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RIASSUNTO "Il Novecento del teatro di Lorenzo Mango", Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunti del libro "Il novecento del teatro di Lorenzo Mango".

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 16/05/2020

campysmile
campysmile 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTO "Il Novecento del teatro di Lorenzo Mango" e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! RIASSUNTO LIBRO: CAPITOLO I Anton Cechov. La destrutturazione della forma dramma è presente in Anton Cechov, drammaturgo russo degli ultimi anni dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Il dramma fotografa i personaggi bloccati in una condizione da cui non riescono ad evadere. Non c’è spazio per trasformazioni, evoluzioni metamorfosi. Più che agire, i personaggi cecoviani si agitano sperando così di vivere, ma restano impantanati in loro stessi. Potremmo definire questo procedimento una ‘’drammaturgia del ribadire’’, nel senso che Cechov ribadisce la stessa situazione in momenti diversi di una vicenda che sembra muoversi, ma in realtà resta ferma. Indirizza la sua scrittura verso un impianto realista cominciando ad avere come oggetto il tema dell’inerzia e dell’inazione. Tutta la produzione maggiore di Cechov, trovò la sua casa nel Teatro D’Arte di Mosca. Ma in che cosa il Gabbiano infrangeva le convenzioni sceniche? Nel biglietto da visita con cui presenta il suo lavoro, Cechov sottolinea la non convenzionalità della struttura e l’assenza di un centro drammatico forte. Il gabbiano è un testo corale che racconta di un gruppo di personaggi, una microsocietà chiusa in se stessa e incapace di evolversi. Treplev è un giovane scrittore che aspira a riformare la scena, ma sia le sue aspirazioni artistiche, sia il suo sogno d’amore per Nina saranno destinati al naufragio. Naufraga è anche Nina, la cui passione per lo scrittore Trigorin sfocia in tragedia. Al di là dell’intreccio e dei personaggi è la costruzione dell’azione a rappresentare la novità del testo. Sembra un dramma ricco di avvenimenti e invece non accade quasi nulla e quel poco in una maniera quasi inavvertita. L’innamoramento di Nina per Trigorin rimane quasi nella penna di Cechov. Si percepisce dai riflessi, dal non detto, dal parlare d’altro. Alla fine del Gabbiano, Treplev è solo. Prende i suoi manoscritti e in due minuti di silenzio comincia a strapparli. Ha appena confessato la sua insoddisfazione per se stesso come scrittore. Ha appena perduto Nina per sempre. Non dice nulla, ma in questa sorta di monologo muto c’è tutta la dichiarazione di disperazione che si concluderà con il suicidio. La nascita della regia. La regia non è sempre esistita. È un fenomeno che si manifesta in un momento storico e secondo delle caratteristiche precise che ne fanno un elemento nuovo nel mondo del teatro. Non c’è regia nella Grecia classica, nell’epoca elisabettiana o nel seicento francese. La regia non è solo un’attività di coordinamento, ma una forma di creazione che utilizza come materiali gli elementi della scena, ha una propria visione del teatro e una sua autonomia espressiva, anche quando lavora su di un testo di cui elabora almeno un’interpretazione se non una vera e propria riscrittura. Se la regia è una creazione il regista è un autore, trasmette il testo attraverso la sua lettura personale ma lo utilizza anche per veicolare una propria intenzione poetica. Quando comincia tutto questo? Ci sono due ipotesi storiografiche: una che tende a considerare la regia come un fenomeno solo novecentesco e una seconda, invece, che tende a retrodatarla almeno fino agli anni Trenta dell’Ottocento. Nel primo caso si valorizza la dimensione di autonoma invenzione linguistica (la regia come creazione indipendente), nel secondo la sua qualità di organizzazione e coesione progettuale dello spettacolo (la regia come creazione dipendente). Negli anni 30 dell’800 si conia in Francia un nuovo termine per indicare l’allestimento scenico, mise en scène, che va a integrare e per molti versi sostituire l’espressione che si usava abitualmente, régie. Ogni qual volta c’è l’esigenza di introdurre una nuova parola per nominare qualcosa, si ha la chiara percezione che la stessa cosa sia diventata diversa. Allora la mise en scène, non è la régie. Se quest’ultima consisteva in un lavoro di coordinamento e direzione materiale, come lo stesso etimo della parola dimostra, la mise en scène indica un processo di messa in relazione dialettica tra pagina e scena. La svolta decisiva nella direzione della regia modernamente intesa si ha a Parigi tra gli anni 80 e 90 dell’ottocento ad opera di due figure, André Antoine e Aurélien Lugné Poe. Nel suo Theatre Libre, fondato nel 1887, Antoine mise a punto una metodologia di lavoro che ha i tratti di un vero e proprio sistema produttivo e creativo. Era lui a dirigere le diverse fasi del lavoro, a impostare la recitazione degli attori, a realizzare una scena ricca di dettagli che doveva creare l’illusione di realtà, a dettare l’interpretazione del testo e scegliere un repertorio adeguato alle sue concezioni teatrali. Il suo obiettivo era deteatralizzare, sulla scia di quanto teorizzato da Zola, il teatro, evitare le soluzioni accademiche, abolire formalismi e convenzionalismi. Il palcoscenico era pensato come uno spazio chiuso, separato dal pubblico e da quella che Jean Jullien, uno degli autori a lui vicini, aveva definito quarta parete. Agli attori era richiesta una recitazione la più naturale possibile che doveva aggirare i toni retorici e utilizzare gli oggetti come facciamo nella vita quotidiana. Ben diversa è la visione teatrale di Lugné Poe.Con il suo Theatre de L’Oeuvre (1893) cercava una soluzione scenica che interferisse il meno possibile con l’ascolto. Il testo era concepito come uno strumento di evocazione lirica che sfuggiva, per sua stessa natura, alla materialità della messa in scena. Sul piano della recitazione c’è il rifiuto di ogni espressività marcata giocando sulla stilizzazione del gesto e la dizione. Per raggiungere l’effetto sperato era necessaria non solo una guida organizzativa, ma anche creativa, un regista. Si manifesta l’esigenza di una regia che affronti il problema della messa in scena come scrittura e non solo come elemento di coesione e armonizzazione tra le parti. Si parla della regia come un’arte e del regista come un artista. Antoine lavora sulla materialità della scena e sull’identità del personaggio. Agli esordi del secolo vengono prodotte una serie di formulazioni teoriche che rimettono in gioco il concetto stesso di teatro. Sono ipotesi fondative associabili a Adolphe Appia, Gordon Craig e Georg Fuchs. La regia È nel Novecento, che la regia si trasforma da organizzazione della costruzione dello spettacolo in un vero e proprio modello diventando una sorta di fil rouge che attraversa il secolo subendo profonde metamorfosi ma presentando alcune costanti: la composizione unitaria, lo spostamento autoriale nella direzione del regista; la messa in scena come interpretazione e non illustrazione drammatica. La comédie Française è il teatro stabile per eccellenza costituito da un gruppo di soci, oppure la compagnia capocomicale italiana che si affida al primato del primo attore o della prima attrice. Diverse che siano le strutture produttive, comune è un dato: l’attribuzione delle parti secondo un rigoroso principio gerarchico. Il personaggio è assegnato all’attore sulla base della sua collocazione nella compagnia: è il sistema dei ruoli, un modello contrattuale per cui ogni attore era scritturato per un ruolo e in ogni spettacolo avrebbe avuto assegnati personaggi che corrispondevano al ruolo al di là della congruenza della sua età o del suo aspetto con il personaggio. Il personaggio doveva adattarsi al ruolo dell’attore e non viceversa. Con la regia si determina una nuova piramide gerarchica, che ha al vertice il regista, che non solo coordina, guida, ma sceglie il repertorio ed è portatore di una poetica in proprio. Per identificarne il ruolo lo si paragonerà al direttore d’orchestra, che scrive lo spettacolo con gli attori, ma anche con gli scenografi, i datori luci, i costumisti e i musicisti. I maestri fondatori: Se Craig rappresenta la regia come teoria , la sua formulazione come prassi, il teatro di regia si deve a Stanislavskij, Max Reinhardt, Jean Copeau, Mejerchol’d. Nel 1888 Stanislavskij approdò alla società d’arte e letteratura come attore, per assumere ben presto il ruolo di regista. Si trattava di una compagnia di dilettanti, ma solo nel senso che agivano al di fuori del sistema professionale, e questo dava a Stanislavskij più ampi margini di sperimentazione. Gli attori non professionisti erano più disposti a farsi guidare. Così Stanislavskij iniziò a sperimentare soluzioni nuove di messa in scena. L’ambiente scenico doveva essere curato realisticamente nei dettagli e chiedeva agli attori la parte a memoria fin dall’inizio, che si provasse a voce piena e senza gli ingombranti abiti di tutti i giorni. Nel 1897 incontra il critico teatrale Dancenko e questo incontrò fu leggendario. L’obiettivo della loro conversazione fu quello di formulare nuove leggi per il teatro. Il primo problema che si posero, fu quello di incidere sul mestiere. A Stanislavskij fu affidata la direzione scenica, a Dancenko la responsabilità drammaturgica. Dancenko impose a Stanislavskij Il ‘’Gabbiano’’ di Cechov. La lettura del testo suscitò molte perplessità. Per scoprire l’essenza interna dell’opera di Cechov, bisogna scavare nella profondità della sua anima. Nell’inazione dei suoi personaggi si nasconde una complessa azione interiore. Invece di recitare, bisognava essere. Fu il passaggio dal realismo esteriore, ad un realismo interiore, alla verità emotiva. Da quel momento, fino alla sua morte nel 1904, Cechov diventò l’autore d’elezione del teatro d’Arte. Un gabbiano fu anche il logo del teatro. Per dar vita ai personaggi cecoviani e far sì che il sentimento sembrasse uscire da loro spontaneamente bisognava creare loro intorno un mondo fatto di oggetti reali, suoni, movimenti semplici e antiteatrale. Bisognava raggiungere un effetto di naturalezza e fare un grande lavoro. Stanislavskij capisce che per fare Cechov occorre lavorare sul ‘’sottotesto’’, sul mondo interiore e segreto del personaggio più che sulla battuta. La morte di Cechov fu per Stanislavskij un trauma. Era il 1905 e lo studio fu chiuso. Max Reinhardt Viennese, impegnato giovanissimo da Otto Brahm, a Berlino per il suo Freie Bühne (teatro libero), costituito sul modello del Théatre Libre di Antoine. Il naturalismo cominciò presto a stargli stretto e così nel 1900 avviò quasi come un divertissement un progetto destinato, nel 1901 a trasformarsi in uno spazio alternativo, un piccolo cabaret, dove giocare con il teatro proponendo sketches, improvvisazioni, numeri di varietà, canzoni. Nel 1902 il teatro venne ribattezzato Kleines Theater e diventò uno spazio che rompeva con la tradizione, sia per il repertorio, una campionatura della drammaturgia moderna: Strindberg, Wilde, sia per le modalità della messa in scena libera dai vincoli del realismo e dai retaggi dell’accademismo. L’obiettivo era quello di avere un teatro che sapesse riscattare la dimensione della teatralità, che tornava ad essere Schautheater, teatro per gli occhi. La regia deve giocare liberamente con la letteratura, non esserle contro. Il compito del regista consiste nel creare per ogni opera le condizioni che deve aver creato l’autore stesso. Il successo del Kleines, con la sua capacità di innovare senza rivoluzionare aprì la strada a una stagione intensissima e a un successo enorme che fece di Reinhardt il re del teatro berlinese e il prototipo del regista come effervescente ed eclettico costruttore di spettacoli, diversi a seconda del testo: aprì teatri con caratteristiche adatte alle diverse drammaturgie e utilizzò le nuove tecniche sceniche, prima fra tutte il palcoscenico girevole che gli consentiva repentini cambi di scena. Reinhardt allestisce anche i classici, tra cui Shakespeare. Fa ‘’Sogno di una notte di mezza estate’’ in cui modificò radicalmente l’impianto convenzionale della messa in scena. Protagonista divenne il bosco, con alberi veri di enormi dimensioni che rendevano piccoli i personaggi ed effetti visivi esaltavano l’atmosfera magica del testo. Per Reinhardt bisognava rappresentare i classici come se fossero autori di oggi. Jacques Copeau La terza via attraverso cui si manifesta questa prima stagione della regia moderna è quella di Jacques Copeau. Inizia la sua attività come critico letterario, vicino ai circoli del modernismo parigino. Nel 1908 fonda la nouvelle revue française che dirigerà fino al 1913 quando avvierà la sua attività teatrale aprendo il teatro del Vieux Colombier. Si dedica al teatro riconducendolo alla sua natura di evento culturale e sottraendolo al mercantilismo. Secondo Copeau il teatro deve rifondare il suo linguaggio e la sua tecnica nel 1911. Il passaggio alla pratica avviene con la riduzione scenica dei Fratelli Karamazov. In questo momento Copeau cominciò ad interrogarsi su cosa significasse la messa in scena e che legame dovesse istituirsi tra scena e parola. Quando nel 1913, apre il suo teatro, voleva chiudere con l’industria dello spettacolo particolarmente florida a Parigi e restituire allo spettacolo la sua bellezza. Si trattava di un progetto che prevedeva un atteggiamento di natura etica oltre che estetica. Copeau non voleva tagliare i ponti con il passato, ma ritessere il legame con una tradizione che riteneva tradita. Bisognava cercare la vita nei classici, senza affossarsi nelle pratiche accademiche, ma senza neanche cadere nei modernismi di maniera. Il motore di questo processo era il regista, guida dei diversi elementi artistici. Il suo teatro si sarebbe affidato a una scena nuda, che si metteva al servizio dell’attore, nel suo viaggio a ritroso verso la matrice originaria del testo drammatico. La prima stagione lo fece mettere a confronto con la tradizione (Shakespeare e Molière), ma purtroppo la guerra, lo costrinse a scappare negli Stati Uniti. Partendo dal concetto di scena nuda, collaborò con Jouvet. La regia consisteva nella capacità di guidare il dialogo tra attore e spazio per portare alla luce la vita drammatica del testo. Dopo la guerra riaprì il suo Vieux Colombier, ma il suo pensiero era rivolto alla creazione di una scuola, un luogo dove formare gli attori, fin da giovanissimi come persone, prima che da un punto di vista tecnico. All’attore era richiesta una ricerca su di sé che mettesse in campo tanto l’espressione del corpo che quella delle emozioni. Bisognava eliminare le trappole del mestiere e creare le condizioni di una sincerità creativa. Copeau cercava la sincerità delle emozioni. Il suo teatro non riusciva più a dargliela e così nel 1924 si trasferì con un gruppo di allievi in Borgogna per provare a risalire alle fonti vergini dell’attore, al di fuori del sistema teatrale. Accanto alla ricerca laboratoriale, propose spettacoli nelle piazze durante le feste, un mezzo per tornare alle origini comunitarie del fatto teatrale. Non amava la parola rivoluzione e la regia era costruzione delle condizioni affinché la poesia tornasse a scrivere in prima persona il teatro. Mejerchol’d Dopo essere stato il primo Treplev del Teatro d’Arte di Mosca, Mejerchol’d abbandona l’impresa di Stanislavskij e si avvia lungo una ricerca sua personale di tipo simbolista. Mejerchol’d avvia la sua prima stagione come regista, definendola <teatro della convenzione>. Convenzione, significa, nel suo lessico, rifiuto del realismo e viceversa, piena leggibilità della dimensione artificiale della messa in scena. Una componente fortissima è quella della dimensione visiva e pittorica: lo spettacolo è concepito come un quadro animato. Il movimento sulla scena, non è dato dalla parola, ma da linee e colori. L’occasione di sperimentare questa ipotesi gli è offerta da Vera Komissarževskaja, la grande attrice russa, che lo coinvolge nella sua compagnia. Il debutto, il 10 novembre 1906, fu una Hedda Gabler di Ibsen, ripesata in termini antirealistici: Hedda diventava lo spettro di una bellissima dama del nord in un regno fiabesco. Komissarževskaja rimaneva immobile all’interno di un’atmosfera di cromatismi e penombre. Lo spettacolo fece scalpore e gli spettatori protestarono perché tutto si era svolgo in una rigida cornice registica. Gli elementi che caratterizzano il teatro della convenzione sono l’antirealismo, la figuratività pittorica, gesti statici e l’assorbimento dell’attore nel quadro scenico. La collaborazione con Vera durò poco e Mejerchol’d si mise a lavorare sui classici attraverso quello che definiva il tradizionalismo, riportare i testi alla loro veste spettacolare originaria, L’attore entra nel personaggio, il comédien lo riceve in sé. La sua preferenza va al comédien che deve sapersi far ‘’suonare’’ dall’autore attraverso il giusto equilibrio di tre elementi: la sincerità del suo sentimento interiore, la menzogna (termine non negativo) dettata dal dover fingere e il controllo, la capacità di gestire con consapevolezza la sua presenza scenica. Jouvet non diede mai vita ad un metodo, ma la sua vocazione pedagogica fu fortissima e si basò sul lavoro continuo con l’attore, sulla sfera delle sue emozioni profonde nella relazione con il personaggio. Lavora anche sui classici e sceglie un Molière drammatico. Jouvet usa il testo per esprimere il nascosto, il risvolto, la molteplicità delle sensazioni e dei sentimenti che in questo si celano. Il suo Don Giovanni non è un seduttore ma un uomo lacerato che cerca la verità. La regia per Jouvet ha la funzione di risalire allo stato spirituale dell’autore al momento della scrittura.’ Italia La regione per cui è presente l’Italia in un discorso sulla regia primo novecentesca è diametralmente opposta a quanto detto per gli altri paesi: anziché rapido, il suo fu un lento, lentissimo affermarsi. Fino al 1932, quando il linguista Bruno Migliorini propone in un articolo sulla rivista Scenario di adottare i lemmi ‘’regia’’ e ‘’regista’’, non esiste neanche la parola per identificare quel tipo di operatività. Migliorini sceglie ‘’regia’’ da ‘’régie’’, preferendolo a ‘’mise en scène’’ e opta per l’espressione ‘’regista’’ che oggi ci sembra ovvia , al posto di un cacofonico ‘’regissore’’, che avrebbe tradotto letteralmente régisseur. Il testo di Migliorini testimonia due cose: quanto il dibattito sulla regia in Italia sia tardo e come la scelta terminologica abbia inciso, poi nel discorso critico, consentendo di distinguere nettamente tra regia e messa in scena, cosa che i francesi ad esempio non possono fare. La ragione di questa situazione, non risiede nell’ignoranza dello scenario europeo ma nella struttura di un sistema teatrale basato ancora sul capocomicato e su compagnie di giro, che cambiavano continuamente città e repertorio non avendo una sede stabile dove poter sperimentare, volendo, soluzioni sceniche diverse. Regia e stabilità sono invece, un’accoppiata inscindibile. Luigi Pirandello nel 1925, assume la direzione del teatro d’Arte, esperienze importante, ma troppo breve, che si conclude nel 1928. Il progetto teatro d’Arte consisteva in alcuni punti chiave: costituire un teatro stabile, sperimentare una messa in scena che desse dignità d’arte allo spettacolo, curare una distribuzione delle parti che non tenesse conto in modo rigido del sistema dei ruoli, dare uno spazio importante alle prove. Pirandello non fece del teatro d’Arte il luogo dove rappresentare i suoi testi, ma concepiva questo luogo come l’occasione per cimentarsi con la messa in scena come attività autonoma appassionandosi soprattutto alle possibilità espressive delle luci. Per il teatro d’Arte nel 1925 riscrive Sei personaggi. Un ruolo importante per creare le premesse per l’affermazione in Italia della regia lo ebbe il critico Silvio d’Amico, sostenitore di una dura battaglia contro la dimensione mattatoriale del teatro italiano. Per d’Amico bisognava superare la stagione del grande attore e recuperare la centralità del testo drammatico. Questo era possibile solo grazie all’introduzione del regista, che diventasse il garante dell’integrità del testo e il portavoce dell’autore. CAPITOLO III Avanguardia: un nome, un concetto Il termine avanguardia indica qualsiasi fenomeno o modo d’essere che abbia le caratteristiche di stare avanti rispetto al senso comune del tempo in cui si vive. Con avanguardia individuiamo dei movimenti e delle linee di tendenza che agiscono, a inizio Novecento, come programmatica frattura radicale rispetto al contesto artistico circostante, alla fase storica immediatamente precedente, ma anche alla storia nel suo complesso e alla stessa nozione di arte. Le principali avanguardie di inizio Novecento che definiamo ‘’storiche’’ per distinguerle da quelle della seconda metà del secolo, sono il Futurismo, il Dadaismo, il Surrealismo, l’Espressionismo, il Costruttivismo, fenomeni che, pur nella loro diversità, presentano alcuni significativi tratti comuni. Sono dei movimenti artistici, che si riconoscono attorno a un progetto teorico, che molto spesso assume la veste di un manifesto programmatico. I movimenti d’avanguardia toccano tutte le arti, perché l’arte è assunta come valore in sé al di là delle specificità tecniche. L’avanguardia, ripensa anche la vita in contrasto con il perbenismo borghese, ponendosi come obiettivo un’utopistica rifondazione del mondo nel suo tessuto sociale, etico e filosofico. Il futurismo Nel 1911 Tommaso Marinetti scrive il Manifesto dei drammaturghi futuristi che poi verrà ribattezzato La voluttà di essere fischiati. Sono passati due anni dalla pubblicazione del Manifesto del futurismo in cui aveva gettato le basi teoriche del movimento: l’esaltazione della modernità, del movimento aggressivo, liberarsi dal peso del passato della tradizione e della storia, la velocità come simbolo della nuova sensibilità moderna, rifondare l’arte, la sensibilità e la società attraverso un atto di drastica frattura. Il manifesto del 1911 è un’altra cosa. Vi tornano molti degli elementi fondativi del Futurismo. In primis l’assoluta originalità novatrice, quindi il disprezzo del pubblico, l’orrore per il successo immediato, la voluttà di essere fischiati, esaltazione della frattura e della provocazione tipiche delle avanguardie di cui il futurismo è la prima compiuta espressione. Per Marinetti il teatro deve essere sintetico, alogico e irreale. Produrre schegge di scrittura, frammenti, che schiantino la costruzione stereotipata del racconto teatrale, negando ogni rapporto di tipo rappresentativo con la realtà e rifiutando la logica, la razionalità. Per raggiungere tale risultato bisogna lavorare su atti scenici che colpiscano per la loro immediatezza – la sintesi e non per il loro sviluppo narrativo. Nel 1913, Marinetti introduce il ‘’teatro di varietà’’, che concepisce il teatro come evento. Del teatro di varietà, Marinetti apprezza la mancanza di tradizione, la struttura a numeri liberamente montati tra loro, la modernità naturalmente antiaccademica, il dinamismo. La creazione di eventi unici e irripetibili trova un riscontro nelle serate futuriste. Si tratta di eventi in cui si succedevano in ordine sparso proclami, declamazioni di poesie, esposizioni di quadri, apostrofi al pubblico, il quale reagiva in modo irruento dando vita a gazzarre che Marinetti usava come strumento di diffusione delle sue idee. Dada e Surrealismo Il dadaismo è il movimento più estremo che nasce a Zurigo nel 1916 in Svizzera. Nasce dalle idee di numerosi artisti, di varie nazionalità, come reazione alle forme consolidate d’arte. Tra gli esponenti del dadaismo ritroviamo Tristian Tzara, poeta rumeno. Nel manifesto del dadaismo del 1918 Tzara scrive che ‘’dada’’ non significa nulla. Si propongono una serie di abolizioni della logica. C’è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere. Bisogna spiazzare, ripulire. Dada si presenta come una antiarte che mette in primo piano la vita, l’effimero, e un gesto distruttore che aggredisce la logica, il buon senso borghese e l’idea stessa di arte. Il dadaismo nasce con il cabaret Voltaire, nome che mette insieme la modernità con il profeta del razionalismo illuminista. Il cabaret Voltaire fu uno spazio animato da serate in cui venivano declamati proclami, poesie dal linguaggio disarticolato, esposte opere pittoriche. La poesia veniva spettacolarizzata attraverso azioni fisiche. Il 1924 è un momento di frattura: in un processo di conflitto e continuità Dada si estingue e nasce, ad opera di Breton, il surrealismo. Bisogna aprire un nuovo fronte di sperimentazione che guardi alla dimensione originaria e inconscia dell’io liberandola dalla gabbia della ragione. Fondamentale fu la lettura degli studi sull’interpretazione dei sogni di Freud. Breton propone una fusione tra realtà e dimensione onirica che strappi la percezione dall’illusione del quotidiano determinando una specie di realtà assoluta, di surrealtà. Breton riteneva che la poesia e la pittura fossero le arti in cui si potesse esprimere la scrittura automatica surrealista e guardava con sospetto al teatro che aveva bisogno necessariamente di un processo di costruzione. Questo non significa che non ci fu un teatro surrealista. Roger Vitrac e Antonin Artaud fondarono un teatro nel 1926 e lo chiamarono Teatro Alfred Jarry. Fu un esperimento che ebbe vita brevissima. Antonin Artaud è una delle figure di spicco del Novecento. Artaud arriva a Parigi da Marsiglia all’inizio degli anni venti con aspettative di poeta. Fondamentali sono gli incontri con Breton e con Dullin che gli aprono l’uno e vie dello sperimentalismo d’avanguardia e l’altro la pratica di una modalità attorica del tutto innovativa. Artaud a causa di divergenze di pensiero ebbe un rapporto conflittuale con Breton e per questo motivo, inevitabilmente, Artaud fu ripudiato. Con il teatro Alfred Jarry, Artaud disprezza i mezzi teatrali correnti e c’è la ricerca di una necessità interiore del teatro. Si vuole risuscitare totalmente il teatro, riportando in esso, non il senso della vita, ma di una certa verità che gioca nel profondo dello spirito. Artaud mise in scena un suo testo I Cenci, in cui cercava di dare corpo alle idee raccolte in un libro diventato un classico: il teatro e il suo doppio. Artaud rifiuta il teatro occidentale. Rifiuta il dialogo, portatore di una dimensione narrativa e discorsiva, che la parola in sé di cui, invece apprezza le potenzialità di evocazione magia legate alla sonorità, che la rende materica e sensibile. Ciò che gli preme è un linguaggio teatrale, in grado di toccare i sensi più che la mente dello spettatore. Il teatro della crudeltà è un teatro che imprime nello spettatore l’idea di un conflitto e di uno dolore in cui la vita viene troncata ad ogni minuto. Artaud non intende però un teatro basato su fatti di sangue o su orrori, quanto su radicalismo estremo di certe pratiche mistiche. Il teatro per Artaud è come la peste, malattia simbolica per eccellenza che scava l’organismo dall’interno ed è portatrice di un ribaltamento delle convenzioni sociali. Come la peste, una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una rivolta virtuale, come la peste il teatro è una crisi che si risolve con la morte o Il testo letterario Il teatro del primo Novecento privilegia il momento scenico. È un atteggiamento che si traduce nell’uso ricorrente di due termini che diventano delle vere e proprie parole d’ordine: ‘’specificità’’ e ‘’autonomia’’. Entrambi fanno riferimento all’indipendenza che il teatro rivendica rispetto al testo letterario, considerato secondo un modello riconducibile ad Aristotele, al vertice di una piramide gerarchica in cui gli elementi scenici, hanno, invece una funzione subalterna. I teorici e i registi del novecento modificano sensibilmente tale assetto, spostando la dimensione dell’autorialità dalla scrittura letteraria a quella scenica o creando le condizioni di una doppia autorialità. Questo non significa una messa al bando del testo letterario o la sua svalutazione, piuttosto il suo riposizionamento all’interno del sistema linguistico. La scrittura di Shakespeare e di Molière nasceva all’interno dello spettacolo, mentre Goldoni offriva alla sua compagnia un testo malleabile la cui veste letteraria definitiva era spesso dichiaratamente modificata rispetto all’azione scenica. Il testo in molte fasi storiche è stato scritto come un prima rispetto al dopo della messa in scena. In tutti questi casi, il testo letterario non è una parte del tutto, ma il luogo in cui si sintetizza il progetto drammaturgico. Il testo letterario nel novecento, tende a non essere più il luogo di sintesi della drammaturgia dello spettacolo. Il termine stesso di drammaturgia, utilizzato per indicare la testualità letteraria, subisce una radicale modificazione. La drammaturgia, secondo Eugenio Barba è il lavoro delle azioni in uno spettacolo, dove per azione intende ciò che accade, mentre in Aristotele essa indicava il piano narrativo. Il termine drammaturgia, verrà applicato all’attore, allo spazio e a tutti gli altri segni scenici utilizzati con un’intenzione autoriale propria. La scrittura drammatica del primo ‘900 si trova, così a dover ridisegnare la sua collocazione all’interno del nuovo assetto linguistico mettendo in discussione lo statuto letterario e teatrale dei suoi elementi costitutivi: parola, personaggio e narrazione. Affrontare la difficile convivenza tra scrittura letteraria e incarnazione scenica e porre l’identità di personaggio e racconto come elementi problematici sono l’oggetto attorno a cui costruisce la sua scrittura Luigi Pirandello, i cui testi si diffondono nella scena europea degli anni venti come un modello di riferimento. Si pone il problema della possibilità del teatro in quanto arte. Per Pirandello è impossibile che la creatura viva che ha immaginato l’autore, il personaggio, arrivi tal quale sulla scena. Ci sarà un’inevitabile trasposizione che finisce con il tradire la creazione poetica. Inoltre aggiunge che l’attore potrebbe improvvisare creando direttamente sulla scena, ma in questo modo finirebbe per mancare la dimensione artistica del teatro, la poesia. L’antinomia non è risolvibile e così Pirandello giunge alla conclusione che il teatro è un’arte impossibile. Negli anni 10 scrive Così vi è (se vi pare) e secondo Pirandello è impossibile sapere la verità su chi siamo, perché siamo ‘’tanti’’ quanti gli sguardi che ci osservano. Il 1921 è l’anno della svolta in cui scrive Sei personaggi in cerca d’autore. Della vicenda di cui si racconta nel testo poco importa, ciò che conta è la dialettica irrisolvibile tra i personaggi, che sono venuti a trovare un autore, e gli attori della compagnia a cui si rivolgono. I primi vorrebbero vivere in prima persona la loro storia, ma chiaramente questo è un paradosso logico, gli attori vorrebbero farlo loro, ma la distanza che li separa dai personaggi è incolmabile. Il testo si conclude con un niente di fatto: di fronte all’irrisolvibile enigma sulla morte dei due bambini – verità o finzione? – il capocomico scaccia tutti e la problematica posta nel testo, se e come un personaggio possa vivere a teatro, resta irrisolta. Con sei personaggi , Pirandello apre la sua stagione più significativa in cui diventa centrale ‘’il teatro nel teatro’’. L’attenzione è focalizzata sulla relazione tra testo e scena e sulla possibilità stessa del teatro come rappresentazione. Il teatro dovrebbe esistere come pura manifestazione della vita immaginaria dei personaggi, ma non può, così come non può contaminarsi con il linguaggio materiale della scena e con l’ancor più materiale atteggiamento del pubblico. Nella Germania del primo dopoguerra, gli anni dei moti spartachisti, dell’instabile repubblica di Weimar, della repressione conservatrice e della grande crisi economica ma anche dell’espressionismo e dell’affermazione della regia, muove i primi passi Bertolt Brecht, una delle figure chiave del teatro della prima metà del Novecento. Il giovane Brecht, risente del clima della Germania postbellica. Pur non amando su di un piano ideologico l’Espressionismo, né è in qualche modo influenzato, così com’è importante la collaborazione con Erwin Piscator. Nel 1928 Brecht scrive L’opera da tre soldi. Il racconto ha l’andamento di una favola e nel testo sono introdotti momenti di commento sull’azione. C’è uno scenario sociale che esprime il disagio dell’epoca: in una Londra metafora del sistema sociale si intrecciano le vite del bandito Messer, di Brown la tigre, e di Peachum, organizzatore dell’accattonaggio cittadino. La novità dell’opera, consiste nella struttura compositiva. Ogni scena è introdotta da cartelli illustrativi. Una volta letti i titoli proiettati sui cartelli, lo spettatore assume l’atteggiamento dell’osservatore che fuma, un modo per dire che non si lascia coinvolgere ma resta critico e distanze. Con lo stesso obiettivo sono introdotte le canzoni su musica di Kurt Weill. L’attore, scrive Brecht, deve anche mostrare uno che canta. La canzone non è organica alla parte del personaggio, ma rappresenta un momento in cui si stacca dalla sua funzione narrativa e diventa una sorta di commentatore della sua situazione. Durante le canzoni devono esserci delle luci a vista, a separare quel momento dagli altri e gli attori devono uscire dal personaggio. Queste tecniche servono ad evitare il coinvolgimento emotivo dello spettatore. Brecht definirà tale atteggiamento straniamento e gli assegnerà la funzione di porre lo spettatore in una relazione critica con l’azione drammatica. Nello stesso lasso di tempo in cui scrive L’opera da tre soldi Brecht si avvicina al marxismo. Nel testo se ne trova già qualche traccia, ma solo negli anni a venire la dimensione ideologica diventerà centrale. Brecht non farà mai del suo teatro un veicolo di propaganda o un tramite per offrire al pubblico risposte ideologicamente preconfezionate. Il teatro per lui, è politico nella misura in cui mette lo spettatore nella condizione di riflettere in maniera consapevolmente critica sulle dinamiche che legano gli uomini, le classi e la società. Per riuscirci deve reinventare i suoi codici linguistici ed evitare che il piano emotivo interferisca con quello intellettuale. È necessario inventare un nuovo modello drammatico, risultando quelli a disposizione, compreso il realismo che era stato assunto dall’estetica marxista, inadeguati. Nel 1931 Brecht formula la sua prima sintesi teorica. In Il teatro moderno è il teatro epico, contrappone alla forma drammatica quella epica. Il riferimento è evidentemente Aristotele, ma il significato attribuito ai due termini è del tutto personale. Se nella prima le scene dipendono l’una dall’altra e dominano il coinvolgimento emotivo dello spettatore, il sentimento, l’uomo come concetto assoluto e astorico, nel teatro epico la struttura narrativa è segmentata in scene separate, lo spettatore è trasformato in osservatore distaccato, centrale è la ragione, l’uomo è oggetto di indagine nella sua relazione con il contesto sociale. In più opponendosi alla nozione wagneriana di opera d’arte totale, Brecht ipotizza una radicale separazione degli elementi, ognuno dei quali, dalla parola ala scena all’attore, è parte costitutiva dell’opera in una tensione dialettica tra loro così da evitare l’effetto di ipnosi indotto dalla suggestione della sintesi. Dal 1933 al 1947 lascia la Germania, con l’avvento di Hitler e sono gli anni dell’esilio, in cui lui scrive opere più mature come Madre coraggio e i suoi figli e Vita di Galileo. I testi sono strutturati per scene poste in una relazione non consequenziale tra loro, così da istituire un dialogo tra momenti emblematici della vicenda. Non ci sono tesi preconfezionate ma problemi aperti alla cui soluzione si può giungere solo attraverso una presa di coscienza politica. Madre coraggio dell’omonimo testo è una vivandiera che vive al seguito degli eserciti nella guerra dei trent’anni. Per i tre figli, ma non può che continuare a vivere nell’ombra della guerra. La sua vita è distrutta come il carro che progressivamente perde pezzi, ma lei non si rende conto di essere una pedina perdente in un gioco che la trascende. Brecht ci mostra che durante la guerra l’unica legge è sopravvivere. Non lo dice chiaramente, ma è lo spettatore che mentre metaforicamente fuma in sala, va verso quella direzione. In vita di Galileo ci si chiede è un vile perché ritratta o un eroe della resilienza? A Brecht stava a cuore leggere in Galileo il rapporto tra scienza e potere ma voleva che il tema si incarnasse in un personaggio vivo che all’inizio del testo beve del latte prima di cominciare la lezione con il suo allievo e finisce irrazionalmente avido di cibo. Potrebbe essere la figurazione della decadenza, ma il Galileo vecchio e disincantato è anche quello che ha conservato gli scritti con i suoi studi che affida all’allievo, che deluso, è venuto a trovarlo. Brecht rientra in Europa nel 1947 dopo aver peregrinato ed essersi rifugiato negli Stati Uniti. Il termine teatro politico non era usato da Brecht perché i tentativi di trasformare lo spettacolo teatrale allo scopo di fargli assolvere compiti direttamente dettati dallo scontro politico gli paiono sterili. Il teatro doveva essere un mezzo per la diffusione di una coscienza politica non di un messaggio ideologico. Diversamente la pensava Piscator che credeva nell’importanza della propaganda. Il coinvolgimento politico non si ritrovò solo in Piscator e Brecht, ma anche in Majakovskij, Mejerchol’d. la loro vicenda è emblematica da un lato per l’adesione delle arti al processo rivoluzionario, dall’altro per lo scontro drammatico con il sistema sovietico, quando con Stalin, prende una piega autoritaria e dittatoriale. Il loro impegno politico fu la forza della loro proposta estetica ma anche la loro condanna. Non va scordato, il caso di Marinetti, il lui lato politico viene spesso rimosso perché legato è in scena: come si relazione questa biografia immaginaria con le scene predisposte dall’autore? Nel secondo sollecitando le sue emozioni attraverso il ricordo di cose che gli sono realmente successe. La memoria diventa così un vero strumento di lavoro, un archivio che Stanislavskij definisce una ‘’memoria emotiva’’ in quanto è in grado di far tornare in vita sentimenti già vissuti. Ciò che importa, non è il ricordo di un sentimento ma la capacità di riviverlo. Durante le prove la ricostruzione mentale di una certa situazione è l’elemento scatenante dell’emozione, lo stesso effetto lo producono in scena un oggetto, un abito, una musica. Con gli anni Stanislavskij si accorse che il suo metodo, che aveva una straordinaria efficacia pedagogica nella formazione dell’attore, creava parecchi problemi perché il lavoro di scavo psicologico richiedeva tempi lunghissimi. Provò allora ad invertire il procedimento, partendo dalle azioni fisiche investigandone le implicazioni psicologiche: aprire una porta è un semplice gesto fisico, ma aprire una porta alla ricerca di un cadavere è un’azione. Occorre però lavorare sul gesto, non sulle implicazioni seconde. Bisogna agire coraggiosamente, senza ragionare – diceva agli attori – non appena comincerete a agire, sentirete immediatamente l’esigenza di giustificare le azioni. Il procedimento è inverso ma il risultato analogo: l’immedesimazione come creazione di un’autenticità che risulti credibile allo spettatore. Cechov sente limitante il rapporto tra personaggio e vissuto dell’attore. L’autenticità emotiva, che resta il suo obbiettivo, gli sembra più efficacemente raggiungibile se si parte, invece da un lavoro di più libera immaginazione da parte dell’attore, che è chiamato a stimolare il proprio organo emotivo con suggestioni che non provengono immediatamente dalla sua esperienza personale. La seconda strada maestra della recitazione primo novecentesca è rappresentata dallo straniamento ed è legata strettamente al nome di Bertolt Brecht: l’attore non deve identificarsi con il personaggio. Brecht definisce l’estraniamento anche storicizzazione, facendo riferimento al fatto che l’attor debba trattare il personaggio come un soggetto storico. Brecht fa delle riflessioni nello scritto Nuova tecnica dell’arte drammatica. Egli eliina gli atteggiamenti empatici, si rivolge allo spettatore in maniera diretta ed elabora un tipo di gesto definito Gestus, ossia un gesto sociale. Un gesto attraverso cui l’atore mostra al pubblico il tratto distintivo del personaggio. Ogni gesto corrisponde a una decisione ed esprime il carattere individuale e sociale del personaggio. Per Madre Coraggio aveva elaborato alcuni gesti: mordere le monete per attestarne l’autenticità, far scattare la chiusura del borsellino- che evidenziano il rapporto con il denaro che conduce alla tragedia. Il più forte tra tutti era un urlo muto a bocca spalancata e testa riversa, dopo aver disconosciuto il cadavere del figlio. Un gesto che portava in sé la natura contraddittoria del personaggio: il dolore umano e un cinismo inevitabile per poter sopravvivere in un mondo che altrimenti la schiaccerebbe. Per liberarsi dalla tentazione all’immedesimazione sono fondamentali le prove. È allora che si creano le condizioni di straniamento tra attore e personaggio che poi verranno proiettate sullo spettatore, consentendogli di restare seduto in sala a fumare, osservando con il dovuto distacco critico quello che vede. Brecht individua tre accorgimenti che possono aiutare l’attore. I primi due servono a istituire la distanza con il personaggio: la trasposizione alla terza persona della battuta e lo spostamento nel tempo passato. Nel primo caso l’attore trasforma le battute in discorso indiretto, nel secondo rievoca l’azione come già accaduta: egli fece questo e disse quest’altro. Il terzo accorgimento consiste nel pronunciare ad alta voce le didascalie e introdurre commenti all’azione. In questo modo azione e descrizione si contaminano. A questi 3 accorgimenti Brecht ne aggiunge un quarto che dà come preliminare. L’attore deve allungare il più possibile i tempi di lettura del testo, non deve precipitarsi a trovare la chiave di interpretazione del personaggio, non deve farsi adescare da lui. Solo così riesce a mettersi nella giusta prospettiva d’analisi. La terza via della recitazione primo novecentesca concepisce il corpo come mezzo di espressione, l’attore ‘’come corpo di scena’’. Nel 1908 Gordon Craig teorizza übermarionette, un nuovo modo di intendere la recitazione. Secondo Craig l’uomo è inutilizzabile come materiale artistico in quanto le azioni fisiche dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia delle emozioni. L’emozione che è naturale, produce accidentalità e l’accidentalità è nemica dell’arte, che viceversa, si basa sulla perfezione, sul compimento della forma. Di qui l’idea rivoluzionare di eliminare l’attore dalla scena per lasciar posto a una figura inanimata definita ‘’übermarionette’’, termine che rimanda all’übermensch di Nietzsche, in italiano tradotto come supermarionetta che non lascia trasparire la dimensione dell’oltre che è contenuto nel prefisso über. Per la prima volta il discorso sull’attore viene spostato da ciò che sa fare e da come lo fa a ciò che è, a un livello umano prima che artistico. Negando il suo ruolo, Craig crea in realtà le premesse per una riflessione sull’attore, e ancor prima, sul corpo come veicoli di conoscenza. Bisognava acquisire una tecnica che rendesse l’attore simile ad una marionetta. Biomeccanica L’idea più articolata dell’attore come corpo di scena sia ha con la Biomeccanica di Mejerchol’d. Siamo nella stagione costruttivista e Mejerchol’d scrive: ‘’il costruttivismo esige dall’artista che egli diventi anche un ingegnere’’, bandendo così dal suo orizzonte ogni sentimentalismo e ogni indulgenza verso l’intuizione. La recitazione biomeccanica è presentata come un processo di costruzione. La recitazione è un frutto di uno studio e deve essere sottoposta a un continuo controllo da parte dell’attore. Il primo principio della biomeccanica è che il corpo è la meccanica, l’attore è il meccanico, affermazione che non va confusa con una robotizzazione dell’attore ed esprime, invece l’idea che il corpo è un mezzo d’espressione che l’attore deve gestire in maniera consapevole. La grammatica della macchina dell’attore è il movimento. Afferma Mejerchol’d: non partiamo dalla psicologia per arrivare al movimento, facciamo il cammino inverso e fa l’esempio di un attore che debba impersonare un uomo inseguito da un cane. Non dovrà partire dal sentimento di paura e tradurlo nella corsa, ma cominciare a correre e in questa maniera, far emergere in sé la paura. Il movimento della biomeccanica si basa su due principi: la scomposizione e ricomposizione e il rapporto con lo spazio. Occorre, sostiene Mejerchol’d che un movimento, per essere espressivo, debba essere dapprima scomposto in segmenti. Il primo è l ‘’oktaz’’ , la fase iniziale in cui l’attore dirige il gesto nella direzione opposta a quella che avrà per caricarlo di energia- segue lo slancio, cioè il compimento del gesto, quindi l’arrivo, la sua conclusione, cui succede una pausa per sottolineare la fine di uno stato di sospensione. Per quanto riguarda lo spazio, Mejerchol’d sostiene che attore e spazio siano entità strettamente interrelate perché la posizione del nostro corpo nello spazio influisce su tutto ciò che chiamiamo emozione, e che quindi ogni piccolo gesto va accuratamente calcolato. Ci sono altri due elementi, che per Mejerchol’d sono fondamentali. Il primo è la reattività, la capacità di ridurre al minimo l’intervallo tra intenzione ed esecuzione; il secondo è la musicalità, nel senso che l’attore lavora sul ritmo, che lo stesso movimento è ritmo e come tale va musicalmente trattato; infine l’acrobatica, intesa come sapienza nella gestione del corpo. L’arte del teatro è nata dall’azione, dal movimento, dalla danza, scrive Craig nel 1905. Non l’arte dell’attore ma l’arte del teatro nel suo complesso. Teatro e danza, fino a quel momento soggetti a spettacolari sostanzialmente diversi, trovano un punto di incontro. Questo è reso possibile dall’affermarsi della danza moderna che prende decisamente le distanze dal balletto classico. Se il teatro, nel ripensare la sua identità, può considerare la danza come un interlocutore privilegiato è perché la danza sta procedendo a un angolo processo di rifondazione. Il passaggio da balletto a danza non è solo terminologico. Per come si era strutturato nell’ottocento, il balletto si basava su una codificazione di passi e figure che creava una grammatica fissa e mirava da un lato all’esaltazione del virtuosismo tecnico e da un altro defisicizzazione del corpo, specie di quello femminile, a cui venivano tolti peso e aderenza a terreno. La danza moderna rifiuta tutto questo e torna al corpo in quanto tale, alla sua manifestazione fisiologica, al movimento e non al passo codificato. Con il termine pratiche basse, si intendono quelle forme teatrali legate alle dimensione popolare e allo spettacolo come intrattenimento. Nel 1931 Eduardo, Peppino e Titina de Filippo, figli naturali di Eduardo Scarpetta fondano una loro compagnia, il teatro umoristico ‘I De Filippo’. I tre figli d’arte muovono i loro primi passi nella compagnia del fratellastro Vincenzo all’interno della tradizione napoletana riformata tipica del padre: dialetto, tipizzazione, andamento farsesco ma anche apertura alle trame che venivano dalla Francia. Nei loro primi anni i tre fratelli fanno un teatro fortemente radicato nella città. Il dialetto e la struttura farsesca cominciano ad essere rielaborati perché il regime fascista sta facendo una politica spietata contro le lingue locali. I tre come attori incarnano delle tipologie precise: Peppino è il mamo, ingenuo e bonaccione, Eduardo l’astuto smaliziato e Titina la donna di carattere. Si tratta di un teatro popolare che cerca di svilupparsi in qualcos’altro. Eduardo diventa sempre di più la mente drammaturgica del trio, ed è influenzato da Pirandello. Interviene sulla lingua, stemperando il dialetto, introduce elementi drammatici , che interagiscono con il comico creando i tratti di una moderna commedia umana. Natale in casa Cupiello è un testo ponte, il comico si trasforma in grottesco, la famiglia diventa luogo di conflitto e non più isola rassicurante, la tragedia si inserisce nella vicenda. Tre sono i fenomeni che caratterizzano gli anni quaranta e cinquanta: l’affermazione di una nuova drammaturgia di frattura, il rilancio della regia come progetto culturale oltre che artistico, la presenza dei germi di una nuova idea di teatro che ne mette in gioco gli assetti linguistici. Uno dei drammaturghi più famoso di questi anni è Ionesco. Il problema posto da Ionesco può essere così sintetizzato: c’è stata un’avanguardia che ha vivacizzato il processo d’invenzione del teatro che è stato insabbiato da una convenzione ovvia e ripetitiva, si tratta ora di seppellire quell’avanguardia per recuperare lo spirito di ribellione e di frattura. Nel suo testo ‘’Rinoceronti’’ si può leggere lo spettro di un conformismo dilagante che sta trasformando la società in accumulo di uguali. Il nuovo inizio del teatro novecentesco testimonia un malessere profondo: quale mondo è possibile dopo gli orrori del conflitto mondiale che si trascinano nella guerra fredda? Ionesco non ha un approccio politico, il suo teatro agisce sul filo della logica, contraddicendone metodicamente le ragioni. Martin Esslin, per descrivere questa stagione della drammaturgia, usò una definizione che ha fatto scuola: Teatro dell’Assurdo. Il Teatro dell’Assurdo mette in scena la realtà del ventesimo secolo: l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la crisi, l’angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione, il progresso sociale, la scoperta di forze inconsce all'interno della psiche umana, l'orrore della meccanizzazione. Il teatro dell'assurdo rivela la natura intrinseca dell’essere umano e del mondo in cui vive, presentato come un posto incomprensibile. La platea non comprende mai il pieno significato di questi strani eventi, sebbene parli la stessa lingua utilizzata dagli attori sul palcoscenico. La tecnica di Bertolt Brecht conosciuta come “Verfremdungseffekt”, ossia tecnica dell’alienazione, trova nel Teatro dell’Assurdo la sua massima realizzazione. Attraverso la tecnica dello straniamento lo spettatore ha l’opportunità di fare delle libere considerazioni e di poter riflettere senza essere guidato dall’autore. Sembra essere una missione impossibile capire i personaggi e potersi identificare con essi, i quali appaiono come meri burattini, senza alcuna volontà propria, passivamente in balia del proprio destino. Pertanto, restano un libro chiuso e gli spettatori mediante semplici azioni sono spinti a riflettere sul lato irrazionale de lla loro esistenza. Il 5 gennaio del 1953 è una delle date chiave del novecento. A Parigi, fu messo in scena Aspettando Godot di Samuel Beckett. Beckett scardina gli elementi costitutivi della drammaturgia: il piano narrativo non prevede lo sviluppo della vicenda; il personaggio è immobilizzato in una condizione statica e non può che continuare a replicare se stesso; il dialogo perde la funzione drammaturgica di condurre avanti l’azione e si trasforma nel tentativo di riempire questo tragico vuoto. I personaggi, non pensano e non sentono. Il rapporto di Beckett con la realtà è di questa natura: nel mondo gli vede il processo che lo condurrà alla sua dissoluzione. Non a caso il tema dominante in entrambi i testi, che rappresentano al meglio la prima fase di Beckett, è l’attesa di un personaggio misterioso, Godot, di cui non sappiamo nulla, che non arriverà mai ma che con la sua essenza condiziona in modo irreparabile la vita dei due protagonisti, Estragone e Vladimiro; di una fine, la propria ma anche quella della specie umana e del mondo intero che sta lì per accadere ma resta sospesa. L’attesa rappresenta in Beckett la forma del tragico: la tragedia non è un evento straordinario, consiste invece, nella riduzione dell’individuo umano all’inerzia, alla replica, a una solitudine disperata. Finita la guerra, per gli esuli tedeschi si pose un problema: restare o rientrare? È una questione di storia culturale di grande rilievo che ha una ricaduta importante nel teatro del dopoguerra. Piscator e Brecht vivevano da anni negli Stati Uniti. Entrambi si trovarono ben presto ad avere a che fare con la caccia alle streghe, espressione con cui si intendono le indagini, gli interrogatori, le vere e proprie persecuzioni a cui forno sottoposti quanti fossero sospettati di compromissione con il comunismo. Brecht, da par suo, riuscì ad aggirare le accuse ma l’aria non era più respirabile. Entrambi scelsero la via di casa. Piscator rientrò nella parte occidentale, Brecht in quella orientale. Brecht vedeva nella Germania comunista la possibilità di far nascere una società diversa, Piscator, viceversa,voleva continuare a giocare la sua partita nell’ambito delle democrazie occidentali. Piscator non concepiva più la regia come costruzione della scena. Le sue regie sono analisi puntuali dei testi, inserite all’interno di cornici sceniche sempre significative ma non dominanti con uno spazio particolare affidato alle luci. Per Brecht la scelta dell’est ebbe implicazioni sia politiche che teatrali. Per molti aspetti sembra perfettamente integrato, per altri sembra mostrare segni di dissenso. Ebbe per la prima volta la possibilità di avere un teatro dove sperimentare le sue idee: il Berliner Ensemble, destinato a diventare una delle grandi istituzioni europee. Si ha l’uso di una diversa modalità di scrittura. Brecht in collaborazione con Engel, progettarono una partitura scenica che rendesse sempre contraddittorio e aperto il giudizio sul personaggio. La scena era ridotta a pochissimi oggetti, straniati dentro un vuoto marcato da piccoli siparietti, su cui si leggeva l’usura del tempo, così come accadeva per i costumi. Vero protagonista era il carro, posto al centro della scena su un palcoscenico girevole e tirato in senso inverso alla rotazione del palco, realizzando l’effetto di un movimento immobile che visualizzava l’assenza di sviluppo sulla coscienza della protagonista. La regia era caratterizzata da pochi elementi che assumevano una funzione drammaturgica. Brecht intendeva con le sue regie investigare la sua idea di teatro. Non gli interessava la confezione ma rimettere in moto la potenzialità espressiva del teatro inteso come arte dialettica. Non è un caso, inoltre, che nel 1948 Brecht pubblichi il Breviario di estetica teatrale, il testo di sintesi della sua concezione di teatro epico o, come lo chiama in quella sede, del teatro nell’epoca scientifica, intendendo con questo un teatro che sappia rispondere alla complessità della realtà sociale con un atteggiamento analogo a quello della scienza nei confronti delle sfide della natura. Secondo Roger Planchon, gli elementi della scena, hanno nella drammaturgia brechtiana un valore di scrittura, in quanto assolvono alla funzione di un’autonoma responsabilità espressiva. CAPITOLO VIII La rivoluzione del nuovo teatro Su molti piano – quello artistico, quello politico e quello sociale – gli anni sessanta rappresentano un momento di svolta decisivo nel percorso identitario del secondo novecento. Una diffusa contestazione tocca diversi assetti del sistema sociale ed esplode clamorosamente in una serie di movimenti di cui quello del sessantotto. Protagonisti di questi movimenti sono gli studenti, ma dato ancora più importante, sono i giovani. Il concetto di giovani, inteso come conflittualità rispetto ai valori precedenti, emerge proprio negli anni sessanta. I movimenti erano rivoluzionari perché non ribaltavano violentemente lo stato, ma perché mettevano in discussine lo statuto etico della società borghese. Negli anni sessanta nasce l’arte di massa più grande mai conosciuta dalla storia, il rock, che esemplifica la condizione sociale della seconda metà del novecento. C’è una riscoperta di Artaud e nel 1968, appare già come un classico con cui è indispensabile confrontarsi. Nello stesso anno Peter Brook fa riferimento ad Artaud come a un modello ideale di quello che definisce teatro sacro, un teatro cioè, che vada oltre le illusioni fenomeniche e che sappia cogliere il centro dell’umano. Artaud sosteneva che soltanto in teatro avremmo potuto liberarci dagli stereotipi che dominano il quotidiano. Quanto comincia in questo decennio sarà denominato in vari modi, ma noi utilizzeremo Nuovo Teatro: si tratta di una denominazione meno connotata in chiave ideologica rispetto alle altre, che coglie bene il profondo radicale rinnovamento del modo di fare e concepire il teatro. Ogni teatro nella sua epoca è a suo modo ‘’nuovo’’, allora che senso ha usare un’espressione come Nuovo Teatro? La questione, è nell’uso delle maiuscole: scrivere Nuovo Teatro appare un modo per alludere a un fenomeno culturale e non genericamente a un fattore di novità. Quando, negli anni Sessanta, il termine entrò in gioco fu per rimarcare una differenza profonda, non solo con il teatro coevo, ma con il teatro concepito come arte della rappresentazione. Stava a indicare non tanto un rinnovamento, ma un teatro che fosse radicalmente diverso e per questo nuovo, anzi a voler essere più precisi, che fosse finalmente il teatro nella sua essenza. D’altronde era quello che aveva scritto nel 1913 Gordon Craig in un libro: Verso un Nuovo Teatro. Con una metafora suggestiva, Craig identificava il teatro come una montagna: Nessuno finora è riuscito a scalarne le vette: è evidente che la montagna nasconde qualcosa di molto strano. La montagna del teatro era, dunque, da scoprire, quasi come se il teatro non fosse mai nato. Un’affermazione del genere resterebbe un suggestivo paradosso, se non fosse che questo interrogativo mosse un fenomeno che si dichiarava ‘’nuovo’’ perché intendeva rifondare il codice teatrale. Questo codice fu definito ‘’scrittura scenica’’. La scena diventa una pagina bianca tridimensionale su cui l’artista del teatro scrive direttamente con i segni del linguaggio: l’azione, l’evento, l’immagine. Il Nuovo Teatro istituisce un dialogo dialettico creando un asse portante forte nel processo della costituzione identitaria del Novecento. Nel 1947 si incontrano a New York due giovanissimi artisti. Lui, Julian Beck è un pittore della cerchia di Peggy Guggenheim tra i più promettenti esponenti dell’action painting: lei, Judith Malina è allieva di Piscator. Insieme decidono di dar vita a un sodalizio che sarà artistico ed esistenziale, fondando il Living Theatre il cui debutto avverrà qualche anno dopo, nel 1951. Il Principe Costante (1965) di Jerzy Grotowski a partire da un testo di Calderòn de la Barca è uno degli spettacoli più importanti del teatro contemporaneo. Il video è la versione integrale dello spettacolo ricostruita da Marotti e dalla prof. Tinti nel 1977. Il progetto audiovisivo, sostenuto dal Centro Teatro Ateneo, è stato realizzato sincronizzando una traccia video e una sonora della registrazione originale. Il testo era quello spagnolo e barocco di Calderòn de la Barca, la storia quella di un infante regale che viene casualmente fatto prigioniero dai Mori e diviene oggetto di possibile scambio regale e quindi trattato benissimo, entrando nel mondo della corte. Lì riceve anche riconoscenza perché in duello non aveva ucciso un generale dei Mori. Ma il riscatto da pagare è la cessione ai Mori dell’unica città cristiana, Ceuta, a sud di Gibilterra. Il fratello, il re, è disposto a pagare questo prezzo, ma lui non accetta. L’atteggiamento del re cambia e vuole costringerlo con la forza, gli danno da mangiare solo acqua e pane, legato a una catena in una cella. Si assiste allora a una progressiva ricerca del martirio. Quando il principe muore, sono i Mori a glorificarlo come un santo. Grotowski aveva tirato fuori un’indagine psicanalitica junghiana sulla natura umana. Il principe era un uomo in perizoma bianco (Ryszard Ciezlak) braccato dalle guardie in nero e poi simbolicamente castrato, gesto che testimoniava la prigionia. Solo sessanta spettatori erano disposti su una panca intorno a un rettangolo con una palizzata che arrivava all’altezza del naso. Al centro della scena, un tavolo ribassato, simile a un tavolo di anatomia. Tutto lo spettacolo era un gioco di dissezione dell’essere umano. Peter Brook inizia la sua attività di regista, giovanissimo, con l’aspirazione di modernizzare il teatro inglese. Commentando Romeo e Giulietta di Shakespeare dice di doverlo liberare dalle atmosfere sdolcinate e sentimentali per ritornare alla violenza, alla passione, all’eccitazione delle faide e degli intrighi. Voleva togliere la polvere dai classici. Brook comincia da uno spazio vuoto con pochi elementi funzionali e gli attori. Egli parla di un teatro necessario, in cui a contare è l’evento che si crea tra attore e spettatore. Nel 1963 creò un laboratorio diretto con Charles Marowitz, grande sostenitore di un nuovo teatro di avanguardia, che prese il nome paradigmatico di ‘’teatro della crudeltà’’. Il laboratorio non avrebbe dovuto produrre spettacoli ma sperimentare le potenzialità espressive dell’attore al di là dei parametri convenzionali della parola e dell’interpretazione del personaggio. Gli esperimenti riguardavano soprattutto la comunicazione non verbale attraverso la messa in relazione dei corpi tra loro. Nel 1968 Brook pubblica il libro ‘’Lo spazio vuoto’’ in cui riflette sullo stato del teatro, distinguendo tra un livello ripetitivo e meccanico (mortale); uno teso alla spiritualità più pura (sacro); uno ruvido, cioè capace di colpire lo spettatore in modo semplice e diretto; uno immediato(che è il suo) in cui l’aspirazione spirituale deve sapersi confrontare con la concretezza del mestiere. Per alcuni versi Eugenio Barba, italiano trapiantato in Norvegia prima e poi stabilmente in Danimarca, è un regista di seconda generazione, perché la sua iniziazione al teatro avviene in Polonia, dove tra il 1962 e il 1963 segue il lavoro di Grotowski, ma l’impatto del suo teatro sulla scena internazionale lo lega indiscutibilmente ai fondatori del nuovo teatro. Rientrato in Norvegia dopo il soggiorno polacco, Barba riunisce un piccolo gruppo di attori e fonda l’Odin Teatret, un teatro che lavora ai margini del sistema. Da Grotowski Barba ha ereditato il rigore, la ricerca sull’attore, l’investigazione sulla natura più intrinseca del teatro, una drammaturgia basata sulla scena. Gli attori sulla base degli stimoli di Barba, improvvisano da soli e poi coralmente partendo da proprie motivazioni interiori; Barba a questo punto interviene tagliando, aggiustando, allargando o compattando, giungendo a un montaggio che rielabora i segni scenici prodotti dall’improvvisazione. A partire dagli anni 70 sviluppa delle pratiche spettacolari che chiama ‘’baratto’’: il gruppo entra in contatto con piccole comunità in diverse parti del mondo e presenta delle esibizioni di teatro di strada, delle parate, il cui emblema saranno gli attori sui trampoli, maschere, giochi con bandiere, musica. È una provocazione lanciata al di fuori del perimetro istituzionale del teatro per stimolare le comunità a barattare i loro saperi con questa strana comunità di estranei. Nel 1980 Barba fonda l’ISTA (Scuola internazionale di antropologia culturale) in cui si riuniscono attori di provenienze e culture diverse e studiosi di teatro per analizzare la recitazione nei suoi fondamenti creativi, al di là delle forme e delle tecniche che sono intese solo come strumenti. L’antropologia teatrale è lo studio del comportamento scenico pre espressivo che sta alla base di differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali e collettive. Con pre espressivo Barba definisce il lavoro che fa l’attore per entrare in una dimensione creativa. È un lavoro che riguarda il corpo in una dimensione extraquotidiana, diversa cioè da quanto facciamo nella vita di tutti i giorni in cui l’uso del corpo è destinato a una funzione pratica e a un risparmio energetico. La forzatura del codice teatrale avviene in Carmelo bene secondo canali diversi ma non meno estremi. Li evidenzia con grande chiarezza Franco Quadri: radicale intervento sul testo e la sua scomposizione in più piani, l’uso totale degli elementi scenici dal suono alle luci, la frammentazione della dizione, la distruzione del concetto di scenografia. È possibile distinguere l’attività di Bene in due grandi fasi: una prima, da lui stesso indicata come ‘’scrittura scenica’’, una seconda a partire dagli anni Ottanta che lo accompagnerà fino alla morte precoce nel 2002, che battezzerà come macchina attoriale. Negli anni sessanta Bene affronta il teatro con un atteggiamento radicalmente decostruttivo e provocatorio che lo ricollega, non solo idealmente alle avanguardie storiche. Si batte in difesa di Marinetti e viene appellato come l’Artaud italiano. Negli spettacoli di questi primi anni domina una componente visiva caratterizzata da un trucco molto marcato e da costumi che sono spesso drappi di stoffa che gli attori indossano e si tolgono continuamente. La sua strategia linguistica consiste nel non creare mai una sovrapposizione di tipo rappresentativo tra ciò che accade nell’azione drammatica e quanto accade in quella scenica. Oltretutto l’azione drammatica viene sistematicamente decostruita, vengono cioè, smontati i collanti che sostengono la coerenza narrativa, depotenziando il racconto fino a renderlo irriconoscibile. Bene sintetizza questo lavoro sul testo con una formula che sembra un manifesto programmatico: smontare la frase, la parola stessa, disorganizzare la sintassi. Shakespeare diventa l’autore di riferimento di Bene. È considerato un mare sconfinato, un territorio potenzialmente infinito che rifugge da ogni interpretazione. Bene ha realizzato numerose versioni dell’Amleto. Definisce il suo teatro come un togliere di scena e rifiuta la regia definita sprezzantemente ‘’confezione’’. A partire dagli anni ottanta all’idea che la scena sia una scrittura integrale, originale e autonoma Bene sostituisce il concetto di ‘’macchina attoriale’’: l’attore non è più inteso come parte di un tutto, ma è il tutto della scena che deve sostenere l’attore. Come attore Bene lavora sulla sonorità musicale della parola, su di un ritmo che non asseconda il senso logico della frase, sull’alternanza tra momenti urlati e altri in cui viceversa bisbiglia fin quasi a rendersi inudibile. L’uso non meramente strumentale ma strategico dell’amplificazione ha un ruolo importantissimo: non serve ad aumentare il volume ma a ridurre la distanza con lo spettatore, che è messo nella condizione di sentire i toni più bisbigliati e di percepire la qualità materica della voce, la sua fisicità, i suoi prodotti dalla bocca. La parola, che ha nel teatro di bene un valore importantissimo è tradotta così da un lato in un dato musicale dall’altro in corpo. Non si tratta di dare rilievo alla fisicità, anzi Bene ha sempre giocato sul gesto interrotto, sulla quasi totale assenza di movimento o su di un movimento caotico; si tratta di enfatizzare la voce, che con il passare del tempo diventa il suo strumento d’elezione, non come veicolo intellettuale, ma come condizione fisica, come atto materiale. L’happening nasce a New York nel fatidico 1959 grazie a una ‘’non mostra’’ di Allan Kaprow intitolata 18 Happenings in six Parts: i visitatori erano invitati a prendere parte a una serata in cui sarebbero successi degli avvenimenti che li avrebbero coinvolti direttamente trasformandoli da visitatori in spettatori. Non immaginavano di andare a vedere uno spettacolo teatrale e lo stesso Kaprow non era consapevole che quell’evento avrebbe dato vita ad un genere espressivo nuovo. L’happening è una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice sono montati insieme e organizzati in una struttura a compartimenti. È dunque teatro a tutti gli effetti, un genere spettacolare nuovo anche se non discende da una precisa teorizzazione intellettuale sul teatro. Ma in cosa consistevano gli happening? In quello inaugurale di Kaprow la galleria era suddivisa in tanti piccoli ambienti da pareti di plastica al cui interno avevano luogo avvenimenti diversi: attori che si muovevano lungo delle linee prefissate senza fare nulla di specifico né manifestare alcuno stato d’animo; attori/pittori che dipingevano sulle pareti divisorie; un’attrice che spremeva delle arance fino a saturare di un profumo l’ambiente; attori che leggevano testi privi di un senso compiuto; un’orchestrina di strumenti giocattolo. Erano azioni prive di un significato decodificabile, non riconducibili a una qualche forma di abilità artistica e apparentemente casuali. Ciò che caratterizzava gli happening, era un peculiare principio di costruzione e di scrittura, che possiamo, accettando la dilatazione delle categorie estetiche identificare come teatro. Negli anni settanta c’è tutta una zona della produzione artistica che ha fatto della presenza in prima persona dell’artista e dell’evento la sua matrice linguistica, è la Performance Art, termine con cui si fa riferimento a esperienze anche molto diverse tra loro. Le azioni dal vivo sono state costantemente usate come un’arma contro le convenzioni dell’arte istituzionalizzata. Con la performance art, l’artista è soggetto e oggetto della sua operatività artistica. Un caso esemplificativo è quello di Joseph Beuys che crea una sovrapposizione tra sé come persona, sé come artista e sé come opera. Le sue azioni performative non contengono elementi intriseci di spettacolarità. Interessato in modo particolare alle questioni dell’ambiente, alcune di esse si traducevano in conferenze durante le quali Beuys scriveva su delle lavagne o si limitava a piantare alberi. Beuys ha trasformato se stesso in un personaggio. CAPITOLO IX L’attore dal sapere fare al saper essere Nella seconda metà del secolo le questioni messe in gioco sono altre: che cosa debba intendersi per attore, quale debba essere il suo sapere, la sua identità, la sua tecnica. Accanto al problema di che cosa l’attore debba saper fare si presenta quello di che cosa debba esserlo e come esserlo. Già in precedenza c’erano stati segnali in questa direzione. È il caso di Artaud con cui il discorso sull’attore passa dalla dimensione artistica a quella umana. Artaud metteva in gioco l’essere rispetto al fare. Strasberg assunse la direzione dell’actors studio aperto a New York nel 1947. Strasberg affronta uno dei grandi argomenti stanislavskijani: la creatività in pubblico. l’attore dopo aver operato questo scandaglio dentro di sé che lo ha condotto a toccare le sue corde umane più autentiche ha il problema di condividerle e per far questo deve superare i blocchi psicologici che gli rendono difficile essere vero in pubblico. L’obiettivo è alleggerire qualunque difficoltà insiste in lui, che nega la sua libertà di espressione e blocca le capacità che possiede. Si tratta di operare per sottrazione, limando quei freni che ci impediscono di manifestare gli stati d’animo più privati. A questo scopo Strasberg mette a punto un esercizio chiamato ‘’momento privato’’: l’attore è invitato a ricostruire di fronte ai suoi compagni atteggiamenti, modi, comportamenti che assume quando è da solo: quando saprà rifare se stesso nella maniera più vera, riuscirà ad essere autentico anche nei panni di un personaggio. Il momento privato non consiste nell’aggiungere al proprio bagaglio un’ulteriore strumentazione tecnica, ma nel superare il blocco psicologico. Il metodo Strasberg si basa su una tecnica che prevede l’immersione dentro il sé più profondo e il superamento dell’inibizione espressiva, elementi che mettono in gioco l’essere dell’attore prima ancora del fare. L’attore deve affrontare le cose profonde e solide che sono all’interno di sé. Il lavoro si sposta dunque verso l’interiorità tanto che Strasberg fu accusato di fare psicoanalisi più che recitazione. Questo metodo si rivelò particolarmente efficace per il cinema, perché consentiva di utilizzare il lavoro di introspezione nel personaggio seguendo l’andamento frammentario della costruzione narrativa, tipico della produzione filmica. Nel Nuovo Testamento del teatro Grotowski propone una distinzione radicale tra l’attore prostituta, che vende al pubblico la sua arte per denaro e l’attore santo che offre in sacrificio il suo corpo. E’ una distinzione che è diventata paradigmatica tra l’attore come mestiere e l’attore come esperienza che tocca la profondità dell’essere per condividerla con il pubblico. Viene data importanza agli esercizi fisici che servono all’attore per localizzare quelle resistenze e quegli ostacoli che lo bloccano nel suo compito creativo. L’attore deve capire quali sono gli strumenti che lo aiutano a sbloccarsi, sulla base però di quella che potremmo definire una grammatica espressiva: il controllo del gesto e del movimento. Il corpo deve liberarsi da ogni resistenza, deve cessare di esistere. Le abilità tecniche non vengono esibite in scena ma servono a Cieslak nel Principe costante, a compiere con il più assoluto controllo e la massima fluidità ogni piccolo gesto. Servono inoltre a gestire in maniera consapevole e controllata il passaggio dall’impulso emotivo all’azione del corpo che deve tradursi in una partitura stabile e perfettamente regolata. Il training è un termine che indica l’allenamento quotidiano dell’attore che lo conduce a confrontarsi con il suo corpo, le sue attitudini espressive, il suo sé per metterli continuamente in discussione. Per Barba il training è autodisciplina quotidiana, personalizzazione del lavoro, dimostrazione che si può cambiare, stimolo e effetto sui compagni e sull’ambiente. È un lavoro di tipo conoscitivo che si basa su un corpo che deve pensare completamente totalmente e adattarsi in continuazione alla situazione che sorge. L’obiettivo è superare i blocchi espressivi attraverso l’allenamento fisico (Grotowski), lavorare sugli stimoli e sulla reattività e passare progressivamente, da un modello generico a uno personalizzato: è l’attore che costruisce il proprio training, montando gli esercizi in una sequenza che corrisponde alle proprie motivazioni interiori. La base tecnica consiste nello sviluppo di capacità acrobatiche (salti mortali, ribaltamenti), nel controllo del gesto (colpire un compagno con un calcio al petto senza fargli male), nella messa in relazione con l’altro (vale lo stesso esempio ma dalla prospettiva di chi il calcio lo riceve), nell’uso degli elementi vibrazionali della voce. Nel secondo ‘900 si sviluppa, dunque, un lavoro sulle potenzialità espressive dell’attore che va ben oltre il suo rapporto con il personaggio. Luogo privilegiato di questo lavoro è il laboratorio, spazio ideale dell’interrogazione sull’identità dell’attore dove ci si forma e dove germina, spesso, lo spettacolo. Un ulteriore elemento caratterizzante è il gruppo, qualcosa di diverso e di più di una compagnia, che diventa, in una misura più o meno marcata, una forma di comunità creativa, che come nel caso del Living è esistenziale. C’è un aspetto che Meldolesi definisce attore-artista. Con tale espressione Meldolesi non intende riscattare la dignità artistica dell’attore né rifarsi al modello ottocentesco che ruotava attorno all’attore solista. Il suo riferimento è, nel contesto italiano, a quella che definisce la stranierità teatrale, vale a dire l’estraneità di un certo tipo di attore sia al sistema organizzato della regia che a quello dell’interpretazione drammaturgia, sia possiamo aggiungere noi, al sistema dell’alterità proposto dal nuovo teatro. L’espressione più compiuta di tale modalità è Carmelo Bene. La sua è una ‘’scrittura su’’ e una ‘’scrittura a partire da’’, nel senso che il suo intervento è destrutturante rispetto alla coerenza logica della narrazione drammatica e della psicologia del personaggio. Agente di tale processo è l’attore inteso come ‘macchina attoriale’ che si esprime attraverso la disarticolazione del gesto e della mimica. Bene risulta estraneo alla figura dell’interprete e respinge anche ogni identificazione con la regia. È l’attore che crea e lo fa attraverso la sua presenza scenica, tanto che Bene costruisce una vera e propria icona di sé: capelli a frangetta, la camicia bianca a sbuffo, l’andamento indolente, l’abbattimento e l’instabilità della postura – su cui fa aderire il personaggio. CAPITOLO X Il teatro di regia Nel Nuovo Teatro la regia è uno strumento (tecnico e autoriale) per mettere in gioco una questione che sta a monte la ridefinizione del codice linguistico. Nel caso del teatro di regia il testo è il dato su cui si modella la scrittura scenica, che ha come obiettivo, con tutte le manipolazioni possibili, di agire su di esso soprattutto in quanto macchina narrativa. Ciò che distingue il teatro di regia del secondo ’900 è il rapporto con il testo che serve per creare nuove strade alla narrazione teatrale, ricorrendo spesso a materiali letterari non drammatici che consentono una maggiore libertà compositiva. Un secondo dato è affidare allo spazio una funzione drammaturgica. Infine c’è la questione della recitazione. L’attore del moderno teatro di regia usa forme e soluzioni espressive canoniche. Potrà portare la sua voce in una maniera personalizzata, ma dirà comunque la battuta, potrà utilizzare una gestualità straniata e a tratti anomala ma sarà sempre riconoscibile come una persona della realtà. È possibile distinguere una regia intesa come costruzione, in cui la scrittura scenica predispone una macchina drammaturgica parallela al testo e una regia intesa come interpretazione, in cui conta maggiormente il processo di lettura o di approfondimento del materiale letterario. Luca Ronconi è stato un regista che affermava: il regista ha la funzione di intermediario fra la creazione artistica di un autore e la possibilità di lettura di un attore. Al centro dei suoi lavori vi è il testo: non necessariamente un testo drammatico, avendo utilizzato in più occasioni materiali letterari di natura diversa, dall’Orlando furioso ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij. La sua metodologia privilegia l’analisi delle strutture drammaturgiche rispetto alla trama, prevede lo smontaggio e il rimontaggio del materiale letterario, senza per questo negare, la coerenza della narrazione. Tre sono gli elementi costanti dello stile di Ronconi: uno spazio scenico con funzione drammaturgica che sia il corrispettivo visivo del testo, il montaggio drammaturgico e una recitazione che rifiuta realismo e psicologismo. I suoi spettacoli erano fortemente connotati scenicamente anche se sono spettacoli che hanno sempre conservato una forte matrice drammaturgica ma una delle scommesse che fa Ronconi a un certo punto della sua carriera è di mettere in scena materiali che non sono materiali nati per il teatro. Nel 1969 realizza uno spettacolo considerato una leggenda del ‘900, che è l’Orlando Furioso. La drammatizzazione del poema di Ariosto è commissionata a Edoardo Sanguineti, uno dei maggiori poeti d’avanguardia italiani, che smonta l’intreccio ramificato del poema e lo riaggrega per nuclei narrativi. Il testo è smontato e rimontato secondo una logica del frammento che vieta il compimento del racconto. La realizzazione scenica enfatizza questa condizione. Lo spettacolo è pensato non per uno spazio teatrale, un grande rettangolo con due palchi sui lati brevi e una serie di carrelli, con sopra gli attori che si muovono in mezzo al pubblico. I personaggi, più che agire la loro vicenda tendono ad esporla agli spettatori descrivendo le azioni proprie e altrui nel momento stesso in cui vengono compiute. Gli spettatori si muovono liberamente nello spazio, costruendo una loro personale drammaturgia. Lo spettatore si trova non solo in mezzo, ma è lui che comincia a seguire una cosa e poi va dall’altra parte. Ci ricorda l’happening, ma è chiaro che questo è molto più strutturato, segue una logica, una sua discorsività, però è tutto frammentato e la scena diventa quello che conta di questo spettacolo. Un esempio di ritorno alla cornice è quello di Toni Servillo. I suoi esordi, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, sono all’interno del momento spettacolare e metropolitano della postavanguardia di lui e il suo gruppo, il Teatro studio di Caserta sono tra i precursori con spettacoli come Propaganda 1 e 2 (1979/1980) e Acquario (1981), basati su una scomposta esuberanza fisica in cui le icone del postmoderno, dalla rockstar alla diva al culturista, sono esibite in un gioco performativo su incalzanti basi musicali. Sono performance dal forte e ironico impatto emotivo in cui emerge la fisicità di Servillo tradotta, nei gesti spezzati e nei ritmi sincopati, in una sorta di danza decostruita. Del 1986 è il primo incontro con Eduardo de Filippo di cui recita le poesie in un monologo dal titolo E… Comincia di lì una ricerca sul teatro napoletano, dapprima quello contemporaneo con due testi di Enzo Moscato, Partitura (1988) e Rasoi (1991), del secondo firma la regia a quattro mani con Mario Martone e poi con la rilettura di un testo molto particolare di Viviani, Zingari (1993). Nel frattempo c’è stata la fondazione di Teatri uniti nel 1987, in cui confluiscono Falso Movimento di Martone, il Teatro Studio di Servillo e il teatro dei mutamenti di Antonio Neiwiller, esperienza unica di struttura produttiva che nasce dalle sinergie di intelligenze artistiche diverse: i registi, gli attori e uno staff tecnico ha un ruolo creativo. Nel 1989, proprio su sollecitazione di Servillo, Leo Bernardis viene chiamato a dirigere uno spettacolo di Eduardo che finirà per essere su Eduardo perché montaggio libero di passi diversi dei suoi testi: Ha da passà a nuttata (1989). Dalla metà degli anni novanta il testo è considerato un potenziale di energia emotiva intellettuale che va tirato fuori suggerendo e non imponendo una possibile interpretazione. Una regia morbida che intese un dialogo con la tradizione, nel cui flusso Servillo vuole muoversi, liberandola dagli orpelli della conversazione e tornando a renderla viva. Si delinea così la sua figura di attore regista, non capocomico all’antica maniera ma neanche il regista esterno al suo prodotto, piuttosto un primo violino, che legge, concerta ed esegue lo spettacolo con i suoi attori. La progettazione, l’ideazione e la costruzione sono suoi, ma Servillo vuole restare a far parte di quel corpo vivo che è uno spettacolo in tournée affermando di ritenere le repliche un momento creativo quanto se non più delle prove. Negli anni Novanta l’attenzione si sposta da Napoli a Molière: il Misantropo (1995) e Tartufo (2000), intervallati dalle false confidenze di Marivaux (1998). È una scelta motivata dalla volontà di avviare una ricerca sulla tradizione dal respiro più ampio, per cui in seguito interporrà il Goldoni della Trilogia della villeggiatura (2007) fra Sabato, domenica e lunedì (2002) e Le voci di dentro (2013) di Eduardo. L’intreccio tra Molière, Goldoni ed Eduardo definisce una linea progettuale: forme diverse di tradizione, scritture nate all’interno del teatro, una teatralità immediata e diretta, una comicità che si vela di tristezza e disperazione. Prima che i testi, Servillo sceglie gli autori. Molière è all’origine di questo percorso, i due spettacoli hanno molti tratti comuni. Prevedono, che il pubblico stia sul palcoscenico a contatto diretto con gli attori e che il testo scorra fluidamente nella sua integrità, con un’esaltazione, però delle note amare. Misantropo ad esempio, vorrebbe rifiutare quest’epoca, questo mondo, ma alle spalle e di fronte ne scorge forse uno migliore? Un atteggiamento analogo Servillo lo ha verso Goldoni la cui trilogia, sulla base del copione di Strehler, è risolta in un unico spettacolo. Affida a se stesso la parte del parassita che rende attraverso una recitazione incalzante, con scatti e improvvise pause, mentre la protagonista Giacinta viene velata di una tinta drammatica. Nel finale, quando sceglie le convenzioni piuttosto che l’amore, abbraccia il suo promesso sposo fissando con disperazione il pubblico. Anche con l’Eduardo l’approccio è analogo. Servillo dichiara di essere arrivato a Eduardo attraverso Molière e lo tratta da autore, non da modello. Nella messa in scena conserva non solo l’integrità del testo, ma anche il fluire naturale della recitazione accolta dentro scenografie stilizzate da cui è sparito il colore locale. Nel secondo atto delle Voci di dentro il deposito da apparitori di feste dei due fratelli protagonisti del testo è ridotto all’immagine quasi surreale di poche sedie fluttuanti nel nulla così che l’ambiente che in Eduardo è saturo diventa vuoto. All’interno di questo vuoto scenico la disposizione degli attori rivela, dietro l’apparente naturalezza, una precisione geometrica, inoltre, spiega ogni attore ha il suo ritmo, fra tutti il suo che in Sabato, domenica e lunedì disegna l’estraneità del protagonista nei confronti della famiglia attraverso un tempo-ritmo più lento rispetto a quello degli altri e presentandosi chiuso, nei gesti e nella postura, su se stesso. E poi ci sono i finali da cui Servillo toglie sempre quel tanto di pacificazione che c’è in Eduardo. In Sabato, domenica e lunedì la moglie arriva tardi alla finestra per il saluto di rito che avrebbe dovuto sancire la recuperata armonia. Pur muovendosi nel fiume della tradizione, sostiene Servillo, bisogna conservare nei suoi confronti un atteggiamento di ricerca che le impedisce di scadere in monumento. La regia, dunque, si risolve nella costruzione di un ritmo della recitazione, nella stilizzazione simbolica degli ambienti, nello scambio assembleare con il pubblico. L’affermazione della scena ha spiazzato sia la nozione di drammaturgia che quella di testo determinando quello slittamento del teatro verso le arti della visione e quella riduzione del ruolo narrativo della parola che rappresentano il paradigma del secolo.
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