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Riassunto "Il Papato nel Medioevo", Schemi e mappe concettuali di Storia della Chiesa

Riassunto del libro "Il Papato nel Medioevo" di C. Azzara

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 20/10/2023

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Scarica Riassunto "Il Papato nel Medioevo" e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia della Chiesa solo su Docsity! CAP. I: IL PAPATO NEL TARDO IMPERO ROMANO 1. GLI SVILUPPI DELL’ISTITUZIONE PAPALE NELL’IMPERO ROMANO CRISTIANO Già a partire dal II secolo, alla sede episcopale di Roma veniva riconosciuta una primazia onorifica fra le diverse, sempre più numerose, diocesi, pur in concorrenza con altri centri di grande tradizione e rilievo quali Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e, soprattutto, dal IV secolo, la «Nuova Roma» Costantinopoli, la città nella quale aveva finito con il trasferirsi la stessa capitale dell'impero. ● EDITTO DI MILANO 313 (imperatori Costantino e Licinio) = le comunità cristiane, che in precedenza erano state a più riprese vittime di persecuzioni perché accusate di infedeltà verso il potere imperiale, furono rese libere di professare la propria fede al pari di tutti gli altri culti religiosi praticati nella vasta e culturalmente assai variegata respublica romana. Anche alcuni papi erano stati uccisi durante le persecuzioni anticristiane, come Fabiano (236- 250), al tempo dell'imperatore Decio, o Marcellino (296-304), sotto Diocleziano. Ora invece la chiesa cristiana non solo non subì più alcuna violenza, ma divenne persona giuridica fisica secondo la legge dello stato, conseguì precisi diritti in ambito patrimoniale e privilegi quali l'esenzione dai gravami pubblici e dalla giurisdizione dei tribunali imperiali in materia di fede e di disciplina ecclesiastica. Costantino donò pure alla chiesa della città, oltre a cospicui quantitativi di arredi sacri in materiali preziosi, notevoli proprietà fondiarie, situate non solo in Italia (e particolarmente nelle regioni centrali e in Sicilia), ma anche al di fuori della penisola, dalla Gallia meridionale fino all'Africa. All'inizio il vescovo di Roma era solo il depositario e l'amministratore dei beni a lui concessi dalla munificenza imperiale o dai benefattori privati (a mano a mano che il cristianesimo si diffondeva tra i ceti più agiati e colti), ma tra il V e il VI secolo egli seppe progressivamente acquisire la piena disponibilità di tali ricchezze. ● CONCILIO DI SERDICA del 343 = riconosce una funzione primaziale al vescovo di Roma, in quanto si considerava egli perpetuasse la memoria di san Pietro come suo successore nella medesima sede. Sul motivo della propria discendenza dall'apostolo avevano cominciato a insistere gli stessi papi almeno a partire dalla prima metà del III secolo, per esempio durante i pontificati di Callisto I (217-222) o di Stefano I (254-257). Dal canto suo, Costantino, pur spostando il baricentro politico (e di conseguenza ecclesiastico) dell'impero verso Oriente, nella nuova capitale, non negava affatto la speciale autorità della chiesa romana, perché chiesa della città che era stata la culla e la sede storica del potere imperiale. ● EDITTO DI TESSALONICA del 380 con Teodosio = proclamò il cristianesimo unica religione ammessa, avviando la persecuzione di tutte le altre. La chiesa si trovò pertanto a godere di una posizione inedita e di eccezionale favore, da cui derivavano privilegi ma anche responsabilità: la sua predicazione non era più ostacolata potendo anzi combattere con il sostegno dello stato le credenze concorrenti, i suoi patrimoni, frutto delle continue donazioni dei fedeli, erano protetti dalla legge, i suoi sacerdoti venivano chiamati a collaborare con i funzionari pubblici nel controllo sociale. I vescovi di Roma, a partire dalla fine del IV secolo e almeno fino alla metà del V, tra il pontificato di Damaso (366-384) e quello di Leone I (440-461), si impegnarono in una vasta azione di consolidamento istituzionale e organizzativo delle proprie strutture. Papa Damaso fu il primo a denominare la chiesa di Roma sedes apostolica, in quanto fondata dagli apostoli Pietro e Paolo che a Roma avevano trovato il martirio, facendo discendere da ciò una posizione di primato della propria sede episcopale, dal momento che nessun'altra chiesa poteva vantare un'origine altrettanto eccellente. Il lungo processo di definizione concettuale del primato del papa conobbe il suo perfezionamento per quest'epoca durante il pontificato di Leone I, o Magno (440-461). Leone coniò infatti la formula per cui il pontefice era l'«indegno erede di san Pietro», il che significava che il vescovo di Roma succedeva come erede all'apostolo nella totalità dei suoi poteri, nel suo «ufficio», anche se non nello status personale, che era evidentemente irriproducibile. Venne introdotta pure la fondamentale distinzione fra l'ufficio, oggettivo, e il suo detentore, soggettivo, per cui le caratteristiche personali del singolo papa erano irrilevanti rispetto all'ufficio da lui ereditato da san Pietro, e ciò significava che l'eventuale indegnità morale di un pontefice non incideva sull'istituzione. Per divenire papa non occorreva (e non occorre) nemmeno essere un sacerdote. L'insieme dei poteri di discendenza petrina fu espresso con la locuzione plenitudo potestatis. Il papato, insomma, avanzava la pretesa di essere l'organo di governo supremo dell'intera comunità cristiana, per volontà di Cristo e avendo come scopo quello di condurre i cristiani alla salvezza eterna. Il suo primato giurisdizionale sulla chiesa e sull'insieme dei fedeli era definito con il termine romano imperiale di principatus, con il quale si intendeva un potere monarchico di origine divina. Tale principatus si distingueva da quello dell'imperatore poiché quest'ultimo era frutto del divenire storico e delle azioni umane, pur discendendo anch'esso da Dio, mentre quello del papa scaturiva da un atto divino unico e irripetibile, posto al di fuori della storia. In campo ecclesiastico, l'autorità dei papi si esercitò in modo alquanto debole nelle regioni orientali dell'impero, dove Roma doveva subire la concorrenza di altre grandi e prestigiose sedi, a cominciare da Costantinopoli, destinata a rimanere unica capitale imperiale dopo il 476. A tentativi come quello esperito nel concilio di Efeso del 431 di proporre il motivo della primazia petrina del vescovo di Roma, in quanto successore e locum tenens di Pietro, fu risposto, ad esempio nel concilio di Calcedonia del 451 con l'enunciazione del principio secondo cui il rango politico di una città ne si trovarono così inseriti in un regno con a capo un barbaro, di confessione ariana (cioè di una versione eretica del cristianesimo), che governava simultaneamente la popolazione romana e cattolica e la sua tribù stanziata nella penisola come élite militare. Mentre si moltiplicavano gli arresti e gli omicidi di romani per mano gota, presentati dalle fonti come fenomeni di persecuzione religiosa degli ariani contro i cattolici, e le distruzioni di chiese cattoliche in Italia quale risposta alle misure antiariane assunte in Oriente da Giustiniano, il papa Giovanni I (523- 526) fu costretto a fare da ambasciatore a Costantinopoli per conto di Teodorico, allo scopo di provare a scongiurare la guerra verso cui si stava precipitando; non avendo ottenuto dall'imperatore le aperture che il monarca goto si attendeva, al proprio ritorno a Roma il pontefice venne accusato di tradimento e gettato in carcere, dove fu lasciato morire → scontro che va dal 535 al 553 con la vittoria dell'impero, i pontefici dovettero fronteggiare il nemico goto in una penisola sconvolta da devastazioni, e la stessa città di Roma fu sottoposta a ripetuti assedi e occupata alternativamente ora dall'uno ora dall'altro contendente. La conclusione formale della guerra venne sancita dalla promulgazione, il 13 agosto del 554, della legge imperiale nota come Prammatica Sanzione, che ripristinò il potere imperiale in Italia. Tuttavia, proprio durante gli anni di regno di Giustiniano il papato conobbe pesanti umiliazioni a opera del potere imperiale. Nel 537, in pieno conflitto, il pontefice Silverio (536-537) era stato deposto ed esiliato dal generale Belisario con la falsa accusa di tradimento per aver cercato di consegnare Roma ai goti, mentre sembra che la vera causa di tale castigo fosse piuttosto da ricercare nell'opposizione del papa al patriarca monofisita di Costantinopoli Antimio, protetto dall'imperatrice Teodora. Il successore di Silverio, il citato Vigilio, fu a sua volta trascinato a Costantinopoli nel 547 per sottoscrivere a forza l'editto imperiale di condanna dei cosiddetti Tre Capitoli, gli scritti di tre teologi invisi ai monofisiti e perciò vietati da Giustiniano che a quegli eretici intendeva riavvicinarsi per calcolo politico. Il cedimento di Vigilio venne biasimato da tutto il clero occidentale. Alla morte di Vigilio fu lo stesso Giustiniano a imporre il successore, Pelagio I (556-561), inizialmente ostile della condanna dei Tre Capitoli ma poi costretto ad accettarla dopo esser stato pure lui relegato in esilio. CAP. II: IL PAPATO NELL’OCCIDENTE ALTOMEDIEVALE 1. I PAPI TRA LONGOBARDI E BIZANTINI La stirpe dei longobardi iniziò ad occupare l’Italia, soprattutto il centro-sud dal 568/569→ rovina e abbandono di molte chiese e monasteri da loro conquistate. La fuga di diversi vescovi dalle aree maggiormente sconvolte dalle violenze condusse a una diffusa disarticolazione dello stesso tessuto diocesano. Al cospetto della sopraggiunta emergenza i papi si trovarono, dunque, a dover svolgere compiti di immediato riordino delle istituzioni ecclesiastiche italiche così pesantemente scosse e ad assumere ancora una volta funzioni di rappresentanza della popolazione romana e di mediazione tra questa e i longobardi, in sintonia con le autorità imperiali. Il pontefice che fu chiamato a farsi carico di tali gravose incombenze fu in particolare Gregorio I, detto Magno (590-604, prima fu apocrisario papale a Costantinopoli). La sua figura, una delle più insigni nella storia del papato, fu successivamente canonizzata nell'agiografia come modello del papa-monaco. Gregorio Magno si produsse subito in un'azione di tutela dai longobardi innanzitutto di Roma, ma anche di altri centri della sua metropoli ecclesiastica, coordinando le difese militari in supplenza degli ufficiali dell'impero e negoziando con i nemici. In particolare, un suo accordo con il re longobardo Agilulfo, che giunto alle porte di Roma venne convinto dal papa a ritirarsi senza attaccare la città dietro pagamento di un riscatto. La progressiva acculturazione in senso romano e cattolico della stirpe dei longobardi, fino alla sua totale conversione, fu un processo lungo, che si completò solo nella seconda metà del VII secolo e in cui il papato non giocò affatto un ruolo determinante. Gregorio I ebbe modo di volgere il proprio sguardo anche al di là delle Alpi, sforzandosi di creare una trama di relazioni con i principali regni cristiani d'Occidente e proponendosi quale ponte fra questi e Costantinopoli. La conversione del re anglosassone del Kent Etelberto e della sua stirpe è stata tramandata come l'atto forse più notevole del pontificato gregoriano e sicuramente essa spicca quale prima consapevole iniziativa missionaria mai assunta dal papato; la diffusione del cristianesimo fra le gentes dell'Occidente post-romano era stata infatti merito soprattutto del clero locale. Dopo la morte di Gregorio Magno, per tutto il corso del VII secolo, la sede pontificia patì una discontinuità d'azione dovuta al succedersi di ben venti papi diversi nell'arco di anni compreso fra il 604 e il 701, in un periodo assai difficile, segnato per un verso da una profonda trasformazione degli assetti territoriali, amministrativi e culturali della compagine imperiale e per un altro dalla virulenta ripresa delle controversie cristologiche. Nel 638 il patriarca costantinopolitano Sergio ispirò al princeps un documento, l'Ekthesis, che cercava di aggirare la formula calcedoniana delle due nature di Cristo introducendo il concetto di un'unica volontà del Redentore. All’Ekthesis si oppose decisamente Roma, che condannò come eretiche le posizioni dei cosiddetti monoteliti (cioè dei fautori della soluzione proposta dal documento imperiale), e nel 649 un sinodo convocato in Laterano respinse l'atto con cui il successore di Eraclio, Costante II, vietava ogni ulteriore discussione sull'argomento; per tutta risposta l'imperatore fece deportare in Crimea il papa Martino I (649-654), che finì i suoi giorni in esilio. Nemmeno il superamento della controversia monotelita sancito nel VI concilio ecumenico di Costantinopoli del 680-681, con il pieno riconoscimento della formula di Calcedonia, pose però fine al conflitto tra il papato e l'impero. Con Sergio I (687-701), l'imperatore Giustiniano II cercò di replicare il colpo di mano di Costante II contro Martino, ma i suoi piani furono sventati dall'intervento in difesa del pontefice dello stesso esercito dell'esarcato. Questo episodio offrì una conferma eloquente del fenomeno in atto da tempo che vedeva l'impero spostare vieppiù il proprio baricentro verso Oriente. Il papato si rivolse ai franchi perché in quel momento essi erano l'unica realtà abbastanza forte sul piano militare da poter contrastare con successo i longobardi; per la dinastia franca dei Pipinidi accogliere l'appello pontificio significò garantirsi un'indispensabile legittimazione tanto più necessaria se si tiene conto che essa era appena salita al trono rovesciando con un controverso atto di forza l'antica famiglia regia dei Merovingi. A Ponthion Pipino ricevette dal papa l'unzione regia, un gesto di altissimo valore simbolico ispirato ai re biblici. Ai vari appelli dei pontefici i franchi risposero per il momento con interventi militari limitati, che costrinsero i longobardi a negoziare. Nel 726 l'imperatore Leone II Isaurico si pronunciò pubblicamente, per la prima volta, contro il culto delle immagini sacre, una pratica assai diffusa e profondamente radicata nel mondo cristiano, ordinando, tra l'altro, con un gesto dal forte significato simbolico, la rimozione dell'immagine di Cristo che era posta sulla porta bronzea del Sacro Palazzo di Costantinopoli, la sua residenza. Leone II aveva maturato la propria avversione per il culto delle immagini sacre probabilmente durante il proprio soggiorno giovanile nelle regioni dell'Asia Minore, culla del monofisismo e più aperte all'influsso islamico; dopo il pronunciamento del 726 egli si impegnò per affermare i propri convincimenti scontrandosi con dure opposizioni, a cominciare da quella del papa Gregorio I (715-731) e dello stesso patriarca di Costantinopoli Germano, che furono vigorose soprattutto in Occidente, dove diedero luogo a episodi di aperta ribellione in molte province. Nel 730 il culto delle immagini sacre venne proibito per editto e fu avviata la persecuzione degli iconoduli. Germano di Costantinopoli venne deposto per non aver sottoscritto l'editto imperiale e il papa fu minacciato della stessa sorte, ma in Italia, come ricordato, vi fu una reazione corale a tutela del pontefice. La crisi giunse al suo apogeo con il successore di Leone, Costantino V, il quale, dotato di una solida preparazione teologica e autore egli stesso di numerosi trattati a sostegno delle tesi iconoclaste, predispose un concilio che condannasse in via definitiva il culto delle immagini. Il sinodo, che si svolse nel 754, presieduto dall'imperatore e in assenza della delegazione romana e di molte altre, si pronunciò all'unanimità contro l'iconodulia e i suoi deliberati vennero applicati con la massima severità, stroncando con la forza ogni resistenza. Tuttavia, dopo la morte di Costantino nel 775, il suo successore Leone IV si volse a un atteggiamento più moderato e in seguito l'imperatrice Irene, reggente per il figlio minore Costantino VI, si adoperò addirittura per un reintegro dell'adorazione delle immagini sacre. Nel 787 il VII concilio ecumenico elezione del papa e la presenza di legati imperiali alla consacrazione episcopale del neoeletto, al fine di meglio tutelarlo da ogni possibile ingerenza locale. Il nesso tra l'imperatore e il pontefice si carico pure di elementi cerimoniali e simbolici di forte pregnanza destinati a ulteriori elaborazioni nei tempi a venire. A partire dall'incoronazione dello stesso Lotario I per mano di papa Pasquale I, nell'823, venne introdotto il gesto della consegna della spada all'imperatore da parte dell'erede di Pietro, mentre nell'850 Lotario II fu il primo a tenere le briglie del cavallo montato dal pontefice come segno di umiltà e di riverenza.  I saraceni, dal loro canto, nell'846 aggredirono la stessa città di Roma, saccheggiando le basiliche di San Pietro e di San Paolo, tanto da costringere il papa Leone IV (847-855) a erigere una cinta muraria attorno al Vaticano che racchiudeva una porzione dell'Urbe denominata da allora “città leonina”. Dopo l'ascesa al soglio pontificio di Niccolò I scoppiò una durissima crisi con la chiesa di Costantinopoli, al vertice della quale l'imperatore Michele II aveva imposto il patriarca Fozio, deponendo il suo predecessore Ignazio. Il papa, ritenendosi competente in virtù del proprio primato, intervenne nella contesa pronunciandosi per il reintegro di Ignazio, con aperta sfida anche alla potestà dell'imperatore Michele. Fozio rispose convocando, nell'867, un concilio a Costantinopoli che scomunicò il pontefice romano e lo dichiarò deposto, sancendo una situazione di scisma fra le due chiese. Nello scontro Roma riuscì a radunare attorno a sé tutte le istituzioni ecclesiastiche dell'Occidente, sì che nella polemica finirono con l'opporsi l'uno contro l'altro due schieramenti vasti e compatti, con l'intera chiesa occidentale da una parte e dall'altra quella d'Oriente, tutta solidale con il patriarca. Lo scisma dell'867, seppur ricomposto da un concilio dell'869-870, dopo la morte di Niccolò e dello stesso imperatore Michele III, lasciò una ferita aperta, scrivendo una nuova e importante pagina della lunga vicenda di divaricazione fra i due grandi ambiti ecclesiastici, culturali e politici in cui si era andata dividendo, nel processo storico, l'ecumene cristiana. A inasprire la polemica fra Roma e Costantinopoli vi fu anche il citato fenomeno della concorrenza nell'evangelizzazione delle genti slave, che al tempo di Niccolò e Fozio si espresse in particolare riferimento ai bulgari (convertiti al cristianesimo nell'864 dalla chiesa greca, si erano poi rivolti a Roma in seguito al rifiuto del patriarca costantinopolitano di permettere la fondazione di un patriarcato bulgaro. Niccolò colse subito l'occasione per inviare in Bulgaria missionari e istruzioni circa la struttura da dare alla nascente chiesa locale e Fozio ovviamente interpretò tale condotta come un'aperta sfida alla propria giurisdizione; alla fine la chiesa bulgara venne ricondotta nella sfera di Costantinopoli). 3. L’ETÀ POSTCAROLINGIA Al declinare del IX secolo la condizione del papato ebbe a soffrire della crisi degli ordinamenti carolingi, dal cui precedente vigore aveva tratto, come s'è visto, notevole profitto. La debolezza degli ultimi esponenti della dinastia franca lasciò Roma priva di tutela contro le prepotenze dell'aristocrazia romana, per la quale il controllo della carica pontificia significava poterne gestire le cospicue risorse economiche ed esercitare di fatto il governo della città. Per lunghi decenni, fin verso la metà del secolo successivo, si succedettero sul soglio di Pietro numerosissimi papi, molti dei quali rimasti in carica per periodi assai brevi, anche solo di poche settimane, tutti creati dalle fazioni aristocratiche più potenti, sovente indegni e incapaci, comunque, di svolgere la propria attività in modo sufficientemente autonomo e continuativo. ● cadavere del papa Formoso intentato dal suo successore Stefano VI nell'897, quando la salma del pontefice defunto, accusato di aver accettato l'elezione a vescovo di Roma sebbene già titolare di un'altra diocesi, in spregio ai canoni del concilio di Nicea che vietavano tale possibilità, fu tolta dal sepolcro, portata nell'aula dove venne sottoposta a giudizio, condannata e in- fine gettata nel Tevere. ● Lo stesso Stefano in seguito fu a sua volta incarcerato e strangolato in cella; un altro papa, Leone V, venne imprigionato dal suo contendente Cristoforo ed entrambi finirono poi con l'essere assassinati dal nuovo pontefice Sergio III. Malgrado il succedersi di tutti questi scandali il papato riuscì a conservare il proprio prestigio in Occidente grazie alla distinzione che si operava fra l'ufficio del papa e la persona che transitoriamente lo ricopriva, la cui indegnità non macchiava l'istituzione. Inoltre, anche sotto i pontefici più inetti si manteneva efficiente la cancelleria, che con le proprie strutture ben rodate, la propria esperienza, la propria cultura giuridica, seppe garantire la continuità amministrativa nel modo migliore possibile. Una stagione in parte nuova per il papato ebbe avvio con la conquista, nel 962, del titolo di imperatore da parte di Ottone I della casa di Sassonia, il quale restaurò la potestà imperiale in Occidente riproponendo a Roma un interlocutore forte e sicuro, dopo un lungo periodo di dispersione concomitante con il tramonto dei Carolingi. L'iniziale accordo fra il nuovo monarca e il papa allora in carica, Giovanni XII (955-964), che poteva con- tare sull'aiuto del Sassone anche contro i nemici bizantini e longobardi dell'Italia meridionale, si ruppe però quasi subito e la sede romana fu ancora una volta travolta dapprima dalla lotta fra lo stesso Giovanni e l'antipapa Leone VIII, poi dall'ascesa della casa aristocratica dei Crescenzi, che in competizione con l'imperatore controllò la carica pontificia per circa un quarantennio, e infine dal susseguirsi di deposizioni violente, se non di omicidi, di papi in carica, come nei casi di Benedetto VI, assassinato dai Crescenzi nel 974, o di Giovanni XIV. A tutto questo cercò di porre fine l'intervento del futuro imperatore Ottone II, che nel 996 impose come pontefice suo cugino Brunone di Carinzia, il quale prese il nome di Gregorio V, difendendolo con la forza dal tentativo di Giovanni dei Crescenzi di deporlo a vantaggio dell'ennesimo antipapa. La forzata latitanza degli imperatori da Roma negli anni successivi fece tuttavia ripiombare il papato nel vortice delle contese locali (con una nuova famiglia protagonista, quella dei Tuscolo), malgrado sporadiche iniziative di riordino intraprese da imperatori come Enrico II. Tra il 1044 e il 1046 si ebbero il convulso succedersi e a un certo punto addirittura la contemporanea presenza di tre papi, Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI. Un momento di autentica svolta si verificò solo con la discesa a Roma nel 1046 dell'imperatore Enrico III, il quale si sbarazzò, tramite sinodi da lui convocati e presieduti, dei tre papi in lite e fece eleggere con il nome di Clemente II il vescovo di Bamberga Suitgero, primo di una serie di pontefici tedeschi di indicazione imperiale (cinque, in un decennio). Costoro per la loro provenienza e per lo stretto legame con l'imperatore erano liberi dai condizionamenti dell'ambiente romano e furono inoltre scelti tra individui di comprovata moralità e preparazione, tanto da divenire termini di riferimento per le diverse forze che proprio in quegli anni sostenevano l'urgenza di una riforma etica e istituzionale della chiesa, della quale apparivano sin troppo evidenti il diffuso degrado morale, culturale e disciplinare e l'eccessivo coinvolgimento negli affari del secolo. CAP. III: IL PAPATO E LA RIFORMA DELLA CHIESA 1. I PRESUPPOSTI DELLA RIFORMA Le cariche episcopali e abbaziali venivano abitualmente occupate da esponenti dell'aristocrazia in cerca di uffici lucrosi, che consentivano il controllo degli ingenti patrimoni ecclesiastici e aumentavano il potere e il prestigio dell'intero lignaggio di coloro che li detenevano. Ne derivava che l'alto clero era costituito in massima parte da soggetti sprovvisti di un'autentica vocazione, e quindi della necessaria formazione e di un adeguato spessore morale, i quali anche da ecclesiastici persistevano in stili di vita propri dell'aristocrazia laica: privilegiavano l'attività politica e magari militare rispetto alle occupazioni spirituali, si dedicavano agli svaghi nei banchetti o nella caccia, tenevano presso di sé delle concubine. Anche il clero di rango inferiore si dimostrava inadeguato, in genere talmente incolto da non essere capace nemmeno di leggere i testi sacri. Lo stesso papato, infine, si trovò, come s'è visto, a lungo ostaggio della competizione fra le grandi famiglie romane, ciascuna delle quali mirava a monopolizzare la carica pontificia. Al cospetto di un simile, desolante, quadro, svariati settori della società cristiana, nelle differenti regioni dell'Occidente, avvertirono l'impellente urgenza di una profonda riforma della riconoscere ai normanni il possesso dei territori da loro occupati. Da quel momento i pontefici mutarono atteggiamento verso i normanni del Mezzogiorno intuendone la valenza di potenziale sostegno militare alla propria causa e perciò legittimarono la creazione da parte loro dapprima di formazioni politiche parziali e infine di un potente regno, fondato nel 1130 da Ruggero II e comprendente tutta l'Italia meridionale inclusa la Sicilia strappata agli arabi, che si legò vassallaticamente a Roma e che divenne il principale alleato di questa nelle lotte contro l'impero che contraddistinsero il corso del XII secolo. L'aristocrazia romana approfitto della morte di Enrico III nel 1056 per cercare di recuperare il controllo della carica papale. L'ultimo pontefice di nomina imperiale fu Vittore II al quale successe Stefano IX, a sua volta legato alla grande aristocrazia vicina all'impero in quanto fratello del duca di Lorena. Alla scomparsa nel 1058 di Stefano IX, il conte Gregorio di Tuscolo, con l'aiuto dei Crescenzi, provò invano a far eleggere suo fratello Giovanni, già vescovo di Velletri, ma i cardinali riuniti a Siena scelsero invece, con il consenso dell'imperatrice Agnese, reggente per il piccolo Enrico IV, e del partito lorenese-canossano, il vescovo di Firenze Gerardo di Borgogna, appoggiato dall'autorevolissimo monaco Ildebrando di Soana. Il nuovo pontefice, che prese il nome di Niccolò II e rimase in carica dal 1059 al 1061, garantì un poderoso sostegno all'azione di riforma della chiesa e di rafforzamento dello stesso ufficio papale. Venne introdotto il principio, ratificato poi nel Decretum in electione papae, che da allora in avanti l'elezione del papa non dovesse più avvenire secondo l'antica formula dell'elezione episcopale «per clero e popolo», ma fosse riservata in via esclusiva ai cardinali, cioè agli ecclesiastici titolari delle basiliche della città di Roma e suburbicarie, dette «chiese cardine». Al clero e al popolo di Roma era lasciata solo la facoltà di acclamare il neoeletto, per ratificarne a posteriori l'assunzione dell'ufficio→ ridusse il ruolo dello stesso imperatore, che, insieme con l'episcopato a lui fedele, non a caso respinse i deliberati del concilio. Il decreto conciliare conteneva in verità un cenno alla necessità di salvaguardare l'honor e la reverentia dell'imperatore, ma tale clausola rimaneva ambigua, non precisando affatto se si dovesse ricevere preliminarmente l'assenso dell'imperatore sul candidato espresso dai cardinali o se il monarca dovesse soltanto essere informato di quanto i cardinali decidevano in piena autonomia. Morto Niccolò II nel 1061, venne eletto con la nuova procedura il vescovo di Lucca Anselmo da Baggio, Alessandro II (1061-1073), un deciso sostenitore della riforma, al quale l'impero, con l'aiuto degli aristocratici romani, oppose il presule di Parma Cadalo (Onorio II); costui riuscì momentaneamente a cacciare da Roma il rivale, ma fu poi abbandonato dai suoi stessi sostenitori e condannato da un sinodo tenuta a Mantova, che si pronunciò per Alessandro. Alessandro II agì in modo assai incisivo per il successo del moto riformatore e per assicurarne a Roma la guida. A Milano egli conferì ai patarini il vexillum sancti Petri per sottoporli a una più diretta obbedienza papale, smussarne gli atteggiamenti più marcatamente eversivi. Intensificò la propria influenza in paesi in cui più debole era stata fino a quel momento la sua presa, dall'Inghilterra alla Scandinavia, dalla penisola iberica all'Europa centro- orientale, stimolando, con una cristianizzazione nel segno della disciplina romana, lo sviluppo di un clero locale istruito, degno e legato al papa, in grado di favorire anche le relazioni politiche tra Roma e i relativi regni. Nel marzo del 1065 l'imperatore Enrico IV raggiunse la maggiore età e, preoccupato di ricostruire le basi del suo potere che erano state minate dalla dispersione dei beni avvenuta negli anni della reggenza, distribuì svariate prebende ecclesiastiche allo scopo di crearsi una rete di vescovi e di abati fedeli. Tutte queste assegnazioni agli occhi del papato erano da considerarsi simoniache e ciò aprì inevitabilmente un nuovo conflitto. Alla morte di Alessandro II nel 1073 salì al soglio pontificio, con il nome di Gregorio VII, una delle figure di punta del movimento riformatore, il già citato Ildebrando di Soana, che nel precedente ventennio aveva rivestito un ruolo di primo piano nell'entourage dei suoi predecessori (favorendo pure l'elezione di alcuni di loro) e che si sarebbe rivelato uno dei papi più importanti nell'intera storia della chiesa. Durante il suo pontificato, che durò dodici anni, si affermò con un'evidenza senza precedenti il concetto dell'assoluto primato del papa di Roma nell'ambito della chiesa, tanto da disegnare, nella teoria e nelle strutture concrete, un nuovo modello del corpo ecclesiastico ordinato non più in senso «orizzontale» e collegiale (com'era stato nella chiesa più antica e come continuava a essere in quella ortodossa), bensì piramidale e gerarchico, con il papa come vertice unico e indiscusso. Con Gregorio VII il papato rivendicò pure la libertas ecclesiae, cioè la libertà delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze del potere laico→ il papato giunse ora a pretendere la propria supremazia anche sulla potestà dell'imperatore, aprendo, inevitabilmente, la strada a una nuova e prolungata stagione di lotte. Gregorio VII esordi nel proprio scontro con Enrico IV, anche in risposta alla sopraccitata serie di nomine episcopali compiute dal neoimperatore, con l'emanazione, nell'ambito di un concilio romano del 1075, di un decreto che condannava ogni investitura, cioè ogni concessione di diritti pubblici a un ecclesiastico da parte di laici: ciò minava in pratica la rete di solidarietà che l'imperatore si era creato fra i vescovi da lui investiti e contestava in via di principio la sua facoltà di attribuire prerogative di competenza regia a soggetti di sua libera scelta. Allo stesso tempo il papa scomunicò e depose molti vescovi, soprattutto in Italia settentrionale e in Germania. Per tutta risposta, Enrico non solo respinse il decreto, ma ne sfidò il contenuto facendo eleggere arcivescovo di Milano un proprio candidato contro il volere papale e investendo i vescovi di Spoleto e di Fermo. In due assemblee di vescovi a lui fedeli, riunite a Worms e a Piacenza nel 1076, l'imperatore fece condannare Gregorio VII per tradimento e lo dichiarò deposto; il pontefice pronunciò subito la scomunica di Enrico IV e sciolse dai vincoli di fedeltà nei suoi confronti tutti i suoi vassalli. Enrico dovette dare pubblica dimostrazione di piegarsi al pontefice per indurlo a ritirare il provvedimento, a qualsiasi prezzo. Nell'inverno del 1076-77 egli scese così in Italia, raggiunse il castello appenninico della contessa Matilde di Canossa dove Gregorio era ospite insieme al potente abate Ugo di Cluny e si umiliò restando per tre giorni davanti alla fortezza in atteggiamento di penitente, fino a che il papa non fu costretto, di fronte al clamore di un simile gesto, a proscioglierlo dalla scomunica. Nel 1075, viene fatto risalire un celeberrimo documento pontificio, noto come Dictatus papae. Il documento è articolato in ventisette stringate proposizioni che costituiscono la dichiarazione più netta della nuova consapevolezza acquisita dal papato circa la propria autorità suprema non solo rispetto alla chiesa, ma anche nei confronti dell'impero. L'imperatore, una volta sottrattosi al pericolo di una sollevazione dei propri vassalli, riprese il proprio attacco al papa, appoggiato dai vescovi che erano contrari alla riforma e alla centralizzazione romana delle istituzioni ecclesiastiche allora in atto. Costoro in un sinodo a Bressanone nel 1080 dichiararono nuovamente deposto il pontefice opponendogli l'antipapa Clemente III, l'arcivescovo di Ravenna Guiberto, titolare di una sede molto ricca e tradizionalmente antagonista di Roma. In entrambi i campi, papale e imperiale, si ebbero defezioni, ripensamenti, passaggi all'altra parte, a riprova del fatto che gli schieramenti non erano in fondo così compatti e che il libero gioco degli interessi concreti e particolari finiva spesso con il prevalere sulle idealità. Dal 1081 Enrico pose addirittura l'assedio a Roma e tre anni dopo riuscì a entrare nella città e a insediarvi Clemente III, il quale lo incoronò imperatore; quindi, si ritirò prima dell'arrivo dei normanni di Roberto il Guiscardo, chiamati in soccorso da Gregorio VII, che approfittarono però dell'assenza di ogni difesa per darsi al saccheggio e per condurre nei propri territori il papa, ormai inviso agli stessi romani, non si sa se per salvarlo o per tenerlo in ostaggio. Trascorsi appena pochi mesi, Gregorio VII spirò a Salerno, il 25 maggio 1085. 3. IL CONTRASTO CON L’IMPERO Vittore III restò in carica solo pochi mesi prima di lasciare il posto a Urbano II (1088-1099). Questi cambiò politica rispetto ai suoi predecessori, ricercando una mediazione con la parte avversa e lavorando quindi a formule di compromesso che preparassero la strada a un accordo. Urbano II allargò ai regni di Francia e di Inghilterra la questione delle investiture, alla ricerca di una soluzione veramente universale del problema, che non si riducesse a un mero duello tra Roma e l'impero; inoltre diede il proprio contributo al consolidamento dell'autorità pontificia rimarcando il principio della capacità papale di dispensa, cioè di prendere decisioni in deroga dalle norme in situazioni eccezionali. A Urbano II viene attribuita un'allocuzione al concilio di Clermont del 1095, riportata da testi più tardi, con la quale si esortavano i cavalieri delle diverse regioni dell'Occidente a promuovere un pellegrinaggio (iter) a Gerusalemme, scandinava, dove vennero introdotti la liturgia e il diritto di Roma e i legati pontifici poterono collaborare allo sviluppo delle strutture delle chiese locali. Con l'ascesa al trono di Germania nel 1152 di Federico I Barbarossa, della casa sveva degli Hohenstaufen, incoronato imperatore a Roma tre anni dopo dal papa Adriano IV, per la sede petrina si aprì però un'ennesima stagione di aspra lotta politica e ideologica con il potere imperiale. Quest'ultimo si andava allora riappropriando con lucida consapevolezza delle sue prerogative attraverso la riscoperta del diritto romano, il diritto imperiale per eccellenza, messo a disposizione dagli studi della grande scuola bolognese di Irnerio e capace di garantire fondamento teorico e strumenti pratici all'azione di governo. L'imperatore, collocandosi sulla scia dei principes romani, riaffermava la propria natura di monarca universale, perfettamente autonomo da ogni altra autorità, che riceveva il potere per via diretta da Dio. Dal 1158, anno in cui nella dieta di Roncaglia Federico, sostenuto dai giuristi bolognesi, rivendico a sé i regalia iura usurpati dai comuni cittadini dell'Italia settentrionale, entrò in uso la denominazione sacrum imperium Romanum, a indicare l’eredità romano- cristiana e la missione divina dell'impero e il suo contenere al proprio interno le stesse istituzioni ecclesiastiche. L'offensiva teorica di Federico I e la sua presenza in armi nell'Italia settentrionale (con la prima campagna militare contro le città comunali e la distruzione di Milano) spinse Adriano IV a cautelarsi, innanzitutto rafforzando l'alleanza con il re normanno di Sicilia Guglielmo, che in base a un patto stipulato nel 1156 si dichiarò vassallo del papa. Morto papa Adriano nel 1159 ed eletto quale successore Alessandro III, il noto giurista Rolando Bandinelli, il Barbarossa cercò di intromettersi spingendo parte del collegio cardinalizio a non riconoscere l'eletto e a sostenere un altro candidato, Vittore IV. Emulo di Costantino, Federico convocò un concilio a Pavia per risolvere la faccenda secondo il proprio gradimento, ma la deliberazione sinodale fu accettata solo nei territori dell'impero. Alessandro, che aveva scomunicato l'imperatore, fu costretto a vivere lontano da Roma, soprattutto in Francia, e lo stesso Vittore soggiornò a lungo nell'Italia settentrionale, sotto la protezione di Federico. Alla morte di Vittore, il monarca svevo nominò a succedergli Pasquale III, mentre imponeva vescovi a lui graditi (e contrari al papa Alessandro) in molte diocesi del suo dominio. Nel 1167 l'arcivescovo Rinaldo di Colonia e il cancelliere Cristiano di Magonza guidarono un esercito imperiale a Roma per insediare Pasquale, alla cui scomparsa l'anno dopo venne nominato un altro antipapa, Callisto II. Per Alessandro III era stato inevitabile in quel frangente, in aggiunta al solito appoggio dei normanni, garantirsi l'alleanza del principale nemico di Federico I, vale a dire la lega delle città comunali, e quindi il papa trasse un notevole beneficio dalla sconfitta militare che questa inflisse al Barbarossa nella celebre battaglia di Legnano del 1176. La pace stipulata a Venezia l'anno dopo fu l'occasione per sanare il contrasto che aveva opposto l’imperatore al papa: Alessandro II venne riconosciuto come unico e legittimo pontefice, ponendo così fine allo scisma, e revocò perciò la scomunica inflitta a Federico. Ricevuto dal papa davanti alla basilica di San Marco, l'imperatore si umiliò togliendosi il mantello e baciando i piedi di Alessandro, che a sua volta lo rialzo, baciò in volto e benedisse. Durante il pontificato di Alessandro II, che si concluse nel 1181, ebbe luogo anche un contenzioso con il regno d'Inghilterra, pure in questo caso a motivo di una nuova coscienza delle proprie prerogative da parte della monarchia inglese. Il II concilio del Laterano del 1179 prescrisse che l'assemblea elettiva, cui erano chiamati a partecipare vescovi, preti e diaconi cardinali, doveva scegliere il nuovo papa raggiungendo la maggioranza necessaria dei due terzi; prevedere una base di consenso più ampia per il neoeletto significava rendere più saldo il suo potere. Venne inoltre definitivamente negato qualsiasi ruolo al popolo. Il matrimonio tra il figlio di Federico I, Enrico, e la principessa normanna di Sicilia Costanza, figlia di Ruggero II, rappresentò una nuova e assai grave minaccia per il papato, lasciando intravedere una prossima riunificazione dei possessi imperiali con il regno dell'Italia meridionale, principale vassallo di Roma proprio contro i monarchi tedeschi. Enrico VI, incoronato imperatore nel 1191 dal papa Celestino III e re di Sicilia dall'arcivescovo di Messina tre anni dopo, avviò subito negoziati con il pontefice per ottenere il riconoscimento della propria successione nella persona del figlio Federico (il futuro Federico II), per il quale si chiedeva l'unzione a re dei romani, un titolo che ne avrebbe legittimato il potere nella penisola italiana e che sarebbe risultato propedeutico a una sua quasi automatica ascesa alla carica imperiale. Celestino si dimostrò riluttante, non volendo consolidare il potere svevo in Italia. Tra il 1197 e il 1198 morirono, a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro, sia l'imperatore sia il papa e al soglio di Pietro salì una delle figure che si sarebbe rivelata tra le più significative del papato medievale: Lotario dei Conti di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216). 2. IL TRIONFO DELLA SUPREMAZIA PAPALE Poiché l'erede di Enrico, Federico, aveva solo tre anni d'età, in Germania si scatenò subito una lotta per la successione tra Filippo di Svevia, fratello del defunto imperatore, e Ottone di Brunswick; Innocenzo III, divenuto tutore del piccolo Federico e signore del regno di Sicilia per volontà di Costanza (a sua volta deceduta nel 1198), venne a trovarsi in una posizione di assoluta centralità nel gioco politico in corso, potendo mirare a condizionarlo pesantemente secondo i propri disegni grazie pure alla poderosa macchina di governo che la sede romana vantava, per radicata cultura giuridica ed efficienza delle strutture amministrative. Il papa si dedicò innanzitutto a migliorare la propria macchina burocratica riorganizzando gli uffici di curia, riformando l'amministrazione civile della città di Roma e del territorio dipendente, collocando suoi uomini di fiducia in tutti i principali uffici. Si preoccupò anche di recuperare le terre che il papato rivendicava come appartenenti al patrimonio di san Pietro e che gli erano state sottratte nel corso del tempo dalle forze signorili locali e dallo stesso imperatore. Il papato incrementò anche la propria disponibilità finanziaria, mettendosi così in grado di sostenere le crescenti spese per l'amministrazione dei suoi domini e per gli impegni della grande politica internazionale. Il pontefice incassava da diverse fonti: gli spettavano censi e fitti in quanto signore territoriale, tributi dai sottoposti in veste di sovrano, proventi dall'esercizio delle diverse cariche ecclesiastiche e dai beni delle chiese locali, gettiti da specifici fenomeni cultuali come le pratiche di devozione ai santi. Per raccogliere e amministrare il flusso delle entrate vennero sviluppati gli uffici finanziari a cominciare da quello centrale, la cosiddetta camera apostolica, retta da un camerlengo. Innocenzo III (che aveva studiato diritto a Bologna, oltre che teologia a Parigi) fu anche il primo papa a pubblicare una raccolta ufficiale di diritto canonico, dal momento che le precedenti erano frutto di iniziativa privata, come quelle prodotte nella seconda metà del XII secolo. Dopo un'iniziale cautela, Innocenzo si schierò con Ottone di Brunswick, in cambio dell'impegno di costui di rinunciare ai diritti sull'Italia, e lo incoronò imperatore in seguito alla morte violenta di Filippo di Svevia; ma il nuovo monarca si sottrasse presto agli accordi e cercò anzi di occupare dei territori papali, in Romagna, nelle Marche e in Umbria. Il pontefice fu costretto allora a scomunicarlo e a mutare strategia, riconoscendo i diritti di Federico, che nel frattempo era stato eletto re di Sicilia e poi re di Germania e che si era impegnato con il suo tutore a non trasmettere a un unico erede i due regni e a garantire i territori del patrimonio romano. Nel 1204 Innocenzo II convinse un buon numero di signori dell'Occidente a impegnarsi in una crociata che finì con l'aggredire l'impero cristiano di Bisanzio, eretico dal punto di vista cattolico romano dopo lo scisma del 1054→ esportazione delle strutture ecclesiastiche romane e dello stesso primato del papa anche sui territori ortodossi, malgrado le tenaci resistenze del clero e delle popolazioni locali. Il pontificato di Innocenzo III si caratterizzò pure per il grande impegno profuso contro ogni forma di dissenso religioso. Lungo i secoli XI e XII la cristianità occidentale era stata agitata da diffusi e profondi fermenti spirituali, che si erano manifestati presso tutti gli strati del corpo sociale, coinvolgendo soprattutto i laici, e che si erano espressi in una notevole varietà di dottrine, di atteggiamenti, di movimenti più o meno organizzati ed estesi, i quali avevano di norma incontrato la forte diffidenza, se non subito l'aperta condanna, delle istituzioni ecclesiastiche→ polemica contro la ricchezza della chiesa, il suo esercizio del potere temporale, l'indegnità morale di buona parte del clero e la pretesa di questo di essere l'interprete esclusivo della parola di Dio. I papi si preoccuparono innanzitutto di stabilire che erano da considerare eretiche tutte le credenze e le condotte non conformi con quanto stabilito dal papato, unico metro certo dell'ortodossia cristiana, e di pronunciare poi condanne ufficiali e solenni delle dottrine eretiche attraverso i deliberati dei pontefice nel concistoro, dirigevano i principali uffici della curia e operavano quali legati, incaricati di tutti gli affari più importanti. Malgrado ciò, nel medesimo periodo i papi riuscirono a consolidare la propria posizione al vertice della chiesa. Ai vescovi venne anche fatto obbligo di recarsi personalmente a Roma a intervalli regolari, per la cosiddetta visitatio liminum apostolorum; con simili misure i pontefici segnavano la propria vittoria sull'episcopato, che per tutto l'alto medioevo e fino alla stagione della cosiddetta lotta le investiture era stato un loro fiero antagonista. Inoltre, lungo il XIII secolo, e con ulteriori sviluppi nel successivo, si andò perfezionando quella macchina burocratica unica per complessità ed efficienza in tutto il mondo occidentale del tempo che era la curia romana. Fra il Duecento e il Trecento si mise anche mano alla codificazione del diritto canonico, a completamento di quanto fatto dal tempo del Decretum di Graziano fino agli interventi in materia di Innocenzo II. Nel 1274 papa Gregorio X (1271-1276) convocò a Lione un concilio nel quale, fra l'altro, decretò l'unione della chiesa latina e di quella greca, incontrando però la ferma opposizione di quest'ultima, tanto che l'iniziativa andò a vuoto. Il pontefice chiedeva con tale atto il riconoscimento del suo primato anche in Oriente in cambio della tolleranza romana verso la diversità della liturgia greca, argomenti evidentemente inaccettabili per gli ortodossi. Il concilio di Lione rese pure obbligatorio il conclave per i cardinali in occasione dell'elezione del papa, istituzionalizzando quanto avvenuto per motivi contingenti nel 1241 con Celestino IV. Il papato confermò in tutto questo periodo la propria vicinanza alla Francia, sostenendo la presenza degli Angioni nel Mezzogiorno e le loro velleità mediterranee, anche contro il risorto impero bizantino di Michele VIII Paleologo. Quando la Sicilia, in seguito alla cosiddetta guerra del Vespro del 1282, si diede a Pietro III di Aragona in chiave antiangioina, il Martino IV (1281-1285) (che era francese) lanciò l'interdetto sull'isola, scomunicò il re Pietro e lo dichiarò deposto. Morto nel 1292, Niccolò IV, il primo francescano a essere diventato pontefice, e rimasta quindi vacante per due anni la carica, venne infine eletto papa, a sorpresa, con il nome di Celestino V, l'eremita Pietro da Morrone, un uomo di alta spiritualità ma del tutto inesperto e inadatto a svolgere funzioni di governo; infatti, dopo appena cinque mesi egli fu convinto ad abdicare. A succedergli venne chiamato un personaggio dai tratti esattamente opposti, il cardinale Benedetto Caetani, proveniente da una famiglia dell'alta aristocrazia romana, che assunse il nome di Bonifacio VIII (1294-1303). I problemi principali si verificarono però nei confronti del re di Francia Filippo IV il Bello, il monarca che più di tutti era uscito rafforzato dalle vicende politiche continentali degli ultimi decenni. Oggetto del contendere era il diritto rivendicato dal re di tassare il clero francese e di esercitare la giurisdizione sugli ecclesiastici del regno, facoltà che Bonifacio negava decisamente, attribuendola a sé e sostenendo che un sovrano non poteva agire in questo senso se non chiedendo l'autorizzazione al papa. Filippo replicò espellendo gli esattori papali e bloccando i flussi di oro e di argento diretti a Roma, fino a mettere sotto processo, nel 1301, per tradimento, simonia ed eresia il vescovo di Pamiers, una diocesi di nuova fondazione su iniziativa del pontefice. Nell'anno 1300 Bonifacio VIII proclamò un grande giubileo, il primo della storia, concedendo l'indulgenza plenaria a quanti in quei mesi si fossero recati in pellegrinaggio a Roma. Con questo gesto il papato intendeva celebrare il proprio fasto, riproponendosi quale centro indiscusso di tutta la cristianità, proprio mentre l'istituzione era sottoposta ad attacchi violentissimi, dall'esterno, ma anche da ambienti interni alla stessa chiesa. Bonifacio, dopo aver vanamente prodotto una prima bolla rivolta a Filippo IV perché si ravvedesse (Ausculta fili, del 1301), ne emanò presto una seconda, l'Unam sanctam del 1302, che, recuperando e sintetizzando tutta la tradizione del pensiero papale in materia, affermava ancora una volta con la massima solennità, e con toni ormai palesemente anacronistici, il principio del pontefice come capo unico e supremo della società cristiana e detentore di entrambe le spade in quanto vicario di Cristo, al quale dunque ogni cristiano, compresi i re, era tenuto a sottostare se voleva salvarsi. Nel settembre del 1303 il re inviò in Italia una spedizione guidata da Guglielmo di Nogaret, la quale, unitasi ai Colonna in cerca di rivincita, arrestò Bonifacio nel suo palazzo di Anagni e ne chiese l'abdicazione. Bonifacio riuscì a fuggire dalla prigionia e a riparare a Roma, ma dopo appena un mese morì. 2. I PAPI AD AVIGNONE Già il successore di Bonifacio VIII, Benedetto XI, rimasto in carica solo per alcuni mesi, si adoperò per ricucire lo strappo con il regno di Francia, e perciò ritirò l'interdetto e la scomunica contro Filippo il Bello e si riappacificò con i Colonna. Alla sua morte venne eletto papa, con il nome di Clemente V (1305- 1314), un francese, l'arcivescovo di Bordeaux Bertrand de Got. Una volta eletto, Clemente V, pur dichiarando di voler raggiungere quanto prima Roma, continuò a dimorare in Francia e nel 1309 pose la propria residenza ad Avignone, con una scelta che non rispondeva ad alcuna precisa opzione strategica, ma che era dettata solo da motivi contingenti; tuttavia, la città francese rimase sede papale per ben sessantacinque anni, fino al 1374. Avignone conobbe allora un notevole sviluppo urbanistico ed economico, dotandosi delle infrastrutture necessarie per far funzionare la curia papale, a cominciare dalla costruzione di un palazzo per la residenza del pontefice. I papi di Avignone, sette nel complesso e tutti francesi, resero palese, dopo le ostentate velleità universalistiche del pontificato di Bonifacio VIII (rivelatesi un anacronismo), l'avvenuto ripiegamento dell'istituzione pontificia trecentesca in una dimensione dalla ridotta visione strategica, che veniva diffusamente, e inevitabilmente, colta dagli osservatori contemporanei come appiattita sulle posizioni del regno di Francia. Nel 1356, Carlo IV di Boemia, incoronato imperatore dal cardinale vescovo di Ostia su delega del papa, emanò il documento noto come Bolla d'Oro con il quale si introdusse il principio secondo cui il re di Germania aveva sin dal momento stesso della sua elezione il diritto di venire incoronato imperatore dei romani, negando quindi ogni ruolo significativo del pontefice in tale processo. La città di Roma aveva subito un grave danno, oltre che per il diminuito prestigio, soprattutto sul piano materiale a causa del trasferimento del papa in Francia: l'interruzione del flusso di denaro che la presenza del pontefice aveva sempre garantito causò un rapido declino economico e il degrado delle stesse strutture urbane. 3. IL RIENTRO A ROMA E LO SCISMA Nel 1367 Urbano V (1362-1370) fece un temporaneo rientro a Roma (scegliendo come propria dimora il Vaticano anziché il tradizionale Laterano), ma ben presto se ne tornò in Francia, adducendo come pretesto per tale ripensamento i pericoli legati all'imperversare nel Lazio della malaria. Il definitivo reintegro del papato nella città di Pietro avvenne nel 1377 con Gregorio XI (1370-1378), il francese Pierre-Roger de Beaufort, incalzato dal precipitare della situazione in Italia: nelle regioni pontificie erano scoppiate diverse rivolte, alimentate dalle principali potenze peninsulari (Milano, Napoli, Firenze) che miravano ad approfittare della situazione di instabilità per estendere la propria egemonia su quei territori. Nel 1378 il napoletano Bartolomeo Prignano, già arcivescovo di Bari, fu il primo papa a essere nuovamente eletto a Roma dopo la parentesi avignonese, prendendo il nome di Urbano VI (1378-1389). Forse anche per l'energia con la quale egli si mise a correggere i molti abusi di cui la chiesa si trovava gravata, il pontefice si guadagnò subito l'avversione dei cardinali francesi, che ripararono sotto la protezione della regina Giovanna a Napoli, dove si fecero raggiungere dal resto del collegio per procedere a una nuova elezione, sostenendo che quella di Urbano era nulla in quanto condizionata dalle intimidazioni e dai tumulti del popolo di Roma, che, a loro dire, aveva imposto con la violenza la scelta di un candidato italiano. Riunitisi a Fondi i cardinali elessero Roberto di Ginevra, il comandante della guerra contro Firenze e della repressione a Cesena, che assunse il nome di Clemente VII e si trasferì ad Avignone. Papa e antipapa si scomunicarono a vicenda e la loro competizione produsse una grave spaccatura della chiesa e dell'intera società cristiana, che si divisero nel riconoscere chi l'uno e chi l'altro dei due contendenti. Lo strumento adatto per poter ricomporre lo scisma era un concilio generale, ma la sua convocazione doveva essere iniziativa del papa e in questo frangente i
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