Fronte di Liberazione Sloveno (OF). Esso prevedeva la collaborazione nel periodo della guerra; un altro protocollo nella stessa data accordava un prestito all’OF di tre milioni di lire. Il delegato sloveno si era però rifiutato di sottoscrivere la parte del progetto di accordo riguardante il rinvio al dopoguerra delle discussioni sulle frontiere. Questa era pertanto divenuta una semplice dichiarazione unilaterale del CLNAI. A metà settembre il IX corpus sloveno chiese che tutti i partigiani italiani passassero alle sue dipendenze. L'ordine fu eseguito solo dai garibaldini, che lasciarono così gli autonomi delle Osoppo. Il 27 settembre il CLNAI, in un preoccupato appello al Governo italiano, chiese di prendere accordi direttamente con Tito: si era preoccupati della situazione in cui si sarebbero trovate la Venezia Giulia e l’Istria al ritiro dei tedeschi: volevano evitare le atrocità subite nei confronti degli italiani dagli slavi nel settembre/ottobre ‘43 (azioni che, nel documento di collaborazione tra CLNAI e OF erano attribuite a “elementi irresponsabili incontrollati”). Il 12 settembre ‘44 il terzo CLN triestino aveva inviato al CLNAI un appello per un intervento diplomatico diretto con il Maresciallo Tito e di ottenere che gli anglo-americani occupassero per primi Trieste. Il CLNAI trasmise solo la prima richiesta al Governo, che comunque si era già mosso sul secondo punto. A dicembre fu lo stesso presidente del CLNAI a chiedere direttamente al Comandante supremo alleato nel Mediterraneo, il maresciallo Wilson, di far arrivare per prime a Trieste le sue truppe. All'arrivo delle truppe titine, il primo maggio ‘45, il CLN diede loro il benvenuto e consegnò loro la città, per vedere poi le sue bande (del CLN) disarmate appena due ore dopo. Gli antifascisti non comunisti a Trieste rimasero soli. L'azione diplomatica italiana Che la situazione fosse disperata fu compreso in ritardo dagli italiani. Gli avvenimenti dell’aprile-maggio 45, con gli Jugoslavi a Trieste, aprirono loro gli occhi. Da giugno ‘44 al maggio ’45 la diplomazia italiana si era mossa su due piani: - Urgenza immediata di ottenere assicurazione che gli anglo-americani avrebbero occupato tutto il territorio del Regno d’Italia entro i confini del 1939, stabilendovi il proprio Governo militare. Il primo intervento in tal senso fu compiuto dal sottosegretario Visconti Venosta il 15 agosto ’44 al vicepresidente della Commissione Alleata (ACC) Ellery Stone, senza peraltro chiedere garanzie sull'occupazione alleata di tutta la Venezia Giulia. - Cominciare a valutare la linea da tenere in sede di trattativa di pace. Il tema delle misure da prendere al momento della ritirata tedesca fu affrontato in ulteriori comunicazioni tra Palazzo Chigi e la AC (che aveva nel frattempo perso la C di “Control”), e in un colloquio a inizio febbraio ‘45 tra Prunas (Segretario Generale degli Esteri dal ‘43 al ‘46) e Harold Macmillan (ministro residente britannico presso il Comando Supremo Alleato del Mediterraneo). Quest'ultimo affermò che la «Gran Bretagna è in grado di ottenere dalla Russia precise assicurazioni» sul fatto che le regioni orientali dell’Italia sarebbero state occupate dalle truppe anglo-americane. Intanto telegrammi dalla legazione a Berna e dall’Ambasciata a Washington segnalavano la possibilità di un'occupazione jugoslava di Trieste. Il Governo italiano sollecitò in vari modi un chiarimento presso gli alleati, il 26 marzo il Presidente Bonomi ricevette da Stone l'assicurazione che l'occupazione della Venezia Giulia sarebbe stata «esclusivamente effettuata da truppe anglo-americane», ma che sarebbe stato difficile impedire che funzionari slavi partecipassero all’amministrazione delle zone «prevalentemente abitate da popolazioni slave». L’Ambasciatore Alberto Tarchiani ebbe assicurazioni in tal senso a Washington. La regione in questione sarebbe stata occupata solo dagli anglo-americani, che avrebbero instaurato il loro Governo militare su tutti i «territori liberati sino alla frontiera del 1939». In estrema sintesi, si può dire che in campo alleato si erano confrontati due atteggiamenti: - Il primo era quello espresso dai militari: prendevano atto che le forze di Tito, già nelle prime settimane del ‘45, controllavano aree della Venezia Giulia ed erano in buona posizione per giungere in altre zone prima degli anglo-americani. Quindi, secondo il maresciallo Alexander, era essenziale agire in accordo con Tito, invitando gli Jugoslavi a partecipare come «alleati» al Governo della Venezia Giulia. 15 - Il secondo era quello espresso dai politici, soprattutto americani: insistevano nel mantenere ferma la direttiva del 30 ottobre ‘44 che tutti i territori del Regno d’Italia entro il confine del ’39 dovessero essere occupati e governati da loro e dagli inglesi. Tuttavia, dopo aver ripetutamente affossato i progetti di sbarco di Churchill in Istria e Dalmazia, gli americani erano restii a rischiare la vita dei loro soldati per immischiarsi nelle questioni balcaniche. Sempre per non guastare i rapporti con Tito, fu deciso di continuare ad appoggiare i suoi progetti di conquista di Istria e Dalmazia con navi, aerei e carri armati. In tal modo la pretesa americana di stabilire il Governo militare alleato su tutto il territorio italiano si riduceva a una mera posizione di principio, priva di qualunque efficacia pratica. Il 26 e il 28 aprile l’Ambasciatore Tarchiani corse a protestare per l'occupazione jugoslava di Cherso e Lussino, avvenuta il 22 aprile ricevette platoniche assicurazioni sull'occupazione anglo-americana di tutti i territori italiani, tuttavia, il 30 il Dipartimento di Stato americano ammise «che la situazione era estremamente difficile». Il primo maggio ci fu il Telegramma di De Gasperi. Intanto a Roma, il Governo, riunitosi il 3 maggio, chiedeva che la Venezia Giulia fosse amministrata secondo i termini dell’Armistizio di Malta, ovvero interamente da anglo- americani. Peraltro, Tarchiani (Ambasciatore italiano a Washington), per non indisporre gli americani, evitò di appellarsi alle norme dell’Armistizio lungo. Tale questione giuridica non fu mai più sollevata. Di fronte alla costituzione, a Trieste, di un’amministrazione civile slovena, il Consiglio dei Ministri si riunì nuovamente il 9 maggio, vi furono due proposte per esprimere la protesta dell’Italia: I Inviare immediatamente a Trieste un rappresentante italiano; manifestazione dell'orgoglio nazionale di un Paese non disposto ad abdicare alla sua dignità e ai suoi diritti. Il Far dimettere il Governo. Ostentazione della debolezza cui la politica estera italiana fece più volte ricorso (ad es. in occasione della questione adriatica: dimissioni del Ministro degli Esteri Tommaso Tittoni nel novembre ‘19 per protesta contro le pressioni sul Governo italiano del presidente americano Woodrow Wilson) Alla fine, nessun gesto clamoroso fu compiuto. Alexander Kirk (ambasciatore degli Stati Uniti in Italia nel 1945-'46) sottolineò, intanto, l’importanza per gli USA dell'amicizia dell’Italia, di mantenervi la stabilità politica e di bloccare l'espansione del Comunismo. Allargando lo sguardo all'Europa intera, Kirk e il Segretario di Stato Joseph Grew evidenziarono che già i sovietici agivano a loro piacimento in Polonia, ed ora, attraverso gli jugoslavi, volevano imporsi anche nella Venezia Giulia. Tito si comportava come Hitler, i giapponesi e Mussolini. Il Comandante Supremo Alleato (le cui truppe erano disgustate dalle atrocità jugoslave) e Truman (nuovo Presidente USA) si dissero decisi a «cacciar via» gli jugoslavi. Il 6 giugno ‘45, De Gasperi ribadì ai britannici (che avevano un atteggiamento ambiguo, al contrario degli americani) il punto di vista italiano, chiedendo, in subordine all'occupazione da parte degli occidentali dell’intera Venezia Giulia, almeno un’amministrazione mista anglo- jugo-americana a est della Linea Wilson (che portava il confine a pochi chilometri da Trieste e - chiaramente - l'esclusione di Fiume dalle richieste italiane). Purtroppo, gli accordi con gli jugoslavi, firmati a Belgrado il 9 giugno ’45 e perfezionati a Duino il 20, dividevano le zone di occupazione non in base alla Linea Wilson, ma alla ben peggiore Linea Morgan (dal nome del Generale che firmò gli accordi a nome degli anglo-americani). Nell’incertezza di quale fosse, effettivamente, la linea di demarcazione stabilita nell’Accordo di Belgrado, il 12 giugno, De Gasperi chiese: - Che gli angloamericani occupassero tutta una serie di località della costa occidentale dell'Istria e dell’immediato entroterra (come Muggia, Capo d'Istria e Isola), nessuna delle quali, poi, tranne Muggia, rimase in mano agli italiani. - Chevi fosse libertà di trasferimento con i propri averi per chi lo volesse - Cheosservatorialleatioitalianiavesserocompitidivigilanzadell’amministrazione della zona ad est della Linea Morgan, parallelamente a quanto gli jugoslavi avevano già ottenuto per quanto riguarda la zona in mano agli anglo-americani. L'Accordo di Duino, tuttavia, aveva sancito la «consacrazione per i nove decimi del fatto compiuto di Tito», per usare l’espressione di De Gasperi di quando conobbe l'esatto tracciato della Linea Morgan. 16 La protesta italiana fu allora accorata, ma di tono moderato, priva di recriminazioni per il comportamento degli anglo americani, ai quali si esprimeva anzi gratitudine e apprezzamento per la loro azione. Come ricorda Tarchiani: «a Londra le nostre pur blande e ragionate rimostranze erano state prese sultragico» e, nell’impossibilità di mutare il presente, occorreva non pregiudicare il futuro, inimicandosi gli alleati vincitori. L’impotenza consigliava rassegnazione. Le richieste di De Gasperi non furono accolte. Più volte il Governo di Roma tornò sull'argomento nei mesi seguenti, denunciando le atrocità jugoslave sulla popolazione italiana, che culminarono il 28 settembre con i saccheggi compiuti a Capo d'Istria da bande slave provenienti dalla campagna circostante, e l’organizzazione di « plebisciti farsa» per l'annessione alla Jugoslavia. Nessuna misura fu presa. La frontiera orientale nel trattato di pace Cristallizzata la situazione dell'occupazione militare, la diplomazia italiana poteva tornare a concentrarsi sulla linea da tenere in vista del Trattato di Pace. A Palazzo Chigi (Governo) si erano manifestate due tendenze: - Una più nazionalista, e scarsamente realista; - L'altra più conscia della situazione italiana e maggiormente disposta a concessioni. Espressione della prima tendenza fu l’Appunto del 10 giugno ’44 del console Aldo Mazio per conto della Segreteria Generale, che evidenziava l’importanza di migliorare lo status italiano di “cobelligeranza”, per evitare di trovarsi nella situazione di un’Italia «vinta di fronte ad una Jugoslavia vincitrice», e sottolineava il pericolo per il nostro Paese di una Jugoslavia panslava e comunista. Prevedeva, inoltre, una soluzione che sarebbe stata (forse) vantaggiosa per l’Italia, e cioè, una confederazione mitteleuropea tra Austria, Ungheria, Croazia e Slovenia. Una tale “artificiale creazione” difficilmente avrebbe potuto avere aspirazioni verso territori italiani. In realtà, quest’ultima era la soluzione peggiore, perché gli inglesi, che già l'avevano considerata, ritenevano che di tale confederazione dovesse far parte anche Trieste. Secondo il documento, il Governo di Re Pietro aveva buone probabilità di insediarsi a Belgrado, aiutato dalle forze di Mihailovié, e quindi bisognava prendere contatto con esso. Presso Tito andava inviata una missione militare che potesse coordinare l'invio della «Brigata Garibaldi» su Gorizia, Trieste, Fiume e Zara. Andava comunque evitato ogni contatto che potesse implicare un riconoscimento politico. Inutile sottolineare il non realismo di queste valutazioni. Il Documento, inoltre, sottolineava l’importanza della frontiera decisa con il Trattato di Rapallo, tale frontiera era necessaria per non mettere l’Italia e l'Europa Occidentale «alla mercede del mondo slavo» in ciò gli interessi italiani coincidevano con quelli britannici. L’Appunto del Conte Zoppi (direttore generale degli Affari Politici) riprendeva alcuni temi dell’Appunto di Mazio. Egli affermava che: «Nelle sue linee essenziali, la frontiera orientale, che, liberamente negoziata a Rapallo, rispondeva a criteri geografici e i equità dal punto di vista etnico, anche perché offriva migliori garanzie alle minoranze, date le “alte tradizioni di civiltà” dell’Italia rispetto alla situazione della Jugoslavia, dove gli odi e le lotte tra razze e religioni non consentivano un pari ottimismo». Inoltre, il problema della difesa del Mediterraneo da un'eccessiva influenza sovietica era comune interesse per Italia, Gran Bretagna e Francia. La frontiera esistente, pertanto, doveva essere difesa. Per Fiume, se il mantenimento di essa all'Italia, in base al Trattato di Roma del ’24 fosse stato impossibile, conveniva fare ogni tentativo per ritornare al Trattato di Rapallo e allo Stato indipendente di Fiume. Intanto la Regia Marina, in uno studio su // confine orientale italiano inviato al Ministero degli Esteri il 12 novembre ’44 insisteva almeno sul mantenimento dello status quo del Trattato di Rapallo e sulla neutralizzazione di Cattaro (Kotor, adesso in Montenegro). Anche il CLN della Venezia Giulia, nel quale non era più presente il Partito Comunista, il 9 dicembre ‘44 approvava un ordine del giorno nel quale considerava «l'appartenenza della Venezia Giulia all'Italia come un problema in linea di massima risolto e definito nell'interesse della comunità europea». Tra i padri nobili dell’antifascismo democratico, anche Carlo Sforza e Benedetto Croce si erano pronunciati, nell’agosto 44 sulla frontiera stabilita a Rapallo con Fiume città libera. 17 il Governo avrebbe avuto le spalle coperte di fronte agli italiani per accettare una soluzione insoddisfacente. - Una mossa strategica: la scelta strategica del rinvio, nella convinzione che il tempo lavorasse a favore dell’Italia. In sostanza Quaroni consigliava di attendere che il peggioramento dei rapporti tra sovietici e occidentali inducesse questi ultimi a sostenere più a fondo, nel loro interesse, l’Italia. Il Governo non accettò il suggerimento di Quaroni di richiedere un Plebiscito. Quanto all’opportunità di rinviare a tempi migliori il negoziato e la firma del trattato di pace, a Roma parve che la prima fondamentale necessità fosse quella di liberarsi dall’armistizio per essere riabilitati a livello internazionale. Quindi, a luglio, fu chiesto a Washington di porre fine al regime armistiziale con uno strumento provvisorio di pace, rinviando la soluzione di problemi come quello della Venezia Giulia: era chiedere The best of both Worlds, cioè avere subito i vantaggi della fine del regime armistiziale, rinviando il pagamento del prezzo che ciò avrebbe comportato. Accadde invece che per essere riabilitati si dovette firmare un Trattato di Pace definitivo, che non poté essere negoziato proprio perché la riabilitazione non era ancora avvenuta. L'Italia cercò anche un dialogo con la Jugoslavia. De Gasperi sostenne che non si trattava, per il momento, di aprire conversazioni dirette sulle questioni territoriali, ma solo di riprendere relazioni normali. A tale scopo furono chiesti i buoni uffici dei tre grandi, ma, secondo Quaroni, questi non avevano interesse nel favorire buone relazioni tra Roma e Belgrado: - Glioccidentali per le ragioni già citate; - I russi perché non volevano che una Jugoslavia in buoni rapporti e senza problemi territoriali con l’Italia si sentisse relativamente libera di uscire dalla sottomissione russa di fare dei «giri di valzer» con l’Italia e attraverso l’Italia con il mondo occidentale. Gli esperti del Foreign Office, a capo dei quali vi era il noto storico Arnold Toynbee, escludevano una soluzione sulla base della Linea Wilson. Essi appoggiavano quello che fu poi chiamato “equilibrio etnico”, ovvero un confine che lasciasse un pari numero di italiani in Jugoslavia e di slavi in Italia. Questo era un criterio che di fatto favoriva gli slavi (che infatti lo proporranno nel ‘52), in quanto l'alto numero di sloveni presenti a Trieste pesava in maniera rilevante. Nel comunicato finale della Conferenza di Mosca (riunitasi nel dicembre ‘45), l’Italia venne posta sullo stesso piano di Finlandia, Romania, Bulgaria ed Ungheria, perdendo così la primogenitura acquisita a Potsdam?. Un memorandum di protesta fu consegnato a Kirk (ambasciatore americano in Italia), Charles (sarà l'ambasciatore britannico) e all’ambasciatore sovietico Mikhail Kostylev. Il Foreign Office reagì in maniera irritata; il Dipartimento di Stato americano fu più conciliante; l'Agenzia Tass (Agenzia di stampa sovietica) assicurò che la Conferenza di Mosca non aveva peggiorato la posizione dell’Italia. Quaroni, coerente con la sua tesi del rinvio, non riteneva un male che il Trattato di Pace con l’Italia non avesse più precedenza sugli altri; era invece sicuramente un fatto negativo il chiarimento che tutti i Paesi in guerra con l’Italia avrebbero partecipato alla Conferenza generale della pace, dove si poteva prevedere che l'orientamento della maggioranza avrebbe peggiorato le clausole decise dai quattro Grandi in materia di controllo militare, civile e smilitarizzazione. Inoltre, si capiva assai bene che l’Italia avrebbe potuto discutere il trattato tanto quanto la Germania aveva potuto discutere la pace di Versailles. All’inizio del ‘46 l’Italia aveva adottato una posizione incentrata sulla difesa della Linea Wilson, con la disponibilità ad eventuali rettifiche in favore degli slavi, accompagnata però da garanzie nei confronti degli italiani o di uno status particolare per i territori come Zara, Fiume, le isole di Cherso e Lussino, a oriente di essa. Ma Quaroni, il più realista, ammoniva: «allo stato attuale delle cose, il massimo che possiamo aspettarci e la Linea Morgan». Essendo il confine italo-jugoslavo il futuro confine della cortina di ferro, appariva evidente che la sua determinazione non sarebbe stata decisa né dagli italiani, né dagli jugoslavi, ma dalla «competizione 3 Ultimo dei vertici tra le tre grandi potenze alleate tenutosi dal 17 luglio al 2 agosto 1945. 20 internazionale che si svolge sopra le nostre teste», ammoniva da Londra il 7 febbraio ‘46 Carandini (ambasciatore italiano a Londra). L'Unione Sovietica, in tutto ciò, non intendeva fare concessioni all'Italia, ritenendo impossibile o troppo rischioso cercare di allontanarla dal campo occidentale, ma anzi accentuava il carattere punitivo delle clausole di pace per seminare discordia nella politica interna italiana e nei rapporti tra Roma e Washington. La nomina del leader socialista Pietro Nenni a Ministro degli Esteri (primo Governo della Repubblica), se suscitò imbarazzo alla nostra ambasciata a Washington, avrebbe invece dovuto essere un segnale per i sovietici, sia un modo di migliorare i rapporti con il governo laburista inglese. Tuttavia, il nuovo sottosegretario permanente Sir Sargent non mancò di sottolineare con Nenni l'argomento «della inscindibilità delle responsabilità fasciste con quelle del popolo italiano». Il Trattato di Pace costituì quindi l’ultimo atto della politica estera dell’Italia fascista, non il primo di quella dell’Italia democratica. La situazione italiana tra i due blocchi contrapposti fu ben sintetizzata da una lettera dell’Ambasciatore Carandini a De Gasperi del 7 febbraio '46, in cui egli sosteneva che: «siamo troppo deboli per permetterci di considerarci e di agire come clienti esclusivi dell’un blocco e come impliciti competitori dell'altro. E ciò perché quello non è in grado di proteggerci — basti pensare a quello che diceva Quaroni, cioè che gli USA erano “leoni e pecore [in Conferenza]” — e l’altro è tanto forte da paralizzare ogni soluzione che possa risolversi in un nostro rafforzamento». Carandini raccomandava dunque «una politica di stretta e chiara neutralità, per attirarsi la simpatia o la tolleranza dell’una parte e dell’altra». Quella della neutralità, più che una scelta consapevole a parte del Governo, era la risultante della situazione politica interna, dove il sistema dell’esapartito, col conseguente principio delle decisioni per consenso, paralizzava ogni possibilità di una politica estera italiana. Giusto per fare un esempio delle contraddizioni in senso al Governo italiano. Sul problema della Venezia Giulia, era difficile per il Governo italiano alzare la voce sulle stragi compiute dai titini quando il leader del PCI Togliatti definiva «menzogne» le accuse ai comunisti jugoslavi. Comunque, nella posizione italiana il rifiuto del nazionalismo era dovuto non solo alla necessità di recitare il mea culpa di fronte ai vincitori, ma anche al timore di suscitare un clima patriottico che avrebbe potuto favorire la monarchia e le destre nelle votazioni del 2 giugno ‘46. La nuova Italia doveva quindi rifiutare il nazionalismo e giocare la carta di separare la responsabilità morale dell’antifascismo e del popolo italiano da quella del regime fascista — si leggeva in un Documento di Palazzo Chigi del 22 agosto —, dare rilievo alla cobelligeranza e sottolineare che gli avvenimenti militari non avevano causato la caduta del Fascismo, ma l'avevano resa possibile. Bevin era d’accordo sul non trattare gli italiani come se Mussolini fosse stato ancora al potere, ma dichiarò pubblicamente di non considerare il Trattato duro, tenendo conto dei danni causati dall'Italia durante il periodo delle aggressioni, un concetto ripetuto anche dagli americani quando gli italiani si lamentavano per la perdita dell'Istria. Dal canto suo, la Jugoslavia aveva tre grossi vantaggi: - Diessere annoverata tra i vincitori; - Di essere appoggiata a fondo da uno dei Grandi (Unione Sovietica); - Di occupare con le proprie truppe gran parte dei territori contesi. Una delle giustificazioni degli italiani per la creazione del Territorio Libero di Trieste fu proprio di allontanare la possibilità di un’azione di forza, che si presupponeva gli jugoslavi avrebbero avuto più remore a compiere contro una Trieste internazionalizzata e autonoma, rispetto a un capoluogo giuliano all’interno dei confini italiani. Alla fine, comunque le truppe jugoslave furono autorizzate a restare nella Zona B del costituendo Territorio Libero, sia per le insistenze sovietiche, sia perché i Quattro Grandi non si sentivano in grado di sloggiarli senza operazioni militari, che preferivano evitare. Come aveva subito previsto Quaroni, il fatto compiuto militare creato nella primavera ‘45 era destinato, con tappe successive, a diventare la frontiera tra Italia e Jugoslavia, oltre che tra Occidente e Mondo Comunista. A partire dal 18 gennaio ’46 si riunì a Londra il Consiglio dei Sostituti dei quattro Ministri degli Esteri che, secondo quanto stabilito a Mosca, doveva formulare le direttive per il lavoro delle due commissioni di esperti: - L’una incaricata di tracciare la linea di confine basandosi sul criterio etnico; 21 - L'altra di studiare le modalità di internazionalizzazione del porto di Trieste. Non operò mai, poiché l'Unione Sovietica si rifiutò di definirne i compiti prima che fosse decisa la sorte di Trieste. Gli americani proposero che la prima commissione visitasse quattro zone: I Gorizia e una piccola area a ovest della città; Il La zona tra Gorizia e Trieste; UH. Trieste; IV. L’Istria e Fiume. I sovietici chiesero e ottennero che venissero visitate anche le aree di Tarvisio e le aree della provincia di Udine abitate da sloveni, mentre si opposero alla visiti di Fiume e di tutta l’Istria. I sovietici ritenevano che l'applicazione rigorosa del criterio etnico avrebbe comportato l'assegnazione alla Jugoslavia delle zone slovene tra Monfalcone e Trieste, isolando quest’ultima ed eventualmente facendola col tempo cadere sotto il Governo di Belgrado. Si discusse per sei settimane e, alla fine, si decise di lasciare l’avverbio “prevalentemente” (zone prevalentemente abitate) e di far visitare alla Commissione anche Tarvisio e la Provincia di Udine, ma non i territori ad est di Cosina, Pinguente, Pisino e Albona escludendo quindi Fiume, le isole di Cherso e Lussino e, a maggior ragione, Zara. Senza esito restò la richiesta che un osservatore italiano, e quindi anche uno Jugoslavo, accompagnassero la Commissione. Il 21 febbraio De Gasperi inviò un dettagliato promemoria a Stone (vice-presidente della Commissione Alleata — Allied (Control) Commission) e ai rappresentanti diplomatici a Roma di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna nel quale si dimostrava che nella Zona B le autorità jugoslave non si comportassero come autorità occupanti, ma come se il territorio fosse stato già annesso alla Jugoslavia. Intanto, in tutta l’area contesa si ebbero sia manifestazioni pro-italiane, sia pro-slave della popolazione. Nelle aree occupate dagli jugoslavi le manifestazioni furono vietate, permettendo solo quelle pro-slave. Il 29 aprile la Commissione consegnò ai supplenti dei Ministri degli Esteri un rapporto, nel quale si constatava l’esistenza di una maggioranza italiana nella zona di Tarvisio e di una forte maggioranza italiana a Gorizia, che diveniva quasi totalità a Trieste. Quanto alla parte visitata nella Penisola istriana, esso osservava che la popolazione italiana costituiva la maggioranza e, in certi casi, la quasi totalità della popolazione delle numerose città situate sulla costa o vicino alla costa, mentre, in certe città dell'interno, essa rappresentava una “minoranza importante”. Croati e sloveni erano invece la quasi totalità nelle campagne. Il riconoscimento dell’italianità delle città costiere dell’Istria non preoccupava più di tanto gli slavi, perché secondo il criterio più volte ribadito da Belgrado, e fatto proprio da Mosca, erano le città (dove si concentravano i resti del colonialismo della Serenissima) a dover seguire le campagne, e non viceversa. La Commissione non formulava, tuttavia, una proposta unitaria sulla frontiera italo-jugoslava, ciascuno degli esperti delle quattro potenze tracciava la sua linea. Oltre tutto, mentre i sovietici avevano ricevuto istruzioni dettagliate da Mosca, britannici e americani sapevano solamente che i loro rispettivi Governi non volevano che Trieste fosse annessa alla Jugoslavia. Le tre linee tracciate dagli occidentali correvano assai più a ovest della Linea Wilson e, nella loro parte settentrionale, anche della linea di demarcazione militare tra anglo-americani e jugoslavi (Linea Morgan). La linea sovietica, invece, correva in Friuli considerevolmente ad Occidente della frontiera italo-austriaca del 1866, per sbucare nel Golfo di Trieste a ovest di Monfalcone. La linea francese più di tutte si avvicinava al criterio dell'equilibrio etnico, ovvero lasciare un eguale numero di minoranze slave in Italia e italiane in Jugoslavia. Essa aveva tuttavia lo svantaggio di non lasciare agli sloveni uno sbocco sul mare. Fu questo il motivo per cui, negli anni avvenire, fu impossibile riottenere la costa italiana della Zona B del Territorio Libero di Trieste. Comunque, i francesi erano quelli che, ponendosi in una posizione intermedia tra le linee anglo-americane e sovietiche, fornivano una soluzione di compromesso. In occasione di una nuova riunione dei quattro Ministri degli Esteri a Parigi, dal 25 aprile al 16 maggio ‘46, furono ascoltati sia De Gasperi (Ministro degli Esteri e Presidente del Consiglio), sia il Vice Primo Ministro Jugoslavo Edvard Kardelj. Il primo osservò come dalle linee tracciate dagli “esperti” una grande maggioranza di italiani fosse rimasta 22 Tuttavia, in ottobre Quaroni, Tarchiani e Carandini avevano ammonito che l'atteggiamento di non dire se si sarebbe firmato o meno il Trattato aveva «cessato di avere una utilità realistica. Agli effetti dei negoziati esso non può più avere alcuna influenza perché nessuno crede che noi non lo firmeremo». Commentando a caldo il ripiegamento che in poche settimane aveva portato Byrnes dalla linea americana alla linea francese (senza peraltro dare Trieste all'Italia), Tarchiani accusò la «fretta di Byrnes». Anche Quaroni parlò della fretta americana di concludere la pace, per potere, con la pace, ottenere lo sgombero da parte delle truppe sovietiche di gran parte dei territori ex-nemici. Partita l'Armata Rossa, gli americani si illudevano di poter scalzare il monopolio russo in quei Paesi con mezzi diplomatici ed economici. È a questa politica americana che i nostri interessi sono stati sacrificati. Una parte di responsabilità va anche attribuita personalmente a Byrnes, con la sua tattica negoziale da avvocato o da boss politico, e forse un po’ della sua fretta dipendeva anche dalla su condizione di Segretario di Stato a tempo, già dimissionario ad aprile, ma rimasto in carica per concludere i Trattati di Pace. Nel caso specifico dell’Italia e della sua frontiera orientale, comunque, per gli americani «cedere» al blocco comunista slavo e tradire le aspettative degli italiani era, tutto sommato, un'operazione a basso costo. A Washington sapevano benissimo che comunque l’Italia non aveva alternative all'amicizia americana. È probabile — scriveva Quaroni il 18 luglio ’46 — che Byrnes abbia contato di farci tranquillamente accettare il Trattato, sia pure tra qualche protesta platonica, dandoci in compenso delle concessioni finanziarie più o meno estese, a seconda del nostro grado di scontentezza. Agli americani non importava nulla della questione di Trieste in sé. Se essi difendevano il punto di vista italiano, era soltanto per le sue ripercussioni sulla situazione politica italiana. In definitiva, raggiunta la convinzione che, purché non si superasse un certo limite, identificabile nella non cessione di Trieste alla Jugoslavia, la stabilità del regime politico italiano non sarebbe stata compromessa, poco importava agli americani che la frontiera corresse più o meno a ovest di qualche decina di chilometri. La soluzione dell’internazionalizzazione era comoda per gli americani, tanto più che se il Territorio Libero fosse decollato, esse avrebbero dovuto ritirarsi. Quindi, per gli italiani, il modo più semplice di tenere le truppe anglo- americane a Trieste era quello di rinviare la firma del Trattato di Pace. Comunque, l’anno 1946, grazie alla concessione strappata da Molotov di far restare nella Zona B del Territorio Libero le truppe jugoslave, si chiuse con la conferma del fatto compiuto della primavera 1945. Si ponevano così le premesse perché tutta l’Istria passasse alla Jugoslavia, che, come aveva detto De Gasperi, l'aveva già trasformata in un vasto campo di concentramento alla Buchenwald. Le sorti della frontiera orientale furono pertanto decise dalle armi. Del resto, l’Italia era arrivata alla fine della guerra e al crollo tedesco in condizioni disperate di inferiorità diplomatica e militare. Non poteva muovere un reparto o una nave senza autorizzazione alleata. Gli anglo-americani sottraevano armi dai magazzini italiani per darle a Tito. La Regia Aeronautica sosteneva la resistenza jugoslava nei Balcani, nelle cui fila combattevano truppe italiane. Illogoramento della posizione italiana a seguito della “scomunica sovietica di Tito” Il Territorio Libero di Trieste (TLT) non fu mai costituito, perché, nel clima della Guerra Fredda, non si riuscì a nominare un Governatore accettato da tutte le parti in causa. Per via dell’inasprimento del confronto tra Est e Ovest gli anglo-americani preferirono mantenere lo status quo, che consentiva di mantenere le loro truppe a Trieste. Così, la Zona A rimase amministrata dagli anglo-americani e la Zona B dagli jugoslavi. Il 20 marzo 1948 i Governi di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti emanarono una dichiarazione tripartita che raccomandava un protocollo addizionale al Trattato di Pace con l’Italia, che avrebbe posto nuovamente sotto la sovranità italiana il territorio libero di Trieste. Tale documento aveva lo scopo di influenzare gli elettori italiani a favore dei partiti governativi nelle imminenti elezioni politiche del 18 aprile ’48. Allo stesso modo, i sovietici, per esercitare un’influenza simile a beneficio del fronte popolare socialcomunista, si erano mostrati favorevoli a soddisfare le aspirazioni coloniali dell’Italia. Ma la dichiarazione tripartita non era destinata a sortire alcun effetto, poiché la Jugoslavia occupava la Zona B, e solo la forza, che nessuno era disposto ad usare, avrebbe potuto costringerla al ritiro. Tale dichiarazione, dunque, a lungo andare, si dimostrò una palla 25 al piede per qualsiasi Governo, dal momento in cui chi avesse accettato meno del territorio del TLT sarebbe stato esposto a dure critiche da parte dell'opinione pubblica. Nel giugno ‘48 il dittatore Tito fu scomunicato da Stalin e uscì dal blocco dei satelliti di Mosca. A questo punto, i Governi Occidentali cominciarono una politica di progressivo sostegno alla Jugoslavia per rafforzarne l'indipendenza e avvicinarla il più possibile all'Occidente. Quindi, gli anglo-americani, che avevano fin lì assicurato il proprio sostegno all'Italia, cominciarono a tenere un atteggiamento di equidistanza tra Roma e Belgrado, che finiva per privilegiare quest’ultima, in base a considerazioni strategiche. Il Mutual Security Agreement del 14 novembre ’51 tra Stati Uniti e Jugoslavia e l'ingresso di Grecia e Turchia nella NATO, con i primi accenni alla futura alleanza tra Atene, Ankara e Belgrado, resero «ancora più importante eliminare le ragioni di contrasto tra la Jugoslavia e l’Italia», per saldare un fronte continuo contro l’Unione Sovietica nella sponda settentrionale del Mediterraneo dagli Stretti Turchi ai Pirenei, esteso poi con l'Accordo militare del 26 settembre ‘53 tra Stati Uniti e Spagna fino a Gibilterra. Diventava, quindi, necessaria un’intesa tra Roma e Belgrado. Dal 21 novembre ’51 all’11 marzo ’52 si ebbero sette colloqui a Parigi e a New York tra gli ambasciatori Gastone Guidotti e Ale$ Bebler, rispettivamente rappresentante diplomatico italiano e delegato permanente jugoslavo presso l’ONU (nella quale l’Italia sarà ammessa solo nel ‘55). Bebler propose tre soluzioni: I La spartizione del TLT secondo la linea di demarcazione tra le due zone (A e B) con piccole modifiche; Il Uno sbocco al mare per la Jugoslavia nella Zona A, nell’area di Muggia, Zaule e Servola, compreso il nodo ferroviario di Opicina, cedendo all'Italia come contropartita Capodistria. Ill. La costituzione del TLT senza il controllo dell'ONU con un'alternanza dei Governatori dei due Paesi con un mandato triennale. Nel penultimo colloquio Guidotti propose un plebiscito, che Bebler accettò, ma solo dopo un periodo di “normalizzazione” della situazione etnica, alterata dopo il 1918, di almeno quindici anni, durante i quali il TLT doveva essere amministrato secondo la formula dei Governatori alternati. Nel ’51 in Gran Bretagna l'avvento del Governo conservatore di Winston Churchill aveva segnato un certo miglioramento nelle relazioni anglo-italiane. Il Ministro degli Esteri britannico Eden si mostrò irritato dall’atteggiamento intransigente degli jugoslavi verso l’Italia. Tale malumore verso gli jugoslavi era condiviso anche dai Ministri degli Esteri di Francia e Stati Uniti. | collaboratori di Eden non condividevano appieno il suo atteggiamento, in quanto per loro anche l’Italia aveva mostrato mancanza di buona volontà e di un effettivo desiderio di trovare un compromesso. Eden rispose seccatamente a queste osservazioni che «gli jugoslavi erano maggiormente da biasimare. Essi non possono rivolgersi altrove». Questo commento fu uno dei rarissimi casi in cui si sottolineò la condizione di debolezza e isolamento della Jugoslavia e non invece la sua posizione di forza di potenza «non allineata» corteggiata dagli occidentali. A Washington l’atteggiamento più intransigente verso Belgrado del Dipartimento di Stato si scontrava con quello del Pentagono, che attribuiva troppa importanza strategica alla Jugoslavia per accettare qualunque idea di premere fortemente su di essa. Inoltre, mentre Londra era ansiosa di ritirare i suoi cinquemila uomini da Trieste, che le servivano per le sue esigenze imperiali, al Pentagono non dispiaceva mantenere truppe americane in tale posizione avanzata. Comunque, la Conferenza Tripartita anglo-franco-statunitense, che concluse i suoi lavori il 21 aprile’51 approvò un piano di aiuti economici alla Jugoslavia per il biennio 52-53. Nello stesso mese, gli Stati Uniti decisero di sviluppare la collaborazione militare con la Jugoslavia. Un altro elemento di preoccupazione per Roma e per i partiti filo-italiani era costituito dal rischio di rafforzamento delle tendenze indipendentiste, derivante dai notevoli benefici economici che l’amministrazione alleata portava alla Zona A che, ad esempio, con 300 mila abitanti aveva ricevuto ben 35 milioni di dollari di aiuti in base al Piano Marshall, mentre l’intera Italia, con 46 milioni di abitanti, aveva ricevuti solo un miliardo e 300 milioni. L'area, inoltre, beneficiava anche degli aiuti inviati dal Governo italiano e della presenza di 10 mila soldati anglo-americani con le loro famiglie. 26 A inizio 52 nella Zona B jugoslava fu proibita la circolazione della lira. L'Italia presentò una dettagliata nota di protesta contro le violazioni dei diritti dell’uomo e i mutamenti amministrativi di tale zona. Nel marzo ‘52, il sindaco Gianni Bartoli, definito dagli anglo-americani una «notoria testa calda», per il suo vibrante patriottismo, per protestare costituì il Comitato di difesa per lOitalianità di Trieste e dell'Istria, che organizzò per il 20 marzo una riunione di protesta contro la situazione in Zona B, che divenne un «richiamo alle tre potenze alleate sulla Nota Tripartita del ‘48», in occasione dell’anniversario della sua emanazione. Nel clima acceso di queste giornate, il sequestro a un dimostrante della bandiera italiana diede inizio a scontri contro le forze armate del GMA (Governo Militare Alleato). Al Parlamento italiano le opposizioni di destra e di sinistra colsero il pretesto degli scontri per attaccare l'appartenenza dell’Italia alla NATO e denunciare il fallimento della politica triestina del Governo. Anche la rivista dell’ISPI rilevò che si era «conservata una disparità di valutazione che colpiva un alleato a vantaggio di un ausiliare, una disparità che si ispirava più allo stato di ostilità cessato con il febbraio ‘47 che al nuovo stato di alleanza nato nell’aprile ‘49». Gli incidenti rafforzarono le convinzioni di Eden della necessità di ritirare le truppe alleate dalla Zona A, lasciandola agli italiani e lasciando la Zona B agli jugoslavi. Le due nazioni potevano poi accordarsi su una frontiera etnica. Per superare la crisi provocata dagli incidenti, il Governo di Roma ottenne l'apertura di conversazioni italo -anglo- americane per porre il GMA su basi più in sintonia con l’italianità della Zona A. Sir Pierson Dixon, che avrebbe guidato la delegazione britannica nelle imminenti conversazioni, si mostrò scettico à nelle conversazioni bisognava evitare qualsiasi concessione agli italiani che potesse pregiudicare la soluzione finale basata sulla spartizione delle due zone con aggiustamenti etnici. Quindi, era chiaro che non si poteva fare agli italiani alcuna seria concessione di sostanza, ma solo erigere una «convincente facciata» di loro partecipazione al Governo militare alleato. L'atteggiamento americano era timoroso di non irritare gli jugoslavi. Il Segretario di Stato Acheson, inoltre, era contrario a una partecipazione degli italiani al governo della Zona A su un piano di parità. Egli, inoltre, non voleva compromettere la possibilità di mantenere in futuro truppe americane nella città. Le conversazioni a tre cominciarono il 3 aprile ‘52, e portarono il 9 maggio alla firma di un accordo. Le richieste iniziali degli italiani indicavano il loro desiderio di ottenere un'amministrazione della zona dietro un’apparenza di autorità del comandante di zona, ridotto alla funzione di «angelo custode». Una prospettiva questa totalmente rovesciata dagli anglo-americani. Bisognava «erigere una facciata di amministrazione italiana, lasciando l’autorità essenziale nelle mani del comandante di zona», al quale andava inoltre assicurato il diretto controllo operativo su tutti i settori aventi implicazioni militari o internazionali. L'accordo del 9 maggio (Accordo di Londra), come aveva previsto Dixon, non contribuì ad aumentare a Trieste il prestigio dell’Italia e a tarpare le ali all’indipendentismo, che anzi la lentezza e la farraginosità della burocrazia italiana, aggravate dal conflitto di competenze derivante dall’applicazione degli accordi, agirono in senso opposto. Inoltre, tale accordo peggiorò i rapporti italo-jugoslavi e fornì a Tito il pretesto per rafforzare ulteriormente il suo controllo sulla Zona B, ciò che indusse il nostro Presidente del Consiglio (De Gasperi) a minacciare azioni militari da parte di un futuro Governo in caso di annessione. L'Accordo di Londra, in pratica, servì solo per placare l'opinione pubblica italiana in vista delle elezioni amministrative. Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti consideravano fondamentale un accordo balcanico che completasse il sistema difensivo dell'Occidente. Il Generale Collins (Capo di Stato Maggiore) espresse l'opinione “puramente personale” che si sarebbero ottenuto vantaggi doppi dai fondi investiti nella difesa jugoslava a paragone di quelli investiti in Italia. Così, il 14 luglio '52 una delegazione americana si recò da Tito, al quale fu assicurato l’invio di armi pesanti. La notizia fu accolta molto male dagli italiani: De Gasperi invitò gli angloamericani a «graduare» la loro fiducia: «dovrebbero esservi differenti livelli per gli alleati e per gli altri». L'Italia, ricordò il Conte Zoppi (Segretario Generale del Ministero degli Esteri), avrebbe preferito che le discussioni circa l'intesa balcanica fossero avvenuto in sede NATO, con la partecipazione dell’Italia, che non avrebbe subordinato la propria collaborazione 27 (ambasciatore americano in Italia), inoltre, inviò drastici ammonimenti sulle gravi conseguenze che una mancata soddisfazione delle aspirazioni italiane avrebbe significato per la Presidenza Eisenhower e sull’«effetto domino» che avrebbe avuto una crisi nei rapporti con l’Italia fino a compromettere l’intera posizione degli USA in Europa. Intanto sia Roma, sia Washington si erano convertite all'idea del modus vivendi. Il 14 settembre ‘53 Washington presentò un piano sulla spartizione agli inglesi: seguirono due settimane di discussioni, nelle quali il Foreign Office ottenne di spostare il difficile equilibrio tra il carattere provvisorio della soluzione (necessario affinché fosse accettata dall’Italia) e il carattere definitivo (più accettabile alla Jugoslavia), verso quello definitivo. Teoricamente, non appena data comunicazione all’Italia dell'annessione della Zona A, le truppe italiane sarebbero entrate nella Zona simultaneamente all'annuncio pubblico. Ma l'annuncio della decisione (8 ottobre ‘53) di consegnare la Zona A all'Italia avvenne poche ore dopo che ne fosse data comunicazione a Pella e a Tito, senza quindi dar tempo che sondaggi a Roma e a Belgrado avessero garantito che le due parti accettavano la spartizione la Jugoslavia minacciò di far entrare le sue truppe nella Zona A non appena vi fossero entrate le forze italiane : fu ben presto chiaro, quindi, che gli anglo-americani non intendevano procedere all'applicazione immediata della Decisione dell’8 ottobre. Secondo Eden, a questo punto, la convocazione di una Conferenza a cinque avrebbe reso la soluzione de facto definitiva e, inoltre, in questa sede, offrendo agli jugoslavi alcune garanzie sulle minoranze e sull'uso del Porto di Trieste, questi ultimi avrebbero accettato la decisione dell’8 ottobre. Ma la convocazione di una Conferenza si rivelò impossibile, perché italiani e jugoslavi, per parteciparvi, ponevano condizioni opposte: - L’Italia chiedeva che precedentemente o contemporaneamente allo svolgimento della conferenza iniziasse il trasferimento dei poteri nella Zona A; - La Jugoslavia voleva, invece, che non avvenisse alcuna applicazione della decisione dell’8 ottobre. Con il passare dei giorni, in Italia si cominciò ad avere il sospetto che la Dichiarazione bipartita dell’8 ottobre fosse destinata a restare lettera morta come quella tripartita del 20 marzo '48. La tensione con gli angloamericani si fece forte, per i violenti scontri a Trieste in novembre? e per l’aperta sfiducia manifestata dal Governo italiano nella parola degli alleati. Dal 9 dicembre, vista l'impossibilità di organizzare la Conferenza, gli anglo-americani cominciarono a discutere su una possibile procedura alternativa: il piano proposto da Washington prevedeva negoziati segreti fra le tre Potenze occupanti del TLT (Gran Bretagna, USA e Jugoslavia), per ottenere da Belgrado il consenso su una posizione da proporre poi all'Italia. Se il consenso, poi, non fosse stato raggiunto, gli anglo-americani, informandone Tito, avrebbero dato esecuzione alla decisione dell’8 ottobre. Su quest’ultimo punto, tuttavia, gli inglesi non ritennero potersi impegnare. In questi incontri, teoricamente, gli jugoslavi sarebbero stati lusingati dall'idea di essere trattati su un piano di uguaglianza con inglesi e americani. Si trattava, quindi, di ottenere il consenso di Belgrado alla decisione anglo- americana di consegnare all'Italia la Zona A del Territorio Libero di Trieste, o di rivedere, con l'assenso di Roma, tale scelta. Ma tale negoziazione era molto difficile: - La Jugoslavia avrebbe accettato solo una soluzione per lei migliore di quella prefigurata l’8 ottobre; - L'Italia, invece, poteva sottoscrivere solo un Accordo provvisorio che non la peggiorasse, o uno definitivo che rappresentasse un sostanziale miglioramento. Chiaro è che la rottura tra Mosca e Belgrado aveva rafforzato la posizione negoziale di quest'ultima: come spiegarono gli americani brutalmente a Egidio Ortona, consigliere d’ambasciata a Washington: “We take you for granted” (vi si considera degli alleati scontati), «voi non siete dei comunisti da attrarre al nostro fianco». Quindi, da quel momento, in sostanza, si registrò un progressivo logoramento della posizione diplomatica dell’Italia: la 5 Manifestazioni patriottiche degli italiani di Trieste provocarono la violenta reazione della polizia del GMA, che sparò sulla folla provocando sei morti 30 mobilitazione delle Forze Armate decisa dal Governo Pella ebbe il merito di arrestare questa fase discendente e di indurre Londra e Washington a tener conto con maggiore attenzione delle posizioni di Roma. Lo stesso Eisenhower, anche per merito dell’Ambasciatrice Luce, iniziò a dedicare una personale attenzione al problema triestino. Come egli osservò dinanzi al Segretario di Stato Dulles il 5 novembre ‘53: «gli italiani [erano] stati nostri amici per lungo tempo e gli jugoslavi [erano] gli ultimi arrivati». L’8 ottobre sempre Eisenhower aveva scritto nel suo diario: «Abbiamo bisogno di tenerci amici i due Paesi». L'obiettivo anglo-americano era stato di non arrivare a una scelta tra i due contendenti, anche perché, se si fosse dovuto scegliere, la Gran Bretagna avrebbe parteggiato per la Jugoslavia, mentre gli Stati Uniti per l’Italia. Anche se, il neo-ambasciatore britannico a Roma, Sir Clarke, aveva osservato che la Gran Bretagna, in coerenza con la sua politica atlantica ed europea, avrebbe dovuto compiere la stessa scelta degli USA in favore di Roma. L'opinione pubblica americana era, al contrario di quella britannica, molto ostile alla Jugoslavia e simpatizzava largamente per l’Italia. Il National Security Council americano, inoltre, in un suo documento dell’aprile ‘54, sottolineava che la perdita dell’Italia nella Guerra Fredda avrebbe provocato un enorme danno politico, psicologico e militare per il mondo libero. Dalle forze armate italiane, proseguiva il documento, ci si attendeva che queste, quando appoggiate dalle forze alleate dell'Europa Centrale, e in collaborazione con le forze jugoslave, difendessero il fianco occidentale delle forze terrestri dell'Europa sud-orientale. Sempre secondo il National Security Council la forza armata della Jugoslavia era, in termini di forze terrestri, «la più grande in Europa da questa parte della Cortina di Ferro, comprendendo 28 divisioni». Quindi la Jugoslavia doveva essere mantenuta fuori dal blocco sovietico. Per quanto riguarda l'aspetto militare, allora, la Jugoslavia era più importante dell’Italia. Ma dal punto di vista politico-diplomatico, Washington simpatizzava più per l’Italia. Nelle sue istruzioni al capo della delegazione americana (Llewellyn Thompson) al negoziato per Trieste, il Dipartimento di Stato americano pose alla base delle trattative il concetto del riavvicinamento italo-jugoslavo, che portasse infine a una partecipazione dell’Italia all’Intesa balcanica. Il rischio era, quindi, per l’Italia, poiché se lo scopo americano era quello di legare maggiormente Tito al sistema difensivo occidentale, del quale l’Italia faceva già formalmente parte, vi era il rischio che le concessioni maggiori fossero fatte alla Jugoslavia. Nei negoziati, da parte americana, si voleva proporre agli jugoslavi un accordo territoriale simile alla “seconda linea americana”, che comportava la cessione all'Italia della linea costiera della zona B fino a Pirano: non erano specificati eventuali compensi per la Jugoslavia, se non la concessione in «uso esclusivo» di un’area del porto di Trieste e di una ferrovia che la collegasse all’entroterra. Non si escludeva la cessione in sovranità di tale area, ma si sperava fosse sufficiente l'affitto per 99 anni. L'assetto territoriale avrebbe dovuto essere accompagnato da reciproche garanzie per le minoranze, da un accordo commerciale italo- jugoslavo, dalla cooperazione militare tra Roma e Belgrado, possibilmente con immediate conversazioni tra gli Stati Maggiori. Come mezzo di pressione si poteva far balenare di attuare la decisione dell’8 ottobre. Dal canto suo il Foreign Office riteneva che un accordo dovesse basarsi su tre elementi: I La divisione geografica del Territorio Libero di Trieste dando la costa della Zona B fino a Pirano all'Italia e l'entroterra sloveno della Zona A alla Jugoslavia; Il La concessione alla Jugoslavia per 99 anni di un’area del Porto di Trieste e di una ferrovia per collegarla alla Slovenia. Il La costituzione delle due Zone in regioni autonome all’interno dei rispettivi Stati (ritenuta inopportuna dagli americani). I britannici, infine, volevano mantenere una base de facto, evitando di impiegare il termine “sovranità”. La posizione inglese era simile a quella americana, ma più generosa per gli Jugoslavi. Dal punto di vista della tattica negoziale, i britannici erano più orientati a trovare con gli jugoslavi un accordo in terminigenerali, che lasciasse più spazio di manovra nella successiva trattativa con gli italiani, mentre gli americani intendevano ottenere l'assenso di Belgrado su un Accordo che rappresentasse il massimo delle loro concessioni, 31 per poi sottoporlo agli italiani con la formula ne varietur. Se questi ultimi avessero richiesto modifiche a loro favore avrebbero dovuto offrire a loro volta qualcosa in cambio. Le conversazioni anglo-jugo-americane, iniziate il 2 febbraio 54 a Londra, a metà marzo avevano già imboccato la strada che portò all’intesa finale, abbandonando la prospettiva iniziale anglo-americana di una soluzione etnica basata su un ampio scambio di territori tra Zona A e Zona B per ripiegare su semplici rettifiche della linea di demarcazione. Ma anche la decisione dell’8 ottobre riguardava la spartizione. Per questo motivo, a questo punto, per Italia e Jugoslavia diventava essenziale ottenere vantaggi rispetto a quanto previsto nell'autunno precedente. Tra le altre cose, durante il negoziato gli jugoslavi chiesero un finanziamento anglo-americano di 50 milioni di dollari per la costruzione di un porto franco a Trieste e di una ferrovia che lo collegasse all’entroterra sloveno. Gli anglo-americani si persuasero che questo offrisse loro un mezzo di pressione col quale ottenere concessioni. A fine aprile il negoziato fu bloccato perché: - Agli anglo-americani apparve chiaro che gli jugoslavi stavano cercando di spremere ulteriori aiuti in - dollari; - Tito lamentò, in un'intervista al «New York Times», il carattere de facto e formalmente provvisorio dell'intesa da raggiungere, ma gli americani, non solo per l'opposizione dell’Italia, non volevano un riconoscimento de jure, che avrebbe implicato un trasferimento di sovranità e avrebbe causato problemi politici e giuridici. Il 25 maggio, finalmente, gli jugoslavi fecero cadere la richiesta di un Accordo de jure, per due ragioni (secondo l’interpretazione anglo-americana): - Da un lato l'ambasciatore americano a Belgrado aveva invitato, il 22 maggio, il Ministero degli Esteri jugoslavo a soprassedere a ulteriori sviluppi dell'alleanza balcanica finché non si fosse conclusa la trattativa su Trieste; - Glijugoslavi temettero di perdere gli aiuti occidentali, la cui sospensione fu minacciata in particolare dagli inglesi. Il 31 maggio fu firmata una bozza d'intesa, che prevedeva rettifiche territoriali che il consigliere politico britannico a Trieste Philip Broad giudicò decisamente favorevoli alla Jugoslavia, son solo per estensione, ma anche per la diversa importanza delle aree scambiate. L'Italia riceveva infatti solo terreni rocciosi, privi di vie di comunicazione, mentre la Jugoslavia otteneva una zona fertile, con buone strade e più di 3mila abitanti, in maggioranza italiani. Inoltre, la linea di demarcazione richiesta da Belgrado era stata chiaramente scelta da un esperto militare, ed avrebbe consentito di dominare il Golfo di Trieste. Comunque, gli anglo-americani si dimostrarono molto favorevoli all'accordo preso, e anche l’Ambasciatore Luce, solitamente paladina degli italiani, si mostrò soddisfatta e assicurò il suo fermo appoggio nel respingere i tentativi di Roma di modifiche. Dal 12 luglio al 9 luglio, sempre a Londra si svolse la seconda fase dei negoziati tra anglo- americani e Italia, rappresentata dall’Ambasciatore a Londra, Brosio. Dal 12 al 27 luglio si svolse il successivo round di nuovo con la Jugoslavia, alla quale furono sottoposte le controproposte italiane. In vista di tali trattative, il Presidente del Consiglio Mario Scelba, il Ministro degli Esteri Attilio Piccioni, l'ex presidente del Consiglio De Gasperi, nonché i rappresentanti diplomatici a Londra e Washington riproposero con forza la questione del ruolo e dell'importanza dell’Italia nell’alleanza occidentale. Dalle parole di De Gasperi: «Gli italiani ora si chiedono se per l'Occidente l’Italia è più o meno importante dei Balcani». Dulles rispose che gli interessi nazionali dell’Italia dovevano essere subordinati alle più ampie esigenze strategiche dell'Occidente. La signora Luce, intanto, propose di sospendere per una decina di giorni le conversazioni con il Governo di Roma relative al finanziamento per il 1955 di 20 milioni di dollari al bilancio della difesa italiano. Di fronte alle proteste italiane per il «tradimento di Washington» il presidente Eisenhower arrivò a scrivere, il 9 luglio, che le basi americane in Italia non gli sembravano per nulla essenziali e che andava scemando di giorno in giorno l’importanza di averle. Si è già accennato al fatto che, per concludere un'intesa balcanica, fosse importante, in primis, risolvere la questione triestina, anche per far sì che tale intesa fosse concordata bene nel rispetto degli obiettivi della NATO. 32 Il Trattato di pace, comunque, non restituiva all'Italia piena sovranità. Le clausole del Trattato di Parigi ponevano limiti alle nostre Forze Armate, restava aperta la questione di Trieste e delle Colonie, e la nostra adesione all'ONU sarebbe avvenuta solo nel’55. Durante la Guerra Fredda la vecchia logica del partecipare agli schieramenti perché questi potevano meglio risolvere i problemi italiani si riaffacciava con prepotenza. In questo senso, tuttavia, l'ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica non poté essere sottoposto ad alcuna condizione. Come disse Ennio Di Nolfo (storico): «Il Patto Atlantico era una scelta definitiva che non ammetteva spazi di negoziato». Mentre il Ministro degli Esteri Sforza pensava inizialmente di negoziare l'adesione dell’Italia al blocco Occidentale, Alberto Tarchiani a Washington, Tommaso Gallarati Scotti a Londra e Quaroni a Parigi, avvertirono subito che tale possibilità non esisteva, e che gli specifici problemi italiani avrebbero trovato un’automatica soluzione in seno all'alleanza. L'adesione alla NATO divenne quindi anche un modo per bruciare le tappe per una piena riabilitazione dell’Italia in campo internazionale. Manlio Brosio, ambasciatore a Mosca, la pensava diversamente. L’Italia doveva entrare come attore di pari rango agli altri nelle alleanze, o non entrarvi proprio «illusorio e poco dignitoso era entrare come partner di secondo rango per poi manovrare dall'interno». Brosio, pertanto, non condivideva l'ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica, egli sosteneva che la vera politica estera italiana si sarebbe potuta realizzare una volta implementato il Piano Vanoni, ovvero il risanamento economico-finanziario dell’Italia, che avrebbe permesso a quest’ultima di non dipendere più dagli aiuti americani e di essere veramente autonoma, pur nei limiti imposti dal rigido bipolarismo. Il benevolo interesse degli Stati Uniti verso le esigenze italiane riguardava soprattutto il problema della sicurezza e del ruolo del nostro Paese nella coalizione antisovietica, per cui altre questioni di interesse specifico dell’Italia non erano viste con altrettanta partecipe attenzione ed erano comunque subordinate all'esigenza primaria. Per questo motivo l'appartenenza italiana alla NATO fruttò all'Italia la revisione delle clausole militari del trattato di pace, essendo interesse comune degli alleati abolirle, ma giovò assai poco all'Italia nella questione di Trieste, appena apparve fondamentale blandire la Jugoslavia. Come già all’epoca della Triplice Alleanza l'appartenenza a una coalizione garantiva all'Italia l'uscita dall’isolamento e la sicurezza primaria, ma non necessariamente la realizzazione delle sue aspirazioni nazionali. Questo porto, dopo la fine dell’epoca crispina, l’Italia ad allargare gli orizzonti della propria politica estera in un gioco di alleanze ed amicizie che la pose come ago della bilancia tra la Triplice Alleanza (a cui continuò ad appartenere fino al magio 1915) e la Triplice Intesa. Dino Grandi, Ministro degli Esteri del Governo fascista dal ’29 al ’32, teorizzò questo tipo di politica definendola del “peso determinante” = tra due schieramenti equivalenti l’Italia poteva aumentare la propria importanza diplomatica ponendosi come ago della bilancia. La posizione geopolitica italiana, con la parte settentrionale immersa nelle vicende continentali e la parte meridionale nel Mediterraneo, costrinse sempre a mantenere buoni rapporti sia con la massima potenza continentale sia con la massima potenza marittima. Se queste due potenze entravano in conflitto, l’Italia era costretta a scegliere una fazione, come successe nel 15, nel ’40 e nel ’43. Ma ora il rigido bipolarismo impediva all’Italia «giri di valzer» con il blocco sovietico. Agli Stati Uniti l’Italia affidava ora le sue sorti, stante anche la perdurante freddezza dell’atteggiamento inglese e la debolezza della Francia. Anche l’europeismo era importante, soprattutto ove si parlava di cooperazione economica, ma comunque strettamente subordinato all’atlantismo e al legame con gli Stati Uniti. La stessa presenza minacciosa del Partito Comunista italiano poteva essere sfruttata per ottenere concessioni. Un esempio è sicuramente la dichiarazione tripartita anglo-franco- americana del ’48, dove si proponeva la restituzione dell'intero Territorio Libero di Trieste, emanata per aiutare i partiti italiani filo-Occidentali nelle imminenti elezioni. Questa dichiarazione, tuttavia, restò lettera morta, ripudiata dagli stessi che l'avevano rilasciata, una volta che Tito attuò il suo scisma da Mosca e seppe abilmente farsi corteggiare dall’Occidente. L'atteggiamento anglo-americano nella questione di Trieste tra il ’52 e il’54 provocò un forte peggioramento dei rapporti di Roma con Londra e Washington. Al di là, tuttavia, di quello che fu definito da Quaroni il «broncio 35 atlantico», l’Italia non poteva andare. La vicenda, comunque, lasciò il segno, e determinò negli anni successivi, caratterizzati anche da una progressiva distensione nei rapporti tra Washington e Mosca, una nuova politica da parte dell’Italia, definita neoat/antismo, una politica che, pur nella fedeltà alla NATO, le consentisse più ampia libertà d’azione in campo internazionale e maggiore attenzione agli specifici interessi nazionali. L'Italia nuovamente Grande Potenza? Le preoccupazioni relative al rango hanno sempre costituito una preoccupazione costante della politica estera italiana. Definitivamente consacrato con la vittoria nella Grande Guerra, il rango di Grande Potenza era stato perso con la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, anzi già prima con il fallimento della «guerra parallela» di Mussolini e la satellizzazione da parte della Germania. Risolta la questione di Trieste, che aveva bloccato tutte le ambizioni della politica estera italiana, ci si compiacque di sentirsi dire pubblicamente da Churchill e da Foster Dulles, nel ’55, che «l’Italia era tornata al rango di “Grande Potenza”». Per essere ammessa nell’Alleanza Atlantica e poi per ottenere in essa un ruolo di primo piano, l’Italia puntò sull’indubbia importanza strategica. È anche vero, tuttavia, che l'Alleanza Atlantica privilegiava il fronte dell'Europa centrale, relegando il c.d. fianco sud a un ruolo di «cenerentola». È anche risaputo che i piani atlantici non garantivano l'integrità territoriale degli Stati Membri, ma solo la liberazione successiva alla conquista sovietica. Del territorio italiano era strategicamente importante mantenere solo le isole. L'Italia non fu quindi ammessa allo standing group, la cui composizione rimase limitata a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Emblematica dello scarso peso assegnato all'Italia nell’alleanza atlantica fu la visita in Europa dei Capi di Stato Maggiore statunitensi nell'estate del ‘49 per i colloqui con i loro omologhi dei Paesi alleati. Come notò Quaroni «Mentre le conversazioni con i minori, fra ci noi, sono durate in media un'oretta, quelle con i francesi e gli inglesi sono durate un giorno e mezzo». Dopo la guerra di Corea si ebbe la vera e propria trasformazione delle strutture politiche e militari dell'Alleanza Atlantica, che divenne a tutti gli effetti la NATO. La difesa del territorio italiano venne inserita nei piani strategici della NATO e ad un generale italiano fu affidato il Comando delle forze terrestri alleate del Sud Europa (LAN-DSOUTH). Nel quadro di un forte riarmo dei Paesi NATO, l’Italia s'impegnò più di altri, a credere a un Rapporto della CIA, secondo cui tra gli alleati minori, solo l’Italia dimostrava una massima determinazione. La riabi ione dell’Itali Grande potenza o meno, resta il fatto che l’Italia, a soli quattro anni dalla fine della guerra divenne alleata delle potenze che l'avevano sconfitta. Il fatto in sé non era del tutto senza precedenti: la Francia, ad esempio, già nel gennaio 1815 concluse un Trattato di alleanza con la Gran Bretagna e l’Austria; era la Francia di Luigi XVIII e non più di Napoleone, come l’Italia post 1945 era quella di De Gasperi, e non più di Mussolini. CAPITOLO 5: Manlio Brosio ambasciatore a Mosca e la scelta occidentale dell’Italia (1947-1950) La nomina di Brosio Manlio Brosio, già Ministro della Guerra nel primo Governo De Gasperi, era reduce da una pesante sconfitta politica (la non elezione alla Costituente da parte dei liberali torinesi, che non avevano apprezzato la sua posizione repubblicana), e aveva ripreso la sua attività professionale di avvocato, quando nel ‘46 Pietro Nenni, Ministro degli Esteri, gli propose la nomina ad ambasciatore d’Italia a Mosca. Quasi cinquantenne, Brosio si accinse a intraprendere una carriera del tutto nuova ed estranea alle attività da lui fino ad allora esercitate. Oltre a studiare il russo prima di partire, Togliatti gli diede alcuni avvertimenti sul modo di procedere dei sovietici, che si rivelarono utili nel corso della sua missione. Una politica di “dignitoso riserbo” e “decisa neutralità” La figura di Brosio negli anni ‘47-'48 spicca tra i diplomatici e i politici italiani per la sua contrarietà all'adesione dell’Italia ai blocchi che si venivano costituendo. La neutralità dell’Italia era per Brosio innanzi tutto la posizione indispensabile per un Paese che a tutti i costi doveva evitare di combattere un’altra guerra. Egli riteneva che il fine essenziale della politica estera italiana dovesse essere quello di mantenere l'indipendenza della nazione impedendo che venisse strumento di assalto o di difesa tra i grandi. 36 La neutralità doveva altresì permettere all'Italia di ottenere la revisione graduale e pacifica, quindi con il consenso di tutte le Potenze firmatarie, delle clausole più dure del Trattato di Pace. La neutralità non era però concepita machiavellicamente come la posizione più adatta a mercanteggiare con successo da ambo le parti la revisione, bensì come la «aperta e candida» dimostrazione del nuovo corso pacifico della politica estera italiana. La prima compiuta esposizione delle tesi di Brosio si trova un una lettera personale a Sforza del 27 febbraio ’47, quando ancora l'ambasciatore non aveva presentato le sue credenziali: in questa sede Brosio contestò subito la politica estera italiana «di blocco occidentale, una politica antirussa, non dichiarata a parole, anzi sconfessata, ma insita nei fatti». Una politica del genere, secondo lui, all'infuori dell'aiuto economico, ci rendeva poco, proprio perché occulta, non dichiarata. Per Brosio vi era la «effettiva possibilità» di una nostra autonoma, isolata neutralità in caso di guerra, «da non sacrificare se non in presenza di precise garanzie, di impegni tassativi». Egli, dunque, patrocinava una «politica di attesa», «anche perché ci sono interessi nostri immediati che da tale attesa soltanto resteranno impregiudicati, mentre da un nostro precipitato e irriflessivo agitarci per una coalizione dubbia e lontana, sarebbero certamente compromessi». Questi interessi erano quelli legati al Trattato di Pace: Trieste, le Colonie, le riparazioni, gli armamenti terrestri e navali. Brosio era per la firma definitiva del trattato di pace, e per la sua esecuzione leale, senza alcuna presa di posizione aperta per la revisione. Il “revisionismo”, infatti, implicava quella funzione di squilibrio internazionale esercitata da Mussolini. Una politica interna ed estera di saggezza, rigore finanziario, raccoglimento e riconciliazione avrebbe portato a una «revisione che nasce dalle cose». Per questa politica l'appoggio della Russia era fondamentale. A tal proposito, Brosio riteneva improbabili contromisure americane sul piano economico: «gli americani hanno interesse a non scontentarci, e fino a che la nostra politica interna non sarà tale da far loro temere che noi ci siamo legati definitivamente al carro sovietico, essi ci daranno lo stretto necessario». Secondo Brosio era un errore giocarsi l'amicizia della Russia inseguendo progetti di federazione europea illusori («nobilissima aspirazione, però ancora troppo nebulosa»): erano forti i «vantaggi prossimi che l'appoggio della Russia ci può dare sui problemi attuali o imminenti», ed era stupido giocarseli inseguendo progetti di federazione considerati dai sovietici «rivolti contro di loro». L'Italia, pertanto, doveva dimostrare coi fatti di essere veramente indipendente dalle influenze statunitensi o angloamericane. Il Ministro degli Esteri Sforza rispondeva il 15 aprile ‘47 sottovalutando i problemi tra Italia e Russia. Egli voleva solo che Brosio sondasse l’ambiente sovietico, al fine di ristabilire «le antiche amichevoli relazioni» che erano state ristabilite anche con le altre Potenze. Egli ricordava, inoltre, che, all'indomani dell'armistizio, la Russia era stata la prima a riporre su una base di normalità le relazioni diplomatiche con l’Italia. Egli concludeva, quindi, che «non dovrebbero quindi esservi difficoltà per un serio tentativo di riavvicinamento anche con l'Unione Sovietica». Per dimostrare l’equidistanza dell’Italia da tutte le Potenze, Brosio auspicava l’ingresso italiano nell’ONU, per «mostrare la sua volontà di svolgere un ruolo costruttivo e pacifico nella politica mondiale». Ammonì, inoltre l’Italia dicendo che scambiare l'ingresso italiano nell’ONU con qualche vantaggio esterno avrebbe significato «farle atto di osti L'Italia, tuttavia, non doveva commettere l’«errore opposto», e cioè, passare dall’«ostilità a un certo servilismo», accettando di entrare nell’ONU ad occhi chiusi e considerando come un onore ed un vantaggio il fatto stesso di esservi ammessi. La difficoltà più grave era quella di non entrare nell’ONU su invito dell'uno o dell'altro dei grandi. Ad esempio, l’entrata su invito degli Stati Uniti avrebbe significato per la Russia la previsione di un voto più a favore degli Stati Uniti in molte questioni. Come conseguenza, o la Russia avrebbe posto il veto contro l’Italia o avrebbe chiesto come contropartita l'ingresso di altri ex-nemici a essa legati, come Romania e Bulgaria. Proprio perché l’Italia doveva entrare nell’ONU sulla base del rispetto della sua dignità e della sua parità con gli altri Grandi, Brosio indicava alcuni presupposti affinché l'ingresso avvenisse: 37 appoggio sovietico riguardo le colonie. Brosio non negava l’importanza di queste ultime, in quanto «la nostra civiltà — scriveva Brosio — è superiore dunque abbiamo due doveri: diffonderla e difenderla». Il giorno della firma del Patto di Bruxelles, Brosio ammoniva sull’adesione prematura al Blocco Occidentale: «Mentre il Piano Marshall, come piano economico di ricostruzione è logico e proporzionato, il blocco occidentale, come alleanza di forze, potrebbe anche apparire prematuro. L'uno mira ad offrire ai governi democratici occidentali la possibilità di ridare una solida base economica ai loro regimi di libertà, l’altro è più un'affermazione morale che una vera unione di forze, perché queste forze sono ancora da ristabilire». Per Brosio, inoltre, se proprio l’Italia doveva entrare in questa alleanza Occidentale, allora doveva negoziare per questo ingresso. Su questo Sforza condivideva la visione dell’ambasciatore. Tuttavia nessuno degli ambasciatori a Londra, Parigi e Washington riteneva fosse possibile per l’Italia negoziare in tal senso. Brosio diede il suo contributo al dibattito che si stava svolgendo in materia di ingresso dell’Italia a questa unione occidentale con un dispaccio del 30 luglio ‘48, in cui egli sosteneva che «sei potenze europee hanno creato la loro unione occidentale senza sognare di invitarci, ed oggi, quelle sei nazioni stanno negoziando con gli Stati Uniti e il Canada». Continuava Brosio: «Il mio punto di vista è chiaro, noi non dobbiamo chiedere, poiché se chiediamo dovremo subire e non potremo porre alcuna seria condizione: quando saremo invitati, dovremo chiedere che ci mettano in assoluta parità militare e strategica, sia come forze nostre, sia come aiuto di forze altrui all'occorrenza, in modo da poter arrestare una eventuale invasione jugo-sovietica». Per Brosio gli americani consideravano l’Italia un avamposto da abbandonare all'occorrenza. In questo senso gli USA non avrebbero perso nulla con un'Italia neutrale. Inoltre, continuava Brosio, i sovietici non avrebbero avuto alcun interesse ad invadere l’Italia per ragioni naturali, essi «non troverebbero la strada meno sbarrata dalle Alpi Occidentali e dalle forze francesi ed alleate, che facilmente le difenderebbero; né resterebbero meno circondati dalle isole occupate dal nemico, e da un Mediterraneo invalicabile». Da queste osservazioni Brosio concludeva implicitamente che una neutralità italiana aveva qualche possibilità di essere rispettata. In tutti i casi, per Brosio bisognava tendere verso una neutralità armata, perché, in tutti casi, se malauguratamente l’Italia fosse stata invasa, bisognava poter difendersi. Piuttosto impraticabile e irrealistico appare il suggerimento di usare parte dei fondi del Piano Marshall per spese militari. Così facendo sarebbe stato difficile sostenere che l’Italia praticava una neutralità assoluta. In un promemoria a Sforza del 9 luglio, Brosio si mostrava contrario ad alcune affermazioni di Quaroni, per il quale gli italiani avevano cessato di essere indipendenti e obiettivo fondamentale della nostra politica estera doveva essere «dimostrare la nostra riconoscenza agli USA». Brosio non ammetteva che gli uomini di Stato e i diplomatici italiani diventassero marionette in mano agli americani. Egli ribadiva la necessità di possedere una seria forza armata, perché: «una seria forza armata ci vuole, quel tanto almeno che occorre per far meditare i potenti e metterli in dubbio, se valga la pena per loro di aggiungere allo sforzo principale della guerra lo sforzo supplementare di impegnare forze per battere il Paese neutrale, e poi per tenerlo occupato, domarlo ed amministrarlo». Si trattava, insomma, di convincere i Grandi che il costo della conquista e dell’occupazione fosse superiore al rendimento. La posizione di Brosio, pertanto, si discostava da quella degli altri ambasciatori, tutti favorevoli ad un ingresso italiano nel blocco occidentale. Un parere concorde a quello di Brosio era quello di Claudio Trezzani, Capo di Stato Maggiore della difesa, consultato da Sforza, che scartava una neutralità disarmata, considerata un assurdo, e reputava preferibile una «neutralità armata che dia sufficiente garanzia», che era solo possibile se le potenze occidentali, in particolare gli USA, avessero fornito i mezzi necessari al riarmo. Ove questa condizione non si fosse realizzata, secondo il Generale, non restava che entrare a far parte del blocco occidentale. Riguardo le colonie, Brosio si spiegò il voltafaccia sovietico (con la proposta di un mandato fiduciario collettivo delle grandi Potenze) con il timore dei Russia che, se l’Italia avesse riottenuto le colonie, non avrebbe impedito, bensì permesso, l'installazione in esse di basi militari angloamericane. A fine ‘48 Brosio, tirò le fila dei rapporti italo-sovietici, rilevando come questi, pur considerandoci praticamente sullo stesso piano della Francia, ci riservavano un po’ di benevolenza, se non altro per la conclusione del Patto di 40 Bruxelles senza la nostra partecipazione. Poco più di un anno dopo, Brosio indicò due motivi che avrebbero forse indotto l'URSS «ad usarci certi riguardi»: - La noncuranza con cui al nostro Paese si guardava, sottovalutando l’importanza del suo contributo al blocco occidentale; - Il considerare il nostro Paese come la più comoda piattaforma per la loro azione politica di propaganda europea, per l'ampia libertà d'azione politica che vi esisteva e per la presenza del più forte partito comunista europeo occidentale, guidato da un leader, Togliatti, che godeva presso i sovietici diun grande credito. Non si voleva, pertanto, perdere una base comoda di operazioni politiche internazionali. Un guallista italiano Potrebbe sembrare un paradosso che Brosio, oppositore nel ’48 dell'inserimento formale dell’Italia nell’alleanza occidentale, divenisse poi con successo Segretario Generale della NATO dal ’64 al ’71. È invece una dimostrazione che nella sua presa di posizione non vi era nulla di aprioristico ma una sincera preoccupazione riguardo al modo migliore di tutelare la sicurezza dell’Italia. La politica della neutralità auspicata da Brosio non era praticabile. Stalin stesso dichiarò più tardi a Nenni, insignendolo del premio della pace, di non poter «concepire un'Italia neutrale, in quanto non si trattava di un Paese abbastanza grande o abbastanza piccolo per poterlo essere, sia pure con garanzia di altri Stati». Stupisce pure che Brosio, così attento alla storia, non ricordasse le molteplici violazioni della neutralità avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale. Si potrebbe anche osservare che, essendo il pericolo duplice, l'aggressione sovietica all’esterno e la sovversione comunista all’interno, tra le garanzie da richiedere all’URSS in caso di neutralità italiana avrebbe dovuto esservi anche quella, contenuta nel trattato di amicizia italo-sovietico del 1933, della «politica di astensione la più assoluta da ogni ingerenza nei rispettivi affari interni». Le considerazioni di Brosio sulla neutralità sembravano rispondere a schemi politico- diplomatici classici, ormai messi in crisi dalle logiche della Guerra Fredda, alla quale Brosio parve tardare ad adeguarsi. È sicuramente questa la critica maggiore che si può fare a Brosio ambasciatore a Mosca. Comunque, Brosio era filo-occidentale nel senso di una piena condivisione dei valori dell'Occidente, ma non dell'adesione a un blocco. La sua posizione sulla politica dell’Italia davanti alla formazione dei blocchi deve essere necessariamente collegata alla sua visione generale della situazione del nostro Paese. Comune a Brosio e agli altri ambasciatori nelle maggiori capitali era il riconoscimento che in seguito alla sconfitta militare il rango dell’Italia, già ultima delle Grandi Potenze, aveva subito in campo internazionale un drastico declassamento. Mentre Sforza, in dissenso con diplomatici come Zoppi e Quaroni, cercava una frettolosa riabilitazione anche attraverso una politica di «adesioni incondizionate in qualsiasi frangente si offrisse all'Italia per inserirsi in un qualche contesto o raggruppamento internazionale», Brosio non riteneva esistessero facili scorciatoie e che il ritorno dell’Italia al giusto rango nel concerto internazionale potesse avvenire solo sulla base di sacrifici sul piano interno e di temporaneo riserbo in campo internazionale. Alto senso della dignità nazionale, accento posto sulla necessità di mettere in ordine la situazione interna per riconquistare autonomia in campo internazionale, aspirazione a un'Europa indipendente dalle Superpotenze. Non è forse esagerato riscontrare echi di tematiche che saranno proprie del gaullismo. Non a caso, Brosio, pur non risparmiandogli critiche, dimostrerà ammirazione per la figura e l’opera del generale de Gaulle e, da Segretario generale della NATO, al momento del ritiro della Francia dalla struttura militare integrata, assumerà una posizione di comprensione e moderazione verso i francesi. CAPITOLO 6: L’atlantismo dell’Italia tra guerra fredda, interessi nazionali e politica interna: dal centrismo al centrosinistra 41 Guerra fredda e interessi nazionali: Trieste e la politica atlantica (1953-54) Aderendo all’Alleanza Atlantica l’Italia aveva non solo garantito la sicurezza nazionale ma anche bruciato le tappe del suo pieno reinserimento nella Comunità Internazionale. Operando all’interno dell'Alleanza, l’Italia sperava di risolvere i problemi ancora aperti dopo la sconfitta, di esaltare il suo rango e di promuovere i suoi interessi. Come già detto, Roma puntava in primo luogo sugli USA, interessati però soprattutto al problema della sicurezza e al ruolo del nostro Paese nella coalizione antisovietica, perciò gli specifici interessi dell’Italia non erano visti con altrettanta partecipe attenzione ed erano comunque subordinati all'esigenza primaria. Nel’53 restavano ancora due problemi aperti: - L'ammissione all'ONU; - La questione di Trieste, «presenza onnivora» nella politica estera italiana, che influiva pesantemente si rapporti con USA e Gran Bretagna. AI suo insediamento alla Presidenza del Consiglio (e come Ministro degli Esteri), Giuseppe Pella, nell'agosto ‘53, aveva affermato che, alla presenza dell’Italia nella NATO e all’interno del processo di integrazione europea, avrebbe corrisposto una «determinazione altrettanto ferma» nella difesa dei propri interessi nazionali. Tuttavia, Sforza, al Consiglio dei Ministri del 23 maggio ’50, aveva spiegato che l’Italia non poteva far valere la sua presenza nella NATO per fini nazionali: «Il Governo italiano ha desiderato il Patto Atlantico nel quale non eravamo desiderati». Tra il’52 e il’54 si ebbe il massimo avvicinamento della Jugoslavia alla NATO, attraverso sia l'alleanza balcanica con Grecia e Turchia, sia le conversazioni strategiche con gli anglo- americani e le loro forniture militari. L'Italia, intanto, in assenza di un Accordo su Trieste, si trovava ad opporsi all'integrazione di Belgrado al dispositivo di difesa occidentale. Era una posizione simile a quella della Francia, sospettosa e restia verso quel riarmo tedesco del quale sarebbe stata la prima a beneficiare. Come già detto, l’altolà al logoramento della posizione italiana fu dato dalla mobilitazione delle Forze Armate alla frontiera orientale, decisa dal Governo alla fine di agosto ’53àper Pella, tale mobilitazione era «interessante, anche per sperimentare se nel quadro NATO si potesse avere autonomia di azione». Per il Foreign Office in tempo di pace le forze nazionali assegnate a SHAPE? potevano effettuare liberamente movimenti locali e temporanei. Le questioni internazionali erano molto importanti per il Governo DC, come fece notare nel ’55 l’Ambasciatore Luce: «Fanfani (Segretario DC) ha cominciato a vedere che la DC è destinata a scivolare verso Nenni se non basa la sua politica sulle questioni internazionali, in particolare la posizione dell’Italia in Occidente come membro della NATO. Se la DC lascia che il dialogo politico si sposti nel campo dell'economia nazionale e delle questioni interne, non è in grado di mantenere le proprie posizioni nei confronti della sinistra». Prima della risoluzione del problema di Trieste, tutto lascia intendere che i greci e i turchi non avrebbero mai accettato, in ambito NATO, di porre i loro eserciti sotto il comando del Generale italiano a capo di LANDSOUTH, pretendendo un loro comando, LANDSOUTHEAST, assegnato peraltro a un americano, non essendo ovviamente né Atene, né Ankara disposte ad accettare un ufficiale dell'altra nazione. La prima distensione: il ritorno dell’Italia grande potenza? Il 1955 fu un anno significativo per la politica estera italiana. In quest'anno: - L'Italia entrò nella UEO9; - Fu concluso l'iter di revisione delle clausole militari (fu sciolta l’Italia dalle clausole militari del - Trattato di pace); - L'Italia fu ammessa all'ONU. Il ‘55 fu anche l’anno dello “spirito di Ginevra” °, della “coesistenza competitiva”!! e dell’incipiente decolonizzazione, che apriva nuovi spazi al confronto tra i due blocchi. In politica interna cominciava una nuova 8 Supreme Headquarters Allied Powers Europe (SHAPE), the central command of NATO military forces. ? Conferenza di Ginevra del 1955 per discutere della sicurezza europea, della riunificazione tedesca, del disarmo e dello scambio culturale. | leader di Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito e Francia si incontrarono nel luglio del 1955. 1! 42 anche di sinistra, profittando anche delle difficoltà delle potenze coloniali (Crisi di Suez), miravano a fare dell’Italia il partner privilegiato degli USA nel Mediterraneo. La difficoltà nel perseguire la politica neoatlantica stava comunque nel fatto che perseguire un «minigollismo» italiano, ovvero la ricerca di un margine di autonomia e di un rango e un ruolo più importanti in campo internazionale, si collocava nel contesto politico-culturale di un Paese la cui classe politica, dopo la sconfitta, aveva ripudiato la politica di potenza e con disagio parlava di interessi nazionali. Dopo le elezioni del ’58 il neoat/antismo andò al Governo con Fanfani, che assunse la Presidenza del Consiglio e il Dicastero degli Esteri, mantenendo anche la carica di Segretario della DC. L'elezione di Fanfani segnò una decisa sconfitta degli atlantici ortodossi. Queste elezioni segnarono anche l'allontanamento dal Governo di personalità come Scelba, Pella e Taviani (per cinque anni Ministro della Difesa e noto per la sua intransigenza atlantica). Fanfani teorizzò la necessità di una conciliazione tra l’anima occidentale e quella mediterranea dell’Italia e di una piena parificazione dell’Italia con i suoi alleati, attraverso una reciproca e continua consultazione politica, ma anche iniziative autonome dell’Italia nel suo ambito regionale. Pella denunciò l’esistenza nella DC di una doppia anima: europeista filo-occidentale e filo- araba. Verso gli Stati Uniti Fanfani cercò di conciliare il «massimo di fedeltà con il massimo di indipendenza». Fanfani non sembrava comunque avere dubbi sul fatto che l'Alleanza Atlantica costituisse il pilastro più importante della politica estera italiana. Tuttavia, egli voleva rendere più efficace l’azione dell’Italia nell’Alleanza Atlantica. Fanfani affermò, in occasione della Conferenza degli ambasciatori italiani nei Paesi del Medio Oriente e del Maghreb, convocata il 7 ottobre ‘58, che l’esistenza di una politica italiana medio-orientale doveva rafforzare il Patto Atlantico, non indebolirlo, per non abbandonare a sé stessi il Vicino Oriente e l'Africa mediterranea. Bisognava quindi conservare le nostre amicizie politiche e le nostre alleanze, frenando il moto di allontanamento dell'Occidente. Di lì a poco Adolfo Alessandrini verrà retrocesso da Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri ad ambasciatore ad Ottawa, nel quadro del vasto movimento diplomatico che «punì» i funzionari espressione della «ortodossia atlantica» del precedente Governo Segni, con Gaetano Martino agli Esteri. Nel successivo viaggio compiuto da Fanfani negli USA, egli garantì ad Eisenhower l'assenso alla collocazione in Italia dei missili a raggio intermedio (richiesta formalmente dal Comandante supremo alleato della NATO in Europa, Generale Norstad). L’Italia fu l’unico Paese dell'Europa Continentale ad accettare i missili, oltre alla Turchia, per una serie di ragioni: - Accreditarsi come alleato più importante nel Mediterraneo; - Soddisfare in parte le proprie ambizioni nucleari; - Fornire a Washington una prova di fedeltà mentre era in discussione l’«apertura a sinistra». 11 26 gennaio ‘59 ci fu la crisi del Governo Fanfani. Nel successivo Governo monocolore DC, presieduto da Segni, e appoggiato dai liberali e dalle destre, il Ministero degli Esteri fu nuovamente affidato a Pella, con un chiaro significato di accentuazione dell'indirizzo atlantico ed europeista della politica estera italiana e un parziale ridimensionamento della direttiva mediterranea. Dal 6 all’11 febbraio ’60 Il Presidente Gronchi, accompagnato da Pella, si recò in visita ufficiale a Mosca, per mediare a nome dell'Occidente: il clamoroso battibecco tra Kruscev e i due ospiti italiani mostrò come Mosca non considerasse credibile un ruolo di mediatore per l’Italia. AI rientro in Italia il leader liberale Giovanni Malagodi provocò la crisi di Governo, attaccando le iniziative del Capo dello Stato, che portavano l’Italia ad avere due politiche estere, l'una fatta di solidarietà atlantica e di costruzione europea, l’altra piena di contraddizioni, di illusioni e di eccessi. A Segni, il 25 marzo ‘60 successe Fernando Tambroni, sostituito poi il 26 luglio da Fanfani, a capo di un Governo monocolore DC, appoggiato da PSDI (Partito socialdemocratico italiano), PRI (Partito Repubblicano Italiano) e PLI (Partito Liberale Italiano) e con l'astensione del PSI. Il centro-sinistra Nel tardo 1963 Aldo Moro compose il primo governo di centro-sinistra con la partecipazione attiva del Partito Socialista Italiano, il cui leader Pietro Nenni ottenne la vicepresidenza: nacque così il centro-sinistra organico, formato da DC, PSI, PSDI e PRI, che provocò una scissione dell'ala sinistra, fedele all'idea di unità del movimento operaio e dunque all'alleanza coi comunisti, la quale diede vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, 45 (PSIUP). Prima del 63, tuttavia, ci fu la fase di preparazione al “centro-sinistra”, che incluse una fase di appoggio esterno al Governo DC del MSI (data la risposta incerta del PSI), e poi, dal 26 luglio ‘60, il Governo Fanfani, cioè quello citato alla fine del paragrafo precedente. Negli USA, nel frattempo, ci si chiedeva quale atteggiamento avrebbe assunto un Governo di centro-sinistra nei confronti dell’Alleanza Atlantica? Ancora una volta la discriminante era la politica estera. si trattava di accertare che la nuova maggioranza non cedesse sull’atlantismo, mentre il programma riformista in politica interna non preoccupava Washington, anzi, appariva in sintonia con le tendenze della nuova amministrazione Kennedy. Le principali questioni di politica atlantica in questi primi anni di «centro sinistra organico», dal’62 al’68, furono: - Il ritiro dei missili jupiter dall'Italia in seguito alla crisi di Cuba; - La Multilateral Nuclear Force (MLF) = proposta americana di produrre missili balistici sottomarini e navi da guerra, con equipaggi della NATO e armate di missili balistici Polaris; - La crisi dei rapporti con la Francia. Su tutte le questioni i Governi italiani non crearono intralci agli americani, coi quali furono anzi in sintonia. L'Italia fu una delle più convinte sostenitrici della MLF, pur avanzando seri dubbi sulle sue modalità di realizzazione. La partnership atomica con Washington era comunque vista dall'Italia come una maniera di incrinare l’asse Parigi- Bonn!9, visto come espressione di una politica reazionaria, ostile alla nuova coalizione politica che si stava costituendo a Roma (centro-sinistra). Inizialmente il PSI ebbe dubbi in merito al progetto MLF, ma poi, anche in opposizione a de Gaulle, appoggiò l'iniziativa. Sempre cercando di costruire quel rapporto privilegiato con gli USA, si registrò in questi anni un notevole attivismo fanfaniano (Ministro degli Esteri), che veniva presentato agli americani strettamente funzionale agli interessi occidentali. Il centro sinistra italiano, in opposizione al gaullismo, era sicuramente funzionale agli interessi NATO. Sono molte le cose che Fanfani fece in questo periodo: - Nel’66, al Consiglio Atlantico di Bruxelles, Fanfani dipinse al Segretario di Stato Rusk un roseo quadro di come in Italia l'opposizione al gaullismo giocasse in favore della NATO: i Nessuna opposizione nelle commissioni parlamentari al trasferimento a Roma del NATO Defense College; ii Nessuna obiezione nel Consiglio dei Ministri all'ampliamento della base di Vicenza e ai costi addizionali per l’Italia di 60 miliardi di lire a seguito dell'uscita della Francia dalla struttura militare integrata; - Trail’66 e il’67i Consiglio Atlantico discusse di una “Fanfani Initiative” volta a ridurre il divario tecnologico tra Stati Uniti e Europa. Nell'agosto ’67 gli USA decisero di sospendere le attività «riservate di sostegno politico ai partiti italiani», alla luce dell’unificazione del PSI e dell’apparente unità della DC. Ora, con il centro-sinistra, gli obiettivi americani sembravano raggiunti. Va ricordato che in questo periodo, nel ’64 l’Italia ottenne la nomina di Manlio Brosio a Segretario Generale della NATO, dopo il ritiro della candidatura del britannico Sir Harold Caccia. In occasione della prima visita di Brosio a Washington, gli americani commentarono che «personalmente egli sembra appoggiare la maggior parte delle nostre politiche». Tra le ultime iniziative di Fanfani e Moro relative alla NATO e al Mediterraneo, vanno ricordati i colloqui del 20 e 21 dicembre ‘67 con una delegazione del Governo di Malta, da tre anni indipendente, guidata dal Primo ministro Giorgio Borg Olivier: i maltesi lamentavano una situazione umiliante, poiché la NATO non li informava di nulla. Ciò confermava lo status coloniale che Malta aveva in precedenza. Fanfani offrì il suo interessamento presso il Segretario Generale NATO (Brosio), mentre Moro garantì «massimo appoggio alle aspirazioni maltesi». Aspetti itari della presenza italiana della NATO Negli anni ’50 l’importanza geostrategica dell’Italia consisteva, secondo gli americani, nell'essere: - Contrafforte meridionale del fronte centrale; 10 Il 22 gennaio ’63 si era firmato a Parigi il Trattato di amicizia e cooperazione tra Francia e Germania Ovest, destinato a diventare il pilastro dell'asse Parigi-Bonn. 46 - Assieme alla Jugoslavia, bastione del fianco occidentale delle forze terrestri del fianco sud; - Base aerea e navale per le forze NATO; - Produttrice di materiale bellico. Dopo la crisi del’56 vi furono ripetute avances da parte del Governo Segni e dello Stato Maggiore della difesa per rafforzare la collaborazione militare bilaterale con gli USA e la presenza di truppe americane in Italia; queste avances furono motivate da: - Aumento dell'influenza russa in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale; - Per ragioni di politica interna, care al Presidente del Consiglio Segni e al Ministro della Difesa Taviani. L’ancora più salo ed esplicito ancoraggio dell’Italia alla NATO avrebbe dovuto influire sull’opinione pubblica e limitare i rischi dell’«apertura a sinistra». A inizio ’56, si osservava come in Italia ci fossero ancora carenze rilevanti in tutte le tre Forze Armate. A fine ’57 si concludeva che nel complesso l’efficacia militare italiana restava relativamente scarsa se paragonata agli standard statunitensi di efficacia combattiva. Alla riunione di Parigi dei Ministri della Difesa dei Paesi NATO dell’aprile ‘58, la maggior parte della discussione s’incentrò sul documento MC-70 Minimum Essential Force Requirements (1958- 1963), che il Ministro italiano Taviani approvò pienamente, chiedendo però la concessione di nuovi aiuti per sostenere lo sforzo finanziario del Paese, dopo aver sottolineato che il Governo italiano destinava annualmente alla Difesa fondi sempre crescenti. Nel ‘60 il famoso studioso di strategia Basil Liddell Hart osservò che: «l’Italia è la sola nazione continentale membro della NATO che abbia fornito la sua quota ditruppe secondo i piani originari». La Annual Review della NATO per il 1961 rilevava gli importanti progressi compiuti dall'italia per contribuire alla difesa dell’area nordatlantica e lodava gli sforzi in tal senso delle autorità politiche del Paese. La forza armata più efficiente era considerata la Marina, e quella più problematica l'Esercito. Quest'ultimo aveva una serie di problemi: carenza di personale, soprattutto tecnico e di carriera, di equipaggiamento moderno e di supporto logistico bilanciato per operazioni di combattimento prolungato. Anche la Marina aveva carenza di personale, specialmente di carriera. L’aeronautica non poteva essere considerata pienamente efficiente fino a quando non avesse colmato le lacune relative a: vulnerabilità agli attacchi di sorpresa; ritardo nel raggiungimento del potenziale nucleare in unità prefissate; carenza di tecnici altamente specializzati; deficienze nella capacità di manutenzione; basso livello di equipaggi e apparecchi pronti al combattimento; ritardo nella modernizzazione delle squadriglie di difesa aerea; deficienza di bombe e di serbatoi di combustibile sganciabili. Ingente fu in Italia il problema delle armi nucleari. Il primo gennaio ’56 iniziò la sua attività presso l'Accademia Navale di Livorno, in collaborazione con l’Università di Pisa, il Centro per le applicazioni militari dell'energia nucleare (CAMEN), chiuso nel ‘75, che doveva essere un ente finanziato paritariamente dalle tre Forze Armate. Tra il ‘56 e il ‘58 ci furono una serie di colloqui tra i Ministri della difesa italiano, francese e tedesco su una cooperazione militare nel campo nucleare, dato il risentimento dei tre verso Gran Bretagna e USA, unici detentori dell'arma atomica. Tale cooperazione sarebbe servita per migliorare il loro status all’interno dell'Alleanza Atlantica. Ma nessuno voleva agire segretamente dagli USA per poi metterli di fronte al fatto compiuto. Fu così che alla riunione del Consiglio Atlantico del dicembre ‘57 gli Stati Uniti offrirono agli alleati europei l'installazione di missili balistici a raggio intermedio americani a «doppia chiave». Taviani diede subito il suo assenso, mentre l'avvento al potere di de Gaulle pose fine ai negoziati trilaterali. L'Italia fu l’unica, oltre la Turchia, ad accettare questi missili. Da parte dell’Italia, questa era anche una prova di fedeltà mentre era in discussione l'apertura a sinistra. Nel quadro della soluzione della crisi di Cuba del ‘62 gli Stati Uniti decisero di rimuovere i missili dalla Turchia e dall'Italia. In Italia tale rimozione fu vista da due punti di vista: - Da un lato si era sollevati, perché tali missili avrebbero reso l’Italia vittima di un attacco prioritario da parte dell’Unione Sovietica; - Dall'altro non si voleva perdere il rapporto bilaterale con gli USA. Le ambizioni atomiche dell’Italia furono allora affidate sia alla MLF sia al tentativo di sviluppare un'intesa bilaterale con gli USA che portasse ad installare missili Polaris o su sottomarini o sull’incrociatore Garibaldi. Ma nell'aprile ’64 il Segretario di Stato Rusk raccomandò di lasciar cadere la MLF, indicando tra le ragioni anche quella di evitare 47 separati o distinti i tre continenti che vi si affacciano, nel quale si sono svolti gran parte dei conflitti che hanno interessato l'Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. L'idea di un «primato italiano», in genere, lasciava assai freddi i diplomatici, consci dei limiti del loro Paese, per loro non in grado di reggere il peso di un forte impegno in campo internazionale. L’ambasciatore a Parigi Quaroni nutriva forti dubbi su un Italia protagonista nel Mediterraneo, non vedeva quale vantaggio avessero gli italiani ad essere chiamati a far parte ufficialmente di quei consessi alleati che si illudevano di dirigere la politica del Medio Oriente, «le forze in gioco sono troppo al di sopra di noi: a mettere il dito in questo ingranaggio, finiremo certo col rimetterci tutto il braccio». Anche l'ambasciatore a Washington Manlio Brosio non ne vedeva la necessità: «Apprezzo la necessità della nostra amicizia coi Paesi arabi e la nostra funzione mediterranea, ma non credo se ne possa fare il fulcro della nostra politica a spese dei nostri essenziali impegni occidentali, che ci vincolano in una lotta mondiale, ove noi non possiamo sognare di assumere un ruolo autonomo». Chi era invece totalmente favorevole ad un primato italiano nel Mediterraneo, e voleva che l’Italia diventasse un mediatore con i popoli arabi, era il Presidente Gronchi che, ad esempio, in occasione della Conferenza di Londra dell'agosto ‘56, convocata per esaminare la situazione creata dalla nazionalizzazione del Canale di Suez, aveva assunto una posizione assai conciliante verso l'Egitto e distinta da quella degli alleati, mentre il Ministro degli Esteri Martino era stato più attento a non porsi in rotta di collisione con Londra e Parigi. Dopo l'intervento militare franco-britannico il «comportamento deviante» — ricorda Di Nolfo — non era quello italiano (o americano), bensì quello franco-inglese. Stati Uniti e Italia avevano in quel momento interessi convergenti nel tenere aperta un'opzione costruttiva rispetto al mondo arabo. L'unica eccezione a questo allineamento fu quando, il 24 novembre ’56, all'Assemblea Generale dell'ONU, l’Italia si astenne sulla mozione afro-asiatica (votata anche dagli USA), che chiedeva l'immediato ritiro delle truppe anglo- francesi. Il Ministro degli Esteri Martino giustificò tale contraddizione con l'esigenza di evitare «gesti non necessari che potrebbero danneggiare i nostri rapporti con i Paesi alleati». Furono molte le contraddizioni in occasione della Crisi di Suez. Segni, Taviani e Rumor, esponenti della corrente interna alla DC Iniziativa Democratica, erano più preoccupati della solidarietà europea e denunciavano il comportamento del presidente egiziano Nasser. Il /eader della corrente e del partito, invece, Fanfani, puntava maggiormente sull’apertura agli arabi e su un rapporto privilegiato con gli USA per «ricomporre col sostegno americano la gerarchia atlantica a vantaggio dell’Italia e a scapito della Gran Bretagna e della Francia». In una lettera del 17 marzo ‘57, bloccata dal Ministero degli Esteri, Gronchi avanzò esplicitamente ad Eisenhower la candidatura italiana quale principale partner degli USA nel Mediterraneo. La lettera di Gronchi fu bloccata in quanto questa non avrebbe portato l’Italia verso il neutralismo, anzi, «il ruolo più attivo e il maggior riconoscimento» sollecitati da Gronchi apparivano soprattutto in funzione di un «più deciso e ravvicinato fiancheggiamento della politica e dell’azione degli USA, “leader naturale” dell'alleanza», come Gronchi stesso amava ripetere. Il neoatlantismo, lungi dal portare a un allentamento della fedeltà atlantica, o meglio della fedeltà a Washington, mirava proprio a fare dell’Italia l’alleato principale degli Stati Uniti nel Mediterraneo. Una critica del neoatlantismo che ne denunciasse una sua deriva «neutralista» sarebbe quindi poco giustificata. Sicuramente più fondati sono i giudizi di Mario Luciolli, allora consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica. Egli rilevò che Gronchi «non aveva mai ricoperto una carica di quelle che si definiscono operative», che dietro le sue «quasi messianiche enunciazioni non c’era nulla di concreto», ed «era incapace di condensare in progetti concreti gli indirizzi che additava genericamente». Presentando il 12 aprile ‘58 il programma della DC per le elezioni politiche, Fanfani teorizzò apertamente la necessità di una conciliazione tra l’«anima occidentale e quella mediterranea dell’Italia e di una piane parificazione dell’Italia con i suoi alleati, attraverso una reciproca e continua consultazione politica, ma anche iniziative autonome dell’Italia nel suo ambito regionale». Verso gli Stati Uniti Fanfano cercò «di conciliare il massimo di fedeltà con il massimo di indipendenza». Tale collegamento con Washington doveva altresì neutralizzare le velleità 50 di de Gaulle di un direttorio anglo-franco-americano all’interno della NATO, contro le quali Fanfani elevò una forte protesta. Gli Stati Uniti furono disposti a largheggiare in riconoscimenti verbali e in qualche concessione formale che soddisfacesse le ambizioni dell’Italia, ma ritenevano che essa, pur godendo nell’area del Vicino e Medio Oriente di un'eccellente reputazione e pur intrattenendo buoni rapporti con tutti quei Paesi, sopravvalutasse la sua influenza e non avesse i mezzi economici per sostenerla. Probabilmente le attenzioni di Washington per l'amor proprio italiano erano più un riconoscimento e un incentivo per la libera disponibilità del proprio territorio garantita alla NATO dall'Italia che un segno di apprezzamento per la politica mediterranea di Roma. Crisi e rilancio della politica estera ina Avviati i governi organici di centro-sinistra, in coincidenza con l’inizio della «grande distensione»1, pur essendo l’Italia allineata con gli USA su tutti i maggiori problemi della politica internazionale, vari fattori impedirono però lo sviluppo della collaborazione bilaterale tra Roma e Washington: - Il relativo disinteresse del Presidente Johnson, impegnato in Vietnam, per l'Europa; - La corrispondente enfasi di Moro sulla politica interna. Inoltre, l'instabilità politica e poi il terrorismo impedirono all'Italia di essere un attore importante sulla scena internazionale, rendendola anzi un oggetto di preoccupazione per Washington. A metà degli anni ‘70 l’avanzata del PCI nelle elezioni italiane apparve al Segretario di Stato Kissinger uno degli aspetti di una crisi del fronte mediterraneo della NATO. Il «compromesso storico» sancì l'accettazione della NATO da parte del PCI, ma, come era stato trent'anni prima per i governi ciellenisti (CLN), tolse evidentemente incisività alla politica estera italiana, le cui potenzialità erano anche minate dall’inflazione, causata dalla politica economica e sociale del Governo. La crisi di Sigonella dell'ottobre ‘85 (nella base NATO di Sigonella) fu il simbolo di una nuova consapevolezza delle responsabilità dell’Italia come media potenza regionale. L'episodio suscitò scalpore proprio perché in tale occasione l’Italia rivendicò la propria sovranità sul territorio nazionale in un’inedita contrapposizione agli USA. AI di là della crisi, presto superata, negli anni Ottanta e Novanta l’Italia, a differenza di trent'anni prima, nello scacchiere mediterraneo e mediorientale non fu in sintonia con Washington, fautrice sia con Reagan, sia con Clinton, nei confronti dei rogue States, di una linea dura, condivisa dallo scudiero britannico, ma non dai Paesi dell'Europa continentale. 51
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