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Riassunto 'Il teatro e il suo doppio', Artaud, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto libro 'Il teatro e il suo doppio', Artaud. Esame passato 3o/30.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 07/03/2024

Marrrtaaa
Marrrtaaa 🇮🇹

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Scarica Riassunto 'Il teatro e il suo doppio', Artaud e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! ARTAUD e “IL TEATRO e il SUO DOPPIO” BIOGRAFIA Antonin Artaud nacque a Marsiglia il 4 settembre 1896. Della sua infanzia pare che non amasse parlare. Sappiamo però che la trascorse in Provenza e presso la nonna materna. Seguì regolarmente gli studi al Collège Sacré-Cœu di Marsiglia, dove, a quattrodici anni, diede vita, coi compagni, a una piccola rivista letteraria. Le sue prime poesie uscirono regolarmente su diverse riviste, ma intorno al 1915 fu colto dai primi dolori di origine nervosa. Trascorse vario tempo in diverse case di cura finché le sue condizioni andarono nettamente migliorando e poté finalmente rientrare a Marsiglia. Su consiglio dei medici si trasferì, nel marzo del 1920, ad una clinica a Parigi diretta dal dottor Toulouse che oltre a curarlo gli offrì l’incarico di segretario della sua rivista. Artaud assunse questo ruolo fino alla chiusura della rivista pubblicando una serie di articoli di critica e poesie. Sono questi gli anni in cui Artaud ebbe i suoi primi contatti col teatro. Conobbe Lugné-Poe e più avanti Dullin con il quale lavorò dal 1922 al 23 come attore per il Theatre de l’Atelier. Nel 1922 ebbe anche un primo incontro col teatro orientale, assistendo a Marsiglia a uno spettacolo di danze cambogiane. Artaud entrò in contatto con la “Nouvelle Revue Francaise” inviando una serie di poesia che piacquero molto al segretario della rivista, ma non al direttore. Successivamente recitò alla Comedie des Champs-Elysees e in un articolo apparso su “Comoedia” nel 1924 formulò una prima esposizione delle sue idee sulla messinscena e la scenografia teatrale, illustrandola con un bozzetto per “La Place de l’Amour”, “dramma mentale”, tratto da Marcel Schwob. Dopo aver conosciuto Breton, Aragon, Desnos, Vitrac e altri aderì al movimento surrealista, collaborando ai primi numeri di “La Revolution Surrealiste”. Non tardarono a manifestarsi i primi contrasti in seno al gruppo surrealista: le posizioni di Artaud erano accusate di individualismo e la pratica del mestiere dell’attore era considerata un privilegio illegale al mondo borghese. Nel settembre 1926 Artaud, insieme a Aron e Vitrac, impostò il programma di un’attività teatrale autonoma, con la fondazione del Theatre Alfred Jarry. Il progetto di una regolare attività di spettacoli provocò la rottura formale col gruppo surrealista, dal quale Artaud, come già Vitrac, venne espulso. Nella sala dell’Atelier offerta da Dullin, ebbero inizio le prove del Theatre Alfred Jerry. Il primo spettacolo messo in scena da Artaud si svolse al Theatre de Grenelle. Mise in scena una serie di spettacoli, ma le difficoltà economiche e di ogni genere ne resero impossibile il proseguimento. Negli stessi anni del Theatre Alfred Jarry Artaud si dedicò attivamente anche al cinema. Artaud si mostrò, all’inizio, piuttosto negativo nei confronti del sonoro, ma la sua posizione si andò rapidamente adeguando, e alle sue interpretazioni nel cinema muto ne seguirono altre in film parlati. Nel 1928 soffrì di nuovo di un acuto disagio fisico e psichico, cui seguivano uso di droghe e di cure di disintossicazione. Nel 1929 uscì presso l’editore Denoel, con i quali strinse amicizia, la raccolta “L’art et la mort”, comprendente prose scritte negli anni 1925-28. Nel 1930 si dedicò sia a progetti teatrali che cinematografici. A Berlino lavorò per il cinema e nel 1931 iniziò a lavorare come assistente alla regia per Louis Jouvet, ma la collaborazione tra i due finì rapidamente a causa di divergenze teatrali troppo grandi. Nel 1931 Artaud assistette, all’Exposition Coloniale, a una rappresentazione del Teatro Berlinese. Artaud si trovò faccia a faccia con una dimensione completamente nuova, o diversa, del teatro. Per tentare una sperimentazione delle sue idee sul teatro Artaud si decise a scrivere personalmente un testo drammatico completo: “Les Cenci”, tragedia in quattro atti e dieci quadri tratta da Shelley e Stendhal. Dopo una serie di peripezie di ogni genere, lo spettacolo andò in scena nel 1935. Artaud oltre a curare la regia, tenne il ruolo di protagonista. Ci furono diciassette repliche e recensioni severe. Dopo questo sostanziale insuccesso Artaud pensò ad altri spettacoli finché non iniziò la fase più avventurosa e oscura di Artaud. Nel 1936 s’imbarcò, quasi senza denaro, alla volta del Messico, alla ricerca di un’esperienza decisiva. A Città del Messico, per procurarsi denaro, tenne alcune conferenze all’università e scrisse alcuni articoli per il giornale “Nacional”. Durante l’estate partì per le regioni interne, accompagnato da una guida indiana, sulle tracce delle tribù dedite all’uso e al culto religioso del peytol. Il racconto di questo viaggio apparve non firmato nella “Nouvelle Revue Francaise”. Nel 1936 venne rimpatriato. Per qualche tempo frequentò assiduamente Barrault. Si orientò verso l’astrologia, il linguaggio dei tarocchi e le conoscenze esoteriche. Attribuiva, in quegli anni, un particolare potere magico-profetico ad un bastone. Sosteneva che era appartenuto a San Patrizio il patrono degli Irlandesi, così andò in Irlanda. In Irlanda Artaud si riaccostò al cattolicesimo, come raccontò ad una lettera a Barroult. Qualche anno dopo venne rimpatriato e poi internato in un manicomio. A partire da quel momento Artaud trascorse i nove anni consecutivi nelle cliniche psichiatriche. Intanto nel 1938, usciva finalmente la raccolta dei suoi scritti sul “Teatro della Crudeltà”. Nel 1943 venne affidato ad una clinica dove riprese a scrivere. Scrisse anche una serie di lettere a Henri Parisot le quali costituiscono, accanto ad altri testi degli ultimi anni, una testimonianza impressionante dell’esperienza estrema di Artaud, di come la sua stessa personalità, il suo linguaggio, la sua mitologia profonda trovassero realizzazione attraverso la tragica esperienza della follia. Le circostanze della guerra e dell’invasione avevano reso ancora più dura l’esistenza dei ricoverati, aggiungendovi gravi privazioni materiali e ostacolando qualsiasi tentativo di soccorso dall’esterno. Alla fine della guerra Artaud, distrutto nel fisico e quasi irriconoscibile, uscì dalla clinica a patto che fosse garantito il suo mantenimento. Successivamente fu accolto ad una clinica a Ivry che gli lasciò piena libertà di movimento e l’uso di un alloggio isolato. Da Ivry, Artaud poteva raggiungere quasi quotidianamente Parigi e mantenere il contatto con le persone a cui era legato: scrittori, artisti, uomini di teatro e amici fedeli. Nonostante i dolori acutissimi continuò a scrivere. Artaud morì il 4 marzo 1948. Maestri di Antonin Artaud: 1. Charles Dullin (1895-1949) Con la creazione dell’Atelier, egli affronta i gravi problemi del risanamento e della rigenerazione morale intellettuale del teatro francese. Prima di tutto occorreva costituire un piccolo nucleo di attori perfettamente disciplinati, perfettamente al corrente delle esigenze del loro mestiere, perfettamente coscienti. A questo scopo mirano i nuovi metodi instaurati da Dullin, che gli ha inventati o adottati per primo in Francia. Di tali metodi, il principale è l’improvvisazione che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli. gli dimostrano come era possibile utilizzare un sistema di segni spirituali capace di sostituire la parola. Il teatro, per Artaud, doveva essere liberato dalla sua sottomissione al testo, così come il corpo dell’attore doveva essere liberato dalla sua subordinazione alla mente. Il linguaggio da usare, quindi, non doveva essere più umanistico e realistico, bensì un linguaggio della magia. Il termine “crudeltà” fu scelto da Artaud per definire il suo nuovo teatro del 1932, dopo aver scartato termini come “assoluto”, “metafisico” e “alchimistico”. Pubblicò ben due manifesti de “Il Teatro e la Crudeltà, nel 1932 e nel 1933. Sin dall’inizio, Artaud precisò che non si trattava di un’interpretazione morale e fisica della crudeltà: lo spargimento di sangue e di carne martoriata costituivano un aspetto secondario della questione, ma comunque presente, lasciando posto ad una crudeltà intesa come forza ed energia creativa, come impulso irrazionale la cui legge unica è il Male. L’unico vero compito del teatro di Artaud era offrire allo spettatore una rivelazione, cioè rivelare il cuore di tenebra presente nella vita stessa. Di conseguenza, tutte le convenzioni della società moderna, specie quella occidentale, cioè la sua morale, i suoi tabù, le sue istituzioni, sono per Artaud inutili tentavi di negare questa crudeltà cosmica: per Artaud la sproporzione esistente fra i sentimenti ed il linguaggio andava inquadrata in una più generale crisi culturale. Artaud nel saggio “Il teatro e la peste” paragona il teatro alla peste, in quanto, come la peste, è capace di rivelare lo spirito represso in ogni uomo. Il teatro, come la peste, spinge in superficie la crudeltà nascosta. Libera le possibilità più oscure. Alcuni critici hanno acutamente individuato nel teatro di Artaud una tendenza anticonvenzionale: se per secoli si è parlato del teatro come “purgazione” dei sentimenti e dei valori negativi, con il Teatro della Crudeltà abbiamo una sorta di anti-purgazione: esso evidenzia come l’animo umano sia caratterizzato da lati oscuri ed energie dolorose, senza possibilità di conciliazione. Il concetto di “doppio” di Artaud fu fonte di malintesi: egli spigava il titolo del suo libro dicendo che “se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro”. I doppi del teatro sono allora la metafisica, la poesia, la crudeltà. Il doppio del teatro non è la realtà quotidiana, sempre più vuota ed insignificante, ma piuttosto la realtà archetipica e pericolosa. Il concetto di “doppio” viene applicato da Artaud anche a proposito dell’attore: l’attore deve vedere il suo corpo come il doppio di uno “spettro”, plastico e mai compiuto, simile al “Ka” delle mummie egiziane; ogni parte del corpo ha uno speciale potere mistico ed ogni emozione ha una base organica. Ogni differente metodo di respirazione può essere analizzato per il contenuto simbolico.   IL TEATRO ALFRED JERRY Artaud è il fondatore del Teatro Alfred Jarry. Artaud vuole che la rappresentazione teatrale provochi lo spettatore, che lo mistifichi, lo traumatizzi, lo impegni attivamente nell’avvenimento che si rinnova ogni sera, liberi in lui le sue forze più brutali e crudeli. Per ottenere questo scopo il drammaturgo rinuncerà al dialogo tradizionale. Artaud lancia dunque la condanna contro la letteratura. Niente idee sulla scena, né psicologia, né personaggi, né umanità. Artaud deride l’uomo. Di lui ammette sulla scena solo quanto vi è di torbido e di meno individualizzato: sogni e istinti. Si esprime con un linguaggio particolare fatto soprattutto per i sensi: gesti, illuminazione, valorizzazione dell’oggetto e dell’accessorio. La novità della messa in scena bisogna cercarla soprattutto negli scenari e nei giochi di luce: Artaud voleva, ad esempio, che gli scenari, gli accessori e gli oggetti di scena fossero considerati quelli che erano realmente, in modo che dalla loro disposizione, dalla loro presenza quasi inaspettata potesse derivare un turbamento nello spettatore trascinato e affascinato da una situazione enigmatica in cui sembra che da un attimo all’altro possa esplodere qualcosa: una luce violenta esplora la scena e mette in evidenza anche ciò che è apparentemente invisibile. L’operazione analitica svolta sugli oggetti si estendeva poi anche agli attori e in particolare al loro linguaggio verbale e gestuale: una recitazione molto serrata dalla quale avessero possibilità di emergere in primo luogo il lapsus, i cosiddetti “atti mancati” per la rimozione dell’io profondo e per la provocazione di un’emozione psicologica. I movimenti del corpo dovevano inoltre essere in armonia non tanto con le azioni quanto piuttosto con i pensieri non palesati, nascosti o riposti nell’inconscio dei personaggi. La psicoanalisi trovava così il suo punto di oggettivazione concreta nel teatro. Il Teatro Alfred Jarry diede allora la spinta alle creazioni teatrali verso un’emozionalità di tipo surrealista, ma è il maggiore esponente di questo gruppo e grande teorico del teatro, Artaud, a formulare in maniera più concreta e ragionata il concetto di scena, di spazio e di occupazione di esso, di spettacolo, in una parola di evento, termine che contiene già in sé il significato di “magia”, di rito partecipativo ancor prima che di rito di coinvolgimento. Non vuole Artaud sfruttare l’inconscio per sé stesso, ma riservagli un carattere oggettivo solo in misura della sua funzione nella vita di tutti i giorni. È allora, proprio a questo punto, che il teatro con Artaud non è più un rapporto limitato nell’ambito ristretto del palcoscenico, ma si apre prepotentemente alla realtà vitale, rimettendo in discussione ogni sera i valori della messa in scena, dei contenuti e della recitazione. La vita non è fatta di atti ripetitivi e il linguaggio della scena, per Artaud, non è ripetizione, ma poesia in azione per cui la scenografia del suo Teatro della Crudeltà, momento successivo alla prima esperienza del Teatro Alfred Jarry, non è data come un fatto decorativo dal momento che la sua immobilità non risponderebbe ad un codice legato alla metamorfosi, al flusso continuo dello spirito. Là dove esiste una forma stabilita vi è un blocco del pensiero e una regressione: fino a quando i due protagonisti della scena teatrale, attore e spettatore restano chiusi in una individualità finita, non possono riprendere la propria posizione tra i sogni e gli avvenimenti. Non si tratta più di riportare tramite la poesia scenica il mondo così com’è, pertanto è necessario l’asciarsi smuovere dal linguaggio dei simboli attraverso un nuovo codice interpretativo, cioè il teatro inteso come spettacolo totale, contenente elementi fisici e oggettivi in grado di essere percepiti da tutti. Con questo linguaggio reso al limite della fisicità, gli oggetti comuni e anche il corpo umano diventano segni, come caratteri geroglifici facilmente riconoscibili; le intonazioni della voce, le espressioni del viso colte in forma di maschera, i gesti simbolici, gli atteggiamenti emotivi vengono raddoppiati da una serie di altri gesti e atteggiamenti riflessi, quelli che di solito non vengono manifestati, tutti i lapsus dello spirito e della lingua tramite i quali si esprimono le cosiddette “impotenze della parola”. La musica è concepita in senso concreto e i suoni agiscono come veri e propri personaggi; gli strumenti adoperati come oggetti di scena, per produrre suoni acuti e insopportabili devono necessariamente non rientrare nell’uso comune; la luce, per potersi adattare ai movimenti dello spirito, deve essere tenue, densa, opaca, per stimolare sensazioni fisiche di caldo, di freddo, d’ira e di timore. La scena è soppressa perché l’azione deve occupare tutti i punti della sala e gli spettatori seguire l’avvicendarsi dei fatti ruotando su sedie girevoli; proprio perché l’azione si dispiega in tutte le direzioni, ogni scena viene illuminata ed illumina a sua volta il pubblico, e i personaggi dovranno sostenere tutti gli attacchi delle situazioni; inoltre al centro rimarrà un’area che, pur non essendo una vera e propria scena, darà modo al nodo centrale dell’azione di raccogliersi quando occorre. Questo tipo di teatro vuole coinvolgere l’esistenza intera dell’individuo, scuotendolo dalle sue angosce, dalle sue preoccupazioni, con un’azione aggressiva che lo stimoli a scoprire le sue contraddizioni interiori. “Il Sogno” di August Strindberg, Artaud la considera come un’opera tipo che corona la carriera di un regista. Vi sono rappresentati i più alti problemi, evocati in una forma concreta e misteriosa. Il Teatro Jarry vuole riportare nel teatro il senso non della vita, ma di una verità che giace nelle profondità dello spirito. La realtà teatrale che il Teatro Jarry si propone di resuscitare è quella fra la vita reale e la vita del sogno. La definizione di teatro è scomparsa dai cervelli umani, ma esiste a metà strada tra realtà e sogno. Finché tale definizione non sarà stata riscoperta nella sua più assoluta integrità, il teatro continuerà a trovarsi in una posizione precaria. La messa in scena de “Il Sogno” obbedisce alla necessità di proporre al pubblico qualcosa che possa essere utilizzato immediatamente e così com’è dagli attori. Artaud afferma che ci sia la necessità di un teatro svincolato dalle convenzioni che lo hanno determinato fino ad ora. Egli sostiene che uno spettacolo che si ripete uguale tutte le sere non può essere più ammesso e che si debba spingere, piuttosto, per la messa in scena di spettacoli che diano l'impressione di essere unici e irripetibili come qualsiasi atto della vita reale. C'è bisogno di un teatro che, in sostanza, metta in contatto lo spettatore con la sua vita piuttosto che separarlo dalla stessa. Questo implica che lo spettatore sia disposto ad aderire in maniera profonda e intima a ciò che sta vedendo. Il suo recarsi a teatro dev'essere una scelta consapevole, conscia del fatto che si sottoporrà a una sorta di operazione in cui tutto il suo corpo, il suo spirito e relative angosce, verranno messi in gioco. Attualmente, sostiene Artaud, il male peggiore della società occidentale è l'anormale facilità introdotta negli scambi tra uomo e uomo, che non lasciano più al pensiero il tempo di radicarsi nella propria mente. Il teatro Alfred Jarry si propone di rivoluzionare questo aspetto, suscitando un'emozione psicologica. Artaud rivendica un teatro che sappia parlare direttamente allo spirito. La regia e le evoluzioni degli attori devono essere considerati come i vettori per l'espressione tangibile sul palco di quanto c'è di nascosto e di oscuro dentro l'uomo. Il mondo onirico, gli strati più profondi della coscienza umana devono trionfare sulla scena. Dal punto di vista della messa e di criteri di impostazione questo tipo di teatro si affida totalmente a caso, considerato una sorta di vero e proprio Dio. Si parte in ogni caso da testi determinati, in quanto realtà che basta a se stessa. L'approccio al testo non è tuttavia tradizionale, ovvero l'intero spettacolo non sarà una mera rappresentazione del testo scritto, ma si parte dallo spostamento d'aria provocato dalla sua enunciazione per dare senso all'azione e generare inquietudine. Il lirismo, i monologhi filosofici e altre esternazioni di questo tipo sono evitate mentre trovano luogo dialoghi brevi, atteggiamenti stereotipati e locuzioni proverbiali. Il tema prediletto è l'attualità che viene trattato in accezione umoristica con il fine di provocare il riso assoluto nello spettatore in forma terapeutica. Mentre i personaggi vengono sempre spinti a rappresentare un tipo ben preciso, le scene e gli oggetti saranno reali e concreti. Ove necessario lo stupore del pubblico e la sua paura vengono provocati, oltre che dall’illuminazione, anche da fuochi artificiali, fanfare e detonazioni. Tuttavia, è bandito dal palcoscenico tutto ciò che è artificioso o ha bisogno di un'illusione per essere compreso, le cose devono essere rappresentabili così come sono. Il teatro Jarry non vuole barare con la vita ma solo continuarla, assumere la forma di un'operazione magica suscettibile a qualsiasi forma di sviluppo. In quest’opera è bandita la logica dei fatti, ogni sentimento diventa subito un atto e ogni stato dello spirito si materializza in immagini immediate. Inoltre, si tratta di un’opera in cui l’allegoria non esiste anche quando i personaggi prendono possesso della storia. Nella realtà di questi esseri c’è continuamente una trasfusione di una realtà storica che appare allo spettatore come veramente presente. Quando viene evocato Mussolini, ad esempio, lo spettatore percepisce che quello sia Mussolini in persona e non una sua trasfigurazione. Seppur questa opera si inscriva nel contesto surrealista, che per antonomasia si distingue per il sua automaticità, Roger Vitrac mette in scena qualcosa di perfettamente lucido dal punto di vista dello spirito. Tutte le difficoltà a cui vanno incontro le imprese libere e disinteressate del genere Teatro Alfred Jarry: 1. Ricerca di capitali; 2. Scelta della sede; 3. Difficoltà di collaborazione; 4. La censura; 5. La polizia; 6. Il sabotaggio sistematico; 7. La concorrenza; 8. Il pubblico; 9. La critica. NECESSITÀ DEL TEATRO. Questo teatro pretende di portare sulla scena manifestazioni positive, oggettive e dirette, atte a screditare, con l’utilizzazione di elementi acquisiti e sperimentati, le opere banali e falsi valori moderni e insieme a ricercare e a mettere in evidenza gli avvenimenti autentici e probanti dello stato attuale dei francesi. POSIZIONE DEL TEATRO. Gli spettacoli, dato che sono rivolti a un pubblico francese e a tutti quelli che nel mondo sono considerati amici della Francia, saranno chiari e misurati. Il linguaggio sarà parlato e non si trascurerà nulla di ciò che costituisce gli elementi ordinari del successo. I temi del nostro teatro saranno: l’attualità, intesa in tutti i sensi; come mezzo: l’humor, in tutte le sue forme; e come fine: il riso assoluto, il riso che va dall’immobilità bavosa alla risata irrefrenabile fino alle lacrime. OBIETTIVI DEL TEATRO. Oltre alle emozioni che provocherà, direttamente alla rovescia, come la gioia, la paura, l’amore, il patriottismo, il piacere del diritto, eccetera eccetera; si specializzerà in un sentimento su cui nessuno può interferire: la vergogna, l’ultimo è più temibile ostacolo della libertà. Il teatro rinuncerà a tutti i mezzi che hanno a che fare da vicino da lontano con le superstizioni. Sulla scena l’inconscio non avrà un ruolo specifico. Non è nostra intenzione sfruttare l’inconscio per se stesso; partendo dalle acquisizioni positive raggiunte in questo tempo, gli riserveremo un carattere nettamente oggettivo, ma solamente misura della funzione che riveste nella vita quotidiana. TRADIZIONE DICHIARATA DEL TEATRO. Il teatro rinuncia ad elencare tutte le influenze frammentarie che ha potuto subire, per soffermarsi soltanto, dal punto di vista dell’efficacia che si esige nel paese, sugli esempi indiscutibili forniti dei teatri cinese, negro americano e sovietico. MESSA IN SCENA. I personaggi saranno sistematicamente spinti fino al tipo. Daremo una visione nuova del personaggio teatrale. Gli attori si faranno sempre una maschera. Il gioco dei movimenti andrà d’accordo o sarà in contrasto col testo a seconda delle intenzioni da mettere in risalto. Questa nuova pantomima potrà svolgersi al di fuori del movimento generale d’azione, sfuggirvi, avvicinarsi, aderire adesso secondo la severa meccanica imposta l’interpretazione. E cercheremo nel campo isolabile dei sensi tutte le allucinazioni suscettibili di essere oggettivata. I drammi saranno completamente sonorizzati, compresi di intervalli. APPELLO AL PUBBLICO. Il teatro, esponendo al pubblico le precedenti dichiarazioni, si permette di chiedergli aiuto, di qualsiasi genere. Si metterà in diretto contatto con tutti quelli che vorranno interessarsi in un modo o in un altro all’azione che intraprende. ATERLIER CHARLES DULLIN Con la creazione dell’Atelier, Charles Dullin affronta i gravi problemi del risanamento e della rigenerazione morale e intellettuale del teatro francese. Fatta eccezione per il Vieux-Colombier non c’è niente, dice Dullin, che si possa chiamare teatro. Dullin vuole costruire un piccolo nucleo di attori disciplinati, al corrente delle esigenze del loro mestiere e coscienti usando il metodo dell’improvvisazione che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell’anima invece di rappresentarli. Dullin considera l’Atelier come un laboratorio di ricerche. Dullin ci darà un teatro che si addice prima di tutto ai suoi gusti e ai mezzi di espressione che gli sono propri. Purtroppo c’è gente, dice Dullin, che va a teatro come andrebbe al bordello, per un’eccitazione momentanea, vedendolo come un luogo di scarico, un teatro-svago. Ciò ha creato due teatri: un falso teatro facile e fittizio, il teatro dei borghesi, dei militari, dei benestanti, dei commercianti ecc e un teatro concepito come il concepimento dei più puri desideri umani. L’Atelier è stata fondata da Charles Dullin il quale si formò al Vieux-Colombier di Copeau. L’Atelier non pretende di inventare nulla, vuole soltanto sforzarsi a servire il teatro. L’Atelier tenderà a ritrovare tutto il teatro passato e il teatro futuro. L’Atelier ha metodi di lavoro che gli sono propri. La compagnia lavora di continuo anche fuori dalle prove, e ogni attore ridiventa alunno, sotto la guida di Charles Dullin. Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev’essere lo scopo del vero attore. I Russi praticano da gran tempo l’uso di un certo metodo d’improvvisazione che spinge l’attore a lavorare con la propria sensibilità profonda, a esteriorizzare questa sensibilità reale e personale con parole, atteggiamenti, reazioni mentali inventate per l’occasione, improvvisate. La ricerca delle intonazioni è il grande scoglio. L’intonazione è trovata dall’interno, spinta all’esterno dall’impulso aderente del sentimento, e non ottenuta per imitazione. Dullin ha sviluppato il procedimento, facendone un metodo profondo di lavoro. Gli artisti dell’Atelier si sono esercitati in vere e proprie sedute d’improvvisazione davanti a gruppi di spettatori strettamente privati. Si sono rivelati straordinariamente abili nel rappresentare con poche parole, certi caratteri, atteggiamenti, certi personaggi della nostra umanità, oppure dei sentimenti astratti, degli elementi come il vento, il fuoco, creazioni dello spirito, sogni e tutto improvvisando, senza testo, senza indicazione, senza preparazione. Questa realtà ha permesso di portare le innovazioni di teorici come Craig e Appia finalmente nel suolo francese e ha inaugurato una forma di teatro in cui l'intonazione viene messa in scena dall'interno e non tramite l'imitazione. Infatti, seppure l'atelier non introduce sostanzialmente nulla di nuovo, si pone come obiettivo quello di non servire il teatro del passato, dei cui modelli non vi è traccia. Tra i metodi utilizzati il principale è l'improvvisazione che costringe l'attore a pensare gli impulsi dell'anima invece di rappresentarli, per questo egli scelse un nucleo di attori esclusivamente disciplinati e soprattutto coscienti di sé stessi. Dullin teneva a specificare, soprattutto nel reclutamento di questi attori, che prima di ogni cosa doveva esserci il rispetto per l'arte, in quanto il suo Atelier non è un'impresa ma un laboratorio di ricerche. Queste persone dovevano essere necessariamente spinte dall’amore per la professione. Il Teatro e il Suo Doppio (1938) Il teatro e il suo doppio testimonia che Artaud è stato partecipe dell’avanguardia surrealista (massimo esponente dell’ordine dell’organizzazione surrealista): di fatto esso rappresenta l’espressione teatrale del surrealismo, che è impura, moderata, negoziata, mediata; era impossibile che il teatro aderisse ai principi della creazione. Egli non nega il valore della parola poetica, ma deve comunque essere suscitata dall’inconscio, altrimenti risulta inefficace poiché ridotta a uno strumento per esprimere contenuti. Ciò implica un mutamento del teatro, che secondo Artaud avviene, in ogni caso, nelle tradizioni di esso e non nelle nuove espressioni. A partire da questi presupposti – dopo l’espulsione dal gruppo surrealista – Artaud raccoglie alcuni suoi scritti, che rapportano il teatro alla peste, all’alchimia, alla metafisica, allo spettacolo balinese, e dà vita a Il teatro e il suo doppio. Al centro della sua poetica teatrale c’è l’idea di crudeltà, non intesa come sadismi scenici, ma come rinuncia degli elementi inessenziali che riducono il teatro a semplice intrattenimento e riscoperta dell’energia potente dei gesti, delle musiche e delle luci per tornare alla vera essenza del teatro e a un’azione scenica “pura”. Il testo viene pubblicato da Gallimard nel 1938. Artaud è già entrato nell’ombra dell’internamento. Dopo il viaggio in Messico (gennaio-ottobre 1936), torna in Francia ricadendo in una situazione finanziaria e psicofisica insostenibile. Durante un viaggio in Irlanda, nel settembre del 1937, viene arrestato per vagabondaggio, rimpatriato e inghiottito dagli ospedali psichiatrici, mentre la Francia dal 1939 è travolta e lacerata dall’occupazione tedesca. Tra il 1943 e il 1946, Artaud è internato a Rodez. IL TEATRO E LA CULTURA (1935) Artaud parte dal presupposto che nel mondo esistono alcuni grandi problemi “oggettivi” – il suo esempio preferito è “la fame” – che di fatto annullano ogni preoccupazione per la cultura. Artaud non intende difendere una cultura che non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, bensì estrarre da ciò che noi chiamiamo “cultura” delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame. “Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere.” Artaud intende dire, con questa frase, che se è essenziale per tutti noi mangiare, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell’unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice fatto di avere fame. Se il tempo corrente è caratterizzato dalla confusione, alla base di essa vi è una frattura fra le cose e le parole, le idee, i segni che le rappresentano. disordine e portano l’uomo a compiere azioni esasperate, paradossali, e senza scopo immediato. Di fatto, colui che è stato colpito dalla malattia della peste è soggetto ad allucinazioni e a comportamenti insoliti, così come l’attore; ma, mentre per il malato si tratta di una forza che si sta spegnendo, il furore dell’attore è una forza che via via divampa prima in teatro, poi nella vita e oltre. Occorre rilevare la singolare forza del ascino esercitato su di lui da quel sogno, nonostante i sarcasmi della folla e lo scetticismo dei suoi calpestando il diritto delle genti. Della sorte toccata al carico di appestati, le autorità portuali marsigliesi non hanno conservato ricordo. In questo testo Artaud sostiene che il termine virus sia una semplice scorciatoia verbale e che la peste si debba considerare non come un fenomeno patologico ma come un fenomeno psicologico. La peste può manifestarsi in tutti i punti del corpo, in tutti i luoghi dello spazio fisico dove la volontà umana, la coscienza e il pensiero sono presenti e in grado di manifestarsi, ma quando in una città arriva la peste, le forme di vita normale crollano e le persone iniziano a delirare. La situazione dell’appestato che muore senza distruzione materiale è identica a quella dell’attore, che viene penetrato dai propri sentimenti e sconvolto senza alcun beneficio per la realtà. Nell’aspetto fisico dell’attore come in quello dell’appestato, vi è la testimonianza che la vita ha reagito fino al parossismo, che l’esasperazione, l’abbandono del controllo. Vi sono parecchie analogie che pongono l’azione del teatro, come quella della peste, sul piano di un’autentica epidemia. Ma mentre le immagini della peste portano ad una forza spirituale che va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che si rende sensibile. Rispetto a un assassino, l’attore deve dimostrare maggiore coraggio nel produrre un effetto, perchè a teatro i sentimenti appaiono più veri rispetto alla vita reale. Il furore dell’assassino, compiendo l’atto si esaurisce, mentre quello dell’attore si fonde nell’universalità. La forza dell’attore non si esaurisce, non va morendo, non si degrada: l’attore è confinato in un cerchio puro e completo. Vi sono parecchie analogie che pongono l’azione del teatro, come quella della peste, sul piano di un’autentica epidemia. Ma mentre le immagini della peste portano ad una forza spirituale che va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che si rende sensibile. Rispetto a un assassino, l’attore deve dimostrare maggiore coraggio nel produrre un effetto, perchè a teatro i sentimenti appaiono più veri rispetto alla vita reale. Il furore dell’assassino, compiendo l’atto si esaurisce, mentre quello dell’attore si fonde nell’universalità. Bisogna però ammettere ancora una volta, che la rappresentazione teatrale, come la peste, è un delirio ed è comunicativa: tuttavia, per far nascere dallo spirito uno spettacolo vero e proprio, si devono riscoprire determinati procedimenti. E non è semplicemente questione di arte. Infatti il teatro è come la peste, c’è in esso qualcosa di vittorioso ed insieme di vendicativo; e come la peste, anche il teatro stabilisce un legame tra ciò che è e ciò che non è, fra realtà materiale e realtà virtualmente possibile. L’attore ritrova il concetto di simbolo e di archetipo, creando dinanzi agli occhi dello spettatore un universo di simboli e, come tale, impossibile, indecifrabile, inaccessibile. Da questo presupposto di realtà possibile nasce la poesia, che sulla scena alimenta questi simboli. La peste coglie immagini assopite e spinge d’improvviso fino a gesti estremi; così anche il teatro che prende dei gesti e li spinge al limite. Ritrova il concetto dei simboli e degli archetipi, che agiscono come colpi silenziosi, accodi musicali, brusche interruzioni e dimostra che il teatro non può esistere se non a partire dal momento in cui comincia veramente l’impossibile e in cui la poesia che si attua sulla scena alimenta e surriscalda i simboli realizzati. Questi simboli esplodono sotto forma di immagini che danno diritto di cittadinanza e di esistenza ad atti per loro natura ostili alla vita delle società. Una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, l’ibera l’inconscio compresso, libera ad una sorta di rivolta virtuale, impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Una vera opera teatrale, secondo Artaud e ciò è confermato dai suoi Manifesti, scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio, spinge ad una specie di rivolta spirituale: impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Il teatro essenziale è come la peste, non perché è contagioso, ma perché è la rivelazione, la punta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverso dello spirito, il teatro è modellato su questo massacro, su questa separazione essenziale e scioglie i conflitti, sprigiona forze, libera possibilità che, se sono “nere” (maligne), non è colpa della peste o del teatro, ma della vita. Il teatro, come la peste, è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione, è una purificazione assoluta, un equilibrio supremo, non raggiungibile senza distruzione. Come la peste è il momento del Male, il trionfo delle forze oscure; in esso c’è una specie di strano Sole, una luce anomala, dove sembra che il difficile e persino l’impossibile divengano d’un tratto il nostro elemento normale. Si può dunque dire che ogni vera libertà è nera e si identifica immancabilmente con la libertà sessuale, anch’essa nera senza che se ne sappia bene il perché: già da tempo l’Eros platonico, il senso genetico, la libertà di vita sono scomparsi sotto il cupo rivestimento della Libido, nella quale si identifica tutto ciò che è sporco, infamante e abietto. Tutti i grandi Miti sono neri, forse tutte le favole hanno il male alla base. Il teatro come la peste è modellato su questo massacro. Il teatro scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità e se queste possibilità, se queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita. Ad Artaud non sembra affatto che la vita, così com’è, possa essere fonte di esaltazione. Dal punto di vista umano, l’azione del teatro, come quella della peste, è benefica: essa, spingendo gli uomini a vedersi come sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, porta a galla la verità, spinge ad atti di eroismo e di consapevolezza. Il problema che ora si pone è di sapere se nel nostro mondo che decade, che si avvia senza accorgersene al suicidio, sarà possibile trovare un gruppo di uomini capaci di imporre questo concetto superiore del teatro, che restituirà a tutti noi l’equivalente magico e naturale dei dogmi in cui abbiamo cessato di credere. IL TEATRO ALCHIMISTICO (1932). Esiste fra il principio del teatro e quello dell’alchimia un’identità d’essenza. Il teatro come l’alchimia è legato a un certo numero di fondamenti, comuni a tutte le arti, che nel campo dell’immaginazione e dello spirito tendono a un’efficacia analoga a quella che permette di produrre realmente oro. Fra teatro e alchimia esiste una somiglianza più alta, che in una prospettiva metafisica conduce assi più lontano. Sia l’alchimia sia il teatro sono infatti arti virtuali, tali cioè da non contenere in se stesse né il loro obiettivo né la loro realtà. Mentre l’alchimia, grazie ai suoi simboli, è come il Doppio spirituale di un’operazione che risulta efficace soltanto sul piano della materia reale, il teatro deve essere a sua volta considerato il Doppio, non di una realtà quotidiana e diretta ma, di un’altra realtà rischiosa e tipica. Questa realtà non è umana, ma inumana, e l’uomo con le sue abitudini e il suo carattere vi conta pochissimo. Tutti i veri alchimisti saranno che il simbolo alchimico è un miraggio come lo è il teatro. La realtà virtuale del teatro è data dall’identità fra il piano sul quale evolvono i personaggi, gli oggetti, le immagini; e il piano ipotetico e illusorio in cui evolvono i simboli dell’alchimia. Tali simboli avviano già lo spirito verso un’ardente purificazione delle molecole naturali, cioè verso un’operazione che permette di ripensare e ricostruire i solidi secondo una linea spirituale. Noi non sappiamo vedere quanto il simbolismo materiale corrisponda un simbolismo parallelo nello spirito, ad una messa in opera delle idee. Il genere di teatro a cui allude Artuad non ha nulla a che vedere con quella sorta di teatro sociale o d’attualità che muta con il mutare delle epoche. Le idee del teatro tipico e primitivo hanno subito la stessa sorte delle parole, che col tempo hanno cessato di generare immagini e sono ridotte a un vicolo cieco. Bisogna pensare che il dramma esistenziale, il dramma che era alla base di tutti i Grandi Misteri, sposa il secondo tempo della Creazione, quello della difficoltà e del Doppio, quello della materia e del condensarsi dell’idea (si può pensare a Platone e al mito della Caverna). Il vero teatro nasce, come del resto la poesia, da un’anarchia che si organizza. LA MESSA IN SCENA E LA METAFISICA (10 dicembre 1931) Metafisica, e nello specifico “metafisica in atto”, significa considerare il rapporto in cui i mezzi espressivi possono entrare in contatto con il tempo e con il movimento. I mezzi della poesia nello spazio sono i mezzi d’espressione utilizzabili su un palcoscenico, nella misura in cui si rivelano capaci di trarre profitto dalle immediate possibilità fisiche che la scena offre loro per sostituire, alle forme coagulate dall’arte, forme vive e minacciose grazie alle quali il senso dell’antica magia cerimoniale possa ritrovare sul piano del teatro una nuova realtà; nella misura in cui essi cedono a quella che si potrebbe chiamare una tentazione fisica della scena.Artaud apre questo saggio descrivendo un quadro presente al Louvre e attribuito a Luca di Leida, Le figlie di Lot, e da cui egli è affascinato. Sembra una sorta di dramma della natura, impressione favorita dal cielo nero e la particolare illuminazione della tela, e dal disordine delle forme. Lot è seduto e guarda le figlie che compiono movimenti sinuosi, come se non avessero altro fine che sedurre il proprio padre e servirgli da giocattolo o strumento. Il tema è chiaramente l’incesto, che secondo Artaud il pittore olandese è riuscito a esprimere con una valenza poetica. Il mare è misteriosamente calmo, in contrapposizione che i fuochi d’artificio che si scorgono in lontananza. Anche questa volta, Artaud si complimenta con il pittore per il modo energico di descrivere questi fuochi, come un elemento ancora mobile e in azione. Nel Medioevo la Bibbia non era intesa come l’intendiamo noi oggi. Il suo pathos è percepibile anche di lontano, colpisce lo spirito con una sorte di folgorane armonia visuale. S’intuisce di aver davanti qualcosa di grande, e l’orecchio ne è scosso quasi quanto l’occhio. Un dramma di grande importanza intellettuale sembra essersi raccolto. Tale dipinto ha la caratteristica fondamentale di scatenare qualcosa nell’osservatore, di colpire tanto l’orecchio quanto l’occhio: infatti, esso raccoglie in sé un grande dramma intellettuale. Sembra, dice Artaud, che il pittore sia a conoscenza dei mezzi per agire sul cervello umano. Ma il quadro non sprigiona idee chiare: le idee che esso raccoglie sono tutte metafisiche. Anzi Artaud aggiunge che la grandezza poetica di queste idee deriva proprio dal fatto di essere metafisiche (oltre la realtà). In effetti il cielo del quadro è nero e carico. Non è possibile esprimere la soggezione dei diversi aspetti del paesaggio al fuoco che si è manifestato nel cielo. Fra mare e cielo sullo stesso piano prospettico della Torre Nera, avanza una sottile lingua di terra coronata da un monastero in rovina. Si direbbe che il pittore sia a conoscenza di certi segreti dell’armonia lineare. La sola idea sociale che contiene il dipinto è l’abuso di Lot verso le figlie, tutte le altre sono metafisiche. Mi dispiace usare questa parola, ma è quella che occorre. C’è un’idea sul Divenire che i diversi particolari del paesaggio e il modo come sono dipinti introducono come lo farebbe la musica. che questi “fantocci animati” utilizzano ogni punto dello spazio scenico, dando origine ad un nuovo linguaggio fisico basato sui segni e non sulle parole. Gli attori, con i loro abiti geometrici, paiono geroglifici animati. Anche i costumi contribuiscono a restituire un contenuto simbolico, adattandosi allo stato di “trance” dell’attore. I segni spirituali hanno un preciso significato: esso viene comunicato soltanto al nostro intuito, ma con una violenza tale da impedire ogni trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo. E per quanto riguarda il “realismo”, le continue allusioni e metafore non impediscono al “doppio” di recitare, teorizzato dalle apparizioni dell’aldilà. I Balinesi hanno un’intera gamma di gesti e di posizioni mimiche per ogni circostanza della vita e restituiscono alla convenzione teatrale il suo più alto valore; uno dei motivi per cui restiamo affascinati da questi spettacoli sta appunto nell’uso di una partitura precisa da parte degli attori, senza nessuna sbavatura. Ma ancora più nello studio profondo e particolareggiato effettuato per raggiungere questi risultati. Qui non esiste improvvisazione (intesa come “spontaneità”): ogni movimento, gesto o stato d’animo non risponde a necessità psicologiche bensì ad una sorta di esigenza spirituale. Ogni gesto ripetuto alla perfezione dà l’idea di freschezza e di libertà, di spontaneità ed immediatezza. Che questo urti il concetto europeo della libertà scenica e dell’ispirazione spontanea può darsi benissimo, ma nessuno può affermare che tale rigore matematico produca sterilità e monotonia. Il nostro teatro, che non ha mai avuto la nozione di questa metafisica del gesto, che non ha mai saputo applicare la musica a fini drammatici così diretti, concreti, il nostro teatro verbale che ignora tutto ciò che costituisce teatro (ciò che ha una densità nello spazio), dovrebbe chiedere delle lezioni di spiritualità al teatro Balinese. Tale teatro pone a fondamento dei suoi piaceri collettivi le lotte di un’anima in preda alle larve e ai fantasmi dall’aldilà. Si tratta di una lotta puramente interiore che occupa l’ultima parte dello spettacolo. Questi spettacoli del teatro balinese si avvalgono di un linguaggio di cui noi occidentali abbiamo perso la chiave: con il termine linguaggio, Artaud allude a quel particolare linguaggio teatrale che è estraneo a qualsiasi lingua parlata. I nostri spettacoli, fatti puramente di dialogo verbale, non possono essere paragonati al trionfo della spiritualità e della perfezione del teatro balinese. Anzi nonostante non siano spettacoli incentrati sul tessuto verbale, l’aspetto più impressionante per noi occidentali è proprio l’intellettualità che si percepisce nella sottile trama dei gesti e nelle modulazioni della voce, nell’uso dello spazio scenico e nell’intreccio dei suoni. Ogni cosa in questo teatro balinese è calcolata con minuzia matematica. Nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione personale. Ed è proprio questa sensazione di vita superiore e perfetta a colpire maggiormente lo spettatore occidentale, che assiste a qualcosa di molto simile ad un Rito piuttosto che ad una rappresentazione. È un teatro che elimina l’autore a profitto di quello che, nel gergo teatrale Occidentale, si chiama regista; egli diventa una sorta di ordinatore magico, un maestro di cerimonie sacre. La materia su cui lavora, i temi appartengono agli dei. Tuttavia Artaud arriva anche a fare un’analisi della differenza fra il nostro teatro e quello balinese che prescinde dalla perfezione di quest’ultimo: secondo lui, ciò che più impressiona del teatro balinese è comunque l’aspetto rivelatore della materia; essa pare disperdersi in gesti e segni capaci di insegnarci l’identità metafisica fra concreto e astratto, e di insegnarcela in gesti fatti per durare. Questo teatro utilizza la parola prima delle parole (deriva da un’impulso psichico segreto). In uno spettacolo come quello del teatro Balinese c’è qualcosa che supera il “divertimento”; le sue manifestazioni sono ricavate dal pieno della materia, della vita, della realtà. In questo teatro i temi proposti partono dalla scena. Lo spettacolo ci offre un insieme di immagini sceniche pure: gli attori compongono con i loro costumi autentici geroglifici vivi e in movimento. In tale intensa liberazione di segni c’è qualcosa che si ricollega allo spirito di un’operazione magica. Di quest’idea del teatro puro, il teatro Balinese ci propone una realizzazione sbalorditiva nel senso che essa sopprime ogni possibilità di ricorso alle parole per illustrare i temi più astratti e, inventa un linguaggio di gesti fatti per evolvere nello spazio e privi di significato fuori d’esso. Lo spazio scenico è utilizza in tutte le sue dimensioni, su tutti i piani possibili. Si avverte nel teatro Balinese una situazione anteriore al linguaggio e in grado di scegliersi un linguaggio proprio: musica, gesti, movimenti e parole. Questo aspetto di teatro puro ci suggerisce una nuova idea di ciò che appartiene per natura al regno delle forme e della materia manifestata. Gente che affianca a ogni uomo vestito un <<altro>> fatto di abiti, gente che attraversa gli abiti illusori, gli abiti <<secondari>>. Questo teatro ci rende palpabili non tanto le cose del sentimento quanto quelle dell’intelligenza. E appunto per vie intellettuali ci porta a ritrovare i segni di ciò che è. L’allusione dei colori a impressioni fisiche della natura veniva ripresa sul piano dei suoni, e il suono risulta la rappresentazione nostalgica di un’altra cosa. Le armonie imitative evocano la radura di un brulicante paesaggio prossimo a sprofondare nel caos. La parte conclusiva dello spettacolo, in confronto alle sporche, delle scene europee, è deliziosamente anacronistica. Immobilizzare quasi al naturale, il terrore di un’anima alla mercè dei fantasmi dell’Aldilà. La verità è che il teatro balinese ci propone ci presenta, interamente svolte, temi di teatro puro, cui la realizzazione scenica conferisce un intenso equilibrio, una gravitazione totalmente materializzata. Assistiamo a un’alchimia mentale che trasforma uno stato d’animo in un gesto, il gesto asciutto, spoglio, di negare che tutti i nostri dati potrebbero avere, se tendessero alla sua. Le situazioni drammatiche e psicologiche sono qui trasposte nella mimica stessa della lotta. TEATRO ORIENTALE E TEATRO OCCIDENTALE (1935) La novità del teatro Balinese è stata quella di rivelarci un’idea fisica e non verbale del teatro, secondo la quale il teatro sta entro i limiti di tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico, indipendentemente dal testo scritto, mentre come lo intendiamo noi occidentali, esso si confonde con il testo e finisce per esserne limitato. Per noi occidentali la parola è tutto in teatro, e non esiste possibilità d’espressione al di fuori di essa; quindi, il teatro è una sorta di ramo della letteratura o comunque ad essa è legato, trasformandosi in una semplice applicazione sonora del linguaggio. Quindi non assistiamo al teatro bensì alla rappresentazione di un testo. Questa idea di supremazia della parola nel teatro è talmente radicata in noi che, secondo Artaud, il teatro ci appare un semplice riflesso materiale del testo, mentre tutto ciò che va oltre il testo ci sembra appartenere al campo della regia, considerata come qualcosa di inferiore al testo. Quindi, vista questa soggezione (sottomissione) del teatro alla parola, ci viene da chiederci se il teatro abbia o no un linguaggio proprio (come il cinema), se è insomma un’arte indipendente ed autonoma come la musica, la pittura o la danza. Secondo Artaud questo linguaggio, ammesso che esista, si identifica necessariamente con lo spettacolo inteso come: 1) materializzazione visuale e plastica della parola; 2) linguaggio di tutto ciò che si può dire e rappresentare su un palcoscenico indipendentemente dalla parola. Considerando questo linguaggio dello spettacolo il linguaggio teatrale puro, si tratta di scoprire se esso può raggiungere gli stessi obiettivi della parola, cioè verificare se esso è in grado non di precisare pensieri ma di pensare, cioè indurre lo spirito ad assumere atteggiamenti profondi. In una parola, dice Artaud, porre il problema dell’efficacia intellettuale di un linguaggio che utilizzi solamente forme, rumori, gesti; quindi il problema dell’efficacia intellettuale dell’arte. È solo una povertà della nostra cultura occidentale confondere arte ed estetismo, cioè credere che possa aversi una pittura che si esaurisca nel dipingere, una danza che si esaurisca nel danzare e quindi un teatro che si esaurisca nel visualizzare un testo scritto. Considerando questo linguaggio dello spettacolo il linguaggio teatrale puro ci si può domandare se è in grado, non di precisare pensieri, ma di far pensare. Lo scopo del teatro non è quello di risolvere conflitti sociali o psicologici, ma di esprimere verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi quella parte della verità sepolta sotto le forme nei loro incontri col Divenire. Lo scopo è restituire al teatro la sua destinazione d’origine, conciliarlo con l’universo. Far dominare sul palcoscenico il linguaggio articolato sull’espressione oggettiva dei gesti e di tutto ciò che dallo spazio arriva allo spirito attraverso i sensi, equivale a volgere le spalle alle esigenze fisiche della scena e a ribellarsi alle sue facoltà. Nel teatro occidentale la parola serve sempre e soltanto ad esprimere i conflitti psicologici dell’uomo, e la sua posizione nella realtà della vita quotidiana; quindi i drammi rappresentati saranno sempre di natura morale ma, questi conflitti morali non hanno bisogno della scena per risolversi. Bisogna ribadire che la sfera teatrale non è psicologica ma plastica e fisica. L’obiettivo reale del teatro, e questo ce lo insegna proprio il teatro orientale, non è quello di risolvere conflitti sociali o psicologici, bensì esprimere in modo obiettivo verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi le verità nascoste. Fare del teatro un’arte capace di esprimere attraverso l’intera drammaturgia della forma equivale a restituirgli la sua dimensione originaria, metafisica e religiosa. Far dominare sul palcoscenico il linguaggio articolato, cioè l’espressione mediante parole, sull’espressione oggettiva dei gesti e di tutto ciò che dallo spazio arriva allo spirito attraverso i sensi, equivale a volger le spalle alle esigenze fisiche della scena e a ribellarsi alle sue facoltà. Il problema non consiste nel sapere se il linguaggio fisico del teatro può permettere le stesse soluzioni psicologiche del linguaggio verbale, ma se non esistono nel regno del pensiero e dell’intelligenza atteggiamenti che le parole non sono in grado di cogliere, in loro aiuto possono arrivare con maggiore precisione i gesti. Non si tratta di sopprimere a teatro la parola, ma di modificarne la funzione e ridurne l’importanza perché non è la parola che risolve i conflitti dell’uomo. Modificare la funzione della parola a teatro, significa servirsi della parola in senso concreto e spaziale, siano a confonderla con tutto ciò che di spaziale e di significativo sul terreno concreto il teatro contiene. L’identificazione dell’oggetto del teatro con tutte le possibilità di manifestazione formale ed estesa dà via al concetto di una poesia dello spazio che si confonde con la stregoneria. Nel teatro orientale a tendenza metafisica, a differenza di quello occidentale a tendenza psicologica, le forme prendono possesso del proprio valore e del proprio significato su tutti i piani possibili, non producono vibrazioni su un solo piano, ma contemporaneamente su tutti i piani dello spirito. Grazie a questa molteplicità di aspetti esse acquistano una capacità di sconvolgimento e d’incanto e rappresentano per lo spirito una continua fonte di eccitazione. Il teatro orientale, proprio perché non coglie l’aspetto esteriore delle cose su un solo piano, né si limita al semplice contatto e al concreto incontro fra questo aspetto e i sensi, ma considera invece il grado di possibilità mentale da cui esso deriva, partecipa alla poesia intensa della natura e conserva magici rapporti con tutti i gradi oggettivi del magnetismo universale. In questa prospettiva magica e stregonesca, lo spettacolo deve essere considerato non come il riflesso di un testo scritto e della proiezione di “doppi” fisici che da esso scaturisce, ma come aderente proiezione di tutti i risultati oggettivi che si possono trarre da un gesto, da una parola, da una musica, da un suono e dalle loro reciproche combinazioni. Tale proiezione attiva può verificarsi soltanto sulla scena e l’autore che adopera esclusivamente parole scritte non ha nulla a che fare con il teatro. costitutivo della formazione dell’attore in Stanislavskij.Si tratta di concetti che possono guidarci per capire alcuni aspetti del primo manifesto del “Teatro della Crudeltà”, redatto da Artaud nel 1932.Che cosa rende un’azione fisica efficace, espressiva, vera? In che misura pensare l’attore significa ripensare l’azione? E quindi il rapporto del teatro con il corpo individuale e collettivo? Copeau nel 1922, parla di “significato di tradizione”: <<si ripete spesso che ho rotto con la tradizione. È vero il contrario. Cerco di liberare le opere della vera tradizione dalle incrostrazioni di cui da tre secoli le hanno sovraccaricate gli attori ufficiali. La tradizione che importa è la tradizione della nascita>>. Daumal (1908-1944) parla di “azione consapevole”: <<Comandare secondo una giusta economia, per un miglior rendimento possibile, le risorse, le riserve, gli usi e le trasformazioni della propria energia; muovendosi verso un obiettivo; sapere ciò che si vuole fare, farlo, volere ciò che si fa>>. (Tratto da “Il Movimento nell’educazione integrale dell’uomo 1934). PRIMO MANIFESTO, TEATRO DELLA CRUDELTA’ Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, il suo valore risiede in un rapporto magico e atroce con la realtà e con il pericolo. Il problema del teatro deve destare l’attenzione di tutti, essendo che permette ai mezzi magici dell’arte e della parola di agire organicamente e nella loro totalità. Anziché tornare a testi ritenuti sacri e definitivi, è importante spezzare la soggezione del teatro al testo, e ritrovare la nozione di una sorta di linguaggio unico a mezza strada fra gesto e pensiero. Ciò che il teatro può ancora strappare alla parola sono le capacità di espansione oltre le singole parole. Entrano in gioco le intonazioni oltre il linguaggio acustico dei suoni, entra in gioco il linguaggio visivo degli oggetti. Si tratta di creare una metafisica della parola al fine di strapparlo alle pastoie psicologiche e sentimentali. Non si tratta di portare sulla scena idee metafisiche, ma di creare intorno a queste idee particolari tentazioni. L’umorismo con l’anarchia, la poesia con il suo simbolismo suggeriscono una nozione dei mezzi atti a canalizzare la tentazione di tali idee. Utilizza movimenti, ritmi, ma solo in quanto possono contribuire a una sora di espressione totale, senza profitto per una particolare arte. Perché tutto questo magnetismo, tutta questa poesia, e questi mezzi d’incantesimo non vorrebbero dir nulla se non servissero a portare fisicamente lo spirito sulla via di qualcosa, se il vero teatro non ci sapesse dare il senso di una creazione di cui conosciamo soltanto un aspetto, ma che si completa su altri piani. Rendere la sensibilità capace di percezioni più sottili e più approfondite: è questa la ragion d’essere della magia e di quei riti di cui il teatro è semplicemente un riflesso. Tecnica. Si tratta di fare del teatro una funzione, nell’accezione prima di questo termine: qualcosa di così localizzato e preciso come la circolazione del sangue nelle arterie, o lo sviluppo apparentemente caotico delle immagini del sogno nel cervello; e questo mediante una concatenazione efficace, un autentico soggiogamento dell’attenzione. Il teatro non potrà ritrovare se stesso, costruire cioè uno strumento di autentica illusione ma, deve ricercare con tutti i mezzi, una riaffermazione non soltanto di tutti gli aspetti del mondo oggettivo e descrittivo esterno, ma anche del mondo interiore, cioè dell’uomo metafisicamente considerato. Considerare il teatro una funzione psicologica o morale di seconda mano, e credere che i sogni stessi non siano altri che una funzione sostitutiva, significa diminuire la portata poetica e profonda sia dei sogni che del teatro. Il nudo linguaggio del teatro, linguaggio non virtuale ma reale, deve permettere, facendo appello al magnetismo nervoso dell’uomo, di violare i consueti limiti dell’arte e della parola per realizzare magicamente, in termini reali, una sorta di creazione totale in cui all’uomo non rimane che riprendere il proprio posto fra sogno e avvenimenti. I temi. Non si tratta opprimere il pubblico con preoccupazioni cosmiche trascendenti. Ciò non riguarda lo spettatore il quale non prova per essere il minimo interesse. Lo spettacolo. Ogni spettacolo conterrà un elemento fisico e oggettivo percepibile da tutti. La regia. Intorno alla regia, intesa come punto di partenza di qualsiasi creazione teatrale, si costruirà il linguaggio tipico del teatro. Il dualismo tra autore e regista verrà sostituito con una sorta di “creatore unico” che ha sia la responsabilità dello spettacolo in generale che delle singole azioni degli attori. Il linguaggio della scena. Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di dare alle parole all’incirca l’importanza che hanno nei sogni. Bisognerà trovare modi nuovi di registrare questo linguaggio. Poiché alla base di questo linguaggio c’è un particolare impiego delle intonazioni, le intonazioni stesse devono costituire una sorta di armonioso equilibrio. Vi è un’idea concreta della musica, in cui i suoni intervengono come personaggi, e le armonie sono spezzate in due e si dissolvono negli interventi precisi delle parole. Fra un mezzo d’espressione e l’atro si creano così piano e corrispondenze; e persino la luce può avere un preciso significativo intellettuale. Gli strumenti musicali Saranno usati come oggetti e come elementi scenografici. La luce, l’illuminazione. Gli apparecchi luminosi attualmente in uso nei teatri sono insufficienti. Si dovranno ricercare effetti di vibrazione luminosa, nuovi modi di diffondere le luci a onde, cascate, o come una scarica di frecce infuocate. La luce deve suscitare sensazioni. Il costume. Si eviterà l’abito moderno perché è assolutamente evidente che certi costumi millenari destinati al rito, conservano una bellezza è un’apparenza rivelatrice, grazie alla loro affinità con le tradizioni. La scena, la sala. Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di alcun genere, che diventerà il teatro stesso dell’azione. Sarà ristabilita una comunicazione diretta fra spettatore, perché lo spettatore, situato al centro dell’azione, sarà da essa circondato e in essa coinvolto. Oggetti, maschere, accessori. Manichini, maschere enormi, oggetti di straordinarie proporzioni avranno la stessa importanza delle immagini verbali, sottolineando l’aspetto concreto di ogni immagine e ogni espressione. La scenografia. Non ci sarà scenografia. Basteranno i personaggi geroglifici. L’attualità. Si potrà obiettare di un teatro lontano dalla vita, dagli avvenimenti e dalle preoccupazioni attuali. Le opere. Non rappresenteranno testi scritti, ma tenteremo saggi di regia diretta. Lo spettacolo. Esiste un’idea di spettacolo integrale che deve essere riportata in onore, che deve riempire lo spazio. L’attore. <<L’attore è un elemento di primaria importanza, in quanto dall’efficacia della sua interpretazione dipende il buon esito dello spettacolo, e allo stesso tempo un elemento passivo e neutro in quanto gli viene vietata ogni sorta di iniziativa personale>>. La citazione che segue è tratta dal dossier preparatorio del Primo Manifesto. Si legge che la qualità dell’attore è legata alla sincerità, un concetto che, come quello di disciplina, deriva dal vocabolario di Copeau. Abbastanza significativo il fatto che nella redazione definitiva il termine sia stato rimosso, anche alla luce della lettera a Paulhan citata di seguito a proposito dell’improvvisazione in Copeau. <<L’orientamento dei nostri spettacoli esige degli attori forti, che saranno scelti non per il loro talento ma per una specie di sincerità vitale>>. L’interpretazione. Dall’inizio alla fine lo spettacolo sarà cifrato come un linguaggio. No interpretazione Il cinema. Alla visualizzazione grossolana di ciò che è, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di ciò che non è. L’immagine teatrale non si può paragonare all’immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, è filtrata dal macchinario e dalla pellicola e non arriva allo spirito. La crudeltà. Senza un elemento di crudeltà alla base di ogni spettacolo, non esiste teatro. Il pubblico. Bisogna che questo teatro sia. Il programma. Rappresenteremo: 1. Un adattamento di un lavoro dell’età di Shakespeare; 2. Un lavoro di estrema libertà poetica di Léon-Paul Fargue; Le immagini i movimenti non saranno usati soltanto per il piacere esteriore degli occhi e delle orecchie, ma per quello più segreto e più profittevole dello spirito. Il Teatro della Crudeltà intende riporre tutti gli antichi e sperimentati mezzi magici atti e raggiungere la sensibilità. Tali mezzi possono raggiungere il pieno effetto solo attraverso l’uso di dissonanze… Ma anziché limitare queste risonanze le faremo passare da un senso all’altro, tra un colore un suono, da una parola una luce eccetera eccetera. Lo spettacolo si estenderà alla sala intera del teatro e si arrampicherà sui muri avvolgerà lo spettatore. Alla scena sarà costituita dai personaggi stessi e da paesaggi di luci mobili. Fra vita e teatro verrà abolito ogni taglio netto ad ogni soluzione di continuità. Il primo spettacolo del Teatro della Crudeltà: LA CONQUETE DU MEXIQUE Metterà in scena avvenimenti e non persone; questo argomento è stato scelto: 1. Per la sua attualità e per tutte le possibili allusioni e problemi di vitale interesse per l’Europa e per il mondo; da un punto di vista storico, esso pone il problema della colonizzazione; 2. Ponendo il problema terribilmente attuale della colonizzazione e del diritto che un continente si arroga do ridurne un altro in schiavitù. Esso mostra la filiazione interna che lega il gene di una razza a particolari forme di civiltà. Dal punto di vista sociale, mostra la pace di una società che sapeva dar da mangiare a tutti i suoi membri, e dove la rivoluzione era stata realizzata sin da le origini. Pone in luce la gerarchia organica della monarchia azteca basata su indiscutibili principi spirituali. Un’atletica effettiva. L’attore è simile a un vero e proprio atleta fisico; all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. L’attore è un atleta del cuore. Qui il movimento è rovesciato e mentre il corpo dell’attore è sostenuto dal respiro del lottatore o dell’atleta si sostiene sul corpo. Più la recitazione è sobria e contenuta, più il respiro è sovraccaricato di riflessi. Una recitazione impetuosa corrisponde una respirazione ad ansiti brevi e schiacciati. Ogni sentimento corrisponde un respiro che gli è proprio. E come tutti gli spettri questo doppio ha la memoria lunga. La memoria del cuore è duratura. Questo significa che il teatro l’attore deve prender coscienza del mondo affettivo, un significato materiale. Conosce il segreto del ritmo delle passioni di questa sorta di tempo musicale che ne regola il battito armonico, ecco un aspetto del teatro cui da tempo il nostro moderno teatro psicologico ha sicuramente cessato di pensare. Il respiro accompagna lo sforzo. Tale sforzo avrà il colore e il ritmo del respiro artificialmente prodotto. Lo sforzo accompagna per simpatia il respiro. Il respiro accompagna il sentimento, e si può penetrare nel sentimento attraverso il respiro, purché si sia riusciti a scegliere fra i respiri quello che meglio conviene a un dato sentimento. Poiché il teatro è simbolo perfetto e più completo della manifestazione universale, l’attore porta in sé il principio di questo stato. Il punto dell’eroismo e del sublime è quello stesso del senso di colpa. Il luogo dove ribolle l’ira. Ogni emozione ha basi organiche. E coltivando l’emozione nel proprio corpo l’attore ne ricarica il voltaggio. Sapere in anticipo quali punti del corpo bisogna toccare significa gettare lo spettatore in trances magiche. Evidentemente crudeltà esprime un’accezione radicale di disciplina, rigore, decisione, e sostanzia la concezione dell’impersonalità praticata e conseguita dall’attore immaginato da Artaud nel Manifesto. Si tratta di una traduzione radicale della riflessione di Copeau sulla disciplina degli «strumenti viventi». Può essere messa in relazione ad alcuni degli obiettivi della formazione e del training dell’attore in Mejerchol’d e nella biomeccanica, benché questo termine, e la sua funzionalità al lavoro di composizione del regista, scaturiscano dal contesto della cultura sovietica. ARTAUD A RODEZ (1943-1946) Artaud a Rodez con Gaston Ferdière, lo psichiatra letterato, amico dei surrealisti, che vuole guarirlo convincendolo a cambiare anche stile e contenuto delle sue scritture. Dal 1945, Artaud intraprende una vasta produzione di disegni e scrive quotidianamente con forsennata intensità. Sono i Quaderni di Rodez, preludio delle opere degli ultimi mesi di vita. Nella lettera del marzo 1946, Artaud si lamenta con Paulhan delle pretese intellettuali dello psichiatra. <<Non voglio più sentirmi dire da nessun medico, come mi è stato detto qui dal dottor Ferdière: voglio rettificare la vostra poesia. La mia poesia riguarda solo me, e nessun medico come nessun poliziotto ha nessuna competenza di poesia, di teatro o d’arte. E questo i medici con me non lo capiscono da nove anni>>. <<I miei disegni non sono disegni ma documenti>>. Definizione di messa in scena tratta dai Quaderni di Rodez del Marzo 1946: <<La messa in scena non è un quadro o una strada da indicare a qualcuno ma una serie di colpi di martello nel cuore del regista che gli altri attori seguono per amore o per scelta colpendosi con altri martelli o coltelli reali COLPENDOSI CON ALTRI MARTELLI O COLTELLI REALI PER AVERE PER PURO AMORE UN SUONO CONSONANTE AL SUO SE VOGLIONO e se non vogliono il regista entra nella morte per cercare una terra più grave con suoni più accattivanti fino a che quella terra non si riempie di abitanti>>. Artaud esce da Rodez nel maggio del 1946, e risiede in una casa di riposo a Ivry, ai margini di Parigi. Nel febbraio del 1947, una grande mostra su Vincent Van Gogh gli ispira uno scritto sul rapporto tra arte e follia, nel cui titolo, Van Gogh, o il suicidato dalla società, è adombrata la vicenda dell’internamento da lui stesso subito come esclusione dal mondo dei normali. Tutte le citazioni che seguono sono tratte dal libro di Artaud su Van Gogh. “Van Gogh, o il suicidato dalla società”. <<La coscienza generale della società, per punirlo di essersi liberato dai suoi poteri, lo “suicidò”. L’alienazione come scelta>>. Una società tarata ha inventato la psichiatria per difendersi dalle investigazioni di certe lucide menti superiori le cui lucide menti la infastidivano. Magia civica La coscienza generale della società, per punirlo di essersi liberato dai suoi poteri, lo suicidò. <<Un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili verità>>. <<Che cos’è un alienato autentico? Un uomo che ha preferito diventare pazzo, nel senso in cui lo si intende socialmente, piuttosto che rinunciare a una certa idea superiore dell’onore umano.>> Ultimi segni di Artaud Ricordiamo nella cronologia dell’ultimo Artaud, l’omaggio presso il Theatre Sarah Bernhardt con la lettura di brani da I Cenci e di altri testi da parte dei grandi della scena francese (Barrault, Jouvet, Blin, Cuny e Dullin). Era il 7 giugno 1946. Poi la serata del 13 Gennaio del 1947 con la sua esecuzione di testi autobiografici e poetici. Scrivendone a Breton, racconta che «Mai nessun uomo di teatro ha mostrato un atteggiamento come quello che ho avuto quella sera sulla scena del Vieux Colombier». Antonin Artaud muore il 4 marzo del 1948. Lettera a J. Paulhan Lettera a Roland De Reneville (1932) <<Cerco di trovare e fissare la verità limitata del teatro. Si tratta, attraverso l’espulsione organica dei valori inerti del mondo contemporaneo, di ottenere un’affermazione della verità teatrale. L’apparizione della verità teatrale non si può fare che attraverso gli ostacoli concreti e organici che si oppongono alla situazione esatta e reale del teatro, in questo momento preciso, nella vita e nelle menti>>. Lettera a Breton La frase <<Artaud’s call to cultural revolution suggests a program of heroic regression>> è tratta da un importante saggio di Susan Sontag su Artaud. Con la formula «EROICA REGRESSIONE» si esprimono con precisione la tensione verso il fondamento, le origini e le fonti dell’espressione e il sentimento di opposizione, di «RIVOLUZIONE CULTURALE» rispetto alla civiltà contemporanea.  
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