Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto IL TEATRO E IL SUO DOPPIO - Antonin Artaud, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto dettagliato di IL TEATRO E IL SUO DOPPIO di Antonin Artaud

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 18/03/2016

fla.castelli1
fla.castelli1 🇮🇹

4.3

(19)

11 documenti

1 / 46

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto IL TEATRO E IL SUO DOPPIO - Antonin Artaud e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! IL TEATRO E IL SUO DOPPIO- ANTONIN ARTAUD TEATRO ALFRED JARRY IL TEATRO ALFRED JARRY (1926) Il teatro partecipa del discredito in cui, una dopo l’altra, cadono tutte le forme d’arte. In mezzo alla confusione, all’assenza, al deterioramento di tutti i valori umani, all’angosciosa incertezza in cui siamo immersi riguardo alla necessità e al valore di questa o quell’arte o attività dello spirito, la più colpita è probabilmente l’idea di teatro. Si cercherebbe invano nella massa di spettacoli presentati ogni giorno qualcosa di adeguato all’idea che ci si può fare di un teatro assolutamente puro. L’idea di teatro non ha più per noi il prestigio, quel carattere di cosa unica, inaudita, intera che conservano ancora certe idee scritte o dipinte. Alla base di un teatro puro deve esserci un pubblico capace di fare lega con noi perché a differenza dei letterati o dei pittori, non ci è possibile fare a meno del pubblico, che diviene del resto parte integrante del nostro tentativo. Un’ arte interamente fondata su un potere di illusione non ha ormai che da scomparire. Le parole hanno valore in se stesse, ma scene, costumi gesti e grida false non sostituiranno mai la realtà che ci aspettiamo. L’importante è dunque la formazione di una realtà, di un mondo effimero ma vero, tangente al reale. Il teatro ideale è questo spettacolo: quell’angoscia, quel senso di colpa, quella vittoria, quell’appagamento esprimono a meraviglia il tono e il senso della condizione mentale in cui lo spettatore si dovrà trovare quando uscirà dal nostro teatro. Sarà scosso e sconvolto dal dinamismo interno dello spettacolo, e questo dinamismo sarà in diretta relazione con le angosce e le preoccupazioni di tutta la sua vita. L’illusione non si fonderà più sulla verosimiglianza o inverosimiglianza dell’azione, ma sulla forza comunicativa e la realtà di tale azione. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile ci considereremmo impari al nostro impegno più assoluto. TEATRO ALFRED JARRY (Primo anno-Stagione 1926-1927) Uno spettacolo che si ripete ogni sera, secondo riti sempre uguali non può più avere il nostro consenso. Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita o avvenimento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita anziché separarcene. Bisogna che lo spettatore abbia la sensazione che davanti a lui si rappresenta una scena della sua stessa esistenza. Chiediamo, insomma, al nostro pubblico, un’adesione intima, profonda. Lo spettatore che viene da noi saprà di venire a sottoporsi ad una vera e propria operazione, dove non solo è in gioco il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne. Questa necessità in cui ci troviamo ad essere il più possibile vivi e veri, basta a dare un’idea del nostro disprezzo per tutti i mezzi teatrali propriamente detti, per tutto quello che si suole definire messa in scena, come illuminazione, costumi, scene ecc. E’ tutto un pittoresco su ordinazione, a cui non diamo nessuna importanza. Il teatro consiste per noi in qualcosa di imponderabile, che non si adatta in alcun modo al progresso. In materia di messa in scena e di criteri di impostazione ci affidiamo spavaldamente al caso. Non c’è insuccesso o catastrofe che possa farci paura. Solo un miracolo potrà ricompensare i nostri sforzi e la nostra pazienza. Il regista non obbedirà ad alcun principio, ma seguirà l’ispirazione, troverà o non troverà l’elemento di inquietudine atto ad immergere lo spettatore nel dubbio ricercato. Le opere che rappresenteremo appartengono alla letteratura. E’ evidente tuttavia che lavoreremo su testi determinati. Una sola cosa ci pare vera: il testo. Ma il testo in quanto realtà distinta, che basta a se stessa, non nel suo spirito che siamo pochissimo disposti a rispettare. Ciò che ci sembra insopportabile nel teatro, è ciò che distingue l’arte teatrale dall’arte pittorica e dalla letteratura: tutto quell’apparato odioso e ingombrante per cui un’opera scritta si trasforma in spettacolo invece di restare nei limiti della parola, delle immagini e delle astrazioni. Vogliamo ridurre questo apparato e questa ostentazione visiva e sottometterli all’aspetto di gravità e al carattere di inquietudine dell’azione. Programma della stagione 1926-1927 Il teatro Alfred Jerry darà in questa stagione almeno 4 spettacoli. Il primo presentato il 15 gennaio 1927, alle 15, sulla scena del Vieux Colombier, comprenderà: -La Peur c’est l’Amour. Dialogo di Alfred Jarry (prima rappresentazione) -Le Vieux de la Montagne. Lavoro schematico in 5 atti, di Alfred Jarry (prima rappresentazione) -Les Mystères de l’Amour. Lavoro in 3 atti di Roger Vitrac (prima rappresentazione). Spettacoli successivi: -La Tragedia del Vendicatore, di Cyril Tourneur (prima rappresentazione) -Il Sogno, di August Strindberg (prima rappresentazione) -Le Jet de Sang, di Antonin Artaud (prima rappresentazione) -Gigogne, di Max Robur (prima rappresentazione). -Un lavoro di Savinio. MANIFESTO PER UN TEATRO ABORTITO (1926-1927)- Antonin Artaud Nell’epoca di confusione in cui viviamo, ho avuto la debolezza di credere che avrei potuto almeno avviare il tentativo di ridare vita al valore universalmente disprezzato del teatro, ma la stupidità di alcuni, la malafede e la spregevole canaglieria di altri me ne hanno distolto per sempre. Di questo tentativo rimane ai miei occhi il seguente manifesto: 13 novembre 1926: Siamo dal punto di vista spirituale in un’epoca critica. Siamo totalmente impegnati a disseppellire un certo numero di segreti. E vogliamo portare alla luce proprio questo cumulo di sogni, di illusioni, di credenze. Se facciamo un teatro non è per rappresentare lavori, ma per riuscire a fare in modo che quanto c’è di oscuro nello spirito, di occultato, si manifesti in una specie di proiezione materiale, reale. Non ci proponiamo, come è stato sempre richiesto al teatro di dare l’illusione di ciò che non è; ma al contrario, di fare apparire un certo numero di scene, di immagini indistruttibili, incontestabili, che parlino direttamente allo spirito. Gli oggetti, gli accessori, perfino le scene che figureranno sul teatro dovranno essere intesi in senso immediato, senza trasposizione; dovranno essere presi non per ciò che rappresentano ma per ciò che sono in realtà. La regia propriamente detta e le evoluzioni degli attori, dovranno essere considerate solo come i segni visibili di un linguaggio invisibile o segreto. Concepiamo il teatro come una vera operazione di magia. Non ci rivolgiamo agli occhi, né all’emozione diretta dell’anima, ma cerchiamo di suscitare una certa emozione psicologica, in cui saranno messi a nudo gli impulsi segreti del cuore. Al di là dunque, della maggiore o minore riuscita dei nostri spettacoli, quelli che verranno a noi capiranno di essere partecipi di un tentativo mistico, attraverso il quale una parte importante del dominio dello spirito e della coscienza può essere definitivamente salvata o perduta. 8 gennaio 1927: Quei rivoluzionari vorrebbero far credere che fare teatro sia un tentativo controrivoluzionario, come se la rivoluzione fosse un’idea tabù su cui sia da sempre proibito intervenire. Non accetto idee tabù. Per me vi sono molti modi di intendere la rivoluzione e, fra questi, il modo Comunista mi sembra di gran lunga il peggiore. La rivoluzione non consiste in una semplice trasmissione di poteri. Una rivoluzione che ha messo al vertice delle sue preoccupazioni le necessità della produzione e che perciò insiste nel fare affidamento sul progresso meccanico, come mezzo per migliorare la condizione operaia, è per me una rivoluzione di castrati. Ritengo invece che una delle ragioni principali del male di cui soffriamo sia nella frenetica esteriorizzazione e nella moltiplicazione della forza, spinta all’infinito, tale da non lasciare più al pensiero il tempo di riprendere radici in se stesso. Siamo tutti in preda alla disperazione della macchina, a tutti i livelli 4)il quarto spettacolo fu rappresentato alla Comédie des Champs-Elysées il 24 e il 29 dicembre 1928 e il 5 gennaio 1929 in matinée. Comprendeva: -Victor ou Les Enfants ou Pouvoir, dramma borghese in tre atti di Roger Vitrac. Il dramma ora lirico, ora ironico, ora diretto, era rivolto contro la famiglia borghese, puntando sui discriminanti come l’adulterio, l’incesto, la scatologia, la collera, la poesia surrealista, il patriottismo, la follia, la vergogna e la morte. L’OSTILITA’ PUBBLICA Ricerca di capitali. Il denaro si nasconde. Può succedere che se ne trovi per uno spettacolo, ma ciò non basta, poiché le imprese estemporanee non costituiscono propriamente un affare. Vengono dissanguate dai fornitori di ogni specie che aumentano i prezzi quanto più possono, ritenendo che sia giusto riscuotere una tassa su questi divertimenti da snob. Ne consegue che tutte le sottoscrizioni, sovvenzioni o altro si trovano rapidamente esaurite e che lo spettacolo debba essere sospeso dopo la seconda o terza replica, cioè nel momento in cui potrebbe cominciare a mostrarsi produttivo. Il Teatro Alfred Jarry farà tutto il possibile ormai per dare spettacoli regolari in serata. Scelta della sede. E’ praticamente impossibile dare spettacoli di sera con pochi mezzi. O bisogna accontentarsi di una scena rudimentale senza macchinari di scena, o adattarsi a recitare in matinée e solo nei giorni di scarso richiamo, oppure a fine stagione. Le condizioni sono aggravate dal fatto che i direttori di teatro rifiutano di affittare le sale, o non vi acconsentono che a canoni esorbitanti. Perciò anche quest’anno il Teatro Alfred Jarry è costretto a dare i suoi spettacoli a fine stagione. Difficoltà della collaborazione. Gli attori sono introvabili perché in maggioranza sono impegnati in spettacoli regolari, la qual cosa non permette loro di recitare altrove di sera. Inoltre i direttori di teatro abusano della loro autorità proibendo loro di collaborare con il Teatro Alfred Jarry. Peggio ancora concedono permessi che in seguito annullano interrompendo così le prove e costringendoci a cercare nuovi attori. Nonostante tutto abbiamo sempre trovato attori dediti al nostro lavoro a tal punto da formare vere compagnie. La censura. Abbiamo aggirato l’ostacolo presentando La Madre di Gor’kij in spettacolo privato ad inviti. Non c’è ancora una censura teatrale. Ma a seguito di scandali ripetuti è noto che il questore può imporre modifiche allo spettacolo, fino alla soppressione pura e semplice o alla chiusura del teatro. La polizia. In quanto alla polizia interviene sempre automaticamente a questo genere di spettacoli. Il sabotaggio sistematico. Gente malevola o cialtroni che con le loro provocazioni attirano sistematicamente su di sé, e di conseguenza sul pubblico e sullo spettacolo, l’attenzione della forza pubblica che, se no, se ne starebbe tranquillamente alla porta. Non resta altro a questi agenti provocatori che accusare il Teatro Alfred Jarry di essere d’accordo con la polizia e il gioco è fatto. Impediscono lo spettacolo e gettano il discredito sugli organizzatori. Se la manovra è potuta riuscire qualche volta, ora il trucco è scoperto e non inganna più nessuno. La concorrenza. Come è naturale, tutti gli specialisti dell’ “avanguardia”, gente in vista o in procinto di esserlo, diffidano di noi e ci osteggiano senza parere. Il pubblico. Pubblico prevenuto, pubblico mondano, quello degli scherzi spassosi, quello “invitato da Alfred Jarry”. E’ per questo pubblico che diamo spettacolo, e le sue reazioni balorde sono un supplemento al programma che l’altro pubblico sa apprezzare. La critica. Ringraziamola ma non parliamone. NECESSITA’ DEL TEATRO ALFRED JARRY Se il teatro Alfred Jarry non tendesse che a mettere in evidenza e aggravare in qualche modo il conflitto denunciato tra le idee di libertà e di indipendenza che vuole difendere e le forze ostili che già gli sono contro, sarebbe già abbastanza giustificata la sua esistenza. Ma al di fuori delle forze negative che suscita con l’assurdo, pretende di portare sulla scena manifestazioni positive, oggettive e dirette, atte a screditare, con l’utilizzazione di elementi acquisiti e sperimentati, le opere banali e i falsi valori moderni e insieme a ricercare e a mettere in evidenza gli avvenimenti autentici e probanti dello stato attuale dei francesi. POSIZIONE DEL TEATRO ALFRED JARRY Gli spettacoli, dato che sono rivolti a un pubblico francese e a tutti quelli che nel mondo sono considerati amici della Francia, saranno chiari e misurati: dialoghi brevi, personaggi tipici, movimenti rapidi, atteggiamenti stereotipati, locuzioni proverbiali, canzonette, opera lirica, ecc. L’humour sarà l’unico semaforo verde o rosso che illuminerà i drammi, indicando allo spettatore se la strada è libera o bloccata, se è il caso di gridare o di tacere, ridere forte o sommessamente. Il Teatro Alfred Jarry si propone di diventare il teatro di tutto il ridere. Ci proponiamo come tema: l’attualità intesa in tutti i sensi; come mezzo: l’humour, in tutte le sue forme; e come fine: il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità bavosa alla risata irrefrenabile fino alle lacrime. Per humour intendiamo lo sviluppo di quella nozione ironica (ironia tedesca) che caratterizza una certa evoluzione dello spirito moderno. ALCUNI OBIETTIVI DEL TEATRO ALFRED JARRY Ogni teatro che si rispetti sa trarre profitto dall’erotismo. Basti pensare al sapiente dosaggio delle installazioni del boulevard, del music hall e del cinema. Il Teatro Alfred Jarry opererà in tale direzione fin dove gli sarà consentito. Per di più, e oltre alle emozioni che provocherà, si specializzerà in un sentimento su cui nessuna polizia al mondo può interferire: la vergogna, l’ultimo e più temibile ostacolo alla libertà. Rinuncerà a tutti i mezzi che hanno a che fare da vicino o da lontano con le superstizioni, come: sentimenti religiosi, patriottici, occulti, poetici, ecc., se non per denunciarli o per combatterli. Non ammetterà che la poesia di fatto, il meraviglioso umano e l’umoristica. Sulla scena l’inconscio non avrà un ruolo specifico. E’ già abbastanza grande la confusione che esso produce, a cominciare dall’autore, poi da parte del regista e degli attori, e fino agli spettatori. I drammi che noi daremo si pongono decisamente al riparo da qualsiasi commentatore segreto. Riserveremo all’inconscio un carattere nettamente oggettivo, ma solamente in misura della funzione che riveste nella vita quotidiana. TRADIZIONE DICHIARATA DEL TEATRO ALFRED JARRY Il Teatro Alfred Jarry rinuncia ad elencare tutte le influenze frammentarie che ha potuto subire, per soffermarsi soltanto, dal punto di vista dell’efficacia che si esige nel paese, sugli esempi indiscutibili forniti dai teatri cinese, negroamericano e sovietico. Esso partecipa dell’insuperato insegnamento umoristico di Ubu Roi, e del metodo rigorosamente positivo di Raymond Roussel. MESSA IN SCENA Come nel passato le scene e gli accessori saranno reali e concreti. Saranno formati da oggetti e da elementi presi da quanto ci circonda, e tenderanno con la loro sistemazione a creare nuove figure. Le luci contribuiranno a garantire a questa esposizione originale di oggetti il suo carattere essenzialmente teatrale. I personaggi saranno sistematicamente spinti fino al tipo. Daremo una visione nuova del personaggio teatrale. Gli attori si faranno sempre una maschera. Con questo nuovo tono vogliamo sottolineare e perfino rivelare sentimenti supplementari e strani. Il gioco dei movimenti andrà d’accordo o sarà in contrasto con il testo a seconda delle intenzioni da mettere in risalto. Metodo che non ha nulla di gratuitamente artistico poiché è volto a mettere in evidenza gli atti mancati, le dimenticanze, le distrazioni, insomma tutti i tradimenti della personalità, rendendo così superflui i cori, gli a-parte, i monologhi. In via accessoria anche i mezzi più grossolani saranno adoperati per colpire lo spettatore. Fanfare, fuochi artificiali, detonazioni, fari, ecc. Tutti i mezzi scientifici utilizzabili sulla scena saranno adoperati per dare l’equivalente delle vertigini del pensiero o dei sensi (echi, riflessi, apparizioni, manichini, tagli netti, dolori, sorprese ecc.). Con tali mezzi contiamo di ritrovare la paura e i suoi complici. Inoltre i drammi saranno completamente sonorizzati, compresi gli intervalli, durante i quali l’atmosfera drammatica sarà mantenuta fino all’ossessione da altoparlanti. Il lavoro, calcolato così nei particolari, senza disarticolazioni tra una battuta e l’altra, senza incertezze nei gesti, darà al pubblico l’impressione di una fatalità e del determinismo più rigoroso. APPELLO AL PUBBLICO Il Teatro Jarry si permetterà di chiedere al pubblico un aiuto di qualsiasi genere. Risponderà a tutti i suggerimenti che verranno fatti. Esaminerà tutte le opere che gli perverranno, impegnandosi a rappresentare quelle che corrispondano al programma stabilito. Ci proponiamo inoltre di tenere un elenco in cui iscriveremo tutti gli aderenti di principio, pregandoli di farci sapere indirizzo e professione, affinché possiamo tenere conto della loro personalità o tenerli al corrente della nostra attività. ILLUSTRAZIONI Le illustrazioni dell’opuscolo non sono fotografie di messe in scena: ma si dovranno considerare come la storia senza parole, in nove quadri, dello spirito con il quale agiremo. Spirito che è comune ad Antonin Artaud e a Roger Vitrac che le hanno composte in stretta collaborazione e che le hanno interpretate personalmente insieme a Josette Lusson. Atteggiamenti e scene d’insieme sono stati impostati da Artaud. Eli Lotar è il realizzatore della fotografia e del montaggio. La copertina è del pittore Gaston-Louis-Roux. CONFERENZA E LETTURA Il 15 maggio 1930, Roger Vitrac terrà alla Sorbona al Gruppo di studi filosofici e scientifici per l’esame delle tendenze nuove, una conferenza sul Teatro, seguita da una lettura, da parte di Antonin Artaud, del primo atto del dramma: Le Coup de Trafalgar. LA CRITICA E IL TEATRO ALFRED JARRY Primo spettacolo: Ventre Brulé ou La Mère Folle, Antonin Artaud Gigogne, di Max Robur Les Mystères de l’Amour, Roger Vitrac Ventre Brulé ou La Mère Folle, Antonin Artaud: -FRANCOIS IMPARTIAL-> “Questo lavoro mostrava nella quasi completa oscurità un giovane che portava prima avanti e poi indietro una sedia pronunciando frasi misteriose. Moriva e allora passava una regina, che moriva anche lei, e altri che morivano a loro volta. L’autore non ha voluto fornire la chiave del problema”. -MARCEL SAUVAGE-> Ventre Brulé è un lavoro artistico per appassionati di Grand-Guinol. -BENJAMIN CREMIEUX-> Ventre Brulé è più che altro una breve allucinazione senza testo o quasi, in cui l’autore ha condensato una sintesi di vita o di morte, che ha lasciato dietro di sé un’impressione di stranezza molto più forte e persistente che Les Mysteres de l’Amour di Vitrac. Les Mystères de l’Amour, Roger Vitrac: -BENJAMIN CREMIEUX-> Roger Vitrac vi ha inserito tutte le immagini che può suscitare la parola amore, giustapponendole senza collegarle con alcun intreccio. Vi si vede un uomo che batte una donna, la adora, ne è tradito, sogna di ucciderla, di essere ucciso da lei. C’è forse una parodia poetica di gusto raffinato, ma alla rappresentazione non è restato quasi nulla. La frammentarietà delle visioni proposte da Vitrac manca proprio di progressione continua, intreccio o atmosfera. Ciò che mi ha soprattutto colpito in questo spettacolo è la mancanza di novità. Ma le idee registiche di Artaud sono ciò che mi è parso più valido. -MARCEL SAUVAGE-> E’ insomma un tentativo di fotografia mentale delle devastazioni commesse dal tempo di Adamo ed Eva. In scena tutto si risolve in un guazzabuglio che è una via di mezzo tra il cinema, il music hall e la farsa di collegio. L’umorismo forzato diventa ben presto faticoso, tanto più che ha pretese morali, e gli spettatori l’altra sera lasciarono il Theatre de Grenelle , senza né ridere né piangere. SVOLGIMENTO Come un taglialegna o un macellaio, il dottor Pale, in un angolo della scena, è intento a procedere a colpi di ascia ad un vero massacro di manichini. Isabella ad un tavolo in primo piano, si dispera, apre la bocca come se gridasse ma non si sente nulla. Ogni tanto però, qualcuno dei suoi sbadigli finisce in una specie di ululo prolungato. Di fronte al sorriso del dottore, sorride anche lei, si alza e viene verso di lui. Ha inizio un lungo travaglio erotico. L’attrice dovrà mostrare nel suo impeto verso di lui un misto di disgusto e rassegnazione. Verso la fine di questa sadica scena d’amore, esplode una specie di marcia militare d’epoca, un uomo entra di spalle, facendo finta di introdurne un altro, che non sarà altri che lui. Anche questo personaggio sarà doppio: da una parte una specie di mostro sbilenco, sciancato, gobbo, guercio, strabico che cammina tremando; dall’altra, Arlecchino, bel ragazzo che si mette in posa ogni tanto, stando tutto impettito quando non lo vede il dottor Pale. Fra le quinte una voce, orribilmente elevata di tono, commenta le principali situazioni. Il dottore alla vista di Arlecchino è tutto teso in un atteggiamento di curiosità scientifica. Invece Isabella prende l’atteggiamento e la forma di un salice piangente: mima una specie di danza dell’estasi e della meraviglia. La scena potrà essere resa al rallentatore con un improvviso mutamento di luce. Arlecchino tremante al rallentatore e il dottore al rallentatore che va verso di lui, lo spinge dietro le quinte verso il laboratorio e Isabella che in uno spasmo improvviso, ha provato tutto lo stupore del vero amore, sviene, sempre al rallentatore. Trascorrono alcuni istanti, dopodiché si vede il dottore spingere sulla scena il vero Arlecchino e divertirsi a tagliargli a colpi di accetta gambe, braccia e testa. Isabella perde i sensi, ma non cade. Il dottore pazzo di fatica si addormenta. Arlecchino caduto a terra, riprende braccia, gambe e testa, e avanza strisciando verso Isabella. Segue una scena di erotismo violento tra Isabella e Arlecchino. Il dottore si sveglia, li vede e fra le quinte esplode un enorme ruggito. Arlecchino e Isabella si sbrigano a fare il bambino e quando il dottore si avvicina gli mostrano un manichino che gli somiglia in tutto. Mentre Arlecchino si nasconde dietro Isabella, la scena finisce con un abbraccio fra i due coniugi. L’entrata di Arlecchino claudicante avviene in musica. Quando fanno uscire il bambino, un grido si diffonde tra le quinte. Una luce intensa in quel momento colpisce il manichino, come se volesse bruciarlo. NON C’E’ PIU’ FIRMAMENTO MOVIMENTO I La musica darà l’impressione di un cataclisma lontano e che avvolge la sala, cadendo come da una vertiginosa altezza. Nascita di bagliori la cui consistenza trascolora e ogni tinta sarà complessa e sfumata fino all’angoscia. Suoni e luce si riverseranno a scatti con gli sbalzi di un telegrafo Morse, per poi trasformarsi nelle luci e nel frastuono di un moderno incrocio di strade al crepuscolo. Passa gente in tutte le direzioni, ma dei tram, delle metrò, delle macchine, si vedono soltanto le ombre su un immenso muro bianco. Grida della strada. Voci diverse. Rumore infernale. Frasi rotte da passaggi di grida, di rumori, di raffiche sonore che sovrastano tutto. E una voce ossessiva ed enorme annuncia qualcosa che non si capisce. La si avverte come una gran voce larga, dilatata, mai in un sogno, e ricomincia indefinitamente fino alla fine della scena. Ma subito, secondo un ritmo che si dovrà trovare in scena, voci, rumori, grida, si stemperano stranamente, la luce si altera, tutto sembra aspirato dal cielo. Poi tutto ricomincia. Tutti ritornano al loro posto come se nulla fosse accaduto. Il crocevia ricomincia a formicolare. MOVIMENTO II La scena si riempie di gente che corre e indica il cielo col dito. Ressa. La gente fa a pugni per vedere e sale a gruppi sui lati della scena. Il centro è diventato oscuro quando tutti sono saliti fra grida, lamenti, proteste, invocazioni. Strilloni di giornali si spargono nel centro buio della scena agitando i fogli. Gli strilloni riprendono distintamente la grande voce di sogno che non si capiva: “Grande scoperta. Notizia ufficiale. La scienza sconvolta. E il firmamento non c’è più. Non c’è più firmamento”. Un vuoto di calma, poi da lontanissimo, altre voci riprendono con una nuova ondata si strilloni di giornali. Si sente la parola Sirio pronunciata in tutti i toni e in tutti i diapason della scala, che sale e si espande. Un uomo con il giornale in mano, scende a quattro a quattro la scena. L’uomo comincia a parlare ma la folla lo nasconde, lo sommerge. Tutti voltano le spalle al pubblico, guardando qualcosa in fondo alla scena. La voce di un altoparlante sovrasta ogni cosa. Gioia nella folla. A questo punto ha inizio un canto lontano e rivoluzionario. MOVIMENTO III E mentre il canto sale, a poco a poco appaiono ceffi patibolari e si mescolano ai gruppi di curiosi e di borghesi. Qua e là si accendono discussioni. Due tam-tam entrano nel movimento. Terribili colpi di fischietto. Folli corse. La confusione aumenta. A poco a poco la scena si riempie di una cupa popolazione. A poco a poco tutto è sommerso da un rumore di tamburo strano e si vede entrare una donna dal ventre enorme, sulle cui pareti due uomini battono alternativamente con bacchette di tamburo. Il coro, il canto di rivolta, raggiungono un diapason prodigioso, si alimentano e crescono di forza e di profondità, rispondendo come una litania al rumore del ventre battuto. Una vera corte dei miracoli prende posto sulla scena con lenta invasione. Si introducono volti sformati, orribili. Le teste diventano sempre più grosse e minacciose, caratterizzando, a grandi linee sintetiche, tutti i vizi e tutte le malattie. Sul centro della scena fa il suo ingresso trionfale il personaggio del Grande Annusatore e le teste contorte e gigantesche fanno cerchio attorno a lui, come un’orrida guardia del corpo. Il Grande Annusatore pronuncia un discorso parlato, parole di rivolta che fanno sorgere come per magia immagini di Rivoluzione. Il canto si fonde e in tale concerto tutta la folla si mette in movimento e lascia la scena che a poco a poco rientra in una notte vocale, luminosa e strumentale. MOVIMENTO IV Si riaccende la luce su un altro piano del teatro, altissimo. Un uomo va e viene con passo pesante. E’ lo scienziato. Sotto il palco, a un livello inferiore, si stende un lungo tavolo verde. Entrano gruppi di scienziati ma lo scienziato in alto sembra ignorarli e continua a camminare in lungo e in largo. Entrano nuovi gruppi. Quasi tutti gli scienziati hanno teste fatte in modo da corrispondere a tutte le gradazioni della stupidità e della mediocrità ufficiali. Sono caricaturali ma senza eccesso. E fra loro, scienziati con facce normali e perfettamente umane passeggiano senza dir nulla. Tutto ciò dà un’impressione di misura e di nauseante distinzione. Lo scienziato scende dal palco e cammina fra i gruppi. Parla e gesticola. Gli spettatori non sentiranno nulla ma gli altri scienziati gli rispondono facendo delle obiezioni. Si precipita verso i suoi congegni. Si fa notte. Cala il sipario. Comincia a farsi sentire un rombo di aria brutalmente respinta. Si scatenano suoni, fatti da tante sirene, all’estremo del loro sibilo. Esplodono violente percussioni. Dovunque si diffonde un freddo barlume. Tutto si ferma. “Si può recitare su una piazza se è bel tempo, ma bisogna provare. Sono pronto a mostrare che non mi serve danaro e che posso farne a meno, mi si dia una casa da abitarci, il cibo, che ci sia gente che taglia e cuce i vestiti, e una società nella società, uno Stato nello Stato”. DUE PROGETTI DI MESSA IN SCENA LA SONATA DEGLI SPETTRI, STRINDBERG Al contrario del Coup de Trafalgar, questo lavoro invita al partito preso. Dà l’impressione di qualcosa che senza essere sul piano soprannaturale, non umano, partecipa di una certa realtà interiore. Ciò costituisce il suo fascino. Reale e irreale vi si mescolano. Tutto ciò che rivela, l’abbiamo vissuto, sognato, ma dimenticato. MESSA IN SCENA La messa in scena deve ispirarsi a questa specie di doppia corrente fra una realtà immaginaria e ciò che ha preso contatto a un certo momento con la vita, per staccarsene poi quasi subito. Questo scivolamento del reale stimola alla più completa libertà: arbitrio delle voci che mutano tono, importanza di particolari minimi, rigidezza dei gesti, prevalenza di rumori e musiche su personaggi ecc. L’ARGOMENTO Primo atto. Un’ossessiva figura di vecchio domina questa fantasmagoria, simbolo di ogni specie di idee incoscienti o coscienti, di vendetta, di odio, di disperazione, di amore, di rimpianto; e vive nello stesso tempo di una realtà ben concreta. Egli avvolge cose e persone, ma è allo stesso tempo avvolto dalla fatalità. I personaggi sembrano sempre sul punto di scomparire per cedere il posto ai loro simboli. Parlano alle apparizioni e le apparizioni parlano con loro, ma ognuno sembra avere la sua. Una casa trasparente serve da centro di attrazione al dramma. Ci permette di vedere fin dentro i suoi segreti. Una specie di salotto rotondo in primo piano vi assume un senso magico, che risulta opprimente, schiacciante. I personaggi vagano attorno alla casa e i loro destini si confondono, si collegano. Il primo atto si conclude con un improvviso accumularsi di spaventi, lasciando prevedere il dramma che raggiungerà il punto culminante nell’atto seguente. Secondo atto. Ci troviamo nel misterioso salotto rotondo. Qui la padrona di casa, ex amante del vecchio, tiene le sue sedute sotto le sembianze di una mummia che passa il tempo in un armadio. Evoca gli antichi racconti in cui il personaggio più pazzo è in realtà anche il più lucido ed ha il potere di spiegare tutto. Mentre parla il vecchio si dissolve. Si assiste ad una magica metamorfosi, per cui tutto cambia: anime, cose e persone. Lo studente che voleva entrare in casa, la ragazza che l’aspettava senza dirlo, e perfino respingendolo, saranno riuniti. Terzo atto. Lo studente e la ragazza sono di fronte. Ma tutti i fastidi della vita, l’universale gravitazione della materia, li separano ancora. In fondo non c’è liberazione che nella morte. Il lavoro si conclude con questa concezione buddistica. Primo atto. SCENE A sinistra la facciata aperta di una casa. Tutti i particolari indicati da Strindberg saranno rappresentati in rilievo con un’importanza speciale attribuita ad alcuni di loro, specialmente alla spia che dal principio attirerà l’attenzione con un intenso alone luminoso. A destra un abbozzo di fontana in rilievo con forse acqua vera che scorre. Il selciato della strada salirà verso il fondo come in uno scenario cinematografico. Il fondo della scena si aprirà sul cielo. Sarà Glauco, darà l’impressione del mare, dell’infinito. RUMORI Si sentirà un continuo rumore d’acqua, che a tratti aumenta fino a divenire ossessivo. Il rumore del mare con le onde che si infrangono. Il rumore della fontana che scorre. I rumori di organi e di campane sottolineeranno l’ingresso di certe apparizioni, riempiranno i silenzi. Vi sarà inoltre il rumore di un vento che soffierà a raffiche, altissimo nell’aria, suscitando una particolare impressione di solennità. Il ritorno del vecchio con i mendicanti avverrà con grande frastuono. Alla fine, nel silenzio che si è ristabilito, due mendicanti afferrano violentemente la carrozzella del vecchio e la spingono all’improvviso sul davanti della scena. ILLUMINAZIONE Illuminazione violenta, accecante, centrata su un angolo della facciata, una parte della fontana e, nel centro della scena, sul selciato. False luci rischiarano gli appartamenti che sembrano avere una propria luce. Secondo atto. SCENE La scena descritta da Strindberg è la casa dell’inizio vista dall’interno. I muri sono aperti, trasparenti. Certi oggetti indicati dall’autore, assumono un’importanza smisurata, sono molto più grandi che al naturale. RUMORI I passi delle persone che entrano saranno amplificati, avranno un loro eco. Il vento di fuori che si mescola alle parole, il frastuono delle grucce del vecchio che sbattono contro il tavolo, si sceglieranno tutti questi rumori in modo che abbiano il massimo rilievo, che lascino sul piano banale e quotidiano ciò che vi deve restare, e per contraccolpo mettano in valore il resto. 1. sul fondo, l’illuminazione diffusa e appiccicosa delle scale, proveniente dall’alto, che mette in risalto l’orlo della ringhiera e dei gradini. 2. L’illuminazione livida, dura, vagamente azzurrognola della strada, che avvolge tutta l’entrata, e rischiara la scena in senso contrario come se la porta della casa fosse dalla parte del pubblico. 3. L’abitazione della portinaia che non è illuminata se non dalla luce proveniente dalla finestra sinistra. L’illuminazione indica il giorno che sta per finire. Verso la fine dell’atto la luce si scompone, si fa verde, trabocca di colpo al di sotto di un’enorme nuvola. Le tre illuminazioni saranno spezzate da schemi, in modo da non mescolarsi. Occuperanno ognuna il suo posto fino all’unificazione finale, quando il chiarore temporalesco della strada dominerà tutto, si introdurrà dappertutto. RUMORI Si dovrà trovare un rumore di fondo, che cerchi di manifestare, fin dall’inizio dell’atto, la continua presenza della vita, di fuori. In generale, uno degli obiettivi di questa messa in scena sarà di spezzare l’arbitrarietà del silenzio a teatro. Con i rumori della strada, alcuni rumori interni di una casa quando sarà il caso. Secondo atto. PRIMO QUADRO Un salotto borghese ordinario. Tutta la scena si svolge piuttosto fuori che dentro. Più ancora che nell’atto precedente i rumori di una strada al 14 luglio saranno ricostruiti con cura minuziosa, sempre con quel sottofondo di rumori che manca sempre a teatro e che fa apparire ridicolmente esigui e grotteschi i rumori e le grida emesse fra le quinte. Ogni voce, ogni rumore avrà il suo posto, la sua importanza, sarà integrato all’insieme. Ci si servirà di rumori reali registrati su dischi, regolandone a piacere l’intensità e il volume per mezzo di amplificatori e di altoparlanti distribuiti in tutti gli angoli della scena e del teatro. Come nella scena precedente, il soffitto del salotto non raggiungerà le centine e permetterà ad una parte della scena della strada di apparire al di sopra e di scoprire una prospettiva di case e di strade costruite in rilievo su una sola faccia come in una scenografia cinematografica. il tutto sarà predisposto in modo da dare l’impressione della lontananza e della prospettiva autentica. Alla fine del quadro, i personaggi abbandonando il salotto passano nella sala da pranzo. Il cambiamento si farà senza interruzione approfittando di un’esplosione di fuoco artificiale che riempirà la sala di bagliori e di fumo. Una volta che i personaggi si siano sistemati sul palco di fondo, questo salirà fra le centine, verrà in primo piano per scendere sul proscenio interamente montato e con i personaggi già al loro posto, che stanno ridendo, come se si riprendessero da una emozione. SECONDO QUADRO Siamo in pieno pranzo di famiglia. Certi particolari oggettivi insisteranno sull’allontanamento dei rumori esterni, sull’intensità accresciuta dei rumori all’interno, sottolineando questa intenzione. In questo quadro entra all’improvviso la donna con il turbante e viene a prendere posto a tavola. Una donna si è bruciata metà dei capelli e il caso vuole che la sua testa sembri esattamente divisa in due; si è sistemato un turbante per nascondere i danni della bruciatura. La messa in scena, attraverso le pause, un certo silenzio, il movimento degli invitati, un rumore di forchette su un piatto o su un bicchiere, metterà in risalto senza insistenza, con tutta la discrezione, ma anche tutta la sua importanza, il significato simbolico della sua entrata in scena. Terzo atto. Il terzo atto ha un solo quadro. La scena rappresenta una cantina simile a molte altre con spiragli a destra e a sinistra in alto. La scena è disposta diagonalmente. Il fondo della scena è occupato da un angolo. Ma questo angolo è nascosto da una sporgenza di muro che costituisce le fondamenta stesse della casa. Tra questo muro e l’angolo si trova una cantina, il cui soffitto è di altezza disuguale. Al di sopra della cantina, verso la parte centrale sul fondo sono disposte a piani facciate di edifici ai due lati di una strada. Ad ogni scoppio di bomba si vedranno persone sconvolte attraversare di corsa la strada e schizzare dai due lati, in aria! RUMORI I rumori fra le quinte saranno regolati molto minuziosamente in modo da avere tutta l’ampiezza e tutta la veridicità desiderabili. Bisognerà usare ancora i dischi e l’altoparlante, eccetto per le esplosioni delle bombe. Tutto sarà scritto e regolato come una musica. La cantina darà la sensazione di un’intensa agitazione. Le persone mangeranno, parleranno, si chiameranno, rideranno e piangeranno a gruppi. La scena sarà illuminata da candele e da lanterne con soltanto la luce diffusa e velata della strada proveniente dall’alto degli spiragli. L’illuminazione della strada sarà in contrasto come in certe acqueforti con quella della cantina. Ogni tanto si sentirà su un sottofondo di rumore continuo, e lontanissimo, la musica inspiegabile di una fisarmonica o l’eco di un canto che risponde da lontano ai litigi e ai lamenti della cantina in basso. Quarto atto. La scena rappresenterà una camera d’albergo immersa in una luce triste, fredda. La luce di un giorno di pioggia a Parigi. Gli angoli dei muri sono sporchi, sinistri. Per terra è steso un tappetino molto sudicio, sul letto si scorge un copripiedi a brandelli. ILLUMINAZIONE La luce rimane uguale dal principio alla fine. RUMORI Un rumore in sottofondo riempirà tutti i silenzi come negli altri atti, ma questo sottofondo fatto di tutti i rumori di una strada di Parigi traboccherà in certi momenti con accresciuta violenza. Si avrà l’impressione che la vita prenda il sopravvento, la vita anonima nella quale i personaggi svaniscono. Il lavoro si concluderà su una sospensione, con un rumore violento che si ferma all’improvviso, che blocca ogni cosa, mentre cala il sipario. LA RECITAZIONE Gli attori reciteranno con verità, senza nessuna intenzione prestabilita per questo lavoro, né nella dizione, né nella pantomima. Però al contrario di quanto accade nelle convenzioni del boulevard, la naturalezza delle intonazioni e dei gesti sarà volutamente un tono più su, sciolta e come messa in evidenza. Senza sacrificare nulla della spontaneità propria di ciascun attore, il tono delle voci, la gesticolazione, i movimenti dell’insieme, saranno calcolati per obbedire a un ritmo in cui ogni cosa sarà al suo posto. La messa in scena su cui regge il lavoro funzionerà come un congegno ben caricato. E tutto vi si conformerà, dall’insieme ai minimi particolari. Le evoluzioni dei personaggi, le loro entrate e uscite, i loro scontri, il loro incrociarsi, saranno regolati una volta per tutte con meticolosa precisione che arriverà a prevedere, se possibile, anche il caso. Gli sarà assegnata una parte fin da principio, durante il lavoro nelle prove, invece di dargliela alla fine. Una volta fatto questo, tutto dovrà conformarvisi. NOTE CRITICHE L’ATELIER DI CHARLES DULLIN Con la creazione dell’Atelier, Charles Dullin affronta i gravi problemi del risanamento e della rigenerazione morale e intellettuale del teatro francese. Fatta eccezione per il Vieux-Colombier, in questo momento non abbiamo più niente che si possa chiamare teatro. Prima di tutto occorreva costituire un piccolo nucleo di attori perfettamente disciplinati, perfettamente al corrente delle esigenze del loro mestiere, perfettamente coscienti. A questo scopo mirano i nuovi metodi instaurati da Dullin, che egli ha inventati o adottati per primo in Francia. Di tali metodi, il principale è l’improvvisazione che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli. Questi attori danno come un’immagine ideale di ciò che potrebbe essere l’attore completo nella nostra epoca e si avvicinano al tipo eterno dell’attore giapponese, che ha portato al parossismo la cultura di tutte le possibilità fisiche e psichiche. Una perfetta dignità di comportamento e di convinzioni. Prima di ogni cosa, Dullin chiede ai suoi allievi il rispetto della propria arte. Perché l’Atelier non è un’impresa, è un laboratorio di ricerche e l’amore per la professione stimola le energie. Così si ottiene quella condizione di sorpresa che, secondo Edgar Poe, è alla base dell’arte. Dullin ci darà il teatro che si addice prima di tutto ai suoi gusti e ai mezzi di espressione che gli sono propri. Un teatro di latente barbarie e di atmosfera hoffmanniana. Perché c’è in lui, la stoffa di un meraviglioso uomo di teatro, con un’estetica e perfino una mistica della scena, perfettamente coscienti e studiate. IL TEATRO DELL’ATELIER Per alcuni il teatro è pura eccitazione momentanea. L’ipertrofia del teatro svago ha creato accanto e sopra la vecchia concezione del teatro l’esistenza di un certo gioco delle regole facili cui oggi si riduce in effetti gran parte del teatro e che si sovrappone all’idea stessa del teatro in sé. Si può dire così che esistono attualmente due teatri: un falso teatro facile e fittizio, il teatro dei borghesi, militari, benestanti, commercianti, mercanti di vini, professori di acquerello, avventurieri, passeggiatrici e premi Roma, e che ha sede da Sacha Guitry, ai Boulevards e alla Comédie- Francaise, e un altro teatro che si sistema dove si può, ma che è il teatro concepito come il compimento dei più puri desideri umani. Piccole compagnie di giovani attori si raccolgono un po’ dovunque con fede ardente o soltanto sufficiente e si sforzano di far rivivere Molière, Shakespeare, e Calderon. Fra queste, l’Atelier è la più ardente e la più salda, e anche la più rigorosa nelle sue concezioni. E’ stata fondata da Charles Dullin, formatosi al Théàtre des Arts, al Vieux Colombier, con Gémier e da sé. L’Atelier non pretende di inventare nulla, vuole soltanto sforzarsi di servire il teatro. Senza alcuna concessione al vecchio teatro, ai vecchi trucchi, ai vecchi scenari, ma anche senza settarismo: l’Atelier tenderà a ritrovare tutto il teatro passato e il teatro avvenire. L’Atelier ha metodi di lavoro che gli sono propri. Perché la compagnia lavora di continuo anche fuori delle prove, e ogni attore ridiventa alunno, sotto la guida di Charles Dullin. Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev’essere lo scopo del vero attore. I Russi praticano da gran tempo l’uso di un certo metodo di improvvisazione che spinge l’attore a lavorare con la propria sensibilità reale e personale con le parole, atteggiamenti, reazioni mentali inventate per l’occasione, improvvisate. La ricerca delle intonazioni, ecco il grande scoglio della personalità. Il grande scoglio della personalità è la ricerca delle intonazioni. L’intonazione è trovata dall’interno, spinta all’esterno dall’impulso ardente del sentimento, e non ottenuta per imitazione. Dullin ha sviluppato il procedimento. Ne ha fatto un metodo profondo di lavoro. Gli artisti dell’Atelier si sono già esercitati a vere e proprie sedute d’improvvisazione davanti a gruppi di spettatori strettamente privati. Si sono rivelati straordinariamente abili nel rappresentare con poche parole, atteggiamenti, giochi di fisionomia, certi caratteri, certe manie, certi personaggi della nostra umanità, oppure dei sentimenti astratti, degli elementi come il vento, il fuoco, dei vegetali, oppure delle creazioni dello spirito, sogni, deformazioni, e tutto all’improvviso, senza testo, senza indicazione, senza preparazione. L’Atelier ha già subito gli attacchi della critica. Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées Non si ha spettacolo. Abolito il sipario. Tutta la sala è un immenso palcoscenico dove, per una volta, lo spettatore assisterà allo svolgersi di una prova. Non c’è testo. il dramma si produrrà davanti ai nostri occhi. Ognuno è intento alle sue piccole occupazioni. A poco a poco, però, gli attori si riuniscono. Ed ecco che dall’ascensore della Comédie des Champs-Elysées sbarca una famiglia in lutto, dai volti pallidissimi, e come non del tutto usciti da un sogno. Sono i Sei personaggi in cerca d’autore. Ora questi Sei personaggi chiedono di vivere. Vogliono essere immersi in un dramma. Sono reali e lo dimostrano. Che cosa siete in confronto a voi stessi, direttore di teatro? Un’immagine, tutt’al più l’immagine dei vostri desideri passati, l’illusione abolita del futuro che volevate costruire, ora cenere nel presente, o vivi. Ma noi, idea certa, noi siamo ciò che siamo, sempre quali ci hanno sognati, e la nostra realtà ricomincia ininterrottamente con i suoi abbozzi ripresi di continuo. Generati dallo spirito, la nostra legge è di vivere senza fine, ma ancora incompiuti. Perciò scioglieteci direttore. Così, per successivi slittamenti la realtà e lo spirito si compenetrano così bene che non sappiamo più, noi spettatori, dove l’uno comincia e dove l’altro finisce. Così la messa in scena esalta il lavoro e favorisce l’illusione. Questo cielo, che è un cielo di teatro, questi alberi che sono di stoffa, non ingannano nessuno, né gli attori che provano, né noi, né queste larve in cerca di uno stampo in cui prendere forma. Allora dov’è il teatro? Essi, essi vivono, affermano di essere reali. Ce l’hanno fatto credere. Allora noi che cosa siamo? Eppure questi Sei personaggi sono ancora degli attori ad incarnarli! Si pone in questo modo il problema del teatro. Ed è come un gioco di specchi in cui l’immagine iniziale si assorbe e rimbalza ininterrottamente, cosicché ogni immagine riflessa è più reale della prima e il problema non cessa di porsi. E l’ultima anomalie (es. noi pensiamo che i negri hanno un cattivo odore, ignoriamo che ovunque, Europa eccettuata, siamo noi bianchi a puzzare). Ciò premesso, si può incominciare a delineare un’idea della cultura, idea che è anzitutto una protesta. Protesta contro la cultura come concetto a se stante, quasi che esistesse la cultura da un lato e la vita dall’altro; come se l’autentica cultura non fosse un mezzo raffinato per comprendere ed esercitare la vita. E’ bene che talune nostre eccessive comodità scompaiano, che certe forme siano dimenticate: allora la cultura fuori dallo spazio e del tempo, racchiusa nella nostra capacità emotiva riapparirà con accresciuto vigore. L’antico totemismo degli animali è per noi cosa morta, un beneficio da spettatori e non da attori. Ogni vera cultura si fonda sui mezzi barbari e primitivi del totemismo, la cui vita selvaggia, vale a dire spontanea, io voglio esaltare. Ciò che ci ha fatto perdere il senso della cultura è la nostra idea occidentale dell’ arte, e il beneficio che ne ricaviamo. Arte e cultura non possono andare d’accordo, contrariamente a quanto in genere si pretende. La vera cultura agisce attraverso l’esaltazione e la forza, mentre l’ideale estetico europeo tende a gettare lo spirito in uno stato di separazione dalla forza e a farlo assistere alla propria esaltazione. E’ un concetto pigro, inutile e tale da generare a breve scadenza la morte. Nel Messico l’arte non esiste e ogni cosa ha una sua funzione. Così il mondo è in uno stato di esaltazione perpetua. Ai nostri concetti estetici e disinteressati, una cultura autentica contrappone una nozione magica e violentemente egoistica, vale a dire interessata. Perché i messicani captano i Manas, le forze latenti in ogni forma, che non possono essere liberate dalla contemplazione delle forme in quanto tali, ma solo da un’identificazione magica con queste forme. Ogni autentica effige ha un’ombra che costituisce il suo “doppio”; e l’arte cessa di avere importanza a partire dall’istante in cui lo scultore, nel modellare, pensa di aver liberato una sorta d’ombra la cui esistenza strazierà il suo riposo. Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre; e, fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. Il nostro concetto pietrificato del teatro si riallaccia alla nozione pietrificata di una cultura senza ombre, in cui il nostro spirito, da qualunque parte si volga, incontra soltanto il vuoto, quando invece lo spazio è pieno. Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si avvale di strumenti vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare. L’attore, che non ripete mai due volte lo stesso gesto, ma compie gesti, si muove e innegabilmente violenta le forme, al di là di queste forme e attraverso la loro distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione. Il teatro nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio. Ma il fissarsi del teatro su un tipo di linguaggio, segna a breve scadenza la sua rovina, giacché la scelta di un linguaggio indica una propensione verso i vantaggi che tale linguaggio offre. Spezzare il linguaggio per raggiungere la vita, significa fare o rifare il teatro. Ciò che importa è credere che non tutti possono compierlo, in quanto esso esige una preparazione. Il che significa rifiutare i consueti limiti dell’uomo e delle sue facoltà, e allargare infinitamente i confini della cosiddetta realtà. Far nascere ciò che ancora non esiste. Quando pronunciamo la parola “vita”, dobbiamo renderci conto che non si tratta della vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e irrequieto, inafferrabile delle forme. IL TEATRO E LA PESTE Gli archivi della piccola città di Cagliari, in Sardegna, contengono la relazione di uno straordinario fatto storico. Una notte, alla fine d’aprile o all’inizio di maggio del 1720, venti giorni prima dell’arrivo a Marsiglia del Grand-Saint-Antoine, il cui approdo coincise con la più stupefacente esplosione di peste che mai sia germogliata nella storia di questa città, Saint-Rémys, vicerè di Sardegna, fece un sogno particolarmente sgradevole: vide se stesso appestato e la peste devastare il suo minuscolo Stato. Sotto l’azione del flagello, le strutture della società si disgregano. L’ordine crolla. Egli assiste al totale sconvolgimento della morale, a tutte le disfatte della psicologia, sente il mormorio dei propri umori, straziati e in piena rovina. Ma, benché distrutto, annichilito, organicamente polverizzato e arso nella midolla, egli sa che nei sogni non si muore, che la volontà vi agisce sino all’assurdo. Si sveglia. Tutte le voci di peste, i miasmi di un virus venuto dall’Oriente, ora sarà in grado di allontanarli. Una nave salpata da Beirut un mese prima, il Grand- Saint-Antoine, chiede l’autorizzazione ad approdare. In tutta fretta invia alla nave che presume contaminata la barca del pilota con alcuni uomini, incaricati di imporre al Grand-Saint-Antoine di virare immediatamente si bordo e di spiegare le vele lontano dalla città, pena l’affondamento a colpi di cannone. La guerra contro la peste. Occorre rivelare la singolare forza del fascino esercitato su di lui da quel sogno tale da calpestare non solo il diritto delle genti, ma il più elementare rispetto della vita umana e ogni sorta di convenzioni nazionali o internazionali che, davanti alla morte, non contano più nulla. Comunque sia, la nave continuò la sua rotta, fece sosta a Livorno e penetrò infine nella rada di Marsiglia, dove fu autorizzata a sbarcare. Il Grand-Saint-Antoine non portò la peste a Marsiglia. Essa c’era già. La peste portata dal Grand-Saint-Antoine era invece la peste orientale, il virus originario, ed è al suo diffondersi in città che si fa risalire la fase particolarmente atroce e il generale divampare dell’epidemia. Tutto ciò suggerisce alcune riflessioni. Non risulta che, dopo lo sbarco, gli appestati della nave siano entrati in contatto con quelli della città, rinchiusi in isolati lazzaretti. Il Grand-Saint-Antoine, che passa da Cagliari in Sardegna, non vi deposita la peste, ma il vicerè ne capta in sogno talune emanazioni. Eppure questi rapporti fra Saint-Rémys e la peste, abbastanza intensi per esplicarsi in immagini nel suo sogno, non lo sono tanto da far apparire in lui la malattia. La peste marsigliese del 1720 ci ha tramandato le sole descrizioni “cliniche” del flagello in nostro possesso. Ma ci si può chiedere se la peste descritta dai medici di Marsiglia fosse identica a quella fiorentina del 1347 che diede origine al Decameron. La storia e i libri sacri nonché certi vecchi trattati di medicina, descrivono dall’esterno ogni sorta di peste, prestando in genere assai minore attenzione ai sintomi del morbo che non agli effetti di favolosa debilitazione da essa prodotti sugli spiriti. Secondo questi trattati, la sola peste autentica sarebbe quella dell’Egitto, prodotta dai cimiteri lasciati scoperti dal ritiro delle acque del Nilo. La Bibbia ed Erodoto concordano nel segnalare la folgorante apparizione di una peste che decimò in una sola notte 180 000 uomini dell’esercito assiro, salvando così l’impero egiziano. Se il fatto è vero, bisognerebbe allora considerare il flagello come diretto strumento, o materializzazione, di una forza intelligente in stretto rapporto con quella che noi chiamiamo fatalità. Qualunque interpretazione gli storici o la medicina diano alla peste, credo si possa concordare su un concetto di malattia che rappresenterebbe una sorta di entità psichica e che non sarebbe provocata da un virus. Mancando il concetto di una vera entità morbosa, esistono formule sulle quali lo spirito può essere provvisoriamente d’accordo al fine di classificare certi fenomeni. Prima di qualsiasi ben precisato malessere fisico o psicologico, il corpo si copre di macchie rosse di cui l’ammalato si accorge improvvisamente solo quando incominciano ad annerire. Ha appena il tempo di spaventarsene che già la sua testa si mette a bollire, a pesare in modo incredibile; ed egli crolla. I suoi umori, impazziti, sconvolti, disordinati, sembrano galoppare attraverso il corpo. Il suo stomaco si solleva, il polso ora rallenta, ora si mette a galoppare; l’occhio rosso fiammeggiante, poi vitreo; quella lingua trafelata, enorme, dapprima bianca, poi nera- tutto annuncia una tempesta organica senza precedenti. L’intero corpo è solcato da punti infuocati al centro ogni macchia, intorno ai quali la pelle si solleva in vesciche. Un’eruzione violenta e localizzata in un solo punto dimostra il più delle volte che la vita dell’organismo non ha perduto nulla della sua forza, e che è ancora possibile una remissione del male o addirittura la guarigione. La peste più terribile è quella che non rivela i suoi sintomi. Sezionato, il cadavere di un appestato non mostra lesioni. La vescichetta biliare è piena, gonfia, fino quasi ad esplodere, di un liquido nero e viscoso. Anche il sangue delle arterie e delle vene è nero e viscoso e il corpo è duro come pietra. Sulle pareti della membrana gastrica sembrano essere apparse innumerevoli sorgenti di sangue. Ma non esiste come nella lebbra o nella sifilide, disfacimento o distruzione della materia. In certi casi però, polmoni e cervello, se colpiti, anneriscono e vanno in cancrena. Da tutto questo si devono trarre due importanti osservazioni. La prima è che i sintomi della peste sono completi anche senza la cancrena dei polmoni e del cervello, che l’appestato cioè può essere spacciato senza che alcun membro imputridisca. La seconda è che i due soli organi realmente colpiti e lesi dalla peste, cervello e polmoni, sono entrambi alle dirette dipendenze della coscienza e della volontà. La peste dunque, a quanto sembra, si manifesta- prediligendoli- in tutti i punti del corpo, in tutti i luoghi dello spazio fisico, dove la volontà umana, la coscienza e il pensiero sono presenti e in grado di manifestarsi. Si ricava da tutto questo la fisionomia spirituale di un male, le cui leggi non sono definibili scientificamente e le cui origini geografiche sarebbe sciocco voler precisare, perché la peste d’Egitto né quella d’oriente. Nessuno potrà spiegare perché la fuga, la castità, la solitudine siano impotenti contro gli assalti del flagello, perché un gruppo di libertini rifugiatosi in campagna come Boccaccio, possa attendere con tranquillità i giorni in cui la peste si allontana, e perché in un castello delle vicinanze, trasformato in cittadella fortificata, con un cordone di armati che impediscono l’ingresso, la peste trasformi guarnigione e rifugiati in cadaveri, e risparmi i soldati, i soli esposti al contagio. Quando in una città prende dimora la peste, le forme di vita normale crollano: non esistono più né servizi pubblici, né esercito, né polizia, né amministrazione municipale; si accendono roghi per ardervi i morti, a seconda delle disponibilità di manodopera. Ogni famiglia vuole avere il suo, ed esplodono contese tra famiglie intorno ai roghi. Intere strade sono bloccate dalle cataste di morti. A questo punto si aprono le case e appestati in delirio, con la mente ingombra di orribili fantasie, si riversano urlando nelle strade. Il male che tormenta le loro viscere si scarica attraverso lo spirito in una serie di esplosioni. Sui rivoli sanguinolenti, densi del colore dell’angoscia e dell’oppio, che zampillano dai cadaveri, strani personaggi vestiti di cera, passano salmodiando assurde litanie. Questi medici ignoranti mostrano soltanto paura e puerilità. Ed è a questo punto che nasce il teatro. Il teatro, vale a dire una gratuità immediata che induce ad atti inutili e privi di benefici nel presente. Gli ultimi superstiti perdono la testa: il figlio, sinora virtuoso e sottomesso, uccide il padre; il casto sodomizza i vicini. La situazione dell’appestato che muore senza distruzione materiale, con tutte le stimmate di un male assoluto e quasi astratto, è uguale a quella dell’attore, che dai propri sentimenti viene interamente penetrato e sconvolto senza alcun beneficio per la realtà. Fra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni, e l’attore che si lancia alla ricerca della propria sensibilità; fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali senza la peste non avrebbe mai pensato, e che li raffigura in mezzo ad un pubblico di cadaveri e di alienati in delirio, e il poeta che inventa intempestivamente i suoi e li affida a un pubblico altrettanto inerte o delirante, esistono altre analogie che pongono l’azione del teatro, come quella della peste, sul piano di un’autentica epidemia. Ma mentre le immagini della peste, in rapporto ad uno stato straordinario di disorganizzazione fisica, sono come gli ultimi sprazzi di una forza spirituale che si va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che inizia la sua traiettoria nel sensibile e fa a meno della realtà. Una volta lanciato nella sua frenesia, occorre all’attore per trattenersi dal commettere un delitto una virtù infinitamente maggiore del coraggio necessario a un assassinio per poter mandare ad effetto il proprio, ed è per questo che, nella sua gratuità, l’azione di un sentimento a teatro, appare infinitamente più valida di quella di un sentimento effettivamente concretato. Accettando questa immagine spirituale della peste, si potranno considerare i turbati umori degli appestati come il volto solidificato e materiale di un disordine che, in contesti diversi, equivale ai conflitti, alle lotte, ai cataclismi e alle disfatte che gli avvenimenti ci cagionano. Nella “Città di Dio” sant’Agostino denuncia questa similitudine della peste, che uccide senza distruggere organi, e quella del teatro che, senza uccidere, provoca le alterazioni più misteriose non soltanto nello spirito di un individuo ma in quello di un’intera collettività. Importa anzitutto ammettere che, come la peste, la rappresentazione teatrale è un delirio, ed è comunicativa. Lo spirito crede in ciò che vede e fa ciò che crede: è il segreto dell’incantesimo. E nel suo scritto sant’Agostino non ha messo in dubbio neppure per un istante la realtà di questo incantesimo. Non è semplicemente questione di arte: nel teatro, come nella peste, c’è qualcosa di vittorioso e insieme di vendicatore. La peste spinge d’improvviso fino a gesti estremi e anche il teatro prende dei gesti e li spinge fino al limite: come la peste, ristabilisce il legame tra ciò che è e ciò che non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata. Ritrova così il concetto dei simboli e degli archetipi, che agiscono come colpi silenziosi, esplosioni fiammeggianti di immagini dentro le nostre menti improvvisamente destate. Una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una sorta di rivolta virtuale, impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Così in “Peccato che sia una sgualdrina” di Ford, vediamo come enorme stupore all’alzarsi stesso del sipario un individuo lanciato in un’insolente apologia dell’incesto, che tende tutto il suo vigore di uomo giovane e cosciente nel proclamarlo e nel giustificarlo. Sono entrambi falsari, ipocriti, bugiardi, in nome di una passione sovrumana che le leggi arginano e ostacolano, ma che essi porranno al di sopra delle leggi. E’ la rivolta assoluta, è l’amore esemplare e senza sono meno atti ad illustrare un carattere, a raccontare i pensieri di un personaggio, ad esporre con chiarezza e precisione gli stati d’animo, di quanto non lo sia il linguaggio verbale; ma chi ha detto che il teatro è fatto per illustrare caratteri, per risolvere conflitti di ordine umano e passionale, di ordine attuale e psicologico, come quelli che infestano il nostro teatro contemporaneo? È raro d’altronde che il dibattito si innalzi sino al piano sociale, e che si intraprenda un processo al sistema sociale e morale vigente. Il nostro teatro non arriva mai a domandarsi se questo sistema sociale e morale non sia per caso iniquo. Il nostro teatro vigente non è nemmeno in grado di porre questo problema nei termini ardenti ed efficaci che sarebbero necessari, ma, anche se fosse in grado, sfuggirebbe ugualmente al suo oggetto, che a mio parere, è più alto e più segreto. Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto da una parte il senso del serio, dall’altra quello del comico. Perché ha rotto con la gravità, con l’efficacia immediata e mortale. Perché ha rotto con quello spirito di anarchia profonda che è alla base di tutta la poesia. La poesia è anarchica nella misura in cui si rimette in discussione tutti i rapporti tra oggetto e oggetto, e fra forme e i loro significati. Teatralmente, queste inversioni di forme, questi spostamenti di significato potrebbero diventare l’elemento essenziale di quella poesia umoristica e spaziale che è compito esclusivo della regia. Ora mi sembra che il modo migliore per realizzare sulla scena l’idea di pericolo sia l’imprevisto oggettivo, l’imprevisto non nelle situazioni ma nelle cose, il passaggio intempestivo, brusco, da un’immagine pensata a un’immagine reale. I Balinesi con il loro drago inventato, e così tutti gli Orientali, non hanno perduto il senso della misteriosa paura. Il fatto è che la vera poesia è metafisica. Ciò deriva, come dice René Guénon, dal nostro modo puramente Occidentale, dal nostro modo antipoetico e mutilo di considerare i principi. Nel teatro Orientale di tipo metafisico, diversamente che in quello Occidentale di tipo psicologico, tutto l’insieme compatto di gesti, di segni, di atteggiamenti e di sonorità, che costituisce il linguaggio dello spettacolo e della scena porta necessariamente il pensiero ad assumere atteggiamenti profondi che potrebbero essere definiti metafisica in atto. Il teatro mi è apparso una sorta di mondo congelato, con artisti insaccati in gesti che ormai non serviranno loro più a nulla, con solide intonazioni che già si frantumano in mille pezzi, con musiche ridotte a una sorta di enumerazione cifrata i cui simboli incominciano a cancellarsi e intorno a tutto questo uno straordinario agitarsi di uomini nerovestiti che si contendono bolli di quietanza davanti a un rovente botteghino. Per me il teatro si identifica con le sue possibilità di spettacolo, quando se ne traggono le estreme conseguenze poetiche, e le possibilità di spettacolo del teatro appartengono esclusivamente alla regia considerata come linguaggio dello spazio e del movimento. Ora trarre le estreme conseguenze poetiche dai mezzi di spettacolo, significa farne la metafisica. E fare la metafisica del linguaggio, dei gesti, degli atteggiamenti, della scenografia, della musica dal punto di vista teatrale, significa considerarli in rapporto a tutti i modi in cui possono entrare in contatto col tempo e col movimento. Fare la metafisica del linguaggio articolato significa indurlo ad esprimere ciò che di solito non esprime; significa servirsene in modo nuovo, eccezionale e inusitato, significa restituirgli le sue possibilità di scuotimento fisico, significa frazionarlo e distribuirlo attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo assolutamente concreto restituendo loro il potere originario di sconvolgere e di manifestare effettivamente qualcosa, significa ribellarsi al linguaggio e alle sue fonti bassamente utilitarie, significa considerare il linguaggio sotto forma di incantesimo. Questo modo poetico e attivo di considerare l’espressione sulla scena, ci porta sotto tutti i riguardi ad abbandonare l’accezione umana, attuale e psicologica del teatro, per ritrovare l’accezione religiosa e mistica di cui il nostro teatro ha smarrito completamente il senso. Abbiamo perduto ogni contatto con il vero teatro, in quanto lo limitiamo al campo di ciò che il pensiero quotidiano può raggiungere, al terreno noto o ignoto della coscienza. Questo teatro deve essere distrutto con diligenza e malvagità, su tutti i piani e a tutti i livelli dove intralcia il libero esercizio del pensiero. IL TEATRO ALCHIMISTICO Esiste tra il principio del teatro e quello dell’alchimia una misteriosa identità d’essenza. Il teatro come l’alchimia, considerato in quella che è la sua più profonda radice, è legato a un certo numero di fondamenti, comuni a tutte le arti, che nel campo dell’immaginazione e dello spirito tendono ad un’efficacia analoga a quella che, nel campo fisico permette di produrre realmente oro. Ma fra il teatro e l’alchimia esiste anche una somiglianza più alta, che in una prospettiva metafisica conduce assai più lontano. Entrambe sono infatti arti, per così dire, virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo né la loro realtà. Mentre l’alchimia, grazie ai suoi simboli, è come il doppio spirituale di un’operazione che risulta efficace soltanto sul piano della materia reale, il teatro deve essere a sua volta considerato il doppio, non di quella realtà quotidiana e diretta, di cui è a poco a poco divenuto soltanto la copia inerte, ma di una realtà rischiosa e tipica. Questa realtà non è umana, ma inumana, e l’uomo con le sue abitudini e il suo carattere vi conta pochissimo. Tutti i veri alchimisti sanno che il simbolo alchimico è un miraggio come lo è il teatro. E questa perpetua allusione agli elementi e al principio del teatro, che si ritrova in quasi tutti i libri alchimistici, deve essere intesa come l’espressione dell’identità fra il piano sul quale evolvono i personaggi, gli oggetti, le immagini (tutto ciò che costituisce la realtà virtuale del teatro) e il piano puramente ipotetico e illusorio in cui evolvono i simboli dell’alchimia. Il genere di teatro cui alludo non ha nulla a che vedere con quella sorta di teatro sociale o d’attualità che muta con il mutar delle epoche, dove le idee che in origine animavano il teatro sono ancora presenti come parodie di gesti, irriconoscibili tanto è mutato il loro significato. Le idee del teatro tipico e primitivo hanno subito la stessa sorte delle parole, che col tempo hanno cessato di generare immagini , anziché essere un mezzo di espansione, sono ridotte ad un vicolo cieco. Se infatti si pone la questione delle origini e della ragione d’essere del teatro, troviamo da un lato e sul piano metafisico l’esteriorizzazione di una sorta di dramma essenziale che contiene i principi essenziali di ogni dramma, già orientati e divisi, quanto basta per contenere infinite prospettive di conflitto. E questo dramma essenziale esiste, ed è immagine di qualcosa di più sottile della creazione stessa, che dobbiamo pure rappresentarci come il prodotto di una volontà unitaria e senza conflitto. Dobbiamo pensare che il dramma essenziale, il dramma che è alla base di tutti i Grandi Misteri, sposa il secondo tempo della Creazione, quello delle difficoltà e del Doppio, quello della materia e del condensarsi dell’idea. Si direbbe che là dove regnano la semplicità e l’ordine non possa esserci teatro né dramma, e il vero teatro nasce, come del resto la poesia, da un’anarchia che si organizza. L’operazione teatrale di produrre oro, per l’immensità dei conflitti che provoca, la prodigiosa quantità di forze che eccita e scatena l’una contro l’altra, l’appello ad una sorta di saldatura essenziale densa di conseguenze e sovraccarica di spiritualità, evoca alla fine nello spirito una purezza assoluta e astratta oltre la quale non esiste più nulla e che si potrebbe considerare come parte organica di una vibrazione indescrivibile. I Misteri Orfici, che tanto affascinavano Platone, devono aver avuto sul piano morale e psicologico qualcosa dal carattere trascendente e definitivo del teatro alchimistico, e aver evocato l’ardente e decisiva trasfusione della materia ad opera dello spirito. Ci hanno insegnato che i Misteri di Eleusi si limitavano a mettere in scena un certo numero di verità morali. A mio parere dovevano piuttosto mettere in scena proiezioni e precipitazioni di conflitti, indescrivibili lotte di principi, colte in quell’angolazione sfuggente e vertiginosa in cui ogni verità si smarrisce, realizzando la fusione inestricabile tra astratto e concreto; e grazie alla musica degli strumenti, a combinazioni di forme e colori di cui abbiamo perduto persino l’idea, dovevano, da un lato colmare quella nostalgia della bellezza pura di cui Platone ha dovuto incontrare almeno una volta in questo mondo la realizzazione completa, sonora, fluente, spoglia, e, dall’altro, risolvere attraverso congiunzioni strane e inimmaginabili per i nostri cervelli, tutti i conflitti prodotti dall’antagonismo fra materia e spirito, fra idea e forma, fra concreto e astratto, e fondere tutte le apparenze in un’unica espressione che doveva essere l’equivalente spirituale dell’oro. SUL TEATRO BALINESE Lo spettacolo del teatro Balinese, fatto di danza, di canto, di pantomima, e pochissimo di teatro psicologico quale lo intendiamo noi in Occidente, riporta il teatro ad un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione e sgomento. E’ molto significativo che la prima delle composizioni che compongono lo spettacolo, e che ci fa assistere alle rimostranze di un padre verso la figlia ribelle alle tradizioni, inizi con una processione di fantasmi, che i personaggi ci appaiano in un primo momento nella loro condizione spettrale, siano cioè visti in quella prospettiva di allucinazione che è tipica di ogni personaggio teatrale, ancor prima che le situazioni di questa sorta di sketch simbolico incomincino ad evolvere. Le situazioni sono soltanto un pretesto. Il dramma non si sviluppa come conflitto di sentimenti, ma come conflitto di posizioni spirituali, scarnite e ridotte a puri gesti, a schemi. In una parola, i Balinesi realizzano con estremo rigore l’idea di teatro puro, dove tutto, concezione come realizzazione, vale ed esiste nella misura in cui si oggettiva sulla scena. E vittoriosamente ci mostrano l’assoluta preponderanza del regista, la cui capacità creativa elimina le parole. I temi sono estremamente generici. Dà loro vita soltanto il complesso moltiplicarsi degli artifici scenici che impongono al nostro spirito l’idea di una metafisica derivata da una nuova utilizzazione del gesto e della voce. Ciò che è infatti curioso in tutto questo, è il fatto che, dal dedalo di gesti, atteggiamenti, grida improvvise, giravolte ed evoluzioni che utilizzano ogni punto dello spazio scenico, si sprigiona il senso di un nuovo linguaggio fisico basato sui segni e non più sulle parole. Tali segni spirituali hanno un preciso significato, che si comunica soltanto nel nostro intuito, ma con violenza sufficiente a rendere inutile qualsiasi trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo. E per i fanatici del realismo ad ogni costo, rimane comunque la recitazione eminentemente realistica del doppio, terrorizzato dalle apparizioni dell’aldilà. Una delle ragioni della nostra gioia davanti a questo spettacolo senza sbavature, sta nell’uso da parte degli attori di una precisa quantità di gesti sicuri, di mimiche ben sperimentate e applicate al momento giusto, ma più ancora nel raptus spirituale, nello studio profondo e particolareggiato che ha presieduto all’elaborazione di questi mezzi d’espressione, di questi segni efficaci dai quali ricaviamo l’impressione di una energia non ancora esauritasi dopo tanti millenni. Che urti il concetto europeo della libertà scenica e dell’ispirazione spontanea può darsi benissimo, ma nessuno può affermare che tale rigore matematico produca sterilità o monotonia. Tutto appare ai nostri occhi come un interrotto gioco di specchi in cui le membra umane paiono scambiarsi echi e musiche. Il nostro teatro, che non ha mai avuto la nozione di questa metafisica del gesto, che non ha mai saputo applicare la musica a fini drammatici così diretti, così concreti, il nostro teatro tanto verbale che ignora tutto ciò che costituisce teatro, movimenti, forme, colori, vibrazioni, atteggiamenti, grida, potrebbe chiedere al teatro Balinese una lezione di spiritualità. Tale teatro, puramente popolare e non sacro, ci dà un’idea straordinaria del livello intellettuale di un popolo che pone a fondamento dei suoi piaceri collettivi, le lotte di un’anima in preda alle larve e ai fantasmi dell’aldilà. Perché in effetti è una lotta interiore ad occupare l’ultima parte dello spettacolo. E l’aspetto davvero terrificante del loro diavolo evoca in modo sorprendente il fantoccio dalle mani gonfie di gelatina bianca e dalle unghie di fronde verdi, che costituiva il più bell’ornamento di uno dei primi spettacoli presentati dal Teatro Alfred Jarry. Non si può prendere di petto questo spettacolo, che ci aggredisce con un diluvio di impressioni l’una più ricca dell’altra, ma valendosi di un linguaggio di cui abbiamo perduto la chiave, quel particolare linguaggio teatrale, estraneo a qualsiasi lingua parlata. C’è in tutto ciò un cumulo di gesti rituali di cui non possediamo la chiave, e che paiono obbedire a indicazioni musicali estremamente precise, con in più qualcosa che non appartiene in genere alla musica, e par destinato a circuire il pensiero, a spingerlo in una rete solida e inestricabile. Nulla è lasciato al caso o all’iniziativa personale. Quando li si crederebbe smarriti in un labirinto inestricabile di tempi, o prossimi a precipitare nella confusione, hanno un modo tutto loro di ristabilire l’equilibrio, un sistema particolare di irrigidire il corpo, di contorcere le gambe, e nei tre passi finali, ecco che il ritmo interrotto si conclude e il tempo si dipana. Ci sentiamo prendere da una specie di terrore al pensiero di questi esseri meccanizzati, le cui gioie e i cui dolori non sembrano appartener loro in proprio, ma obbedire ad antichi riti, come se fossero stati dettati da qualche intelligenza superiore. E in fin dei conti è proprio questa impressione di vita superiore e ispirata a colpirci di più in questo spettacolo, tanto simile a un rito profanato. Di un rito sacro ha infatti la solennità, il carattere ieratico dei costumi dà ad ogni attore un doppio corpo e doppie membra. C’è poi il ritmo ampio e opprimente della musica. Tutti questi rumori sono legati a movimenti, quasi fossero la conclusione naturale di gesti che hanno il loro stesso carattere; e ciò con un tale senso dell’analogia musicale che lo spirito finisce ineluttabilmente per confondersi, sì da attribuire alla gesticolazione articolata degli artisti le proprietà sonore dell’orchestra, e viceversa. Un’impressione di inumanità, di divino, di miracolosa rivelazione sgorga anche dalla squisita bellezza delle acconciature femminili: dalla serie di cerchi che sia puramente plastica, quasi si fossero volute staccare le forme dell’arte, spezzare i loro legami con tutti gli atteggiamenti mistici che possono assumere confrontandosi con l’assoluto. Ne deriva dunque che il teatro deve rompere con l’attualità; che il suo scopo non è di risolvere conflitti sociali o psicologici, di servire da terreno di scontro a passioni morali, ma di esprimere obiettivamente verità segrete, di mettere il luce con gesti attivi quella parte di verità sepolta sotto le forme nei loro incontri con il Divenire. Fare questo, legare il teatro alle possibilità di espressione mediante le forme e tutto ciò che è gesto, rumore, plastica, colore, equivale a restituire al teatro la sua destinazione di origine, a riconsiderarlo nel suo aspetto metafisico e religioso, a riconciliarlo con l’universo. Ma, potrà dire qualcuno, le parole hanno facoltà metafisiche; nulla vieta di intendere il discorso su un piano universale. E’ facile replicare che questa nozione metafisica della parola non è applicata nel teatro d’Occidente. Nel teatro occidentale la parola serve sempre e soltanto ad esprimere conflitti psicologici propri dell’uomo, e la sua posizione nella realtà della vita quotidiana. Ma per loro stessa natura, questi conflitti morali non hanno alcun bisogno della scena per risolversi. Bisogna ribadire che la sfera teatrale non è psicologica ma plastica e fisica. E il problema non consiste nel sapere se il linguaggio fisico del teatro può permettere le stesse soluzioni psicologiche del linguaggio verbale, ma se non esistono nel regno del pensiero e dell’intelligenza atteggiamenti che le parole non sono in grado di cogliere, e ai quali i gesti possono arrivare con maggiore precisione. Ogni vero sentimento è in effetti intraducibile. Esprimerlo significa tradirlo. Ma tradurlo significa dissimularlo. L’espressione autentica nasconde ciò che rende manifesto. Essa oppone lo spirito al vuoto reale della natura, creando per reazione una sorta di pieno nel pensiero. Per questo un’immagine, un’allegoria, una figura che mascherino ciò che vorrebbero rivelare hanno per lo spirito un significato maggiore della lucidità del discorso e delle sue analisi. Gli incubi della pittura fiamminga ci colpiscono in quanto accostano al mondo reale la caricatura di questo stesso mondo. Non si tratta di sopprimere a teatro la parola, ma di modificarne la funzione, di considerarla qualcosa di diverso da un mezzo per condurre i caratteri umani ai loro obiettivi esteriori, poiché a teatro interessa soltanto il modo in cui sentimenti e passioni si oppongono fra loro, e l’uomo si oppone all’uomo nella vita. Modificare la funzione della parola a teatro, significa servirsi della parola in senso concreto sino a confonderla con tutto ciò che di spaziale e di significativo sul terreno concreto il teatro contiene; significa manipolarla come un oggetto solido e che smuove le cose, prima nell’aria, e poi in un terreno infinitamente più misterioso e segreto, ma tale da consentire un’estensione, e questo terreno segreto ma esteso non sarà poi difficile identificarlo da un lato con quello dell’anarchia formale, dall’altro con quello della creazione formale continua. Nel teatro orientale a tendenza metafisica, a differenza di quello occidentale a tendenza psicologica, le forme prendono possesso del proprio valore e del proprio significato su tutti i piani possibili. Grazie a questa molteplicità di aspetti esse acquistano una capacità di sconvolgimento e d’incanto e rappresentano per lo spirito una continua fonte di eccitazione. Il teatro orientale- proprio perché non coglie l’aspetto esteriore delle cose su un solo piano, né si limita al semplice contatto e al concreto incontro fra questo aspetto e i sensi, ma considera invece il grado di possibilità mentale da cui esso deriva- partecipa della poesia intensa della natura e conserva magici rapporti con tutti i gradi oggettivi del magnetismo universale. In questa prospettiva magica e stregonesca, lo spettacolo deve essere considerato non come il riflesso di un testo scritto e della proiezione di “doppi” fisici che da esso scaturisce, ma come ardente proiezione di tutte le conseguenze obiettive che si possono trarre da un gesto, una parola, un suono e dalle loro reciproche combinazioni. Tale proiezione attiva può verificarsi soltanto sulla scena, come le sue conseguenze possono essere individuate soltanto davanti e sulla scena. BASTA CON I CAPOLAVORI Una delle ragioni dell’asfissiante atmosfera in cui viviamo senza possibilità di scampo o di difesa è il rispetto per ciò che è scritto, formulato o dipinto, per ciò che ha assunto una forma, quasi che ogni forma espressiva non fosse ormai esaurita, e non fosse arrivata ad un punto in cui è indispensabile che le cose saltino in aria per poter ricominciare da capo. Bisogna farla finita con questa idea dei capolavori riservati ad una presunta élite e incomprensibili alla folla. I capolavori del passato vanno bene per il passato ma non per noi. Noi abbiamo il diritto di dire ciò che è stato detto e ciò che non è stato detto, in una forma che ci sia propria, che sia immediata, diretta, che risponda dell’attuale modo di sentire, e che tutti siano in grado di comprendere. E’ stupido rimproverare alle masse di non avere il senso del sublime, quando si confonde il sublime con una sua manifestazione formale. Sofocle dice forse cose sublimi, ma in un modo che non è del nostro tempo. Il suo discorso è troppo raffinato per il nostro tempo e si ha l’impressione che egli parli senza arrivare al nocciolo delle questioni. Tuttavia una folla che le catastrofi ferroviarie fanno rabbrividire, abituata a terremoti, pestilenze, rivoluzioni e guerre, sensibile alle disordinate angosce dell’amore, può avvicinarsi a tutti questi sublimi concetti, e non chiede di meglio che prenderne coscienza, a condizione però che le si parli nel suo linguaggio. Oggi, come un tempo, la folla è avida di mistero: non chiede di meglio che prendere coscienza delle leggi attraverso le quali il destino si manifesta. Riconosciamo che ciò che è stato detto non è più da dire; che un’espressione non vale due volte, non vive due volte; che una forma, quando sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un’altra, e che il teatro è il solo luogo al mondo dove un gesto fatto non si ricomincia due volte. Se la folla non accorre ai capolavori letterari, questo accade perché tali capolavori sono congelati nel tempo e che non rispondono più alle esigenze del nostro tempo. Questo conformismo borghese ci porta a confondere il sublime, le idee, le cose con le forme che hanno assunto nel tempo e nel nostro spirito. Non ha senso prendersela col cattivo gusto di un pubblico a cui non è mai stato mostrato uno spettacolo valido. Il pubblico, anche se ritiene vero ciò che è falso, ha il senso del vero e risponde sempre quando glielo si presenta. Se tutti siamo arrivati a considerare il teatro un’arte inferiore, un mezzo volgare di distrazione, e a servircene come sfogo per i nostri istinti peggiori, ciò accade perché ci hanno troppo spesso ripetuto che era teatro, cioè menzogna e illusione. Perché ci si è ingegnati a far vivere sulla scena degli esseri plausibili, ma distaccati, con lo spettacolo da una parte e il pubblico dall’altra. Lo stesso Shakespeare è responsabile di questa aberrazione e di questa decadenza. La psicologia, che si accanisce a ridurre l’ignoto a noto, cioè a quotidiano e ordinario, è la causa prima di questa spaventosa dispersione di energie. Questa idea di un’arte fine a se stessa, di una poesia come incantesimo, che esiste all’unico scopo di allietare i momenti di riposo, è un’idea decadente, dimostrazione inoppugnabile del nostro potere di castrazione. Sotto la poesia dei testi, c’è la poesia vera e propria, senza forma e testo. Questo empirismo, questa casualità, questo individualismo e questa anarchia devono cessare. Basta una volta per tutte con queste manifestazioni di un’arte chiusa, egoista e personale. Non sono di quelli che credono che per cambiare il teatro bisogna cambiare la civiltà; sono però convinto che il teatro, inteso nella sua accezione più alta e più difficile, abbia la forza di influire sull’aspetto e sulla formazione delle cose. Per questo propongo un teatro della crudeltà, teatro difficile e crudele anzitutto per me stesso. Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del teatro. O riusciremo a tornare con mezzi moderni a attuali a quel concetto superiore di poesia, e di poesia teatrale, che è alla base dei Miti raccontati dai grandi tragici antichi; a ritrovare un’idea religiosa del teatro, cioè ad arrivare ad una presa di coscienza e anche di possesso di certe forze dominanti, di certe nozioni che determinano ogni cosa, o non ci resterà altro che lasciarci andare senza indugi e senza reazioni, destinati al disordine. Propongo che si ritorni in teatro a quell’idea magica elementare, ripresa dalla psicoanalisi moderna, che consiste nell’ottenere la guarigione di un ammalato facendogli assumere l’atteggiamento esteriore della condizione cui si vorrebbe riportarlo. Propongo che si rinunci a quell’empirismo delle immagini che il sogno arreca in modo casuale e che vengono emesse in modo altrettanto casuale sotto il nome di immagini poetiche, come se quella specie di trance che la poesia provoca non avesse ripercussioni su tutta la sensibilità, su tutti i nervi, come se la poesia fosse una forza vaga dai movimenti invariabili. Propongo che si ritorni attraverso il teatro a un’idea della conoscenza fisica delle immagini e dei mezzi per provocare trances, come nella medicina cinese che, su tutta la superficie dell’anatomia umana, sa quali punti deve pungere per regolare anche le più delicate funzioni dell’organismo. Chi ha dimenticato il potere di comunicazione e il mimetismo magico di un gesto, può riapprenderlo dal teatro, poiché un gesto porta con sé la sua energia, e a teatro ci sono, nonostante tutto, esseri umani che manifestano l’energia del gesto compiuto. Il teatro è il solo luogo al mondo e l’ultimo mezzo collettivo che ci rimanga, per toccare direttamente l’organismo. Nel teatro della crudeltà lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda. In tale spettacolo la sonorizzazione è costante: suoni, rumori e grida sono scelti anzitutto per la loro qualità vibratoria, e poi per ciò che rappresentano. Fra questi mezzi sempre più affinati, interviene anche la luce, che porta con sé la propria energia, la propria influenza, la propria suggestione. Dopo il suono e la luce, ecco l’azione e il dinamismo dell’azione: qui il teatro, lungi dal copiare la vita, si mette, se possibile, in comunicazione con forze pure. Le si accetti o le si neghi, esiste comunque un modo di parlare che definisce forze tutto ciò che fa sorgere nell’inconscio immagini di violenza e all’esterno il delitto gratuito. Si sosterrà che l’esempio provoca l’esempio, e che se l’atteggiamento della guarigione invita alla guarigione, quello dell’assassinio invita all’assassinio. Tutto dipende dal modo e dalla purezza con cui vengono fatte le cose. Propongo perciò un teatro in cui immagini fisiche violente frantumino e ipnotizzino la sensibilità dello spettatore travolto dal teatro come da un turbine di forze superiori. Un teatro che, abbandonando la psicologia, racconti lo straordinario, metta in scena conflitti naturali, forze naturali e sottili, e si presenti anzitutto come un’eccezionale forza di derivazione, che si rivolga all’organismo con strumenti precisi, gli stessi applicati dalle musiche terapeutiche di certe tribù, che ammiriamo riprodotte nei dischi ma che siamo incapaci di creare fra noi. C’è un rischio, indubbiamente, ma ritengo che nelle circostanze attuali valga la pena di correrlo. Non credo si possa arrivare a dar vita al mondo in cui viviamo, e non credo neppure valga la pena aggrapparsi ad esso; ma propongo qualcosa per uscire dal marasma e dalla noia. IL TEATRO E LA CRUDELTA’ Un’idea del teatro si è perduta. Nella misura in cui il teatro si limita a farci penetrare nell’intimità di qualche fantoccio, e a trasformare lo spettatore in un voyeur, è logico che l’élite lo abbandoni e che le masse vadano a cercare nel cinema, nella rivista e nel circo soddisfazioni violente, capaci di non deluderle. Nell’epoca angosciosa e catastrofica in cui viviamo, sentiamo con urgenza la necessità di un teatro che non sia al di qua degli avvenimenti, la cui risonanza in noi sia profonda, e domini l’instabilità dei tempi. La lunga abitudine degli spettacoli di evasione ci ha fatto dimenticare l’idea di un teatro serio che, sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta l’ardente magnetismo delle immagini e agisca su di noi come una terapeutica spirituale la cui azione lasci per sempre la sua impronta. Tutto ciò che agisce è crudeltà. Il teatro della crudeltà vuole ricorrere allo spettacolo di massa. Se vuol ritrovare la sua necessità, bisogna che il teatro ci restituisca tutto ciò che è nell’amore, nel delitto, nella guerra o nella pazzia. Per questo cercheremo di raccogliere intorno a personaggi famosi, a delitti atroci, a sacrifici sovrumani, uno spettacolo che, senza ricorrere alle immagini scadute dei vecchi miti, sia capace di estrarre le forze che in essi si agitano. Siamo convinti che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e che l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito infinitamente più terribile della realizzazione di quello stesso delitto. Il pubblico crederà ai sogni del teatro a condizione che li consideri realmente sogni, e non calchi della realtà; a condizione che gli permettano di dare libero corso alla libertà magica del sogno che egli riconoscerà soltanto se impregnata di terrore e di crudeltà. Per raggiungere da ogni lato la sensibilità dello spettatore, preconizziamo uno spettacolo mobile il quale, anziché fare della scena e della sala due mondi chiusi, senza comunicazione possibile, diffonda i suoi bagliori visivi e sonori su tutta la massa del pubblico. Intendiamo resuscitare un’idea di spettacolo totale, in cui il teatro riprenda al cinema, al music hall, al circo e alla vita stessa ciò che da sempre gli è appartenuto. La separazione tra teatro di analisi e mondo plastico ci sembra stupida. Insomma, da un lato la massa e l’estensione di uno spettacolo che si rivolge all’intero organismo; dall’altro un’intensa mobilitazione di oggetti, di gesti e di segni, impiegati secondo un nuovo spirito, dove dimensione, immagini, spazio e oggetti parlano e dove le parole dicono poco. In base a tale principio, miriamo a creare uno spettacolo in cui questi mezzi di azione diretta siano impiegati nella loro totalità. Nello spettacolo di una tentazione in cui la vita ha tutto da perdere e lo spirito tutto da guadagnare, il teatro deve ritrovare il suo autentico significato. E insistiamo sul fatto che il primo spettacolo del Teatro della Crudeltà sarà imperniato su preoccupazioni di massa, assai più incalzanti e assai più inquietanti di quelle di qualsiasi individuo. Si tratta ora di sapere se a Parigi sarà IL COSTUME Si eviterà il più possibile l’abito moderno perché è assolutamente evidente che certi costumi millenari destinati al rito conservano una bellezza e un’apparenza rivelatrice, grazie alla loro affinità con le tradizioni che le hanno prodotte. LA SCENA, LA SALA Noi sopprimiamo la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, che diventerà il luogo stesso dell’azione. Sarà ristabilita una comunicazione diretta tra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore, perché lo spettatore, situato al centro dell’azione, sarà da esso circondato e in essa coinvolto. Così abbandoniamo i teatri attualmente esistenti, prenderemo un capannone o un granaio qualsiasi, che faremo ricostruire secondo i procedimenti utilizzati nell’architettura di certe chiese o luoghi sacri in genere. All’interno di questa costruzione prevarranno determinate proporzioni di altezza e di profondità. La sala sarà circondata da quattro pareti disadorne e il pubblico sarà seduto in mezzo su poltrone girevoli per poter seguire lo spettacolo che si svolgerà tutt’intorno a lui. Speciali aree ai quattro punti cardinali della sala, saranno riservate agli attori e all’azione. Le singole scene verranno recitate sullo sfondo di muri dipinti a calce per meglio assorbire la luce. L’azione dispiegherà il suo ciclo, allargherà la sua traiettoria di piano in piano, da un punto all’altro, esploderà in improvvisi parossismi, provocherà una serie di incendi nei luoghi più diversi, illusione autentica dello spettacolo e diretta e immediata influenza dell’azione sullo spettatore. Sarà conservata tuttavia un’area centrale che, senza costituire una scena vera e propria, dovrà permettere al nucleo dell’azione di raccogliersi e annodarsi ogni volta che sarà necessario. OGGETTI, MASCHERE, ACCESSORI Manichini, maschere enormi, oggetti di straordinarie proporzioni, avranno la stessa importanza delle immagini verbali, sottolineeranno l’aspetto concreto di ogni immagine e di ogni espressione, mentre le cose che esigono di solito una raffigurazione oggettiva, saranno per contro dissimulate o fatte addirittura sparire. LA SCENOGRAFIA Non ci sarà scenografia. Basteranno a tal fine i personaggi geroglifici, i costumi rituali, i fantocci alti dieci metri, gli strumenti musicali grandi come uomini, gli oggetti di forma e destinazione ignota. L’ATTUALITA’ Ma si potrà obiettare, un teatro così lontano dalla vita, dagli avvenimenti, dalle preoccupazioni attuali…Dall’attualità e dagli avvenimenti, sì! Dalle nostre preoccupazioni, in ciò che hanno di profondo e che è prerogativa di pochi, no! LE OPERE Non rappresenteremo testi scritti, ma tenteremo, partendo da temi, episodi o da opere note, saggi di regia diretta. LO SPETTACOLO Esiste un’idea di spettacolo integrale che deve essere riportata in onore. Il problema consiste nel far parlare, nell’alimentare, nel riempire lo spazio. L’ATTORE L’ attore è un elemento di primaria importanza, in quanto dall’efficacia della sua rappresentazione dipende il buon esito dello spettacolo, e allo stesso tempo una sorta di elemento passivo e neutro, in quanto gli viene rigorosamente vietata qualsiasi iniziativa personale. Non esistono comunque regole precise. L’INTERPRETAZIONE Dall’inizio alla fine lo spettacolo sarà cifrato come un linguaggio. Non si perderà così neppure un movimento, perché tutti obbediranno ad un ritmo. IL CINEMA Alla visualizzazione grossolana di ciò che è, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di ciò che non è. Non si può paragonare un’immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, è limitata dalla pellicola, a un’immagine teatrale che obbedisce tutte le esigenze della vita. LA CRUDELTA’ Senza un elemento di crudeltà alla base di ogni spettacolo, non esiste teatro. Nella fase di degenerazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti. IL PUBBLICO Bisogna prima di tutto che questo teatro sia. IL PROGRAMMA Rappresenteremo, senza tener conto del testo: 1. Un adattamento di un lavoro dell’età di Shakespeare, perfettamente intonato all’attuale turbamento degli spiriti. 2. Un lavoro di estrema libertà poetica di Léon-Paul Fargue. 3. Un frammento da Zohar: la storia di Rabbi Shimeon, che ha il vigore e la violenza indomabili di un incendio 4. La storia di Barbalù ricostruita in base a documenti di archivio e secondo una nuova idea dell’erotismo e della crudeltà. 5. La presa di Gerusalemme, secondo la Bibbia e la Storia: col color rosso sangue che ne sgorga, e quel senso di abbandono e di panico degli spiriti visibile persino nella luce; e insieme le dispute metafisiche dei profeti con la spaventosa agitazione intellettuale che provocano e le cui reazioni si ripercuotono fisicamente sul Re, il Tempio, la Plebaglia e gli Avvenimenti. 6. Un racconto del marchese de Sade nel quale l’erotismo verrà trasposto, rappresentato e rivestito allegoricamente, nel senso di una violenta esteriorizzazione della crudeltà e di una dissimulazione del resto. 7. Uno o più melodrammi romantici, la cui inverosimiglianza diverrà un attivo e concreto elemento poetico. 8. Il Woyzeck di Buchner, per spirito di contraddizione contro i nostri principi, e per dare un esempio di ciò che si può scenicamente trarre da un testo vero e proprio. 9. Drammi del teatro elisabettiano spogliati del loro testo, di cui si conserveranno soltanto i costumi dell’epoca, le situazioni, l’azione e i personaggi. Lettere sulla crudeltà PRIMA LETTERA A J.P. Parigi, 13 settembre 1932 Caro amico, questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in modo esclusivo. Io non coltivo sistematicamente l’orrore. La parola “crudeltà” deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto, che cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Il determinismo filosofico più corrente, dal punto di vista della nostra esistenza, è una delle immagini della crudeltà. C’è nell’esercizio della crudeltà una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore è soggetto e che, all’occorrenza deve essere determinato a sopportare. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza. E’ la coscienza a conferire all’esercizio di qualsiasi atto della vita, un colore di sangue, perché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno. SECONDA LETTERA A J.P. Parigi, 14 novembre 1932 Caro amico, la crudeltà non è sovrapposta al mio pensiero; vi è sempre esistita: mi occorreva soltanto prenderne coscienza. Uso il termine crudeltà nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere. E il teatro, inteso come creazione continua, come azione magica totale, obbedisce a questa necessità. Un dramma in cui non esistesse questa volontà, sarebbe un dramma inutile e mancato. TERZA LETTERA Al signor R. de R. Parigi, 16 novembre 1932 Caro amico, devo confessarle che non capisco e neppure ammetto le obiezioni che sono state fatte al mio titolo. Mi sembra infatti che la creazione e la stessa vita possano essere definite soltanto da una sorta di rigore, e quindi da una fondamentale crudeltà, che conduce a qualunque costo le cose alla loro ineluttabile conclusione. Lo sforzo è crudeltà, l’esistenza attraverso lo sforzo è crudeltà. Destandosi dal suo riposo e tendendosi sino all’essere, Brahma soffre di una sofferenza che sprigiona forze armoniche di gioia, ma che all’estremo limite della curva si esprime soltanto in orribili dissonanze. C’è nella fiamma vitale, nell’appetito di vita, nell’impulso irrazionale alla vita, una specie di fondamentale perversità: il desiderio di Eros è crudeltà in quanto consuma contingenze; la morte è crudeltà, la resurrezione è crudeltà, la trasfigurazione è crudeltà. Nel mondo manifesto, metafisicamente parlando, il male è legge permanente, e il bene uno sforzo, dunque una crudeltà supplementare. Non capire queste cose, significa non capire le idee metafisiche. Il bene è sempre sulla faccia esterna, ma la faccia interna è il male. Un male che alla lunga finirà per essere domato, ma solo nel supremo istante in cui tutto ciò che fu forma sarà prossimo a ripiombare nel caos. Lettere sul linguaggio PRIMA LETTERA Al signor B. C. Parigi, 15 settembre, 1931 Signore, lei afferma, in un articolo sulla regia e il teatro: “chi considera la regia un’arte autonoma rischia di commettere un grossolano errore”, e: “la presentazione, il lato spettacolare di un’opera non devono essere fine a se stessi, né determinarsi in totale autonomia”. Se si considera la regia un’arte minore e asservita, lei ha perfettamente ragione. Finché la messa in scena continuerà ad essere un semplice mezzo di presentazione, potrà reggere solo in quanto riesca a dissimularsi dietro le opere che vorrebbero servire. E le cose resteranno così fintantoché l’interesse di un’opera rappresentata risiederà soprattutto nel testo, fintantoché nel teatro la letteratura prevarrà sulla rappresentazione. Il teatro, arte autonoma e indipendente, per risorgere o anche soltanto per vivere, deve sottolineare ciò che lo differenzia dal testo, dalla parola pura, dalla letteratura e da ogni altro mezzo scritto e codificato. Che il teatro sia divenuto un fatto essenzialmente psicologico, un’alchimia intellettuale dei sentimenti, e che il vertice dell’arte nel campo del dramma, consista ormai in un ideale di silenzio e di immobilità, altro non è che la perversione scenica dell’idea di concentrazione. Ma la concentrazione della recitazione, vale solo come mezzo fra tanti altri. Farne sulla scena un fine, dunque giusto che il pubblico si tenga lontano da un teatro che ignora in tal misura l’attualità. Il teatro deve farsi uguale alla vita, non alla vita individuale in cui trionfano i CARATTERI, ma a una sorta di vita liberata in cui l’uomo non è che un riflesso. Creare Miti, ecco il vero soggetto del teatro. Possa essa liberarci in un Mito in cui noi avremo sacrificato la nostra minuscola individualità umana, come Personaggi venuti dal Passato, con forze riscoperte nel Passato. QUARTA LETTERA A J.P. Parigi, 28 maggio 1933 Caro amico, non ho detto di voler agire direttamente sulla nostra epoca; ho detto che il teatro che volevo creare presupponeva, per essere accettato dalla nostra epoca, una diversa forma di civiltà. Ma anche senza rappresentare la nostra epoca, esso può contribuire ad una profonda trasformazione delle idee, dei costumi, delle fedi e dei principi su cui lo spirito del tempo si fonda. Per quanto riguarda lo spettacolo non posso dare ulteriori precisazioni per due motivi: 1) per una volta tanto, ciò che voglio fare è più facile farlo che dirlo; 2)non voglio correre il rischio di essere plagiato, come già mi è capitato più di una volta. Per me nessuno ha il diritto di dirsi autore se non colui cui spetta il trattamento diretto della scena. E’ appunto questo il punto vulnerabile del teatro quale viene considerato non soltanto in Francia, ma in Europa, e anzi in tutto l’Occidente: il teatro della parola. Bisogna tuttavia ammettere, persino dal punto di vista occidentale, che la parola si è calcificata, che i singoli termini, tutti i termini si sono congelati in una terminologia schematica e ristretta. Per il teatro, quale lo si pratica da noi, la parola scritta ha lo stesso valore che la medesima parola pronunciata. Sfugge loro tutto ciò che si riferisce alla particolare enunciazione di una parola, alla vibrazione che può diffondere nello spazio, e di conseguenza tutto ciò con cui essa è in grado di arricchire il pensiero. In questa prospettiva, la parola ha un mero valore discorsivo, cioè di illustrazione. Non a caso, come si può vedere, la poesia ha abbandonato il teatro. Ci siamo troppo abituati da oltre 400 anni, soprattutto in Francia, ad usare la parola in teatro soltanto con valore di definizione. Abbiamo esagerato nel far ruotare l’azione intorno a temi psicologici le cui combinazioni essenziali non sono affatto innumerevoli. Abbiamo troppo abituato il teatro a mancare di curiosità e soprattutto di immaginazione. Come la parola, il teatro ha bisogno di essere lasciato libero. Il teatro orientale ha saputo conservare alle parole un certo valore espansivo, poiché nella parola non conta soltanto il suo significato, ma anche la sua musica, che parla direttamente all’inconscio. Un linguaggio di gesti, di segni che dal punto di vista del pensiero in azione, ha lo stesso valore comunicativo e rivelatore del linguaggio della parola. Per questo in oriente il linguaggio dei segni è pregiato più dell’altro e gli si attribuiscono poteri magici immediati. Lo si indirizza non soltanto allo spirito, ma ai sensi, sì da raggiungere attraverso i sensi le regioni ancor più ricche e feconde della sensibilità in pieno movimento. C’è una confusione di termini dovuta al fatto che, per noi, e stando al senso che generalmente viene attribuito a questo termine di regista (metteur en scene), quest’ultimo non è altro che un artigiano, un adattatore, una sorta di traduttore destinato eternamente a trasferire un’opera drammatica da un linguaggio in un altro. Ma basta che ci sia anche un minimo ritorno alle fonti respiratorie, plastiche, attive del linguaggio, che si riconducano le parole ai fatti fisici che hanno dato loro vita, e che l’aspetto logico, discorsivo della parola scompaia davanti all’aspetto fisico e affettivo. Ed ecco che il linguaggio letterario si ricompone e ritrova la vita; e per di più gli oggetti stessi si mettono a parlare. La luce, anziché costituire elemento scenografico, assume l’aspetto di un autentico linguaggio. E questo linguaggio, immediato e fisico, è controllato soltanto dal regista. Oltre a darci uno spettacolo con mezzi materiali e palpabili, la regia pura contiene nei gesti, nelle espressioni della fisionomia e negli atteggiamenti mobili, nell’impiego concreto della musica, ciò che è contenuto nella parola, e dispone inoltre anche della parola. Ripetizioni ritmiche di sillabe, modulazioni particolari della voce che celano il preciso significato delle parole, suscitano un maggior numero di immagini nel cervello, provocando una condizione più o meno allucinata e imponendo alla sensibilità e allo spirito una sorta di alterazione organica, che contribuisce a sottrarre alla poesia scritta quella gratuità che abitualmente la caratterizza. Ed è intorno a questa gratuità che si accentra tutto il problema del teatro. IL TEATRO DELLA CRUDELTA’ Secondo manifesto Ciò che in fondo il pubblico cerca nell’amore, nel delitto, nelle droghe, nella guerra o nell’insurrezione, è uno stato poetico, una trascendentale esperienza vitale. Il teatro della crudeltà è nato per restituire al teatro una appassionata e convulsa concezione di vita; ed in questo senso di violento rigore e di estrema condensazione degli elementi scenici, va intesa la crudeltà sulla quale si fonda. Questa crudeltà si identifica dunque con una sorta di severa purezza morale che non teme di pagare la vita al prezzo cui deve essere pagata. IL CONTENUTO Il teatro della crudeltà sceglierà temi e soggetti che corrispondano all’agitazione e all’inquietudine tipiche della nostra epoca. Non intende lasciare al cinema il compito di svelare i miti dell’uomo e della vita moderna. Ma lo farà in un modo esclusivamente suo: vale a dire, opponendosi alla frana economica, tecnica e utilitaristica del mondo, rimetterà in circolo i grandi problemi e le grandi passioni essenziali che il teatro moderno ha nascosto sotto la vernice dell’uomo pseudocivilizzato. Questi temi saranno cosmici, universali, interpretati secondo i testi più antichi, tratti dalle antiche cosmologie, la messicana, l’indù, l’ebraica, la persiana ecc. Rinunciando all’uomo psicologico, al carattere e ai sentimenti ben delineati, si rivolgerà all’uomo totale, non all’uomo sociale sottomesso alle leggi e deformato dalle religioni e dai precetti. La realtà della fantasia e dei sogni apparirà sullo stesso piano della vita. Inoltre i grandi sconvolgimenti sociali, i conflitti fra i popoli e fra le razze, le forze naturali, l’ intervento del caso, il magnetismo della fatalità si manifesteranno sia indirettamente, nei movimenti e nei gesti di personaggi saliti alla statura di dèi, di eroi o di mostri, a dimensioni mitiche, sia indirettamente, sotto forma di manifestazioni materiali raggiunte con nuovi mezzi scientifici. Gli dèi, gli eroi, i mostri, le forze cosmiche e naturali, saranno interpretati secondo le immagini dei più antichi testi sacri e delle vecchie cosmogonie. LA FORMA Affideremo allo spettacolo, e non al testo, il compito di materializzare e soprattutto di rendere attuali gli antichi conflitti. Ci riallacciamo così all’antico spettacolo popolare, tradotto e percepito direttamente dallo spirito senza le deformazioni del linguaggio e l’impaccio della parola. Contiamo di fondare il teatro prima di tutto sullo spettacolo e nello spettacolo introdurremo una nozione nuova dello spazio, utilizzato su tutti i piani possibili e a tutti i gradi della prospettiva, in profondità e in altezza, e a questa nozione verrà ad aggiungersi un’idea particolare del tempo congiunta a quella del movimento. Al massimo numero possibile di movimenti affiancheremo il maggior numero possibile di immagini fisiche e di significati, collegati ai medesimi movimenti. Le immagini e i movimenti non saranno usati soltanto per il piacere esteriore degli occhi e delle orecchie, ma per quello più segreto e più profittevole dello spirito, un spazio teatrale utilizzato nel suo substrato. Si può dire insomma che alla creazione di questo linguaggio teatrale puro presiederà lo spirito degli antichi geroglifici. Le espressioni verbali esplicative interverranno in tutte le parti in cui la vita riposa e interviene la coscienza, ma saranno usate anche in un senso incantatorio, magico, per la loro forma e per le loro emanazioni sensibili, oltre che per il loro significato. Mentre nell’odierno teatro digestivo i nervi, cioè una certa sensibilità psicologica, vengono deliberatamente trascurati, il teatro della crudeltà intende riproporre tutti gli antichi e sperimentati mezzi magici atti a raggiungere la sensibilità. Tali mezzi, che consistono in intensità di colori, di luci, di suoni, che utilizzano la vibrazione, il tremolio, la ripetizione sia di un ritmo musicale come di una frase parlata, che ricorrono alla tonalità o all’alone espressivo di una luce, possono raggiungere pieno effetto solo attraverso l’uso di dissonanze. Ma anziché limitare queste dissonanze all’orbita di un solo senso, le faremo passare da un senso all’altro, da un colore ad un suono, da una parola ad una luce ecc. Così composto e costruito lo spettacolo si estenderà alla sala intera del teatro e avvolgerà lo spettatore. Fra vita e teatro verrà abolito ogni taglio netto ed ogni soluzione di continuità. Vogliamo avere a disposizione per uno spettacolo teatrale gli stessi mezzi, che vengono quotidianamente dissipati in pellicole sulle quali tutto ciò che vi è di attivo e di magico in una simile dovizia viene irrimediabilmente perduto. Il primo spettacolo del Teatro della Crudeltà avrà per titolo: LA CONQUETE DU MEXIQUE Metterà in scena avvenimenti, non persone. Vi compariranno uomini, con la loro psicologia e le loro passioni, ma visti come emanazione di certe forze e nella prospettiva degli avvenimenti e della fatalità storica in cui hanno operato. Questo argomento è stato scelto: 1. per la sua attualità (la colonizzazione) e per tutte le possibili allusioni a problemi di vitale interesse per l’Europa e per il mondo. Permette di smontare l’idea che l’Europa ha della propria superiorità. Oppone al Cristianesimo religioni molto più antiche. Fa giustizia delle false concezioni che l’Occidente ha potuto formarsi sul paganesimo e su certe religioni naturali, e sottolinea in forma patetica lo splendore e la poesia perennemente attuali delle antiche fondamenta metafisiche su cui queste religioni sono state edificate. 2. Ponendo il problema terribilmente attuale della colonizzazione e del diritto che un continente si arroga di ridurne un altro in schiavitù, pone implicitamente il problema della superiorità di certe razze su altre, e mostra la filiazione interna che lega il genio di una razza a particolari forme di civiltà. Oppone alla tirannica anarchia dei colonizzatori la profonda armonia morale dei futuri colonizzati. In più, di fronte al disordine della monarchia europea del tempo, fondata sui più ingiusti principi materiali, pone in luce la gerarchia organica della monarchia azteca basata su indiscutibili principi spirituali. Dal punto di vista sociale, mostra la pace di una società che sapeva dar da mangiare a tutti i suoi membri, e dove la rivoluzione era stata realizzata sin dalle origini. Da questo scontro tra il disordine morale e l’anarchia cattolica, e l’ordine pagano, lo spettacolo può far scaturire inaudite conflagrazioni di forze e di immagini, costellate qua e là di dialoghi brutali. Ci sono anzitutto le lotte interiori di Montezuma, il tormentato re sui cui segreti motivi la storia si è mostrata incapace di illuminarci. Le sue lotte e le sue discussioni simboliche con i miti visuali dell’astrologia saranno presentate in forma pittorica, obiettiva. Accanto a questo, vi è la folla, i diversi strati sociali, la rivolta del popolo contro il destino, raffigurato da Montezuma. Lo spirito delle folle, il respiro degli avvenimenti si riverseranno a ondate sullo spettacolo, fissando qua e là certe linee di forza. Teatralmente il problema consiste nel determinare queste linee di forza, nel concentrarle e nell’estrarne suggestive melodie. Le immagini, i movimenti, le danze, i riti, le musiche, le melodie interrotte, i dialoghi improvvisamente troncati, saranno attentamente annotati e descritti per quanto possibile con le parole, soprattutto nelle parti non dialogate dello spettacolo, partendo dal principio che bisogna riuscire ad annotare o a cifrare, come su una partitura musicale, tutto ciò che non può essere descritto a parole. UN’ATLETICA AFFETTIVA L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. Anche per lui vale la divisione dell’uomo totale in tre mondi; e all’attore compete la sfera affettiva. I movimenti muscolari dello sforzo fisico sono come l’immagine di un altro sforzo, doppio del primo, e nei movimenti dell’azione drammatica si localizzano nei medesimi punti. Tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri e del salto in alto trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni; hanno gli stessi punti fisici di sostegno. Però con quest’altro correttivo: qui il movimento è rovesciato, mentre il corpo dell’attore è sostenuto dal respiro, il respiro del lottatore o dell’atleta si sostiene sul corpo. Il problema del respiro è, di fatto, fondamentale; ed è inversamente proporzionale all’importanza dell’azione esaltato dallo spirito che ha finalmente potuto scatenare e di cui sembra costituire lo stupefatto e fuggevole contrappunto. Non c’è nulla di più allucinante e insieme di più terribile di questa specie di caccia all’uomo, di questa lotta fra rivali, questo inseguimento nell’oscurità di una stalla, di un granaio dove da ogni parte pendono tele di ragno, mentre uomini donne e animali snodano il loro girotondo e si ritrovano fra un cumulo di oggetti d’ogni genere il cui movimento e il cui suono verranno utilizzati ciascuno al momento opportuno. Quando in Animal Crackers una donna d’un tratto si rovescia a gambe all’aria su un divano, e mostra per un attimo tutto ciò che avremmo voluto vedere; quando in un salotto un uomo si getta improvvisamente su una donna, fa con lei qualche passo di danza e quindi la sculaccia a tempo di musica- c’è in questi episodi come l’esercizio di una sorta di libertà intellettuale dove l’inconscio di ogni personaggio, represso dalle convenzioni e dalle abitudini, si vendica, vendicando nello stesso tempo anche il nostro; ma quando in Monkey Business un uomo braccato si getta su una bella donna che ha incontrato e danza con lei poeticamente, in una sorta di ricerca dell’incanto e della grazia degli atteggiamenti, qui la rivendicazione spirituale sembra duplice, e mostra quanto vi è di poetico, e forse di rivoluzionario, nei lazzi dei Marx Brothers. Ma il fatto che la musica sulla quale danza la coppia dell’uomo braccato e della bella donna sia una musica di nostalgia e di evasione, una musica di liberazione, mostra a sufficienza l’aspetto insidioso di tutti i lazzi umoristici, e mostra che, quando entra in gioco, lo spirito poetico tende sempre a una specie di tumultuosa anarchia, a una totale disintegrazione del reale attraverso la poesia. Se gli americani vogliono considerare questi film come puri fatti umoristici peggio per loro; ma ciò non potrà impedirci di considerare il finale di Monkey Business un inno all’anarchia e alla rivolta integrale, questo finale che attribuisce al muggito di un vitello la stessa portata intellettuale e la stessa qualità di lucido dolore di una donna impaurita. E tutto trionfa in quella sorta di esaltazione visiva e sonora che gli avvenimenti assumono nell’oscurità, nel grado di vibrazione cui pervengono, e nella profonda inquietudine che il loro effetto complessivo finisce per proiettare nello spirito. 2. Autour d’un mère C’è nello spettacolo di Jean-Louis Barrault una sorta di meraviglioso cavallo-centauro, che ci ha assai turbati, come se con l’ingresso di questo cavallo-centauro, Barrault ci avesse restituito la magia. Nello spettacolo di Barrault, al momento della morte della madre, scoppia un concerto di grida. Bisogna salutare come un avvenimento una simile trasformazione dell’atmosfera per cui un pubblico ostile si lascia improvvisamente e ciecamente travolgere, e viene irrimediabilmente disarmato. C’è in questo spettacolo una forza segreta che conquista il pubblico, come un grande amore conquista un’anima pronta alla ribellione. Un amore giovane e grande, un vigore giovanile, un’effervescenza spontanea e viva, circolano attraverso movimenti vigorosi, attraverso una gesticolazione matematica e stilizzata. In questa atmosfera sacrale, Barrault improvvisa i movimenti di un cavallo selvaggio, e abbiamo d’un tratto la sorpresa di vederlo trasformato in cavallo. Il suo spettacolo manifesta l’azione irresistibile del gesto, dimostra vittoriosamente l’importanza del gesto e del movimento nello spazio. Restituisce alla prospettiva teatrale l’importanza che mai avrebbe dovuto perdere. Fa finalmente della scena un luogo vivo e patetico. Infatti lo spettacolo è organizzato un rapporto alla scena e sulla scena. Ma non c’è un solo punto della prospettiva scenica che non assuma un senso conturbante. C’è in questa gesticolazione animata, in questa successione discontinua di immagini una sorta di richiamo diretto e fisico. Né dimenticherà più la morte della madre, con quelle grida che riecheggiano nello spazio come nel tempo, l’epica traversata del fiume, lo scaturire del fuoco nelle gole degli uomini cui corrisponde, sul piano del gesto, lo scaturire di un altro fuoco, e soprattutto quella specie di uomo-cavallo che va e viene per tutto lo spettacolo, come se lo spirito stesso della favola, fosse ridisceso fra noi. Soltanto il Teatro Balinese sembrava sinora aver conservato una traccia di questo spirito perduto. Certo, non esistono simboli nello spettacolo di Barrault. E se si può rivolgere ai suoi gesti un rimprovero, è quello di darci l’illusione del simbolo quando invece non fa che abbracciare la realtà. L’azione è priva di prolungamenti perché è soltanto descrittiva, perché racconta fatti esterni in cui le anime non intervengono; perché non tocca sul vivo né i pensieri né le anime; ed è in questo, assai più che il problema della teatralità o meno di questo tipo di teatro, il punto contestabile dello spettacolo. Del teatro ha i mezzi, ma manca quello che del teatro è la testa, il dramma profondo, il mistero più profondo delle anime, il lacerante conflitto delle anime in cui il gesto è semplicemente un percorso. IL TEATRO DI SERAPHIN (vedi meglio pag. 257) (Teatro di ombre cinesi introdotto a Parigi nel 1781 da un italiano, e attivo fino al 1870) Quando recito il mio grido ha cessato di girare su se stesso, ma risveglia il suo doppio sorgivo nelle mura del sotterraneo. E questo doppio è più di un eco, è il ricordo di un linguaggio di cui il teatro ha perduto il segreto. Fra il personaggio che si agita in me quando, attore, mi muovo in scena, e quello che sono quando mi muovo nella realtà c’è una differenza di grado, ma a vantaggio della realtà teatrale. Quando vivo non mi sento vivere, ma quando recito allora mi sento esistere. Che cosa mi può impedire di credere al sogno del teatro quando credo al sogno della realtà? Quando sogno faccio qualcosa e in teatro faccio qualcosa. Ora il teatro è come una grande veglia, dove sono io a guidare la fatalità. Ma in questo teatro dove porto la mia fatalità personale e che ha come punto di partenza il soffio, e che si fonda dopo il soffio sul suono o sul grido, per ricostruire la catena di un tempo in cui lo spettatore cercava nello spettacolo la propria realtà, bisogna permettere allo spettatore di identificarsi con lo spettacolo, soffio a soffio e tempo a tempo. Bisogna rompere con una magia aleatoria, con una poesia che non ha più la scienza per sorreggerla. Nel teatro poesia e scienza devono ormai identificarsi. Conoscere le localizzazioni del corpo è perciò ricostituire la catena magica. E io voglio col geroglifico di un soffio ritrovare un’idea del teatro sacro.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved