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Riassunto "Hans Kelsen" (T. Gazzolo), Schemi e mappe concettuali di Filosofia Politica

Hans Kelsen. Norma. Fondamento. Nichilismo. Colpa. Democrazia. Gazzolo spiega in maniera molto lucida e comprensibile i diversi termini sopracitati che compongono la filosofia del diritto di Hans Kelsen. Io presento un riassunto conciso di circa 6 pagine.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

In vendita dal 30/11/2022

emmccit
emmccit 🇮🇹

4.5

(20)

40 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Hans Kelsen" (T. Gazzolo) e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! HANS KELSEN (T. Gazzolo) Introduzione Che cos’è il diritto? Questa domanda oggi non è più avvertita come interrogativo che ci riguarda da vicino, non può che sembrare una inutile perdita di tempo, una questione “teorica”, ciò che davvero occorrebbe sapere è cosa sia di diritto – quali sono le leggi vigenti che regolano un determinato caso – e non cosa sia il diritto. Eppure, la risposta alla domanda quid iuris? (qual è la norma di legge applicabile al caso specifici?) presuppone la risposta alla domanda quid ius? – è solo quando si sa cos’è il diritto che si può valutare se ciò di cui facciamo esperienza ogni giorno appartenga ad esso. A questa domanda viene fata una risposta anche se inconsapevolmente. La filosofia di Hans Kelsen (1881-1973) prende il nome di “dottrina pura del diritto”, la quale si propone di pensare al diritto in quanto diritto. Kelsen difenderà la “purezza” e si opporrà di pensare al diritto come altro: giustizia, forza, politica, morale, pratica sociale, ecc. Il diritto è la “categoria trascendentale” del dover-essere, e in quanto tale è separato dal mondo dell’essere. Il fatto che un parlamento approvi una legge, il fatto che qualcuno ordini qualcosa, è solo un fatto: non può essere motivo di considerare quella “legge” o quel “comando” come norma valida. Il diritto non può essere un mero fatto. E allora, come si passa al diritto? Norma (pag. 11-24) Parliamo di legge in tanti modi diversi. Kelsen lo nota immediatamente, sia nel linguaggio ordinario sia nei linguaggi tecnici delle scienze. “Leggi” sono tanto le leggi naturali quanto le leggi proprie della morale, o della religione, ossia le leggi propriamente giuridiche. Le leggi naturali si riscontrano nelle leggi della fisica, che esprimono regolarità riscontrate nei fenomeni naturali. Queste non sono comandi, non dicono cosa si deve fare, che cosa deve accadere nel mondo, spiegano solo ciò che effettivamente accade. Quel che accade in natura si verifica nel mondo dell’essere (questo include tutto ciò che accade). Si parla allora di leggi della fisica nel mondo dell’essere per riferirsi al fatto che, all’accadere di un certo fatto, la conseguenza deve necessariamente verificarsi. Si parla di “leggi” perché sanciscono un “dovere”. Questo “dovere” ha significati diversi a seconda se si riferisca a leggi della natura o leggi del diritto. Nel primo caso, dire che qualcosa deve accadere significa dire che è impossibile che non accada. “Dovere” in questo caso si traduce con “mussen”, che dà l’idea di una necessità sul piano di ciò che accade, che Kelsen collegherà a un nesso causale tra un antecedente e ciò che ne consegue. Diverso è ciò che ne diciamo di una legge, una norma giuridica: “dovere” tradotto con “Sollen” esprime qualcosa che deve essere fatto. Le leggi giuridiche non affermano un accadere reale ma lo pretendono: non dicono che qualcosa deve necessariamente accadere così, ma che deve verificarsi. Proprio perché “deve” verificarsi, non è detto che davvero si verificherà, che davvero accadrà: es. che il cittadino deve pagare le tasse non implica che lo farà. Non ha senso comandare ciò che comunque e necessariamente accadrà, per questo il dovere normativo prescrive, pretende che accada, perché presuppone che di fatto possa non accadere. La legge naturale spiega i fenomeni, la legge giuridica non spiega come è fatta la realtà o ciò che accade nel mondo, anzi dice come il mondo deve essere. Questa distinzione, tra legge naturale e norma, può essere assicurata solo se si presuppone la separazione tra essere e dover essere (sein e sollen), tra la sfera di ciò che accade e la sfera di ciò che deve accadere. Per Kelsen, affermare il dover-essere [la norma è un’imposizione che segue lo schema se A allora B] della norma significa riferirsi a due cose: - L’”essenza” della norma, ciò che rende la norma quel che è. Il dover-essere è ciò in cui la norma consiste. La norma non è regola di condotta o prescrizione, ma relazione di dover-essere; - L’”esistenza” di una norma, cioè come una norma può dirsi esistente. Il sollen, qui, si riferisce al dover essere osservata della norma: questa esiste solo in quanto è valida. È “valida” perché appartiene all’ordinamento giuridico. Esiste – in questo contesto – nella misura in cui esiste il dover osservarla, “l’uomo si deve comportare nel modo previsto dalla norma”. Il dover-essere non è pensabile, non si può fare esperienza di esso, se non nella misura in cui la scienza giuridica riformula le norme giuridiche esistenti, quali proposizioni ipotetiche: se A, allora B. La norma giuridica è: se è stato commesso un illecito, allora deve essere punito [SE F ALLORA S]. Nella quotidianità, la norma si presenta come divieto o obbligo, es. “non si deve rubare”. Qui il dover-essere si riferisce all’azione del rubare, quindi faccio esperienza del dover-essere (D.E.) dell’azione non del D.E. della norma. La norma è tale in quanto è pensabile come dover-essere. Ciò che rende una norma una norma è il presentarsi come relazione tra illecito e sanzione (antecedente e conseguenza). Il dover-essere della norma è difatti questo: questa relazione di dover-essere in cui consiste. La norma non dice che se verrà commesso un delitto, allora sarà punito (che all’illecito seguirà la sanzione), perché è possibile che di fatto che a un furto non segua alcuna punizione se ad es. il ladro non viene scoperto. La relazione tipica del diritto è ciò che Kelsen chiama relazione di imputazione, quella attraverso cui la sanzione viene all’illecito, nella modalità del dover-essere. La sanzione è imputata all’illecito, non è effetto dell’illecito, non segue, ma deve seguire all’illecito. La relazione causale dice che è impossibile che la conseguenza non segua alla causa (se A, allora B); l’imputazione dice il dover essere della sanzione rispetto all’illecito. Il dover-essere in cui consiste la norma non coincide col il dover-essere osservata della norma; coincide con la relazione di imputazione che la norma esprime e che determina il rapporto tra illecito e sanzione (come pensabile solo attraverso il dover essere). La normatività della norma è nomologica: non consiste nell’obbligo di osservare la legge, ma nel modo in cui collega due fatto – illecito e sanzione – nella forma di dover essere. Si tende a dire che per Kelsen, la scienza giuridica ha il compito di descrivere il diritto per quello che esso è. Ma solo la scienza giuridica rende pensabile il diritto e conoscerlo come dover-essere. Solo grazie ad essa la norma viene determinata in modo da poter essere conosciuta come norma. Per come si danno nei codici legislativi, le norme affermano sempre e soltanto il dover essere dell’azione a cui si riferiscono; non sono mai determinate come dover-essere: solo la scienza giuridica consente di pensarle come norme. Questo spiega il carattere atemporale del diritto: il dover-essere non è nel tempo, nel tempo l’azione è sempre presa in considerazione in quando accadde, è sempre pensata come essere, come fatto reale. La norma, come dover- essere dell’azione, considera l’azione in quanto accaduta nel mondo dell0essere, per poi limitarsi a qualificarla come dovuta (dovere-di-essere dell’azione). La norma non si riferisce ad un’azione che accadrà nel tempo, in quanto comportamento dei soggetti nell’essere, comportamento reale, MA la norma pensata nei termini della scienza giuridica si riferisce solo a due termini: illecito e sanzione. La norma non si dà mai nel tempo perché non è una relazione di causalità, ma di imputazione. Kant sosteneva che la successione temporale è possibile solo attraverso quella causale: la causalità spiega il tempo. È perché qualcosa è causa di un effetto che lo precede nel tempo. Per questo Kelsen sostiene che il delitto non causa la pena, la pena non segue il delitto, e pertanto l’uno non avviene prima dell’altro: la pena non segue il delitto come un’azione che accade nel tempo, che viene dopo di essa. La norma è una relazione atemporale di imputazione tra un antecedente e un conseguente. La norma esiste in quanto valida, ossia appartenente a un ordinamento giuridico. La validità implica l’obbligatorietà, ossia implica che la norma esiste in quanto deve-essere osservata. Kelsen sta dicendo che ciò che accade sul piano dei fatti non può mai farsi esperienza di una norma in quanto tale, ma solo esperienza di fatti. Nel mondo dell’essere si può fare esperienza del fatto che una certa norma “esiste”, es. si può fare esperienza del fatto che certe persone si sentano obbligate a fermarsi al semaforo rosso, perché riconoscono l’esistenza di una certa norma. Tutto ciò, però, non è che “sociologia” del diritto, una spiegazione di fatti o del perché si adottano certi comportamenti determinati dal riconoscimento di norme. Quando Kelsen insiste sul fatto che la sua è una teoria del diritto positivo dice che il diritto (per quanto consista nel dover essere) non è né un ideale astratto – qualcosa che non ha a che vedere con il modo – né qualcosa che esiste altrove – “concetto trascendentale di diritto”. Il diritto è solo diritto positivo: non esiste altro diritto se non quello posto da determinate autorità. Le norme di cui facciamo esperienza sono quelle presenti nella realtà, e quindi sono sempre il lor fatto. Non è il fatto che esistono a renderle norme, ma il loro carattere di dover-essere, il dover-essere-osservate. La norma pone un obbligo giuridico, es. quello di non rubare. Il dovere giuridico consiste nell’osservanza di un comportamento, con il quale si evita l’illecito. La norma si applica proprio quando non viene osservata. La norma pone l’obbligo di osservare il comportamento prescritto, ma non è in grado di rendere obbligatoria l’osservanza stessa, non può obbligare a rispettare l’obbligo stesso. Es. “non devi rubare” (Norma 1): esiste il dover-essere osservato del comportamento, ma non il dovere di osservare la norma. per far sì, si dovrebbe creare una Norma 2 che dica: “devi osservare N1”. Ma a quel punto non dovrei chiedermi perché dovrei osservare la Norma 2? Allora si deve aggiungere una Norma 3 che implichi l’osservare la Norma 2, e così all’infinito? Fondamento (Pag. 25-35) Di una norma isolatamente considerata non è possibile affermare la validità, e dunque l’esistenza. Le norme esistono solo nella misura in cui sono articolate all’interno di un ordinamento giuridico, l’unità di pluralità di norme giuridiche. Unità in quanto le norme – disposte in maniera tale da avere validità – sono ricondotte ad una medesima “fonte”. L’ordinamento è una struttura gerarchica, tale per cui la validità di una norma risiede sulla validità di una norma superiore e così via, sinché non si arriva al vertice della piramide ad una norma – che rende valide di rango inferiore – che a sua volta non potrebbe essere detta valida, perché non c’è nessuna norma sopra di essa che possa conferire tale validità. La costituzione è il vertice più elevato delle norme esistenti, ma se essa è valida allora non può essere il vertice. Ma se la costituzione non è valida, come possono esserlo le norme al di sotto nell’ordinamento? quanto norma è accettare di dover-essere puniti. Suggestiva la vicinanza a Kafka e al suo romanzo “Il processo”; il protagonista Josef K. è consapevole, non di un’azione che ha commesso, ma perché è stato chiamato nel processo a rispondere avanti alla legge, e quindi solo per questo deve-essere punito. Lui si ostina a protestare la propria innocenza, il che è impossibile perché la legge, per il solo fatto di rivolgersi a lui, lo rende colpevole. Kelsen ha toccato il carattere mitico del diritto e lo ha fatto scoprendo che il principio di imputazione è più antico di quello di causalità, un principio primitivo. Per l’uomo primitivo le relazioni tra eventi sono relazioni di imputazione: ciò che accade di dannoso è una punizione per un comportamento sbagliato. Ovviamente quella di Kelsen non è la ricostruzione dell’effettiva successione storica dei fatti. A Kelsen preme di sottolineare che c’è qualcosa di «primitivo» che rimane nel diritto. Anche se l’una implica l’altra, non c’è coincidenza tra libertà e colpa. La legge non restituisce davvero la libertà all’essere umano. Non c’è bisogno della punizione per essere colpevole. Il concetto di colpa è un concetto esclusivamente normativo, che non fa riferimento ad alcuna «interiorità» né ad alcuna «volontà» dell’individuo. Non spiega nulla: dire che qualcuno è colpevole non significa spiegare perché. La sentenza che attribuisce una colpa a una persona non asserisce nulla su un fatto psichico nella interiorità dell’essere umano. Non si è colpevoli perché si è voluto o previsto qualcosa, ma perché non si sarebbe dovuto commettere o impedire questo qualcosa. L’assassino non è colpevole perché ha voluto uccidere la propria vittima, ma perché l’uccisione intenzionale di un essere umano è un atto che contravviene una norma. Per questo nozioni come «volontà», «psiche» e «essere umano» non giocano alcun ruolo. Kelsen separa la colpa da ogni considerazione psicologica e naturalistica. Il sentirsi o meno colpevoli non ha alcuna rilevanza nell’ottica del diritto. Democrazia (Pag. 61-69) Kelsen ha chiamato «dottrina pura del diritto» la sua filosofa del diritto. Che cosa significa conoscere il diritto? E cosa indica «pura»? La sua teoria del diritto ha lo scopo di «assicurare una conoscenza rivolta soltanto al diritto», si propone di eliminare da tale conoscenza tutto ciò che non appartiene al suo oggetto esattamente determinato come diritto. La dottrina è «pura» nella misura in cui si rivolge esclusivamente al diritto e il suo oggetto è solo ciò che è esattamente determinato come diritto. Secondo Kelsen è impossibile conoscere il diritto in quanto altro da se stesso, e non in quanto diritto. Se la dottrina è «pura», nel senso che conosce il diritto per come esso è, conosce il diritto nel suo essere diritto. Per questo, il diritto positivo non sta davanti alla dottrina come un «oggetto», come un essere. Qui la polemica con Emil Lask: il diritto positivo non è un semplice dato; la scienza giuridica non crea diritto, il suo oggetto esiste al di fuori di essa: il diritto è da essa conosciuto e non prodotto. Si comprende il «metodo» della purezza. Il diritto, come dover-essere, non è semplicemente l’«oggetto» che è dato, dall’esterno, alla scienza giuridica. Il metodo è ciò che consente di determinare il proprio oggetto nella sua «oggettualità», in ciò che lo rende oggetto possibile di una scienza. Metodo è ciò che definisce un ambito, il campo dell’esperienza possibile in cui il diritto può presentarsi ed essere conosciuto come diritto. Metodo e oggetto, scienza del diritto e diritto, sono per Kelsen inseparabili perché non c’è esperienza possibile del diritto se non a partire dalla determinazione che lo rende tale, la determinazione è fornita dal «metodo»; non si fa esperienza, ma ogni esperienza è fondata su di essa. Il secondo significato dell’aggettivo «puro» sta nel senso che la dottrina è pura nella misura in cui è ciò che definisce le condizioni a propri dell’esperienza possibile del diritto in quanto diritto. Il principio di imputazione è la condizione trascendentale che rende possibile l’esperienza del diritto in quanto diritto. quando la scienza giuridica riformula, attraverso la proposizione giuridica, il contenuto di una norma effettivamente evidente non sta semplicemente «descrivendo» il diritto. È solo per la proposizione giuridica che posso fare esperienza delle norme in quanto norme, perché la proposizione giuridica dà ad esse la forma del dover-essere. La proposizione giuridica è ciò che determina il diritto come oggetto della conoscenza; questa è kantianamente la finzione oggettiva della conoscenza e del giudizio. Qual è dunque il compito dello scienziato del diritto? Quello di conoscere il diritto come è, non per come dovrebbe essere. Ma questo «per come è» significa l'opposto di una semplice descrizione di come effettivamente si presenta. Nella realtà effettiva, nell'essere, il diritto non appare mai. Il «formalismo giuridico» kelseniano non significa giustificazione del diritto esistente, ma che il diritto esistente può essere giustificato come diritto, in quanto esso si lascia pensare come dover essere. La sorte del diritto dipende essenzialmente dalla scienza giuridica. È la scienza giuridica a decidere della possibilità del diritto. Non ci può essere diritto senza scienza giuridica, che lo determini come tale. «Salvare» il diritto significa poterlo determinare in maniera tale da conoscerlo come dover-essere, e nient'altro. La teoria di Kelsen è stata più volte accusata di prestarsi a giustificare qualsiasi ordinamento, sulla base del fatto che per ogni ordinamento sarebbe sempre possibile presupporre la relativa Grundnorm. Dal momento che, per Kelsen, non è la giustizia, ma la norma fondamentale a fondare il diritto in quanto tale, anche un diritto ingiusto sarebbe sempre comunque diritto, per il solo fatto di essere stato posto. Non è compito che ci proponiamo qui quello di rileggere la teoria della democrazia di Kelsen dal punto di vista della filosofia politica o della storia del pensiero politico. Piuttosto si tratta di capire come la radicale impotenza della democrazia la elegga al contempo ad unico meccanismo che rende possibile il diritto. La parola democrazia, in Kelsen, indica quella forma di legame sociale che non si fonda su qualcosa di dato, su un fatto indubitabilmente accertato, ma su un «vuoto»: democrazia c'è soltanto quando nessun «fatto» occupa il posto del fondamento del legame sociale stesso, quando le istituzioni e le dinamiche politiche funzionino nel senso di mantenere sempre vuoto, per lo spazio del potere, il luogo in cui dovrebbe trovarsi ciò che la giustifica. Solo nella democrazia è possibile il diritto, l'esperienza giuridica, la possibilità di conoscere il diritto in quanto diritto. Perché solo questa forma di legame sociale lascia «vuoto» il fondamento del diritto. È l'essenza non nichilistica del nichilismo kelseniano: solo in quanto si fonda sul nulla, il diritto è salvo. Non ogni ordinamento può essere pensato come giuridico. Deve infatti superare la prova delle proprie condizioni di possibilità. È del tutto ovvio che il diritto può avere qualsiasi contenuto: «non esiste alcun comportamento umano che non potrebbe formare contenuto di una norma giuridica». Non significa affatto che qualsiasi sia il contenuto del diritto di un certo ordinamento sia sempre comunque giustificabile attraverso la norma fondamentale. Il diritto richiede che nessun contenuto vado ad occupare il posto del suo fondamento che deve rimanere vuoto. Democrazia dice esattamente questo: non un particolare determinato aspetto istituzionale ma innanzitutto una forma di legame sociale, quella forma che non predetermina alcun contenuto politico specifico: il fatto che, dal concetto di democrazia, non sia possibile derivare e ricavare alcun contenuto specifico e particolare implica esattamente l'idea che alla base di questo legame non vi sia propriamente nulla, nessuna verità assoluta, nessun valore, nessun contenuto. Se la democrazia potesse essere fondata su qualcosa, essa semplicemente non potrebbe essere democrazia: l'unica cosa da fare sarebbe realizzare quel bene, quel valore. Non è corretto sostenere che il positivismo kelseniano permette di giustificare qualsiasi ordinamento giuridico esistente. Non c'è diritto senza forza che ponga il diritto, ma il diritto non è forza, è diritto. E se tale può essere, è solo quando la scienza giuridica ha il compito di assicurare il fondamento attraverso la Grundnorm. La scienza giuridica è intrinsecamente politica. Non perché essa difenda una qualche politica del diritto. All’opposto perché il compito di conoscere il diritto in quanto diritto implica la necessità di una certa forma di legame sociale. Leggere Kelsen come se la scienza giuridica avesse il mero compito di descrivere il diritto vigente, oscura proprio il senso di un compito, di un appello della responsabilità, che Kelsen stesso sentiva come urgente laddove percepiva la crisi profonda del senso di una scienza del diritto. Questa urgenza attraversa la sua «dottrina pura del diritto»: urgenza di lottare ancora per una scienza del diritto, unica possibilità di «salvare»5- il diritto al potere.
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