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Riassunto Il teatro e il suo doppio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Antonin Artaud: tutti i saggi del libro "Il teatro e il suo doppio"

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 03/06/2015

veronica.zaccardi.al
veronica.zaccardi.al 🇮🇹

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Scarica Riassunto Il teatro e il suo doppio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Il teatro e il suo doppio – Antonin Artaud Vita Scrittore, regista e attore francese (Marsiglia 1896 - Ivry-sur-Seine 1948); aderente al surrealismo, se ne allontanò per frequentare la scuola di Charles Dullin, esordendo come attore all'Atelier. Nel 1926 impostò un'attività teatrale autonoma con la fondazione del teatro Alfred Jarry (dove esordì come regista mettendo in scena una sua pochade commedia dai toni farseschi) e con la elaborazione di alcuni manifesti teorici sul coinvolgimento dello spettatore. Per Artaud compito del teatro sarebbe scuotere e sconvolgere lo spettatore: il suo teatro della crudeltà intendeva appunto proporre uno spettacolo totale in cui fossero impiegati tutti i mezzi d'azione (luci, suoni, gesti, vicende, ecc.) atti a suscitare la partecipazione incondizionata dello spettatore. Una malattia mentale lo costrinse a vivere lontano dalla vita teatrale, ma scrisse ancora qualche saggio (tra cui il volume Van Gogh, le suicidé de la société, 1947). Tra le sue opere fondamentale per il teatro Le théâtre et son double, 1938. Introduzione Antonin Artaud è stato, assieme a Stanislavskij e Brecht, il più autorevole teorico del teatro del ‘900, non tanto per i risultati ottenuti (in quanto il suo teatro non fu mai all’altezza dei “manifesti” pubblicati) quanto per l’originalità dei sui scritti e dei suoi trattati. Per Artaud, come per Brecht, il dramma è uno strumento di rivoluzione, capace di riordinare l’esistenza umana. Artaud si preoccupò di separare il teatro come doveva essere (“il compimento dei più puri desideri umani”) dal teatro come era allora (“superficiale e posticcio, di consumo momentaneo”). Tuttavia, l’obiettivo di Artaud – a differenza di altri registi pedagoghi del ‘900 – non era quello di trasformare l’uomo socialmente, ma psicologicamente, liberando tutte quelle forze oscure e nascoste che fanno parte di ogni individuo. Così Artaud e Brecht si trovano in due posizioni diametralmente opposte: Brecht voleva affermare un teatro che stimolasse lo spettatore, inducendolo al ragionamento e all’analisi, mentre Artaud voleva un teatro senza alcuna riflessione razionale che ostacolasse il risveglio dello spirito interiore dell’uomo. Artaud porta le teorie simboliste e surrealiste al loro limite più estremo. Secondo Artaud, il teatro dovrebbe “rituffarsi nella vita”, ma non alla maniera dei naturalisti, bensì ad un livello mistico, metafisico; compito degli scenografi e degli attori è rivelare la vita segreta dei grandi drammi, creando un teatro dove il pubblico non venga per osservare, ma per partecipare emotivamente. Queste idee sono tutte sviluppate da Artaud nei suoi manifesti scritti fra il 1926 ed il 1929 a sostegno della sua organizzazione teatrale, il teatro Alfred Jarry. Artaud prometteva un teatro che avrebbe mostrato allo spettatore le angosce e le inquietudini della vita reale, in cui sarebbero entrati in gioco molti fattori: “lo spirito, ma anche i sensi e la carne”. Si sarebbe dovuto avere un teatro “di magia”, rivolto non allo sguardo o alla mente, bensì “agli aspetti più segreti del cuore”. Nel saggio Il teatro Alfred Jarry, Artaud respinge le neonate accuse alle proprie idee dicendo che il suo teatro era uno spettacolo “libero” (come la poesia, la musica e la pittura), ma anche un “teatro totale” di pura esperienza; l’obiettivo di Artaud era extra-teatrale, cioè una reintegrazione della vita stessa secondo una visione quasi allucinatoria della realtà umana. Durante i primi anni ’30, Artaud scrive una serie di saggi che formano la sua opera più importante, Il teatro ed il suo “doppio” (1938); il saggio, contenuto nell’opera, dedicato agli attori balinesi segna un evento assolutamente importante: la visione dei danzatori balinesi, da parte di Artaud, contribuì ad una svolta nel suo pensiero. Infatti, fino al 1926, Artaud aveva affermato che la recitazione e la messinscena avrebbero dovuto essere considerate come i segni visibili di un linguaggio che invece è “invisibile e segreto”; tuttavia, il modello per questi segni non gli fu molto chiaro fino a che non vide i danzatori balinesi: divenne quindi concreta l’idea di un teatro puro, dove tutto diviene oggettivo solo nel momento stesso in cui si trova sulla scena. Le parole erano eliminate: gli attori diventavano “geroglifici animati”, le cui grida ed i cui gesti risvegliavano nel pubblico una risposta emotiva, non traducibile in un linguaggio logico e discorsivo. Fin dall’inizio della sua carriera di poeta e di attore (con Charles Dullin), Artaud era ossessionato dall’incapacità delle parole ad esprimere il mondo interiore di ogni individuo; i danzatori balinesi gli dimostrarono come era possibile utilizzare un sistema di segni spirituali capace di sostituire la parola. Il teatro, per Artaud, doveva essere liberato dalla sua sottomissione al testo, così come il corpo dell’attore doveva essere liberato dalla sua subordinazione alla mente. Il linguaggio da usare, quindi, non doveva più essere umanistico e realistico, bensì un linguaggio della magia. Il termine “crudeltà” fu scelto da Artaud per definire il suo nuovo teatro, nel 1932, dopo aver scartato termini come “assoluto”, “metafisico”, “alchimistico”; pubblicò ben due manifesti de Il teatro della crudeltà, nel 1932 e nel 1933. Sin dall’inizio, Artaud precisò che non si trattava di un’interpretazione morale e fisica della crudeltà: lo spargimento di sangue e di carne martoriata costituivano un aspetto secondario della questione (ma comunque presente), lasciando posto ad una crudeltà intesa come forza ed energia creativa, come impulso irrazionale la cui legge unica è il Male. L’unico vero compito del teatro di Artaud era offrire allo spettatore una rivelazione, cioè rivelare il cuore di tenebra presente nella vita stessa. Di conseguenza, tutte le convenzioni della società moderna, specie quella occidentale (cioè la sua morale, i suoi tabù, le sue istituzioni), sono per Artaud inutili tentativi di negare questa crudeltà cosmica: per Artaud la sproporzione esistente fra i sentimenti ed il linguaggio andava inquadrata in una più generale crisi culturale (come si legge nella prefazione). Nel saggio Il teatro e la peste, Artaud paragona il teatro alla peste, in quanto – come la peste – è capace di rivelare lo spirito represso in ogni uomo. Il teatro, come la peste, spinge in superficie la crudeltà nascosta; libera le possibilità più oscure. Alcuni critici hanno acutamente individuato nel teatro di Artaud una tendenza anticonvenzionale: se per secolo si è parlato del teatro come “purgazione” dei sentimenti e dei valori negativi, con il Teatro della Crudeltà abbiamo una sorta di anti-purgazione: esso evidenzia come l’animo umano sia caratterizzato da lati oscuri ed energie dolorose, senza possibilità di conciliazione. Il concetto di “doppio” di Artaud fu fonte di malintesi: egli spiegava il titolo del suo libro dicendo che “se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro”; i doppi del teatro sono allora la metafisica, la poesia, la crudeltà. Il doppio del teatro non è la realtà quotidiana, sempre più vuota ed insignificante, ma piuttosto la realtà archetipica e pericolosa. Il concetto di “doppio” viene applicato da Artaud anche a proposito dell’attore: l’attore deve vedere il suo corpo come il doppio di uno “spettro”, plastico e mai compiuto, simile al ‘Ka’ delle mummie egiziane; ogni parte del corpo ha uno speciale potere mistico ed ogni emozione ha una base organica. Ogni differente metodo di respirazione può essere analizzato per il contenuto simbolico. Il teatro Alfred Jarry (Alfred Jarry è stato un drammaturgo, scrittore e poeta francese. I suoi testi sono tra i primi a trattare del tema dell’assurdità dell’esistenza e hanno a che fare con il grottesco e il fraintendimento.) Antonin Artaud è il fondatore del teatro Alfred Jarry. Artaud vuole che la rappresentazione provochi lo spettatore, che lo mistifichi, lo traumatizzi, lo impegni attivamente nell’avvenimento che si rinnova ogni sera, liberi in lui le forze più brutali e crudeli. Per ottenere questo scopo il drammaturgo rinuncerà al dialogo tradizionale: “Un teatro che sottometta la messa in scena e la realizzazione vale a dire quanto vi è in esso di più specificatamente teatrale, al testo, è un teatro di idioti, di pazzi, di invertiti, di grammatici di droghieri, di antipoeti e di positivisti, insomma di Occidentali”. Artaud lancia dunque l’anatema contro la letteratura. Niente idee sulla scena, né psicologia, né personaggi, né umanità  disordine e improvvisazione. Jarry derideva già l’importanza che l’uomo, nella sua boria, si attribuisce nell’universo. Artaud né ride, come lui. Dell’uomo ammette sulla scena solo quanto vi è di torbido e di meno individualizzato: sogni e istinti. E, riguardo all’espressione, un linguaggio particolare, fatto soprattutto per i sensi: gesti, illuminazione, valorizzazione dell’oggetto e dell’accessorio. La novità della messa in scena bisogna cercarla soprattutto negli scenari e nei giochi di luce: Artaud voleva ad esempio che gli scenari, gli accessori e gli oggetti di scena fossero considerati per quelli che erano realmente, in modo che dalla loro disposizione, dalla loro presenza quasi inaspettata potesse derivare un turbamento nello spettatore trascinato e affascinato da una situazione enigmatica in cui sembra che da un attimo all'altro possa esplodere qualcosa: una luce violenta esplora la scena e mette in evidenza anche ciò che è apparentemente invisibile. L'operazione analitica svolta sugli oggetti si estendeva poi anche agli attori e in particolare al loro linguaggio verbale e gestuale: una recitazione molto serrata dalla quale avessero possibilità di emergere in primo luogo i lapsus, i cosiddetti “atti mancati” per la rimozione dell’io profondo e per la provocazione di un'emozione psicologica; i movimenti del corpo dovevano inoltre essere in armonia non tanto con le azioni quanto piuttosto con i pensieri non palesati, nascosti o riposti nell' inconscio dei personaggi. La psicoanalisi trovava così il suo punto di oggettivazione concreta nel teatro. Il teatro Alfred Jarry diede allora la spinta alle creazioni teatrali verso un'emozionalità di tipo surrealista ma è il maggiore esponente di questo gruppo, grande teorico del teatro, Antonin Artaud, a formulare in maniera più concreta e ragionata il concetto di scena, di spazio e di occupazione di esso, di spettacolo, in una parola di evento, termine che contiene già in sé il significato di magia, di rito partecipativo ancor prima che di rito di coinvolgimento: « Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia. Non ci rivolgiamo agli occhi, né all'emozione diretta dell'anima; quello che cerchiamo di suscitare è una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gl'impulsi più segreti del cuore... ». Tutta la sala è un immenso palcoscenico dove lo spettatore assisterà allo svolgersi della prova. Prova di cosa? Non c’è testo; il dramma si produce davanti ai nostri occhi. Famiglia in lutto, dai volti pallidissimi e come non del tutto usciti da un sogno. Sono i sei personaggi in cerca d’autore, personaggi che chiedono di vivere, vogliono essere immersi in un dramma, sono reali e lo dimostrano (rapporto realtà-vita). Ma se loro sono reali, allora noi che cosa siamo? Si pone così il problema del teatro. Les Mysteres de l’Amour di Roger Vitrac Roger Vitrac conosce la ripartizione dello spirito. Questa opera è un’alchimia dell’amore, di un certo amore, degli amori di un certo numero di esseri  fantocci determinati, impossibili da confondere; sono rappresentazioni, stati, immagini, ma sono anche Esseri  impossibili da pensare eppure reali, fenomenali. Prendono possesso della storia. Il teatro e il suo doppio Il teatro e la cultura Artaud parte dal presupposto che nel mondo esistono alcuni grandi problemi “oggettivi” – il suo esempio preferito è “la fame” – che di fatto annullano ogni preoccupazione per la cultura. Artaud non intende difendere una cultura che non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, bensì estrarre da ciò che noi chiamiamo “cultura” delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame. “Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere.” Artaud intende dire, con questa frase, che se è essenziale per tutti noi mangiare, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell’unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice fatto di avere fame. Se il tempo corrente è caratterizzato dalla confusione, alla base di essa vi è una frattura fra le cose e le parole, le idee, i segni che le rappresentano. Ciò premesso, Artaud passa a delineare un’idea della cultura, idea che si concretizza innanzitutto in una protesta. Protesta contro l’impoverimento imposto al concetto di cultura, ridotta ad un qualcosa da idolatrare, ridotta ad un Pantheon; protesta contro la cultura come concetto a se stante, come se esistesse la cultura da un lato e la vita dall’altro. Ciò che secondo Artaud ci ha fatto perdere il senso della cultura è la nostra idea occidentale dell’arte: contrariamente a quanto si vuole far credere, arte e cultura non possono andare d’accordo. La vera cultura agisce attraverso l’esaltazione e la forza, mentre l’ideale estetico europeo tende ad esaltare lo spirito separandolo dalla forza. Ogni autentica effige ha un’ombra che costituisce il suo doppio: l’arte cessa di avere importanza a partire dall’istante in cui lo scultore, nel modellare, pensa di aver liberato una sorta d’ombra la cui esistenza strazierà il suo riposo. Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le suo ombre; e, fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il solo le cui ombre abbaino travolto i loro limiti. Anzi, esse non hanno tollerato alcun limite fin dalla loro origine. Il nostro concetto pietrificato del teatro si riallaccia alla nozione pietrificata di una cultura senza ombre, in cui il nostro spirito incontra solamente il vuoto. Ma il vero teatro, che si avvale di strumenti “vivi” (come gli attori), continua ad agitare ombre; l’attore, che non ripete mai due volte lo stesso gesto, ma compie gesti, si muove fra le forme e le esalta, le mostra, le violenta rendendo tutto lo spazio uno spazio vivo e multiforme. Il teatro non consiste in nulla ma si serve di tutti i linguaggi – gesti, suoni, parole, luce, grida – nasce proprio nel momento in cui lo spirito, per manifestarsi, ha bisogno di un linguaggio. Ma questa “drammaturgia della forma” muore nel momento stesso in cui si fissa in uno solo di questi linguaggi (ad esempio “la parola”). Utilizzare o privilegiare un linguaggio, ingigantendone l’importanza, significa inevitabilmente limitarlo. Spezzare il linguaggio, ecco cosa vuole Artaud: spezzarlo per raggiungere la vita. In questo modo si può fare o rifare il teatro. Ciò che importa non è credere che questo atto debba rimanere “sacro” – riservato cioè a pochi – bensì credere che non tutti possono compierlo, in quanto esso esige una preparazione. Il che significa rifiutare i consueti limiti dell’uomo e delle sue facoltà, e allargare i confini di quella che noi conosciamo come realtà. Solo in questo modo, conclude Artaud, si può ambire ad una concezione di vita rinnovata, dove l’uomo diviene signore di ciò che ancora non esiste e che dunque egli fa nascere. Il teatro e la peste Si tratta di uno dei saggi più originali di Artaud. Egli parte da una lunga considerazione sulla “peste” (intesa come virus) per allacciarsi ad una metafora riguardante il teatro: quando in una città si verifica la peste, le forme di vita normale crollano; la situazione dell’appestato che muore senza distruzione materiale, con tutte le stimmate di un male assoluto e quasi astratto, è identica a quella dell’attore, che viene penetrato interamente dai propri sentimenti, e da questi sconvolto, senza alcun beneficio per la realtà. Nell’aspetto fisico dell’attore, come in quello dell’appestato, tutto testimonia che la vita ha reagito fino al culmine, e che nonostante ciò non è avvenuto nulla. Fra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni e l’attore che si lancia alla ricerca della propria “sensibilità, fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali non ha mai pensato e l’attore che li raffigura in mezzo ad un pubblico consenziente, esistono anche altre analogie che pongono il teatro alla stregua della pestilenza: entrambe sono un’autentica epidemia. Eppure Artaud individua una sostanziale differenza: mentre le immagini della peste, essendo in rapporto con uno stato di degradazione fisica, sono come gli ultimi sprazzi di una forza spirituale che si va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che parte dal sensibile per fare a meno della realtà. La forza dell’attore non si esaurisce, non va morendo, non si degrada: l’attore è confinato in un cerchio puro e completo. Bisogna però ammettere, ancora una volta, che la rappresentazione teatrale, come la peste, è un delirio ed è comunicativa: tuttavia, per far nascere dallo spirito uno spettacolo vero e proprio, si devono riscoprire determinati procedimenti. E non è semplicemente questione di arte. Infatti il teatro è come la peste, c’è in esso qualcosa di vittorioso ed insieme di vendicativo; e come la peste, anche il teatro stabilisce un legame tra ciò che è e ciò che non è, fra realtà materiale e realtà virtualmente possibile. Ritrova così il concetto di simbolo e di archetipo, creando dinanzi agli occhi dello spettatore un universo di simboli e, come tale, impossibile, indecifrabile, inaccessibile. Da questo presupposto di realtà possibile nasce la poesia, che sulla scena alimenta questi simboli. Una vera opera teatrale, secondo Artaud – e ciò è confermato dai suoi Manifesti -, scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio, spinge ad una specie di rivolta spirituale: impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Come la peste, dunque, il teatro diviene formidabile veicolo di forze che riportano lo spirito all’origine dei suoi conflitti. Il teatro è essenziale come la peste, non perché contagioso, ma perché come la peste è rivelazione. Come la peste è il momento del Male, il trionfo delle forze oscure; in esso c’è una specie di strano Sole, una luce anomala, dove nulla si accende in modo normale. Si può dire che ogni vera libertà è nera e si identifica immancabilmente con la libertà sessuale: da un pezzo l’Eros platonico – in senso genetico – la libertà di vita, sono scomparsi sotto i freni della Libido, nella quale si identifica tutto ciò che è sporco, infamante e abbietto. Tutti i grandi Miti sono neri, e fuori da una atmosfera di strage, torture, sangue versato non si possono immaginare le splendide favole che raccontano alle folle (forse tutte le favole hanno il male alla base). Il teatro, come la peste, è modellato su questo massacro, sul fatto che scioglie conflitti, sprigiona forze, libera le possibilità; e se queste forze sono nere, non è colpa del teatro né della peste, bensì della vita. Ad Artaud non sembra affatto che la vita, così com’è, possa essere fonte di esaltazione. Dal punto di vista umano, l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica: essa, spingendo gli uomini a vedersi come sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, porta a galla la verità, spinge ad atti di eroismo e di consapevolezza. La messa in scena e la metafisica Artaud analizza un quadro custodito al Louvre: Le figlie di Loth, dipinto che secondo il regista rende inutili gli altri 4 o 5 secoli di storia della pittura che lo hanno seguito. Tale dipinto ha la caratteristica fondamentale di “scatenare” qualcosa nell’osservatore, di colpire tanto l’orecchio quanto l’occhio: infatti, esso raccoglie in sé un grande dramma intellettuale. Sembra, dice Artaud, che il pittore sia a conoscenza dei mezzi per agire sul cervello umano. Ma il quadro non sprigiona idee chiare: le idee che esso raccoglie sono tutte metafisiche. Anzi, Artaud aggiunge che la grandezza poetica di queste idee deriva proprio dal fatto di essere metafisiche. L’idea stessa di “caos” presente nel quadro si aggiunge al Meraviglioso e all’Equilibrio: e secondo Artaud questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il Teatro. Ma per farlo, il teatro dovrebbe saper parlare il linguaggio che gli è proprio: invece, dice Artaud, la situazione è ben diversa. E pone una domanda: perché in Occidente tutto ciò che è specificamente teatrale (cioè tutto ciò che non è contenuto nel dialogo) rimane in secondo piano, quasi non fosse poi così importante? Il dialogo non appartiene specificamente alla scena, appartiene al libro; la scena è un luogo fisico e concreto che dev’essere “riempito” e che pretende di parlare un suo linguaggio concreto. Questo linguaggio, per Artaud, deve innanzitutto soddisfare i sensi, poiché esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, ed è un linguaggio puramente teatrale poiché i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato. Il linguaggio fisico, materiale e solido, del teatro è nettamente differente dalla parola: esso consiste in tutto ciò che occupa la scena, in tutto ciò che può manifestarsi ed esprimersi materialmente sulla scena, e che si rivolge innanzitutto ai sensi. E’ un linguaggio fatto per soddisfare i sensi. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà in un campo non appartenente alla parola. Questa poesia utilizza tutti i mezzi di espressione utilizzabili su un palcoscenico – musica, danza, plastica, pantomima, mimica, intonazione, architettura, illuminazione, scenografia ecc. – ed ognuno di questi mezzi ha una propria arte o poesia intrinseca che, fondendosi con gli altri mezzi espressivi, crea una successione di reazioni e di momenti di poesia. Una forma di questa poesia spaziale è propria del linguaggio dei segni: in questo caso abbiamo a che fare con il linguaggio teatrale puro, che sfugge alla parola; un linguaggio fatto di segni, gesti, atteggiamenti. Artaud parla a tal proposito di pantomima non pervertita, cioè una pantomima diretta, i cui gesti – anziché rappresentare parole – rappresentano idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura, aspetti astratti. Tali segni rappresentano veri e proprio geroglifici: dentro di essi, l’uomo è un elemento come gli altri, che grazie alla sua doppia natura aggiunge un importante prestigio all’arte del teatro. Ed è tale linguaggio – capace di evocare nello spirito immagini di intensa poesia naturale o spirituale – a dare bene l’idea di ciò che potrebbe essere a teatro una poesia dello spazio indipendente dal linguaggio articolato. Artaud è insomma convinto che il teatro vive a malincuore sotto la dittatura della parola: il linguaggio di segni e di mimica, cioè la pantomima non pervertita, rappresenta qualcosa di specificamente teatrale che spesso viene confuso con “attrezzi del mestiere” o con ciò che si intende per “regia”. Questo modo di vedere le cose è sbagliato ed in opposizione ad esso Artaud afferma che il linguaggio specifico del teatro nasce dalla scena, senza passare per le parole. E’ il regista a costruire teatro, non il testo scritto e parlato. Quindi un teatro che vada a subordinare la regia e lo spettacolo – cioè tutto ciò che fa parte del linguaggio della scena – al testo, è un teatro di idioti, di pazzi, di pedanti… in una sola parola di “Occidentali”. E’ vero che il linguaggio della scena, quello specificamente teatrale, è meno adatto ad illustrare un carattere, a raccontare pensieri, ad esporre con chiarezza i fatti, rispetto a quello verbale: ma chi l’ha detto che il teatro è fatto per esprimere tutto ciò? Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto la sua dimensione originaria, il culto, il rito, il pericolo; perché ha rotto i ponti con l’anarchia profonda che è alla base della poesia. E la vera poesia è metafisica: essa rimette in discussione i rapporti fra oggetto e oggetto, tra forma e significato. Nel teatro Orientale di tipo metafisico, dice Artaud, tutto l’insieme dei gesti, movimenti, segni, sonorità che costituisce il linguaggio della scena porta necessariamente il pensiero verso un atteggiamento che Artaud definisce metafisica in atto; cosa che invece non avviene nel teatro Occidentale di tipo psicologico. I mezzi di espressione di cui il teatro e la regia dispongono sono veramente molti ed è inutile elencarli; Artaud si limita a due esempi: 1) il linguaggio articolato: fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che solitamente non esprime; significa utilizzarlo in modo diverso, singolare, restituendogli un potere originario: quelle di scuotimento fisico. Artaud suggerisce di considerare il linguaggio sotto forma di Incantesimo; 2) l’accezione religiosa e mistica del teatro: per Artaud bisogna abbandonare l’accezione umana, attuale e psicologica del teatro per ritrovare quella accezione che il teatro ha smarrito: religiosa e mistica. Il teatro alchimistico Artaud dà inizio ad un altro breve saggio, Il teatro alchimistico, affermando che tra l’alchimia ed il teatro esiste una misteriosa identità: il teatro, come l’alchimia, è legato ad una serie di fondamenti comuni a tutte le arti; ma sia l’alchimia che il teatro sono entrambe arti virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo né la loro realtà. Se l’alchimia, grazie ai suoi simboli, è come il Doppio spirituale di un’operazione che risulta efficace soltanto sul piano della materia reale, il teatro dev’essere a sua volta considerato il Doppio non di quella realtà quotidiana di cui è divenuto solamente una copia inerte, ma di un’altra realtà rischiosa ed alternativa. Tutti i veri alchimisti sanno che il simbolo alchimico è un miraggio come lo è il teatro: a noi sfugge il simbolismo materiale, ma ciò non vuol dire che il nostro spirito non sia in grado di decodificarlo. Il teatro a cui Artaud allude, ovviamente, non ha niente a che vedere con quello sociale o d’attualità. Sul teatro balinese Lo spettacolo del teatro balinese, fatto di danza, canto, pantomima e pochissimo teatro psicologico come lo intendiamo noi in Occidente, riporta il teatro ad un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione a noi sconosciuta. Le situazioni, che nel teatro occidentale danno motivo di esistenza allo spettacolo, sono nel teatro balinese soltanto un pretesto. Il dramma non si sviluppa come conflitto di sentimenti, ma come conflitto di posizioni spirituali, ridotte a schemi e a gesti. I Balinesi realizzano l’idea di teatro puro dove tutto vale ed esiste solo in quanto si oggettivizza sulla scena. E al contempo ci mostrano la centralità del ruolo del regista, la cui capacità creativa elimina le parole. I temi sono sempre vachi, astratti, generici; ad essi, dà vita solamente il complesso moltiplicarsi degli artifici scenici. Ciò che risulta interessante di questo insieme di gesti, atteggiamenti e modulazioni della voce è il fatto che questi “fantocci animati” utilizzano ogni punto dello spazio scenico, dando origine ad un nuovo
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