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Riassunto "Il mondo in questione" di Jedlowski, Sintesi del corso di Sociologia

SociologiaTeoria della societàStoria delle idee

Riassunto del libro di Jedlowski relativo a Sociologia

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto "Il mondo in questione" di Jedlowski e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! SOCIOLOGIA "Il mondo in questione" - Paolo Jedlowski Premessa (Che cos’è la Sociologia) La sociologia è un insieme di discorsi e di pratiche di ricerca che hanno per oggetto le relazioni e le istituzioni umane. E' la disciplina che si occupa della dimensione specificamente sociale della vita umana. I diversi autori che hanno praticato questa disciplina nel corso del tempo l'hanno intesa in modi diversi fra loro. Queste diversità rappresentano la storia della sociologia. Essa non è un sistema di conoscenze codificato; è piuttosto un insieme di problemi, di forme di indagine, di teorie e di concetti che si rispondono gli uni con gli altri condividendo il fine di promuovere e rinnovare costantemente l'autocomprensione della società. Un elemento accomuna gli autori che si riconoscono in questa tradizione: è una forma specifica di curiosità. E' quella curiosità che fa sì che il nostro mondo sociale ci appaia qualcosa che non possiamo dare per scontato. Finchè diamo il mondo per scontato, non ci interroghiamo. Se smettiamo di darlo per scontato e lo mettiamo in questione, iniziamo a chiederci come mai sia proprio così, e non altrimenti. La sociologia corrisponde a una serie di tentativi di rispondere a qusta domanda, nelle sue varie articolazioni. Ad esempio, ci si può chiedere se la forma della famiglia sia stata sempre quella che oggi fra di noi appare scontata, o se sia d ovunque così. Nel tentativo di rispondere a varie domande, la sociologia ha elaborato una serie di strategia di conoscenza. Capitolo 1 - Le origini del pensiero sociologico Il mondo moderno e le origini della sociologia La sociologia in quanto disciplina dotata di un proprio statuto autonomo, è una costruzione intellettuale del mondo moderno. Nei manuali di storia l'età moderna si fa iniziare per solito dalla scoperta dell'America, nel fatidico 1492. Quella data può essere assunta come lo spartiacque, almeno per la storia europea, tra una fase in cui il mondo era percepito come sostanzialmente chiuso e statico ed una in cui il mondo apparve improvvisamente illimitato. Nel 1492 chi avrebbe detto che si trattava di una data storica? Nella prospettiva dei sociologi, due grandi rivoluzioni segnano l'inizio della modernità vera e propria: la prima rivoluzione industriale - una rivoluzione essenzialmente economica e tecnologica - che si sviluppò in Inghilterra a partire dalla seconda metà del 1700, e la Rivoluzione francese - una rivoluzione politica e istituzionale - che ebbe luogo sul finire dello stesso secolo. Entrambe queste rivoluzioni rappresentano i punti culminanti di processi che hanno radici nei secoli precedenti e hanno corrispettivi in paesi diversi dall'Inghilterra e la Francia. Esse rappresentano un'accelerazione della storia, ed inaugurarono una successione di trasformazioni sociali e materiali di portata e di velocità inaudite. Le condizioni nelle quali viviamo si sono modificate negli ultimi duecento anni più di quanto non fosse avvenuto nei due precedenti millenni. Il desiderio di studiare le forme della vita sociale trae dalla percezione del mutamento, si comincia a studiare la società quando essa non può più essere data per scontata. Essa muta in modo rapido e apparentemente inarrestabile, e pone così il problema di comprendere le ragioni e le direzioni di questo mutamento per controllarlo, per criticarlo o per provarsi a dirigerlo. Ma un altro processo è fondamentale per comprendere l'epoca moderna e il sorgere della sociologia: lo sviluppo del concetto di scienza. La scienza è un insieme di strategie conoscitive in cui l'osservazione metodica - l'esperienza sistematica, l'esperimento - è la via maestra per il conoscere. Proprio questa idea è però drasticamente moderna. In tutte le concezioni del sapere che conosciamo prima dell'avvento della modernità, fino all'ultimo Medio Evo, il regno dell'esperienza e dell'osservazione sensibile si distingueva radicalmente da quello del vero sapere. Il sapere del vero era assoluto ed eterno, e posseduto soltanto da Dio: poteva derivare solo dalla riflessione filosofica o da quella religiosa, non dall'osservazione del mondo. Quando uomini come Bacone o Galilei, tra il XVI e il XVII secolo, proposero alla comunità dei dotti una visione della scienza come un sapere del vero basato sull'esperienza, mutarono le carte in tavola. Come si esprimeva Galileo Galilei, non è in dubbio che il sapere vero e certo sia di Dio, ma poichè è la natura il suo libro più grande, leggendo quest'ultimo gli uomini possono accedere al suo medesimo sapere. Non molto diversamente ragionava Newton poco più tardi formulando i principi della fisica moderna. E' all'interno degli effetti di questo impatto che vanno considerati movimenti come l'illuminismo francese o l'empirismo inglese, che proporranno l'obiettivo di applicare lo stesso metodo conoscitivo basato sull'osservazione, applicato con successo ai fenomeni naturali, anche ai fenomeno sociali. E' soprattutto dalla congiunzione della percezione del mutamento sociale e dell'idea moderna di scienza che ha origine il pensiero sociologico. La rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese: un mondo in mutamento Parlare di "rivoluzione industriale" significa alludere all'avvio del processo di industrializzazione che ebbe luogo in Inghilterra nella seconda metà del Settecento. L'avvio di questo processo ha molti presupposti. come la disponibilità di materie prime a buon prezzo e il controllo delle vie commerciali e dei mercati coloniali e la disponibilità di nuove tecnologie. Ma una certa tendenza alla meccanizzazione delle attività produttive è presente nella storia almeno a partire dal XVI secolo: la parola "rivoluzione" nasconde così uno sviluppo che in realtà è stato più graduale di quanto non si possa pensare. Tuttavia il processo di industrializzazione ha cambiato la storia degli uomini. In ogni caso, dall'Inghilterra il nuovo modo di produrre, o come dirà Marx, il mondo capitalistico di Egli sarà dunque costretto a scambiare almeno parte di ciò che produce con quello che producono altri. Il mercato è l'istituzione sociale che regola tutto ciò attraverso i meccanismi della domanda e dell'offerta e la conseguente definizione dei prezzi di ciascun bene che questi meccanismi comportano. Se moltissimi producono scarpe, e solo qualcuno del pane, le scarpe saranno abbondanti e dunque relativamente poco richieste, così che il loro prezzo crollerà; viceversa il pane, scarso e molto richiesto, vedrà crescere il suo prezzo. Di conseguenza, si avrà uno spostamento dei produttori verso la produzione di pane. Il che provocherà dei mutamenti dei prezzi. E così via. Questa serie di aggiustamenti continui si incaricherà dunque di suddividere armoniosamente il lavoro tra i diversi membri della società, consentendo nel contempo che, in media, essi scambino i propri prodotti al giusto prezzo. Questa concezione di Smith - qui esposta in modo estremamente semplificato - è alla base degli sviluppi dell'economia politica classica. La sua rilevanza per la soiologia sta nella messa in evidenza del carattere fondamentale della divisione del lavoro nella vita sociale e nell'individuazione di una istituzione - il mercato - la cui funzione è quella di garantire l'autoregolazione della società al di là delle intenzioni e delle volontà dei singoli. Il mercato non è però l'unica forma di regolazione degli scambi sociali. Capitolo 2 - Sociologia e positivismo La sociologia ha inizio intorno alla metà del XIX secolo. La storia della prima metà dell'Ottocento non è tale da poter essere riassunta in poche righe. La sociologia nasce sullo sfondo di un mondo che muta in modo travolgente. Il primo motore di questo mutamento è costituito dalla diffusione della produzione industriale. Le trasformazioni dell'ambiente materiale e sociale che essa provoca sono immense: nuovi luoghi di lavoro (le fabbriche), nuovi strumenti di produzione (le macchine), nuovi soggetti sociali (i proprietari di fabbriche e di macchinari, i lavoratori salariati), i nuovi materiali, nuove fonti di energia (o vecchie, ma usate con nuova intensità e per nuovi utilizzi), nuovi mezzi di trasporto (la ferrovia), nuovi mezzi di comunicazione (il telegrafo). Gli stessi paesi che conoscono il massimo livello di espansione economica conoscono anche forme nuove di conflitti sociali al loro interno. Dopo le guerre napoleoniche si assiste a una fase di restaurazione monarchica. La comparsa di acute lotte di classe pone su le basi del tutto inedite il problema dell'ordine e dell'armonia all'interno delle società. Dal punto di vista bellico, questo è per l'Europa un periodo di pace: le principali nazioni si contendono nel globo gli sterminati spazi dei paesi meno sviluppati, che vengono ridotti a colonie. Nello stesso tempo, però, questo è anche un periodo di sanguinose rivoluzioni interne. Sul piano culturale, il cuore del XIX secolo è positivista. Esso è costituito da un atteggiamento fortemente scientista e orientato al progresso. Il positivismo è erede dell'illuminismo, ma si caratterizza per un abbandono delle istanze critiche che animavano il suo predecessore. L'aggettivo "positivo" entro questa corrente ha infatti un doppio significato: se da un lato si contrappone dunque a ciò che è "illusorio", o "irreale", dall'altro indica il desiderio di superare la dimensione esclusivamente critica, "negativa", che era stata propria dell'illuminismo. Il positivismo è così un movimento culturale orientato all'organizzazione sistematica delle conoscenze e alla loro valorizzazione in vista del bene comune. Comte e Saint-Simon La parola sociologia è utilizzata in questo contesto per la prima volta da un uomo profondamente consapevole dei mutamenti materiali, del clima politico e dell'orientamento culturale del tempo: Auguste Comte. Nella sua opera si trovano espresse due questioni dominanti: da un lato l'esigenza di fare i conti col mutamento, dall'altro quella di contribuire a restaurare l'ordine compromesso dalla ventata napoleonica e poi rimesso in discussione da ripetuti movimenti rivoluzionari. Comte iniziò la sua carriera intellettuale come segretario di Henri de Saint-Simon. Quella di Saint-Simon è infatti una figura notevole, contribuendo a fondare una corrente di pensiero utopico che confluirà nei movimenti di ispirazione socialista. Durante il periodo napoleonico e durante i primi anni della Restaurazione maturò progetti scientifici impegnativi. Saint-Simon fu tra i primi intellettuali del tempo a riconoscere che la società che andava prendendo forma sulle rovine del mondo feudale era una società fondata sulla produzione industriale e sul sapere ad esso collegato. Il progresso è un processo che deve comportare una radicale riorganizzazione della societò. La direzione di questo processo non è scontata: il futuro sarà dell'industria, ma nel disegnare gli scenari di questo futuro Saint-Simon lascia ampio spazio all'immaginario. Quanto a Comte, benchè riprenda diversi elementi del pensiero di Saint-Simon. ha un atteggiamento diverso. Si pone come l'annunciatore di un'epoca che gli sembra affermarsi ineluttabilmente: si tratta più di riconoscerla e di aiutarla a dispiegarsi che di contribuire a darle una forma piuttosto che un'altra. Ma l'importanza storica di Comte è notevolissima per quanto riguarda la storia della nostra disciplina, soprattutto per l'influenza che esercitò su Durkheim e sui diversi altri sociologi. L'idea fondamentale di Comte è che la conoscenza umana, così come la storia universale dell'uomo, si svolga attraverso tre stadi: lo stadio teologico, quello metafisico e quello positivo. Nello stadio teologico, la spiegazione dei fenomeni è perseguita dagli uomini attraverso il ricorso a nozioni magiche e religiose. In quello metafisico, le spiegazioni sono ricercate mediante l'uso di concetti astratti, cioè mediante la speculazione filosofica. Nello stadio positivo, la conoscenza viene infine a delinearsi come sapere scientifico, basato sulla ricerca di fatti. La successione di questi stadi è intesa da Comte come una legge naturale. Comte delinea i contorni di quella che a suo parere deve essere la sociologia: una fisica sociale, cioè una scienza modellata sui tratti delle scienze naturali, intesa a rilevare "fatti" e riconoscere "leggi". Tale scienza è "la più complessa fra tutte le scienze". Comte inoltre distingue una statica sociale - quella branca della sociologia che si occupa del modo in cui le società si autoregolano - e una dinamica sociale - intesa come quella branca che studia il mutamento. L'età del positivismo sarà l'epoca della sottomissione razionale degli uomini alle leggi della propria natura: gli scienziati ed i tecnici ne saranno l'elite dominante. Quest'ultima era anche l'idea di Saint-Simon: se in questia veva però ancora il tono di una sfida all'aristocrazia, in Comte diviene piuttosto il corollario di una tendenza tecnocratica che viene intesa come connaturata allo spirito stesso dell'epoca. Nella fase finale del suo pensiero, Comte ritorna sulla questione della religione, trattandola come un elemento fondamentale dell'integrazione della società. Negli ultimi anni della sua vita, egli si proporrà come il sacerdote di una "religione positiva": una religione fondata sul culto dell'umanità. Alexis de Tocqueville Il mutamento non è necessariamente progresso. I critici della Rivoluzione francese, ad esempio, ne leggevano i mutamenti prodotti come tutt'altro che "progressivi": piuttosto, come il segno di una infausta decadenza. Alexis de Tocqueville non fu nè un fautore del progresso nè un suo denigratore. Fu capace di cogliere la molteplicità di significati che i mutamenti sociali e politici della prima metà del XIX secolo potevano assumere. Tocqueville non si è mai definito un "sociologo" ma è uno dei grandi personaggi a cui la sociologia è debitrice. Tocqueville non era un positivista. E' un osservatore dell'epoca che sta tra la fine del Settecento e l'Ottocento. Il mutamento per lui porta dei vantaggi in una direzione e svantaggi in un'altra. Tocqueville è innanzitutto interessato alla novità rappresentata dalla democrazia, ne mostra quello che gli appare un processo storico ineluttabile che tende all'uguaglianza delle opportunità. In "La democrazia in America", Tocqueville riconosce negli Stati Uniti il luogo dove questo proesso si è finora più sviluppato. Ma ciò che si acquista da un lato lo si può perdere da un altro: fra i prezzi dell'uguaglianza vi sono il declino del concetto di onore, una difusa mediocrità e un eccessivo individualismo. Tra i rischi della democrazia va annoverato quello della "dittatura della maggioranza". Herbert Spencer Se Comte è il primo a usare il termine "sociologia", l'inglese Herbet Spencer è colui che ne ha più contribuito a diffondere l'uso presso il pubblico. Come Comte, Spencer pensa alla società essenzialmente come a una sorta di organismo, ma, diversamente dal primo, utilizza per le sue speculazioni un apparato concettuale evoluzionista, in parte mutuato da Darwin. Il trattato di Charles Darwin "L'origine della specie", ebbe una larghissima influenza sul pensiero ottocentesco. L'idea fondamentale di Darwin era quella di un processo di trasformazione e di differenziazione evolutiva delle specie animali attraverso un meccanismo di adattamento all'ambiente. Spencer prova ad applicare quest'idea anche allo studio delle formazioni sociali. E' ciò che poi si chiamerà "darwinismo sociale". Di conseguenza, la storia gli appare come la traccia di un cammino evolutivo nel corso del quale gli uomini adatterebbero le forme della loro convivenza a quelle dell'ambiente. "Evoluzione" e "progresso" diventano qui due sinonimi. Al finire del secolo le opere di Spencer avevano una notorietà straordinaria: furono particolarmente diffuse nel mondo anglosassone, ma vennero presto stampate in quasi tutte le principali lingue europee. Tra il 1850 e l'anno della sua morte Spencer pubblicò una nutrita serie di scritti sugli argomenti più diversi, fra cui i "Princìpi di sociologia". La sua sociologia si basa su una vasta raccolta di informazioni su diversi tipi di società. Queste informazioni sono ordinate secondo una doppia tipologia: la prima e fondamentale è quella che distingue le società in base al grado di complessità della loro differenziazione interna, la seconda è quella tra società "militari" e società "industriali". Il concetto di differenziazione avrà un posto molto importante nella storia delle scienze sociali. L'idea di Spencer è che la storia delle società umane comporti una serie di passaggi lineari dal più semplice al più complesso: crescendo di dimensioni, le società svilupano una rete di organi e di L'ideologia è una forma di pensiero che giustifica l'esistente. E' una forma di pensiero che occulta le contraddizioni, che nasconde i conflitti. Essa è la forma di pensiero delle classi dominanti di una società. Chi ha interesse a mantenere in vita la forma sociale esistente è portato a occultare tali contraddizioni. D'altro canto, anche i dominati possono condividere l'ideologia dei dominatori (per incomprensione dei propri interessi o per paura di accettare le implicazioni conflittuali che il riconoscerli comporterebbe): in questo caso, Marx parla di una "falsa coscienza". La critica dell'economia politica e il concetto di modo di produzione capitalistico Lo scopo del "Capitale" è quello di indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. La critica dell'economia politica corrisponde dunque a questa immagine. Un "modo di produzione" è per Marx un insieme di mezzi per la produzione (le materie che si utilizzano, gli strumenti che si adottano) e di rapporti di produzione (cioè i rapporti che gli uomini stabiliscono fra loro riguardo al produrre). Il modo caitalistico di produzione è il modo di produzione che è emerso dalla rivoluzione industriale. E' dunque il modo moderno di produzione. La nozione di "modo di produzione" è importante nel pensiero di Marx perchè la struttura di base di ogni società è data esattamente dai rapporti che gli uomini intrattengono fra loro e con la natura al fine di produrre ciò che è necessario a soddisfare i loro bisogni. "Capitalismo" è il nome dato da Marx alla società la cui struttura è fornita dal modo capitalistico di produzione. Marx fa corrispondere il capitale al lavoro accumulato, utilizzato come mezzo per una nuova produzione. Il problema è spiegare che c'sè che rende il lavoro accumulato - delle materie prime, degli strumenti di lavoro, dei mezzi di sussistenza - precisamente capitale. La risposta a questo problema è: ciò che trasforma certe risorse in "capitale" è una specifica condizione dei rapporti sociali. Il capitale è lavoro accumulato all'interno di una certa situazione dei rapporti sociali. Che tipo di rapporti sociali? Si tratta di rapporti dove entrano in relazione da una parte alcuni individui che sono proprietari dei mezzi di produzione - questi sono i capitalisti - e dall'altra parte altri uomini che non possiedono i mezzi della produzione, ma hanno solo una cosa di cui disporre: la propria forza-lavoro, cioè la propria capacità di lavorare - questi sono i proletari. Inoltre, il rapporto tra questi due insiemi di individui è mediato dal denaro, nel senso che la forza- lavoro dei secondi si presenta come una merce che viene venduta ai primi ad un certo prezzo. Questo prezzo si chiama salario. I lavoratori salariati non sono pagati con una quota del loro prodotto: sono pagati con un salario che corrisponde a una certa quota del loro tempo, che essi vendono. Ma, fuori dal lavoro, essi sono uomini liberi, cioè non sono schiavi; ciò distingue i rapporti in questione da quelli caratteristici di un modo di produzione fondato sulla schiavitù o su rapporti di tipo feudale. I beni economici prodotti all'interno di questo modo di produzione sono merci: la produzione è cioè finalizzata alla vendita dei prodotti sul mercato. Una merce è un bene che viene scambiato sul mercato. Essa ha un carattere duplice: per un verso, ogni merce possiede un suo valore d'uso, che è differente per ogni tipo di merce; ma, per un altro verso, possiede anche un valore di scambio: questo si esprime nel prezzo della merce stessa. Il valore di scambio è qualcosa di astratto: esso prescinde dalle qualità concrete e dalle differenze sensibili delle singole merci. Il denaro è l'equivalente universale del valore di scambio delle merci. Il loro valore di scambio corrisponde per Marx alla quantità media di lavoro socialmente necessario a produrle. Il lavoro accumulato si presenta come capitale quando viene utilizzato nella produzione per ottenere un profitto da parte del capitalista. Ancora sul modo capitalistico di produzione Il capitalismo non è semplicemente una società basata su scambi di mercato, ma qualcosa di più. Non si tratta soltanto di scambiare merci fra loro (in questo caso avremmo semplicemente una società mercantile); si tratta di produrre, con delle merci, altre merci che abbiano un valore maggiore di quello che era presente all'inizio. Ciò che rende il capitalista precisamente un caitalista è questo: egli all'inizio possiede un certo ammontare di denaro (D) che investe acquistando delle merci (M). Facendo lavorare i suoi operai con le sue materie prime e con i suoi strumenti di lavoro, egli ottiene nuove merci; che, una volta vendute sul mercato, si tramutano in un ammontare di denaro (D') superiore a quello disponibile all'inizio. Lo scambio che caratterizza il capitalismo è dunque D - M - D', dove D' è di regola maggiore di D. Secondo gli economisti il profitto è il risarcimento dell'impegno del capitalista. Risarcisce il rischio che è connesso all'investire, e ricompensa il capitalista (l' "imprenditore") per le sue attività di controllo sull'intero processo. La posizione di Marx è decisamente diversa. Per capirla, dobbiamo ricordare che ogni merce possiede un valore d'uso e un valore di scambio, e ricordare che, tra le merci che il capitalista acquista all'inizio del processo di produzione, vi è anche la merce rappresentata dalla forza-lavoro degli operai. Questa è però una "merce" di un tipo molto particolare. E' lavoro umano. Il suo "valore d'uso" consiste proprio nella capacità di produrre valore: senza il lavoro, tutte le altre cose comprate dal capitalista resterebbero esattamente come sono: non si produrrebbe niente, e non ci sarebbe da nessuna parte un aumento di valore. Quando il capitalista acquista la forza lavorativa dei suoi operai, egli la paga come una merce: pagandola al suo prezzo. Quest'ultimo corrisponde a ciò che è necessario per produrre questa merce particolare: trattandosi di esseri umani, corrisponde al costo dei beni necessari per la sussistenza e la riproduzione fisica degli operai stessi nelle condizioni storiche date. Il alvoro dell'operaio, una volta messo all'opera e messo in relazione con quello degli altri operai e con le macchine, da un lato trasferisce il valore di scambio delle materie prime e degli strumenti a disposizione nelle merci prodotte, ma dall'altro produce degli strumenti a disposizione nelle merci prodotti, ma dall'altro produce più del valore di scambio corrispondente al prezzo della sua forza lavorativa. Se immaginiamo di rappresentare una giornata lavorativa di un operaio con un segmento (ac), il discorso di Marx può essere illustrato con questo disegno: a____b____c dove la parte ab corrisponde al tempo in cui l'operaio produce merci il cui valore di scambio corrisponde a quello del suo salario, e la parte bc è in più: è quella in cui viene prodotto del plusvalore. Il plusvalore ha dunque origine in un pluslavoro: un lavoro che l'operaio svolge in aggiunta a quanto sarebbe bastevole a pareggiare i conti con quello che il capitalista ha speso assumendolo e acquistando tutto ciò che è necessario produrre. Il plusvalore diviene profitto, cioè qualcosa che è proprietà del capitalista. Il profitto nasce dunque per Marx dallo sfruttamento dell'operaio: dal fatto che egli è pagato con un salario che corrisponde al costo dei beni necessari alla sua sopravvivenza, mentre il lavoro che egli realizza per conto del capitalista genera in realtà un valore superiore a quello corrispondente al salario e a tutti i mezzi di produzione impiegati. Nell'appropriazione del plusvalore da parte del capitalista sta la simmetrica alienazione dell'operaio: il frutto del lavoro di quest'ultimo non è suo, ma di altri. Ciò che rende il "lavoro accumulato" di cui parlano gli economisti precisamente capitale è dunque lo sfruttamento. Il modo di produzione capitalistico è per Marx un modo di produzione dove uomini formalmente liberi vendono la propria forza lavoro a dei capitalisti in cambio di un salario; i capitalisti utilizzano tale forza-lavoro per la produzione di merci al fine di ottenere un profitto, che resta di loro proprietà. Ciò che distingue la critica marxiana dell'economia politica a cui questa critica è rivolta è dunque essenzialmente la scoperta dello sfruttamento che si nasconde entro i rapporti di produzione. Questo sfruttamento è visibile solo se si indagano i meccanismi della produzione e i rapporti di proprietà che vi sono in gioco. Se ci si arresta infatti    all'analisi dei rapporti di scambio, lo sfruttamento non appare. La nozione di "classe" Possiamo ora definire che cosa Marx intende con la parola classe. Leggendo i diversi testi di Marx, possiamo stabilire in generale che una classe è innanzitutto un insieme di individui che si trovano nella medesima posizione all'interno dei rapporti di produzione tipici di un modo di produzione dato. Ogni società fin qui apparsa nella storia è caratterizzata secondo Marx dalla presenza di classi, cioè di insiemi di individui collocati diversamente entro i rapporti di produzione. In base a queste loro diverse collocazioni, le classi sviluppano interessi diversi all'interno della società. La lotta fra le classi è per Marx un dato ricorrente nella storia umana fin qui conosciuta. Possiamo affermare che all'interno del modo di produzione capitalistico Marx individua principalmente due classi, i cui interessi sono antagonistici: quella della borghesia e quella del proletariato. Il nucleo della borghesia è composto dai capitalisti, cioè dai proprietari dei mezzi di produzione. Il proletariato è composto dai lavoratori salariati, che vendono la loro forza-lavoro sul mercato del lavoro. Gli interessi di queste due classi sono antagonistici nella misura in cui il nocciolo del modo di produzione capitalistico è un rapporto di sfruttamento. L'interesse dei capitalisti è quello di sfruttare il più liberamente possibile la forza-lavoro degli operai, quello degli operai è di liberarsi dallo sfruttamento. Il passaggio della classe operaia da uno stato in cui è incapace di riconoscere i propri interessi ad uno in cui li riconosce, e si organizza di conseguenza, è il passaggio dalla classe in sè alla classe per sè: è il passaggio in cui la classe operaia acquisisce una propria coscienza di classe. Questo passaggio non si genera automaticamente: si produce nel corso delle lotte che gli operai intraprendono contro i capitalisti. La classe è un soggetto collettivo capace di intraprendere azioni congruenti con i propri interessi. un fondamento teorico e metodologico distinto alla sociologia in quanto tale. Il primo di questi studiosi su cui concentreremo la nostra attenzione è Emile Durkheim. Il suo programma è esplicitamente quello di fondare la socliologia. In tale programma si ricollega esplicitamente ai progetti di Comte e di Spencer. Durkheim nacque in Lorena nel 1858. Nel 1887 cominciò ad insegnare sociologia all'università di Bordeaux: fu uno tra i primi studiosi in Europa ad occupare in un'università una cattedra intitolata a questa materia. Fu anche uno dei primi a fondare unarivista esplicitamente dedicata alla raccolta di studi sociologici: "L'Annee sociologique". Attraverso il suo insegnamento universitario e soprattutto attraverso la scuola che egli venne raccogliendo attorno alla rivista, Durkheim ha esercitato un'influenza profondissima sulla sociologia del Novecento e su diverse altre scienze dell'uomo. La prima opera importante di Durkheim è "La divisione del lavoro sociale". Il problema di fondo del pensiero di Durkheim è quello della coesione di una società e della sua riproduzione nel tempo. Il suo problema scientifico principale consiste nel rispondere alla domanda: "che cosa tiene insieme una società?". La risposta a questa domanda è: la morale. Il sentimento morale è ciò che unisce ciascuno dei membri di un insieme sociale alla società stessa. Realizzandosi in una solidarietà dei membri della società fra di loro, esso consente la vita in comune. Una società è un ordine morale. Sul piano teorico, risente dell'influenza di Spencer. Rispetto a quest'ultimo, Durkheim ribalta la prospettiva per ciò che riguarda i rapporti dei singoli con la società: mentre per Spencer la società si basa in ultima analisi su di una sorta di "contratto" stabilito fra loro da uomini che perseguono ciascuno il proprio utile, per Durkheim la società non è comprensibile muovendo dall'analisi dei comportamenti dei singoli. La società non deriva da un contratto fra uomini separati_ essa è piuttosto ciò che precede e rende possibile ogni contratto. La vita collettiva precede la vita dei singoli separati, e i "contratti" sono qualcosa di possibile solo fra soggetti che intendano rispettarli, cioè che avvertano di appartenere ad una medesima società. Insomma: il comportamento di ciascun uomo non è mai comprensibile pienamente se non come espressione del suo inserimento in un insieme sociale. Morale, norme e fatti sociali Una "morale" è un insieme di valori e di credenze che si esprimono in norme alle quali ciascun membro della società è vincolato. Tali vincoli agiscono dall'esterno e dall'interno. Dall'esterno, nel senso che infrangere una norma provoca reazioni che puniscono chi lo fa; dall'interno, nel senso che l'individuo avverte come "da dentro di sè" una spinta al rispetto delle norme stesse. L'appartenenza ad una morale comune è ciò che fonda la solidarietà che lega fra loro i membri di una società. Il modo originario con cui le norme morali si impongono entro una società è il loro istutizionalizzarsi nelle forme di un insieme di credenze religiose. Nei Comandamenti si esprime infatti un insieme di norme morali: l'insieme di norme su cui la società ebraica fondava il proprio vivere comune. "Onora il padre e la madre", "non uccidere", "non rubare" sono imperativi che impongono rispetto: da un lato, infrangendoli si incorre in una punizione; dall'altro, essi si impongono alle coscienze venendo a costituire l'orizzonte dei valori a cui il singolo si conforma "dall'interno", aderendo al loro contenuto. Tali norme possono essere esplicite, oppure implicite, come la maggior parte delle norme che regolano il costume quotidiano. Ma in ogni caso, cosa sono le norme dal punto di vista della sociologia? E come affrontarne lo studio? Le norme sono per Durkheim dei fatti sociali. Durkehim ne parla nel primo capitolo delle sue "Regole del metodo sociologico". Egli afferma che i fatti sociali sono fenomeni che non si possono spiegare ricorrendo alla sola analisi delle azioni dei singoli o all'analisi psicologica delle loro motivazioni. Essi sono qualcosa che si presenta "in media", o "normalmente" all'interno di una società: tuttavia non è questo carattere di "media" che li definisce. Ciò che li definisce come tali è che essi si impongono ai singoli come qualcosa che proviene dal di fuori, e contemporaneamente li attraversano nei loro modi di sentire, di pensare e di comportarsi. I fatti sociali esistono nella misura in cui esistono gli uomini, ma contemporaneamente hanno una sorta di esistenza indipendente, autonoma, che sovrasta la volontà di ciascuno. Durkheim propone, di trattarli "come se fossero cose". I fatti sociali sono propriamente l'espressione della vita della società, e nascono dall'interazione degli uomini fra loro. Essi sono "come cose", però nel senso che hanno un'esistenza che non si spiega a partire dalle coscienze e dalle azioni degli individui. Proviamo, per fare un esempio, a pensare al linguaggio. Il linguaggio non è creato da nessun singolo preso isolatamente; è un linguaggio proprio in quanto è qualcosa di intersoggettivo. Ciascun individuo lo trova in qualche modo già dato. Eppure, è poi anche qualcosa che attraversa ogni uomo. Il linguaggio è un fatto sociale. Non lo si può spiegare a partire dal comportamento o dalle intenzioni dei singoli: lo si può spiegare solo a partire dalla società, cioè dal risultato dell'interazione umana. Un approccio funzionalista La società è dunque per Durkheim una realtà di tipo particolare, superiore alla vita dei suoi membri. Nelle norme morali, nei costumi, nelle credenze religiose, nei riti che sanciscono le regole della collettività, la società "parla" e la sua voce si impone ai suoi membri. La società è per Durkheim più della somma degli individui che la compongono: è un'unità di livello superiore, dotata di una vita che non si spiega restando al livello della semplice descrizione di ciò che la compone. Poichè la società si esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l'insieme dei fatti sociali. La società viene descritta come un organismo, dotato di una serie di organi che si integrano e cooperano fra loro. Da questa impostazione organicista deriva una caratteristica rilevante del pensiero di Durkheim: tale caratteristica consiste nello sforzo di spiegare ogni elemento di una società tentando di riconoscere quali funzioni tale elemento svolga all'interno dell'insieme della società stessa. Così, la "funzione" della religione in una società è quella di codificare e saralizzare le norme morali, la "funzione" del diritto è quella di reagire alle infrazioni a tali norme, la "funzione" dell'economia è quella di provvedere al sostentamento della vita materiale dei membri della società e così via. Una spiegazione funzionalista è una spiegazione di un fenomeno sociale sulla base dell'individuazione della funzione che esso adempie per la vita dell'insieme della società. Durkheim ritiene che la spiegazione funzionalista sia possibile solo dopo che siano stati esaminati i nessi causali che legano il fenomeno considerato ad altri fenomeni precedenti nel tempo. Un esempio tipico del modo di pensare di Durkheim è rappresentato dalla sua trattazione della devianza. "Devianza" è un termine sociologico che intende l'esistenza di comportamenti che si discostano dalla norma: è devianza in questo senso il crimine, ma è "devianza", in senso generale, anche qualunque comportamento che sia percepito come "anormale". Ebbene, il crimine, ad esempio, appare a tutta prima qualcosa di ben poco "funzionale": è un'infrazione alle norme del vivere comune, un momento di crisi della sua morale. Tuttavia - e questo è il tipico ragionamento durkheimiano - anch'esso svolge una funzione: nel momento infatti in cui il crimine viene punito, attraversa la messa in opera di riti adeguati (processo, esecuzione della pena), esso svolge la funzione di rinsaldare la coscienza collettiva. Riunita nell'atto di sanzionare il colpevole, la società riafferma le sue regole, che non sono mai così visibili e chiare alla collettività come quando viene punito chi non vi si conforma. Come si vede, la funzione non corrisponde dunque a nessun fine prestabilito: è piuttosto un risultato non intenzionale di una pratica sociale. Durkheim non si interroga spesso su come le società mutino nel tempo: l'insorgere della devianza, tuttavia, appare nel suo pensiero uno dei modi in cui le società possono sperimentare nuove forme morali. Società semplici e società complesse Per Durkheim non esiste tanto la società in generale, quanto diversi tipi di società. In "La divisione del lavoro sociale" Durkheim sviluppa un discorso sull'evoluzione delle società umane come un movimento da un tipo di società a un altro. Il primo tipo di società - che corrisponde storicamente alla forma delle tribù primitive - è la società semplice, cioè quella basata su di una bassa divisione del lavoro. In una società semplice gli individui svolgono attività poco differenziate fra loro. Il secondo tipo di società è quello della società complessa: corrisponde alle nazioni moderne. Qui, la società è fondata su un'ampia e articolata divisione del lavoro, le attività dei suoi membri sono fortemente differenziate fra loro. L'evoluzione storica delle società umane verso una complessità sempre crescente è ricondotta da Durkheim alla crescita della divisione del lavoro; ma questa a sua volta dipende sia dall'ampliarsi delle società nello spazio, sia e soprattutto dall'aumento del numero e della densità relativa dei loro membri. Ciò che interessa soprattutto Durkheim è però che nelle società semplici e nelle società complesse la morale - cioè la forza che consente la coesione della società stessa - si presenta in forme diverse. E' cioè diverso il modo in cui si stabilisce la solidarietà che tiene insieme i membri della società. Le società semplici sono caratterizzate da una solidarietà meccanica. Essa è la solidarietà che si presenta fra individui strettamente uniti gli uni agli altri da vincoli quotidiani, e le cui attività si diversificano poco. Nelle società complesse la solidarietà è viceversa detta organica: qui essa rassomiglia effettivamente alla "solidarietà" che unisce gli organi differenti di un organismo complesso. Questa forma di solidarietà stabilisce i legami fra individui che hanno fra loro grandi differenze, ma che pur tuttavia devono cooperare per la vita dell'insieme sociale da cui tutti dipendono. Nella situazione delle società complesse la tenuta delle norme morali si fa insieme pià problematica e più necessaria. Più problematica, perchè il fatto stesso che gli individui possano comportarsi e pensare in modi differenti, rende meno forte la tenuta di norme che valgano per tutti indistintamente. Ma più necessaria perchè la coesione dell'insieme sociale diventa qualcosa che va mantenuto appositamente attraverso dei meccanismi che vincolino ciascuno, nonostante le sue differenze, alla cooperazione. termini, l'integrazione del singolo nella comunità. Altre osservazioni consolidano questa correlazione: il fatto che in generale il suicidio sia più frequente fra le persone non sposate che fra quelle sposate confermerebbe che la tendenza al suicidio è legata a situazioni di indebolimento delle relazioni che legano il singolo a una rete di relazioni con altri. Il numero di suicidi entro una società varia tuttavia in modo solidale anche con un'altra serie di dati: quella relativa agli andamenti dell'economia. Ciò potrebbe far pensare a una correlazione diretta tra il numero dei suicidi e la rovina economica o la miseria: tuttavia, non è esattamente così. Durkheim mostra infatti che il numero di suicidi non cresce soltanto quando una crisi economica comporta miseria, ma anche quando la crisi è di tipo positivo, comporta ciè bruschi rialzi di benessere, connessi a rapide variazioni nello status e nei modi di vivere delle persone. Come è possibile tutto ciò? Lo è se si interpretano i periodi di crisi economica entro una società come periodi di diffusa incertezza rispetto ai destini individuali delle persone, ai valori fondamentali cui esse debbono riferirsi, a ciò che essi possono "normalmente" aspettarsi dalla vita. Ma tale incertezza corrisponde esattamente al senso che Durkheim dà al termine anomia: mancanza di norme morali chiare e condivise. Il tipo di suicidio connesso a queste cause è detto dunque da Durkheim suicidio anomico. Esso è il tipo di suicidio che è spiegabile da un allentamento nelle forme della morale collettiva, da un aumento dell'incertezza rispetto alle norme cui conformarsi. In entrambi i casi - il suicidio egoistico ed il suicidio anomico - la spiegazione della presenza più o meno alta del numero dei suicidi entro una società è ricondotta da Durkheim allo stato dell'integrazione sociale. E' dunque una spiegazione sociale: essa non chiarisce perchè sia un determinato individuo piuttosto che un altro a suicidarsi; spiega però la presenza maggiore o minore di suicidi entro una certa società. Il discorso sul suicidio non è tuttavia terminato senza menzionare il terzo ed ultimo tipo di suicidio analizzato da Durkheim: il suicidio altruistico. Differentemente dai casi precedenti, questo tipo di suicidio è espressione di una fortissima coesione sociale: esso è il tipo di suicidio che si esprime,ad esempio, nel sacrificio di un militare per la sua patria. Anch'esso è spiegabile in riferimento allo stato della coesione e dell'integrazione del singolo all'interno di un sistema morale. Alcune critiche alla ricerca del suicidio L'analisi del suicidio svolta da Durkheim ha un grnade rilievo nella storia del pensiero sociologico perchè rappresenta uno dei primi esempi di ricerca che si prova a verificare delle ipotesi teoriche sulla base di un esame di dati empirici. Ciò non significa tuttavia che i risultati di Durkheim siano esenti da critiche. La prima riguarda il controllo delle fonti dei dati. Durkheim si basa su fonti statistiche che riguardano il numero dei suicidi registrati dalle autorità civili: queste a loro volta dipendono dalle registrazioni dei medici. E' tuttavia plausibile ipotizzare che, in certe circostanze e in certi contesti culturali, vi siano pressioni sui medici e sulle autorità per non registrare come tali alcuni suicidi. In questo caso, i numeri su cui Durkheim si basa sarebbero in parte inattendibili. La seconda riguarda alcune delle spiegazioni riconosciute da Durkheim come significative. In particolare, il suo allievo Maurice Halbwachs ha mostrato come, nei paesi studiati da Durkheim, la popolazione protestante tenda a concentrarsi nelle città, e quella cattolica nelle campagne: in linea di principio, sarebbe dunque possibile ipotizzare che non sia l'appartenenza confessionale, ma il tipo di residenza (e le condizioni di vita che comporta) ad essere influente sul tasso dei suicidi. Infine, l'analisi puramente quantitativa di Durkheim lascia in ombra le motivazioni soggettive di coloro che si spingono al suicidio. Queste sarebbero accessibili solo con metodi di ricerca diversi: ad esempio attraverso l'esame sistematico di storie di vita e di documenti autobiografici. E' possibile che metodi del genere mettano in luce variabili diverse da quelle individuate da Durkheim. In generale, notiamo qui che la sociologia può utilizzare metodi quantitativi oppure metodi qualitativi: Durkheim si concentra sui primi ma, di norma, è bene utilizzarli entrambi. La sociologia delle religioni Durkheim è consapevole del fatto che le società moderne tendono a essere sempre più "secolarizzate". La secolarizzazione è il processo della progressiva perdita di rilevanza che le istituzioni, le pratiche e le credenze esplicitamente religiose attraversano nella modernità. La concomitante ascesa dell'importanza attribuita alla scienza e alle spiegazioni scientifiche del mondo è uno dei fattori della secolarizzazione. Un altro è la progressiva emancipazione della sfera della vita politica e civile dai dettami religiosi soprattutto in risposta alle guerre di religione che insanguinarono l'Europa nel secolo XVII, la cultura europea nel suo insieme ha elaborato una netta distinzione tra religione e politica, tale per cui le istituzioni politiche sono definite come istituzioni laiche: esse devono definire regole e diritti che valgono per tutti i cittadini, a prescindere dalle differenze confessionali. Questo processo è parte di un più generale processo di differenziazione sociale. Il processo della secolarizzazione comporta per Durkheim problemi di non poco conto. Abbiamo visto che lo sviluppo originario delle norme morali si ha, per Durkheim, all'interno della sfera religiosa. "Le forme elementari della vita religiosa" è l'ultimo dei grandi libri di Durkheim. In questo libro Durkheim fa larghissimo uso di tutte le conoscenze etnografiche del suo tempo e dei lavori dei suoi collaboratori. Le tesi principali sono le seguenti: 1) L'elemento fondamentale della vita religiosa è la distinzione tra sacro e profano. Tale distinzione è elementare. 2) La vita religiosa si esprime in credenze ed in riti. Le credenze articolano la visione del mondo propria del gruppo che le condivide, esprimendone e insieme rafforzandone la solidarietà; i riti sono pratiche dotate di valore simbolico finalizzate alla ricreazione periodica dell'ordine nel quale si crede. 3) La funzione principale delle credenze e dei riti religiosi è quella di fondare e preservare gli ideali collettivi di una società. 4) Ciò che gli uomini hanno di volta in volta adorato attraverso i loro culti è essenzialmente la potenza trascendente della società stessa. Le credenze religiose attribuiscono in altri termini ad una potenza estranea degli attributi che sono propri della società. Attraverso la religione gli uomini adorano in realtà la forza del loro cooperate, che appare a ciascuno come trascendente. In sintesi, una religione è dunque, secondo le parole di Durkheim: un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cose sacre, le quali uniscono in un'unica comunità morale tutti coloro che vi aderiscono. Le forme concrete delle pratiche e delle credenze religiose variano nel tempo, ma in tutte vi è qualcosa di comune. E' per questo che Durkheim ritiene che lo studio delle forme più elementari che costituiscono l'oggetto privilegiato del suo lavoro possano aiutare a cogliere qualcosa che riguarda la natura universale della religione. E' evidente che Durkheim non condivide la spiegazione delle religioni che è fornita dai fedeli delle religioni stesse. Di fatto, egli critica le religioni, mostrando che esse rappresentano una sorta di proiezione fuori del mondo umano di qualche cosa che è invece essenzialmente umano. D'altro canto, egli ritiene che la società sia giustamente l'oggetto di una sacralizzazione, nella misura in cui essa rappresenta qualche cosa di effettivamente trascendente. Inoltre, riconosce in modo estremamente esplicito la funzione delle religioni per il sostegno delle norme morali che garantiscono la coesione sociale. Ciò che resta da osservare riguardo allo studio durkheimiano delle religioni è un paradosso. Una volta spiegato infatti che la religione non è quello che i fedeli credono, è piuttosto difficile mantenere la sua forza. Ma questa critica scientifica delle religioni è in fondo un portato del processo di secolarizzazione: è impossibile eludere questa critica, ma ciò che ne consegue è o la prognosi di una progressiva perdita di integrazione delle società moderne, oppure l'idea che non sono sempre le religioni propriamente dette ciò che garantisce la coesione sociale. Ciò che chiamiamo "religione" è un insieme di pratiche e di credenze, storicalmente e culturalmente situate, che ha a che fare con i grandi enigmi che circondano l'uomo: la nascita, la morte, l'esistenza del cosmo. Si tratta di enigmi che riguardano la dimensione del senso: la sfida che pongono è una sfida alla nostra capacità di attribuire un senso alla vita. I fondamenti di una sociologia della conoscenza Nell'introduzione a "Le forme elementari della vita religiosa" Durkheim sviluppa infine il nucleo fondamentale di una socilogia della conoscenza. La sociologia di Durkheim si sviluppa qui a diretto confronto con la filosofia. Egli constata che la teoria della conoscenza proposta dai filosofi tende a polarizzarsi in due posizioni. Da un lato, vi è chi - come gli empiristi - ritiene che la conoscenza si sviluppi direttamente a partire dalle sensazioni, che vengono coordinate e sistematizzate nel corso dell'esperienza. Dall'altro vi è chi - come Kant - ritiene che la conoscenza nasca invece dall'incontro dei dati sensoriali con un apparato intellettuale che è dato a priori. La soluzione di Durkheim al problema della conoscenza si situa come uno sviluppo della seconda di queste posizioni, quella di Kant. Durkheim osserva che indubbiamente le sensazioni vengono coordinate dal soggetto entro un apparato di categorie. Noi non percepiamo infatti dati, ma li organizziamo entro un apparato cognivito che dà ordine al mondo; facciamo uso di una nozione di tempo, di una nozione di spazio di concetti come quelli di causa, di sostanza, di numero, di principi come quello di non contraddizione e via dicendo. Tali strumenti cognitivi non derivano dall'esperienza: sono loro piuttosto che organizzano l'esperienza stessa. Le categorie del pensiero sono effettivamente "a priori", cioè sono "date" e non sviluppate dal singolo. Ma ciò non significa che esse siano universali e naturali. Significa piuttosto che sono sociali: si costituiscono cioè attraverso l'interazione fra gli uomini e fra gli uomini e il loro ambiente, e vengono trasmesse attraverso la cultura (e possono mutare nel tempo, seppure con grandissima lentezza) Ciò diventa chiaro se si pensa che i concetti sono espressi in parole, e già sappiamo che il linguaggio è un prodotto sociale. E' attraverso l'acquisizione di un linguaggio che ciascuno di noi diventa membro di una società e viene a condividerne i modi di concepire il mondo. In questo mondo delle relazioni sociali e della disposizione degli uomini nello spazio a mutare, in un generale spostamento della popolazione verso i centri più grandi: la città di Berlino, per esempio, che aveva 200 mila abitanti agli inizi del secolo, nel 1890 ha un milione e mezzo(contemporaneamente avviene in altre città come Parigi). La velocità dei mutamenti generò diverse reazioni. Fra queste, una certa vena di critica della modernità e del capitalismo e di nostalgia per le forme sociali persistenti fu presso alcuni piuttosto marcata. Nella sociologia, questo atteggiamento è riscontrabile nell'opera di Fernand Tonnies. Fra l'altro egli fu con Simmel, Weber e Sombart nel 1908 uno dei fondatori dell'Associazione tedesca di sociologia. Il suo posto nella storia del pensiero sociologico è legato soprattutto alla distinzione che egli vi propone tra i concetti di comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft). "Comunità" e "società" sono per Tonnies modelli di organizzazione sociale. La comunità è un gruppo stabile nello spazio e nel tempo, radicato in un territorio, all'interno del quale gli individui hanno fra loro rapporti personali e diretti. La comunità è una forma associativa entro cui gli uomini orientano le proprie azioni e i propri comportamenti sulla base di tradizioni fortemente radicate. La partecipazione di ciascun membro della comunità alla vita comune è basata sui sentimenti molto più che sulla ragione, è quasi "istintiva": non è il frutto di una scelta, ma qualcosa che è dato, esattamente al modo in cui non si sceglie di nascere in una certa famiglia, ma se ne fa parte naturalmente. La famiglia è in effetti un caso di formazione associativa comunitaria: è la "comunità" per eccellenza. La società è una forma di associazione più vasta della comunità, all'interno della quale gli individui godono di ampie possibilità di movimento, e dove essi non hanno in generale fra loro rapporti diretti, bensì rapporti impersonali mediati dall'adesione razionale a delle regole statuite e dall'utilizzo di mezzi di scambio astratti, come il denaro. La presenza del denaro come mezzo generalizzato per gli scambi economici è particolarmente importante per la distinzione che Tonnies propone fra Gemeinschaft e Gesellschaft. La diffusione del denaro come mezzo generalizzato degli scambi è tipica della Gesellschaft. Lo sviluppo della "società" si realizza attraverso una distruzione progressiva delle forme di vita comunitarie, e in ciò Tonnies avverte una perdita che riguarda la ricchezza dei vincoli affettivi tra le persone e le loro certezze morali. Georg Simmel I sociologi che a cavallo tra l'Ottocento ed il Novecento si occuparono della definizione e dell'istituzionalizzazione della soiologia in quanto disciplina accademica furono interessati, prima ancora che al mutamento in se stesso, alla descrizione di ciò che i mutamenti recenti avevano prodotto, cioè alle caratteristiche distintive di questa epoca nuova. Più che per qualunque altro autore, questa osservazione è valida per Simmel. Egli nacque a Berlino nel 1858 e morì nel 1919 al termine della Prima Guerra mondiale. Non scrisse solo opere di sociologia, ma anche e soprattutto di filosofia e di estetica. "La differenziazione sociale", "Sociologia" e "Problemi fondamentali della sociologia" sono tra le sue opere più importanti. Diversamente da altri, Simmel non ha fondato tuttavia alcuna "scuola". In realtà egli si ritenne essenzialmente un filosofo, ma per un lungo periodo della sua vita si dedicò con passione al progetto di fondare la sociologia come branca autonoma del sapere. La sua sociologia ha al suo centro l'interazione sociale. La sociologia simmeliana scaturisce dallo sguardo di un filosofo della cultura che nel mondo delle forme e dei processi sociali scopre un terreno affascinante e ancora largamente inesplorato. E' stato detto che è lo sguardo di uno "straniero" perpetuo: di qualcuno che pur vivendo nel mondo ha la capacità di non appartenervi mai interamente, e di guardarlo ogni volta come se fosse la prima. Uno sguardo dotato di una curiosità straordinaria. Società e sociologia nel pensiero di Simmel Se si intende fondare la sociologia come una branca autonoma del sapere, il primo passo è necessariamente quello di definirne l'oggetto. E' un passo affrontato da Simmel all'inizio di "Sociologia". L'oggetto della sociologia è la società, ma cos'è la società? Per certi versi - scrive Simmel - la società non esiste. Se ci guardiamo attorno, ciò che vediamo sono delle persone, degli individui concreti: dove è dunque la società? Per rispondere, Simmel osserva che il pensiero umano opera sempre e comunque per astrazioni. Lo stesso individuo, a guardare da molto vicino, è composto di arti e di organi o, se lo si osserva al microscopio, è composto di cellule. Inoltre, ciascun individuo cambia nel tempo, cresce, può mutare aspetto, e anche atteggiamenti. Che cos'è che fa sì dunque che noi lo percepiamo come un'unità? La risposta è: una certa prospettiva, una certa "distanza dello sguardo". Dalla distanza che scegliamo abitualmente, badare alle cellule che costituiscono il corpo di un individuo è irrilevante, così come lo è la considerazione del suo mutare nel corso degli anni. La società è un oggetto del pensiero che emerge considerando insiemi di individui da una certa distanza. E' la distanza da cui ciascuno di noi si colloca quando parla dei "Greci", o dei "cattolici". Ma, utilizzando questi concetti, noi operiamo delle astrazioni rispetto alle qualità personali di tutti questi individui, e cogliamo certe caratteristiche che li accomunano, caratteristiche che rendono plausibile ed utile il concetto stesso che usiamo. La "società" è un concetto di questo genere. Esso è generato da una prospettiva. Ma ciò non significa affatto che la società non esista. Proprio la prospettiva che ce la rende visibile permette di osservare una realtà fondamentale, e cioè che gli uomini stanno fra loro in relazioni di reciprocità, agiscono cioè gli uni sugli altri. Il concetto di effetto di reciprocità (Wechselwirkung) è il concetto fondamentale del pensiero di Simmel. Questo concetto è la chiave di volta di tutto il suo pensiero e della sua sociologia. Oggetto della sociologia sono dunque le forme delle relazioni di influenza reciproca che sussistono tra gli uomini. Questo oggetto - la "società" - emerge solo e nella misura in cui più individui entrano in azione reciproca. Con le parole di Simmel: <"società" è il nome con cui si indica una cerchia di individui; legati l'un l'altro da varie forme di reciprocità"> La società è interazione, ma non solo. Alla nozione di reciprocità va affiancato il secondo concetto fondamentale della sociologia di Simmel: quello di "sociazione". La sociazione è il processo attraverso cui una forma di azioni reciproche si consolida nel tempo. Vi sono infinite azioni reciproche: è azione reciproca scambiarsi uno sguardo o salutarsi, pranzare insieme, giocare. In ognuna di queste relazioni ciò che ciascuno fa ha influenza sull'altro, e viceversa: ci si influenza scambievolmente. Ma una società in senso proprio è il risultato di una certa sedimentazione nel tempo di alcune forme di azione reciproca; è il risultato parzialmente fissato di processi di sociazione. La sociologia è dunque per Simmel una scienza formale: si occupa di descrivere le forme che le relazioni di reciprocità assumono in situazioni e in tempi differenti. Le forme e la vita Simmel dichiara a più riprese di volersi concentrare sulla forma delle relazioni e dei processi sociali in un modo che prescinda dai loro contenuti. A volte si spiega con un'analogia con la geometria: così come "il triangolo", in sè, non esiste, ma esistono oggetti a forma di triangolo, allo stesso modo non esistono cose in sè come il potere, l'amicizia o il conflitto, ma esistono relazioni concrete la cui forma astratta può venire chiamata così. E' tuttavia necessario aggiungere che la nozione di forma ha un ruolo molto complesso nel pensiero di Simmel. Ciò che qui è decisivo è il riconoscimento del fatto che la vieta è sia un fluire incessante, sia una produzione di forme in cui questo fluire si fissa. Si tratta di forme di relazione, istituzioni, simboli, idee, prodotti della vita economica ed opere artistiche: la "cultura" insomma, sia nel suo aspetto materiale che in quello linguistico ed espressivo. In ciascuna di queste manifestazioni la vita si esprime ma si rapprende: la loro oggettività si contrappone al carattere fluido della vita stessa. Il mutamento culturale è il prodotto di questa tensione. La vita scavalca le forme, eppure solo in forme di volta in volta determinate la vita può essere colta. Ma emerge anche quella che Simmel chiama la sua "tragedia". Questa tragedia sta nel fatto che la vita stessa non può essere compresa che sulla base di simboli, categorie o raffigurazioni che le si contrappongono inevitabilmente, o la riducono, e mancano così di afferrarla, condannandosi al proprio superamento. Tanto la comprensione ingenua del pensiero quotidiano quanto la compresione del mondo prodotta dalle scienze storico-sociali avvengono mediante la costruzione di forme (simboli, concetti) che in quanto tali sono espressione della vita ma anche, necessariamente, una sua riduzione. Ciò che vediamo del mondo è dunque sempre di meno di quanto sarebbe possibile vedere, e, soprattutto, ogni visione è destinata ad essere sostituita da altre. Ogni pensiero dà forma al mondo secondo una prospettiva: ma infinite prospettive sono possibili. La pretesa di una completezza sistematica è dunque, come scrive Simmel, "nel migliore dei casi, un'illusione". Metropoli, denaro e intellettualizzazione della vita Simmel non ha mai proposto una teoria del mutamento paragonabile a quelle di Marx o di Weber. Della "modernità" in quanto tale egli è tuttavia forse l'interprete più acuto e più attento ai dettagli. Simmel, nel momento in cui ne descrive la modernità, ne intende anche la crisi. Ma questo non è sorprendente. La nozione stessa di "modernità" è, nel pensiero filosofico e sociale tedesco dei primi del secolo, espressione dell'autocoscienza della crisi della cultura europea. La modernità è infatti essenzialmente crisi permanente, e non tango perchè si radica in processi che sconvolgono progressivamente tutti gli ordini sociali tradizionali, ma perchè il mutamento in se stesso è il suo principio. La modernità è flusso e instabilità di ogni forma, e la cultura che ne elabora il concetto è la cultura che tenta infine di venire a patti col mutamento perpetuo ma che, nel medesimo momento in cui riconosce la necessità del mutamento, si rende anche conto del fatto che il insieme. In questo senso, essa vincola la libertà individuale. Per fare un esempio banale: se tutti in una società decidessero di fare i barbieri, e nessuno di coltivare i campi, avremmo una collettività di uomini ben rasati, ma che morirebbero di fame in pochi giorni. Dall'altro lato, l'individuo può tutavia ritenere che il suo fine non sia quello di cooperare alla sopravvivenza della società o al benessere generale, ma quello di sviluppare se stesso e di realizzare degli obiettivi che non hanno a che vedere con ciò che la società potrebbe aspettarsi da lui. Simmel scrive che questa tensione non è eliminabile: si tratta di un "dissidio fra il tutto e la parte". Tale dissidio astratto si manifesta però diversamente nel corso della storia. Esso si realizza in modo esplicito e generalizzato solo nell'epoca moderna: è qui infatti che sorge un orientamento etico che tende a enfatizzare più che mai prima la libertà essenziale di ogni individuo, la sua unicità, e la sua realizzazione di sè. L'idea che il concetto di "individuo" si sviluppi in modo particolare nel mondo moderno era presente anche in Durkheim: è solo nelle società complesse - diceva - che gli sviluppi della divisione del lavoro forniscono le basi per una differenziazione delle coscienze individuali rispetto alla coscienza collettiva. Per lo sviluppo di questa tematica Simmel si riallaccia all'opera dello storico tedesco Burckhardt. Nel pensiero di Burckhardt, due aspetti della cultura moderna hanno a che fare con un'enfasi storicamente originale sul concetto di individuo: in primo luogo, lo spostarsi dei giudizi sui singoli verso una considerazione più delle loro "realizzazioni" personali che della loro "nascita", e, in secondo luogo, la nuova enfasi che il nascente spirito scientifico pone sulla responsabilità e la libertà individuale dello scienziato, in opposizione all'autorità della tradizione. Simmel si basa sull'opera di Burckhardt, ma si muove verso una ulteriore precisazione dei diversi contenuti che l'idea di individuo ha assunto nel suo diffondersi e dispiegarsi nel corso dell'epoca moderna. Nel saggio di cui stiamo discutendo egli osserva che il concetto di individuo ha dei significati differenti, ad esempio, nella cultura europea del Settecento e in quella del secolo successivo. Nella cultura settecentesca, parlare di "individui" significò soprattutto affermare il principio dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini. Si trattava di un'istanza ritica nei confronti della cultura feudale e aristocratica, che tendeva al contrario a riconoscere differenze fondamentali tra gli uomini: per la cultura feudale, un signore e un servo non erano uguali, e i loro destini, così come i loro diritti e doveri, erano differenti. La cultura dell'illuminismo reagiva contro quest'impostazione, e affermava che, essendo per natura uguali, tutti gli uomini hanno medesimi diritti e doveri. Oggi noi diamo questa affermazione per scontata. Ma essa rappresentò una vera rivoluzione culturale nei confronti del sistema feudale. Il concetto di individuo, nella cultura illuministica del Settecento, è soprattutto l'idea di una eguaglianza di diritto di tutti gli uomini fra loro. Ma, nel corso dell'Ottocento, un altro contenuto si fa strada. E' l'idea che gli uomini siano sì, dal punto di vista del diritto, tutti formalmente uguali, ma, per quanto concerne la loro interiorità, siano dissimili. A tale idea si affianca quella secondo cui il compito etico di ciascuno consiste esattamente nel portare a compimento, cioè nell'esprimere e realizzare, la propria unicità. Il concetto di individuo diventa qui l'idea di una differenza fondata sull'assunzione della loro unicità, e della loro responsabilità personale nello sviluppare le potenzialità implicite in tale unicità. Per la cultura che esprime questa idea di individuo, Simmel conia l'espressione di "individualismo qualitativo" (o individualismo della differenza). E' nel contesto di questo orientamento culturale diffuso che la tensione tra individuo e società si fa particolarmente marcata. La moda Simmel si rende conto che la densità della popolazione negli ammensi agglomerati della vita urbana moderna rende nei fatti difficile agli individui vivere all'altezza delle esigenza poste dall'individualismo qualitativo. Questo individualismo si risolve spesso in una parodia di se stesso: i tratti dell'eccentricità e della ricerca ossessiva di segni distintivi o di novità stupefacenti, sono caratteristici di un tentativo d icostruzione di una "personalità", che tende a volte a svuotarsi di senso, a ridursi alla mera collezione arbitraria di segni esteriori. E' importante sottolineare ancora una volta la caratteristica abilità del pensiero di Simmel di dipingere ogni fenomeno nei suoi aspetti ambivalenti. Nella moda si esprime in modo perfetto la compenetrazione in un fenomeno unico di due spinte contraddittorie: la distinzione da un lato e l'imitazione dall'altro. La prima tendenza esprime l'esigenza di differenziarsi, di affermare la nostra "singolarità" rispetto agli altri; la seconda esprime il bisogno di affermare la nostra partecipazione ad una cerchia sociale che riconosciamo autorevole in fatto di stile. Nella decisione di seguire una moda il singolo afferma la propria volontà di dinstinguersi da tutti coloro che non lo seguono; ma afferma anche quella di assomigliare a coloro che ne sono i rappresentanti. In una società come quella contemporanea, la moda consiste così in un processo di mobilità sociale apparente: imitando la moda dei gruppi dotati di prestigio maggiore, chi è più in basso nella scala della società può far mostra di appartenervi. Il paradosso della moda è dunque che esprime ad un tempo autonomia ed obbedienza: è vero tuttavia che, per la sua stessa struttura, essa si presta particolarmente a individui che non sono propriamente "individui". Ma è vero anche che essa è    l'espressione di qualcosa di estremamente tipico della costellazione culturale della modernità. Qualche commento Sintetizziamo il ruolo del pensiero di Simmel nella storia della sociologia con alcune proposizioni. 1) Con Simmel, la sociologia assume esplicitamente al suo interno la riflessione sui procedimenti conoscitivi che la contraddistinguono, e segnalando l'indissolubile nesso che, in ogni conoscenza, lega l'osservatore a ciò che osserva. 2) La ricerca di rapporti causali tra fenomeni si fa cauta. Ogni fenomeno dipende da cause molteplici e a sua volta è causa di altri fenomeni. Il mondo è una rete di fenomeni che si influenzano reciprocamente. 3) Al centro dell'interesse di Simmel stanno sempre e comunque le interazioni: ciò che la scienza studia non sono entità in qualche modo isolabili, ma le relazioni entro cui queste entità si definiscono. Il pensiero di Simmel è relazionale. 4) Con Simmel la sociologia inizia ad assumere nel proprio campo di indagine la vita quotidiana. La sociologia di Simmel è dichiaratamente una "sociologia delle forme", e anche una "sociologia degli sfondi": ciò che egli tematizza è quello che spesso consideriamo irrilevante, poichè lo assumiamo come lo sfondo implicito e ovvio del nostro agire ordinario. La fama di Simmel durante la sua vita fu notevole, e la sua influenza è stata avvertibile in tutta la cultura tedesca della generazione a lui successiva. Max Weber Max Weber è probabilmente lo studioso che ha più influenzato la sociologia del XX secolo. Fu membro di una famiglia dell'alta borghesia tedesca, e per tutta la vita intrattenne rapporti con molti fra i principali uomini politici e intellettuali tedeschi del suo tempo. La    formazione economica è in effetti centrale nel suo pensiero. Weber pubblicò i monumentali studi della sua "Sociologia delle religioni". La sua opera più nota, "Economia e società", non fu invece mai pubblicata durante la sua vita: riordinata e di fatto ricostruita dalla moglie, vide la luce nel 1922, due anni dopo la morte dell'autore. Max Weber è una personalità complessa. Nella sua biografia, un elemento importante è costituito dall'esaurimento nervoso che, fra il 1897 e il 1901, lo costrinse ad abbandonare ogni attività intellettuale. La sua attenzione per gli eventi politici del tempo fu sempre estremamente intensa. Gran parte del pensiero di Weber non è comprensibile se non come uno sforzo teso a riprendere i problemi formulati da Marx sulla genesi e le caratteristiche del modo di produzione capitalistico, e a proporne soluzioni teoriche parzialmente differenti. Le preoccupazioni teoriche di Weber riguardano essenzialmente tre campi di indagine: metodologico, storico-comparativo e sistematico. Weber si è occupato essenzialmente di tre questioni. 1) Il problema del metodo delle scienze sociali (in particolare della sociologia) e dei rapporti tra sapere scientifico e giudizi di valore. 2) Il problema della genesi e del destino della civiltà occidentale e moderna, 3) Il problema di una definizine sistematica e coerente dei concetti della sociologia. La sociologia come scienza comprendente Vediamo che cosa Weber intenda per la sociologia, egli fornisce questa definizione: la sociologia deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale, e quindi di spiegarlo casualmente nel suo corso e nei suoi effetti. La sociologia è dunque innanzitutto una scienza che interpreta l'agire sociale. La sociologia per Weber è dunque una scienza comprendente, una scienza in cui il primo obiettivo è comprendere l'agire sociale. "Comprendere" non è un sinonimo di "spiegare". La spiegazione causale viene dopo l'applicazione del procedimento interpretativo. "Comprendere" un'azione vuol dire per Weber intenderne il senso, cioè interpretare il significato che quell'azione ha agli occhi della persona che la compie. L' "agire sociale" che è oggetto della sociologia è infatti un agire dotato di senso. Un agire è tale se e in quanto vi è connesso un senso. Immaginiamo, per esempio, che io veda davanti a me un uomo che guarda fissamente un libro, e gli chieda: "Cosa stai facendo?"; e immaginiamo che egli mi risponda: "Sto studiando". Ebbene, questa espressione indica il senso dell'azione che io ho osservato. La possibilità che si dia comprensione distingue le scienze umane e sociali dalle scienze naturali. Questo punto è fondamentale, perchè segna una frattura rispetto ad un'impostazione che abbiamo visto operante dai primi illuministi fino a Durkheim. Da Montesquieu a Comte e fino a Durkheim, il modello scientifico per eccellenza è quello delle scienze naturali, e le scienze dell'uomo devono progressivamente adeguarsi a questo modello. Per Weber questa impostazione è errata. Lo è per un motivo molto semplice: per il fatto che nelle scienze naturali i fenomeni non sono agiti da soggetti che danno loro un significato, mentre, nelle scienze non compie l'azione in modo riflessivo nè segue un impulso momentaneo, ma agisce sulla base di una consuetudine. Sono di questo tipo azioni come lo scambiarsi dei saluti secondo formule stereotipate, o il segnarsi di un cristiano quando entra in una chiesa. Si tratta di tipi ideali di agire. Nel mondo moderno, secondo Weber, si assiste ad un crescente predominio dell'agire razionale rispetto allo scopo. Le azioni degli uomini tendono cioè a farsi sempre più strumentali, e il calcolo relativo al perseguimento di fini diviene l'atteggiamento mentale predominante. La frequenza di azioni orientate esclusivamente a valori in sè decade. Nei termini di Weber, il crescente predominio di forme d'agire di tipo razionale rispetto allo scopo corrisponde allo sviluppo di un processo di razionalizzazione. Il concetto di "capitalismo" Uno dei temi principali della riflessione di Weber consiste nella definizione delle caratteristiche essenziali, delle origini e del destino della civiltà occidentale moderna. Dal punto di vista della sua organizzazione economica, la società occidentale moderna ha il suo perno nel capitalismo. Cos'è per Weber il capitalismo? Questo termine è comparso nei nostri studi attraverso l'opera di Marx. Weber riprende questo termine, al quale tuttavia attribuisce significati un pò differenti. Il punto di partenza è fornito dalla definizione dell'agire economico di tipo capitalistico. Un atto economico capitalistico è per Weber "un atto che si basa sull'aspettativa di guadagno derivante dallo sfuttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno formalmente pacifiche". Esso non è uguale dunque al semplice desiderio di accumulare denaro e non è uguale neppure alla rapina (che non è formalmente pacifica). Esso si basa su aspettative di guadagno formalmente pacifiche e disciplinate razionalmente e reiterate nel tempo. Come Weber spiega, l'agire economico che chiamiamo "capitalistico" è un agire specificamente orientato all'aumento costante del capitale. Il capitalismo è dunque un sistema economico al cui interno i soggetti agiscono al fine di conseguire un guadagno in modo formalmente pacifico utilizzando le congiunture dello scambio. Il tipico soggetto di questo sistema è il proprietario dell'impresa capitalistica, che dispone di un capitale e mira ad accrescerlo mediante il conseguimento rinnovato di profitti che di norma vengono reinvestiti per procurare nuovo profitto. E' necessario introdurre un'altra caratteristica per definire il capitalismo occidentale moderno: questa è l'organizzazione razionale del lavoro formalmente libero, cioè l'utilizzo di lavoratori salariati, giuridicamente liberi, per lo svolgimento delle attività dell'impresa. Un agire economico è detto di tipo capitalistico nella misura in cui è orientato a perseguire, in modo sistematico, continuo nel tempo e formalmente pacifico, un profitto. E il capitalismo occidentale moderno è un sistema di imprese, collegate fra loro attraverso il mercato, in cui ogni impresa agisce per conseguire il profitto e organizza le proprie attività conformemente a tale scopo in modo razionale, utilizzando il lavoro formalmente libero. Quanto alla società nel suo insieme, essa è capitalistica quando la soddisfazione dei bisogni dei suoi membri ha luogo in modo prevalente attraverso l'attività di tali imprese e il consumo delle merci che queste producono. In molti punti, la definizione weberiana del capitalismo richiama quella di Marx. E' evidente tuttavia che, rispetto a Marx, è assente il tema dello sfruttamento. E' assente perchè la definizione di Weber non si basa sulle caratteristiche dei rapporti di produzione, ma da un lato riporta la formazione del profitto alla sfera dello scambio, e dall'altro definisce il capitalismo sulla base di un insieme di caratteristiche che riguardano il senso dell'agire e le condizioni storiche in cui tale agire si dispiega. Di fatto, la denuncia dello sfruttamento dei lavoratori salariati è per Weber un aspetto di una critica morale al capitalismo che non ha nulla a che vedere con la definizione scientifica del capitalismo stesso. Ma la definizione di Weber ha anche qualcosa che in Marx non era presente: il riferimento al carattere razionale dell'agire capitalistico, cioè alla razionalità formale del calcolo economico che vi è alla base e all'organizzazione razionale del lavoro. Il concetto di "razionalità" è decisivo nella prospettiva di Weber. La razionalità cui Weber fa riferimento è quella dell'agire razionale rispetto al suo scopo: è questo il tipo di razionalità che è all'opera nell'agire economico che chiamiamo "capitalistico", nei suoi modi di fare uso delle tecniche disponibili, nei suoi modi di organizzare il lavoro nei suoi calcoli di bilancio. Perchè    il capitalismo potesse svilupparsi, sono stati necessari numerosi fattori storici: -la disponibilità di lavoro formalmente libero (cioè la fine della schiavitù e del servaggio) -lo sviluppo di mercati aperti (dunque l'apertura progressiva delle comunità di villaggio ad un sistema di relazioni commerciali più vaste) -la separazione tra famiglia ed impresa (ovvero tra sfera domestica e sfera del lavoro) -lo sviluppo di un diritto formalmente statuito, che consenta ai soggetti dell'agire capitalistico (le imprese) condizioni in cui le norme dettate dal potere politico non siano soggette a continui mutamenti: è chiaro infatti che in presenza di regole non stabili e garantite sarebbe difficile fare calcoli razionali relativi al successo delle proprie attività. Questi fattori sono stati presenti secondo Weber in molte altre epoche e in molte altre società. La loro combinazione si è prodotta però solo nell'Occidente moderno. Tuttavia, ciò che soprattutto caratterizza il capitalismo occidentale moderno è infatti una mentalità specifica che permette di attribuire senso a un agire come quello "capitalistico" in modo particolarmente diffuso. E' ciò che Weber chiama "lo spirito" del capitalismo, caratterizzato da un'enfasi particolare sull'importanza del lavoro professionale e sull'importanza di reinvestire nell'impresa i proventi delle attività economiche senza esaurirli nel consumo improduttivo o nel lusso. Ma da dove ha origine questo "spirito"? Lo spirito del capitasmo e le sue origini nell'etica protestante Una volta definito cosa si intenda per capitalismo, quali sono le condizioni che hanno determinato il suo sorgere? Sappiamo già che, per Weber, è impossibile risalire ad una e una sola causa. E' possibile individurare una pluralità di fattori. Ora, il principale di tali fattori è indicato da Weber proprio nella peculiare attitudine razionalistica che caratterizza la civiltà moderna. Lo "spirito del capitalismo" è l'ethos razionale che lo anima. Il punto è individuare le origini della capacità e della disposizione degli uomini dell'Occidente moderno a sviluppare in modo particolare delle forme di condotta pratico-razionale nella vita. Il saggio "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo" è uno sforzo teso a definire le origini di questa disposizione. Si tratta di una disposizione culturale, la cui origine andrà dunque cercata in sfere della vita specificamente culturali. Di fatto, essa andrà cercata per Weber all'interno delle forme specifiche della cultura europea nei secoli che stanno all'inizio dell'et moderna, cioè in forme religiose. Ricordiamo qualche elemento di storia. Nel 1517 Lutero rese pubbliche le sue famose 95 tesi che segnano l'inizio della riforma protestante. La dottrina di Lutero comportava il rifiuto dell'autorità del Papa in materia di fede. Il protestantesimo conobbe tuttavia diverse versioni. La più rilevante nel discorso di Weber è quella calvinista, che si organizzò dapprima a Ginevra, ma che fu poi la forma in cui il protestantesimo conobbe la più ampia diffusione. In generale, il protestantesimo pone più di altre confessioni l'accento sull'individuo come interprete diretto della parola di Dio. In questa enfasi particolare sull'individualismo, alcuni autori hanno colto uno dei tratti del protestantesimo più consoni alla formazione della cultura moderna. Ma non è questa la strada di Weber. Egli osserva che il protestantesimo si differenzia dal cattolicesimo per un'enfasi particolare sulla vita mondana. Il frutto dell'opera di Lutero nel campo etico fu infatti innanzitutto. E' sul terreno di questa rivalutazione dei compiti mondani che si instaura il concetto di Beruf. Il termine Beruf non ha una traduzione univoca in italiano: significa insieme "professione" e "vocazione". Nel concetto di Beruf i protestanti hanno indicato il carattere sacro dei compiti professionali di ciascunom la dimensione religiosa dell'occuparsi di compiti connessi alla propria posizione nel mondo. Ma vi è un'altra caratteristica della dottrina protestante che ha grande rilevanza. Si tratta della concezione dell'assoluta imperscrutabilità del valore divino, e la sua totale indipendenza dalle azioni degli uomini. Nella versione calvinista, questa enfasi sull'assoluta libertà di Dio rispetto agli uomini si tramuta nel dogma della predestinazione delle anime. E' solo Dio che ha il potere di salvare o di perdere per l'eternità: l'uomo non può nulla per mutare o influenzare ciò che solo la Grazia può concedere. Questo dogma, osserva Weber, ha delle conseguenze psicologiche molto rilevanti. Il singolo credente non ha alcun potere sulla propria salvazione. Nè tramite la preghiera nè tramite le proprie azioni egli può essere certo della salvezza. Il compimento con successo del proprio dovere professionale viene a costituirsi in questo quadro come un modo di rispondere alla pressione psicologica prodotta dalla dottrina della predestinazione: l'uomo rispetta il volere di Dio occupandosi sistematicamente della creazione di Dio - cioè il mondo - e contemporaneamente si vieta ogni indulgenza nei confronti dei piaceri che dal mondo possono derivare, nel timore di scoprire in tali piaceri la tentazione, e dunque il segno del proprio essere dannato. Indulgere nel peccato è di gravità radicale: è un segno della dannazione, non una "caduta" dalla quale ci si possa "rialzare". La condotta di vita, in questa situazione, deve essere scrupolosamente metodica, e il lavoro assurge non solo a modo di "glorificare il Signore", ma anche a strumento per evitare le tentazioni. Questo atteggiamento è detto da Weber ascesi intramontana, cioè appunto fusione di rinuncia al godimento del mondo e di presenza attiva nel mondo. Ma proprio tale atteggiamento si rivela affine a quanto richiede lo "spirito" del capitalismo, almeno ai suoi inizi. Per sviluppare un'impresa capitalistica è necessaria infatti una tensione culturale particolare: si tratta di dedicarsi nel modo più sistematico e razionale possibile alla propria professione economica, ma, nel contempo, si tratta di rinunciare al desiderio di utilizzare i guadagni per goderne. L'etica protestante - specie quella calvinistica - favorisce dunque lo sviluppo di questa "mentalità": ne offre le basi di senso. Nel volume "L'etica protestante" Weber cerca dunque di comprendere il senso di un determinato tipo di agire. L'agire economico capitalistico è orientato alla ricerca di un profitto, e il sistema un raggruppamento definisce se stesso attraverso la sua occupazione di un dato territorio, se ha la nozione della propria continuità nel tempo, e se nella sua organizzazione è presente la possibilità di minacciare il ricorso alla forza fisica per imporre il rispetto di certe regole della vita in comune, questo gruppo è detto da Weber raggruppamento politico. In particolare, lo Stato è quel tipo di raggruppamento politico che dispone del monopolio della violenza legittima su di un determinato territorio. Le forme di legittimazione del potere Ma cosa può rendere "legittima" la violenza? Solo una cosa: la validità dell'autorità che la impone. Nel senso più generale del termine, il potere corrisponde alla capacità di un soggetto di produrre degli effetti, ovvero di intervenire con efficacia sulla realtà. Quando il potere di qualcuno ha direttamente per oggetto altri esseri umani, possiamo parlare di potere sociale: questo è la capacità di un soggetto di produrre effetti su altri. E' all'interno del potere sociale che si situa il tipo di potere a cui Weber è interessato: il potere politico. Questo potere può basarsi meramente sulla forza, oppure invocare qualche principio di legittimità. Nel primo cxaso, il governo si risolve nell'imposizione di regole che convengono agli interessi o alle convinzioni di alcuni, a prescindere dagli interessi degli altri. Nel secondo, le regole si basano su un criterio condiviso e vengono ritenute legittime. In "Economia e società" Weber distingue infatti due concetti: Macht e Herrschaft. Nelle traduzioni italiane è invalso l'uso di rendere il primo termine con "potenza", e il secondo propriamente con "potere". Il concetto di Macht designa "qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un'opposizione, la propria volontà"; per Herrschaft si deve intendere invece "la possibilità che un comando, che abbia determinati contenuti, trovi obbedienze presso certe persone". La differenza tra "potenza" e "potere" rimanda dunque a differenti situazioni: nel caso della potenza, chi la subisce si trova costretto a seguire la volontà dell'altro; nel caso del potere la situazione è quella di qualcuno che obbedisce ad un comando perchè ritiene legittimo il potere da cui il comando emana. Poichè Weber definisce il potere come la possibilità che dei comandi incontrino obbedienza, il problema seguente è quello di comprendere secondo quale senso l'obbedienza sia accordata, cioè comprendere come un comando politico possa essere considerato legittimo. Weber distingue così tre tipo di legittimazione del potere. 1) La legittimità del potere può essere di carattere tradizionale. Il potere legittimo è di carattere tradizionale quando poggia sulla credenza nel carattere sacro di tradizioni ritenute "valide da sempre". E' questo il caso in cui chi obbedisce lo fa sulla base del sentimento. Il potere di chi comanda riceve la sua legittimità dal fatto di provenire dal passato. E' di questo tipo l'obbedienza che si presta a coloro che rappresentano una tradizione: al re per esempio o al padre nelle famiglie patriarcali. 2) La legittimazione del potere può essere di tipo carismatico. Per carisma si intende un "segno di elezione" che compete, come una qualità personale, a un individuo particolare. La legittimità del potere è di carattere carismatico quando "poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona". Il potere che si fonda su una legittimazione carismatica è un potere che ha una grande potenzialità di produrre mutamento. Si pensi alla figura del profeta: il profeta è colui che ha la fora di dire: "così è scritto, ma io invece vi dico...". Weber è effettivamente dell'idea che il carisma sia la più grande forza rivoluzionaria potenziale della storia. Esso è tuttavia sempre legato ad una persona particolare: quando questa muore, il problema di conservare gli ordinamenti o i messaggi che essa ha lasciato è estremamente delicato ("routinizzazione del carisma") 3) La legittimità del potere può essere infine di carattere razional-legale. In questo caso, essa poggia "sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e nel diritto di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi". Quando la legittimazione del potere avviene in senso "razional-legale", l'obbedienza non è prestata ad una persona in particolare: l'obbedienza è prestata a delle leggi, che sono impersonali, cioè costituite da regole astratte che valgono per tutti in modo uguale. D'altra parte, tali leggi non derivano neppure la loro legittimità dal fatto di provenire dal passato: esse la traggono piuttosto dal fatto di essere "razionalmente statuite", cioè prodotte in modo razionale sulla base di una discussione formalmente pacifica. Questa è la forma di legittimazione del potere più tipica delle società moderne. Si osservi che essa favorisce un mutamento sociale continuo e regolato. Poichè le leggi sono razionalmente stabilite degli uomini, il mutamento è sempre possibile. Il potere politico è infatti, nella prospettiva di Weber, intrinsecamente instabile: è tanto più stabile, tuttavia, quanto più diffuse e radicate sono le credenze riguardanti la sua legittimità. La burocrazia Ad ogni forma di potere legittimo corrispondono forme tipiche di apparati amministrativi. Limitiamoci ad osservare che la forma tipica di apparato amministrativo connessa al potere "razional-legale" è quella della burocrazia. Per "burocrazia" si intende l'organizzazione permamente della cooperazione tra un grande numero di individui, ciascuno dei quali svolge una funzione specializzata. Più in particolare, in rapporto allo Stato moderno, la burocrazia consiste in un apparato di individui espressamente organizzato per l'espletazione di compiti amministrativi: tali individui sono detti funzionari, ed esercitano le funzioni connesse alla propria carica sulla base di procedure standardizzate e obbedendo ad un'autorità impersonale. La burocrazia dello Stato moderno si fonda sui seguenti principi. 1) L'esistenza di servizi e di competenza rigorosamente definiti da leggi o regolamenti. 2) Una gerarchia delle funzioni. 3) La separazione tra la funzione e l'uomo che la svolce. 4) Il reclutamento dei funzionari sulla base del possesso di una formazione specifica e sulla base di esami. 5) La retribuzione del funzionario mediante un salario erogato dallo Stato. L'individualità concreta del funzionario è irrilevante: le stesse funzioni vanno eseguite a prescindere dalla persona che è chiamata a svolgerle. Il termine "burocrazia" è sganciato dal riferimento esclusivo alla sfera amministrativa, e viene a intendere, più in generale, ogni forma di organizzazione razionale del lavoro. Così, nella discussione delle caratteristiche del capitalismo occidentale moderno, Weber parla di una "burocratizzazione" del lavoro. Il punto è che la burocrazia è più efficiente di altri sistemi quando si tratti di amministrare società ampie e complesse. Ciò è particolarmente evidente nei confronti del sistema amministrativo tipico delle società basate sulla forma di legittimazione del potere tradizionale, cioè il patrimonialismo. Il patrimonialismo era caratteristico dell'Europa feudale: qui le funzioni amministrative erano tipicamente affidate a funzionari ricompensati dal signore che attingeva per questo al suo patrimonio. Essi non rispondevano a un potere impersonale, ma al potere personale del signre, cui erano legati da un rapporto di fiducia personalistico. Un tale sistema non è adeguato alla gestione di servizi differenziati e rivolti a un numero enorme di persone. D'altro canto, la burocrazia ha anche svantaggi. In quanto basata sulla spersonalizzazione, essa favorisce la deresponsabilizzazione dei singoli funzionari, e, in quanto fondata sul rispetto di procedura standardizzate, sfavorisce l'innovazione. La stratificazione sociale Per stratificazione sociale si intende in sociologia il modo in cui una società gli individui e i raggruppamenti di individui sono differenziati e ordinati gerarchicamente. Il concetto allude dunque a certe disuguaglianze che riguardano le risorse cui ciascuno può accedere. In Marx, la nozione di classe è quella cruciale per l'analisi della stratificazione sociale. Ogni società è per Marx suddivisa in classi, e la collocazione di un individuo entro una classe è in ultima istanza la collocazione da cui discende ogni altra sua posizione. La visione di Weber è più complessa. Per Weber in ogni società umana coesistono diversi ordinamenti, che corrispondono a diversi "punti di vista" da cui la società può essere considerata: in particolare, esistono e vanno distinti un ordinamento economico, un ordinamento culturale e un ordinamento politico. La nozione di classe è la nozione centrale dal punto di vista economico. In generale, una classe è per Weber un insieme di individui che condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni economici, cioè dei beni e servizi finalizzati alla soddisfazione di bisogni relativi a "prestazioni di utilità". Nella società occidentale moderna, la classe si definisce specificamente in relazione al mercato. Appartengono alla medesima classe individui che hanno possibilità tipicamente simili di situarsi sul mercato in base al possesso o al non possesso dei beni e delle capacità che vengono scambiati al suo interno. Tipicamente, gli individui che appartengono alla medesima classe hanno interessi economici simili. All'interno dell'ordinamento culturale la stratificazione si esprime attraverso i ceti. La nozione di ceto è uno dei contributi più originali e importanti di Weber alla teoria sociologica della stratificazione. Weber definisce situazione di ceto un "effettivo privilegio positivo o negativo nella considerazione sociale". Tale "privilegio" positivo o negativo può essere fondato sul modo della condotta della vita, sulla specie di educazione ricevuta, sul prestigio derivante dalla nascita, o su quello derivante dalla professione o dall'appartenenza a un gruppo in cui si entra in virtù di certi requisiti specifici. Un ceto si definisce in altre parole come un insieme di individui che condividono un certo "status" riconosciuto socialmente (senza che questo status coincida necessariamente con la posizione economica). Quanto alla stratificazione politica, essa si realizza nelle forme degli apparati politici e amministrativi di un gruppo sociale, cioè nelle cariche che vi si possono ricoprire. Razionalizzazione e disincanto del mondo - cioè allontanare, nascondere - gli affetti e gli eventi che costituiscono dei "traumi", la cui presenza nella coscienza genererebbe dei conflitti. Rimuovere è dimenticare, ma ciò che è rimosso non scompare: piuttosto, rimane nell'ombra e agisce attraverso dei sintomi, i più importanti e disturbanti dei quali sono i sintomi delle nevrosi. Secondo Freud non c'è nulla, nel nostro mondo interiore, che scompaia mai definitivamente. Allo stesso modo, l'umanità nel suo complesso non dimentica mai definitvamente le fasi precedenti che ha attraversato: in ogni "uomo civile" vivono ancora gli impulsi, le fantasie e le paure che accompagnavano l'uomo delle età primitive. Il nucleo delle pratiche terapeutiche della psicoanalisi nasce nel contesto di questa scoperta come un metodo che consente di riportare alla luce almeno parte di ciò che è stato rimosso, e mette il soggetto a confronto con ciò che, precedentemente, non era stato in grado di affrontare. Ciò che viene rimosso ed è difficile affrontare è essenzialmente il desiderio, cioè l'espressione dell'energia pulsionale. 2) Quello delle "pulsioni" è il secondo concetto. Nei suoi primi scritti, Freud tendeva a identificare strettamente le pulsioni con la sessualità; in seguito chiarì però di intendere la sessualità in un senso piuttosto ampio, come l'insieme delle pulsioni erotiche che spingono ciascuno di noi verso delle "mete" attraverso il cui raggiungimento la pulsione "si appaga". Nelle opere successive alla guerra Freud affianca tuttavia alle pulsioni erotiche un altro tipo di pulsioni, le pulsioni distruttive, che viene infine a concettualizzare sotto il nome di "pulsione di morte". Ogni organismo si muoverebbe in quest'ottica fra due spinte contrastanti e confuse: da un lato verso la propria affermazione e la soddisfazione del proprio piacere, dall'altro verso uno stato di quiete finale, di riassorbimento. Il mondo delle pulsioni non conosce distinzioni tra "bene" e "male", è l'espressione di una tendenza degli organismi a soddisfare se stessi. Le idee fondamentali di Freud sono da un lato che lo sviluppo della civiltà - e allo stesso modo lo sviluppo di ogni individuo dall'infanzia all'età adulta - comporta una coercizione relativa al controllo e alla negazione degli impulsi istintivi, e dall'altro che - poichè nulla è mai dimenticato per sempre - questi impulsi originari rimangono latenti e minacciano costantemente di riemergere. In questa prospettiva la guerra consiste in una situazione in cui gli impulsi primordiali dell'uomo hanno la facoltà di riemergere. 3) Ciò che più caratterizza la psicoanalisi, infine, è la nozione di inconscio. L'inconscio si configura nel pensiero di Freud come una sorta di "luogo" al cui interno vanno collocati sia i pensieri e i sentimenti rimossi che i meccanismi stessi che a questa rimozione presiedono e infine le pulsioni medesime. In una prima fase, Freud disegnò una sorta di topografia della psiche distinguendo i sistemi "conscio", "preconscio" e "inconscio". Il primo è il regno della nostra coscienza; il secondo quello di ciò che, pur non essendo presente alla nostra attenzione in un momento dato, resta tuttavia accessibile; il terzo è il regno oscuro di ciò che la coscienza volontariamente non è in grado di raggiungere. In seguito, Freud propose un altro modello. Si tratta della tripartizione dell'apparato psichico in tre "istante" in relazione dinamica fra loro: l'Es, l'Io e il Super-Io. 1) L'Es consiste nell'insieme delle pulsioni che mirano alla propria soddisfazione. 2) L'Io corrisponde a sua volta alla coscienza che pensa e riflette. Mentre l'Es è guidato esclusivamente dalla ricerca della soddisfazione delle mete pulsionali, obbedendo al "principio del piacere", l'Io conosce il "principio di realtà": è l'istanza dell'apparato psichico che presiede all'esperienza del mondo, alla consapevolezza e all'apprendimento. 3) Il Super-Io è infine l'istanza delle norme morali, che rappresenta l'interiorizzazione in ciascuno di noi delle regole e dei valori dell'autorità sociale. I rapporti fra queste tre istanze sono conflittuali. Il cuore dell'argomentazione di Freud sta nella negazione dell'idea che sia possibile intendere gli uomini soltanto come esseri "razionali": la ragione ha una parte nelle vicende degli uomini, ma si tratta di una parte modesta e di statuto precario. Poichè comprendere i motivi reali del nostro agire è così difficile, gli esseri umani hanno la tendenza ad autoingannarsi. Il pensiero di Freud suscitò dal principio uno scandalo enorme. Almeno a partire dagli anni venti, e anche grazie alla formazione di un vero e proprio "movimento" psicoanalitico internazionale, si consolidò tuttavia come una delle principali acquisizioni del pensiero del Novecento. Nella sociologia, i primi autori a servirsene furono in Europa i membri della scuola di Francoforte e, in America, Parsons. Ludwig Wittgenstein e la filosofia del linguaggio Il "Tractatus logico-philosophicus" è essenzialmente un tratto di logica di Ludwig. Tale progetto presupponeva la possibilità di una corrispondenza univoca tra ogni espressione linguistica e il suo referente nella realtà: le espressioni sarebbero delle "raffigurazioni" di questa. E' proprio questo presupposto però che entra in crisi nel pensiero di Wittgenstein successivo al "Tractatus". Nel linguaggio ordinario le parole hanno significati diversi, che dipendono dal contesto in cui di volta in volta sono usate. Il tentativo di ridurre ogni parola ad uno ed un solo significato può avere senso all'interno di un linguaggio scientifico artificiale, ma si tratterebbe di un procedimento meramente convenzionale, inapplicabile alla lingua corrente. Poichè molte e diverse sono le situazioni e le cerchie in cui ci possiamo trovare, i significati delle parole sono molteplici. E il linguaggio stesso è una pratica, un'attività che svolgiamo in quanto esseri umani, intrecciata con tutte le altre attività in cui siamo immersi. L'insieme delle attività in cui ciascuno è immerso, come membro di una determinata società, è una forma di vita: il linguaggio è dunque parte di una forma di vita, vi è indissolubilmente connesso. Il termine "gioco linguistico" è particolarmente importante: significa che, quando parliamo, noi seguiamo delle regole allo stesso modo in cui le seguiamo quando ci impegniamo in un gioco. Le seguiamo - altrimenti non potremmo giocare con gli altri - ma allo stesso tempo possiamo sempre sospenderle; e, soprattutto, altri possono giocare altri giochi. Ciò che ha senso in un sistema di regole non ha necessariamente lo stesso senso in un altro, o addirittura può non averne più alcuno. (Per fare un esempio banale: un tris d'assi ha un certo valore nel poker, ma a briscola non vuol dire nulla) Anche all'interno della stessa comunità linguistica (fra tutti coloro che parlano l'italiano, ad esempio) le parole possono essere usate in giochi linguistici non solo diversi, ma anche relativamente impermeabili uno all'altro. Ciò che dice ad esempio un critico d'arte, parlando all'interno del "gioco" della sua disciplina, può essere incomprensibile a un perito chimico, nonostante che il vocabolario che entrambi usano sia grosso modo lo stesso: i contesti diversi delle due professioni, le regole d'uso delle parole, gli scopi a cui servono, le associazioni d'idee che richiamano alla mente fanno sì che i discorsi di ciascuno dei due non siano immediatamente traducibili in quelli propri dell'altro. Le conseguenze di quest'ordine di pensieri sono notevoli. Per le scienze sociali, le conseguenze sono essenzialmente due. Innanzitutto, il ruolo del linguaggio nella società viene in primo piano. La lingua è lo strumento di cui gli uomini si servono per intendersi fra loro in relazione alle attività in cui sono coinvolti: nello stesso momento in cui esprime la loro forma di vita, è il mezzo attraverso cui essi la interpretano. Dopo la metà de Novecento, la rivalutazione del ruolo del linguaggio operata da Wittgenstein e la sua concezione del significato come "uso" delle parole si combineranno con l'influenza di altre correnti del pensiero sociale dando luogo a quella che alcuni chiameranno una vera e propria "svolta linguistica" nelle scienze sociali. La seconda conseguenza del pensiero di Ludwig è che alcune cose che sociologi e antropologi fanno usualmente, come la comparazione fra società dotate di culture diverse, diventano assai problematiche. Non è affatto scontato che gli stessi concetti che hanno senso all'interno di una cultura siano adeguati a comprenderne un'altra. A rigore, solo chi è all'interno di un gioco linguistico è in grado di cogliere il senso delle azioni che fa chi lo gioca. Per chi non ne conosce le regole, il gioco è un non-senso. L'esito cui conduce questa conseguenza del pensiero di Wittgenstein può consistere in un relativismo radicale, secondo cui ogni gioco linguistico, e a maggior ragione ogni cultura, è incomparabile con ogni altro. Mannheim e il problema del relativismo Nella sua formazione sono decisivi i rapporti con il pensiero di Marx. Più decisiva ancora è tuttavia l'appartenenza alla generazione che visse la Prima guerra mondiale. Il posto di Mannheim nella storia della sociologia è soprattutto legato alla sua formulazone di una sociologia della conoscenza. Il termine "sociologia della conoscenza" era stato introdotto dal filosofo tedesco Max Scheler. Un'analisi del genere era già stata avviata da Marx e da Durkheim. Mannheim è colui che la sistematizza. La sua opera più nota è "Ideologia e utopia". Il problema cruciale di Manheim è quello del relativismo. Il primo oggetto della sua riflessione è la compresenza in una medesima società di visioni politiche concorrenti fra loro. Marx aveva già collegato queste visioni agli interessi delle classi in conflitto: attraverso il concetto di ideologia aveva mostrato in particolare come le classi dominanti tendano a descrivere il mondo occultandone le contraddizioni e legittimando così i privilegi acquisiti. Il pensiero delle classi dominanti è dunque influenzato dalla loro posizione nei rapporti sociali; ma la prospettiva delle classi dominate lo è meno? Mannheim pensa di no. Al concetto marxiano di ideologia affianca così quello di "utopia": con questo intende la visione del mondo tipica di coloro che, impegnati nella lotta per rovesciare i rapporti esistenti, non riescono a scorgere sulla realtà se non gli elementi che vogliono negare. Come l'ideologia, l'utopia è dunque anch'essa una parziale "deformazione" della realtà. Manheim propone di usare il termine "ideologia" per intendere che ogni individuo, in quanto appartenente a un gruppo sociale determinato, tende a concepire la realtà secondo un punto di vista che esprime gli interessi, la cultura, la sensibilità e le peculiari capacità di quello stesso gruppo, Il modo in cui ciascuno di noi vede la realtà è dunque connesso alla nostra situazione esistenziale. Ciascuno di noi è situato: da ciò il nostro pensiero non pul prescindere. Dal problema del relativismo Mannheim arriva così alla proposta teorica di un relazionismo: un concetto che indica la relazione originaria che lega ogni prodotto della cultura all'esistenza concreta e Quando abbiamo parlato di Simmel, abbiamo ricordato la distinzione tipica del linguaggio filosofico tedesco tra Vernunft, la ragione e Verstand, l'intelletto. Parlando di Weber, in seguito, abbiamo notato come il processo di razionalizzazione caratteristico del mondo moderno consistesse essenzialmente in uno sviluppo della razionalità strumentale: questo concetto corrisponde a quello di Verstand, e la razionalizzazione è dunque soprattutto uno sviluppo dell'intelletto. Ora, il processo di razionalizzazione descritto da Weber viene ricompreso dai membri della scuola di Francoforte come un processo di vero e proprio pervertimento della ragione, cioè come una riduzione della ragione a intelletto. Gli uomini moderni sono sempre più capaci di eseguire calcoli tecnici, ma sempre meno capaci di esercitare quelle facoltà critiche in cui si dispiega la ragione propriamente detta. Specialmente Horkheimer situa il nucleo di questo processo nel passaggio dall'illuminismo al positivismo: il secondo consiste in un abbandono delle valenza critiche che il richiamo alla ragione aveva nel primo. Mentre i pioneri della società borghese avevano usato il richiamo alla ragione come strumento per opporre i principi della libertà, dell'uguaglianza e della tolleranza al sistema dei privilegi, il pensiero positivsta appiattisce l'idea di ragione sul modello della ricerca scientifica e tecnologica, e la riduce a strumento di descrizione dei "fatti". Nella "Dialettica dell'illuminismo", è l'illuminismo stesso a divenire sospetto, nella misura in cui corrisponde a un progetto di "rischiaramento" assoluto del mondo. Il primo aspetto di questa critica corrisponde a una certa rivalutazione della validità del pensiero magico e religioso. Già negli anni trenta Horkheimer aveva notato che nei movimenti religiosi popolari si esprime spesso una carica critica nei confronti delle istituzioni vigenti che rende la religione diversa da quella a cui il pensiero marxista tradizionale l'aveva ridotta. Ma diciamo di più: nel pensiero magico e in quello religioso si conserva il riconoscimento di qualcosa che il "disincantato" pensiero razionalistico tende a non riconoscere più, e cioè che non tutto è dominabile con la ragione. Quanto al secondo aspetto della critica dell'illuminismo, corrisponde al riconoscimento di un nesso inestricabile tra la ragione con la logica del dominio. Ora la parola "illuminismo" non è più riferita ad un movimento storico determinato: diventa la denominazione di tutta la civiltà occidentale, ricompresa come un unico progetto di razionalizzazione che ha le sue radici fin nella Grecia di Omero. Questo progetto di razionalizzazione è un progetto di padroneggiamento del mondo: si tratta di comprenderlo per dominarlo, per piegare la natura alle manipolazioni dell'uomo. Ma nel compimento di questo progetto l'uomo si estrania dalla natura stessa. Questo atteggiamento ha consentito uno sviluppo straordinario del sapere tecnico, ma, contemporaneamente, si è espresso in una logica che annulla ogni senso della vita che non corrisponda al mero dominio tecnico sopra di essa. Emblematica di questo processo è la storia di Ulisse e delle sirene narrate nell'Odissea, che Horkheimer e Adorno ripropongono. Come si ricorderà, Ulisse teme il fascino del canto delle sirene: per oltrepassarne lo scoglio, costringe i suoi compagni a remare con le orecchie tappate. Ma per sè riserva un comportamento diverso: vuole conoscere il canto, e resta a orecchie aperte; per non subirne il richiamo, si fa però legare all'albero maestro. In ciò sta il carattere emblematico dell'immagine: per conoscere ciò che lo affascina senza farsene coinvolgere, Ulisse lega se stesso, cioè si reprime. La conoscenza razionale si mostra inseparabile dal dominio su di sè - e serve a sua volta il soggiogamento delle forze ancestrali della natura, la cui complicità con il desiderio è negata. Inteso così, il cammino del "progresso" dell'uomo resta indubbiamente un progresso della tecnica ma, quanto al resto, corrisponde a una ferita insanabile: qualcosa che evoca molto dappresso l'idea del "disagio delle civiltà" che Freud aveva avanzato. Adesso, ogni progetto razionale sul mondo sembra in linea di principio condannato allo scacco o ha quanto meno dei costi tali da inficiarne ogni beneficio. A questa visione è tutt'altro che estranea l'esperiena della persecuzione degli ebrei della Seconda guerra mondiale, e, soprattutto, l'Olocausto. Che sei milioni di ebrei siano stati assassinati fra l'indifferenza generale e all'interno di uno dei paesi più "civili" del mondo non può essere inteso come un mero accidente: è piuttosto il segno di una ricorrente tendenza alla barbarie che, non superata a causa della rimozione del rapporto originario dell'uomo con la natura, rimane operante nel cuore della civiltà. Il mondo sociale moderno tende ad allontanare da sè l'idea stessa della barbarie ma, in realtà, l'amministra solo più efficacemente. Non bisogna intendere però questo discorso come la negazione di ogni valore alla ragione. L'Illuminismo non va sostituito con l'irrazionalismo: va piuttosto accompagnato da una critica. Questa critica è ancora razionale: ma di una razionalità che evita di feticizzare se stessa, che conosce la propria ambivalenza e che, soprattutto, è consapevole della permanente possibilità di una ricaduta nella barbarie. L'industria culturale Nel capitalismo maturo, l'industria culturale corrisponde all'amministrazione dello svago, che mira a fornire ai lavoratori una compensazione temporanea per i sacrifici cui si sottopongono: ma alla fine dello svago, ciò che attende il lavoratore è sempre la medesima routine produttiva, la cui necessità è costantemente riconfermata nella morale nascosta in ogni film di Hollywood e in ogni programma radiofonico commerciale. Nei lavori della scuola di Francoforte l'interesse delle scienze sociali per la stampa e per i mezzi di comunicazione, diventa centrale. All' "industria culturale" - che ora comprende il cinema, la radio e che subito dopo la guerra comprenderà anche la televisione - Adorno e Hokheimer dedicano una delle tre sezioni in cui è suddivisa la "Dialettica dell'illuminismo". L'industria culturale porta la cultura alle masse: sotto questa apparenza si nascondono tuttavia uno svuotamento della nozione stessa di "cultura" e un progetto di manipolazione. La cultura è luogo di intrattenimento e, soprattutto, meccanismo di promozione dell'adattamento di ciascuno all'ordine sociale esistente. Quanto alla manipolazione, essa è insita nella logica della "comunicazione di massa". Questa è una comunicazione in cui i messaggi sono unidirezionali. La democraticità apparentemente connessa al fatto che le stesse informazioni sono disponibili a ognuno è negata dal fatto che non è previsto che gli "utenti" siano anche "emittenti". Come scrivono Adorno e Horkheimer: "il passaggio dal telefono alla radio, ha distinto nettamente le parti. Quello liberale lasciava ancora all'utente la parte di soggetto. Questa, democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli autoritamente ai programmi tutti uguali delle varie stazioni. Non si è sviluppato però alcun sistema di replica." La "comunicazione di massa" è del resto analoga alla "produzione di massa": i prodotti vengono standardizzati e, come tutte le merci finiscono per somigliarsi l'una all'altra nella misura in cui sono equivalenti a denaro, così tutti i programmi forniti dall'industria della cultura tendono a uniformarsi. Il collante di questo sistema è dato dalla sua funzione: che è da un lato quella di promuovere un adattamento generalizzato al sistema sociale, e dall'altro quella di sostenere il mercato invitando ciascuno al consumo. La pubblicità è il cuore della comunicazione. In questo processo, la cultura si riduce a merce essa stessa, perdendo il suo significato. Crisi dell'esperienza e "semicultura" La critica della cultura di massa è stata sviluppata nell'ambito della scuola di Francoforte soprattutto da Lowenthal. Egli ne sottolineerà soprattutto la funzione di promuovere la sottomissione del singolo alle gerarchie esistenti. Più complessi sono i contributi di Benjamin. Benjamin si avvicinò solo tardi all'Istituto per la Ricerca sociale, ed egli fu, più di ogni altra cosa, un critico letterario. Inoltre Benjamin propone quella che sarebbe diventata una delle sue tesi più note: la perdita di quell' "aura" di unicità dell'opera d'arte che consegue alla possibilità della sua riproduzione. Recarsi davanti a una statua o ascoltare una sinfonia in un teatro pongono il soggetto di fronte alla sensazione di qualche cosa che è unico: vedere la statua in una fotografia o ascoltare il concerto sul registratore è invece fruire di eventi riprodotti e riproducibili all'infinito - ciascuno ne può fruire a ripetizione, e innumerevoli persone possono del resto fruire nello stesso momento. Le stesse idee di "originalità" e di "autenticità" cambiano senso: al limite, gli "originali" spariscono del tutto. Paradossalmente, del resto, è proprio nel tempo della riproducibilità che "originalità" e "autenticità" diventano termini straordinariamente diffusi. Quanto al saggio che fece su Baudelaire, Benjamin vi presenta le formulazioni più esplicite di una teoria della "crisi dell'esperienza" nella modernità. Come si ricorderà, Simmel descriveva la vita quotidiana del cittadino metropolitano come una successione di stimoli che richiede, per essere padroneggiata, una forte accentuazione delle dimensioni intellettuali della vita psihica a scapito di quelle emotive. Ricollegandosi a questa descrizione, Benjamin osserva che "quanto più la coscienza deve essere continuamente all'erta nell'interesse della difesa dagli stimoli e quanto maggiore è il successo con cui essa opera, tanto meno le impressioni penetrano nell'esperienza". In altre parole, la crisi dell'esperienza è data innanzitutto dal fatto che le condizioni della vita moderna ci costringono a trattenere le impressioni ai margini della nostra vita psichica: le padroneggiamo intellettualmente, ma non le lasciamo sedimentare nel profondo. Ciò che non sedimenta è "sterilizzato": non può più essere elaborato dalla memoria. La "sterilizzazione" delle impressioni che è favorita dalla vita moderna corrisponde all'incapacità di percepirsi come dotati di una continuità interiore. Ma la crisi dell'esperienza ha aspetti che non riguardano solo la vita interiore. Anche nelle attività produttive il soggetto non può percepire altro che una mera successione di frammenti di attività che si ripetono sempre uguali a se stessi, e in cui non sedimenta quasi più alcun sapere. L'operaio che lavora a una catena di montaggio non diventa "più esperto": dalla ripetizione coatta degli stessi gesti non impara nulla di più che l'abilità a trasformarsi in automa. Quanto alla cultura nel suo complesso, la crisi dell'esperienza corrisponde a una preferenza crescente per le "informazioni" a scapito di forme di comunicazione più antiche, come la narrazione, Il motivo del tramonto della capacità di narrare non sta solo nel carattere frettoloso della vita moderna, che sottrae il tempo necessario a raccontare e ad ascoltare. Sta piuttosto nella difficoltà di porsi di fronte alla vita come qualcosa che abbia una "trama". Quello che vogliamo sapere non sono più storie ma informazioni. In un saggio degli anni cinquanta, Adorno ritornerà su questo tema parlando della cultura contemporanea come di una "semicultura". La semicultura è la cultura degradata a patrimonio di informazioni: per il "semicolto" La semicultura è una cultura che ha perduto le sue funzioni. Ma la sociologia cresce soprattutto nell'analisi delle problematiche poste dai nuovi sviluppi della società. In Francia, ad esempio, le trasformazioni del lavoro e, più in generale, i probemi della società industriale sono analizzati da Friedmann in studi. La stratificazione sociale è oggetto ovunque di una grande attenzione. Apparentemente vi è una grande mobilità sociale: è però una mobilità che non diminuisce le disuguaglianze. Ed è proprio nel segno di una riscoperta della vita quotidiana e delle dinamiche intersoggettive che vi si dispiegano che potremmo racchiudere le teorie che esporremo. Alfred Schutz e la sociologia fenomenologica La prima teoria a cui ci riferiremo è la sociologia fenomenologica, la cui elaborazione originale è legata al nome di Alfred Schutz. La sociologia fenomenologica è un indirizzo di pensiero che muove da una fusione della sociologia weberiana con la filosofia fenomenologica di Edmund Husserl. Le sue basi teoriche sono poste nel libro che Schutz pubblicò nel 1932, "La fenomenologia del mondo sociale". Da Weber, Schutz trae l'interesse per i problemi fondamentali della teoria sociologica: azione, senso, comprensione. Quanto a Husserl, Schutz ne mutua diversi concetti, ma ne trae soprattutto l'idea stessa di fenomenologia. Nell'accezione husserliana, la fenomenologia è lo studio di ciò che "appare". In modo molto schematico, potremmo dire che l'idea fondamentale della fenomenologia è che il soggetto non è semplicemente nel mondo, ma costituisce il mondo. In "La fenomenologia del mondo sociale" Schutz utilizza la fenomenologia di Husserl per una discussione estremamente articolata dei concetti fondamentali di Weber. E' nei saggi successivi che emergono gli aspetti più fecondi della fusione di fenomenologia e sociologia che egli propone. Schutz mostra che quella costruzione di "tipi ideali" che Weber intendeva come il metodo proprio dello scienziato sociale è in realtà qualcosa che noi tutti facciamo costantemente: ciò che accade nel mondo è sempre compreso da ciascuno secondo delle categorie che non sono altro che "tipi ideali". Comprendere è sempre, in realtà, collocare ciò che si comprende entro un "tipo". Quello della tipizzazione è un concetto fondamentale. Tipizzare significa compiere un'astrazione, cioè ridurre la complessità del reale a un insieme di "tipi di cose" che possono succedere, di "tipi di persone" che si possono incontrare, di "tipi di situazioni" in cui ci si può imbattere. I "tipi" sono delle rappresentazioni della realtà, ne costituiscono una sorta di classificazione. In linea di principio, ciascuno di noi potrebbe definire delle tipologie di fenomeni come gli pare e piace ma ciascuno li definisce in accordo al modo in cui essi sono definiti nel mondo sociale al quale appartiene. La loro funzione è quella di permettere l'interazione sociale. Se io dovessi, ad ogni piè sospinto, chiedermi "ma costa sta facendo questa persona?", oppure "come devo agire per fare questo, o quest'altro?", le attività quotidiane con gli altri sarebbero praticamente impossibili. La vita di ciascuno di noi è fatta in buona parte di routine, cioè di corsi d'azione abitualizzati sui quali non ci fermiamo a riflettere, e costruire tipi di cose che accadono significa facilitarne il riconoscimento e permettere dunque alla routine di scivolare via senza intoppi. La sfera che a Schutz più interessa è quella della vita quotidiana, ma è importante ricordare che non è l'unica sfera in cui trascorriamo la nostra esistenza. Riallacciandosi al filosofo William James, Schutz ricorda che: "vi sono diversi e vari ordini di realtà, probabilmente un numero infinito, ognuno con il suo specifico e distinto modo di esistenza. James li chiama "sottouniversi" ". A seconda della nostra attenzione, noi viviamo dunque in diverse realtà. La realtà per eccellenza è tuttavia quella "dei sensi o delle cose fisiche", cioè la vita quotidiana: questo è il nostro ambiente ordinario, il tessuto di abitudini familiari all'interno delle quali noi agiamo e alle quali pensiamo per la maggior parte del tempo. Nel mondo quotidiano noi agiamo dando per scontato tutto ciò in cui siamo immersi. La ragione di ciò come abbiamo detto, è pragmatica: se dovessimo interrogarci continuamente su tutto quanto facciamo, l'esercizio delle nostre attività quotidiane sarebbe impossibile. Il senso comune Il pensiero in cui siamo immersi nel quotidiano è il senso comune. Il senso comune è il pensiero dell'ovvio: funziona come una sorta di automatismo che preserva ciascuno dal dover continuamente risolvere di nuovo problemi che so sono già affacciati e hanno già trovcato una risposta soddisfacente. Il senso comune è una specie di meccanismo finalizzato a tenere i dubbi fuori della porta. Tenere lontani i dubbi significa dare per scontate le tipizzazioni di cui facciamo uso. Significa che le intendiamo come "naturali": e tuttavia non sono naturali, sono modi di interpretare la realtà che abbiamo appreso nella nostra esperienza e nella nostra socializzazione. La socializzazione è particolarmente importante. Come osserva Schutz: "solo una piccola parte della mia conoscenza del mondo ha origine nell'ambito dela mia esperienza personale. La maggior parte è derivata socialmente, trasmessa a me dai miei amici, dai miei genitori, dai miei insegnanti e dagli insegnanti dei miei insegnanti." Il senso comune è dunque un insieme di "ricette" per vivere: fini, mezzi e situazioni ricorrenti della vita quotidiana vengono compresi in un modo che li ritrae come "ovvi". Naturalmente, non sempre le ricette bastano. In un saggio dedicato alla figura dello straniero, Schutz ha mostrato come a volte si sia costretti ad affrontare problemi per i quali affidarsi al senso comune non è sufficiente. Lo straniero - l'immigrado, ad esempio, o comunque colui che entra in un gruppo a lui sconosciuto - è qualcuno che si trova in una situazione in cui niente è più "ovvio": il quadro di cose che egli dava per scontate all'interno del gruppo da cui proviene non vale più nel nuovo mondo a cui accede. Lo stesso linguaggio - e con ciò il mezzo più "naturale" con cui ciascuno si rapporta al mondo - può essere un altro. Ciò comporta una crisi: lo straniero deve abbandonare un senso comune e imparare a condividerne un altro. Nelle situazioni di crisi, il senso comune non tiene. Ma, nelle situazioni normali, come avviene che noi siamo certi che quello che il senso comune ci fa dare per scontato sia vero? Se, per esempio, mi trovassi catapultato all'improvviso in un mondo dove si crede alle fate, e si spiegano in base alal loro attività fenomeni che io interpreto invece sulla base di un razionalismo disincantato, sarei evidentemente in difficoltà ad interagire con gli altri. Come funziona dunque il senso comune? Funziona come un sistema condiviso di credenze. Il senso comune è quello che ciascuno crede che tutti gli altri credano. E' il risultato di una sorta di accordo: un accordo tacito, non esplicito, che si basa in parte sulla tradizione di ogni gruppo sociale e in parte è costantemente riprodotto e confermato dall'attività di ciascuno, ma è un accordo fondamentale. Senza questo accordo che permette di dare per scontata, all'interno di una cerchia sociale determinata, una certa interpretazione della realtà, il nostro mondo quotidiano precipiterebbe nel caos. Ma se il senso comune è un insieme di credenze, lo stesso vale per la realtà: ciò che intendiamo per realtà nella nostra vita quotidiana è ciò che noi crediamo reale. La conseguenza teorica di tutto ciò è la seguente: la realtà - cioè il senso di realtà - è una costruzione sociale. Reale è ciò che intersoggettivamente viene chiamato reale. Il pensiero quotidiano e la scienza E' opportuno sottolineare che, data la sua attenzione per la vita quotidiana, Schutz viene spesso inteso come un esponente della "microsociologia", cioè della sociologia che si occupa in modo specifico della dimensione quotidiana della vita sociale, ma che questa intrepretazione è riduttiva. Il pensiero di Schutz rappresenta un momento cruciale della storia della sociologia, che corrisponde a una messa in questione radicale del realismo ingenuo di chi dimentica che il mondo umano è un mondo interpretato, e che nessuna teoria è il semplice rispecchiamento di una realtà le cui caratteristiche sono "date" una volta per tutte. La differenza tra il pensier odelle scienze sociali e quello quotidiano riguarda innanzitutto i criteri con cui nei due casi è costruito il sapere: mentre il pensiero quotidiano è orientato in senso pragmatico e non teme dunque nè l'incoerenza nè l'approssimazione, quello scientifico cerca la coerenza logica e si interroga sistematicamente a proposito dell'adeguatezza delle sue affermazioni. Ma la differenza principale fra il pensiero delle scienze sociali e quello quotidiano consiste in questo: che le tipizzazioni delle scienze sociali sono "tipi di tipi". Tra scienza sociale e pensiero quotidiano non vi è dunque tanto una differenza di sostanza, quanto di metodo e, si noti infine che Schutz torna qui implicitamente anche alla distinzione che già Weber operava fra le scienze sociali e quelle della natura: le prime sono diverse dalle seconde perchè hanno a che fare con un mondo di senso, cioè con un mondo che sarebbe incomprensibile senza far riferimento ai modi con cui gli attori lo interpretano. La sociologia di Schutz è una scienza sociale "comprendente" esattamente come quella di Weber. Peter Berger e Thomas Luckmann: la realtà come costruzione sociale I due continuatori più noti dell'opera di Schutz sono Peter Berger e Thomas Luckmann. Entrambi emigrati negli Stati Uniti, hanno collaborato con Schutz. Particolarmente interessati entrambi alla sociologia delle religioni, i due hanno per il resto una produzione differenziata: Luckmann si è interessato a questioni concernenti la comunicazione e l'intersoggettività, Berger ha sviluppato col tempo un'importante serie d iricerche sulla modernizzazione e sui rapporti tra cultura ed economia. Ma il libro che ha reso entrambi famosi è un lavoro a quattro mani: si tratta di "La realtà come costruzione sociale", uno dei libri più diffusi e citati della sociologia contemporanea. Il libro è sostanzialmente uno sviluppo sistematico della prospettiva schutziana. L'argomentazione che vi è contenuta prende l'avvio da tre mosse teoriche. La prima è una lettura del pensiero di Schutz essenzialmente come una sociologia della conoscenza quotidiana. La seconda è l'affermazione che la sociologia della conoscenza quotidiana è la pietra fondante dell'intero edificio della sociologia. La terza è la tesi secondo cui questo approccio consente di combinare le due prospettive fondamentali della sociologia, cioè quella durkeimiana riguardante l'apparente oggettività dei fatti sociali e quella weberiana riguardante la priorità del senso che gli individui attribuiscono soggettivamente all'agire. L'argomentazione comporta due momenti distinti: da un lato si tratta di vedere come la realtà sia prodotta dagli individui in interazione fra loro come una realtà oggettiva; dall'altro come qusta realtà sia interiorizzata soggettivamente dagli stessi individui. Si tratta dunque da un lato dell'analisi dei processi di oggettivazione, dall'altro di quella dei processi di socializzazione. vede, basta poco per evocarla. Il secondo degli esercizi riportati - quello in cui si chiede cosa significa esattamente qualcosa - è particolarmente interessante. Esso porta infatti ad affrontare il secondo dei punti che a Garfinkel stanno a cuore: come si fugano i dubbi? Come si stabilisce la credenza che quello che pensiamo e diciamo sia condivisibile e certo? L'esercizio mostra che una spiegazione davvero esaustiva è fuori di discussione: per spiegarci dobbiamo fare ricorso a delle parole o a dei segni, ma cosa garantisce che il significato di questi sia inteso da un altro proprio nello stesso modo in cui noi lo intendiamo? Non c'è la garanzia che il significato sia certo. Questo tipo di accordo è ricorrente, ed è necessario a permettere l'interazione. Ma non è esplicito: viene stabilito di volta in volta in ogni situazione non nel "testo" della comunicazione ma in un "infratesto". E' il risultato di procedure contingenti: Garfinkel le chiama procedure ad hoc, per intendere che si tratta di procedure legate ogni volta al contesto determinato, e non all'applicazione di norme generali valide una volta per tutte. Le "norme", del resto, per Garfinkel non esistono. Allievo di Parsons negli anni della sua formazione, Garfinkel è qui radicalmente opposto al maestro. E' la ricorrenza dei nostri accordi a generare l'apparenza di norme consolidate. Anche quando esisono norme esplicite, la loro applicazione comporta sempre del resto delle "istruzioni per l'uso" che variano a seconda dei diversi contesti. Si immagini, per fare un esempio, un teatro sulla cui parete sia affisso il cartello "Non fumare". La norma in questo caso è dichiarata. Ma immaginate che sul palco salga un illusionista e, nel corso del numero, si accenda una sigaretta: vi alzereste a ricordargli che non si può fumare? Se lo faceste, con ogni probabilità sarebbe il vostro comportamento, e non quello dell'illusionista, ad essere ritenuto fuori luogo da tutti. Il fatto è che le regole, anche quando sembrano dichiarate senza alcuna possibile ambiguità, vanno sapute usare: come usarle è qualcosa che varia da contesto a contesto, e non lo si può dire a priori. La relativa stabilità dela realtà e delle interazioni sociali non è dunque garantita da nessun sistema di regole universalizzabili: Parsons poteva pensare che le norme fossero universali entro una data cultura solo perchè le reificava. La realtà e le sue norme apparenti sono per Garfinkel una costruzione che si riproduce costantemente, in fin dei conti, anche piuttosto precariamente. Il compito dell'etnometodologia è la descrizione de imodi in cui questa costruzione è riprodotta. L'interazionismo simbolico e la teoria dell'etichettamento La figura di George Mead non ha mai cessato di essere presente nella sociologia americana, soprattutto attraverso l'interazionismo simbolico. Il termine "interazionismo simbolico" si è diffuso in particolare negli anni sessanta venendo a indicare un approccio teorico che si concentra sull'interazione (cioè sull'azione sociale reciprocamente orientata di due o più individui in contatto fra loro) o sul suo carattere simbolicamente mediato (comprensibile cioè solo attraverso il riferimento all'interpretazione che gli attori stessi danno della situazione in cui sono coinvolti). L'approccio teorico e gli interessi di ricerca dell'interazionismo simbolico tendono a concentrarsi soprattutto sui processi di formazione dell'identità degli individui. Come Mead indicava, l'identità è il prodotto di un processo autoriflessivo nel quale il soggetto si confronta con le definizioni di se stesso che trova presenti nei discorsi degli altri, che interiorizza ed elabora. L'interazionismo simbolico sviluppa questa prospettiva enfatizzando il ruolo che le parole che usiamo quotidianamente hanno nel dar forma alla nostra realtà e nell'influenzare la percezione che abbiamo di noi stessi ed il nostro comportamento. Per questa via, l'interazionismo simbolico perviene a quella che è stata chiamata la "teoria dell'etichettamento". L'idea chiave di questa teoria è che la "devianza" sia un processo di interpretazione di determinati comportamenti: il nome che si attribuisce, in certe situazioni, a chi si comporta in n certo modo. L'idea è chiarita bene da Becker: "i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando queste norme a persone determinate e attribuendo loro l'etichetta di outsiders. La devianza non è una qualità dell'atto commesso da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell'allicazione di norme e sanzioni su chi è ritenuto colpevole" Becker pensa ai devianti in un senso più ristretto di Merton: non tutti coloro che deviano in un modo o nell'altro dai comportamenti standard, ma coloro che sono posti ai margini della società perchè si ritiene che il loro comportamento offenda le regole basilari della vita in comune. Pensa dunque agli omicidi, ai ladri, ai vagabondi, ai drogati. Risulta evidente come la devianza sia più un'interpretazione del comportamento che il comportamento in se stesso. L'omicida è deviante solo se non uccide nel corso di una guerra legittima, ad esempio, ma definire una guerra legittima o meno è una questione di interpretazione (i ribelli di un popolo che lotta contro un invasore sono criminali per la polizia dell'invasore, ma eroi per la popolazione) Questo discorso ha almeno due implicazioni. La prima è che il processo di costruzione sociale della realtà va inteso essenzialmente come un processo di interpretazione della realtà stessa, e che questo processo ha degli aspetti conflittuali che mettono in gioco il potere che i diversi soggetti hanno di imporre la propria interpretazione. Se uno studente, ad esempio, in una manifestazione chiama "criminali" i poliziotti, avrà una certa difficoltà a rendere davvero efficace l'etichetta; al contrario, se è la polizia a etichettare come "criminale" l'atteggiamento di uno studente, l'etichetta avrà molto probabilmente una ben diversa efficacia. In ogni società esistono istituzioni specifiche dotate del potere di attribuire etichette che trasformano concretamente la vita di un uomo: la polizia e il sistema giudiziario sono tra queste. Ma non esistono soltanto le istituzioni formali. Già il pettegolezzo, in fondo, è una forma di etichettamento. Ma - e questa è la seconda implicazione - l'etichetta è anche la proiezione di un'aspettativa e, in qualche modo, la costruzione di ciò che pretende di descrivere. Quando un ragazzo, ad esempio, viene definito dai propri insegnanti un vagabondo o un delinquente, saranno considerati espressione di questo carattere anche comportamenti che, in altri ragazzi, sarebbero guardati con indulgenza e considerati normali. Allo stesso modo, chi sia stato giudicato colpevole di un reato in passato, e sia stato dunque già etichettato con successo come un "criminale", sarà il primo ad essere sospettato quando si verificheranno nuovi reati. Quando un'etichetta è stata applicata con efficacia, trasforma la vita di chi è etichettato perchè dà forma ad un sistema di aspettative nei suoi confronti: trasforma la sua identità - egli è e sarà per tutti colui che viene detto che sia. L'etichetta viene del resto interiorizzata: se mi chiamano criminale, è probabile che io sia spinto a comportarmi di conseguenza. A posteriori, l'etichetta può diventare così veritiera. La possibilitò di produrre etichette efficaci rimanda in ultima analisi alla distribuzione del potere all'interno della società. Erving Goffman L'opera di Goffman è uno dei contributi più interessanti della sociologia nordamericana allo studio della vita quotidiana. Il suo originale approccio è detto "drammaturgico". Se osserviamo la parola attore - che i sociologi usano per designare chi compie un'azione - notiamo che ha un evidente doppio senso: attore è chi agisce, ma attore è anche chi recita. Goffman ragiona come se questo doppio senso fosse tutt'altro che casuale: il teatro è per lui la metafora che permette di capire come ciascuno di noi agisca nella vita quotidiana. Nel teatro vi sono una "ribalta" e un "retroscena": sulla ribalta l'attore recita una parte e si sforza di produrre nel pubblico certe impressioni; nel retroscena abbandona il personaggio che recitava sul palco, fa esercizi, discute con il regista e con i collaboratori più stretti. Allo stesso modo, nelle interazioni con gli altri ciascuno di noi si sforza di produrre certe impressioni. Ma vi è anche il retroscena: la sfera privata, i momenti di abbandono, quelli in cui dimentichiamo lo sforzo di presentarci in pubblico o prepariamo le nostre nuove performance. Nel teatro si finge, naturalmente. Ma fra l'attore e gli spettatori si stabilisce un accordo che inquadra ciò che sta avvenendo. Nella vita quotidiana avviene qualcosa di simile. In ogni situazione, si realizza qualcosa come un accordo implicito tra le persone coinvolte che definisce "di che cosa si tratta". Qui questo accordo è inteso come la produzione di un frame: frame in inglese significa per l'appunto "cornice" e l'analisi di Goffman è un'analisi di come quotidianamente siamo impegnati a incorniciare e reincorniciare le situazioni in cui siamo coinvolti, definendo "di che cosa si tratta" e ritagliando dunque gli elementi che intendiamo considerare come significativi. I messaggi attraverso cui ci intendiamo a proposito del frame delle situazioni sono dei metamessaggi: di solito non stanno nel contenuto di ciò che diciamo, ma in qualche modo di lato, nella comunicazione non verbale, in qualche segnale implicito. Si pensi a un ragazzo che, per gioco, allunga un pugno a un altro: se questi non reagisce al pugno come a una minaccia reale è appunto perchè capisce che il primo stava giocando. Capisce cioè che il messaggio (il pugno) non andava preso alla lettera, ma secondo le istruzioni di un metamessaggio. Come intendiamo e facciamo intendere i metamessaggi? Allo stesso modo in cui un attore comunica sulla scena: grazie a un accordo implicito condiviso con altri riguardo alla definizione della situazione. E' qualcosa che tutti siamo capaci di fare. Non siamo molto lontani dall'etnometodologia: il mondo sociale è retto da un insieme di accordi che possono difficilmente essere esplicitati, ma che sono fondamentali per la vita in comune. Non si tratta di norme fissate una volta per tutte. E' qualcosa che tutti noi siamo costantemente impegnati a rigenerare. L'imortanza e la fragilità di tutti questi accordi sono mostrate tutte le volte che la scena si incrina: quando qualcuno fa qualcosa di imbarazzante, quando ci si espone al ridicolo, quando ciò che si vorrebbe dare per scontato non lo è più. In questi caso mettiamo in atto delle strategie volte a ripristinare una situazione "normale". Ma le analisi di Goffman suggeriscono comunque la consapevolezza che la normalità è una finzione. L'ordine sociale per Goffman in fin dei conti è garantito dalla "reciproca accettazione di un'illusione". Il soggetto stesso per Goffman ha qualcosa di una maschera. Il centro dell'attenzione di Goffman è l'interazione sociale: in particolare, quella che si realizza negli incontri faccia a faccia tra due o più persone. Le interazioni possiedono una logica propria, ed è questa in fin dei conti l'oggetto delle riflessioni di Goffman. Tale logica implica una certa ripetitività, o addirittura certi elementi di ritualità. I "rituali" sono forme di azione che comportano la presenza di elementi ripetitivi e codificati (e dunque somigliano alle routines), ma l'uso goffmaniano di questa parola intende che essi implicano anche una certa valenza simbolica. Sono "rituali", ad esempio, i modi con cui ci salutiamo o quelli con cui apriamo una conversazione. Goffman fece anche su una ricerca empirica, egli si fece assumere per un anno come infermiere in un ospedale psichiatrico per studiare dall'interno il funzionamento. Il manicomio è un'istituzione impatto sulla società. Il primo mezzo di comunicazione di massa nella storia dell'umanità è stato il libro stampato. L'impatto sociale della stampa si è dispiegato con una certa lentezza: esso presuppone la diffusione della capacità e dell'interesse per la lettura. Questo impatto è cresciuto però notevolmente a partire dal XVIII e soprattutto nel XIX secolo: parallelemente alla crescita di un pubblico di cittadini interessati alla discussione della cosa pubblica e parallelamente alla crescente diffusione dell'istruzione, libri e giornali sono diventati elementi comuni della vita quotidiana. La radio, messa a punto tecnicamente alla fine dell'Ottocento e utilizzata regolarmente grosso modo a partire dal 1920, è un mezzo di comunicazione di massa diverso: non presuppone la capacità di leggere, basta ascoltare. E ascoltare e vedere sono i presupposti dell'altro mezzo di comunicazione di massa che fa la sua comparsa alla fine degli anni quaranta: la televisione. Nonostante diverse eccezioni gli studiosi di scienze sociali si sono occupati relativamente poco dei mezzi di comunicazione fino agli anni cinquanta. Ovviamente, cambia il panorama sociale: dopo gli usi della radio prima e durante la Seconda guerra mondiale e soprattutto dopo il successo straordinario della televisione, comincia a diventare difficile proporre analisi della società che non ne tengano conto. Ma cambia anche il panorama teorico. All'interno di quest'ultimo, uno spartiacque importante è costituito dall'opera di due studiosi canadesi: Harold Innis e Marshall McLuhan. Innis avanzò l'idea che le epoche della storia dell'umanità siano caratterizzate da una successione non tanto di "modi di produzione" differenti, quanto di "modi di comunicazione" basati su mezzi diversi. Comunicare solo verbalmente o scrivendo su fogli di carta, o con i libri o infine con la radio e la televisione favorisce di volta in volta certe strutture sociali piuttosto che altre; le forme della produzione e del commercio ne sono influenzate, così come lo sono i modi di gestire il potere; la stessa percezione dello spazio e del tempo - e così la "mentalità" degli uomini nelle varie epoche - viene modellata dai mezzi di comunicazione più usati. McLuhan ha proseguito sulla strada indicata da Innis in diversi lavori. Il suo è un tentativo di descrivere gli effetti che il passaggio da una cultura basata sulla stampa ad una basata sui media audiovisivi hanno sull'intera struttura della percezione, sulla sensibilità e sulla mentalità degli uomini contemporanei. Il tema è estremamente importante, così come lo è il rovesciamento di prospettiva che McLuhan propone: invece di guardare esclusivamente ai contenuti dei messaggi che sono veicolati dai diversi media, si tratta di guardare ai caratteri del medium in se stesso. Come suona una celebre frase di McLuhan, "il medium è il messaggio": il mezzo di comunicazione in altre parole non è affatto un mero "veicolo", ma contribuisce a costruire il messaggio di cui appare il portatore e ha degli effetti che sono autonomi rispetto al contenuto trasmesso. E' di McLuhan anche un'altra espressione assai celebre, quella del "villaggio globale": con questa si intende la forza con cui i media "istantanei" come la radio e soprattutto la televisione mettono in contatto quotidianamente le parti più distanti del globo, configurandolo così come una sorta di nuovo e planetario villaggio. Questo filone di studi sottolinea che l'esperienza di ciascuno di noi si modella anche in relazione all'ambiente tecnologico nel quale viviamo: il tipo di mezzi di comunicazione che usiamo o a cui siamo esposti quotidianamente non può non influenzare alla lunga la nostra percezione del mondo, la nostra sensibilità, la struttura dei nostri pensieri. E' una constatazione che oggi riceve nuovo impulso dalla comparsa di nuovi media e dalle straordinarie prospettive aperte dall'informatica. E' un terreno di ricerca affascinante, ma scivoloso.
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