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Riassunto Il libro antico - Lorenzo Baldacchini III edizione, Sintesi del corso di Biblioteconomìa

Riassunto molto esauriente, non è presente soltanto l'ultimo capitolo perché non l'ho ritenuto importante

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 26/12/2022

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Scarica Riassunto Il libro antico - Lorenzo Baldacchini III edizione e più Sintesi del corso in PDF di Biblioteconomìa solo su Docsity! RIASSUNTO IL LIBRO ANTICO CAPITOLO UNO: UNA STORIA DI LUNGA DURATA La definizione più semplice che si può dare di ‘’libro antico’’ è quella consistente nella letterale traduzione dell’espressione angloamericana ‘’hand-printed book’’ e cioè: libro stampato a mano, con tecniche manuali. Tale espressione quindi si riferisce a una categoria di manufatto che si identifica essenzialmente in una tecnica, quella messa a punto, dopo i numerosi seppur poco noti tentativi effettuati in Asia, in Europa alla metà del XV secolo. Questi manufatti furono prodotti mediante caratteri mobili di metallo, ossia piccoli parallelepipedi realizzati verosimilmente in una lega di piombo, stagno, antimonio e tracce di rame, con incisa all’estremità l’immagine rovesciata in rilievo di una lettera dell’alfabeto o altro segno grafico, prodotti a loro volta dalla fusione in una matrice precedentemente ottenuta con l’incisione provocata da un punzone d’acciaio su una tavoletta di rame (recentemente è stata formulata l’ipotesi che le matrici usate nel procedimento di Gutenberg fossero in un materiale malleabile ma non in metallo). Mediante la composizione manuale, i caratteri venivano a formare pagine di testo ossia una forma pronta per la stampa. L’impressione, che è l’ultimo passaggio, veniva realizzata dopo l’inchiostrazione per mezzo di una vernice chiamata inchiostro tipografico, utilizzando un torchio azionato da una leva manuale che faceva scendere una pressa metallica (la platina) su un foglio di carta, comprimendolo sulla forma. L’operazione poteva essere ripetuta un numero indeterminato di volte, consentendo la riproduzione in serie di carte stampate. È questa – più o meno – la tecnica utilizzata dall’orefice e inventore Gutenberg negli anni Quaranta/Cinquanta del Quattrocento per scrivere artificialmente libri. È noto come tecniche analoghe alla xilografia – stampa da blocchi di legno – e alla tipografia fossero utilizzate in Cina nell’XI secolo e in Corea già nel XIV e all’inizio del XV secolo. In generale, la diffusione di un supporto come la carta, risalente in Cina almeno al I secolo a.C., rese la scrittura molto più accessibile. In particolare, al più tardi a partire dall’VIII secolo dopo Cristo, comparve la xilografia, che consentiva di riprodurre i testi mediante caratteri incisi in rilievo su un blocco di legno, utilizzata in principio per la realizzazione di scritti buddisti. In seguito, per iniziativa governativa, divenne il mezzo attraverso il quale vennero pubblicate le edizioni ‘’normalizzate’’ dei classici confuciani. Dalla fine del XIV secolo è documentato l’uso di caratteri mobili di bronzo o altri metalli. La natura della scrittura cinese – che comprende più di 50.000 caratteri – è tale però da richiedere un enorme investimento iniziale per la produzione di tali strumenti e ciò può spiegare la limitata diffusione di tali tecniche. Fino al XIX secolo il principale metodo utilizzato per stampare testi in Cina rimase la xilografia, con blocchi fissi di testo, che quindi non richiede un simile impegno finanziario iniziale. Non è chiaro se il procedimento di Gutenberg sia frutto di ricomparsa, imitazione o riscoperta. Alcuni studiosi contemporanei hanno ipotizzato che debba molto, o almeno qualcosa, alla conoscenza delle esperienze cinesi e coreane (ipotesi affascinante). Una delle premesse indispensabili per il successo di questa tecnica è stata la diffusione della carta, sicuramente importata in Occidente dalla Cina attraverso la mediazione degli arabi nel corso del Medioevo. Nel momento in cui comparvero i primi ‘’incunaboli’’ (libri prodotti nel ‘400 quando la stampa era in cuna, ‘’nella culla’’) la carta veniva confezionata da stracci di tela, tritati e fermentati all’interno di un mulino ad acqua e ridotti ad una sorta di pasta. Questa veniva estratta in strati di spessore minimo tramite un telaio consistente in un reticolo di fili di rame orizzontali, sottili e fitti – le vergelle – e verticali, più grossi e radi – i filoni – destinati entrambi a lasciare la loro traccia visibile nel futuro foglio di carta. Lo stesso avveniva per l’impronta della filigrana, oggetto metallico situato in una metà del telaio, che riproduceva la firma o il marchio della cartiera, ma forse, in certi periodi, poteva anche indicare la qualità del prodotto. Nella biografia di Ts’ai Lun, contenuta nel ‘’Dong Guan Han Ji’’ (sorta di storia ufficiale della dinastia Han compilata tra il 58 e il 188 d.C.) si legge che questo funzionario inventò la carta, partendo dalle cortecce degli alberi, dagli stracci e dalle reti da pesca. Tuttavia, scoperte archeologiche del ventesimo secolo, dimostrano che la carta era già in uso in Cina dal II secolo a.C. e che quindi Ts’ai Lun, piuttosto che l’inventore della carta, può essere considerato un perfezionatore del processo di produzione e il promotore della sua diffusione. Durante la dinastia Jin si cominciò a usare la carta pure per scritture sacre e testi ufficiali, a testimonianza della sua affermazione come supporto durevole e affidabile. Con la diffusione del buddismo e la conseguente necessità di tradurre molti testi dalla lingua hindi, si accrebbe il numero di materie prime utilizzate nella produzione, arrivando ad usare anche il bambù, la paglia e l’ibisco. È noto come la carta sia stata introdotta in Occidente dopo essersi diffusa ampiamente nel mondo islamico durante il Medioevo. Tuttavia, anche sulle modalità del contatto che si stabilì tra la carta cinese e quella che per comodità definiremo ‘’araba’’ ci sono alcune precisazioni da fare; si narra che in seguito a una battaglia avvenuta nel 751 presso il fiume Talas gli arabi fecero prigionieri alcuni cartai cinesi, dai quali appresero le tecniche di fabbricazione della carta e così sorse la prima cartiera dell’Islam a Samarcanda, non molto lontano da Talas. Va precisato, però, che la carta cinese era ben nota in Persia almeno dal VII secolo d.C. e un’altra precisazione riguarda la materia prima usata dagli arabi, che adoperarono sin da subito non fibre naturali, ma stracci ricavati dagli indumenti. Le fonti antiche sulla fabbricazione della carta araba sono maggiori e, almeno in Occidente, meglio note di quelle relative alla carta cinese; la produzione si articolava in macerazione degli stracci, bollitura della massa fibrosa e di nuovo risciacquatura in acqua corrente per eliminare le residue impurità, battitura in mortai di pietra (successivamente questa fase venne realizzata in un mulino ad acqua), collocazione della materia in sospensione in acqua e dopo su una forma o setaccio per drenare l’acqua eccedente e farla depositare in modo omogeneo ed infine asciugatura ottenuta appoggiando il foglio contro una parete oppure orizzontalmente su una tavola o un graticcio di canne. Dopo Samarcanda sorsero numerose cartiere a Baghdad e poi in buona parte del mondo islamico, dall’Asia Centrale fino ad arrivare al nord Africa e alla Spagna. Se si escludono le cartiere in Spagna le prime sul territorio europeo compaiono nel XIII secolo, molto probabilmente in Italia, a Fabriano. In tutto il Mediterraneo la carta era già nota da tempo (la più antica menzione conosciuta è quella del monaco Teofilo del XII secolo). La fabbricazione della carta qui si avvalse naturalmente di tutte le innovazioni apportate dagli arabi, dal riciclo degli stracci all’uso del mulino ad acqua. L’idea di un volume ancora ristretto della domanda di carta è valida non oltre la prima diffusione della stampa tipografica. L’importanza degli edifici adibiti a cartiere è provata dai fenomeni di abbinamento con l’attività tipografica. Il processo produttivo della tipografia è complesso e basato sulla combinazione di una serie di soluzioni tecniche che erano già utilizzate per altri scopi: dovevano solo essere perfezionate. I libri a stampa in Europa alla metà del XV secolo erano prodotti con caratteri mobili di metallo: erano piccoli parallelepipedi recanti all’estremità l’immagine rovesciata in rilievo di una lettera. La mancanza di reperti ci impedisce di conoscere esattamente la composizione di tale lega; da un certo periodo fu composta di piombo, stagno, antimonio e tracce di rame. Anche per i caratteri la scarsa documentazione relativa al primo secolo della stampa sarà in parte da attribuire a una certa reticenza da parte degli artigiani a divulgare. I caratteri dovevano essere necessariamente mobili, separati l’uno dall’altro: in tal modo si garantiva la possibilità di combinare le lettere e gli altri segni grafici e riutilizzare ogni volta il materiale dopo aver stampato le varie copie di una pagina. Era antieconomico incidere intere pagine in blocco, perché questo avrebbe comportato uno spreco di tempo e di materiali; tuttavia sono conosciuti episodi di stampa tabellare. Per poter continuare a stampare con i caratteri mobili, occorreva superare alcuni problemi, come le dimensioni dei caratteri: serviva un modo per allinearli in un alloggiamento e la soluzione fu trovata nella forma (tipo di stampo nel quale venivano fusi i caratteri). La forma era composta di 2 elementi metallici a forma di L, rivestiti di legno per isolarli, uniti a formare un contenitore; la matrice era sistemata con la faccia all’insù alla base della cavità con da due elementi per ricavare la colata del metallo fuso. Questo procedimento richiedeva delle matrici: si creava il disegno dei caratteri che veniva inciso rovesciato in cima a un punzone, il quale veniva battuto sulle matrici, che venivano giustificate in modo che la profondità dell’impressione del punzone fosse uniforme: ogni volta che una polizza doveva essere fusa, ciascuna matrice veniva fissata a turno nella forma e da essa poteva essere prodotto un numero infinito di caratteri tutti uguali. Ottenuto un numero sufficiente di caratteri da una data matrice, bisognava rimuovere gli schizzi della fusione dalla forma, asportare il manoscritti. L’apparente somiglianza della decorazioni può nascondere qualcosa di altro; certamente le cornici delle pagine iniziali di molte copie di dedica di incunaboli italiani sono in tutto simili a quelle dei contemporanei manoscritti, e anzi furono realizzate dagli stessi artisti, ma quelle cornici avevano lo scopo di rendere il libro prodotto con la nuova tecnica più gradito al pubblico delle classi dirigenti degli Stati rinascimentali italiani (furono utilizzate in modo molto più massiccio dalle famiglie nobili veneziane tanto che Venezia divenne un centro d’attrazione per i miniatori). Queste copie di lusso ci rivelano qualche elemento di novità: ad esempio la grande quantità di incunaboli decorati per un’altra famiglia veneziana, gli Agostini. Loro avevano già fornito la carta per l’edizione Jensoniana del 1476 della traduzione italiana della ‘’Storia naturale’’ di Plinio e furono probabilmente i finanziatori anche di un’altra edizione di Jenson, quella delle ‘’Vitae illustrium virorum’’ di Plutarco del 1478. Come pagamento ricevettero diversi esemplari di lusso (questo indica dunque che queste copie potessero avere un valore d’uso o che fossero il veicolo di autopromozione di una famiglia di capitalisti emergenti). Si mostra in ogni caso un nuovo uso dell’oggetto- libro, impensabile con i manoscritti. Poco importa che tutto ciò sia sostituito poco dopo – a partire dagli anni Novanta del ‘400 – da un nuovo sistema di decorazione in serie, quello dell’incisione, sia nella forma più conosciuta della xilografia, sia in quella nuova della calcografia. A conclusione di questo quadro è necessario ricordare anche la dimensione religiosa; nel rapporto con il ‘’sacro’’ si assiste a fatti nuovi, quali la disseminazione di testi religiosi al di fuori del mondo di chierici e delle istituzioni ecclesiastiche (ciò è di per sé sufficiente a mostrare che il quadro si va modificando). Lo straordinario aumento dei libri in circolazione, divenuti quindi beni più economici, e l’emergere di una nuova funzione di veicolo di rapporti politici e sociali sono dunque i due fulcri importanti di questo periodo. Uno dei fattori che giocò un ruolo decisivo fu il minore costo che, a parità di materiali, dimensioni e contenuto, un libro stampato aveva nei confronti di un manoscritto. Il tema del prezzo del libro a stampa va visto, almeno fino al 1520 circa in rapporto al prezzo del manoscritto; è opportuno sottolineare come le due diverse forme di fabbricazione del libro convivessero per molti decenni. Ornato ha brillantemente analizzato le condizioni di produzione e diffusione del libro alla fine del Medioevo, mettendo in rilievo come la contraddizione che caratterizza la produzione e il mercato del manoscritto sia quella tra il prezzo elevato, legato alla debole produttività, e la crescita delle esigenze di mercato, in conseguenza della moltiplicazione dei centri di insegnamento, cui si può aggiungere lo sviluppo di alcuni ceti che necessitavano un aumento dell’istruzione. Nel Basso Medioevo il libro è ancora prodotto spesso per un uso diretto, domestico e non per la vendita. Questa contraddizione fa del libro un bene trasmissibile e provoca la formazione non solo di grandi biblioteche collettive come quelle conventuali, ma anche di quantità di volumi disponibili sul mercato. Il fatto che commissionare la produzione di un libro costasse sempre di più dell’acquisto di un volume già esistente determinò la tendenza all’inerzia e alla stabilità, che caratterizzano il mercato del manoscritto (anche il manoscritto di seconda mano rimane un bene di lusso). Il rapporto tra costo medo del manoscritto pergamenaceo e di quello cartaceo, variabile nell’Italia del Quattrocento da 2 a 1 a 1,5 a 1. Il manoscritto poteva anche avere un differente costo in base alla disciplina del contenuto. La pecia è un fascicolo di 4 o al massimo 8 carte, di un manoscritto universitario – exemplar – da cui un copista traeva più copie destinate agli studenti. Ogni pecia andava poi assemblata con quelle prodotte da altri copisti per dar luogo a una copia intera di un testo universitario. Quello del libro si configura quasi sempre come mercato locale. Fanno eccezione le attività produttive di grandi managers del manoscritto, come Vespasiano da Bisticci, che producono non solo su commissione, ma anche per un vero e proprio mercato internazionale. Se il costo di fabbricazione è già molto elevato, non è semplice che a esso si aggiunga anche quello del trasporto, che oltre tutto priva della facoltà di controllare in loco la qualità del lavoro. Il problema del trasporto diventerà decisivo per i libri stampati, prodotti in centinaia e talvolta migliaia di copie. Prima della stampa, il commercio librario riguarda essenzialmente l’usato; prima dell’invenzione della stampa sembra che ci sia stato un aumento della domanda con conseguente influenza sui prezzi e rivalutazione del libro usato. Nel manoscritto è l’utente del libro – colui che ne ha bisogno – a determinare la copia di un testo. Nella stampa è invece l’editore, o comunque chi finanzia l’edizione, che sceglie in base all’idea che ha della domanda potenziale. Come è avvenuto che le tendenze del mercato del libro a stampa si siano caratterizzate come espansione e innovazione? Se Gutenberg e i suoi immediati successori si erano prefissi lo scopo di eliminare la contraddizione tra la bassa produttività della scrittura manuale e la crescita dei bisogni culturali il risultato dell’invenzione fu quello di creare un sistema di produzione per il quale erano indispensabili:  Consistente assortimento di caratteri mobili di metallo;  Grande quantità di carta;  Torchi;  Mano d’opera qualificata;  Un locale ampio; Tutto ciò era necessario prima di vendere la prima copia e quindi comportava un investimento di capitali. La necessità di ammortizzare il più possibile i costi fissi di un’edizione – quelli della composizione e della correzione – implicava, se si voleva offrire un prezzo più basso del manoscritto, la stampa di un notevole numero di esemplari. Il costo di un volume stampato si calcola in base all’equazione x = a + b/y, dove x sta per il costo unitario di una copia, y per la tiratura dell’edizione, a per i costi proporzionali e b per i costi fissi. Dove trovarono i capitali gli stampatori che in genere appartenevano al gruppo degli artigiani? Uno studioso inglese, Lowry, ha ricostruito i rapporti tra uno dei primi stampatori attivi a Venezia, il francese Nicolas Jenson, e le famiglie Priuli e Agostini, che investirono cospicue somme nell’editoria, e per le quali il libro non è solo un investimento ma diviene un veicolo di propaganda e di relazioni sociali e politiche. Jenson si legò a queste potenti famiglie, convogliando nella sua attività notevoli investimenti e si assicurò la protezione papale. Realizzò un programma editoriale che aveva nel mondo accademico padovano il suo principale destinatario, dividendo la sua produzione tra umanesimo e scolastica. La peste del 1478-79 decimò però la popolazione studentesca padovana e provocò una drastica contrazione del mercato, e Jenson, in questa occasione, per non rischiare la scomparsa della sua azienda accettò la fusione con il suo principale concorrente, la società formata da Giovanni da Colonia e Manthen di Gerresheim. Questo grande stampatore francese ha anticipato tutti i grandi passaggi dell’attività tipografico-editoriale e ha creato l’editoria capitalistica a Venezia. Lowry deduce la grande svolta avvenuta nell’editoria veneziana di quegli anni e dovuta in gran parte proprio all’opera di Jenson, che consentì la crescita delle vendite e la diminuzione dei prezzi. Erano finiti gli anni della ricerca dei manoscritti nelle biblioteche, della copia e dei rapporti con cartolai, miniatori e legatori. Non era soltanto il manoscritto ad essere stato rimpiazzato ma l’intero sistema di relazioni sociali e tendenze intellettuali che lo avevano reso il crocevia di rapporti di amicizia ma anche una sorta di opera d’arte. Lowry ha anche chiarito la differenza tra patronato e investimenti, che caratterizzano rispettivamente la stampa fiorentina e veneziana del Quattrocento e che spiegano il maggiore sviluppo commerciale di quest’ultima. Ci troviamo quindi di fronte a una situazione rovesciata: alla debole produttività del manoscritto si sostituisce un numero enorme di libri in circolazione, che non solo soddisfano pienamente i cresciuti e crescenti bisogni intellettuali, ma vanno oltre determinando l’alternanza tra momenti floridi e crisi dei mercati, con accumulo di libri invenduti nei magazzini. Gli stampatori devono sforzarsi di ‘’svecchiare’’ continuamente i propri prodotti, rendendoli più appetibili per il pubblico, modificando i formati, aggiungendo nuovi commenti, creando nuove illustrazioni, sostituendo le costose decorazioni a mano con le più economiche xilografie. La concorrenza con il manoscritto, che caratterizza i primi anni, cede il posto a quella tra i diversi prodotti a stampa. In questa nuova situazione prendo corpo una nuova ‘’geografia del libro’’, nella quale gli aspetti prevalenti sono la vicinanza alle fonti di approvvigionamento della materia prima e la facile disponibilità di capitali da investire che si ritrova nei più importanti centri commerciali (Venezia e Lione). Compare anche un embrione di politica editoriale, quella capacità cioè di scegliere cosa stampare, come stampare, quando stampare e per chi stampare (implica anche la scelta della lingua dei testi, infatti, siamo alla vigilia dell’affermazione dei volgari). La qualità non è in contraddizione con la riduzione dei costi. Nella città universitaria per eccellenza – Bologna – il mercato del libro manoscritto universitario favorì un passaggio all’insegna della continuità. Bologna è un caso di continuità nel cambiamento grazie al fatto che una particolare istituzione servì a fornire un canale entro cui i lettori attribuivano al libro una particolare funzionalità. A Firenze, invece, il mercato ampio e internazionale del libro manoscritto umanistico non rappresentò un fattore di continuità perché non sostenuto da un’adeguata istituzione. Contemporaneamente mutò anche il pubblico degli utenti, grazie all’allargamento dell’area dell’istruzione che creò nuovi lettori. L’editoria fiorentina si indirizzò dunque verso testi di facile smercio, quali la letteratura popolare devota e profana e anche della pamphlettistica. La maggior parte dei manoscritti occidentali non è stata scritta con scopi commerciali, ma prevalentemente per autoconsumo o su commissione. Siamo però a conoscenza di fenomeni di mobilità anche dei manoscritti. Nel manoscritto è l’utente del libro a determinare la copia di un testo, nella stampa invece è l’editore. Il libro a stampa, se non si muove e non fa circolare le sue copie, quasi mai giustifica l’investimento iniziale che la sua produzione comporta ed ha dunque bisogno di una rete di distribuzione. Le fonti da consultare per sapere di più su come un libro a stampa arriva dalla tipografia allo scaffale e poi nelle mani del lettore sono molteplici e corrispondono a: atti notarili, libri di amministrazione aziendale, diari personali, tariffe daziarie, registri daziari, testamenti, inventari di beni, epistolari. Gli atti notarili spesso si riferiscono solo a libri costosi, i libri di amministrazione e i diari fanno riferimento in genere a situazioni note a chi registrava i fatti e quindi sono avari di notizie precise e le tariffe e i registri trattano i libri come una merce qualsiasi e tacciono sul contenuto e sulle caratteristiche esteriori. C’è un’alternativa ricorrente tra percorsi terrestri e vie marittime o fluviali nel trasporto dei libri. La rete stradale del Basso medioevo, pur non coincidendo in tutto con quella romana, mantenne gli antichi tracciati fino al XVIII secolo. Nel Medioevo, tra città e città non c’era però più una singola strada maestra, ma un gran numero di stradicciole. Verso la fine del periodo assistiamo però all’incremento di molte attività, indotto proprio dallo sviluppo della rete stradale e i traffici terrestri, nel XV secolo relegati in secondo piano dalla navigazione marittima, si riaffermano nel corso del Cinquecento. Questo dovette far emergere il problema della manutenzione e della sicurezza delle strade e dei ponti, della protezione dei mercanti nonché dell’assicurazione delle merci. Si assiste alla vittoria delle vie terrestri nel 1600. Il regime delle esazioni dei pedaggi e dei dazi è forse il principale punto dolente del sistema viario e di quello commerciale nel Medioevo, vista la molteplicità degli oneri fiscali. L’area del primo mercato internazionale del libro è quella che comprende le regioni della dorsale europea tra le Fiandre e l’Italia del nord. Il corso del XV secolo è marcato dall’integrazione progressiva del mondo occidentale. I principali passi erano il Moncenisio, il San Gottardo, il Sempione, il Gran San Bernardo, lo Stelvio e il Brennero. La strada verso Lione passava attraverso le vallate della Dora Baltea e dell’Isére; nel XV secolo, poi, con l’avvio delle fiere a Lione, il Moncenisio rappresenterà un passaggio privilegiato per i libri provenienti dall’Italia. Non si hanno però vere e proprie vie carrozzabili fino alla fine del XVI secolo e i cammini sono accessibili solo ai pedoni e ai muli. Venezia e Lione provvedevano alla circolazione nel Mediterraneo di una regolare produzione libraria, mentre Genova forniva la carta. Un elemento da tenere presente è la navigazione interna: esistono differenze di costo tra trasporti terrestri e fluviali, ma questi ultimi sono gravati da maggiori dazi e pedaggi. Per il trasporto di libri, documenti già noti da tempo confermano la convenienza del percorso fluviale: i libri viaggiano lentamente, in balle, in botti o in casse, sono trasportati per terra o per via fluviale, sotto la responsabilità di vetturali, quando non sono affidati a semplici viaggiatori e i rischi del viaggio sono temibili. Le figure impegnate nel trasporti ci sono note in prevalenza grazie ai contratti notarili di trasporto: tra queste il ‘’partitor ballarum’’, che smistava le balle delle merci e aveva una certa posizione di preminenza, i ‘’carratores’’, i ‘’vecturales’’ e infine i ‘’portatores ad dorsum’’. Negli Statuta Merchatorum di Milano troviamo capitoli dedicati ai ‘’ligatores ballarum’’, i quali erano obbligati a un giuramento. Diffuso era poi caratteri venissero inseriti nel compositoio a testa in giù e con l’occhio non visibile; quindi, che il tallone servisse a segnalare la parte alta della lettera impendendo di stamparla capovolta. Le pratiche della fabbricazione del carattere non furono uniformi sin da subito in ogni luogo, ed anche il fatto che nel compositoio i caratteri fossero collocati a testa in giù è contraddetto dalle immagini che ne abbiamo in incisioni posteriori al XV secolo. Una deformazione della bibliografia analitica ha trasmesso un’immagine della stampa manuale come di un insieme di pratiche universali e standardizzate. La figura iniziale del processo è il compositore, che è deputato all’aspetto più delicato del lavoro nella bottega tipografica, in quanto insieme all’eventuale correttore delle bozze è il responsabile della correttezza del testo. Deve avere un livello culturale adeguato, talvolta è un apprendista e non di rado troviamo tra i compositori degli studenti. La sua retribuzione è spesso basata sulla base del cottimo. Un compositore poteva impiegare da un minimo di 6 ore e 15 minuti per la composizione di una forma nel doppio canone (6300 caratteri grandi) fino ai 10 giorni e 45 minuti per una forma composta con il microscopico occhio di mosca (oltre 100.000 caratteri). Le testimonianze che abbiamo ci inducono a ipotizzare ritmi massimi di composizione di circa 1000 caratteri all’ora, e una velocità di stampa di circa 250 impressioni all’ora per torchio a pieno regime. Nei termini dell’effettiva produzione libraria potremmo dire che per produrre un in-quarto di cinque o sei fogli, ciascuno contenente circa 10.000/12.000 caratteri e stampato in un’edizione di 1200/1500 copie occorreva più o meno una settimana di lavorazione, con l’impiego di un solo compositore e un solo torchio a pieno regime. L’avviamento è il complesso delle operazioni effettuate sulla forma composta e necessarie a rialzare il piano delle parti da inchiostrare ed abbassare o proteggere quelle destinate alle parti bianche, prima dell’impressione. Molto di ciò che conosciamo sul lavoro del compositore lo dobbiamo alla bibliografia analitica (bibliologia). Ci sono poi delle modalità alternative, tra le quali la composizione continua, che procede seguendo lo sviluppo del testo, la composizione per forme, nella quale si compongono le pagine contenute all’interno di una forma di stampa senza preoccuparsi di seguire lo sviluppo del testo; questa seconda modalità alternativa precedeva un lavoro preliminare, che oggi si chiamerebbe tipoconteggio, consistente nello scomporre l’originale dal quale il testo veniva preso per la composizione e suddividere e pagine in vista della futura edizione a stampa. Il mondo antico aveva già elaborato la tecnica della sticometria, una tecnica di misurare la lunghezza dei testi per determinare il lavoro dei copisti. Con la modalità continua bisognava avere completato la composizione di una coppia di forme, chiamate in Italia la bianca e la volta o forma esterna e interna, prima di passarne una al torchio. Praticare la composizione per forme era molto facile nel caso di nuove edizioni di testi già pubblicati – era agevole riprodurre le pagine riga per riga – o di testi poetici in rima, nei quali la scansione delle pagine è semplice da determinare. Le ricerche di McKenzie sulla Cambridge University Press hanno dimostrato che nelle tipografie inglesi si componevano e stampavano parecchi libri simultaneamente. Con il termine imposizione si indica il modo nel quale una forma è sistemata in un particolare arrangiamento delle pagine. Le pagine non vengono stampate una dopo l’altra, ma vengono imposte tutte in un telaio – la forma – quando ne ha sistemate due, quattro, sei o otto a seconda del formato del libro. Il telaio è un quadrato, fatto di sei barre di ferro, quattro delle quali ne sono i lati e due disposte a croce nel mezzo, così che si formino quattro spazi nei quali le pagine vengano impostate. Non tutte le forme sono fatte così: il numero degli spazi varia a seconda del formato. Una volta imposta la forma, questa viene giustificata con bacchette di legno, sia laterali sia nella base (piede), chiamate ‘’note’’ perché destinate a contenere le note a margine. Per serrare i caratteri nella forma vengono utilizzati dei cunei che fanno sì che i caratteri siano pressati da ogni lato. Dopo di che la forma è pronta per essere passata al torcoliere. Già all’epoca degli incunaboli, si sviluppò la procedura di stampare un foglio di carta, piegarlo e poi assemblarlo per ottenere le pagine in sequenza. Ciascun lato di un foglio è stampato da una forma che può contenere un numero variabile di pagine (una forma singola può stampare solo un lato di un foglio). Se erano impiegate due forme, una per il recto e una per il verso, di due pagine ciascuna, il foglio poteva essere piegato in due per ottenere un in-folio (due fogli stampati sul recto e sul verso realizzavano quattro pagine). Un quarto era prodotto stampando forme di quattro pagine ciascuna. Il foglio veniva piegato due volte, una per il largo e una nel senso della lunghezza, ottenendo otto pagine. Questa modalità di preparazione continuava per produrre libri sempre più piccoli quanto all’altezza: un ottavo, 8 pagine contro 8 dunque 16 per foglio, un sedicesimo, 32 pagine dunque 16 contro 16, un trentaduesimo e un sessantaquattresimo. Questi erano i modi più comuni d piegare i fogli di carta per lavorare i libri che si svilupparono lungo l’arco del XVI secolo (nel Quattrocento furono utilizzati solo i formati più grandi). C’erano più complicati arrangiamenti: un dodicesimo, realizzabile in due modi, con il primo che consisteva nel collocare le pagine nella forma in 3 file di 4 ciascuna e poi piegare il foglio due volte nel senso della lunghezza e tre volte per largo (il foglio poteva essere tagliato nel senso della lunghezza) mentre l’altro metodo consisteva nel sistemare le pagine nella forma in 2 file da 6, poi dividere il foglio in pagine, con 5 tagli verticali e 1 orizzontale. Si otteneva un libro alto, ma molto ‘’magro’’. Tale formato non divenne comune prima del 1550. Un ulteriore passo era il ventiquattresimo, due forme di 24 pagine ciascuna. Il diciottesimo è invece qualcosa di abbastanza diverso: veniva prodotto tagliando un foglio in due sezioni ineguali (uno un terzo e l’altro due terzi del totale) e la prima veniva tagliata in 6 mentre la seconda 12. Pare sia stato Aldo Manuzio il Giovane a usare per primo le espressioni ‘’in-folio’’, ‘’quarto’’, ‘’ottavo’’ e ‘’sedicesimo’’ nel suo catalogo del 1541, e dal 1562 furono utilizzate sistematicamente. Il metodo della piegatura non era l’unico fattore a determinare le dimensioni di un libro. Un libro prodotto piegando i fogli a metà sarà più largo di uno con i fogli piegati in quattro, ma l’altezza della carta prodotta manualmente, usata dalle tipografie fino all’inizio del XIX secolo era determinata dalle dimensioni della forma usata dalla cartiera. Un volume in-quarto stampato con carta più grande della media poteva dunque essere alto quanto un libro in-folio che utilizzava carta più piccola. Il formato rilevato secondo la piegatura è fondamentale per ricostruire la lavorazione del libro, ma dà solo un’idea approssimativa delle dimensioni attuali. Per le imposizioni più complicate sono possibili molte ulteriori varianti che erano praticate. Sebbene la numerazione progressiva delle pagine fosse già una pratica comune nel Cinquecento inoltrato, il più antico ‘’metodo di segnature’’ rimase a lungo in uso, almeno fino alla fine del XVIII secolo e oltre. La segnatura è basata su un sistema alfanumerico che contrassegna ciascun fascicolo con una lettera progressiva dell’alfabeto e ciascuna carta all’interno del fascicolo con un numero progressivo. Le segnature nei libri antichi erano più accurate e rappresentative della strutture del libro che non la numerazione delle pagine o delle carte, che spesso presentava errori. Il sistema base della segnatura consiste nel fatto che ciascun elemento piegato o unità di almeno quattro pagine mostra una segnatura nella prima pagina. La carta è il materiale di supporto basilare del libro a stampa, sulla quale i caratteri imprimono i segni, che sono tracce di inchiostro. Le notizie storiche intorno agli inchiostri tipografici sono scarse; nella promessa al ‘’Libro di Bloy’’, principale opera contemporanea sugli inchiostri tipografici, la scarsità di notizie è da mettere in relazione con la già segnalata reticenza dei tipografi a propagandare i segreti della loro arte. In ogni caso, secondo lo storico dell’inchiostro tipografico Bloy, la scoperta di un inchiostro da stampa da parte di Gutenberg fu altrettanto importante di quella dei caratteri mobili e del perfezionamento del torchio. I primi inchiostri adoperati negli incunaboli appaiono già perfetti, ed è sicuramente il risultato di un lungo e paziente lavoro di ricerca. I primi tipografi dovevano competere con il grado di leggibilità e con l’eleganza estetica dei manoscritti del Quattrocento e spesso si sforzavano di imitarli. In seguito, scomparsi dal mercato librario i codici, aumentata la domanda di libri a stampa e la concorrenza, i tipografi dovettero sacrificare la qualità ai costi, ricorrendo a inchiostri – e a carta e caratteri – più scadenti. A differenza della carta, che in Europa precede di qualche secolo l’apparizione della stampa, l’inchiostro tipografico nasce con la tipografia; infatti, le soluzioni acquose di gomma aventi come pigmento nerofumo oppure una sospensione di gallato ferrico dovettero rivelarsi difficili da applicare in modo omogeneo su superfici metalliche, quali erano i caratteri. La soluzione, consistente in un inchiostro oleoso, venne dal mondo della pittura; la pittura ad olio, conosciuta dai romani e usata per decorare porte, ebbe un impiego molto limitato e si diffuse solo dopo che fu perfezionata e divulgata dai pittori fiamminghi. È probabile che i primi stampatori fossero in contatto (Gutenberg era un orefice e non poteva ignorare gli sviluppi delle tecniche artistiche). Non abbiamo ricette di inchiostri che risalgono al periodo di introduzione della stampa, per cui non possiamo stabilire con certezza la composizione chimica degli inchiostri con i quali furono stampati gli incunaboli. Nondimeno possiamo trarre da un importante documento delle indicazioni che ci permettono di fare delle ipotesi: si tratta di un testo italiano alla fine del Quattrocento, il ‘’Diario della stamperia di Ripoli’’, che enumera i materiali acquistati da una tipografia gestita dalle monache del convento fiorentino di Ripoli. Sappiamo così che il convento acquistava olio di lino, trementina, pece greca, pece nera, marcassite, cinabro, ragia, vernice soda, vernice liquida, galla, vetriolo e lacca. Possiamo suppore che l’inchiostro fosse composto di olio di lino, trementina, ragia, vernice soda o liquida, a seconda delle stagioni, dal momento che la temperatura influisce enormemente sulla viscosità dell’inchiostro. Come pigmento nero erano invece adoperati nerofumo di lampada e marcassite. Il cinabro e la lacca servivano per gli inchiostri rossi mentre la galla e il vetriolo erano adoperati per l’inchiostro da scrittura. Un’altra fonte fondamentale per la storia della tecnica tipografica è i ‘’Dialogues’’ di Plantin, da cui sappiamo che i suoi inchiostri si componevano di trementina, olio e nerofumo. Come veniva preparato l’inchiostro? Molti tipografi lo realizzavano in proprio, almeno fino alla metà del XIX secolo. Il primo produttore specializzato fu Guillaume De Launay. Possiamo supporre che l’inchiostro degli incunaboli fosse un’oleoresina con aggiunta di trementina. Rispetto a quello di lino l’olio di noce ringiallisce prima se è riscaldato e richiede più tempo per seccare (questo poteva essere un particolare di scarsa rilevanza agli inizi ma era destinato a diventare importante con l’aumentare dei ritmi di produzione). L’olio di noce invecchiato, inoltre, risultava migliore. Spesso veniva aggiunto qualcosa per liberare l’olio dai grassi superflui e i tipografi presto usarono a questo scopo croste di pane e cipolle. La trementina era riscaldata fino alla liberazione di tutta la materia volatile ed era ridotta in colofonia, liquida solo finché calda. L’effetto dell’aggiunta della trementina era di prevenire o ridurre la possibilità dell’olio di distendersi successivamente. Il nerofumo era tratto da resina di pece bruciata. Il segreto era in ogni caso la durata del trattamento al quale gli inchiostri erano sottoposti, e questo richiedeva qualche ora e un notevole consumo di combustibile. Volendo ridurre il tempo e il consumo, si comprometteva la qualità dell’olio, con il risultato che, al momento dell’uso, l’inchiostro si spargeva male. Viene fornita una spiegazione del fenomeno da Savage: l’olio di lino è super-ossidato e il processo di ossidazione, con il quale l’olio di lino e di noce solidificano, continui anche dopo l’apparente cessazione. Il risultato sarebbe una liquefazione dell’olio che viene assorbito completamente dalla carta. Quest’olio super-ossidato è una massa viscida semifluida più scura dell’olio ossidato. Ciò comunque non spiegherebbe la nitidezza degli inchiostri degli incunaboli. Le ‘’monache’’ e i ‘’frati’’ – macchie scure sulla carta e chiare sulle lettere – possono essere causate, oltre che dall’inchiostro, anche da cattive rettifiche dei caratteri e dall’assorbimento del nero nell’inchiostro stesso, e inoltre va tenuto in conto anche l’aspetto della qualità della carta. Tutte le ricette pubblicate fino a fine ‘800 si basarono su quelle di Moxon e di Fertel. Il metodo olandese descritto da Moxon richiedeva l’uso di un buon olio di lino. Dopo averlo riscaldato, vi si immergeva una cipolla, in modo da determinare la corretta temperatura, con il fattore decisivo determinato dalla velocità con la quale si formava la schiuma dopo l’immersione dell’ortaggio. Dopo veniva aggiunta la colofonia, ridotta in polvere, piano piano per evitare che la schiuma montasse troppo velocemente, traboccando. L’olio veniva poi messo sul fuoco, per far seccare la vernice, e integrato con un’oncia di litargirio per rischiararlo. Infine, si faceva bollire a fuoco lento e dopo il raffreddamento era filtrato e lasciato riposare il più a lungo possibile. Nella ricetta di Fertel, invece, l’olio, di noce o di lino, si faceva bollire con l’aggiunta di una crosta di pane per sgrassarlo e una volta carbonizzata, la crosta era tolta e l’olio veniva fatto bollire a fuoco lento. Dato che l’inverno richiede una vernice più debole, Fertel consiglia di aggiungere in questa stagione un uovo dopo la crosta di pane. Egli sostiene che l’uso della trementina previene la formazione di aloni attorno alle lettere e migliora il tempo di essiccazione ma l’abuso di questa sostanza può condurre a un’essiccazione troppo rapida che causa la lacerazione della carta. La trementina si aggiungeva alla vernice mentre entrambe erano ancora calde e l’insieme veniva poi cotto. diverso dai manoscritti; in quanto manufatto, ogni esemplare è un unico ma, come ci insegna la bibliografia analitica, le copie di un’edizione tipografica non sono quasi mai assolutamente identiche, dividendosi in impressioni, emissioni e stati. Un’impressione è costituita dalle copie di un’edizione stampate in una volta. Ogni edizione ha necessariamente almeno un’impressione. Nel periodo della stampa manuale era regola ridistribuire e riusare i caratteri adoperati per la stampa delle copie di un foglio da una forma, perciò, l’edizione e l’impressione in questo periodo generalmente coincidono. Possono esserci delle eccezioni, nei casi di piccole edizioni popolari o di edizioni di successo, per le quali i caratteri di un’impressione erano conservati nelle forme per essere ristampati. Un’emissione è rappresentata dalle copie di quella parte di un’edizione che è identificabile in un insieme pensato coscientemente come distinto dalla forma base della copia ideale. L’emissione è dunque costituita dall’insieme degli esemplari di un’edizione o di un’impressione offerti al pubblico in una volta per la vendita. È caratterizzata da diversi frontespizi recanti differenti note tipografiche per due gruppi di copie divise per la vendita tra l’editore e/o il tipografo e/o il libraio. Un’emissione non comporta grandi cambiamenti nella composizione. Un’edizione e un’impressione possono risultare composte da più emissioni. Il termine stato è usato per indicare tutte le differenziazioni della forma base della copia ideale. Si riscontrano:  Alterazioni non riguardanti l’impaginazione, apportate intenzionalmente o no durante la stampa, quali le correzioni ultime effettuate durante il procedimento di stampa o ricomposizioni di una o più linee o inoltre ricomposizioni avvenute in seguito alla decisione;  Aggiunta, sottrazione o sostituzione di materiale, riguardante l’impaginazione, ma effettuata durante la stampa;  Alterazioni messe in atto dopo la vendita di un certo numero di esemplari, quali l’inserzione o l’eliminazione di pagine preliminari o del testo o l’aggiunta di errata-corrige;  Errori di imposizione, cioè di impostazione delle pagine all’interno della forma; Uno stato può, dunque, essere definito come una forma tipografica con una determinata composizione tipografica, e anche, più normalmente, come tutti i fogli stampati da una forma tipografica in uno stato determinato. Ne consegue che un’edizione è l’insieme delle copie che derivano sostanzialmente dalla medesima composizione tipografica e che comprendono tutte le varie impressioni, emissioni e stati. Teoricamente, tutte le copie di un’edizione dovrebbero essere identiche ma in realtà non lo sono. È difficile stabilire una regola. Si può comunque affermare che siamo sicuramente in presenza di una nuova edizione quando la metà almeno dei caratteri delle forme è stata ricomposta, anche se questa è una condizione sufficiente, ma non strettamente necessaria. Se meno del 50% dei caratteri è stato ricomposto, è probabile che ci troviamo di fronte a un’altra emissione, o a stati delle forme della stessa edizione. Edizioni che appaiono identiche risultano quasi sempre distinguibili a un’attenta osservazione, anche nel caso in cui il compositore abbia seguito l’ortografia e le abbreviazioni di un’edizione precedente, dato che la sua ricomposizione risulta sempre identificabile mediante un’attenta analisi delle differenti spaziature tra le parole e degli accidenti occorsi. La prova di un’eventuale ricomposizione si avrà confrontando le posizioni dei titoli correnti rispetto alla prima riga del testo o quelle delle lettere usate per segnare i fascicoli rispetto a quelle della riga immediatamente superiore. Un altro concetto importante è quello di copia ideale, ovvero l’oggetto di una descrizione bibliografica, una ricostruzione storica della forma o delle forme degli esemplari di un’impressione o emissione come venivano offerte al pubblico dai loro produttori. Una tale ricostruzione abbraccia tutti gli stati di un’impressione o di un’emissione, ma esclude quelle modifiche introdotte nei singoli esemplari una volta che sono usciti dalle mani del tipografo o dell’editore. Esclude anche la legatura, almeno fino a quando i libri furono distribuiti ai librai a fascicoli sciolti e cioè fino quasi alla fine del Settecento. La include invece dal momento in cui fu l’editore e/o il tipografo ad approntarla prima del rilascio sul mercato delle copie di un’edizione. Possiamo pertanto definire la copia ideale il più perfetto stato di una pubblicazione come fu intesa originariamente da chi la stampò o pubblicò, comprese tutte le modifiche intenzionali avvenute durante la lavorazione. Questa fenomenologia, esaminata dapprima in sede di bibliografia testuale, è divenuta comune alla bibliografia analitica, cioè a quella disciplina che in Italia è chiamata ‘’bibliologia’’ e che studia i libri dal punto di vista del loro aspetto materiale e come manufatti. Ciascuna singola copia può essere paragonata a un piccolo sito archeologico, il quale può essere studiato strato dopo strato. Il termine usato a tale proposito, ‘’copy specific’’, si può applicare a molti aspetti acquisiti dall’oggetto nell’officina tipografica durante la produzione. Tutte le variazioni generano degli strati distinti che possono essere ordinati cronologicamente dal più antico al più recente. Un altro esempio riguarda il fenomeno dell’uso di diverse partite di carta con differenti filigrane, per produrre un’edizione. CAPITOLO CINQUE: GLI UOMINI I fattori della nascita del libro prodotto manualmente possono essere individuati nel lavoro intellettuale, in quello manuale e nel capitale. Tali fattori sono in rapporto e in contraddizione con un quarto polo, quello costituito dai consumatori-lettori, ovvero il pubblico. Escarpit ha delineato le fasi di questo processo:  il lavoro intellettuale viene fornito da uno scrittore-realizzatore sotto forma di testo da lui scritto o rivisto, tradotto, curato o commentato.  Entra poi in scena un imprenditore-produttore che noi chiamiamo editore, che acquisisce il testo mediante il possesso del capitale scambiandolo con altri valori commerciabili;  È poi la volta degli operatori della tipografia che possono dipendere sia da un altro industriale- artigiano – lo stampatore – sia dallo stesso editore, nel caso quest’ultimo sia anche proprietario di un’azienda tipografica. Il lavoro manuale rende possibile la riproduzione del testo in un certo numero di oggetti vendibili, ovvero i libri.  Successivamente l’editore fornisce questi oggetti ai consumatori che li acquistano in cambio di una somma di denaro e tale denaro torna al capitalista-editore. La somma incassata deve consentire all’editore di rientrare dei suoi due investimenti di base – autore e tipografo – e realizzare un profitto. Non è possibile assimilare l’autore a un qualsiasi produttore di materie prime, in quanto fornisce un prodotto già elaborato. L’autore può essere considerato il fornitore di un prodotto, piuttosto che di una materia prima. La trasformazione della produzione libraria in un’industria ha fornito all’autore – il lavoratore intellettuale – un’organizzazione del lavoro alternativa a quella della corte e della chiesa, risparmiandogli l’obbligo di essere cortigiano o chierico, ma lo ha sottoposto alle leggi del mercato e del capitale. La situazione italiana della seconda metà del Quattrocento – al momento dell’apparizione della stampa – è caratterizzata dal fenomeno della crescente tendenza degli intellettuali a trasformarsi in cortigiani, ed è anche vero che non sono pochi gli uomini di lettere italiani dell’epoca del secondo Rinascimento che si guadagnano da vivere con il solo lavoro intellettuale. A quel punto però alla corte si sostituisce l’editore. La trasformazione dell’autore da chierico e cortigiano in lavoratore è un processo lunghissimo che forse non si è neppure oggi del tutto concluso. La reticenza di questo soggetto sociale ad assumere il ruolo di un lavoratore lo ha spinto a percorrere due scappatoie: rispolverare il vecchio mito della povertà dell’uomo di lettere oppure praticare un secondo mestiere. L’equipollenza tra il capitale e l’editore dipende solo parzialmente dalla materia prima fornitagli dagli autori viventi; infatti, mentre questi devono assolutamente vendere i frutti del loro lavoro per vivere egli può sempre realizzare dei prodotti ripubblicando opere classiche. Il rapporto degli intellettuali con un editore non si manifesta soltanto con la produzione di opere autonome, ma anche con la revisione, tradizione, traduzione e cura di autori di testi classici. La stampa provocò due fenomeni contraddittori: dare un’opera alle stampe significava perderne il controllo e questa decisione così definitiva spaventava i letterati, mentre dall’altra parte la diffusione simultanea di 500 o più copie recava con sé la promessa di fama letteraria alla quale pochi riuscivano a resistere. Queste due trasformazioni essenziali per la figura dello scrittore non si accompagnarono con la sua stessa trasformazione in lavoratore intellettuale. A lungo il frutto della sua fatica venne considerato più una proprietà da sfruttare, che il prodotto di un lavoro (ancora nel Seicento molti scrittori cercavano la protezione di qualche potente). Dal punto di vista giuridico, solo con il ‘’Copyright Act’’ del 1709 si fissano, almeno per la Gran Bretagna, i diritti di proprietà dell’autore sulla sua opera, della quale egli può disporre a piacimento sul mercato. In Italia si pervenne a un’intesa di massima tra i vari Stati preunitari nel 1840, e poi a livello internazionale il diritto d’autore venne sancito solo nel 1886. La funzione dell’editore è molto complessa se, uscendo dalla sfera economica, la valutiamo sotto il profilo socioculturale. È più facile ricostruire la storia del libro sotto l’aspetto tipografico che non sotto quello editoriale. Mentre per il primo ci si avvale, come principale documentazione, dei libri stessi, per il secondo si deve prendere in esame una serie di relazioni e si devono analizzare il rapporto con gli autori, le remunerazioni, il confronto con i tipografi, i prezzi, le tirature, la diffusione e le relazioni con i librai, dunque tutti fenomeni esterni all’oggetto-libro. La dimensione editoriale va tenuta però ben presente perché è lei che afferma con forza il carattere di merce, di valore di scambio, accanto a quello di testo-valore d’uso del libro. Per il libro antico le cose si complicano poiché, specie nei primi due secoli della stampa, le funzioni di editore, tipografo e libraio si sovrappongono. Abbiamo poi personaggi che occasionalmente finanziano imprese editoriali, come vescovi. Nel primo caso documentato di società tipografico-editoriale, quella di Gutenberg, Fust e Schoeffer a Magonza, assistiamo alla prevaricazione del capitale, nella persona di Fust, che strappa all’inventore della tipografia, Gutenberg, la possibilità di sfruttare la propria invenzione. Questa prevalenza del capitale della nascente industria fa sì che, inesorabilmente, le funzioni relative al finanziamento, alla produzione e alla distribuzione si vadano distinguendo. Essa si manifesta nella necessità, da parte delle prime tipografie, di contare su una solida base finanziaria per far fronte agli inevitabili insuccessi. I primi tipografi attivi in Italia, Sweynheym e Pannartz, fecero fallimento perché non riuscirono a superare l’impasse della mancata vendita delle loro edizioni di classici e di padri della Chiesa. Ci fu anche chi, come Aldo Manuzio, seppe riunire in sé l’abilità tecnica, il fiuto commerciale e la raffinatezza culturale, in quanto egli si preoccupò di avere tra i suoi collaboratori intellettuali di grido, i cui nomi, campeggianti sui frontespizi delle sue eleganti edizioni, erano una garanzia della correttezza dei testi e attiravano il pubblico. Il suo esempio fu seguito dai principali editori del XVI secolo. Il rischio commerciale rappresentato dalla stampa di opere di autori nuovi, richiedendo margini più ampi per l’attività editoriale, favorì la separazione di questa dall’industria tipografica. Nel corso del Cinquecento si assiste alla comparsa di industriali che si dedicano all’editoria, che talvolta che non rappresenta che una delle loro attività. Non è un caso se i centri della produzione libraria hanno seguito lo spostamento dell’asse commerciale europeo e mondiale. Così, a Venezia si sono affiancate e poi succedute nel Cinquecento prima Lione e Parigi e poi Anversa, di cui Amsterdam ha preso il posto nel XVII secolo, mentre nell’epoca dei grandi rivolgimenti tecnici centro della produzione è diventata Londra. Spesso il tipografo non è che un artigiano, il quale soffre di una perenne mancanza di fondi, ed è condannato a cercare qualcuno che lo finanzi. Non è detto che questo qualcuno debba essere un imprenditore, ma può essere anche il potere politico, ecclesiastico o universitario; infatti, si assiste presto al sorgere di stamperie regie, granducali, arcivescovili e di famosi atenei. Nell’età del libro antico non era desueto che il produttore mettesse in vendita direttamente la propria merce, approfittando dell’affaccio sulla via del proprio ‘’atelier’’, comunemente i libri dovevano percorrere infatti una strada più o meno lunga per raggiungere il proprio acquirente. L’invenzione della stampa produsse una sorta di globalizzazione ‘’ante litteram’’, infatti non ci deve sorprendere che la distribuzione avvenisse attraverso una vendita al dettaglio in botteghe specializzate che avevano struttura e dimensioni diverse, andando dai grandi distributori, collegati con gli editori-tipografi, ai semplici ambulanti. CAPITOLO SEI: IL PARATESTO forme per i frontespizi, o meglio per nuovi usi di vecchie forme, ma lo stile ‘’rettangolare’’ inizialmente adottato non durò a lungo e dall’inizio degli anni Sessanta fu sostituito con una struttura circolare, che rimase in auge un decennio. Queste sono però pur sempre delle eccezioni, anche se cospicue, perché nei manoscritti prevalgono incipit e intitolazione, ed entrambi contengono un titolo. La duplice funzione del titolo riguarda solo l’opera da una parte e l’oggetto fisico dall’altra: manca il terzo termine, l’edizione, che riunisce copie prodotte in serie. Qui ora una serie di definizioni:  INCIPIT: parole iniziali di un testo, senza tenere conto dei principii e dell’intitolazione;  PRINCIPII: insieme delle pagine di un libro che precedono il testo vero e proprio degli scritti che esse contengono;  INTITOLAZIONE/TITOLATURA: formula che contiene il nome dell’autore, il titolo o una qualsiasi altra designazione dell’opera, collocata all’inizio del testo – introdotta generalmente dalla parola incipit – o alla fine di esso; Le due forme di presentazione dell’incipit e del titolo autonomo furono assunte anche dai primi libri tipografici. Molti incunaboli usarono intitolazioni sia stampate sia manoscritte, le quali dovevano venire apposte su ciascun esemplare. È noto che nei primi decenni della stampa numerosi elementi ‘’accessori’’ venivano aggiunti a mano e quindi copia per copia, ma non tutti gli esemplari erano ‘’rifiniti’’ in questo modo. Esempi famosi di incunaboli con titoli aggiunti sono la Bibbia di Gutenberg e alcune delle prime edizioni di Sweynheym e Pannartz. Dobbiamo considerare il frontespizio il punto d’approdo della vicenda, una cornice del titolo o un’etichetta del nuovo prodotto-libro. È un percorso che produce contemporaneamente due nuovi effetti: da una parte un nuovo contenitore autonomo (sul modello di qualche anticipazione manoscritta) per il titolo e l’autore ossia per le caratteristiche del libro in quanto prodotto intellettuale, e dall’altra una sorta di etichetta del prodotto che pubblicizza l’aspetto commerciale del libro-oggetto. È l’irrompere dell’edizione tipografica a cambiare le regole del gioco. Nel giro di pochi decenni non basterà più ‘’presentare’’ gli elementi dell’opera ma occorrerà sottolineare anche quelli dei finanziatori, dei produttori e dei distributori; si avvertirà l’esigenza di esaltare le virtù del libro che si presenta, promuovendo una merce e le aziende che agiscono sul mercato. Il frontespizio è l’elemento nel quale ci sono tutti gli elementi dell’informazione, ossia titolo, autore e responsabilità editoriale, assolvendo entrambe le funzioni citate sopra. Non è casuale che la pagina del titolo sia detta appunto così in tutte le lingue dei principali paesi dove fu introdotta la stampa nel Quattrocento (la parola frontespizio deriva comunque dal linguaggio dell’architettura). Per Margaret Smith la ‘’title-page’’ è qualunque forma di pagina autonoma che contenga un titolo; dunque, anche quelli che bibliotecari e bibliografi italiani chiamerebbero occhi, occhietti ed occhielli. Si possono distinguere pagina del titolo e frontespizio semplicemente per definire il frontespizio, tra le fonti di informazione di un libro a stampa, quella pagina autonoma che funge da presentazione bibliografica (editoriale) dell’espressione di una o più opere contenuta/e in una manifestazione. In realtà, piuttosto che essere la prima l’anticipazione dell’altra, si tratta di due forme diverse che rispondono ad esigenze differenti: la pagina del titolo è una sorta di etichetta, mentre il frontespizio è la vera soglia del libro. Si pensava che con la stampa il libro cessasse di essere visto come prolungamento dell’oralità, ma in realtà modalità che potremmo definire ‘’orali’’ sopravvissero. Nel momento in cui, a metà del XV secolo, iniziò a emergere un nuovo modo di produrre libri, in un testo scritto il titolo non aveva ancora quella che potremmo chiamare ‘’dimensione standard’’, che venne poi assumendo in seguito all’invenzione della stampa. I primi tipografi erano più preoccupati della diffusione dei testi che della loro standardizzazione, anzi spesso per il medesimo testo potevano essere utilizzati titoli diversi, mentre uno stesso titolo poteva celare opere distinte o non coincidenti. Il concetto di ‘’paternità intellettuale’’ si veniva definendo con precisione proprio con l’umanesimo. Per i bibliografi, il frontespizio ‘’title-page’’ non va confuso con la prima pagina del libro o con l’antiporta. Per il libro a stampa, il termine frontespizio e i suoi equivalenti in altre lingue sono presi dall’architettura. La definizione di ‘’frontispiece’’ è proprio ‘’illustrazione posta di fronte al frontespizio di un libro o di parte di un libro’’ (nel linguaggio italiano della bibliografia la sua traduzione è antiporta). La tesi della Smith vede il frontespizio come esigenza nata in seguito all’affermarsi di una ‘’produzione di massa’’ dei libri a stampa. Questo dette origine a un fenomeno nuovo: un vero mercato del libro. Il ruolo della legatura nel manoscritto e nel libro a stampa cambiò. Il manoscritto è un unicum, quindi il rapporto tra ‘’edizione’’ e legatura è un rapporto paritario: 1 a 1. Nel libro a stampa, dal momento che la legatura, di regola, non è editoriale, tale rapporto è squilibrato: 1 a un numero, cioè un’edizione può avere tante legature diverse quanti sono gli esemplari. Il meccanismo della produzione/distribuzione del libro a stampa impedì che ci fossero legature editoriali di serie e che una presentazione editoriale del libro avesse la coperta come luogo privilegiato nell’ambito della distribuzione. All’epoca del manoscritto si praticò frequentemente l’uso di inserire in qualche modo i titoli nelle legature. Tali abitudini riguardavano i possessori e non i produttori e quindi non potevano essere facilmente proseguite dalla stampa, la quale aveva da sfruttare le possibilità offerte da una produzione in serie. Di qui i cosiddetti ‘’wrappers’’, cioè casi episodici di copertine negli incunaboli. Se ne annoverano sostanzialmente due tipi: le più antiche sono quelle del periodo 1480-90 ad Augusta, e sono copertine con xilografie disegnate appositamente per i libri, presenti sia in più copie della stessa edizione sia in più edizioni dello stesso tipografo, mentre più posteriori sono quelle ferraresi, le cui xilografie non avevano un legame con il contenuto del libro, ma venivano prodotte su commissione del libraio o del legatore, che le usava come mezzo decorativo per proteggere il testo (la più antica italiana è datata 1490). Può rientrare in questo genere anche l’end-title, da tradurre con l’espressione ‘’titolo finale’’. Margaret Smith individua possibili ruoli del frontespizio: un ruolo di protezione fisica del libro, uno di identificazione del suo contenuto e uno di promozione del libro in quanto merce. Il primo passo verso il frontespizio poté essere rappresentato da una pagina bianca con funzione di protezione, occorrente nella fase tra la stampa e la legatura. Dobbiamo ricordare che il commercio all’ingrosso dei libri stampati avveniva con i libri non ancora rilegati, anzi sembra che l’indicazione del libro ‘’con coperta’’ sia stata il contrassegno del libro usato. Un’etichetta può essere stata poi inserita con funzione di identificazione, necessità interna ancora al circuito commerciale. In seguito, l’aggiunta di una quantità maggiore di informazioni e l’inserimento di decorazioni – tra le quali i marchi di produttori – fu determinata da un’esigenza di pubblicità e di promozione. Il fatto che la legatura fosse realizzata più tardi rispetto alla stampa è una circostanza che deve aver cambiato molte abitudini. Ma è credibile una funzione di protezione della pagina bianca all’inizio del volume? Diventa importante comprendere come le copie fossero conservate, dopo essere state stampate. Se immaginiamo le copie immagazzinate in pile di fogli interi, una sola pagina bianca non poteva svolgere tale funzione di proteggere, mentre riusciva a farlo per le copie divise con i fogli già tagliati, e così pure per le copie divise con i fogli non tagliati, ma piegati in due. Sarebbe necessario anche individuare con precisione quando avvenisse la piegatura dei fogli; la Smith suppone che questa operazione fosse realizzata subito dopo la loro asciugatura. Un’esigenza era anche quella di identificare i libri all’interno dell’officina, durante il trasporto, nella bottega del libraio prima e dopo la legatura. Le officine dei tipografi e le botteghe di librai tendevano a riempirsi di centinaia di libri, ed era necessario orientarsi rapidamente per riconoscere opere, edizioni ed esemplari. La risposta fu quello che noi possiamo chiamare occhietto. Il problema del riconoscimento dovette anche influenzare il modo nel quale tipografi e librai citavano i loro prodotti negli inventari di bottega e nei cataloghi a stampa, similmente a quanto stampato negli occhietti e nei colophon. Dall’identificazione alla promozione il passo dovette essere breve: una volta che si ebbe a disposizione una pagina ‘’libera’’ all’inizio del libro, questa dovette funzionare prima come protezione poi come identificazione e infine come promozione (il frontespizio vero e proprio si sviluppò più per quest’ultima necessità). Il ruolo di informazione del frontespizio deve fare i conti con la fallacia di alcuni di essi. La diffusione dell’occhietto e del frontespizio cambiò anche il modo di formulare i titoli. A Venezia e altrove si venne affermando il ruolo della cornice xilografica, che prima adornava la pagina di apertura del testo e poi passò nel frontespizio. Scomparve la rubricazione e le iniziali decorate a mano si fecero più rare, anche se i tipografi, fino ai primi anni del Cinquecento, continuarono a lasciare quelle ‘’finestrelle’’ bianche con al centro stampata una ‘’letterina d’attesa’’. Tutte le rifiniture manuali del libro stampato erano destinate a essere tradotte prima o poi in un linguaggio tipografico. Le iniziali xilografiche presero gradualmente il posto di quelle decorate a mano, eppure all’inizio i rapporti tra i primi stampatori e i miniatori erano stati stretti. Queste abitudini vanno viste come un tentativo di far assomigliare il più possibile i libri stampati ai manoscritti, almeno per quella quota di pubblico più esigente dal punto di vista estetico. Una di queste rifiniture era rappresentata proprio dai titoli iniziali, e furono proprio questi i primi a essere abbandonati, sostituiti da titoli e incipit stampati. Le novità ebbero dei prodromi. La Smith fornisce tre noti esempi di protofrontespizi:  La ‘’Bulla cruciata contra Turchos’’ di Pio II, stampata a Magonza da Schoeffer nel 1463, e sono due edizioni simultanee in latino e in tedesco;  Un ‘’Sermo ad populum predicabilis in festo presentationis beatissimae Mariae semper Virginis’’;  Il ‘’Calendarium’’ di Muller, esempio più famoso, stampato a Venezia nel 1476/78. Non sono soltanto i primi a contenere autore, titolo, luogo e data di stampa e nomi dei tipografi, ma anche i primi ad essere decorati in serie, con una cornice xilografica. Almeno sei soggetti ruotano attorno al libro a stampa: autore, che può essere anche semplicemente il curatore del testo, l’editore commerciale, il tipografo, lo spedizioniere, il libraio e infine il lettore. Alcune di queste figure sono nuove rispetto al circuito del manoscritto e ciascuna concorre a determinare le novità che si presentano nel libro. Alla fine del secolo, oltre il 75% degli incunaboli inizia con una pagina del titolo. Resta aperta la questione di sapere cosa ci fosse dopo la pagina bianca: sembra che questa fosse prevalentemente seguita da incipit e testo. Questo induce la studiosa americana a corroborare la sua tesi della pagina o carta bianca come risposta alle esigenze di protezione imposte dalla mass production. Una variante da considerare per questo presunto ruolo deve essere stata quella del formato. Se accettiamo l’ipotesi di uno stoccaggio dei fogli che ci viene da fonti più tarde, cioè che i fogli dopo la stampa venissero assemblati piegati in due, un ruolo di protezione si giustifica solo con i formati in-folio, che sono quasi esclusivi nei primi decenni (la produzione mostra almeno un 75% di edizioni in-folio nel Quattrocento). Una funzione protettiva, nel periodo che intercorre tra la fine della stampa e l’apposizione della legatura, può infatti essere ipotizzata quasi solo per gli in-folio. Troviamo spesso pagine o carte bianche alla fine o in mezzo dei libri del Quattrocento; il fatto di trovarle in mezzo potrebbe essere determinato da una sorta di organizzazione del lavoro, che ad esempio poteva utilizzare più compositori o più torchi, e il bianco potrebbe essere il punto di congiunzione del lavoro simultaneo sia nella fase di composizione sia in quella della stampa. Parlando di bianchi iniziali non vanno confuse le pagine bianche con le carte bianche, dato che quest’ultima sembra avere una funzione protettiva più credibile della pagina. La conclusione non è tanto quella che il titolo possa aver rimpiazzato il bianco, quanto che l’informazione del titolo sia andata a occupare la pagina bianca. Questo sembra chiarissimo se consideriamo i registri, cioè una sorta di raffigurazione della struttura materiale del libro che i tipografi mettevano a conclusione delle loro stampe. Una pagina o carta bianca all’inizio di un libro si presta a numerose ipotesi circa il suo uso pratico. Nel caso che fossero state carte, si poteva rimuoverle più tardi, in occasione della legatura, altrimenti potevano essere utilizzate come guardie o incollate sul piatto anteriore della coperta, assumendo il ruolo di controguardie. Alcune copie del ‘’De officiis’’ di Cicerone, stampate a Milano nel 1474 da Antonio Zarotto, sono un caso di inchiostrazione accidentale di parte di una forma contenente una sezione cieca (bearer), destinata a ottenere una blind printing, cioè una stampa totalmente o parzialmente bianca. Leo Olschki suggeriva che la pagina bianca fosse stata lasciata per la trascrizione del titolo da parte di un copista e in effetti si potrebbe supporre un titolo la cui formulazione quasi venisse demandata al futuro possessore. Il catch-title (titolo collocato accanto alla segnatura) erano uno strumento utile solo per il tipografo, in quanto gli consentiva di identificare immediatamente una forma e un foglio. Il ruolo di protezione potrebbe contendono in qualche misura gli spazi iniziali, le varie soluzioni si alternano, dando luogo a ibridi e compromessi. Due filoni si confrontano nel contendersi la ‘’soglia’’ dei primi libri stampati:  Quello ‘’estetico’’, che si preoccupa di creare una ‘’entrée’’ il più possibile elegante per i clienti e i committenti esigenti, e non si cura dell’informazione o dell’advertise, ma tende a realizzare una decorazione manuale e quindi non è prevista per tutte le copie;  L’altro mira a privilegiare la ‘’notitia rei literariae’’ e la ‘’notizia librorum’’, e si configurerà parimenti come bibliografica e commerciale; Epigrafe e manifesto sono due differenti forme di comunicazione pubblica legati storicamente. È indubbio che, nell’epoca di transizione del manoscritto alla stampa, il ruolo di alcuni personaggi come suggeritori del gusto grafico. In che misura questo gusto epigrafico che recuperava una caratteristica forma di comunicazione del mondo antico avrà influenzato l’insorgere di occhietti nei libri prima e dei manifesti poi? Occorre sottolineare l’importanza che giocarono i rapporti tra le due forme librarie, manoscritto e incunabolo, in particolare delle prime pagine con cornice miniata. Nelle origini del frontespizio si incontrano diverse esigenze: quella dell’informazione breve e visibile, tipica dell’occhietto e degli elenchi di titoli, e quella dell’ornamento della bella ‘’soglia’’ del libro, già anticipata dalle cornici miniate dei codici rinascimentali e degli stessi incunaboli. Questo incontro è avvenuto ben prima della fine del Quattrocento. C’è comunque sempre stata una qualche anticipazione delle varie trasformazioni e spesso ci sono delle persistenze di vecchi modelli. È probabile che alcuni centri e alcune figure di editori e tipografi abbiano fornito dei modelli imitati dagli altri, ma la miniatura poteva decorare solo alcune copie dopo la stampa. Il mercato richiedeva una presentazione decorosa nella stampa. Gli scudi vuoti, che queste pagine iniziali non di rado presentano, confermano l’impressione che fosse in atto una ricerca di nuovi clienti. Lo stampatore era un artigiano, ma i rapporti con la parola scritta ne facevano una sorta di notaio; molti copisti erano stati anche notai. Restano da considerare le ipotesi sullo sviluppo dell’editoria italiana negli anni Settanta del Quattrocento:  L’ipotesi di Susan Noakes è che nella battaglia economica nasce una categoria di intermediari che impara a interpretare il mercato e a pilotare gli stampatori;  In quella di Maury Feld, la committenza conserva la sua importanza e la fortuna degli stampatori deriva dal loro fiuto per i mutamenti politici e di costume; L’una però non esclude l’altra. La necessità di un’entrata del libro che ne chiarisse il contenuto esaltandolo, ma eccitando la curiosità del lettore, non poteva essere esaudita solo per alcune copie di lusso. Il passaggio dalla decorazione manuale a quella tipografica è un fenomeno che riguarda anche l’interno del libro. Grazie ai lavori di studiosi come Lilian Armstrong, si è compreso che l’avvento della stampa non provocò la fine della decorazione manuale, ma anzi almeno in un primo momento miniaturisti e rubricatori trovarono nuove e crescenti occasioni di lavoro in città che, prima dell’introduzione della tipografia, non avevano offerto loro un mercato paragonabile a quello delle università e delle corti rinascimentali, attente all’uso del libro come strumento politico e promozionale. Protezione, informazione, promozione e ornamento sono tutti svolti da quella parte del peritesto che circonda il libro e lo presenta, ma è difficile pensare che si siano solo succeduti, infatti debbono avere, in qualche modo e per un certo periodo, convissuto. IL COLOPHON: Il colophon può essere definito la formula con la quale si conclude un libro, sia manoscritto sia a stampa. Può accompagnarsi o essere sostituito dall’explicit, ma anche esserne a sua volta il sostituto. Non va però confuso comunque con quest’ultimo, che rappresenta la chiusura di un testo o di una sua parte – tomo, sezione, capitolo – mentre il colophon è invece la formula conclusiva del libro in quanto oggetto e/o in quanto edizione e quindi, di regola, oltre al titolo e all’autore, contiene informazioni riguardanti il copista o il tipografo, il luogo e il tempo in cui fu copiato o stampato, ed eventualmente notizie sul patrono o sull’editore, sul libraio. Garnett sostenne che frontespizio e colophon convissero solo per un breve periodo, ma in realtà si sbagliò dato che la convivenza dura ancora. Il colophon resta un elemento fisso di quasi tutte le pubblicazioni del Cinquecento e lo ritroviamo in una buona misura anche nei libri dei secoli successivi. Nel primo ventennio del secolo una larga maggioranza di libri recano il colophon, a prescindere o meno da una contemporanea presenza del frontespizio. Cresce poi il numero dei casi di compresenza di frontespizio e colophon, e dal 1541 spariscono le edizioni prive di frontespizio ma quelle che recano anche il colophon rappresentano quasi i due terzi del totale. Alla fine del secolo oltre il 30% dei libri stampati recano un colophon abbinato al frontespizio. Questa convivenza non comporta sempre una duplicazione di informazioni. Spesso il colophon rimane il luogo di competenza del tipografo, mentre il frontespizio spetta all’editore/libraio. I colophon si ridussero perfino a essere una fotocopia dei frontespizi e la sottoscrizione finale si specializzò nel contenere le informazioni relative agli stampatori. I colophon ci introducono nell’intimità degli ‘’uomini del libro’’, infatti erano il segno e la prova dell’orgoglio dei tipografi nel proprio lavoro. La Chiesa guardava con sospetto alla nuova arte o meglio erano i tipografi a essere prudenti? Non erano solo le Bibbie a essere prove di sottoscrizioni. Gutenberg non appose mai il suo nome, Ruppel non datò mai un’edizione, Eggestein non datò nulla fino al 1471 (tutti questi artigiani erano legati a Gutenberg). Si trattava forse di un tentativo di mantenere segreta l’arte o era una sorta di patto di omertà? Fust e Schoeffer, ad esempio, non si trattengono invece dal glorificare l’arte e la loro carriera inizia con il ‘’Salterio’’ del 1457, che presenta il più antico colophon. Questo colophon ci fornisce, in un modo discorsivo, informazioni sulle tecniche di produzione, sui produttori e sull’anno di stampa. Per l’Italia, nel Lattanzio di Subiaco, Sweynheym e Pannartz inseriscono in fine l’indicazione ‘’In venaribili monasterio sublacensi’’, che può essere considerata un primo accenno di colophon e, dalle ‘’Familiares’’ di Cicerone inseriscono i loro nomi in una composizione metrica finale. I colophon veneziani sono numerosi e pieni di informazioni, specialmente per il ruolo dell’editore scientifico, ed appare evidente soprattutto nelle edizioni di classici latini. Qui il curatore giocava un ruolo a metà strada tra l’editore e il correttore di bozze, e il tipografo lasciava a lui il ruolo di formulare il colophon. Talvolta queste sottoscrizioni danno informazioni anche sulle tirature, ma in modo ambiguo. Frequenti furono i casi di errori di stampa nelle date contenute nelle sottoscrizioni, in particolare quelle formulate in numeri romani. Il sistema di datazione con i numeri romani faceva sì che i compositori e i correttori potessero sbagliarsi più facilmente, e forse questa fu una delle ragioni che favorirono la diffusione delle date in numeri arabi, ma è comunque da ricordare la longevità delle forme di datazione espresse in numeri romani, che resistettero fino al Settecento e all’Ottocento. Questi errori sono tanto più facili da identificare quanto più sono clamorosi; in altri casi, meno eclatanti, ci si può domandare se qualche refuso nelle datazioni non possa essere stato preso per buono dalla bibliografia. Secondo Pollard i tipografi ponevano più attenzione nella datazione dei colophon di opere latine, anzi la loro cura andava specialmente alle sottoscrizioni in lingua latina, più frequenti di quelle nelle lingue volgari. I tipografi (e gli editori) intendevano affidare la loro fama alle edizioni in latino che non a quelle in volgare. È evidente anche il ruolo di advertise del colophon. Molti stampatori cominciarono prestissimo ad aggiungere la propria marca al colophon. In Italia il primo a recarne una sarebbe quello che Sixtus Riessinger a Napoli pone in calce alla sua edizione di ‘’Florio e Biancofiore’’. Il colophon viene utilizzato dagli editori soprattutto per vantare il contenuto del libro. Così come abbiamo visto per la parte iniziale del libro, anche il colophon non si affranca tanto facilmente dai suoi modelli manoscritti. La sottoscrizione è il luogo deputato a contenere le notizie del tipografo e/o dell’editore; perciò, sarebbe particolarmente utile un repertorio del colophon del Quattrocento. LA LEGATURA: sebbene le legature editoriali siano esistite sin dal tempo di Aldo Manuzio, queste rappresentarono fino al Settecento più l’eccezione che la regola. Era assai comune la vendita dei libri a fascicoli sciolti e la maggior parte delle legature dei libri antichi, pur formando un tutt’uno con l’oggetto- libro, è il risultato del suo consumo piuttosto che della sua produzione. La legatura è spesso uno degli aspetti più importanti per ricostruire la storia del singolo libro in rapporto a quella di altri con i quali ha condiviso le proprie vicende. La decorazione della legatura consente di stabilire l’appartenenza di un volume. Le parti della legatura sono:  LEGATURA PIENA: quella che copre con lo stesso materiale tutte le parti esterne del libro;  MEZZA LEGATURA: costituita da due materiali diversi, uno per il dorso e uno per i piatti;  PIATTI: uno anteriore e uno posteriore, consistono nelle due parti solide che racchiudono l’insieme dei fascicoli, e sono formati dalla coperta, dall’asse e dalla controguardia;  DORSO, opposto al TAGLIO: è la zona del libro dove si applica la cucitura e, a legatura ultimata, si imprime a fuoco o si scrive a penna il titolo del libro e magari il nome dell’autore;  NERVATURE O RIALZI: quelle sporgenze che attraversano il dorso a intervalli regolari, determinate dalle cuciture dei fascicoli. Indicano in rilievo la traccia del supporto della cucitura, chiamato nervo;  NERVI; supporti della cucitura costituiti da materiali diversi. In alcune legature sono assenti e sostituiti dal filo di cuciture inserito nel dorso;  SPIGOLI O MORSI: costituiti dai confini tra piatti e dorso, sui quali poggiano i cartoni della coperta. Si formano ai lati dell’asse, aderenti al dorso;  UNGHIATURA: sporgenza dei piatti rispetto al margine dei fogli, cioè i tagli. L’unghiatura è in sostanza la differenza tra le dimensioni dei piatti e quella del corpo del libro;  CAPITELLI: si trovano alle estremità di testa e di piede del dorso e consistono nelle venature in seta o cotone situate alle due estremità del dorso. Un capitello è costituito da un’anima, omologato al nervo di cucitura, che si cuce ai fascicoli, e viene incartonato alle assi;  FOGLI DI GUARDIA: pagine bianche poste all’inizio e alla fine del libro tra il piatto anteriore e il frontespizio e quello posteriore e la fine del libro, e che non fanno parte dei fascicoli;  CONTROSGUARDIE: fodere interne della coperta, incollate all’interno dei piatti anteriore e posteriore, sulle quali troviamo spesso ex libris o incisioni;  SPECCHI: strisce di tela o pelle che possono trovarsi come rinforzi interni lungo il gioco di apertura e chiusura della coperta; Alcuni elementi della legatura si possono collegare alla storia della collocazione dei libri. Fino a quando i libri si collocarono orizzontalmente negli armadi vi fu l’abitudine di scrivere sui tagli il nome dell’autore. Quando nei saloni delle biblioteche sei-settecentesche i volumi vennero sistemati in posizione verticale, essi furono decorati soltanto sui dorsi, sui quali venivano incisi o scritti titoli e autori. LA COPERTINA: nella storia delle forme di presentazione del libro a stampa, dopo l’affermazione del frontespizio – secoli XV-XVI – e la comparsa di antiporte e frontespizi incisi – secoli XVI-XVII – un passaggio di indubbia rilevanza è rappresentato dalla diffusione delle copertine editoriali, avvenuta tra il XVIII e il XIX secolo. I primi a usarle sistematicamente sarebbero stati i fratelli Brasseur a Parigi; la fonte è arrivata a noi attraverso il ‘’Dizionario’’ di Giuseppe Isidoro Arneudo, ma con i Brasseur siamo già nel primo quarto del XIX secolo, quando il fenomeno era diffuso e dunque non nuovo. Sull’aspetto della copertura del libro constatiamo in Italia la presenza di un forte squilibrio tra i saggi dedicati alla coperta come la legatura artistica o artigianale e le riflessioni che storici, bibliografi e bibliotecari hanno dedicato al fenomeno delle antiche copertine. Il fenomeno delle coperte stampate sembrerebbe presentare aspetti di notevole discontinuità in ambito temporale e spaziale. Sono noti episodi antichi di coperte xilografiche risalenti al XV secolo, destinate ad ‘’avvolgere’’ i libri all’uscita della stamperia, le ‘’copertina a avvolgimento’’, dette anche camice, sembrano invece aver avuto spesso solo una funzione di protezione provvisoria del libro sono destinate a scomparire nel Settecento. Possono consistere in uno stemma araldico, una vignetta con motto o un emblema contenente un monogramma (le iniziali del tipografo o dell’editore). CAPITOLO SETTE: LA DEDICA Viene talvolta indicata anche come epistola dedicatoria ed è anche un micro-genere letterario. La dedica è una forma di transazione, e come tale è soggetta a determinate ‘’regole’’. Si tratta di uno scambio oro- alloro, cioè l’offerta di un’opera a un personaggio potente che gli darà lustro e onore, e dal quale in cambio ci si attende un riconoscimento che può essere anche di natura venale, oppure semplicemente una forma di protezione. Talvolta il dedicante non ha un rapporto di dipendenza dal dedicatario, e risulta essere uno stipendiato. Non si deve pensare che tale forma di omaggio riguardi solo le opere letterarie, ma la troviamo spesso anche in quelle scientifiche. La dedica è comunque sempre un dono dal quale ci si attende un ringraziamento concreto. Marco Paoli ha elaborato un decalogo del sistema delle dediche:  Chi firma la dedica deve possederne il diritto, quindi deve esserne l’autore, l’editore o il traduttore;  Il dedicatario deve essere un personaggio vivente;  La scelta del dedicatario deve rispondere a criteri di opportunità e convenienza e deve essere motivata nella dedica;  La scelta deve rispettare la gerarchia;  L’opera oggetto di dedica deve essere inedita;  Deve essere richiesta al patrono l’autorizzazione a dedicare;  L’edizione deve essere presentata al patrono prima della diffusione;  Il patrono ha l’obbligo di ricompensare il dedicante;  Il ‘’gradimento’’ deve avvenire in modi e tempi adeguati;  La ristampa curata dall’autore deve conservare lo stesso dedicatario, ma non necessariamente la forma della dedica; L’istituto della dedica è molto più antico della stampa. Quando a essere dedicato è il testo contenuto in un codice il rapporto tra dedicante e dedicatario è circoscritto ai due attori. Con la stampa invece, anche se il dedicatario riceve la copia di dedica prima della messa in circolazione degli esemplari, il rapporto coinvolge tutti i fruitori dell’edizione, il pubblico che diviene anche lui destinatario della dedica e testimone dell’offerta, e inevitabilmente la platea dei dedicanti si allarga a editori e tipografi. Non manca anche per editori e tipografi l’esigenza di ricercare qualche ‘’patrono’’ per le proprie pubblicazioni, non dimenticando che un nuovo genere di patrono, cioè il pubblico, fa la propria irruzione sulla scena, non più soltanto nella veste di comunità di lettori, ma anche di mercato, quali ‘’consumatori’’ di libri. La motivazione principale delle dediche è un’esigenza del dedicante. La dedica viene di regola collocata nella parte iniziale del libro, prima dell’inizio del testo, avendo anche la funzione di presentarlo. CAPITOLO OTTO: PRIVILEGI, CENSURA, COPYRIGHT PRIVILEGI: il meccanismo del privilegio, ossia la concessione dell’esclusiva della stampa in un certo ambito, rientra nel sistema dei rapporti giuridici ruotanti intorno al libro dopo l’invenzione della stampa, ma è anche parte del paratesto, soprattutto quando ne viene pubblicato il testo all’interno del libro. I privilegi compaiono quasi immediatamente con l’affermarsi della stampa. Dapprima, a Venezia per Giovanni da Spira, come concessione di un’esclusiva in assoluto dell’attività tipografia all’interno di una compagine statale in quanto non era trasmissibile agli eredi. Successivamente, il privilegio divenne una concessione dell’esclusiva di stampa di un determinato testo per un determinato periodo di tempo. A seconda delle vocazioni delle singole realtà statuali ed economiche i privilegi sono stati utilizzati in modo differente. A Venezia, dove la repubblica ha favorito l’ampliamento della platea degli uomini del libro perché le attività a esso connesse erano un segmento importante dell’economia, i privilegi sono stati concessi in modo ampio, senza che si potesse creare un monopolio. Altrove riscontriamo un uso quasi opposto, con la preferenza data a privilegi concessi a editori e tipografi esterni, allo scopo di incassare la tassa prevista. A richiedere privilegi non furono solo editori e tipografi, ma anche autori come Aristo. Coloro che un tempo erano definiti ‘’poligrafi’’, oggi sono indicati piuttosto come ‘’quadri redazionali’’ o ‘’collaboratori e mediatori editoriali’’, cioè curatori di testi. Il privilegio non era un diritto come il copyright, ma una gentile concessione del sovrano. Il sistema veneziano per le stampe era basato su:  La licenza, che era lo strumento di controllo su ciò che doveva essere stampato;  Il privilegio, che aveva come scopo la difesa dell’investimento in un progetto di stampa; La licenza era obbligatoria, mentre il privilegio opzionale. Molte stampe furono pubblicate nel Cinquecento senza privilegio, il quale era ottenuto per mezzo di una supplica alla quale seguiva un motu proprio nella forma del ‘’Breve’’. Un altro tipo di privilegio era attribuito sotto forma di patente: concedeva diritti esclusivi su un’invenzione. Nel Rinascimento italiano il privilegio tende a proteggere un investimento finanziario e non delle idee. Solo nel Settecento la pratica si estenderà a scrittori e artisti, non si può dunque ancora parlare di protezione della proprietà intellettuale. CENSURA: qualche decennio dopo la comparsa della stampa, la Chiesa cattolica si preoccupò di controllarla con le bolle papali. Innocenzo III con la ‘’Inter sollecitudines’’ (1487), Alessandro VI con la ‘’Inter multiplices’’ (1501), Leone X con la ‘’Super impressione librorum’’ (1515). La prima stabiliva la concessione dell’imprimatur (l’autorizzazione a stampare) solo per i testi che non esprimevano tesi contrarie alla religione o alla morale. Con quella di Alessandro VI si fissavano i principi di una censura preventiva molto ampia negli arcivescovadi tedeschi. Quella di Leone X, emanata in occasione del Concilio Lateranense V, li estende a tutta la cristianità, stabilendo la regola dell’imprimatur, il controllo preventivo su ogni pubblicazione da parte di un vicario papale o del Maestro del sacro palazzo o del vescovo o di un suo rappresentante. Ci fu poi una censura più radicale con l’Index librorium prohibitorium, a partire da quello del 1559 promulgato da Paolo IV. Cataloga circa mille titoli, ripartiti in tre categorie: autori non cattolici la cui intera opera è proibita, titoli vietati accompagnati da una lista delle edizioni vietate della Bibbia e una lista di 61 stampatori-librai la cui produzione è messa all’indice, e infine categorie di opere proibite ovvero qualunque libro privo dell’indicazione dell’autore, dello stampatore, della data e del luogo di edizione e dell’autorizzazione di stampa accordata dalle autorità ecclesiastiche. La lettura della Bibbia in lingua vernacolare richiede un’autorizzazione esplicita, che non sarà accordata alle donne né alle persone che non conoscono il latino. Il privilegio, o monopolio commerciale, permanente o temporaneo nella giurisdizione, garantisce all’inventore o iniziatore di un nuovo processo o di un nuovo prodotto il diritto di sfruttamento per un profitto. Tuttavia, era un monopolio solo in un senso molto limitato perché conferiva a un autore o a un editore un diritto su un nuovo libro per un periodo limitato. Erano provvedimenti veramente efficaci? Un privilegio poteva essere chiesto anche per un solo libro. Il più antico si data al 1479: un breviario stampato a Wurzburg da Dold, Reyser e Beckenhaub per il vescovo di quella diocesi. Venezia ne garantisce regolarmente a partire dal 1492. Il primo è per Pietro Francesco da Ravenna, professore di diritto canonico a Padova, per un manuale di mnemotecnica. La prassi si diffuse talmente che nel 1517 i privilegi a Venezia erano tanti da rischiare di paralizzare il commercio e il Senato li revocò tutti. In altri Stati italiani, con l’eccezione di Roma, il fenomeno era meno diffuso. Nel XVI secolo l’esistenza di una coscienza della proprietà intellettuale è dubbia. Bisogna distinguere tra la coscienza che gli autori potevano avere della proprietà intellettuale e la situazione giuridica effettiva dell’epoca. VERSO IL COPYRIGHT: a tirare in ballo gli autori furono i librai. Quelli londinesi si opponevano allo Statute del 1709 che limitava a quattordici anni la durata del copyright; costoro erano in contrasto con i librai di provincia che vivevano delle riedizioni di opere di successo. Nel corso della diatriba venne elaborata e promulgata la concezione della proprietà intellettuale dell’autore. La proprietà non è una convenzione sociale, ma un diritto naturale che precede l’ordine sociale (ripreso dal pensiero di Locke). In Francia, mentre Diderot assimilava il privilegio a una proprietà perpetua, non a una grazia concessa dal sovrano, si determinava un conflitto tra i librai parigini e quelli provinciali. Un Consiglio del Re del 1777 stabilì che si trattava di una proprietà limitata. In Inghilterra gli avversari della perpetuità del copyright assimilarono le opere letterarie alle invenzioni meccaniche e quindi la proprietà allo sfruttamento dei brevetti (durata quattordici anni). In Francia Condorcet e Sieyes ritenevano la proprietà letteraria ingiusta, perché le idee appartengono a tutti, e contraria al progresso, perché creava un monopolio privato su un sapere che è un bene comune (si creò un aspro dibattito sulla natura della creazione letteraria). Si creava così un legame tra la professionalizzazione dell’attività letteraria – meritevole di remunerazione – e l’ideologia del genio, fondata sull’autonomia dell’opera d’arte e sulla natura disinteressata del genio creatore. Da una parte, l’opera era ritenuta un bene negoziabile, mentre dall’altra il prodotto di un’attività libera e ispirata che si giustifica in sé stessa. Nel XVIII secolo a Venezia il privilegio era un diritto esclusivo di vent’anni riservato a chi pubblicava un’opera inedita, di dieci anni se si trattava di un’opera non più stampata da oltre vent’anni. Nel 1767 il termine per le prime edizioni venne portato a trent’anni e quello per le ristampe a quindici. LA LEGISLAZIONE DEGLI STATI MODERNI: nel 1709 in Inghilterra il ‘’Copyright Act’’ attribuisce la proprietà letteraria delle opere all’autore e non più all’editore. Nel 1791-93 in Francia le leggi ‘’Le Chapelier’’ e ‘’Lakanal’’ sulla proprietà letteraria e artistica riconoscono il diritto intellettuale come uno dei diritti fondamentali dell’individuo, e introducono nella creazione intellettuale la distinzione fra il contenuto e la sua forma esterna di presentazione. Nel 1801 in Italia tutti gli Stati italiani preunitari promulgano provvedimenti in materia. Nel 1886 con la Convenzione di Berna i paesi europei aderenti e alcuni paesi extraeuropei si costituiscono in Unione per la protezione delle opere letterarie e artistiche. CAPITOLO NOVE: NON SOLO LIBRI Quando parliamo di libri antichi, dobbiamo essere consapevoli che ci riferiamo anche a categorie di documenti che propriamente libri non sono, ma molto vari sia per forma che per contenuto. Si tratta di documenti che non è facile definire accorpandoli tutti in una sola categoria, ma in passato è stata usata spesso l’etichetta di materiale non librario. Esiste anche il termine anglosassone ‘’ephemera’’. Queste categorie di documenti, una delle quali è rappresentata da bandi, manifesti e fogli volanti, costituiscono a fatica un insieme e perciò i vari trattamenti, dalla catalogazione alle modalità di fruizione, saranno di volta in volta differenziati. In determinate condizioni, dal punto di vista indicale e descrittivo esso reclamerebbe un trattamento piuttosto archivistico che biblioteconomico. Ma, a parte l’esigenza di predisporre linguaggi comuni tra archivi e biblioteche, per quanto riguarda l’indicizzazione degli accessi è abbastanza chiaro come sia assurdo parlare di trattamento archivistico se le serie non ci sono e il materiale è sparso e occasionale. Questi documenti compaiono con l’avvento della stampa, la quale subito divide i suoi prodotti tra quelli che hanno la forma del codice – e che quindi possono essere rilegati – e quelli che assumono forme diverse: opuscolo, manifesto, foglietto, etichetta eccetera. Gutenberg stesso, non stampò agli inizi solo la Bibbia delle 42 linee ma anche lettere di indulgenza e cose simili. In Italia la comparsa della stampa non avvenne solo all’insegna dei Lattanzio, dei Cicerone o dei Sant’Agostino pubblicati da Sweynheym e Pannartz a Subiaco ma si materializzò anche in cosette più effimere, come la ‘’Passio christi’’. È comprensibile che materiali di natura analoga siano sopravvissuti in misura molto minore di quelli più nobili. Il panorama della stampa, non solo delle origini, se basato solo sulle sopravvivenze, ci giunge assai deformato. Per tutta l’epoca della stampa manuale queste due gambe della tipografia hanno camminato alquanto di conserva. In seguito, anche dopo il passaggio dalla stampa manuale a quella meccanica, questa seconda gamba della tipografia non solo si è mantenuta viva e vegeta, ma si è arricchita di nuovi prodotti. CAPITOLO DIECI: LA LEGIBILITY Da alcuni decenni le discipline bibliografiche, dopo aver privilegiato gli aspetti tipografici del libro, si sono rese conto dell’importanza della dimensione della lettura, del ‘’consumo’’, come elemento storico delle vicende della stampa; alcune caratteristiche del libro come quelle ortografiche e linguistiche non sono state
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