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Riassunto "Il processo penale" di Giorgia Alessi, Sintesi del corso di Storia Della Giustizia

Riassunto esaustivo del libro di storia della giustizia di Giorgia Alessi

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto "Il processo penale" di Giorgia Alessi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Giustizia solo su Docsity! I: GIUDIZIO: DEI DELITTI E DELLE COMPOSIZIONI Tra VI e VII secolo, su ambedue le sponde della Manica, nuove prescrizioni si sovrapposero a più antiche pratiche di soluzione dei conflitti, senza per forza cancellare le precedenti quali la vendetta e l’esclusione del colpevole: la logica dello scambio vendicatorio imponeva di ricambiare il sangue con il sangue per riaffermare il legame familiare e soddisfare la vittima. Un aspetto di cui non possiamo non parlare è l’introduzione dell’autorità dei conflitti, non più affari riguardanti i singoli soggetti e il loro gruppo familiare (tu mi fai X io rispondo con Y), pertanto, nell’indicare le nuove forme del giudicare e punire che segnarono la distanza tra il tempo storico dell’alto Medioevo (inteso come pagano/magico e comunitario) e quello assai diverso ormai regale e cristiano (tanto dei re Merovingi quanto dei longobardi e anglosassoni) significa inseguire le tracce di una progressiva intrusione dell’autorità nei conflitti. Per realizzare questi obiettivi, i re Cristiani, da Clodoveo a Liutprando a Carlomagno, sostituiscono agli antichi tabù (sangue, culto de morti, lealtà guerriera…) quelli della disobbedienza, dello spergiuro e del sacrilegio: il comando penale viene legato a specifici obblighi di inviolabilità relative agli individui come uomini del re, legati anche ad obblighi di fedeltà nei confronti, soprattutto, della chiesa. Non stupisce pertanto che i Capitolari carolingi, nell’VIII secolo, esprimessero l’equazione tra delitto capitale e offesa al re, lentamente costruita nei secoli precedenti. Un esempio è il Capitolare di Carlo Magno, nei confronti dei Sassoni: “se qualcuno viene riconosciuto infedele al nostro signore, il re, sia punito con la pena di morte”. Sulla scia di questo, e soprattutto degli obblighi di fedeltà, nel momento in cui ci si rifiuta a presentarsi in giudizio (contumacia) ecco che si va incontro la legge. Fu la cosiddetta legge salica ad aprire, nel V secolo, la lunga secolare lotta contro l’assenteismo, prescrivendo contro colui che non si fosse presentato in giudizio un reato di infedeltà nei confronti del re, con conseguenze negative, tra cui la confisca dei beni: la sua assenza lo poneva al di fuori della protezione del Re. È interessante notare come gli studi dedicati all’amministrazione della giustizia tra VI e X secolo sottolineino costantemente la difficoltà, per i poteri territoriali, di far rispettare questi giudizi. Come risposta si avranno sanzioni severe e specifiche per assicurare tale scopo. uno strumento tipico, non soltanto delle aree germaniche ma anche di quelle inglesi era la fissazione di un luogo ai fini di un eventuale convocazione giudiziaria, coi parenti garanti della scelta (nel IX secolo, Aethelstan, re degli Anglosassoni, obbligava ciascun uomo a ciò). Nel caso di mancata comparizione l’assente doveva considerarsi fuori dalla protezione della legge e chiunque avrebbe potuto ucciderlo impunemente. Si andava così creando un edificio del penale sicuramente fortificato, ma debole nella misura in cui non riusciva a coprire una topografia ampia, in particolar modo nelle zone dell’Europa Rurale, ormai abituate a regolare i propri conflitti mediante le forme vendicative in due modi: 1) facendo riferimento alla giurisdizione del signore prossimo; 2) incontrando la giustizia regia nei viaggi nei luoghi del conflitto degli uomini del re. Il Re cristiano, consapevole del proprio prestigio, in una maniera quasi transnazionale cerca di sostituire allo scambio vendicatorio, senza alterarne la logica, uno scambio tra offesa e denaro. Non è un caso che già a partire dal VI secolo l’offesa di denaro costituisca una consuetudine senza che l’autorità lo rendesse obbligatorio. Ovviamente non mancano resistenze, veri e propri topoi letterari scandiscono la storiografia: non solo casi islandesi ma anche dell’Italia. Resistenze che in realtà traspaiono anche nella continua reiterazione delle misure tendenti a limitare la vendetta nella legislazione dei Franchi e dei Longobardi, così come nei Capitolari carolingi: nel 968, Ottone I, per arginare la pratica della vendetta, tentava di regolamentare con maggior cura il duello giudiziario, istituto in vita ancora alla fine del secolo XI in alcune aree centro italiane. Sta di fatto che, negli ordinamenti giuridici altomedievali avevano una funzione centrale gli elenchi minuziosi di comportamenti, danni, offese e delle somme da versare (compositiones) per allontanare la vendetta. L’ammontare delle composizioni rifletteva la gravità e la posizione sociale della vittima: per esempio, nella lingua del diritto Germanico il valore massimo della composizione corrisponde al wergeld (il prezzo dell’uomo libero), la somma andava pagata per intero alla famiglia della vittima in caso di omicidio; ferite minori potevano essere compensate con frazioni; somme ancora più minori riscattavano l’omicidio e le offese di vario tipo alle donne, contadini, semiliberi, schiavi. La letteratura delle composizioni rivela così, nelle legislazioni franca e longobarda, il quadro puntiglioso delle gerarchie sessuali e sociali, che si riflettono altrettanto nella legge salica (dove il wergeld ammontava a 100 soldi così come nella legge longobarda dove, ad esempio il porcarius, un ruolo sociale molto rilevante, aveva un prezzo alto, in vista di eventuali composizioni, rispetto a quello degli altri servi). All’interno dell’universo dell’ordinamento franco, in caso di mancato pagamento del wergeld, il debitore diveniva schiavo della famiglia della vittima che concretamente poteva metterlo a morte. Ovviamente una delle offese non era riscattabile: quella alla persona o ai familiari del re, e soltanto la morte poteva riscattare l’oltraggio al Sovrano. Questo portò ad una sacralità della persona del Re, come base nella sfera del penale. Anche qualora il danno non toccasse direttamente e personalmente il sovrano, non sempre l’intera somma doveva essere versata alla vittima, ma una parte doveva essere versata al re: il cosiddetto fredo, presente anche nella lingua del diritto anglosassone. Alle soglie del IX secolo una ragnatela fittissima di elenchi avviluppa ormai gli uomini dell’Europa cristianizzata, dalle foreste della Gallia al regno visigoto di Toledo, dal ducato Longobardo di Benevento alla Northumbria degli Anglosassioni, liste minuziose dei soldi da pagare per ciascun danno o offesa con altrettante: 1) liste delle pene che sanzionavano la disobbedienza o l’indulto al re e ai suoi funzionari o i delitti di questi (così si apriva già alla metà del VII secolo l’editto di Rotari minacciando pene capitali o mutilative ai funzionari regi indegni); 2) Penitenziali (comparsi nell’Irlanda del VI secolo, raccomandati, ad esempio da Carlo Magno: libri dei peccati e delle penitenze); 3) elenchi dei comportamenti che esponevano il colpevole al pericolo della scomunica (attraverso un adattamento delle antiche pene di esclusione, la Chiesa metteva a segno uno dei più formidabili congegni di controllo medievale e moderna, incentrato sull’utilizzo della minaccia: dà la possibilità di convertirsi, attraverso l’utilizzo della fede, ma se non lo si fa minaccia l’accusato, facendo troncare inesorabilmente il legame sociale con la comunità dei fedeli, l’anathema (anche qui conta la gerarchizzazione dei delitti e dei peccati). Ancora lontano il primato dell’eresia, le ipotesi maggiormente sanzionate erano il rifiuto di convertirsi, l’insulto a soggetti di alto rango, il mancato pagamento dei tributi o delle decime ecclesiastiche. Sta di fatto che, in questo universo epistemologico caratterizzato da scontri di potere, convertire il popolo di Dio ad una legislazione imposta dall’alto non era stato affatto facile. Rimanevano inimicizie, rifiuti al pagamento delle composizioni, ostinate negoziazioni dell’offesa e rimaneva, soprattutto il rifiuto a presentarsi davanti ad una corte. L’introduzione del giudizio, posto a cavallo tra la vendetta inestirpabile e la spontanea composizione, cambiò tutto: un giudizio che veniva fatto da un uomo esercitante la giurisdizione luogo, pubblico, orale e ritualistico: le parti vanno dinnanzi alla corte, ognuna di queste espone pretese e dinieghi, accusa e difesa. Potevano essere anche indicati eventualmente elementi di prova offrendo di rafforzarli con il proprio giuramento (elemento centrale), o chiedendo al giudice di imporre un giuramento alla parte che li negava. Solo a quel punto il giudice decideva le procedure di prova da imporre ad una o ambedue le parti: questa solenne sentenza di prova costituiva l’atto centrale di tutto l’iter giudiziario. Ad esempio: in alcune pratiche, i compurgatores chiamati a rafforzare il giuramento dell’accusato o dell’accusatore pronunziavano esattamente le formule, se i carboni accesi risparmiavano il corpo di colui che era costretto a purificarsi e le acque non lo respingevano come reietto, se il duello era vinto allora il vincente era anche il pio, segno di una favorevole pronunzia divina in proprio favore. Una logica che torna spesso è quella della natura di giudizio divino: la famosa ordalia (giudizio divino richiesto/presente in sentenze giuridiche e praticato in varie forme) torna spesso e investe ogni aspetto del giudizio: la si ritrova nel momento del giuramento (lo spergiuro avrebbe, prima o poi, attirato sul colpevole l’ira dell’onnipotente); la si ritrova anche nella legge Salica del 510 (prima testimonianza dell’applicazione giudiziaria dell’ordalia con l’applicazione della prova dell’acqua calda); la stessa prova appare nel diritto irlandese, nell’ordinamento dei Sassoni occidentali, dei Frisoni e dei Longobardi. assenza di un accusatore. In quel caso, il chierico convocato non poteva addurre testimoni ma soltanto discolparsi con un giuramento. L’intero procedimento aveva come scopo quello di costringere il diffamato a “purgarsi” e, se si fosse rifiutato, avrebbe potuto essere deposto. A partire dall’epoca Carolingia la tendenza cominciò ad essere più “globale” (ad esempio con giuramenti di gruppo) poiché, in una società fondata sui giuramenti, la Chiesa e il clero non potevano più ignorarli. Il giuramento era utile, perché permetteva l’intervento sempre più massiccio della figura vescovile: data la difficolta ad avere accusatori, sostituendo questi ultimi, richiesti dalla tradizione germanica (ma anche romana) venne in qualche modo sperimentata una ricerca dei peccati della comunità, e una procedura di accertamento delle colpe dei fedeli, che prescindesse da ogni iniziativa “privata”, tanto del colpevole che dell’eventuale accusatore denunziante. Durante la visita alle parrocchie, il vescovo, circondato da sacerdoti e dal popolo, convocava sette persone della parrocchia, costringendole sotto giuramento a rivelare ogni delitto rispetto alla disciplina ecclesiastica di cui fossero conoscenza: il peccato di ciascuno diveniva peccato della comunità, lesione non più solo di una norma etica ma anche giuridica. I giuramenti imposti alla comunità erano due: uno più breve agli abitanti della parrocchia (ai quali si chiedeva fedeltà); uno, più solenne e impegnativo, al gruppo scelto di testimoni, incaricato di compiti d’accusa. Con il giuramento di gruppo, e le sue diversissime applicazioni anche sul fronte laico, emerge dai riti decisori di tradizione germaniche l’indagine giudiziaria fondata su testimonianza che in realtà attestino l’esistenza di fatti e non la credibilità del soggetto. In questa forma di ricerca dipenderanno in larga misura due elementi: l’uso della scrittura e la costruzione di una gerarchia delle prove e delle sequenze del giudizio ad opera dei giuristi, dottori delle rinascenti scuole di diritto. II: INCHIESTA: I GIUDICI ITINERANTI Ancora sino al XIII secolo, giuramento purgatorio, ordalia e duello scandirono i giudizi delle corti. Uno spartiacque può essere segnato, alla fine dell’XI secolo, dalla riscoperta dei Digesta, libri che contenevano il tesoro della giurisprudenza romana classica, che aprì nell’intera Europa una nuova stagione per lo studio del diritto. Non valse certo a decretare l’improvviso tramonto del sistema ordalico e compositivo. Difatti, nonostante le dotte letture dei giuristi, le procedure tradizionali avevano largo spazio nell’intera Europa: basti pensare che la stessa contessa Matilde di Toscana, pur vicino a giudici che si fregiavano del titolo di legis doctores, aveva imposto, in un placito tenuto nel 1098, il ricorso al duello giudiziario. In anni vicini, nell’Inghilterra anglo-normanna, l’accusato di un furto di bestiame poteva difendersi attraverso il duello, se non aveva prove a difesa da addurre. Ovviamente, questo non era consentito ad un accusato di cattiva fama. In quel caso si utilizzava la tripla ordalia: il ferro rovente da afferrare per la dimostrazione dell’innocenza sarebbe stato tre volte più pesante di quello normalmente usato. In ogni caso, in buona parte d’Europa la tendenza era quella di mantenere il duello per i nobili. Tuttavia, in particolare tra IX e XII secolo, vennero sperimentate su ambedue le sponde della Manica forme di accertamento lontane dalle logiche del giudizio ordalico: con sempre maggior frequenza i soggetti, intesi chiaramente di buona fama, che abitavano le regioni a nord e a sud dei Pirenei, Île-de-France, Normandia, Normanni di Sicilia e di Inghilterra furono convocati d’autorità per essere interrogati, sempre sotto giuramento, su importanti questioni che, oltre a toccare crimini legati a terrà e diritti di lesa maestà, diritti fiscali, possessi terrieri, confini di proprietà, stati servili o libero degli abitanti. Le domande riguardarono anche la criminalità: i delitti occulti, di violenza collettiva, i casi delicati di omicidio. Il carattere soprannaturale, se così vogliamo definirlo, rimaneva ma si esplicava soltanto nel momento del giuramento di gruppo. Questo tipo d’indagine escludeva dunque il ricorso al soprannaturale e agli esperimenti sui corpi. Il giuramento collettivo, così come l’obbligo a deporre sui fatti, costituiscono i lineamenti comuni di un diverso modo di indagare che va sotto il nome di inquest, inquisitio, enquete, pesquisa, ed era basata su una testimonianza che si allontanava tanto dai compurgatores della tradizione germanica quanto dai testes del processo romano classico (individui singoli citati a deporre in giudizio su richiesta delle parti). Nata sul terreno dell’accertamento fiscale, l’inchiesta costruì lentamente una forma generale del conoscere tipica della cultura medievale. Nei secoli della sperimentazione altomedievale, tuttavia, ordalia e inchiesta non costituirono affatto sistemi paralleli, ma s’intrecciarono variamente, tant’è che, ancor prima dell’interdetto Papale contro i giudizi di Dio (1215), troviamo una richiesta volta a ridurre l’applicazione dell’ordalia a casi insolubili ed esemplari, ai soggetti di cattiva fama e di bassa estrazione sociale e ai recidivi. Per quanto concerne l’inchiesta, una buona analisi a livello diacronico può partire dal periodo Carolingio, in particolar modo dalla raccolta Capitulare De Missis, uno dei più ricchi racconti sull’inchiesta altomedievale: conteneva precise istruzioni per i missi dominici, gli illustri signori inviati da Carlo Magno a controllare territori e funzionari lontani dalla corte palatina: alti dignitari, designati direttamente dal re, che costituirono una figura parallela a quella dei conti che presiedevano, in riferimento all’antica tradizione franco-germanica la corte di giustizia tradizionale, il cosiddetto malleus. In realtà, sarebbe opportuno affermare che già nuove figure di giurisperiti, chiamati scabini, avevano integrato come giudici permanenti la composizione di queste corti (in cui ancor prima troviamo addirittura la figura dei rachimburgi). Una simile strutturazione prevedeva altresì un parallelismo da un punto di vista processuale: il conte continuava a gestire gli antichi mezzi di prova, i meccanismi delle composizioni e delle faide; i dignitari del re condussero accertamenti su delitti controversi, utilizzando il metodo dell’inchiesta; i missi si occupavano di tutti quei casi che andavano gestiti direttamente dalla corte regia. Si ha questa suddivisione perché Carlo Magno ampliò il diritto della declamazione franca: il diritto di spostare il processo dalla corte popolare a quella regia, quando fossero in gioco i diritti fiscali del re. I missi, in genere un laico ed un ecclesiastico, si recavano sui luoghi in cui la controversia o il sospetto di malversazioni erano sorte. Qui si svolgeva l’inquisitio basata sulle testimonianze giurate degli abitanti del luogo; una volta fatto ciò, i missi decidevano se convocare questi dinnanzi alla corte regia (il tribunale palatino) o decretare sui luoghi. Va da sé che la trattazione al tribunale palatino fosse obbligatoria negli affari che coinvolgessero abati, vescovi e grandi vassalli. I giurati, talvolta scelti in maniera ristretta, talaltra al contrario scelti dal popolo. Il giuramento obbligatorio era al centro dell’indagine, risuonando minacce e ammonizioni che portarono a riferire anche una fedeltà al re. Si sanzionò la menzogna con il più terribile degli anatemi, l’esclusione dalla comunità. Carlo Magno aveva stabilito che, se un signore avesse rifiutato di rendere giustizia, il conte e il missus avrebbero dovuto insediarsi nella sua casa per assolvere questo compito vivendo delle sostanze dell’indolente sino a che giustizia fosse fatta. Non sempre i missi furono estranei ai territori dell’indagine (ad esempio, i missi del regno normanno di Sicilia furono “signori” dello stesso distretto). L’inquisitore, in linea di principio delegato regio, in pratica divenne la rappresentazione del potere locale esistente. Il carattere della prerogativa regia venne attenuato ulteriormente dal regno di Ludovico Il Pio: venne garantito a tutte le chiese che rivendicassero l’acquisizione del titolo su una terra in base all’esercizio trentennale del possesso la facoltà di ricorrere all’inquisitio. La distanza tra luoghi della missione e corti centrali impose il tema della memoria: nell’inchiesta, andando anche ben oltre il modello carolingio, il rapporto tra oralità e scrittura cambiò: fu ora questione di conservare la raccolta dei dati. resoconti puntuali delle deposizioni che mutarono inevitabilmente anche il giudizio stesso, in particolar modo le figure del giudizio: se fino a quel momento vi era una separazione tra chi pronunziava la decisione e chi trovava le regole che determina ragioni e torti, ora ci si organizzava intorno al compito di selezionare e verbalizzare i fatti. Ovviamente, con una stratificazione delle procedure, a seconda del tipo di conflitto (per esempio nella Francia carolingia i documenti che conservano tracce di giudizi e di inchieste ci narrano soprattutto controversie sulla terra, su benefici e immunità) mentre si ha un forte silenzio sulle violenze private, il che ci permette di riflettere che per ancora per lungo tempo in realtà nell’intera Europa la variabile più importante per i modi di soluzione varia a seconda del modo in cui si approccia all’istituzione pubblica giuridica, dato che c’era ancora chi negoziava privatamente. Il ricorso all’inchiesta, pesquisa, si registra anche in Spagna, in particolar modo nella Spagna di tradizione visigota ed è continuamente richiamata nelle sue variabili, dai fueros, le carte municipali dei diritti che si moltiplicarono a partire dal IX secolo. Va specificato che nel Leon e in Catalogna dove Il liber Judicum, antica compilazione dei re dei visigoti, continuò ad avere carattere di riferimento, e ordalia e indagine d’autorità vissero per molto tempo accanto. La pesquisa costituì un episodio, una parentesi all’interno dello stesso processo accusatorio. Gli aspetti più interessanti della pesquisa nella Spagna altomedievale consistettero nel potere dispositivo delle parti (ambedue possono scegliere l’utilizzo della pesquisa) e il forte legame con l’istituto della datio judicis, istituto mediante il quale le parti potevano chiedere che la corte o l’assemblea giudiziaria incaricata scegliesse uno o più soggetti, denominati judices, affidando loro compiti precisi nella conduzione del processo. Certo è che in Spagna il primo caso esplicito di richiamo all’applicazione dell’inchiesta sul terreno del crimine fu il fuero di Leon (1017): ovviamente, non mancano le prove tradizionali dell’acqua bollente e del giuramento purgatorio, ma vi è la possibilità di rivolgersi alla pesquisa, nell’accordo di ambedue le parti, le quali potevano anche scegliere di comune accordo il duello. Nel cuore dell’Impero, l’Inquisitio sembrò eclissarsi rapidamente: indagine d’ufficio e testimonianza di gruppo riappaiono nelle cronache a cavallo dell’anno mille in luoghi e spazi diversi; ancora, il periodo successivo alla dissoluzione dell’Impero fu contrassegnato da un’enorme, violenta frammentazione dei poteri e dalla pretesa dei signori di fare di ogni castello un regno, esercitandovi la giustizia sugli abitanti e sui servi. A prova dei percorsi complicati e di come la variazione linguistica sia un segno evidente di cambiamento, ancora una volta può tornarci utile analizzare l’universo semantico di una parola come placitas o iusticies, che nella Catalogna dell’XI secolo divennero sinonimi dei profitti percepiti dal signore feudale per l’esercizio della giurisdizione del proprio distretto. in queste città, e si registra la stessa cosa anche in Francia, lo spazio del giudizio si restrinse enormemente e la minaccia delle pene corporali guardò alla possibilità di riscatto mediante denaro. Se in Spagna si registra ciò, al contrario in terre come quelle di Anjou e Normandia la tradizione dell’inchiesta, grazie alla forza politica dei duchi normanni, sembra essere apparentemente radicata: le tracce di applicazione dell’inchiesta, con il suo nome specifico recognitio, si ritrovano già nell’XI secolo spesso legata all’esercizio della giurisdizione ecclesiastica e sappiamo con certezza che nel secolo successivo le recognitiones disposte attraverso ordini del duca divennero, anche in campo criminale, pratiche comuni. Addirittura, nel 1066, i vincitori normanni d’Inghilterra avrebbero imposto l’inchiesta per la prima volta anche alle indigene popolazioni anglosassoni (si ipotizzava esistesse una preesistente pratica anglosassone, ma appaiono poche documentate). Certo è che i conquistatori normanni d’Inghilterra utilizzarono una serie di inchieste proprio sui luoghi per ridisegnare la mappa dei possessori terrieri, dei benefici e dei titoli, insediandovi i propri fedeli piuttosto che i precedenti occupanti. Difatti, la nuova dinastia introduceva, oltre al duello, pene mutilative e a una folta corte di chierici, il sistema feudale e con esso un legame ancora più stretto tra terra e giurisdizione. Ovviamente, il definire i nuovi confini delle terre significò dunque comporre una enorme carta dei dirtti e degli obblighi degli uomini d’Inghilterra: nasce il Domesday Book, il gigantesco censimento delle proprietà portato a termine nel 1086, preceduto da un’intensa stagione di inchieste, condotte dagli inviati del re all’interno di ciascuna contea. Le terre all’interno di questi contesti sono fondamentali: esse non sono soltanto lo strumento con cui avere rendite, ma diventano esse stesse strumenti di introiti anche attraverso legami con la penalità: ad esempio, veniva accettato il buon diritto di alcuni soggetti di godere delle rendite di diverse terre comprese nel distretto, tra queste rendite vi era anche il diritto di le multe relative ai fatti di sangue, a condizione che vi fosse stato un vero spargimento di sangue e che i soggetti in questione avessero custodito il colpevole sino all’intervento dell’ufficiale regio. In più se il fatto fosse avvenuto di sabato, giorno di mercato, ogni multa tranne quelle derivanti dai delitti di adulterio e furto sarebbe stata incamerata dalle casse regie. Norme di questo tipo si moltiplicarono, oltre che nell’Inghilterra Normanna, anche nella Francia post- carolingia: aumentarono le previsioni di pene corporali o capitali, mentre la composizione mutò segno e natura: non più prezzo versato alla famiglia della vittima per renderne illecita la vendetta, ma la possibilità di riscattare la pena, ricomprare la vita, attraverso il pagamento di una somma di denaro al re, all’abate o al signore. Ciascuna centena, proprio in vista di ciò, venne divisa in gruppi di dieci o dodici uomini legati dall’obbligo di astenersi da ogni tipo di diletto e di denunciare i comportamenti criminosi di ciascuno dei propri membri. In caso contrario ci sarebbe stato per l’intero gruppo una pena pecuniaria, la famosa amerced. Questi garanti di pace avevano anche il compito di dare l’allarme nel caso di delitti o eventi gravi, e nessun uomo libero maggiore di dodici anni poteva sottrarsi all’inquadramento nel gruppo né tantomeno ai compiti richiestigli ad eccezione degli abitanti delle foreste o di alcuni particolari luoghi esenti (chierici), soggetti alle dirette dipendenze del Lord e naturalmente gli stessi signori. Poiché la centena costituiva l’unità di riferimento del frank-pledge, la corte di centena, più che quella di contea, rappresentò, sotto la dominazione normanna e ancor di più sotto quella angioina, l’unità di base per l’esercizio della giustizia criminale (rivendicata ancora tra XIII e XIV secolo quando la giurisdizione sui casi gravi vene in larga misura sottratta alla competenza delle corti). Spicca pertanto una visione complementare di questi organi. L’incastro tra corti e intervento regio venne disegnato, dagli Anglosassoni agli Angioini, attraverso gli elenchi dei placita coronae, meglio conosciuti come “cause riservate alla giustizia del re”. Le ipotesi previste riguardavano originariamente i casi nei quali la corona aveva un interesse proprio da far valere, anche di carattere patrimoniale, per poi diventare una sorta di deposito di tutti i casi rilevanti per la tutela della pace e, su questa via, del diritto criminale in Inghilterra. Sotto il regno di Enrico I, l’elenco delle ipotesi dei placita coronae, risalente ai primi decenni del XII secolo, era ormai assai lungo. Ad apertura del catalogo, si trovano le tradizionali indicazioni offese alla parola, ai palazzi, agli uomini del re. Poi il crimine di cui si macchiava ed infine la previsione, una formula aperta, attraverso la quale si offriva agli uomini liberi dalle contee e dai manors la possibilità di sottrarsi al proprio giudice naturale e ai giudici del re di giudicare una lunga serie di delitti. Decisamente lontano dal diritto romano, questo testo riflette la tradizione del primo Medioevo: vi sono tariffari dei prezzi da pagare alle vittime per ogni delitto, equivalenze tra peccati e penitenze, non mancano riferimenti all’antico sistema del wergeld (plena vera in latino). È altrettanto corretto affermare che, benché il sistema delle composizioni e del wergeld fosse in continuo riferimento, quest’ultimo era ormai al tramonto, dato che punizioni corporali, pene mutilative e pagamenti variabili (amercement) avevano il sopravvento. Tramontò perché Le composizioni fisse indicavano spesso prezzi esorbitanti e la sanzione che in passato le aveva garantite, come la riduzione in schiavitù dell’insolvente, era ormai già dall’avvento dei Normanni largamente desueta. Queste pratiche, però, si opponevano a strategie che fondavano largamente i processi di legittimazione politica che richiedevano i conflitti dinanzi alle corti, pena la sottrazione alla giurisdizione. Spesso, ad esempio nel Regnum Siciliae di Federico II, gli accordi privati in casi criminali furono contemplati come casi d’offesa alla corte e sanzionati con gravi multe. Dalla metà del XII secolo, gli elenchi sempre più ampi e minuziosi dei giudizi del re (cas royales, placita coronae, casos de corte) segneranno, non solo in Inghilterra, il confine tra procedure e corti tradizionali, comunitarie, ecclesiastiche o feudali e le procedure dominate dai giuristi e dalle inchieste del re. Ad esempio in Sicilia, dove Ruggero II re normanno, dalle solenni Assise di Ariano (1140) proclamò la minacciosa sequela delle offese al re con una serie di reati che andavano dalla lesa maestà, all’apostasia, sino all’adulterio. Quasi un secolo dopo, esattamente dopo le Assise di Melfi, lo stesso Federico II avrebbe aggiunto alla lista quattro reati sino allora di competenza ecclesiastica come eresia, bestemmia, usura e spergiuro. Ai giustizieri regi di Federico era riservata la competenza di tutti i reati che comportassero pena di morte o mutilazione. Nell’Inghilterra del secondo Medioevo, dapprima con Enrico I e l’espediente del writ (ordine regio emanato dietro richiesta e pagamento di un soggetto che lamentasse un difetto di giustizia da parte della corte signorile), l’elenco minuzioso dei pleas of the crown, senza cancellare direttamente gli antichi e perduranti riti decisori, rafforzò il potere dei giudici e degli ufficiali regi, che finirono per sostituirsi all’inerzia dei privati. Chiaramente non senza inconvenienti, i racconti delle prepotenze dei giudici e ministri zelanti per amor di denaro sono moltissimi, e con essi l’immagine vivace dell’insofferenza delle comunità per il moltiplicarsi degli interventi degli agenti reali. La sperimentazione dell’inchiesta, nel campo specifico dell’iniziativa penale, risale in Inghilterra al regno di Enrico II (seconda metà del XII secolo), inaugurante la dinastia degli Angioini dopo una serie di sanguinose lotte dinastiche, si trovava a regnare su un territorio molto ampio che toccava ambedue le sponde della manica e bisognava, ad ogni costo, predisporre una rete efficace di ufficiali. Enrico agì con durezza sui giudici stabili di contea, gli ufficiali regi e gli sceriffi: i giudici stabili di contea vennero eliminati nel 1167; l’inchiesta sugli sceriffi, visti come corrotti, portò alle destituzioni di ventidue di essi su ventinove esistenti. I sopravvissuti divennero un tassello della nuova macchina di giustizia messa a punto dall’assise di Clarendon (1164). Al centro del nuovo sistema troviamo da un lato le figure dei giudici itineranti, dall’altro un gruppo di testimoni giurati (chiamati recognitores o jurata), scelti dallo sceriffo all’interno di ciascuna centena, promettevano, attraverso un solenne giuramento, di rispondere alle precise domande dei giudici sui delitti di cui fossero a conoscenza. Le domande poste riguardavano prima di tuto le ipotesi di violazione ai pleas of the crown (diritti fiscali della corona, casi di bando, occultamento di un tesoro, assalto alle strade regie) poi i delitti delle comunità visitate. Tornano, pertanto, in voga i giudici itineranti già sperimentati durante il regno di Enrico I, interrotti con la stagione delle lotte di successione, reintrodotti da Enrico II. Questi giudici, attraverso poi l’assise di Northampton (1176), vennero perfezionati: viene fissato un numero preciso di giudici (18), l’itinerario di ciascun circuito e la lista dei delitti da sottoporre ai giurati delle centene. Vennero inoltre aggiunti altri crimini come la falsificazione di monete e l’incendio doloso. Con l’assise di Northampton venne altresì specificato il potere punitivo dei grandi giudici: tre corti ambulanti composte di tre giudici avrebbero attraverso ogni ano uno dei sei circuiti giudiziari in cui da quel momento venne divisa l’Inghilterra. Inoltre, si stabilì che gli individui inviati a giudizio, se fortemente diffamati, fossero esiliati dal regno nonostante l’esito dell’ordalia. Queste assise tentarono di dare soluzione al problema che affannava a quel tempo gli uomini di Chiesa e di governo, così come gli emergenti giuristi delle corti europee: assicurare la persecuzione dei delitti sottraendola ai timori dei singoli. Sta di fatto che da Clarendon, i giudici del re, grandi dignitari laici ed ecclesiastici, si misero in viaggio perché gli abitanti dei borghi e dei villaggi inglesi assistettero alla celebrazione dalla giustizia del sovrano. Questi giudici (justices in eyre) avrebbero poi deciso (sulla base del presentement dei giurati) se trasmettere agli accusati al giudizio della corte, che si svolgeva secondo i riti tradizionali dell’ordalia, del giuramento e del duello. La memoria di queste visite venne conservata dapprima nel pipe roll, l’archivio regio custode dei documenti rilevanti per gli affari del re; a partire dal 1194 negli eyre rolls, i registri dei circuiti dei giudici. I resoconti annotano spesso la strana formula “accused/ not suspected” o anche “captured/not suspected”: l’espressione indicherebbe i soggetti incriminati da un’accusa privata (appeal) e che tuttavia i giurati della centena non giudicavano probabili colpevoli. Il meccanismo inaugurato a Clarendon influiva, oltre che sul giudizio penale, anche sul sistema di prova tradizionale: v’era una differenza a seconda che esistessero elementi specifici contro i sospettati o soltanto una generica fama (nel caso dei secondi, per esempio, i sospetti dovevano essere confermati e rafforzati anche dal parere dei rappresentanti della citta; in mancanza, la mera fama legittimava soltanto l’inflizione del giuramento purgatorio); forti elementi di consapevolezza, confermati dall’intero corpo della grande giuria, consentivano di sottoporre direttamente alla prova dell’ordalia indiziati che nel periodo precedente avrebbero avuto molte possibilità di liberarsi attraverso il giuramento purgatorio. L’inchiesta, sotto Enrico II, abbraccia la sfera del penale. Negli stessi anni, l’inchiesta mediante recognitores viene applicata al campo del possesso terriero, della legittimazione a goderne. Si sfruttò ancora il meccanismo dei writs (specifici interventi regi ottenibili solo in relazione a tipizzate ipotesi di conflitto). Il corpo dei recognitores, di solito con un numero pari a 12, era scelto per accertare in questi casi quale delle parti possedesse il diritto sulla terra. Anche in questo caso, erano importanti le testimonianze. Diversamente da quanto avveniva per il gruppo dei giurati che presentava i sospetti a giudici itineranti, in questo caso il gruppo di recognitores forniva la prova per la soluzione del conflitto. Dal 1179, le assise di Windsor stabilirono una norma di carattere generale a tutti i liberi possessori di terre: invocando la protezione regia, accettando l’inchiesta dei recognitores, questi avrebbero potuto sottrarsi al giudizio e alle procedure delle corti tradizionali. Da quel momento, non fu più necessario, per tutti gli uomini d’Inghilterra, difendere con il duello la propria terra. Si delinearono così, nel lungo arco di tempo che va dalle assise di Clarendon alle riforme giudiziarie di Luigi IX in Francia (1258), i lineamenti formali della giustizia punitiva alta nell’Europa occidentale d’età moderna. Tra le due date va ricordato il 1215, anno della Magna Charta Libertatum (appartiene comunque al novero dei testi che vivono in qualche modo di vita propria) e del IV conclilio lateranense, che consentì alla fama, sino ad allora possibile sostituto dell’accusatore in specifiche ipotesi di procedimenti disciplinari dalle conseguenze punitive attenuate, maggiore spazio. Inoltre, la prova ordalica venne totalmente delegittimata, attraverso il divieto assoluto fatto agli uomini di Chiesa di benedirne strumenti e simboli. Dopo la recezione del decreto conciliare, fu necessario non soltanto trovare luoghi di custodia per tempi più lunghi e soggetti più numerosi (l’ordalia risolveva rapidamente il conflitto, togliendola chiaramente si allungano i tempi di procedura), ma cambiò anche il giudizio definitivo, con la nascita del petty jury, la giuria di giudizio, composta da laici incaricati i pronunciarsi sui fatti delittuosi, introdotti attraverso l’accusa privata o indictement dei giurati dinnanzi ad una corte. In Europa Continentale, l’inchiesta per l’accertamento per i crimini sperimentava i più diversi aggiustamenti, potendo affermare che l’inquisitio, nella forma romano-canonica non sarà raggiunta prima della metà del XIII secolo. Nelle Fiandre, Il conte Filippo D’Alsazia introdusse, in tutte le importanti città fiamminghe, un istituto per la repressione dei delitti fondato sull’inchiesta. In questo caso, al centro troviamo un gruppo di uomini probi e saggi di ciascuna città, chiamati scabini, sotto la guida di un ufficiale regio (bailiff). La prova era totalmente fondata sull’inchiesta degli scabini. Anche nel caso fiammingo, non manca la lista dei delitti più gravi, rientranti nella giurisdizione del conte (lo stesso Filippo) meritevoli della pena di morte: falsificazione di monete, furto, ratto, omicidio. Nelle ordinanze di Filippo, l’inchiesta degli scabini è concessa alle città come una sorta di privilegio urbano, che sottraeva gli abitanti a prove più antiche e cruente. Sta di fatto che, per tutto il XIV secolo, le città rivendicarono il diritto di dettar regole sulla modalità e la scelta dei commissari/inquisitori che avrebbero dovuto raccogliere le prove delle malefatte. Tra i compiti degli scabini v’era anche quello di curare la riconciliazione tra famiglie implicate nella lunga sequela delle faide. In Spagna, si registra un progressivo allargamento delle liste dei delitti che imposero un’inchiesta aggiungendo ai crimini tradizionali (furto, rapina, omicidio, aggressione) il tradimento, l’occupazione delle strade pubbliche e la violenza carnale. Nella Spagna a cavallo tra XII e XII secolo, i fueros, corpi consuetudinari delle terre e città della penisola iberica, e i documenti relativi ai regni di Alfonso VIII per la Castiglia e di Alfonso IX per il Leon (unificati nel 1230) testimoniano di un uso assai diversificato della pesquisa e delle perduranti preoccupazioni delle comunità cittadine. La redazione per iscritto e il riconoscimento regio ne fecero una sorta di carta, concessa e contratta a un tempo, dei diritti e delle libertà cittadine. In questo quadro, la pesquisa apparve uno strumento offerto alle comunità per contrastare gli abusi dei funzionari regi o l’esplosione di violenze altrimenti difficilmente perseguibili ma, al tempo stesso, l’imposizione pervasiva di una procedura eccezionale che lacerava la tradizione accusatoria privata. Le città tentarono di resistere ad un uso indiscriminato della pesquisa, soprattutto di quella general che pretendeva di passare al setaccio l’intero territorio e i suoi abitanti. Era ancor più preoccupante quella general, perché poteva essere serrada (al contrario di quella rivolta all’accertamento di specifici fatti), segreta e riservata al re e al giudice. In quei decenni sembrò dunque profilarsi un doppio sistema procedurale: quello praticato nelle giurisdizioni locali, che inseriva l’indagine affidata a pesquisidors o inquisitores all’interno della trama accusatoria come un episodio vero e proprio, e quello regio, con un ampio ricorso alla pesquisa ordinata d’autorità con sempre più frequenti applicazioni nel campo della ricerca dei delitti con un crescente uso Divenuto governatore della contea tirolese, Massimiliano I, futuro imperatore (1493), decise d’intervenire nel campo della penalità affrontando il problema degli Absager, contadini che pretendevano di risolvere con la pratica della vendetta (esclusiva degli aristocratici) i propri conflitti, punendo questi ultimi come omicidi. Allo stesso modo, frodo, contrabbando e incetta di grano vennero dichiarati come crimini contro lo stato. Con l’ordinanza del 1499, inoltre, si allargava il potere del giudice sia sotto il profilo dell’apertura delle procedure che su quello dell’inflizione della tortura e, conseguentemente, le figure di giurati, giureconsulti, giurisperiti, esperti di laici che avevano affiancato il giudice vennero ridotti a compiti formali di mera ratifica. Nel 1526, Michael Gaismair, a capo della guerra contadina che incendiava la stessa regione dell’impero, stendeva il progetto di un nuovo ordinamento regionale all’interno della quale spiccava l’utopia di una semplificazione giudiziaria, esemplificatrice della resistenza della comunità alle nuove forme di amministrazione della giustizia. Tema centrale era quello del ricorso alla corte superiore, affrontato qui con grande diffidenza: lo si poteva fare, ma presso il Governo e non più, come propone Gaismair, a Merano. Il confine tra i villaggi tirolesi e Merano (sede del tribunale della contea) segnava due mentalità, da un lato quella pubblica (accusatoria, della Germania tardomedievale, ormai al tramonto), dall’altro quella, in piena affermazione, dominata dalle corti togate, composte da giuristi. Questa utopia di giustizia non aveva un gran futuro, considerando che le grandi ordinanze cinquecentesche s’ispirarono al modello romano- canonico e alla sua procedura colta. Così la Constitutio Criminalis Carolina, promulgata da Carlo V nel 1532; l’ordonnance sur le fait de la justice dell’agosto 1539, con la quale Francesco I confermava le forme straordinarie della giustizia criminale rispetto alla civile; l’ordonnance Criminelle che Filippo II e il duca d’Alba imposero ai paesi bassi spagnoli. Il punto di contatto fra tutti questi è uno: recepirono perfettamente, sia pur con differenze, lo schema inquisitorio del processo e gli istituti che da esso derivano, vale a dire il carattere segreto dell’istruttoria, il perseguimento ossessivo della confessione del reo, la predeterminazione del valore di ciascuna prova nel giudizio e il largo uso della scrittura. Questi elementi, ormai comuni alle procedure continentali, esaltarono il carattere colto e tecnico della procedura, imponendo il ruolo di elementi togati nelle alte corti di giustizia: si sostituisce la giustizia laica con quella togata, con non poche conseguenze sul piano dei costi della giustizia, tant’è che era impossibile coprire l’intera rete locale con giudici adeguatamente retribuiti e istruiti (se consideriamo che nelle corti minori la figura del giudice ignorante era comunque ben radicata), ed era ancora più impossibile sovrapporre la giurisdizione principesca/regia/imperiale a quelle comunitarie o signorili radicate nel territorio e fondate sulle consuetudini. Si evince un quadro in cui spiccano due figure opposte di giudici: giuristi togati, ai quali era il compito di rendere operativi i nuovi sistemi penali, anche attraverso vari strumenti come l’uso accorto delle pene arbitrarie, il controllo delle corti inferiori attraverso gli appelli contro i decreti a tortura, la possibilità di supervisione delle sentenze capitali; la moltitudine indifferenziata, incolta e composita di giudici non giuristi, con la raccomandazione pressante di attenersi alla lettera alle norme, di rispettare, ad esempio, le regole sulla prova, sulle fasi processuali, sui presupposti per l’inflizione della tortura, sulla necessaria presenza di periti per particolari tipi di delitti. Tale compromesso non fu raggiunto con grande facilità, ed è particolarmente evidente nell’ordinanza di Carlo V: con la promessa di non rovinare le vecchie prassi giurisdizionali di ciascuno stato territoriale, in realtà si fece avanzare il diritto romano in modo inarrestabile attraverso l’istituzione, ad esempio, del 1495 del tribunale della camera imperiale (dominato da giuristi romanisti) che avrebbe imposto una recezione pratica del diritto romano, così come gli stessi tribunali camerali, le corti di più alto grado dei maggiori stati territoriali, imposero negli stessi decenni la presenza dei dottori di diritto formati all’ombra della recezione del diritto romano. Ci fu anche una difesa del modello romano-canonico attraverso il famoso articolo 219 che sanciva una pratica già in atto a partire dai primi anni del XVI secolo: quello della trasmissione degli atti, che autorizzava i giudici, in caso di questioni intricate, ad inviare gli atti ad una corte di grado superiore, o al massimo ad una vicina facoltà giuridica o a un collegio scabinale per averne lumi. Nella pratica dei decenni successivi, il parere dei giuristi avrebbe sostituito la sentenza. Espressamente raccomandata per i quesiti di carattere criminale, la trasmissione degli atti contribuì in modo rilevante a rafforzare alcuni tratti di quel modello: il tecnicismo, l’abuso della forma scritta, la lunga durata, e il peso della componente accademica nel diritto tedesco. In realtà la presenza degli scabini appariva nella Germania tardo-medievale come qualcosa di anacronistico. I saggi esperti di diritto che avevano integrato la composizione delle corti tedesche davano corpo all’immagine di una giustizia laica, popolare, fondata più sulla buona reputazione e sulla lunga esperienza che sulla conoscenza del diritto, ma essi avevano poco spazio in una procedura che il sistema di prova penale rendeva dotta. Gli scabini di fatto recitavano una sentenza già scritta, intervenendo durante la tortura, la verbalizzazione della confessione o nella proclamazione pubblica della condanna. La Carolina intervenne anche sulla tortura: al tema delle torture imposte in maniera illegale, l’ordinanza rispose esasperando distinzioni e gerarchie del sistema di prova legale ormai costruito su due serie di indizi e semiprove (sufficienti a tortura), e di testimonianze e prove dirette, sufficienti per la condanna. Impose, oltre che la classificazione degli indizi a tortura, la necessità per i giudici di grado inferiore di ottenere l’assenso di una corte o di un’autorità superiore per poterla infliggere. La tortura, in linea di massima, prevedeva un supplizio che passasse nelle prime fasi all’estremità del corpo (piedi, gambe, braccia), risparmiando il tronco e la testa per evitare il rischio (pericoloso per il giudice e per il processo) di lesioni mortali. Vi erano poi ovviamente corpi immuni (aristocratici, ecclesiastici, giuristi, medici accademici e scienziati, tranne i pratici, farmacisti o cerusici) o di una passeggera fragilità (donne gravide, i minori di dodici o quattordici anni). La tortura era imposta con gradualità: inizialmente si mostravano i marchingegni; nel caso di diniego, cioè di non avvenuta confessione, si denudava il malcapitato e si applicavano ai pollici e alle gambe gli strumenti del tormento senza però infliggere dolore; se non avesse confessato ancora, si sarebbe proceduto ma, ed è il caso della Carolina, si limitava a ripetere la tortura per non più di tre volte, e con dovuti intervalli. La confessione poi esortata doveva essere verbalizzata successivamente, con un minimo distanza adeguata tra il supplizio e l’ammissione della colpa. Non vi erano solo queste pene, ma anche quelle dedicate agli infamati tra cui la gogna pubblica o l’esposizione di un oggetto, o un marchio, che certifichi l’infame. I rischi di un’indagine inquisitoria come questa descritta nella gestione quotidiana delle corti di più basso livello erano evidenti, e questo spiega effettivamente l’esistenza delle vie di controllo e ricorso comune agli interventi normativi del Cinquecento. Il carattere immediatamente politico di queste previsioni fu chiarissimo ai contemporanei destinatari di tali misure: in Germania, i signori territoriali maggiori seppero sottrarsi al riesame della Camera imperiale facendo valere i loro più o meno antichi privilegi, che escludevano ogni intervento di quella corte, per via di ricorso, sulle pronunzie delle corti territoriali. L’appello non vene affatto visto come un segmento della procedura ma, al contrario, come un motivo del conflitto interno alla natura della giurisdizione. Il conflitto verteva tendenzialmente sul carattere originario della giurisdizione: legata al territorio e ai suoi privilegi, da un lato, dall’altro alla sua totale derivazione della sovranità. In Francia, questi due pilastri della codificazione penale del Cinquecento, le corti sovrane e i giudici locali, si profilarono con lineamenti più marcanti nell’Ordinanza di Francesco I (1539). Il carattere nazionale della monarchia francese, e quello regionale dei distretti delle alte corti di giustizia (i parlamenti), permette linee di raccordo più evidenti. Il primo parlamento francese, a Parigi, era divenuto, già dalla metà del XIII secolo un apparato di giustizia autonomo e, dalla fine del XIV secolo, operò al suo interno una camera specializzata nelle cause criminali composta unicamente da consiglieri laici, dato che i componenti ecclesiastici non potevano occuparsi di cause che comportassero pene capitali o afflittive (principio della chiesa che rifiuta il sangue). Competente per un territorio vastissimo, il Parlamento Parigino esercitava la giustizia di appello per tutte le cause del proprio distretto, e giudicava in primo grado, rispetto a particolari materie quali i conflitti tra i grandi signori o i crimini di eresia. Al tempo dell’ordinanza di Francesco I, erano già insediati diversi parlamenti (Tolosa, Bordeaux, Digione, Aix, Rouen), e il richiamo a queste corti rivela il senso complessivo dell’intervento del 1539: creare, attraverso l’ampia possibilità di ricorso assicurata alle parti, un controllo giurisdizionale. Così come in Germania (dove la Carolina mise in stretto rapporto impero e ceti territoriali) in Francia la codificazione francese creò un interlocutore, il magistrato giurista (di formazione universitaria), per giudici e procuratori delle corti di grado inferiore. Anche in questo caso, la possibilità di ricorso e di controllo rafforzava l’esigenza della formazione scritta e della redazione degli atti secondo le complesse istruzioni procedurali dell’ordinanza. Com’era accaduto per gli uomini liberi d’Inghilterra durante il Medioevo, anche i sudditi francesi approfittarono largamente della possibilità di ricorso, soprattutto contro le condanne alla pena di morte e alla tortura, nonostante i costi elevati, le fatiche del trasferimento e le minacce dei giudici delle corti inferiori. Nel tempo, questo reiterato esercizio dell’appello avrebbe condotto alla riduzione dei compiti giudiziari delle corti locali: il fatto che molti richiedessero l’appello portò queste corti ad occuparsi sempre di più semplicemente della raccolta delle informazioni, dei primi elementi di prova e di convalida delle deposizioni attraverso il confronto tra i testi a carico. Questo è confermato già a partire dal 1542 con l’articolo 163 dell’Ordinanza, il quale affermava che tutti gli appelli contro pronunce dei giudici inferiori che avessero comportato condanne a morte o fustigazione dovessero essere discussi direttamente nei parlamenti competenti, saltando quindi i livelli intermedi. Riconfermato poi nella Grande Ordinanza Criminale del 1670 (monumento della procedura continentale d’antico regime), essa avrebbe siflato questa lunga trasformazione introducendo l’appello automatico (di diritto), a prescindere dall’iniziativa del condannato, per tutte le sentenze che avessero richiesto galera, bandi o pene corporali. Contro le corti andranno i legislatori della Rivoluzione francese, perché pensavano che queste avessero prestabilito i segni dell’antico regime. Sta di fatto che la perseveranza dei condannati nel ricorrere all’appello sembrava fondarsi su buoni motivi, perché v’era più di una speranza che il parlamento intervenisse a correggere in senso più favorevole i decreti a tortura o le sentenze troppo dure delle corti inferiori (così come nei processi contro le streghe l’accanimento delle corti locali si rivelava assai più temibile degli interventi più misurati dei Parlamenti). All’inizio del XVII secolo, circa il 50% delle pene irrogate in provincia veniva corretto e commutato dal Parlamento di Parigi. Nel XVI secolo, la procedura francese dava ampio spazio al procureur du roi, figura emergente della giustizia penale. Sino al XIV secolo, il nome designava un appartenente alla gens du roi, il gruppo di consiglieri specializzati nella cura e difesa in giudizio degli interessi patrimoniali della monarchia. Nelle sessioni giudiziarie questi personaggi facevano parte della composita folla degli avvocati e procurati che attendeva la trattazione della causa dinnanzi alla corte e, ancor oggi, il nome parquet, con cui si identifica il corpo dei magistrati dell’accusa in Francia, è un rimando a questa tradizione. Questo compito iniziale si estese successivamente alla tutela della giustizia regia, della sfera penale pubblica, sottratta alla dimensione privata della vendetta, della composizione e del risarcimento. Secondo l’Ordinanza del 1539, la proccedura poteva essere aperta in 3 modi: tramite denuncia di un qualsiasi privato, lasciando al giudice la libertà di procedere o di soprassedere; attraverso la plainte, riservata alla vittima o all’accusatore pubblico, che obbligava il giudice a procedere; o dall’autonoma iniziativa dello stesso giudice. In tutti e 3 i casi la parte privata doveva costituirsi come parte civile. Assente l’inchiesta di polizia, la primissima fase d’indagine e di raccolta delle prove era svolta all’insaputa dell’inquisito, direttamente dal giudice. I risultati di queste prime indagini erano registrati nel dossier, il fascicolo processuale. Questo fascicolo veniva poi trasmesso al procuratore del re che formulava le proprie conclusioni. Ricevuto il verbale con le prime indagini, il procuratore del re si pronunciava sull’apertura formale del giudizio o sull’archiviazione. Nel primo caso, si procedeva all’interrogatorio dell’accusato. Costui apprendeva solo in quel momento l’esistenza dell’indagine a suo carico. Dall’esito dell’interrogatorio e dalla natura del crimine contestato dipendevano le possibilità successive, formalizzate ancora una volta nella richiesta del procuratore al giudice. Nel giudizio, tuttavia, il fascicolo scritto costituì soltanto un punto di riferimento e, non come avveniva nella procedura continentale, una prova conclusa, definitivamente acquisita a carica dell’accusato che doveva affannarsi a distruggerla da una posizione ormai di svantaggio. In Inghilterra appare abbastanza evidente che il rapporto tra magistrature diverse si orientò su una divisione dei compiti piuttosto che sulla revisione delle corti di contea da parte delle corte centrali di Westminster. Per quanto in linea teorica la corte del King’s Bench, a Londra, costituisse l’stanza suprema di revisione per le cause penali, le possibilità concrete di ricorso erano assai limitate, ed è corretto affermare che l’idea di una catena gerarchica dominata dai giuristi di professione fu, nel complesso, estranea al sistema di common law, che oppose per lunghi secoli, all’appello in senso continentale, una forte resistenza. Il rapporto tra corti criminali competenti per i reati più gravi e territori delle contee avvenne secondo modalità assai diverse, per esempio da quelle tipiche dei Parlamenti, le corti sovrane di Francia e le province. La soluzione istituzionale inglese si costruì intorno all’idea che il processo andasse svolto nel luogo stesso in cui si era avuto il delitto, anche nel caso di crimini capitali che richiedessero l’intervento di un giudice di alto prestigio e di specifica formazione giuridica. Pertanto, a differenza di quanto accadde ad in Francia, con le sentenze emanate dai giudici locali erano appellabili davanti ai Parlamenti superiori, in Inghilterra erano i giudici togati a recarsi sul posto periodicamente per svolgere i processi capitali. Per tutta l’età moderna i grandi giudici delle corti centrali attraversarono due volte l’anno le contee inglesi, fermandosi nelle città importanti, compiendo questi itinerari giurisdizionali come commissari del re in virtù del suo incarico preciso. Per la giurisdizione criminale esistevano due tipi di missione: la commission of general oyer and terminer, che conferiva ad alti giudici, insieme ai principali giudici della contea, il compito di trattare e decidere di tutti i delitti gravi commessi nella stessa; la commission of general goal delivery attribuiva ai giudici l’incarico di liberare le regioni delle contee, definendo le cause dei detenuti in attesa del giudizio. All’arrivo della grande corte il giudice di pace aveva assicurato la cattura del sospetto, il cancelliere aveva preparato il fascicolo sulla base del quale la giuria avrebbe pronunciato il solenne formale atto d’accusa, la corte amministrava il giudizio, ma il verdetto veniva pronunciato da una giuria di condanna, o petty jury. Un altro limite all’espandersi dell’appello sarebbe venuto proprio dall’istituzione dei giurati, dai residui medievali del trial by jury. La sua legittimità si fondava, nel sistema di common law, sull’accettazione dell’accusato. Sebbene questo consenso, ottenuto un tempo anche con la forza fosse ormai presunto, il verdetto dei giurati, la voce della comunità dei pari alla quale l’accusato aveva preventivamente acconsentito a sottoporsi, non poteva a rigore essere contradetta. I rapporti tra giudici e giurati si rivelarono sempre molto complessi e tesi in quanto vi era una forte capacità di pressione dei primi sui secondi. Lo scontro verteva spesso sulla riluttanza dei giurati ad applicare senza remare le pene dure previste dalle leggi. Le fonti denunciavano inoltre l’ignoranza dei giurati. Durante il XVI secolo molti giurati avevano addirittura difficoltà a leggere il fascicolo d’accusa che conteneva i riferimenti essenziali della causa. Da questo secolo, il requisito più importante per essere giurato era quello del possedimento terriero, perciò bastava anche avere un solo pezzo di terreno, e rispettare tutte le altre clausole (provenienza dalla stessa comunità dell’accusato e mancanza di precedenti penali) per poter ricoprire la carica. In una lunghissima giornata di lavoro molte decine di casi venivano decisi ed era preciso obbligo dell’accusato di non provocare disagi e lungaggini. l giudizi apparivano di brutale brevità. La procedura si apriva con il giuramento dei magistrati dell’accusa (giudici di pace) e dei testimoni. Il giuramento era annotato sul fascicolo d’accusa. Tale fascicolo era poi presentato al capo della giuria che sulla base degli elementi in esso contenuti decideva di formalizzare l’atto d’accusa ed inviare l’inquisito a giudizio. Gli accusati, pertanto, venivano presentati ai giudici e ciascuno di essi doveva dichiararsi colpevole o innocente. La negazione della colpevolezza dava inizio al vero processo in contraddittorio: personalmente e senza alcuna assistenza legale l’accusato cercava di contraddire gli elementi di accusa avanzati contro di lui dagli ufficiali accusatori, con poco tempo per farlo. Accanto alle corti di common law si schieravano le corti di prerogativa, espressione diretta della giustizia ritenuta dal re d’Inghilterra, cavalli di Troia della tradizione romano-canonica nel cuore della libera Albione. Come nel caso delle più importanti di esse, la corte di Cancelleria, esse erano dominate da ecclesiastici di formazione dottrinaria, escludevano l’intervento dei giurati, ed adottavano forme d’indagine più marcatamente inquisitoriali. Nella sfera del penale, la più autorevole delle corti di prerogativa era la Star Chamber, competente nella repressione del reato politico nelle sue possibili fattispecie: tumulto, aggressione, intimidazione, frode, falso e spergiuro. I giudizi innanzi alla “camera stellata” avvenivano secondo le forme e gli strumenti di coazione tipici della procedura romano-canonica. Essa fu abolita nel 1641, dopo aver contrastato per più di un secolo il ruolo di predominio della King’s Bench. I due universi, però, quello delle azioni e garanzie degli uomini liberi d’Inghilterra e quello della prerogativa regia, non rappresentavano mondi separati: non solo per i numerosi momenti di tensione, ma anche perché vi erano precisi circuiti di comunicazione per certi versi singolari. È da dire che i complessi sistemi processuali creati nei vari paesi europei non colmarono affatto la distanza tra crimine e pena, al punto che le grandi ordinanze vennero definite documenti solenni di una pedagogia deterrente, piuttosto che attendibili strumenti di repressione. Vi erano ancora cioè troppi reati impuniti. Viene spontaneo chiedersi quale fosse il motivo strutturale di una così larga impunità. Una ragionevole risposta punta il dito su un deficit di statualità cioè sulla mancanza di un apparato di giustizia statale adeguato e di un efficiente corpo di polizia. Infatti, mancarono in Europa sino al XIX secolo apparati autonomi di polizia indipendenti dalle autorità giurisdizionale su scala nazionale. Le squadre di sbirri al servizio delle varie corti non avevano né formazione professionale, né credito sociale essendo viceversa odiatissime dalla popolazione. Inoltre, storici e sociologi hanno affermato che tale fenomeno di impunità così diffuso non rappresentava una conseguenza imprevista e non voluta, ma si inquadrava perfettamente nella logica propria degli Stati del tempo, di punire in maniera eclatante solo alcuni reati più gravi, trascurando l’amministrazione della giustizia relativa alle altre fattispecie criminose. In tal senso, in Francia l’ordinanza criminale del 1670 elencava i vari tipi di lettere sovrane dirette ad attenuare il rigore dei tribunali: lettere di abolizione, di revisione, di perdono, riscatto, riabilitazione. In tal modo il sovrano, attraverso la cosiddetta “giustizia ritenuta” puntava a controllare l’operato dei tribunali. L’ipotesi meglio regolata e più interessante riguarda le lettere di remissione per i casi di omicidio per legittima difesa e di omicidio involontario. In via di principio, a prescindere dalle circostanze del delitto, ogni uomo colpevole di omicidio meritava la pena di morte. Perciò, se nel corso di un processo criminale per omicidio emergessero circostanze esimenti quali la legittima difesa o la fortuità del delitto, i giudici per evitare la pena capitale sospendevano il processo in modo che l’omicida o la corte stessa potessero avanzare la richiesta, tramite lettera con cui il re sottraeva il reo alla pena capitale. Un’altra forma di concessione di grazia riguardava le imputate in stato di gravidanza: in teoria la pena avrebbe dovuto essere eseguita dopo il parto. Tuttavia, molte donne riuscivano a ottenere il perdono definitivo. Nel sistema penale spagnolo, a segnare la distanza tra norma astratta e pena applicata, intervenne una particolare applicazione del perdono, questa volta della parte offesa: mediante questo istituto il reo di un delitto punibile con pena afflittiva poteva liberarsi dall’applicazione della pena corporale o capitale pagando una somma di denaro alla vittima o alla sua famiglia. Tale istituto non poteva essere applicato ai casi di omicidio, lesioni, stupro o adulterio. In Inghilterra la possibilità di andare esenti da pena derivava per molti delitti dagli antichi privilegi accordati agli uomini di Chiesa e poi estesi anche ad altri soggetti. La legislazione intervenne al limitare tale privilegio stabilendo, nel 1478, che esso non potesse essere invocato per più di una volta da coloro che non godevano degli ordini sacri. In un’ordinata distribuzione dei ruoli ai giudici regi, ad essi spettava l’applicazione puntuale dei castighi secondo le norme e le colpe. Tuttavia, i magistrati delle corti di più alto grado ritenevano che questa stretta misura del giudicare e punire andasse riservata ai giudici di corti di livello inferiore o intermedio. È impossibile leggere adeguatamente le forme processuali d’età moderna senza inserirle nel quadro istituzionale e politico segnato dalla preminenza delle alte corti e dall’egemonia, al loro interno, della componente togata su quella nobile. Per affermare tale superiorità, gli alti togati si valsero anche di adeguate argomentazioni teoriche. La rivendicazione di una discrezionalità si fondava, certo, in primo luogo su solidissime ragioni corporative; tuttavia, aveva dalla sua anche giustificazioni strutturali. Nel campo specifico dei delitti e delle pene, la discrezionalità dei giudici era del resto normativamente prevista, attraverso le numerosissime pene arbitrarie che scandivano la legislazione penale. Gli alti giudici delle corti europee condussero una battaglia su molti fronti: contro i nobili di spada; contro i giudici inferiori; infine, contro lo stesso sovrano. Fu soprattutto sul terreno della prova penale che i giudici supremi rivendicarono per sé forme più libere di convincimento, e correttivi a un sistema di prova legale che vietava, in linea di principio, la possibilità di condanna, soprattutto per pene capitali, in base a una serie di indizi, per quanto convergenti e convincenti. Queste regole comportavano ampi margini di inefficienza e larghi spazi di impunità: il ricorso alla tortura, che ne costituiva una sorta di obbligato antidoto, rischiava di favorire i recidivi, i delinquenti di professione, gli individui di forte costituzione fisica. Per ovviare ad ambedue gli ordini di inconvenienti, legislazione e prassi elaborarono tutta una serie di rimedi che, senza decretare formalmente il tramonto del sistema di prova legale, controbilanciavano, soprattutto pe alcune fattispecie, i rischi di insufficienza di prova. Ne risultava un sistema assai ibrido, che inseriva elementi di libero convincimento, arbitramento degli indizi, entro lo schema quantitativo e gerarchico delle prove legali. Una delle soluzioni più di frequente adottate nella legislazione del XVIII secolo fu il regime delle prove privilegiate, ossia della preventiva attribuzione del carattere di prova piena a elementi di carattere materiale o a indizi predefiniti. Nel caso della tortura con riserva di prova, l’applicazione della tortura era preceduta dall’avvertimento che si davano comunque per acquisti, nonostante la silenziosa sopportazione dei tormenti, gli elementi di prova già raggiunti. La soluzione di carattere più generale fu, tuttavia, quella della prova straordinaria, cioè la possibilità di applicare una pena minore dell’edittale, in proporzione alla quantità e al peso della prova raggiunta. L’esplicita equiparazione tra indizi e prova piena, sufficiente a condanna, fece il suo ingresso ufficiale, negli ordinamenti degli antichi Stati italiani, attraverso un importante Prammatica napoletana del 1621: essa autorizzava l’inflizione della pena edittale nel caso di indizi che, provati legittimamente, inducessero la mente del giudice a credere fermamente il delitto essere commesso dall’inquisito. In Francia nel corso del diciassettesimo secolo continui ricorsi, suppliche e lagnanze segnalavano agli apparati statali parigini la situazione intollerabile dell’amministrazione della giustizia nelle provincia di Auvergne. I signori locali esercitavano senza controllo ogni sorta di prepotenza e sugli abitanti I giudici e gli ufficiali regi, terrorizzati, o complici rimanevano inerti. Finalmente, nel 1665, fu istituita ed inviata una speciale missione affidata a personaggi di fiducia del sovrano, da lui appositamente scelti, con poteri eccezionali: si trattava dei Grand Jours, nella Francia d’antico regime espressione di una speciale missione di giustizia, affidata a personaggi di fiducia del sovrano e da lui appositamente scelti, con poteri eccezionali e larga libertà d’azione. Per quattro mesi i commissari del re lavorarono senza sosta pronunciando alla fine 640 condanne penali. La circostanza aveva confermato nel re Luigi XIV la necessità di procedere ad una profonda riforma della giustizia criminale affrontando più decisamente sia il nodo della giustizia locale sia quello di una generale normativa per la giustizia. Vide pertanto la luce l’Ordonnance criminelle del 1670, vero monumento riassuntivo della procedura continentale d’antico regime, con al centro della codificazione criminale due uomini importanti come Poussort e Guillame de Lamoignon. IV: DIBATTIMENTO: PROCESSO E OPINIONE PUBBLICA NELL’EUROPA DEL SETTECENTO “Poiché ogni potere giudiziario è un male, seppur necessario, non bisogna tralasciare nulla di ciò che possa diminuire i danni” De Lolme, nella sua Costituzione d’Inghilterra del 1771, dava corpo ai diffusi umori antigiurisprudenziali della seconda metà del secolo. Sul tappeto che si figura stava la richiesta di una riscrittura minimalista del ruolo di giudice, di più, del diritto: meno potere, meno dottrine, meno rito meno segretezza e meno profitto. Si chiedeva di emarginare la segreta sapienza dei giudici del continente aprendo i recinti della giustizia al senso comune, alla pubblicità, alla partecipazione di giudici non togati. Le stesse parole le ritroviamo nelle parole del Beccaria, nella sua opera Dei delitti e delle pene: “Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza”. Pubblicato a Livorno nel 1764, il piccolo libro di Beccaria aveva incontrato un immediato successo: dalle pagine del saggio si leva una condanna senza appello contro il processo penale d’antico regime, macchina da guerra offensiva che faceva del giudice un prosecutore del reo. S’invocava la sostituzione di poche leggi penali certe alle molte oscurissime: l’abolizione della tortura e della pena di morte, al tempo stesso inutile e illegittima, la pena del carcere, più umana e soprattutto sempre proporzionabile al delitto, avrebbe dovuto sostituirla. In ogni caso, le pene andavano commisurate al danno sociale non all’intenzione o al peccato. Beccaria, in sostanza, voleva una legittimazione contrattuale della pena. L’attacco alla giustizia di antico regime venne fatto prendendo di mira i bersagli più esposti: l’arbitrio dei giudici regi e signorili, l’immunità ecclesiastica e feudale, prepotenze di subalterni e di birri. Ciò che suscitava allarme nel libro di Beccaria era proprio il limite tracciato al diritto di punire ricondotto alla sicurezza individuale, alla sua tutela: questo era infatti il fine che giustificava quella rinuncia a una frazione della propria libertà che stava alla base dell’accordo originario tra i membri della società (legittimazione contrattuale della pena). Ricondurre il diritto di punire alle basi contrattualistiche della società, e non all’investitura dinastica, sacrale, assembleare, colpiva al cuore i presupposti teorici della giustizia ritenuta della prerogativa regia. A questa centrale provocazione del libro, i nemici dei Delitti e Delle pene non tardarono a farsi sentire. Famosa è la risposta di Fachinei del 1765, dove chiama il libro “sedicente bestemmiare” e in più, così come tutti gli altri dissidenti, insisteva sulla legittimazione non contrattuale, ma dinastica e religiosa del diritto di punire. Un altro modo per far conoscere il disagio giudiziario era quello di far conoscere i casi raccapriccianti, per attizzare quello strepito popolare: in Francia, per esempio, lo farà Voltaire rendendo famose le vicende del giovane cavaliere de La Barre e del protestante Jean Calas, accusato di aver impiccato il proprio figlio per impedirne la conversione al cattolicesimo: ambedue giustiziati a seguito di procedure nelle quali il sospetto, le semiprove e il fanatismo religioso avevano avuto gran parte. Vittime assurde, cadute quando da ogni parte si annunziava il tramonto della tortura, del sistema di prove legali e dell’abnorme estensione del crimine di lesa maestà. (in realtà nei casi, soprattutto nel caso del Cavaliere ancora una volta si può vedere, nonostante Voltaire muovi forte accuse contro i parlamenti, come il procuratore generale del Parlamento parigino si fosse pronunziato decisamente a contrasto con la riforma della sentenza della corte locale di Abbeville, luogo di nascita del cavaliere). Nel caso di questo cavaliere, inoltre, l’attenzione della pubblica opinione si era accesa per l’accanimento dei giudici e la terribile crudeltà delle pene finali fermo restando che in entrambi i casi giocò un ruolo centrale il meccanismo dei monitoires: la lettura fatta dal pulpito, dal parroco autorizzato dal vescovo, di un certo numero di questioni poste dall’autorità giudiziaria, alle quali i fedeli che disponessero di elementi di coscienza avevano l’obbligo di rispondere sotto pena di scomunica. Un istituto, questo, che ci permette di riflettere su due aspetti importanti: il processo inquisitorio, difficile da definire perché caratterizzato da molte forme, ha molti aspetti; la collaborazione tra Chiesa e Stato nella gestione del processo penale sino alla Fine dell’antico regime. Ad ogni modo, il metro verso cui aspirare, il punto di paragone, guardava all’Inghilterra, ove l’organizzazione giudiziaria sembrava rispondere al minimalismo auspicato dagli illuministi: nessuna complicata teoria delle prove legali, pochi giudici togati, niente tortura, un numero assai limitato di rimedi contro la sentenza, nessun autonomo apparato statale di polizia e la presenza dei giurati e una possibile assai vasta di ricusarli all’inizio del processo. In realtà però, grazie alle parole di Blackstone e il suo Commenti sulla legge d’Inghilterra possiamo facilmente intuire aspetti evidentemente negativi: difatti, dal 1723 l’approvazione del Waltham Black Act, confermata nelle sue linee dalla sistemazione penale del 1758 aveva esteso in modo abnorme i reati punibili con la morte: alla Fine del Settecento era possibile annoverarne duecento. In aggiunta, in molti casi, l’inasprimento delle pene comportava la contrazione del processo o la sottrazione della garanzia dei giurati. È chiaro che tra tutti gli istituti inglesi quello che si guardava con più interesse era inevitabilmente il jury: un innesto meccanico della giuria nel vecchio tronco del processo romano-canonico era in qualche modo impossibile, basti pensare all’assoluta prevalenza della forma scritta nella procedura continentale, rispetto all’oralità imposta dalla presenza dei giurati. Inoltre, la giuria era incompatibile con il sistema delle prove legali, con l’impianto probabilistico e dottrinario che ne era alla base. Ma la giura era utile perché permetteva di combattere quel marchingegno della prova legale e l’arbitrio giudiziario. Così facendo, l’invocazione della giuria si accompagnò alla diffidenza per ogni regola di valutazione delle prove e dello stesso principio di tassatività dei mezzi di prova. Tutto ciò mentre in Inghilterra l’avversione al sistema delle prove legale non aveva impedito che si adottassero regole di acquisizione e valutazione delle prove. D’alta parte, il ruolo dei giurati, e la relazione di questi con il corpo dei giudici togati laici, erano stati, nella lunga esperienza processuale inglese tutt’altro che democratici o immutabili, come voleva raccontare invece la vulgata continentale. Abbiamo ricordato, per esempio, le disobbedienze o viceversa la tendenziale professionalizzazione dei giurati tra XI e XVII secolo; inoltre, nell’ultimo scorcio del XVIII secolo la questione dei libelli sediziosi e dei processi avviati contro i responsabili suscitò una interpretazione radicale del jury: al tradizionale potere di mitigazione delle pene attraverso la sottovalutazione del fatto criminoso, si sostituiva l’attribuzione di un assai più incisivo controllo costituzionale da parte della giuria su altri poteri. il Fox’s Libel Act del 1972 risolse legislativamente la questione, includendo nelle circostanze di fatto, dunque di sicura competenza dei giurati, il carattere sedizioso e l’intenzione criminale nell’ipotesi di libelli sediziosi, escludendo ogni sindacato dalle norme. Ma non tuto venne preso a modello: Il sistema di prosecution, largamente affidato all’accusa privata, mostrava più di un segno di crisi, con gli esponenti della gentry che si mostravano progressivamente restii a esercitare i consueti compiti di amministrazione della giustizia ricoprendo la carica di giudici di pace e li affidavano a sostituti spesso ecclesiastici. Ancora, le forze delle autorità di polizia, i constables, non avevano alcuna vocazione repressiva, perché l’allarme della criminalità provocava la nascita di decine e decine di associazioni private destinate ad accusare la ricerca e l’accusa dei rei (gli accalappialadri divennero una figura popolare nota agli abitanti delle contee). Ancora, con l’avvento della prima età industriale, che aveva determinato cambiamenti sul lavoro, gli statuti prevedevano molte ipotesi d’imprigionamento per le infrazioni più diverse dei lavoratori, pertanto, un livello di penalità minore si collocava fuori dalla tradizione e dall’ordinamento di common law. Su questi temi interni all’Inghilterra non arrivarono risposte anche dagli stessi inglesi (sul rapporto tra criminalità e pauperismo o ancora modernizzazione della macchina giudiziaria). Vi avevano lavorato personaggi come Henry e John Fielding, il primo magistrato a Londra; il secondo a capo della corte di Bow Street. Con l’inchiesta sulla povertà, Henry annunciava il nuovo approccio sociologico al tema tracciando un affresco della nobiltà di contea dedita al vizio e destinata alla gotta, sempre più distratta rispetto alla propria tradizionale funzione civile. A John, invece, risale la totale riorganizzazione del distretto giudiziario londinese di Bow Street dotato, per sua opera, di personale e mezzi assai distanti da quelli della tradizionale attività giudiziaria. Entrambi esponenti dell’approccio con il quale l’Illuminismo inglese avrebbe guardato, più tardi, al rapporto tra criminalità e giustizia, ponendo al centro l’efficienza delle leggi sulla povertà, i meccanismi di prevenzione del crimine adatti alle masse inurbate delle grandi città agli immiseriti contadini delle contee pronti a tumulto ad ogni aumento del prezzo dei cibi o ad ogni diminuzione del salario. In aggiunta, i romanzi di Fielding aprivano a mutamenti non solo tecnici della questione giustizia: come, ad esempio, la comunicazione tra giustizia penale e pubblica che assumeva ora e nei decenni immediatamente successivi, forme diverse da quelle solenni rappresentative e simboliche dell’antico regime. La stampa, la satira politica e le pubblicazioni più diverse entrarono in modo decisivo negli spazi del processo penale, costruendo una sorta di duplicato per l’opinione pubblico. Ancora una volta il fulcro fu Londra: moltiplicarsi di luoghi di sociabilità e discussione. Non si trattava, in realtà, di mutamenti relativi soltanto all’rea inglese: nell’Europa continentale la nascita del dibattimento, sia pure all’interno delle forme miste di processo, segnava la discontinuità rispetto a più antiche forme di partecipazione. Anche durante la prima età moderna l’esercizio della giustizia penale aveva attratto la curiosità e la paura popolare all’attenzione dei ceti più alti, riconfermando a ciascun livello sensi di identità e sicurezza. Ma la partecipazione emotiva al processo riguardava prevalentemente la pubblica esecuzione della pena, riproponendo rigide gerarchie sociali. Tutta la discussione analizzata sin ora veniva in qualche modo resa sterile da un topos imposto dall’influenza di Montesquieu, che favoriva il conformismo intellettuale dei Giuristi: nell’Esprit de Lois, l’autore aveva ritenuto il processo accusatorio adatto agli ordinamenti repubblicani e radicalmente estraneo alla monarchia. Solo nelle repubbliche che suscitano le virtù civiche e l’iniziativa politica in ciascun membro della comunità sarebbe stato possibile affidare ai privati la responsabilità dell’accusa penale con tuti gli oneri relativi. Nelle monarchie, fondate sul sentimento diverso dell’onore e sulla delega politica, affidarsi all’iniziativa dei singoli equivaleva a lasciare impuniti i delitti. Il topos pertanto costringeva la discussione entro binari rigidi e datati. A sollevare la discussione, tirandola fuori dalla contrapposizione monarchia/repubblica imposta da Montesquieu, intervenne negli anni Ottanta Filangeri, con il terzo libro della scienza della legislazione, dedicato alle leggi criminali. Il filosofo napoletano faceva notare come nell’esperienza classica l’accusa privata non fosse affatto affidata alle virtù civiche dei consociati ma a un sistema preciso e forte di sanzioni, che puniva con severità le accuse calunniose. Non solo questo punto, ma tutta l’analisi condotta da Filangieri e la quasi contemporanea di Pagano rivelano toni assai diversi tipici dell’intervento sulla giustizia penale propri della saggistica italiana e francese del tempo di Beccaria. La profonda condivisione degli umori di quella stagione si accompagnò, in questi esponenti dell’illuminismo meridionale, a una più precisa riflessione sugli aspetti tecnici della sequenza processuale: basti pensare alla diffidenza di Filangieri per ogni interpretazione intimistica e incontrollata del sistema del libero convincimento. Ancora, all’interno del discorso di cui stiamo cercando di trarre le fila, non possiamo non parlare della Rivoluzione americana, la quale pose in crisi il modello inglese annunciando una concezione assai più radicale della costituzione, un’opzione decisa per il carattere elettivo e laico dei giudici, una forte diffidenza per la stessa tradizione giuridica di common law: le grandi giurie d’accusa, in America, divenivano parte attiva nello scontro contro la madre patria, rifiutandosi di siglare il rinvio a giudizio per i protagonisti delle proteste e dei tumulti. Ancor prima della Rivoluzione francese, la collaborazione tra assolutismo illuminato e intellettuali s’incrinava. Essa consentì, anche agli antichi stati italiani, un’intesa stagione di riforme ed interventi legislativi: il Granducato di Toscana aveva messo al bando la tortura e la pena di morte; Giuseppe II aveva vinto le resistenze del Senato di Milano imponendo d’autorità i decreti di abolizione della tortura (1784); il regno di Napoli aveva registrato i decreti sulla motivazione delle sentenze (1774) la depenalizzazione della seduzione (1779) la nascita di un apparato di polizia urbana (1779). In tutti questi casi, le riforme, sia pur misurate, dovettero superare gli ostacoli opposti dalle stesse magistrature che non di rado, in modo evidente nel caso toscano, si mostrarono legate alle soluzioni giuridiche d’antico regime. Fu la determinazione di Robert Peel a convincere il parlamento: nel 1829 la camera dei comuni approvò l’istituzione di un corpo di polizia metropolitana a Londra, il Metropolitan Police Act, mentre bisognerà attendere il 1856 per il Country and Borough Police Act, che introduceva un nuovo uniforme corpo di polizia per tutto il territorio nazionale. Se il tema della polizia creava incomprensioni tra il sistema inglese e quello francese, la stessa cosa non accadeva sull’altra questione rilevante dei luoghi e dei modi di reclusione. In questo periodo fu concepita l’idea di carcere nella sua accezione contemporanea, come conseguenza tipica di una condanna penale per delitti gravi. L’antico regime aveva conosciuto diverse forme di reclusione di soggetti pericolosi: si trattava spesso di luoghi contigui agli edifici delle corti, caratterizzati da una carcerazione di tipo preventivo, diretta soprattutto ad assicurare la persona del condannato in attesa della definizione del processo; vi erano inoltre, forme di incarceramento di carattere punitivo, cioè in conseguenza di una condanna. In Europa, ovunque fossero presenti i tribunali dell’inquisizione dediti alla repressione dell’eresia e di figure affini, le segrete delle corti custodivano per tempi lunghi i corpi degli inquisiti. Anche gli Stati adottavano in caso di emergenza forme assai ibride di custodia, tra prevenzione e pena. Il caso più significativo era costituito dal servizio forzato sulle galere, le navi da corsa e da guerra. Questo perché la crisi delle buonevoglie, i rematori che s’imbarcavano volontariamente per ottenere la paga, aveva prodotto due conseguenze: da una parte, d’irrogare la pena della galera piuttosto che l’infruttuosa pena capitale; dall’altro, di considerare le galere luoghi di attesa del giudizio e di inviarvi ogni specie di inquisiti. Di qualunque tipo fosse, la reclusione occupava solo un segmento nel panorama delle pene. Spesso la carcerazione aveva carattere correzionale e disciplinare: l’esempio più importante potrebbe essere il Bidewell, reclusorio londinese istituito nel 1555, luogo di concentrazione dei vagabondi e mendicanti, qui convertiti forzatamente al lavoro; o il Rashpuis, il grande reclusorio istituito ad Amsterdam nel 1596 per includere mendicanti e giovani delinquenti, fondato sul lavoro comune e non conosceva la reclusione individuale se non come pena supplementare. Su questo esempio, case di correzione in cui i reclusi erano costretti al lavoro si moltiplicarono in tutta Europa: L’ospitale Generale a Parigi; case di correzione a Francoforte; l’albergo dei Poveri a Napoli, nel quale, ancora nel 1802, il capo della polizia ordinava di rinchiudere oziosi, vagabondi e mendicanti. Nel corso del secolo XVIII alle figure tradizionali degli incarcerati (vagabondi mendicanti marginali) si aggiunsero ogni sorta di figure criminali. Le carceri divennero luoghi super affollati ed estremamente pericolosi. La situazione sì aggravò negli ultimi decenni del secolo, quando cominciò a considerarsi impopolare e immorale la pena capitale, e inapplicabile la stessa deportazione nelle colonie lontane. Si impose, pertanto, a causa dello stato di disordine e di abbandono che caratterizzava le strutture carcerarie del tempo, l’esigenza di una riforma penale in questo campo. Nell’indicare la pena detentiva come pena tipica convergevano filosofie diverse: quelle umanitarie ostili alla pena di morte e alle pene afflittive; quelle proporzionalistiche che vedevano nel modulo temporale una possibilità di adeguare la pena alla gravità del reato; quelle utilitaristiche fiduciose invece nelle capacità educative della disciplina e del lavoro all’interno delle prigioni (ognuna delle quali venne potenzialmente sfruttata ed idealizzata). Nacque pertanto l’idea della segregazione solitaria in singole celle. Questo nuovo modo di carcerazione imponeva una nuova divisione dello spazio carcerario: piccole celle d’isolamento per ciascuno dei reclusi, anonimi e uguali come le divise da indossare, i numeri che sostituivano i nomi, spazi più centrali e aperti per assicurare la sorveglianza. A questo ideale di architettura penitenziaria era ispirato il Panopticon, il progetto di carcere ideato da Jeremy Bentham: una costruzione ad anello divise in celle. Le celle hanno due finestre: l’una verso l’interno per permettere la sorveglianza di ciascun detenuto, l’altra verso l’esterno; al centro l’anima della costruzione abitata da un sorvegliante. In questo tipo di prigione ogni internato al suo posto è rinchiuso in una cella ed è visto in faccia dal sorvegliante ma la presenza di muri laterali impediscono al singolo carcerato di avere contratto coi compagni. Questo progetto non venne approvato dal Parlamento, ma l’idea della cella individuale e dell’isolamento notturno fu attuata nei grandi modelli carcerari di fine ‘700: per esempio, il sistema della Walnut Street Prison di Philadelphia, ove in realtà (e questo è valido per l’intero sistema americano) la concezione della disciplina penitenziaria fu toccata profondamente dalle confessioni religiose. L’idea del Silent System, della riflessione nell’isolamento, era profondamente coerente alla sensibilità puritana. In età napoleonica, le logiche dell’internamento esteso, per motivi di sicurezza, portarono ad una moltiplicazione della popolazione carceraria che travolse rapidamente ogni esigenza di separazione per “categorie”. Pietro Leopoldo, nella Toscana di fine Settecento, si apprestava a varare la Riforma della legislazione criminale toscana, pubblicata il 30 novembre 1786. Il “Codice” Confermava, nella disposizione dell’articolo 13, una decisa cesura rispetto alla tradizione offensiva dell’istruttoria: “vogliamo che resti abolita la consuetudine di obbligare il reo di dare i suoi interrogatori ai testimoni esaminati nell’informativo senza essergli stata prima comunicati i loro deposti, ossia a processo chiuso”. In realtà, la Leopoldina diede espressione legislativa a battaglie importanti del riformismo settecentesco. Sancì, infatti, la fine del sistema di prove legale, del computo quantitativo degli indizi: proscrisse la tortura, che di quel sistema era stato un ingranaggio essenziale. Allargò i diritti di difesa, assicurando anche il risarcimento del danno nel caso di ingiusta carcerazione; vietò ogni possibilità di riscattare o comporre le pene afflittive attraverso il versamento di denaro. Importante anche l’abolizione del diritto di grazia. Cancellò il delitto di lesa maestà come qualcosa di onnicomprensivo, prevedendo singole offese alla persona del re e dei magistrati. Nel confronto con gli interventi di altre aree europee e dei tentativi riscontrabili negli Stati italiani, il quadro delineato dalla riforma toscana appare più decisamente riformista. Basti pensare alla marcata continuità inquisitoria che contrassegna la Norma interinale per la Lombardia austriaca, introdotta dall’imperatore Giuseppe II per la Lombardia nello stesso 1786: la norma tracciava un disegno preciso dell’iter processuale basato sulla netta supremazia dell’inquisitore e sul sistema delle prove legali. L’accusato non aveva alcuna possibilità di proporre interrogativi ai testimoni e il suo diritto alla difesa era limitato dalla possibilità del giudice di concedere o negarla. Esclusione di ogni ricorso. Inoltre, l’inasprimento delle politiche repressive di Giuseppe II era stato confermato dall’impiego di una potentissima polizia segreta. E con tutto questo meccanismo dovrà fare i conti il Fratello di Giuseppe, Pietro Leopoldo il quale, per ricondurre la politica criminale a indirizzi più vicini al riformismo illuminista, aveva ideato un piano di riforma della polizia diretto a creare limiti a ogni possibile eccesso repressivo di questo corpo. In Sicilia, questi venti di riforma sembrano toccare poco la procedura penale la quale, per tradizione, era molto dura: dava luogo a giudizi dai tempi e dalle garanzie ridottissime, i termini per la difesa erano ridotti a tre giorni, l’appello era precluso e la pena di morte era assai probabile. Alla tortura giudiziaria si aggiungeva il tormento penosissimo della reclusione all’interno dei dammusi, caratteristiche celle, piccolissime senza aria né luce. Inoltre, la giurisdizione dei baroni all’interno del feudo aggravava un quadro di per sé già pesante. E, nonostante le denunce in merito a queste situazioni di abuso, in Sicilia la tortura sarebbe stata eliminata soltanto nel 1813. Nel 1812 venne adottata una Costituzione e con essa alcune clausole dell’Habeas Corpus. Tormentati anche i tentativi di riforma nella repubblica di Venezia, dove il potente consiglio dei dieci amministrava con rito inquisitorio la giustizia penale “alta” e l’arbitrio dei giudici era oggetto di forti critiche. Qui, nonostante la proposta di una nuova codificazione penale e procedurale, fatta approvare nel 1784, le resistenze del Consiglio ebbero alla fine la meglio e il piano finale approvato nel 1792 introdusse soltanto parziali aggiustamenti al sistema. Se si confronta la Leopoldina con questo panorama e anche con i decreti francesi abolitivi della tortura di Lamoignon del 1788, che sostanzialmente lasciarono invariato il quado dell’Ordinanza del 1670, non vi è dubbio che la riforma Toscana sia intervenuta in modo assai più deciso sul sistema penale d’antico regime. Tuttavia, il codice di Pietro Leopoldo traduce anche la resistenza dei magistrati toscani e il conseguente aggiustamento dei più radicali progetti del duca: una più radicale, che esclude dall’accertamento pubblico soltanto il segmento piccolissimo delle prime indagini di polizia, dell’arresto in flagranza e così via; l’altra, assai limitata, che tende ad identificare con la comunicazione integrale degli atti istruttori all’inquisito e con un ampliamento del suo diritto alla controprova. In questo senso, il compromesso della Leopoldina annunciava alternative e questioni di lunga di durata. Lo scarto tra gli iniziali entusiasmi e dibattimenti di Pietro Leopoldo e le soluzioni adottate dai singoli articoli del Codice è perfettamente documentato dai lavori e progetti che prepararono la riforma criminale. Un analogo processo di ridimensionamento frenò l’iniziale volontà di spalancare le porte del giudizio penale, di ridurre al massimo la distanza tra processo penale e dibattimento. L’innovazione, non piccola rispetto alle ordinanze di antico regime, consisteva nel dare completa conoscenza egli atti istruttori all’accusato, consentendogli una difesa non irrigidita in tempi e modi strettissimi e non stravolta dalla coazione fisica della tortura. Inoltre, l’esempio del codice illuminista toscano introdusse nell’Europa continentale di fine Settecento il tema del dibattimento, una fase di pubblico confronto tra l’imputato, i testimoni d’accusa e i suoi giudici. Entrarono, nel dibattito sulla giustizia, opzioni di fondamentale importanza, su quale momento dovessero aprirsi le porte del giudizio, ammettendo lo sguardo critico dell’opinione pubblica e l’incontro senza segreti tra gli argomenti dell’accusa e quelli della difesa. Gli ordinamenti giuridici del primo ‘800 adottarono largamente la formula del processo misto, cioè della separazione delle procedure in 2 fasi: l’una (la fase introduttiva delle indagini, l’istruttoria), segreta e inevitabilmente offensiva; l’altra (il dibattimento davanti al giudice) aperta e caratterizzata dall’inserimento di elementi laici, a forte conduzione tecnica e togata. Comunque, furono incrementati le sanzioni penali inferte dalla polizia in relazione alla prevenzione dei delitti e fu rafforzato il ruolo dei pubblici accusatori sottoposti a controllo del ministro della giustizia. Per il controllo della criminalità, si contrappose sovente a un potere giudiziario ritenuto troppo debole l’intervento di altri corpi: tribunali speciali, tribunali militari, gendarmerie o polizie di sicurezza. Prima però che la codificazione napoleonica e i modelli ad essi ispirati irrigidissero forme e soggetti del giudizio penale entro tali binari, una lunga stagione impegnata nella questione giustizia corse parallela a tutta le fasi della Rivoluzione Francese. Già nella Francia assembleare della Rivoluzione, tra la dichiarazione dei Diritti del 1789 e l’avvento del Direttorio, apparvero visibili le opzioni in gioco, e già in quegli anni venne confermato con forza il principio della costituzionalizzazione, dei diritti processuali fondamentali, solennemente negli articoli 7,8 e 9 della Dichiarazione dei diritti: “nessun uomo può essere accusato ed arrestato se non nei casi determinati dalla legge, le cui pene devono essere soltanto necessarie”. I Cahiers de Doleances, giunti nei mesi precedenti l’apertura degli Stati Generali, puntarono il dito sui guasti della giustizia. Chiesero che nessun giudice potesse da solo decretare la cattura del reo; che dopo il primo interrogatorio l’accusato potesse giovarsi di un avvocato; che gli fosse consentito porre domande ai testi ed eccepire fatti giustificativi in ogni stato e grado del processo; che si provvedesse alla salubrità e sicurezza delle prigioni e che all’interno i detenuti dei due sessi rimanessero separati come pure i debitori dai criminali; che le pene fossero moderate e proporzionate ai delitti e che fossero aboliti i supplizi. L’8 settembre il Comune di Parigi chiedeva all’Assemblea nazionale di varare uno stralcio della più ampia riforma di giustizia sulla base di quattro punti fondamentali: il diritto dell’accusato di disporre di un avvocato di propria scelta; la pubblicità dell’istruttoria; la contestualità dell’esame nei fatti giustificativi e delle prove a carico; la necessità di una maggioranza qualificata di due terzi dei giudici per l’emanazione di una sentenza di condanna. I decreti emanati dall’assemblea nazionale sulla base del progetto Beaumets dell’8 e 9 ottobre 1789 e la legge organica sull’amministrazione giudiziaria del 1790, i provvedimenti del 16 e 29 settembre del 1791 (che introdussero la giurai criminale, il principio dell’elezione dei giudici e del pubblico accusatore) diedero traduzione concreta alle petizioni popolari e alle indicazioni costituzionali. I provvedimenti legislativi emanati dall’Assemblea nazionale accolsero tali indicazioni. ricorso. Vi erano larghi poteri di direzione del dibattimento e di ricerca della verità affidati al presidente della corte di assise che poteva ricercare le prove, dirigere il dibattimento e porre domande ai giurati. Gli stessi giurati potevano porre domande ai periti e ai testimoni seminati. A dibattimento concluso il presidente chiedeva il verdetto ai giurati. Tuttavia, questo sistema processuale rivelò i suoi profondi difetti e la sua incapacità di fronte al fenomeno del brigantaggio. Questo fenomeno, diffuso nelle province meridionali, condusse alla sospensione delle garanzie del giudice naturale assicurata dallo statuto Albertino; i processi in tali casi furono sottratti alla magistratura civile e affidati ai tribunali militari. Erano sottoposti ai tribunali militari non solo i briganti o i sospetti tali ma anche parenti e complice. La vicenda di briganti è nota: si trattava di bande di uomini armati e a cavallo che imperversavano nelle regioni meridionali con continue incursioni rapine e furtive sia. La rabbia violenta dei banditi nasceva dalla disperazione contadina e dalla diffidenza verso il processo di modernizzazione dello Stato, La prima forte risposta istituzionale fu la proclamazione dello stato di assedio per le province del giornale con l’assegnazione di pieni poteri al generale e La Marmora nel 1862. Successivamente fu istituita una commissione parlamentare. In tale sede fu emanata la legge Pica che sancì la competenza dei tribunali militari e previde una procedura estremamente sbrigativa nella irrogazione delle pene. Il sistema penale così disegnato fu oggetto di vivaci e preoccupate discussioni, che non accennarono a spegnersi nemmeno con la pubblicazione del codice Zanardelli nel 1889. Nel 1870, Francesco Carrara pubblicò il Programma del corso di diritto criminale. Quest’opera conteneva una profonda struttura retributiva: il delitto era concepito come violazione di un diritto e la pena era vista come solenne riaffermazione dell’ordinamento giuridico violato; la costruzione della fattispecie penale fu legata al principio di stretta legalità e tassatività. Ne derivava una costruzione rigorosa del tentativo, inconcepibile senza la commissione di atti materiali di preparazione del delitto; la diffidenza verso il delitto politico; il disagio nei confronti della carcerazione preventiva. Proprio a questo istituto molti penalisti guardavano con diffidenza, ricordando le affermazioni accorate di Francesco Carrara nel saggio dedicato proprio alla immoralità del carcere preventivo. In effetti, le statistiche relative all’anno 1869 fornivano dati inquietanti: su un totale di 184.000 nuovi detenuti, 93.000 circa erano stati rilasciati per sentenza di non luogo a procedere o per assoluzione. Il problema della carcerazione preventiva era strettamente connesso ad un principio di fondamentale importanza nella legislazione penale moderna: la presunzione di non colpevolezza. Nel 1876 il medico, antropologo e psichiatra Cesare Lombroso pubblicava l’uomo delinquente, opera destinata ad avere grandissima fortuna nella intera Europa continentale. Il libro affermava un legame strettissimo tra caratteristiche strutturali dei criminali (fisiche e psichiche) e tendenza a commettere reati. Veniva così affermato che un soggetto è un delinquente non in base ad una libera scelta, ma in virtù di una sua caratteristica intrinseca che presenta fin dalla nascita e perciò ineliminabile. Attraverso gli studi e le osservazioni sulle caratteristiche morfologiche e fisiche dei criminali, il medico ne effettuò una classificazione disegnando una possibile galleria di criminali nati (assassini, stupratori, ecc.). L’opera di Lombroso basata sull’osservazione del cranio e delle fotografie di efferati criminali esercitò presso l’opinione pubblica un richiamo estremamente intenso e inquietante. Inoltre, l’opera di Lombroso corrispondeva alle attese degli operatori coinvolti nella gestione quotidiana della criminalità: direttori delle carceri e criminologi responsabili dei manicomi giudiziario. In Italia verso la fine del 1800 si ebbe uno dei massimi punti della densità della popolazione carceraria, portando alla ribalta il problema della costruzione di nuovi edifici e di nuovi regolamenti. Proprio attraverso i congressi penitenziari internazionali che citavano l’Uomo delinquente quale testo di riferimento per una possibile riforma del trattamento da riservare in carcere ai delinquenti nati. L’opera di Lombroso raggiunse diffusione internazionale e acquistò notevole importanza nell’opera di elaborazione del nuovo Codice penale, pur non essendo essa stessa un’opera giuridica. Di formazione non giuridica e perciò lontano dai giuristi che di lì a poco si riuniranno intorno alla rivista Scuola positiva, Lombroso ne condivide l’opera di demolizione della tradizione precedente: contesta la configurazione del reato in termini astratti e generali; la retribuitività della pena; la libertà dell’azione criminale come presupposto per la imputabilità. L’ausilio delle nuove scienze locali (la criminologia, la psichiatria, la medicina legale, la sociologia) avrebbe finalmente consentito al diritto penale non tanto di punire il crimine, ma cosa assai più importante di prevenirlo. Muniti di solida cultura giuridica e tuttavia convinti che l’impianto retributivo e illuministico della tradizione liberale classica fosse ormai inservibile, Garofano e Ferri ne contestarono uno ad uno i presupposti teorici, dando luogo alla scuola positiva del diritto penale. In questa fase, anche grazie all’opera di Lombroso, e seguendo l’esempio di altri paesi europei, si verificò un enorme interesse della pubblica opinione per i processi che rivelavano storie e delitti inquietanti. Questo interesse era alimentato da clamorosi casi giudiziari che agitarono l’ultimo decennio del XIX secolo. Vi fu ad esempio la vicenda dei pugnalatori: nella Palermo popolata dalle fazioni più diverse il 1° ottobre del 1862 un gruppo di misteriosi sicari assassinò quasi alla stessa ora 12 persone. Assassini misteriosi ma non troppo: forse si trattava di personaggi assunti dalla polizia decisa a inventare il complotto per eliminare l’opposizione politica. Pertanto, anche se il caso giudiziario famoso non era una novità di fine secolo, vi è da dire, tuttavia, che i processi degli anni 90 mostrarono discontinuità rilevanti. La magistratura in questo periodo divenne molto propensa a utilizzare la fattispecie del reato associativo: il reato di associazione a delinquere viene utilizzato infatti per combattere i movimenti di protesta sociale socialista e operaia. In questo periodo i flussi di carcerazione raggiunsero i livelli più alti della storia italiana. Le carceri erano estremamente affollate. Lungo il secolo seguente la tendenza seguirà una linea deflattiva fino al 1990. Il decennio a noi più vicino ha segnato un nuovo incremento di carcerazione rispetto al quale le nostre strutture carcerarie si sono rivelate assolutamente inadeguate. Ciò dimostra che non vi è nessun rapporto diretto e immediato fra severità della legge penale e livello di carcerazione: infatti il passaggio dal codice Zanardelli dal carattere liberale, al codice fascista Rocco non ebbe effetti immediati sull’andamento delle carcerazioni. Il codice Zanardelli, primo codice di elaborazione unitaria, fu ispirato dalla tradizione retributiva della scuola liberale, in base alla quale le pene andavano commisurate strettamente alla gravità del reato posto in essere, e non alla scuola antropologica preventiva ispirata da Lombroso, in base alla quale invece le sanzioni dovevano tenere conto della personalità del reo a prescindere dal tipo di reato possa essere. La tendenza liberale del codice emerge nella riaffermazione della libera volontà del soggetto quale presupposto della responsabilità penale, in netto contrasto con quelle che erano le teorie di Lombroso. Su questa base, il dolo e la colpa rimanevano i criteri di imputazione soggettiva del reato. Le cause di giustificazione trovavano una precisa previsione nella parte generale. Per quanto riguarda il tentativo non solo si ribadiva una netta distanza tra reato tentato e reato consumato (che invece per Lombroso andavano puniti allo stesso modo perché entrambi espressioni della pericolosità sociale del condannato) ma, per la punibilità del tentativo, si richiedeva un inizio di esecuzione con atti idonei a produrre il fatto criminoso. Era un sistema penale improntato a principi di stretta legalità di irretroattività della legge penale. Vennero eliminate la pena di morte e quella dei lavori forzati, e si introdussero misure alternative alla pena detentiva: l’interdizione dai pubblici uffici, la sospensione dell’esercizio di una professione o della prestazione d’opera al servizio dello Stato. Nella parte speciale il codice, tuttavia, in netta contraddizione con questa impostazione liberale e garantistica, prevedeva i delitti contro i poteri dello Stato con una formula estremamente generica e pericolosa. L’articolo 247 del codice prevedeva il reato di incitamento all’odio tra classi, (l’articolo 251 puniva l’incitamento a delinquere per gli stessi fini). La paura che queste previsioni rivelavano aveva buoni motivi: vi erano continue proteste e movimenti anarchici; la società era profondamente spaccata e lo sciopero diveniva strumento normale di rivendicazione operaia. Per assurdo, il Codice penale più garantista della storia italiana fu uno degli strumenti della risposta più aggressiva e autoritaria usata dallo Stato contro anarchici operai e socialisti. Le contraddizioni del codice Zanardelli furono aggravate da due elementi, strettamente correlati: la presenza di un apparato di pubblica sicurezza estremamente duro e repressivo e la mancanza di un codice di procedura coerente rispetto alle norme contenute nel codice penale. Solo nel 1913 fu pubblicato il nuovo codice di procedura penale che sostituiva quello piemontese del 1865. Fu un codice caratterizzato da una chiara impronta illuminista: introduceva per la prima volta nella storia italiana la scarcerazione per decorrenza dei termini, sconosciuta in precedenza. Tuttavia, il clima politico stava cambiando e si era già avuto l’avvento del fascismo. Tra i giuristi più in vista ispirati dall’ideologia fascista vi erano Vincenzo Manzini e Arturo e Alfredo Rocco. Arturo Rocco auspicava il ritorno del diritto penale ad un’elaborazione rigorosamente scientifica, che togliesse di mezzo le troppe confusioni di inquinamenti che, nell’intento di ampliarne il respiro sociale, l’avevano trasformato in un miscuglio confuso. L’attacco era rivolto a quella impostazione interdisciplinare della scuola positiva, in base alla quale il diritto penale doveva tener conto anche delle altre scienze, in particolare di quelle sociali, e alla scuola del socialismo giuridico, la quale tendeva ad affermare principi come il gratuito patrocinio, la depenalizzazione dei reati contro lo Stato, la limitazione della custodia preventiva. In ogni caso le figure della pericolosità, le misure di prevenzione e di sicurezza tipiche della scuola positiva furono presenti nell’opera di questo giurista. Quando, dopo una serie di interventi mirati, il governo fascista affrontò il problema di una nuova codificazione, lo strumento utilizzato fu quello della legge delega pubblicata il 24 dicembre 1925, con la quale si dava al governo la facoltà di modificare il codice penale, il codice di procedura penale, e le leggi sull’ordinamento giudiziario oltre che lo stesso codice civile. I codici penale e di procedura penale vennero ultimati nel 1930. Solo nel 1988 il codice di procedura è stato sostituito, mentre il codice penale è ancora in vigore. Il codice Rocco è stato definito un codice a doppio binario, con una forte struttura retributiva nella parte generale, caratterizzata dallo stretto rapporto tra reato e pena, e una impostazione fortemente antigarantista orientata alla centralità della difesa dello Stato nella seconda parte. Nella costruzione del reato la categoria della imputabilità e della colpevolezza sono mantenute, così pure i principi di stretta legalità e di irretroattività da legge penale. Le correzioni più vistose del codice Zanardelli riguardarono la reintroduzione della pena di morte e l’eliminazione di tutte le misure alternative alla pena detentiva. Anche le previsioni relative al tentativo e al concorso vennero inasprite. Ulteriori effetti repressivi emergevano dalle correzioni apportate al codice di procedura penale. L’oscurità dell’istruttoria era stata in molti casi aggravata: la conoscibilità della inchiesta in corso e delle accuse nei confronti di un imputato giungeva a istruttoria conclusa svolta in assenza del difensore; la custodia preventiva, nel caso di non evidente infondatezza degli elementi di prova raccolti appariva normale. Vi era la previsione che voleva ogni nullità anche quelle relative all’esercizio dei diritti di difesa, sanabile. Travolti il regime fascista e i suoi vertici i codici di Rocco hanno resistito al trapasso tra fascismo e democrazia, all’introduzione della costituzione del 1948, ai moltissimi governi dell’Italia democratica. Negli ultimi anni, il Parlamento italiano ha approvato una nuova normativa che ha dato attuazione al principio del giusto processo. Tale norma ha profondamente modificato il codice di procedura del 1988. Tale codice sembrava aver ampiamente assicurato le garanzie tipiche del modello accusatorio, l’esclusione dell’istruttoria segreta ed il rito sommario, il diritto alla difesa fin dalla prima fase del processo, la formazione dibattimentale delle prove. Tuttavia, già in anni vicinissimi alla pubblicazione del codice, segmenti autorevoli della penalistica italiana lamentavano l’oscurità e l’incoerenza di alcuni passaggi. Ciò aveva portato agli scioperi dei penalisti del 1996 e del 1997. Il principio della formazione dibattimentale della prova chiaramente enunciato nel codice del 1989 comportava la necessità di ridurre al minimo la rilevanza delle prove acquisite prima dell’apertura del dibattimento, consentendo la lettura dei verbali relativi solo in casi specificamente indicati, giustificati ad esempio dall’assenza o contumacia del dichiarante e dal pericolo di totale dispersione della prova. Il problema era rappresentato da quelle ipotesi in cui l’imputato, dopo aver fornito al pubblico ministero, alla polizia giudizi aria o al giudice dichiarazioni relative a un coimputato nello stesso reato o a un imputato di reato connesso, rifiutasse poi di apparire al processo per confermarle in sede dibattimentale.
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