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Riassunto "Guida alle etiche della comunicazione", Appunti di Etica

Riassunto del libro "Guida alle etiche della comunicazione" di Adriano Fabris. E' la terza edizione, aggiornata nel 2021. Il riassunto è di 28 pagine ed è completo di tutti i capitoli. Di per sé non è un testo complicato, ma alcuni concetti richiedono un po' più di attenzione rispetto ad altri. Nel complesso è abbastanza scorrevole.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 05/05/2022

Riccardo_contin
Riccardo_contin 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Guida alle etiche della comunicazione" e più Appunti in PDF di Etica solo su Docsity! GUIDA ALLE ETICHE DELLA COMUNICAZIONE 1. ETICA E GIORNALISMO Da qualche tempo, dunque, si è iniziato a discutere dei problemi, dei condizionamenti e della scarsa trasparenza di un ambito comunicativo, quello dei social, nel quale si evidenzia in maniera chiara la fallacia dell’utopia dell’uno-vale-uno, anche se questo non significa affatto trascurare lo straordinario apporto dell’intera comunità alla creazione, condivisione e interazione di notizie, commenti, punti di vista. Negli ultimi anni si è fatta strada la consapevolezza che i meccanismi equilibratori del libero mercato non sono in grado di funzionare come regolatori naturali. Di conseguenza è iniziata la messa a fuoco dei problemi derivanti dalla circolazione di enormi flussi di notizie non verificate, non controllate e influenzate dalla potenza di fuoco di squadre di abili manipolatori. Da ciò è partita la necessità di un nuovo spazio dalle caratteristiche molto diverse e tipico di un’informazione professionale. Per questo è tornata alla ribalta la questione del rapporto tra etica e giornalismo: per la necessità di definire un ambito nel quale la ricerca, il vaglio, l’approfondimento, la produzione e la diffusione dei contenuti informativi viene codificato e garantito. (Volendo trovare un parallelismo, la stessa situazione si era verificata con la diffusione della stampa e successivamente con l’avvento del digitale; un aumento esponenziale degli spazi d’informazione ha sempre portato della “sregolatezza” inziale). Il tema dell’etica dell’informazione in realtà è vecchio quanto il giornalismo stesso. La questione s’impone in maniera evidente nel Seicento con la diffusione dei primi bollettini a stampa – immediatamente si era posta in maniera esplicita e dichiarata la necessità di definire il perimetro di un’informazione affidabile. Samuel Buckley – direttore Daily Courrant (1702) – pubblica una dichiarazione con le garanzie che darà ai suoi clienti, ovvero: attendibilità, verifica delle fonti, correttezza, imparzialità, … . Un’idea splendida, ma bisogna ricordare che all’epoca il potere della censura era molto forte, perciò l’attività giornalistica non poteva certo dirsi libera e indipendente. 1766 – Parlamento Svedese – adotta la prima legge sulla libertà di stampa (forti vincoli, es. NO critiche al sovrano). L’allentamento della censura è un processo molto lento ma continuo e modifica progressivamente il ruolo e le modalità attraverso le quali si identificano i limiti a cui è sottoposta l’informazione e i soggetti incaricati di esercitare questo controllo. Fine ‘800 – nascono le prime associazioni dei giornalisti; primi due decenni del ‘900 – il processo si estende oltre Oceano e fa la sua comparsa il primo codice etico. 2. PRINCIPI, PRATICHE, ARBITRIO La riflessione su etica e giornalismo si è quindi allargata, coinvolgendo la riflessione filosofica alla ricerca dei fondamenti di un’etica del giornalismo, alla ricerca di quei principi che dovrebbero guidare il giornalista. Contemporaneamente, è apparso chiaro che occorre confrontarsi con la realtà storico-politica e fare i conti con le pressioni e i condizionamenti esercitati dal potere economico e politico a cui preme esclusivamente che i media forniscano una rappresentazione della realtà “adeguata” ai propri interessi. Ma anche a prescindere da questi condizionamenti, il giornalista può porsi l’obiettivo della verità? Per un obiettivo più realistico si è passati da verità ad “oggettività”. Si è passati quindi all’ambizione di descrivere la realtà fattuale per come si presenta in un determinato momento storico e in un determinato luogo. Ma anche questa pretesa si è rivelata difficile da soddisfare: - Es. un’immagine: di per sé è vera, però quando si distingue un ritocco dalla manipolazione? Quando il suo ritaglio per impaginarla diventa un’omissione di informazioni? Quant’è cruciale la didascalia per comprendere in modo corretto l’immagine? Potrebbero sembrare questioni secondarie, ma il fatto è che il ritocco e la manipolazione oggi sono alla portata di qualsiasi utente social minimamente esperto. Quindi si è capito che riportare la verità assoluta risulta un problema, quindi l’attenzione si è spostata sulle pratiche professionali del giornalista per capire se e in che misura può aspirare almeno ad osservare un comportamento corretto. Ma anche in questo caso i problemi si sono ripresentati subito. Chi e in che modo può certificare il comportamento corretto da parte di un giornalista? Ma a ben vedere neppure la neutralità è una posizione facile da sostenere e ci si è successivamente orientati verso un’idea ancora diversa, ovvero quella di “equità”. Ma anche in questo caso è facile contestare l’effettivo raggiungimento di un atteggiamento equo da parte del giornalista. A causa della rapidissima evoluzione dell’ecosistema dell’informazione, il dibattito attorno a questi interrogativi ha poi subito una brusca accelerazione, in direzione di una visione legata al comportamento e alle intenzioni più che al risultato dell’attività giornalistica. Insomma, si arriva ad una sorta di autocertificazione della correttezza. In questo modo dalla buona fede siamo giunti addirittura alla richiesta di poter garantire non tanto la verità, ma quantomeno la sua non-falsità. Alla fine, possiamo dire forse concludere che le soluzioni per un’etica del giornalismo non si trovano nell’empireo della riflessione filosofica su verità e oggettività, ma neppure riducendo al minimo, e sotto il minimo, le pretese del giornalismo di rispecchiare più fedelmente possibile la realtà e annegando la riflessione in un relativismo che rischia di trasformarsi in cinismo. Si pone un problema enorme da risolvere: l’etica del giornalismo cambia da Paese a Paese oppure può esistere un’etica tanto elastica da poter essere adottata ovunque? Occorre insomma sciogliere un dilemma di fondo e stabilire se l’attività giornalistica può essere fondata su dei principi generali (etica), sulla ricerca empirica di buone pratiche (deontologia), oppure sull’arbitrio individuale. Un arbitrio individuale che rischia di essere fallace e discriminatorio proprio perché non basato su dei criteri generali e su dei principi. 4. LA SITUAZIONE ITALIANA Il digitale, insieme alla comparsa o al rafforzamento di altri soggetti in ambito televisivo, ha consentito di rompere il duopolio (Rai-Mediaset), ma nel frattempo stiamo assistendo ad un oligopolio su scala planetaria. Se il duopolio toglieva ossigeno al sistema della carta stampata italiana e quindi al pluralismo dell’informazione accaparrandosi gran parte di risorse pubblicitarie, gli Over The Top drenano una quantità impressionante di risorse pubblicitarie a livello globale e rischiano di controllare e orientare i nostri percorsi di conoscenza e informazione. Un disinteresse condiviso da una fetta importante della società, tanto che non è infrequente sentir parlare dell’informazione, che è alle prese con una crisi durissima, con lo stesso linguaggio che potrebbe essere utilizzato per parlare di aziende che producono detersivi o cera per le scarpe dimenticando il valore fondamentale del pluralismo per la democrazia. L’Italia peraltro, in linea con la propria tradizione, continua a mostrare un sostanziale disinteresse per l’informazione indipendente. La società è del tutto indifferente al tema, a differenza di altri Paesi dove b. La prospettiva orientale enfatizza il rituale, l’immaginazione riflessiva, la metafora come strumenti per trasformare il pregiudizio attraverso la meditazione simbolica; la prospettiva occidentale enfatizza l’autoanalisi come strumento principiale per raggiungere la cooperazione pratica; c. La prospettiva orientale motiva l’azione umana attraverso la partecipazione dell’individuo in una struttura istituzionale collettiva; la prospettiva occidentale motiva l’azione umana attraverso il desiderio individuale di autorealizzazione politica e sociale. Ora, anche indipendentemente da tali polarizzazioni, che rischiano di riproporre stereotipi più che di consentire l’auspicata conoscenza dell’<altro concreto>, rimane il fatto che il nuovo scenario globale con cui siamo chiamati a confrontarci richiede da parte nostra l’adozione di nuove categorie di comprensione del mondo. 3. SVOLTO DEMOTICA, PREGIUDIZIO DI AFFIDABILITA’ E DEEPFAKE Oggi, la digitalizzazione consente l’accesso ai contenuti digitali a chiunque sia fornito di un dispositivo. In questa possibilità, accompagnata da un clima di generale plausibilità, si annuncia una svolta epistemica (relativa al sapere), che investe il nostro modo di conoscere e di definirci in base alla nostra relazione con al conoscenza. Nello scenario attuale, noi assistiamo a una massa di utenti che, indipendentemente dal loro grado di istruzione e solo grazie ai loro dispositivi, si ritiene legittimata a leggere, interpretare e fare suo del sapere, convertito in forma digitale. Si tratta di una trasformazione epocale destinata ad interagire sempre più con i mutamenti intervenuti a livello della partecipazione e della comunicazione in cui si registra il venir meno della logica one-to-many a favore della logica many-to-many, così come l’adozione di protocolli aperti e di info autogenerate dagli utenti. Ciò porta a una SVOLTA DEMOTICA: la quale costituisce il “mezzo preferito per riferirsi alla crescente visibilità della persona comune che si è trasformata in contenuto mediatico attraverso la cultura delle celebrity, dei reality tv, siti fai da te, talk show, … È importante sottolineare quale sia stato il ruolo dei media tradizionali nell’accompagnare questo processo di acquisizione di visibilità da parte del pubblico medio. - USA anni ’60 – maggiori proventi da programmi in cui venivano mescolate informazioni e intrattenimento – nascono i talk show; - Usa anni ‘80 – nascono i talk radio con sempre più spazio per parlare per le persone comuni, le quali commentavano i fatti del giorno. È esattamente la plausibilità annessa alla rappresentazione di qualsiasi opinione a creare le condizioni perché nei dibattiti televisivi si finisca con l’attribuire lo stesso spazio a voci differenti, perfino quando una delle due voci sia poco credibile. A questo livello si è ormai creato un cortocircuito tra imparzialità ed obiettività: il tentativo di perseguire la prima ha fatto perdere di vista la seconda. DEEPFAKE = risultato della combinazione delle più raffinate tecniche di creazione di immagino sintetico- digitali con l’intelligenza artificiale. Nei video prodotti con questa tecnica, tramite l’apprendimento automatico, l’intelligenza artificiale riesce a scambiare i volti reali delle persone con quelli creati artificialmente, aggiungendo anche voci del tutto simili a quelle dei soggetti reali. Il risultato è la perfetta sovrapposizione di ciò che è falso a ciò che è vero. Le possibilità del deepfake sono enormi e non ancora del tutto chiare. Tuttavia, è evidente che si tratti di una tecnica con cui occorrerà in un futuro prossimo fare i conti, destinata a sollevare molti interrogativi di tipo etico. In tal senso, è significativo ciò che ricorda Ajder Henry, un esperto in materia di disinformazione e deepfake, ovvero che oltre agli usi già menzionati, si possono raggiungere risultati inasperati su ben altri fronti (es. un voce artificiale per malati di SLA; oppure simulazioni di immagini e video di città bombardate per fare capire l’impatto che avrebbe una guerra). ETICA E ICTs 1. LE QUESTIONI DA AFFRONTARE Ciò che viene detto di una determinata fase della comunicazione resta dunque sempre valido: anche se nuovi aspetti, ben presto, si aggiungono e si aggiungeranno. Le ICTs sono delle tecnologie comunicative. Le tecnologie definiscono un ambiente in cui i programmi o gli apparati che ne fanno parte – pensiamo alla domotica o ai veicoli a guida autonoma – hanno progressivamente acquisito una certa autonomia e la esercitano in misura variabile. Sono cioè in grado, sempre più, di agire con una certa indipendenza rispetto al controllo dell’essere umano. Ciò accade perché molti di questi dispositivi tecnologici sono dotati di una specifica forma d’intelligenza: l’intelligenza artificiale (AI). Sistemi basati sull’AI possono essere o software, operanti in un mondo virtuale (es. assistenti vocali), oppure la AI può essere incorporata in dispositivi hardware. Ciò significa comunque, in sintesi, che le ICTs sono divenute pervasive e determinanti nella nostra vita sia perché ci offrono sempre di più ambienti alternativi a quello offline in cui comunque continuiamo a vivere con il nostro corpo fisico, sia perché si sviluppano, definiscono tali ambienti e interagiscono con noi in virtù di quella relativa autonomia che viene loro offerta dalla struttura dell’AI. 2. ETICA GENERALE, ETICHE APPLICATE, ETICA DELLE ICTs Il termine “etica” qui significa 2 cose: a. Concerne tutte quelle analisi e quegli approfondimenti che si riferiscono ai nostri comportamenti in un certo ambiente di vita. Una ricerca sugli usi e costumi, sia individuali che collettivi, all’interno dei quali si svolge il nostro agire e da cui il nostro agire viene in generale orientato; b. Si riferisce a ciò che, anche se ci muoviamo all’interno di una dimensione di comportamenti condivisi, siamo in grado di compiere non solo “indipendentemente”, ma anche contro l’ethos (atteggiamento etico) di una comunità. L’etica della comunicazione ha il compito d’individuare, approfondire, giustificare quelle nozioni morali e quei principi di comportamento che sono all’opera nell’agire comunicativo, e insieme di motivare all’assunzione dei comportamenti che essa stabilisce. L’etica delle ICTs ha specificamente il compito di definire i criteri e i principi del nostro agire rispetto a quegli ambienti comunicativi, dischiusi dalle tecnologie, in cui siamo inseriti e con cui interagiamo. 3. ETICA E ICTs 2 tipi di etiche: a. Etica dell’ICTs – ha il compito di studiare di giustificare le attitudini e i costumi che si sviluppano nei nostri rapporti con gli ambienti comunicativi creati dalle tecnologie, e di approfondire e discutere l’impatto che tali tecnologie hanno sui nostri comportamenti; b. Etica nell’ICTs – mira a guidarci nelle nostre concrete azioni, ovvero in tutte le interazioni – con gli altri esseri umani, con programmi e dispositivi – in cui ci troviamo coinvolti all’interno degli ambienti tecnologici. Sono varie le risposte a tali interrogativi. Si va dalla semplice elaborazione di una sorta di “etichetta” – ad esempio la cosiddetta netiquette: una “piccola etica” di pronto uso per le nostre comunicazioni digitali -, all’ambito, più articolato e strutturato, dei codici di comportamento che dobbiamo rispettare se vogliamo usufruire dei servizi di una piattaforma. 4. ETICA DELLE ICTs Sono due le linee di ricerca che possono essere individuate in proposito. Anzitutto bisogna distinguere una riflessione che riguarda il nostro uso dei dispositivi digitali, nella misura in cui ciò rientra nei limiti del nostro controllo di essi (la nostra capacità o meno di controllare i dispositivi digitali cambia anche la nostra concezione dell’etica). È necessario poi fornire una ripartizione complessiva, in base ai vari ambienti digitali presi in esame, delle questioni etiche che emergono in relazione agli sviluppi tecnologici. Bisogna farlo anzitutto a partire dalla più generale distinzione fra ambienti online e offline, e poi in relazione ad alcune conseguenze che i nuovi scenari comportano per certe forme di pensiero e per certi concetti che comunemente usiamo (mutano gli scenari di riferimento, anche da un punto di vista etico, a seconda che prendiamo in esame l’Internet tradizionale oppure i social network). La questione di fondo riguarda però un tema ancora più significativo. Oggi viviamo in un contesto in cui online e offline sono pienamente integrati, viviamo in contesti ONLIFE. Ciò non vuol dire che sia per forza una situazione positiva. Il problema che solleva l’etica delle ICTs è proprio quello del giudizio morale relativo a tale situazione e alle sue conseguenze. 5. ETICA NELLE ICTs L’etica nelle ICTs, invece, riguarda i nostri comportamenti all’interno dei vari ambienti comunicativi che sono dischiusi dalle ICTs e nel cui contesto, anche sovrapponendoli agli ambiti offline, per lo più oggi viviamo. Ciò che viene regolamentato sono di nuovo, per un verso, i comportamenti concretamente compiuti all’interno degli ambienti digitali e, per altro verso, le conseguenze di tali comportamenti nei contesti offline. Si va dalla tendenza a rinchiudere i partecipanti a una conversazione online in piccoli gruppi, o “bolle”, impermeabili tra loro, a problemi inerenti le modalità della comunicazione in rete e ai suoi rischi (es. quelli concernenti il diffondersi di fake news e hate speech). Per governare questi problemi l’approccio di solito scelto è di carattere giuridico, non già etico. Anzitutto non è necessariamente motivato da convinzioni personali, ma si basa su un meccanismo per cui a una trasgressione, se è riconosciuta e se viene identificato il responsabile, corrisponde una punizione. Si tratta però di un meccanismo che, negli ambienti digitali, si rivela di difficile applicazione. Qui, infatti, l’identificazione del trasgressore spesso è problematica e la punizione in molti casi non lo raggiunge. 6. QUALE ETICA PER LE ICTs? tenute a disporre specifiche sezioni dei propri siti internet per pubblicare tutte le informazioni necessarie per garantire la trasparenza pubblica. Il percorso dalla segretezza alla trasparenza dello Stato è dunque compiuto. 3. IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE PUBBLICA Per comunicazione si deve intendere una “trasmissione intenzionale e consapevole di informazioni da un soggetto a un altro” e implica un trasferimento di conoscenza, un certo grado di influenza e uno scambio di valori. Mentre per comunicazione pubblica si intende l’ampia gamma di soggetti da cui essa proviene, da quella politica e sociale fino a quella istituzionale realizzata agli organi dello Stato e destinata ai cittadini. Se l’istituzione pubblica sarà chiusa o poco aperta all’esterno, produrrà una comunicazione autoreferenziale, fredda, non interessata al suo interlocutore ma solo al valore simbolico del suo agire. Se, invece, sarà improntata alla trasparenza, disposta a una dinamica di flussi di informazione in entrata e uscita, allora si avrà un’istituzione “permeabile” e disponibile ad aprirsi all’esterno e a ricevere suggerimenti e attuarli in merito al proprio funzionamento e servizi erogati. La comunicazione finisce così per determinare non solo comportamenti condivisi una volta che certe decisioni sono state prese, ma anche nella fase iniziale della discussione e condivisione dei processi e, senz’altro, anche in quello della prevenzione dei conflitti. Occorre attivare, dunque, quello che i francesi chiamano il “débat public”, attraverso l’utilizzo di “tecniche e processi, il più possibile semplici e innovativi, per spingere le persone a partecipare e a esprimersi, valutare alternative di progetto in tempi utili, generare progetti migliori e più condivisi per uno specifico territorio così come per l’intera comunità nazionale”. Insomma, occorrono nuovi strumenti e processi partecipativi e di mediazione ma anche una comunicazione pubblica più efficace, trasparente e aperta. Un ultimo aspetto da affrontare riguarda il ruolo della comunicazione pubblica nella delicata fase delle elezioni. Anche per le ragioni sopra espresse, vi è il rischio che un’attività di comunicazione “ispirata” o suggerita dalla rete politica possa contribuire a determinare un esito o un altro del voto. A questo proposito è stata fatta la legge sulla “Par Condicio” – “disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica”. Per tale ragione il Legislatore ha disposto che “dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni”, è fatto divieto “a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni”. Una sovrapposizione di messaggi in fase di campagna elettorale potrebbe contribuire a creare confusione nei destinatari, cioè i cittadini che si apprestano ad esercitare il loro diritto di voto. 4. I PROTAGONISTI Tra i protagonisti della comunicazione pubblica al primo posto è senz’altro il cittadino, non più relegato a semplice e passivo destinatario finale. Con l’avvento dei nuovi strumenti di comunicazione, Social Network in particolare, infatti, è diventato parte attiva del processo di comunicazione. Al fianco del singolo cittadino, naturalmente, vi è anche quella che viene definita la “società civile” costituita da forme organizzative di soggetti portatori di interessi particolari come “organizzazioni varie”. L’uso delle tecnologie comunicative ha reso possibile una diversa modalità d’interazione sociale. Non c’è più una massa che veniva raggiunta, appunto, dai mezzi di comunicazione di massa. Al contrario. Ognuno ritiene di avere una propria opinione personale e che questa opinione sia degna di essere conosciuta. Dunque è questo passaggio epocale e forse definitivo da comunicazione di massa a comunicazione individuale, rivolta al cittadino in forma singola, a determinare il primo posto del cittadino quale attore protagonista della comunicazione pubblica. Il giornalista è il secondo soggetto della comunicazione pubblica, con il ruolo all’interno della PA di addetto stampa, responsabile delle attività di informazione. Il comunicatore è il terzo protagonista. Nel 1993 vengono istituiti gli Urp (Uffici relazioni con il pubblico) e individuate funzioni, competenze e organizzazione. Nell’impostazione di mettere al centro dell’attività amministrativa il cittadino, dunque l’Urp rappresenta il tentativo di “spostare” il baricentro della comunicazione dai luoghi della politica e dalle redazioni dei giornali tradizionali all’amministrazione in rapporto diretto con il cittadino. Infine, l’ultimo protagonista è il portavoce, il quale come compiti ha la diretta collaborazione con l’amministrazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione. Il portavoce non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche. Di fatto la principale differenza con l’addetto stampa è che per questa figura non è prevista l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti, ma viene lasciata al vertice politico la discrezionalità di scegliere la figura ritenuta più adatta. 5. CODICI DEONTOLOGICI E DI COMPORTAMENTO I primi anni ’90, per i professionisti della comunicazione si impone il rispetto di alcuni principi quali la buona fede, il rispetto sostanziale della verità, la lealtà con gli interlocutori e la relazione costruita intorno alla fiducia. Tutte categorie che appartengono all’etica del funzionario pubblico e che anche per il giornalista sono il fondamento deontologico della professione. Per quanto riguarda quelle deontologiche si tratta, quindi, di norme scritte che non afferiscono alla sfera della coscienza individuale, e la cui violazione comporta precise conseguenze disciplinari. La violazione di regole e principi contenuti nel Testo unico dei doveri del giornalista comporta per tutti gli iscritti all’Ordine l’applicazione delle norme contenute nella legge. Occorre allora aggiungere alla deontologia professionale anche la normativa di comportamento per i dipendenti pubblici, rivolta a tutti, compresi gli addetti alla comunicazione e informazione, ovvero “i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare”. A questo poi va ad aggiungersi il codice di comportamento del singolo ente di appartenenza di un giornalista addetto stampa o di un comunicatore che può specificare e integrare i doveri minimi di “diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta”. 6. VERSO UN’ETICA CONDIVISA È stato analizzato il lungo percorso che ha portato da uno Stato in cui a prevalere era la segretezza a uno che si basa sulla trasparenza. Occorre a questo punto definire, ove possibile, un’etica condivisa della comunicazione pubblica che diventi elemento fondante di quel rapporto leale da istaurarsi tra chi emette una comunicazione e chi la riceve. Questa etica deve trasformarsi in un autentico patto, il cui primo pilastro è il reciproco riconoscimento e la istaurazione di un rapporto di fiducia. Così come non è sufficiente la trasparenza per infondere fiducia. Per questo chi si occupa di comunicazione pubblica deve riuscire a trasmettere ogni volta, insieme al messaggio, anche precisi valori, che finiscano per ristabilire o rafforzare, appunto, quel sentimento di fiducia. In una parola, ogni comunicatore deve guadagnarsi una reputazione derivante dal riconoscimento da parte dell’altro del proprio ruolo. Una comunicazione basata su questi principi sarà così più facilmente intellegibile e comprensibile. L’ultimo aspetto da considerare è, infatti, la comprensione reciproca. Questo è forse l’ultimo stadio di una relazione tra soggetti tra loro molto diversi ma con eguali finalità. “Il buon funzionamento di una democrazia non può prescindere da un livello quanto più possibile elevato di alfabetizzazione”. È a partire da questi valori, in parte tutti da ricostruire, che si può fondare un nuovo patto di cittadinanza tra amministrazione e cittadini. ETICA E COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA 1. LA PUBBLICITA’ La pubblicità risale alle insegne e ai mosaici della tarda romanità. Nel corso dei secoli si è manifestata sotto molteplici forme fino alla via contemporanea della rete, che l’ha resa indiscutibilmente più persuasiva e onnipresente rispetto al passato. Ha assunto nel tempo diverse caratteristiche, riconducibili principalmente a due verbi latini: - Pubblicare: significa “far conoscere”, rendere a tutti noto un qualcosa. Ha un valore etico, centrato sulla trasparenza della conoscenza. Mira a informare per rendere noto al pubblico un messaggio relativamente ad un prodotto, un bene o un servizio; - Ad-vertere: che designa letteralmente “l’andare verso”. Oltre a pubblicizzare, significa “attirare, corteggiare”, con un certo senso persuasivo. La pubblicità è diretta a informare e a persuadere i suoi possibili destinatari, influenzandone il pensiero e l’agire, facendo leva non tanto sulla sfera razionale, quanto su quella emotiva. Si possono annoverare 5 tipologie pubblicitarie: 1. Pubblicità politica: diretta a formare nel pubblico certe idee o ideologie proprie di un partito o di una corrente politica; 2. Pubblicità sociale: con l’intento di sensibilizzare un determinato pubblico relativamente a tematiche di interesse generale, richiamando valori umanitari, civili e solidaristici; 3. Pubblicità pubblica: impiegata dallo Stato e dalle pubbliche amministrazioni per comunicare i servizi offerti, i diritti e i doveri dei cittadini; 4. Advocacy advertising: volta a promuovere un consenso relativamente a tematiche su cui esiste una divergenza di opinioni; 5. Pubblicità commerciale: forma comunicativa volta a “guidare” le scelte degli individui, “la propensione all’acquisto”, ma anche a migliorare l’immagine di un brand o di una organizzazione, oltre che a contrastare le iniziative di aziende concorrenti. realtà: le maggiori questioni etiche si pongono proprio sulle strategie emotive attraverso cui si decide di “coinvolgere” il destinatario. L’impiego dei minori è tra l’altro frequente nei messaggi pubblicitari, costruiti e basati su cliché, per cui la pubblicità ricorre a stereotipi, che consentono di dare per conosciuto il contesto in cui gli attori si muovono. La brevità spazio-temporale dei messaggi, la proposizione di situazioni familiari facilmente riconoscibili (stereotipate) e la semplicità verbale e iconica favoriscono la comprensione e l’assimilazione e, infine, l’attrazione dei modelli proposti, in specie se rivolti a un pubblico in formazione; 2) In rapporto al possibile destinatario. Lo spot sarà eticamente valido se in linea con la capacità di ricezione da parte del suo possibile destinatario (es. junk food – bambini); 3) Comprendere la correlazione tra il bene da pubblicizzare e il contenuto del messaggio. Immagine parziale ma non falsa del prodotto; enfasi sulle qualità, silenzio sui punti di debolezza: tutto ciò è eticamente ammissibile sino a quando non si reclamizza una cosa altra rispetto a quella che si trova in vendita o se si induce a credere che il prodotto regali non solo i benefici insiti nel bene stesso, ma anche l’immaginario di riferimento nel quale è incardinato nello spot. La rispondenza tra prodotto e messaggio non può che portare in termini di efficacia della pubblicità a rafforzare la relazione di fiducia tra pubblico e organizzazione. Se la rispondenza venisse a mancare, lo spot non sarebbe efficace e anche il marchio ne risentirebbe; 4) Arrivare ai media attraverso i quali il messaggio è veicolato. Sempre più rilevanza da un punto di vista etico pertiene la scelta dei media che veicolano il messaggio pubblicitario. La rete enfatizza il trend verso la spettacolarizzazione dei prodotti, poiché la competizione tra beni affini risulta sempre più spietata, complici i social media che fanno da cassa di risonanza e mettono i prodotti sotto il nostro sguardo, dispensandoci dalla fatica di andarli a cercare offline. A seconda del mezzo scelto entrano in gioco più sensi e più facile (o difficile) può essere persuadere un utente a compiere determinate scelte. La scelta del medium inoltre può stabilire il successo o l’insuccesso della pubblicità. Gli spot pubblicitari, su qualsiasi mezzo veicolati, seguono del resto le regole della comunicazione visuale. Le parole, scritte o recitate, si fanno immagine, lasciando da parte l’ordine discorsivo per sequenze, optando per un ordine a incastro, costituito da intersezioni, scambi concettuali, figure retoriche, ecc. niente, però, di paragonabile alla pubblicità in TV, che assorbe, ancora oggi, la quota più significativa degli investimenti delle imprese. Inoltre le immagini pubblicitarie in Tv, avvalorate dal movimento, hanno un potere persuasivo più forte. Ciò che è mostrato non viene emesso in discussione dal telespettatore, dando per scontato che le immagini “di cose reali” corrispondano alla realtà. Il business della pubblicità video però sta vivendo un profondo cambiamento. Sta entrando in crisi il modello basato su spot di lunga durata, non riuscendo più a trattenere l’attenzione del pubblico. Per affievolire il problema del sovraffollamento e per comunicare con un consumatore più attento ed esigente sono state esplorate nuove forme pubblicitarie personalizzate: da un pubblicità one-to-many siamo passati a una one-to-one, con messaggi mirati a creare nuovi punti di connessione tra prodotto e pubblico. La pubblicità per sopravvivere e costituire uno strumento utile per le scelte degli individui dovrebbe puntare sull’aspetto relazionale, indirizzando i creativi a una dimensione più morale, centrata sulla trasparenza e sulla fiducia. ETICA E COMUNICAZIONE POLITICA 1. COS’E’ E COM’E’ CAMBIATA LA COMUNICAZIONE POLITICA Vi sono diversi tentativi di periodizzare le trasformazioni nel campo della comunicazione politica. Tutti gli studi convergono nell’indicare una grande trasformazione a partire dagli anni Sessanta, con l’avvento della televisione, che ha dato luogo a quella che oggi viene comunemente definita la “mediatizzazioni” della politica. Ci sono 3 trasformazioni di cui tenere conto: a) Spettacolarizzazione della politica: un fenomeno per il quale gli aspetti superficiali, gli scandali e gli eventi in grado di fare audience predominano a scapito di aspetti più sostanziali, come l’analisi dei temi e dei programmi; b) Personalizzazione della politica: si sceglie una proposta politica in base all’appeal del leader, a quanto ci ispira fiducia come persona e a quanto sembra vicino a noi, e sempre meno in base ai criteri della competenza o alla capacità di presentare programmi politici definiti; c) Frammentazione del discorso politico: per venire incontro alle esigenze mediatiche si tende sempre più a ridurre il dibattito politico ai minimi termini, con quello che vinee chiamato l’effetto clip o il soundbites effect. Si iper semplificano i messaggi per renderli attraenti, riducendoli così a uno slogan o ad una battuta. Possiamo infine ricordare come la mediatizzazione della politica abbia portato sempre più al prevalere del marketing politico. Si studiano le preferenze degli elettori come si studiano le preferenze dei consumatori nel mercato, per offrire delle proposte politiche che vadano incontro ai loro “gusti”, e che vengono presentate e “impacchettate” secondo delle tecniche sempre più definite, e che tendono spesso a far assomigliare sempre più le diverse proposte politiche tra loro, o almeno il modo in cui esse vengono presentate. 2. LA COMUNICAZIONE SULLA POLITICA La comunicazione sulla politica è quella realizzata innanzitutto dagli organi di informazione, che hanno l’obiettivo di informare i cittadini riguardo gli eventi politici rilevanti. Questa comunicazione non può essere mai completamente neutrale, neanche quando si propone di esserlo. Ma oltre a questo aspetto vi è anche il fatto che sin dai primi studi sulla comunicazione ci si è posti il problema di quanto l’informazione sulla realtà sia anche costruzione della realtà. A investigare questo problema fu, già nel 1922, Walter Lippman (The Public Opinion). Secondo questo autore non è mai possibile avere una conoscenza diretta di un ambiente reale che è sempre “troppo complesso” e “troppo fuggevole”; il mondo dell’informazione ci consente di acquisire conoscenze sul mondo esterno, ma nel momento in cui le nostre idee “si riferiscono a fatti che sono fuori dal campo visuale dell’individuo”. Il mondo viene conosciuto attraverso immagini e segni, ossia attraverso quelli che Lippmann chiama “stereotipi”, che sono visioni semplificate (quando non distorte) della realtà circostante, e sono di fatto l’unico modo che abbiamo di rapportarci ad essa. Se il mondo dell’informazione non fa bene il suo lavoro, ossia se non c’è una classe di giornalisti non fa bene il suo lavoro, ossia se non c’è una classe di giornalisti indipendente che rende adeguatamente intellegibile il mono esterno (che non possiamo conoscere nella sua realtà), per la politica per i cittadini, allora la democrazia entra in crisi. Agenda setting: è il fenomeno per il quale i temi scelti come rilevanti dagli organi di informazione lo diventano anche per gli individui, i quali includono nel proprio orizzonte di conoscenze e riflessione ciò che viene proposto dai media, escludendo invece ciò che da essi non viene trattato. Riguarda l’elemento cognitivo, ossia il modo in cui le persone percepiscono i problemi e la loro rilevanza a seguito dell’esposizione mediatica. La teoria dell’agenda setting si è negli anni molto evoluta. Un primo snodo fu nell’osservare che i media in realtà non riescono tanto a convincere gli individui cosa pensare di fatti e problemi, ma sono determinanti nella selezione di ciò a cui essi decidono di pensare, fissano l’ordine di importanza dei temi. Agenda building: quando i temi scelti come rilevanti dagli organi di informazione hanno un impatto non sui cittadini ma sul sistema politico, inducendolo o anche imponendogli di confrontarsi con gli argomenti fissati dai media, a fissare le sue priorità a partire da essi. L’agenda building riguarda il terreno di confronto tra i diversi attori della comunicazione, e il percorso con il quale si fissano delle priorità politiche. Delle riflessioni hanno messo in luce come negli studi sull’agenda sia necessario prendere in esame non soltanto la notizia che viene proposta, ma il suo framing, ossia come essa viene “incorniciata”. I media, infatti, assai raramente si limitano a “riflettere” la realtà, e il più delle volte la presentano dentro una cornice, ossia la associano ad alcune caratteristiche che ne condizionano fortemente il giudizio (es. immigrazione – frame spesso negativo). 3. ETICA E COMUNICAZIONE SULLA POLITICA Ci sono diversi organi di informazione: a) Media organi di partito – la motivazione che li porta a privilegiare certe notizie e a proporle con un certo framing è naturalmente quella della ricerca del consenso politico. Per questi media valgono le considerazioni che si possono svolgere riguardo la comunicazione della politica; b) Media che non hanno una precisa appartenenza partitica, ma hanno una adesione molto chiara a dei valori (politici) che si propongono di promuovere. L’obiettivo di questi media è certamente legittimo e utile per la democrazia. Può succedere allora che perseguendo l’obiettivo di una informazione politica corretta un professionista dell’informazione attribuisca importanza a un evento perché corrisponde a quelli che sono i propri valori politici di riferimento, e lo caratterizzi con un framing positivo perché gli sembra corretto farlo. Tuttavia, se l’obiettivo è veramente quello di offrire una comunicazione imparziale sugli eventi politici, questo avverrà solo entro certi limiti, e i casi in cui avviene presumibilmente non saranno mai nella stessa direzione ma si bilanceranno. I casi nei quali il potere politico elargisce favori al sistema dell’informazione, avendo in cambio un trattamento di riguardo, sono purtroppo frequenti e hanno implicazioni etiche evidenti. Ma anche nei casi in cui questo scambio non avviene in maniera esplicita, è noto come gli organi di informazione dipendano dal potere politico per poter aver notizie di prima mano riguardanti la politica stessa, per averle prima dei concorrenti e via dicendo. Il fenomeno è probabilmente ineliminabile, e la sua rilevanza dipenderà in ultima analisi sempre alla correttezza etica degli attori dell’informazione e della politica, e rimarrà in molti casi non dimostrabile né sanzionabile. Si tratta di un tema importante, che spesso è la punta dell’iceberg di un rapporto malato tra politica e media, un rapporto sul quale la democrazia gioca la propria tenuta e credibilità, e che non andrebbe mai sottovalutato. 4. LA COMUNICAZIONE POLITICA La politica è comunicazione, ma è comunicazione retorica, volta a conquistare il consenso e a convincere l’interlocutore, o colui che ascolta, della bontà di alcune idee e di alcune scelte. a) La scienza è un’attività complessa e separata dalla società a cui, comunque, gli scienziati in quanto cittadini appartengono; b) Si tratta di un’attività che deve essere mantenuta separata dal potere politico per essere realmente oggettiva e affidabile; c) Quella separazione istituzionale fra scienza e politica è fondata sul, e giustificata dal, fatto che la scienza è avalutativa: gli scienziati scoprono fatti, mentre i politici perseguono valori e sono guidati da interessi; d) Per questo motivo, il governo può scegliere quanto e come finanziare la scienza, ma non può decidere quali indirizzi di ricerca debbano essere intrapresi; e) Ne consegue che l’attività scientifica propriamente intesa si svolge interamente all’interno delle istituzioni preposte; f) La comunicazione della scienza non è un compito che deve occupare lo scienziato sottraendogli del tempo che potrebbe dedicare ad attività ben più importanti e qualificanti, quali la ricerca e la formazione, e deve essere dunque svolto da figura ad essa preposte (es. giornalisti); g) Questo perché la comunicazione scientifica è un’attività di divulgazione, priva di vera rilevanza cognitiva, che ha l’unico compito di informare la cittadinanza colta dei più recenti risultati scientifici. Ciò che è rilevante sottolineare è che il paradigma di comunicazione scientifica, conosciuto come Public Communication of Science, è di natura difettiva (metodo top-down). Si parte da un fatto incontestabile e si traggono una diagnosi e una prognosi. Se secondo quell’approccio, infatti, è proprio la mancanza di formazione e competenza scientifica a stare alla base dei fenomeni di scetticismo o di aperta resistenza ai tentativi di implementare politiche fondate sul sapere esperto che caratterizzano la nostra società. E l’unico modo efficace di superare questa lacuna sarebbe di educare tutti i cittadini alla scienza raccontando loro i risultati, più o meno grandi, raggiunti dagli scienziati. Così facendo, attraverso riviste, giornali, trasmissioni televisive, la conoscenza scientifica è fatta penetrare fra ampi strati della popolazione, con lo scopo di migliorare la vita tanto dagli individui quanto delle comunità a cui essi appartengono. Ciò che non funziona è la mancata messa in discussione dell’idea per cui scienza e società siano due ambiti costitutivamente distinti, la cui unica modalità di interazione è quella prevista dal modello difettivo: una modalità, cioè, top-down, che concepisce i cittadini esclusivamente come persone da formare e gli scienziati come gli unici depositari di conoscenza affidabile. È bene capire a fondo le ragioni per cui si può dire che questo programma non funziona. Non funziona perché è eticamente inaccettabile: qualificare la gran parte della popolazione come mancante rispetto ad un determinato standard di conoscenza, soddisfatto da un ristrettissimo gruppo di persone, è una forma di elitismo moralmente offensivo, oltre che pragmaticamente sconsiderato. In fin dei conti, non è davvero credibile che, presi due termini della relazione, tutto il bene stia da una parte e tutto ciò che non va dall’altra. Il primo atto etico nel concepire la comunicazione scientifica è, dunque, la presa d’atto della natura relazionale dell’attività comunicativa. È un incontro creativo che comporta un arricchimento per tutti i partecipanti all’azione e che si struttura a partire dal riconoscimento della loro piena simmetria in quanto aventi pari diritti e pari doveri come membri di un agire collettivo. 2. RESPONSIBLE RESEARCH AND INNOVATION: UN NUOVO PARADIGMA DI RICERCA E COMUNICAZIONE Grazie ai lavori di Kuhn, i filosofi della scienza sono giunti a riconoscere l’esistenza di alcuni valori, chiamati epistemici, che svolgono un ruolo non emendabile nella ricerca scientifica (es. eleganza, semplicità, confermabilità) e contribuiscono alla giustificazione e alla scelta fra teorie alternative. Il passo che rimane da compiere è, dunque, quello di capire se un ruolo altrettanto inemendabile vada riconosciuto ai valori etici. Su questo punto un accordo non è ancora stato raggiunto; tuttavia, è possibile distinguere con chiarezza almeno 3 diverse posizioni: 1. La presenza dei valori etici nei casi in cui la ricerca scientifica ha a che fare con una materia eticamente sensibile per la comunità allargata di cui gli scienziati fanno parte (es. rifiuto di esperimenti su esseri umani); 2. La stessa cosa vale per quei valori morali come l’integrità o l’imparzialità che, a partire da Merton, sono stati riconosciuti come tratti caratterizzanti dell’ethos scientifico e, quindi, inderogabili; 3. Più radicale invece l’idea secondo cui i valori morali non si limiterebbero a imporre dei vincoli, per così dire esteriori, a quali corsi di indagine possono essere considerati permissibili, ma entrerebbero a definire la natura stessa del ragionamento scientifico. Eppure, anche in questo caso sono disponibili due argomenti molto forti a supporto di quell’idea. a. Primo argomento (rischio induttivo) – è molto semplice, sono sufficienti 2 premesse: 1) i dati sperimentali, per quanto affidabili essi siano, possono rendere più o meno probabile una certa teoria, ma non possono mai giungere a verificarla in modo completo; 2) accettare o rifiutare una teoria o una determinata proposizione è una parte integrante del lavoro scientifico. Dalla congiunzione di queste due premesse segue che lo scienziato deve necessariamente fare riferimento a una qualche preferenza valoriale nella sua attività scientifica, in quanto deve decidere quanto alto debba essere il grado di probabilità di una teoria per strappare il suo assenso; b. Secondo argomento – alcuni concetti possiedono un contenuto descrittivo e, allo stesso tempo, esprimono una presa di posizione normativa su quel materiale. Si può sostenere che concetti come rischio, benessere, salute e malattia, dipendenza, biodiversità debbano essere considerati dei concetti spessi che fanno riferimento a un vasto spettro di valori etici, sociali, estetici. La tesi è che non è possibile operare strategie separazioniste rispetto ai due elementi; non è possibile, cioè, fissare il contenuto descrittivo del concetto indipendentemente dall’adozione di una prospettiva valoriale su di esso (es. non siamo in grado di calcolare e valutare il benessere di una persona o di un popolo se non abbiamo prima stabilito che cosa riteniamo costituisca una vita buona). I due argomenti presi insieme convergono nel sostenere una tesi molto forte. Dal momento che nelle nostre società contemporanee non esistono esperti morali riconosciuti, le scelte in questo campo diventano materia di discussione pubblica. È necessario, dunque, una diversa comprensione dei rapporti fra scienza e società, che metta capo a un nuovo modello di governance. Questo nuovo modello va sotto il nome di Responsible Research and Innovation (RRI). La RRI è un processo trasparente e interattivo grazie al quale gli attori sociali e gli innovatori diventano mutualmente responsabili gli uni verso gli altri, al fine di promuovere l’accettabilità (etica), la sostenibilità e la desiderabilità sociale del processo di innovazione e dei suoi prodotti commercializzabili (per consentire un’inclusione adeguata dei miglioramenti scientifici e tecnologici nella nostra società). L’obiettivo della RRI è di riuscire ad andare oltre, superandole, le unilateralità dei precedenti modelli di Governance. Non basta che gli effetti sociali della ricerca e dell’innovazione siano positivi; deve essere anche difesa e preservata la libertà dei cittadini di decidere se quegli effetti, per quanto benefici, siano o meno da perseguire. La RRI si ispira a 6 principi fondamentali: 1. Gender equality; 2. Open access tanto dei dati quanto dei risultati scientifici; 3. Educazione scientifica, volta a promuovere competenze scientifiche presso la popolazione; 4. Public engagement, attraverso il coinvolgimento nella ricerca dei soggetti interessati; 5. Etica, nei termini della discussione dei principi rispetto a cui valutare la ricerca; 6. Governance, avente come obiettivo l’integrazione dell’idea di ricerca responsabile nei meccanismi istituzionali. Con la sola parziale eccezione della governance, che si muove in un contesto più ristretto come quello istituzionale, tutti gli altri cinque principi sono strutturalmente imperniati sulla comunicazione. Una concezione dell’atto comunicativo che si voglia all’altezza della complessità dei modi di interazione fra i cittadini e sapere scientifico non può che essere pluralista. Quale sia il tipo di comunicazione maggiormente adatto alle circostanze dipende, infatti, dallo scopo perseguito. Non sorprende, quindi, che occorrano dei format comunicativi diversi, che sollevano, ognuno, delle specifiche questioni etiche. 3. COMUNICARE NELL’INCERTEZZA: ETICA ED ERMENEUTICA DELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA All’interno di ogni tipologia comunicativa, l’obiettivo etica da perseguire deve essere quello di aumentare al massimo la libertà di chi vi prende parte, in modo tale da poter rendere quella pratica informativa il più possibile eticamente e cognitivamente rilevante. In numerosi casi, Grunwald ha cercato di riabilitare una nozione complessa di responsabilità, che superi il modello puramente consequenzionalista di valutazione del rischio nei termini delle conseguenze previste. Questo modello è affidabile soltanto nella misura in cui le conseguenze sono note e il rischio è calcolabile. Il problema è che, nel caso dell’innovazione tecno-scientifica, un tale calcolo è altamente problematico dal momento che ci muoviamo in condizioni di estrema incertezza. E quando l’incertezza è talmente elevata, la comunicazione scientifica fa fatica a svolgere il proprio compito informativo, andando a soddisfare quei criteri che, comunemente, la costituiscono come buona. Il criterio di efficacia che guida la comunicazione scientifica in casi di estrema incertezza è, piuttosto, “ermeneutico”: attraverso l’elaborazione e la comunicazione di narrazioni che presentano degli scenari alternativi si possono stimolare dei percorsi riflessivi che coinvolgono tutta la cittadinanza, con l’obiettivo di aumentare il grado di consapevolezza rispetto alle scelte valoriali, agli interessi, ai timori e alle aspettative di quella comunità. La comunicazione scientifica produce così conoscenza preziosa sulla natura della comunità, aprendo così nuovi spazi di azione e nuovi campi di ricerca che preludono a un miglioramento nella qualità delle scelte responsabili. La sfida della comunicazione scientifica è, dunque, quella di applicare norme generali a casi particolari, avendo a che fare con un materiale come il sapere scientifico che non soltanto è complesso, ma è anche politicamente e socialmente controverso, come dimostrano le resistenze a cui dà luogo presso la società civile. 4. TRE PROBLEMI DI ETICA DELLA COMUNICAZIONE 1) Una delle caratteristiche più evidenti del sapere scientifico è la difficoltà, per chi non è competente, a comprenderne e maneggiarne i linguaggi specialistici. Chi comunica ha, quindi, il compito di individuare un piano linguistico che sia sufficientemente ricco e accurato per presentare in modo fedele al pubblico di non medico, deve infatti essere chiara e veritiera, espressa in maniera personalizzata rispetto alle capacità e alle peculiarità del paziente. Il consenso, poi, deve essere espresso in modo esplicito, senza essere delegato a terzi (se non in casi specifici). Al modello dell’informazione è quindi il caso di sostituire quello della comunicazione, la quale fornisce anche all’idea di “consenso” una maggiore tridimensionalità. Ciò che interessa non è solo l’oggetto che viene trasmesso, ma anche come ciò avviene. L’uso del consenso informato come burocraticamente obbligatorio potrebbe aumentare ancora di più la distanza tra medico e paziente se visto come strumento al quale delegare l’atto informativo o favorire una “comunicazione paradossa” in cui, ancora una volta, la brutale sincerità del pezzo di carta contrasta con l’insincerità o vaghezza del medico. Per essere uno strumento adeguato della comunicazione medico-paziente,, il consenso informato deve quindi smettere di essere riducibile all’autorizzazione per mezzo di una firma ad un trattamento, e divenire un processo composito di elaborazione di proposte determinate dal continuo confronto tra medico e paziente, in cui il primo ha il compito di comprendere e conoscere il vissuto, l’interiorità, il contesto del secondo, mentre quest’ultimo apprende dal medico quegli aspetti tecnici e scientifici che corrispondono alle competenze della sua professione. 4. TRA PATERNALISMO E AUTONOMIA: IL MATERNALISMO Sia nel modello paternalistico che in quello dell’autonomia si profila il rischio di un’incrinatura nella relazione e nella comunicazione interna ad essa. L’idea di autonomia che sempre più si è diffusa nella nostra cultura, andando quindi a ripercuotersi anche nell’ambito medico, tende pericolosamente a un individualismo. Non si cerca quindi di superare la subordinazione nella relazione, bensì di evitare la relazione stessa. Vanno in questa direzione, ad esempio, forme di autodiagnosi favorite dalla diffusione del web. Questa idea di autonomia, oltre a non favorire la comunicazione, non descrive adeguatamente la nostra realtà: non siamo mondai autosufficienti, ma esseri coinvolti in una rete di relazioni, vulnerabili, dipendenti e sempre esposti alla fragilità. Il medico e il paziente, infatti, si trovano in posizioni notevolmente differenti, sia per quanto riguarda le competenze tecnico-scientifiche, sia per ciò che concerne il coinvolgimento emotivo e la lucidità nell’affrontare la situazione. Non è quindi possibile eliminare queste differenze, e non è nemmeno opportuno. Ciò che deve essere ripensato è invece la lettura del rapporto in termini di controllo e prevaricazione: il medico e il paziente non sono avversari, che cercano di prevalere l’uno sull’altro. Essi sono piuttosto alleati per un obiettivo comune, ossia la salute del paziente, svolgendo ognuno il proprio ruolo per raggiungerlo. A questo proposito ci sembra quindi interessante la proposta di un modello legato al rapporto famigliare, attraverso la meno diffusa nozione di “maternalismo”. Le ragioni che ci spingono a parlare di “maternalismo” sono principalmente 2: a) Da un lato il fatto che al paternalismo sia associata una componente autoritaria e coercitiva assai radicata culturalmente non consente di risemantizzare il discorso; b) Il paradigma materno è stato oggetto di numerose riflessioni nell’ambito dell’etica della cura, che risultano molto utili anche per quanto riguarda il terreno bioetico. Seguendo ad esempio le riflessioni di Virginia Held possiamo vedere come al rapporto basato sulla reciprocità dello scambio propria del modello del contratto, nel caso della maternità si presenti piuttosto un modello oblativo basato sul dono. Sono poi le idee stesse di libertà e di volontà ad apparire completamente modificate, poiché una volta instaurata una relazione madre-figlio, così come in quella tra medico e paziente, l’esercizio del proprio volere e della propria libertà non può che dipendere dall’altro, autolimitandosi per salvaguardare la relazione. Potremmo infatti riassumere questo modello attraverso 3 principali nozioni che descrivono i caratteri che medico e pazienti devono acquisire per la riuscita della comunicazione e della relazione: 1) Responsabilità – imputabilità giuridica + responsabilità che ci rimanda alla nostra capacità di rispondere a una chiamata e quindi al nostro impegno etico all’ascolto ricettivo rispetto ai bisogni e ai desideri dell’altro (il medico deve porsi come aperto al paziente per accogliere e decifrare il suo pensiero e il suo stato d’animo. Il lavoro di diagnosi si fonde quindi in modo indissolubile a un’attenzione al sentire del malato. L’ascolto è quindi un ingrediente fondamentale perché la risposta sia adeguata e porti all’instaurarsi di una comunicazione efficace. Non solo il medico, ma anche il paziente deve mostrarsi responsabile); 2) Fiducia – che rappresenta il centro nevralgico della buona comunicazione e della buona relazione. Nel rapporto con il medico il paziente deve inizialmente compiere un atto di fiducia nel richiedere aiuto e nel condividere una parte così fondamentale di lui con una figura estranea, ma tale fiducia non deve rimanere cieca, bensì, attraverso il rapporto, deve rafforzarsi tramite prove e riscontri oggettivi, che confermino la bontà delle intenzioni e dell’agire medico. La fiducia si sviluppa quindi grazie alla relazione stessa. Un’asimmetria che non risiede, come abbiamo detto, nell’esercizio del potere, bensì nella responsabilità nei confronti dell’altro, poiché il medico, anche a causa delle sue conoscenze e competenze, assume su di sé il ruolo di tutela e di guida. Il paziente viene quindi accompagnato in direzione dell’acquisizione della sua autonomia, che non significa indipendenza dal legame, bensì nel legame; 3) Empowerment – indica la “tendenza a dare più potere, più coinvolgimento nelle decisioni ai pazienti, al di là del consenso informato”. Ciò che infatti deve essere accresciuto nella relazione terapeutica non è tanto il potere del paziente, quanto le sue capacità, ossia la conoscenza del suo stato attraverso un’informazione completa e chiara. ETICA E COMUNICAZIONE INTERCULTURALE 1. DALL’ASSIMILAZIONE ALL’INCLUSIONE La comunicazione interculturale può essere ormai ritenuta una disciplina affermata, e da essa ci si aspetta l’elaborazione di modelli e d’indicazioni pratiche in grado di minimizzare gli esiti indesiderati dei potenziali conflitti suscitati dall’incontro fra “culture”. In generale l’incontro interculturale, di cui le differenze sono elementi caratterizzanti, pone non solo un certo numero di problemi comunicativi in senso stretto, a partire da quelli linguistici, ma anche problemi e questioni di tipo etico. In particolare il problema principale, tenuto conto del fatto che viviamo in società ormai irreversibilmente complesse e multiculturali, è proprio quello d’individuare strategie efficienti per un trattamento eticamente corretto delle “differenze”. La difficolta è che mentre i conflitti etici nelle società multiculturali pretenderebbero una soluzione interculturalmente orientata, i modelli di riferimento sono ancora fondati sulle tradizionali categorie dell’etica occidentale. L’assimilazione continua a essere la strategia più praticata per regolare la convivenza fra diversi, benché ci si convince sempre più che sia inadeguato a prevenire e comporre i conflitti interculturali. A loro fondamento sta la radicata convinzione che lo straniero in quanto è ospite sul “nostro” territorio debba più o meno gradualmente adeguarsi non sono alle “nostre” leggi, ma anche al “nostro” insieme di credenze e comportamenti condivisi e in definitiva ai “nostri valori”. Questa strategia si è già dimostrata poco perseguibile nei Paesi che l’hanno adottata nel passato. Si fa quindi evidente anche il carattere non-etico dell’assimilazione, perché a suo fondamento non sta il rispetto della differenza, quanto piuttosto la convinzione, e sia pure inconsapevole, che “sia meglio” per l’altro diventare come noi. L’atteggiamento assimilazionistico, in definitiva, è l’espressione più diretta di un modo d’intendere l’approccio etico all’interculturalità che non fa del dialogo – ossia di una particolare interazione comunicativa che presuppone una condizione di simmetria fra gli interlocutori – il proprio presupposto, ma che pone l’altro di fronte a quell’alternativa di: “o ti convinci che il mio sistema etico- culturale è il migliore, o esci dal gruppo”. Nel corso del tempo, al concetto di assimilazione si è venuto progressivamente sostituendo quello di “integrazione”, che sottolinea maggiormente la necessità di un’interazione fra “noi” e “loro” fondata sul confronto con le differenze intese non come qualcosa da superare, ma come un elemento di arricchimento reciproco. L’integrazione non esclude, com’è ovvio, qualche elemento di assimilazione. Tuttavia, a questo presupposto si aggiunge l’altro per il quale anche “noi” dobbiamo essere disposti a un atteggiamento di apertura nei confronti della diversità. Naturalmente, è bene sottolinearlo, l’alternativa tra assimilazione e integrazione non è né radicale né netta, mentre è vero piuttosto che le concrete strategie messe in atto soprattutto a livello istituzionale si trovano sempre collocate in un qualche punto situato fra i due poli. Infine, non si può dimenticare il sempre più diffuso riferimento al concetto di “inclusione”, il cui principio etico di riferimento è il “rispetto”, in particolare “l’eguale rispetto per chiunque”. Lo scopo della comunità è dunque quello di eliminare discriminazione o sofferenza e di includere gli emarginati nell’ambito reciproco del rispetto. Il problema, con questa e simili posizioni, è che l’inclusione finisce per essere ricondotta a una cornice di riferimento morale – basta su “rispetto” e “responsabilità solidale” – che non riesce a dir nulla sulle concrete strategie etico-comunicative da mettere in campo quando coloro che sono “reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere” entrano in conflitto aperto. 2. FRA DIRITTO ED ETICA Le differenze sul piano dei valori generano piuttosto facilmente conflitti nelle situazioni concrete, l’imperativo di rispettarle può creare, e crea, problemi teorico-pratici in ordine all’elaborazione di possibili soluzioni pacifiche dei conflitti. A questo proposito, si possono individuare due principali modelli di riferimento per elaborare strategie di composizione di tali conflitti: 1. Si dovrebbe procedere a una soluzione caso per caso, accettando lo svantaggio consistente nell’impossibilità di estendere le soluzioni adottate, se non alle situazioni simili e sempre con la dovuta attenzione per le differenze rintracciabili nel caso presente; 2. Si dovrebbero piuttosto predisporre interventi dall’alto (dalle istituzioni) mirati a imporre in una qualche misura il rispetto delle differenze, cercando di contemperare le posizioni di tutti gli attori presenti nel contesto di riferimento. Quest’ultima soluzione è quella più spesso adottata, perché apparentemente più semplice e più equa. Essa fa principalmente riferimento al “diritto” e ai suoi prodotti come strumenti in grado di regolare le interazioni fra gli attori sociali in modo “imparziale” e “non-valutativo”. Il processo si articola nell’individuazione di “principi primi” di convivenza gerarchicamente ordinati e nella predisposizione di “regole giuridiche” uguali per tutti gli attori. Come appare naturale, a livello internazionale, o globale, il documento che più immediatamente ha a che fare con l’elaborazione di un sistema etico-giuridico di criteri per la comunicazione interculturale è la
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