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Riassunto ‘Il Sapore dell’Altro. Antropofagia e letteratura’, Sintesi del corso di Letterature comparate

Riassunto della prima parte ‘cibo per l’anima’ del libro ‘il sapore dell’altro. antropofagia e letteratura’.

Cosa imparerai

  • Che significato ha il cannibalismo nella cultura occidentale?
  • Che quattro aspetti principali il cibo ha nella vita dell'uomo?
  • Come il cibo è stato trattato dagli studiosi come Atkinson e Deborah Lupton?

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 23/04/2023

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Scarica Riassunto ‘Il Sapore dell’Altro. Antropofagia e letteratura’ e più Sintesi del corso in PDF di Letterature comparate solo su Docsity! Il sapore dell’altro. Cibo per l’anima. METAFORE COMMESTIBILI Uno degli elementi fondamentali che fa parte dello studio antropologico è la golosità: è quest’ultima a portare un desiderio immenso di cibo; a questi si susseguono comportamenti irrazionali e ossessivi nei suoi confronti (come bulimia ed anoressia) che si possono legare al concetto di ‘gola’. Lo studio del cibo, grazie agli studi portati avanti da Jean-Anthelme Brillant-Savarin, si è evoluto nel corso del tempo ed è una cosa che troviamo nella storia e in moltissimi altri ambiti, tra cui la letteratura e gli studi culturali. Tutti si sentono in dovere di parlare di cibo, perché è in grado di farci stare bene, unirci gli uni con gli altri e molto di più. Mangiare è, tra le altre cose, un’attività fondamentale per l’uomo: necessaria alla sopravvivenza ma anche una connessione con la società, al di fuori della dieta che varia a causa di moltissimi fattori. Eppure questo evento della giornata diventa fondamentale per la definizione di se stessi (quindi del Sé) ma anche strumento per definire tutto ciò che ci circonda (come la famiglia, la società, lo stato). Collegato al cibo è anche il concetto di scelta, cosa che ci ritroviamo a fare soprattutto da adolescenti evitando le verdure per i cosiddetti ‘cibi spazzatura’: scegliere indica il rifiuto, e quindi lo scarto, di qualcos’altro. Il cibo è fondamentale nella vita dell’uomo per quattro aspetti principali: fisico, sociale, biologico e culturale. Il primo livello copre principalmente la geografia, le stagioni e l’economia, visto che in certi casi, alcuni prodotti alimentari distinguono dei veri e propri confini. Il secondo copre la religione, i costumi, la classe, l’educazione alla salute, pubblicità, sesso e razza. Il terzo ricopre al fabbisogno di mangiare, a seconda di allergie o diete. Il quarto invece collega le persone le connette con tutti gli esseri viventi. Questo genere di legame è molto profondo e lo vediamo trattato da Mary Douglas, la quale esaminò i modi con cui il cibo ci aiuta a definire la nostra identità, perché preferiamo qualcosa rispetto a qualcos’altro e ai divieti che sono presenti. L’antropologia parla di questo e collega le due cose al concetto di indigestione; il cibo non è altro che la sostanza esterna che facciamo entrare di più nel nostro corpo. Questo argomento viene trattato a partire dagli anno ‘80 in poi: uno di questi studiosi, Atkinson, si riferisce al cibo come quella sostanza che, penetrando nel nostro corpo ovvero luogo dove si forma la nostra identità, ma allo stesso tempo il cibo ha anche la funzione di delimitare l’ambito socio-culturale che ogni comunità occupa rispetto ad un’altra, ragion per cui ogni società ha un proprio modo di mangiare o diete differenti. Deborah Lupton aggiunge anche che il cibo è fondamentale soprattutto nel periodo infantile, dove l’importanza del cibo in senso sociale viene trasmesso di generazione in generazione, considerando che all’inizio è proprio la madre che dona cibo -ovvero il latte materno- al figlio. Inoltre, reputa che il cibo diventa il fulcro delle varie comunità, tanto che se una persona si trasferisse da uno stato all’altro, ritroverebbe sicuramente qualcuno della sua stessa sfera sociale proprio grazie al cibo (es. un italiano in Germania, troverebbe un italiano più facilmente in un ristorante italiano o comunque, trovandosi, parlerebbero di quanto manchi loro il cibo del loro paese). È così che il cibo diventa anche un modo per estraniarsi all’altro, Altro che diventa ‘strano’ e motivo anche di esclusione e di ostilità. Il gusto e l’olfatto sono responsabili di alcune espressioni di memoria, che diventano il punto centrale di storie di migrazioni. Ma all’ostilità da una pratica culinaria e alla vicinanza di questa, vi è anche una terza possibilità che è quella della fusione alimentare tra più culture e tradizioni. Nella letteratura, il cibo diventa molto di più: è un oggetto che si può interpretare in infiniti modi ed è dunque impossibile dare un codice o un significato preciso e definito. Persino pensare alla creazione di un libro, dice Eagleton, si può accostare proprio alla cottura di un cibo: tutto ciò che ha a che fare con il cibo ha delle interpretazioni implicite che si collegano all’intimità umana nei suoi significati. All’interno della letteratura infatti il cibo ha molto da dire e si può trasformare a seconda di cosa vuole rappresentare, divenendo l’elemento chiave della letteratura: il cibo diventa memoria, ironia, drammaticità e soprattutto simbolo e forma. Uno dei primi testi post-coloniali che riguarda la cosa è Midnight’s Children di Salman Rushdie, dove il romanzo spesso interrompe la narrazione per trattare il cibo. Questo avvicina il lavoro di Rushdie alle metafore storico- gastronomiche che stavano nascendo. Studiare l’interazione gastronomica significa anche studiarne i contesti: i temi relativi al cibo sono molto comuni nella scrittura e spesso hanno lo scopo di creare un impatto visibile al lettore, tanto da comunicare informazioni su noi stessi e sugli altri, non solo come singolo ma anche come comunità. Ragion per cui il cibo può essere visto anche come mezzo non verbale per comunicare significati. A studiare questo procedimento furono Roland Barthes e Claude Lévi-Strauss. Quest’ultimo, nel suo Il triangolo culinario, suggerisce che il cibo può essere interpretato come unità costruttive di significato, esattamente quello che fa la linguistica con il linguaggio. Ovvero che il cibo aiuta ad esprimere la propria identità e i dati che esso contiene ce li rivela. Questo pensiero ha portato Lévi-Strauss a proporre una classificazione dei significati alla base della cucina dove sono presenti le categorie di crudo, cotto e marcio; il dominio del cibo, quindi, include l’appetito, il desiderio e il piacere. Queste idee hanno ispirato Roland Barthes, il quale legge il cibo come un testo limitato dal popolo/comunità che la consuma e dalla sua dieta. Questo perché ciò che mangiamo, con chi lo facciamo dove e come danno degli indizi su come viviamo la vita e quale sia la nostra personalità. Queste osservazioni ci vengono date tramite l’osservazione diretta dell’economia, ma anche nelle pubblicità che vediamo e nella mentalità di una determinata società; questo è dovuto dal fatto che, quando acquistiamo qualcosa, stiamo consumando non soltanto un prodotto ma un sistema. Barthes ci da un esempio, in due saggi del 1957, con la cultura francese: il vino per le bevande e le patatine fritte per il cibo. In entrambi i casi vi è presente un senso di nazionalità molto forte, come se appartenessero loro (ed è la stessa cosa che noi italiani facciamo, effettivamente, con la pizza e la pasta). Barthes descrive questa relazione tra vino/patatine e francesi come un ‘mito’. La comunicazione del cibo ci viene suggerita da altri fattori: la sua capacita di evocare ricordi e di trasportaci in un viaggio nostalgico nel passato, come ci dice David Sutton, ma riesce anche a rappresentare uno storytelling in quanto ogni alimento contiene una storia o più. Al cibo si può ovviamente collegare anche la religione a causa dei rituali religiosi che contengono l’argomento in questione: sia perché il cibo diventa motivo di unione (nel caso della religione cristiana, il corpo ed il sangue di cristo) ma anche perché attraverso questi momenti incoraggiano ancora di più questo attimo di condivisione. Negli anni 70 e 80, ancora una volta, Mary Douglas da vita ad un nuovo punto di svolta sull’antropologia interessandosi al cibo come fenomeno sociologico. L’antropologa inizia a dare più importanza al contesto sociale e all’ambiente culturale in cui le pratiche alimentari vengono svolte. Un esempio che avvalora la sua tesi è l’esistenza delle recensioni dei ristoranti, in cui si creano giudizi dovuti anche e soprattutto all’ambiente in cui il critico si trova. Lévi-Strauss, Douglas e Barthes hanno aperto al strada a nuovi modi di vedere l’antropologia, ma soprattutto a mostrare la versatilità del mondo culinario e a quelle che sono le innumerevoli informazioni che si trovano in esso, con lo scopo di ammorbidire le rigidità del pensi passato per arrivare a superare i limiti del proprio pensiero. Ma il cibo non è, come già detto, unione ed intimità: si parla anche di tabù, paure e sbagli, in quanto non si può fare a meno di citare che ci troviamo in un punto radicato nella nostra civiltà che delinea cosa, quando, come e chi mangiare. argomentazioni furono cruciali per gli studi dell’epoca, anche perché effettivamente nelle varie culture non vi è cenno di questo atto se non a livello di racconto popolare. L’Occidente è così interessato al cannibalismo che ne accetta la sua esistenza anche se non ci sono prove sufficienti che sostengono tale idea, questo è ciò che dice Arens. Il cannibale è un mito politico-letterario costruito dall’Europa e dagli Occidentali, per screditare l’accusato e quindi all’Altro. Un mito utilizzato per sopprimere i popoli nativi, per cui viene generato sia attrazione ma anche disgusto. Secondo Spivak, il colonialismo diventa un imperativo categorico che legittima l’Europa a sentirsi superiore e, nel migliore dei casi, i selvaggi erano anime da salvare. Nel XX secolo, gli esploratori che si diressero in Nuova Guinea imposero la regola contraria al cannibalismo sin da loro arrivo per la tribù dei Fore. Nel corso della storia, essere anche solo accusati di aver compiuto un atto simile, voleva dire essere ridotti schiavi o persino uccisi; cosa che accadde nei Caraibi e in Messico (anche se molto spesso erano solo supposizioni). Ancora una volta, il cannibalismo è simbolo di potere dell’Europa sulle altre nazioni, prettamente non bianche. Il cibo, in quanto materia prima per nutrirci, è fondamentale anche nella nostra formazione. Proprio per questo motivo, diventa anche il centro focale di lotte per il potere tra il Sé (l’uomo) e l’Altro (ciò che mangiamo). La superiorità del mangiatore rispetto al mangiato, sottolinea ancora di più il potere di chi gestisce e amministra ciò che ingeriamo. Il cibo e il mangiare sono il prototipo di tutti gli scambi tra il Sé e gli Altri, senza cui gli scambi non potrebbero mai avvenire. Il cannibalismo in tal senso si configura come un tropo colonialista, che vede il colonizzatore come il Sé e il colonizzato (cannibale) come l’Altro. Edward Said allude ad un modo di pensare l’Oriente, nella sua opera Orientalismo, pieno di stereotipi causati ad un forte eurocentrismo, che ovviamente viene criticato. Lo stesso avviene con il cannibalismo: esso non è altro che un costrutto prodotto dal colonialismo e che viene mantenuto dal discorso che si è creato, arrivando a rappresentare un segno naturale di depravazione razziale o di classe. Anche nell’Occidente si è fatto uso del termine ‘cannibale’, avvicinandolo a gruppi marginali - solitamente criminali - o anche soltanto per generare chiacchiera; così facendo, non si è fatto altro che ampliare il dualismo di opposizione tra ‘civilizzati’ e ‘barbari’ e legato a quello che è a tutti gli effetti il concetto di razzismo. Il cannibale ha svolto un ruolo importante nello sviluppo di questo concetto. Studiosi come Peter Hulme e George Jahoda hanno dichiarato che i popoli nativi chiamavano ed definivano gli europei come cannibali: la relazione cannibale è il vuoto di potere tra colonizzatore e colonizzato. Il selvaggio cannibale viene visto sempre allo stesso modo come ‘selvaggio’; quello europeo mantiene la fedina penale pulita. A giocare un ruolo chiave non è solo il dualismo superiore/inferiore, ma anche l’etichetta femminile: il cannibale non è solo razzializzato, ma anche femminizzato. Arens non nega che l’antropofagia si possa verificare in condizioni di fame, ma suggerisce che questo concetto sia sempre più diventato un’ossessione europea. Per quanto il suo punto di vista significhi pensare che definire qualcuno cannibale significa disumanizzarlo e vederne una proiezione europea dell’Altro, in realtà è probabile che l’antropofagia rituale esistesse in diverse società umane, come un sacramento associato al sacrificio umano. Il cannibalismo è molto comune nella letteratura e nella cultura occidentale, tanto che la possibilità che gli europei fossero cannibali figurativi (come nel caso del cristianesimo) o letterali (che quindi mangiavano carne umana) implicava la necessità di creare un cosiddetto Altro per allontanare questi impulsi ‘selvaggi’. Ovviamente il pensiero di Arens non venne preso molto bene, visto che moltissimi degli studiosi pensavano che l’autore de ‘Il Mito del Cannibale’ volesse provare l’inesistenza del cannibalismo. Quello che Arens cerca di dire è bisogna usare l’oggettività anche in questi studi, senza lasciarsi prevaricare da pregiudizi. DOPO ARENS Arens ha ovviamente portato, con il suo saggio, ad innumerevoli polemiche derivate da moltissimi studiosi interessati all’argomento. Questo interesse ha portato a vedere la figura del cannibalismo per decostruire i confini che si erano creati in senso identitario, linguistico, culturale e artistico che erano stati imposti tra il Sé e l’Altro, la cui relazione non è unica, ma è da considerare come tutte le versioni del Sé e dell’Altro. IL DISCORSO CANNIBALE Il lavoro di Arens spostò il dibattito dal colonialismo al postcolonialismo. Dagli anni Novanta, temi come la critica all’eurocentrismo portarono avanti dei cambiamenti genuini, contro l’ignorare o assorbire la sovversione che era stata fatta; comparvero anche concetti come ibridismo, sincretismo, meticciato, cannibalismo in un registro anticolonialista. Gli antropofagi hanno così aperto ancora di più le ricerche e alla scoperta di relazioni tra il Sé e l’Altro. Questo ha portato sotto una luce diversa il cannibalismo: Hulme dice che il cannibalismo non era altro che un prodotto dell’immaginazione europea, uno strumento dell’Impero e che oggi non è altro se non un fenomeno linguistico, un tropo di potere piuttosto che una pratica letterale. Frantz Fanon, nella sua opera I dannati della terra, fece notare come i colonizzati non fossero altro che vittima di discorsi riguardanti cannibalismo e primitivismo. Il cannibalismo è proprio il fenomeno di alterazione coloniale per eccellenza, con cui l’Europa si distingueva dalle nazioni colonizzate. Laurence Goldman aggiunge che il cannibalismo, indipendentemente da quando, da chi e da dove fosse praticato, sembra essere stato oggetto di qualsiasi preoccupazione culturale. Secondo Goldman, un concetto nel cannibalismo rimane costante ed è quello del discorso, in quanto ‘prodotto di un discorso immaginativo’ che rivela molto di più dei vari rapporti tra il Sé e l’Altro. Foucault si concentra invece sull’importanza della produzione di conoscenza, facendo nascere un sistema più aperto e sempre più connesso a pratiche sociali e questioni di potere. Qui i discorsi si inseriscono perché sono pratiche che non solo dipendono dal potere, ma lo generano. Foucault parla di questo argomento, sottolineando che le stesse istituzioni moderne sono fondate da opposizioni, che attuano strategie di censura e di controllo. In Foucault, discorso, conoscenza e potere sono indistinguibili, visto che l’esercizio di potere genera forme di sapere che a sua volta porta altro potere. Le due non possono vivere senza l’altra. Importante da sottolineare è che il potere può significare anche produzione di nuovi ambiti di verità e nuove conoscenze. Le relazioni di potere hanno un ruolo fondamentale nel mondo occidentale moderno: l’Occidente può essere inteso proprio come quell’istituzione che ha prodotto coscienza, quindi potere e che ha creato un linguaggio unico costringendo gli Altri a farne parte/capirlo. L’Altro viene così inteso in senso negativo, come se non avesse una propria storia e religione, rafforzando ancora di più il contrasto non europeo/europeo. Ad aiutare, il concetto e l’etichetta di cannibale, a cui si uniscono l’oggettivazione e lo stereotipo. Lo stereotipo viene infatti visto come una scorciatoia mentale che dipende dal potere e dalla conoscenza, per essere creato, in modo da creare un immagine del colonizzato, che deve essere inserito all’interno della cultura occidentale. Ciò che ne esce fuori, in quanto Altro presente nel Sé, è un paradosso che trasforma in maniera sempre più ambigua il discorso coloniale. Esso infatti cerca sia di interpretare il colonizzato come l’Altro, ma anche come simile, il che risulta così difficile da diventare impossibile. Secondo Bhabha, ciò che crea lo stereotipo è lo stesso che si trova alla base della nozione di feticcio. Questo perché è presente sia il fallo materno ma anche la sua assenza, che nel feticismo vedremo composto come la scoperta traumatica di essere differenti e la minaccia di perdita. Bhabha infatti dice che per lo stereotipo da una parte troviamo un incontro che ci inquieta a causa della differenza che però viene assimilata, dall’altra il tentativo di normalizzare questa differenza con una componente aggiuntiva per stabilizzare un’identità precaria. Così stereotipo e feticcio collegano lo sconosciuto e inquietante al conosciuto e familiare. Ed è questo che l’Altro, come costituzione sconosciuta, possiede elementi in opposizione al Sé. Said infatti ci informa di come, nei testi culturali, la costruzione dell’Oriente da parte dell’Occidente non sia altro che un’imposizione culturale in un progetto imperiale. Il potere coloniale non è solo repressivo, ma anche produttivo: tutto si basa su rapporti economici, politici militari, ma anche su fattori culturali che spesso risultano sia veritieri sia fittizi. Il rapporto della cultura europea con quella altra si basa sempre su una superiorità da parte della prima, dove un equilibrio è impensabile. Tornando dunque al cannibalismo, il discorso diventa il metodo con cui stabilire le regole che ci dettano il modo con cui bisogna ragionare, pensare, contestualizzare un argomento. Il cannibalismo è stato soggiogato a livello del linguaggio, in quanto pratica minacciosa, e può essere considerato come un discorso originato dall’Occidente e costruito della percezione occidentale. Un discorso che mostra una rappresentazione culturalmente costruita della pratica, quindi una copia e non la sua realtà. LE FORME DELL’ANTROPOFAGIA Anche se non esiste nessun tipo di antropologia che viene universalmente accettata, essa si distingue in tre principali filoni o sottocategorie: sopravvivenza, esocannibalismo ed endocannibalismo. 1. Sopravvivenza Il primo è il caso materiale in cui il cannibalismo nasce a causa di un bisogno di sopravvivenza. In questo genere di cannibalismo, le persone sono spinte all’atto per sopravvivere ed è quindi la forma ultima a condizioni avverse per salvarsi. È considerata infatti una pratica culturalmente non sanzionata e socialmente accettata, soprattutto in ambito marinaresco. Questa idea rimuove lo stigma morale, visto che tutte le civiltà erano o sono potenzialmente cannibaliche. Sembra che, in tal senso, la fame giochi un ruolo fondamentale e che sia, per questo, il fattore scatenante. Secondo Marvin Harris, questo genere di cannibalismo può essere correlato anche all’apprezzamento del valore nutrizionale di questo consumo. Eppure, gli antropofagi non ritengono questa categoria da dibattere, anche se la comunità scientifica è riuscita a trovare molti dati in tal senso. Essa è divenuta poco rilevante per lo studio che si sta svolgendo. 2. Esocannibalismo L’esocannibalismo rappresenta il cannibalismo attuato nei confronti di estranei, spesso nemici, schiavi o prigionieri di guerra. La pratica sembra essere sottoposta per assorbire alcune caratteristiche del pericoloso nemico e, allo stesso tempo, neutralizzarle. La sua dinamica è ovviamente violenta, oltre che essere la pratica più diffusa e riconosciuta. I brasiliani di Montaigne -trattati ne ‘Il Mito del Cannibale’- hanno mangiato i nemici catturati, dunque ne sono un pieno esempio. Studiosi come John Kanye credono che l’esocannibalismo si manifesta in ostilità, violenza e dominio nei confronti della vittima. 3. Endocannibalismo L’endocannibalismo invece rappresenta quel cannibalismo attuato nei confronti di un membro del proprio gruppo o un familiare; la carne diviene il canale fisico con cui comunicare volare sociale e fertilità. L’endocannibalismo riconverte e rigenera le forze sociali che si pensa siano costituite in corpo o ossa, ma anche a tenersi legati ai vivi per sempre. Queste categorie mostrano quanto sia varia la pratica cannibale, senza definirla in una maniera rigida e unica, avvicinandola invece in un percorso ermeneutico piuttosto ce ad un modello ipotetico-deduttivo. Il cannibale quindi non mette semplicemente in discussione l’universalità delle strutture binarie, ma ci sfida a smettere di pensare alla coesistenza tra i
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