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Riassunto Immunologia, libro Abbas (MED4 UNIPD, Prof Rosato), Sintesi del corso di Immunologia

Riassunto del Libro di Immunologia "Abbas et al. - Immunologia cellulare e molecolare, Ed. 9. Edra, 2018." in funzione dell'esame di Immunologia con il professor Rosato (MED4, Medicina UNIPD).

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 08/08/2022

AlessiaScarpa
AlessiaScarpa 🇮🇹

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Scarica Riassunto Immunologia, libro Abbas (MED4 UNIPD, Prof Rosato) e più Sintesi del corso in PDF di Immunologia solo su Docsity! 1 Cellule dell’immunità innata • FAGOCITI: sono rappresentati dai granulociti neutrofili e dai monociti-macrofagi, cellule la cui funzione primaria è quella di ingerire ed eliminare i microrganismi e rimuovere i tessuti danneggiati, e inoltre possono regolare la risposta immunitaria mediante interazione diretta o il rilascio di citochine. Sono prodotti nel midollo osseo, circolano nel sangue e vengono reclutati nei siti di infiammazione. Differenza tra neutrofili e macrofagi: i neutrofili sono più rapidi ma con emivita più breve (riarrangiamento del citoscheletro); i macrofagi hanno risposta più lunga e vivono di più (si basano sulla trascrizione genica). Granulociti neutrofili Sono la popolazione più abbondante di leucociti (circa 60-70%) circolanti e sono i primi a migrare verso il sito di infiammazione, principali cellule coinvolte nell’infiammazione acuta. Hanno una vita media molto breve in quanto vivono 8 ore nel sangue e una volta migrati nei tessuti durano circa 2-3 giorni. Possiedono un nucleo multilobato, perciò sono detti anche leucociti polimorfonucleati (PMN). Nel citosol possiedono granuli azzurrofili o primari (lisosomi e sostanze microbicide come idrolasi acide, lisozimi e defensine, in grado di danneggiare le cellule batteriche, ad esempio creando pori nella membrana) e granuli specifici o secondari (proteasi e collagenasi, che digeriscono la matrice extracellulare, facilitando il movimento dei neutrofili). Funzioni: la fagocitosi dei patogeni opsonizzati e dei prodotti di cellule necrotiche, che vengono poi degradati nei fagolisosomi (fusione della vescicola fagocitica con i lisosomi dei granuli). Le sostanze microbicide contenute nei granuli possono degranulare (esocitosi del contenuto dei granuli). Infine, possono agire come kamikaze intrappolando i patogeni espellendo all’esterno il proprio DNA (NET). Maturazione: nel midollo osseo rosso a partire da HSC derivano da precursori che formano anche i fagociti mononucleati. La differenziazione è mediata dai fattori di crescita IL-3, GM-CSF e G-CSF. HSC > progenitore mieloide > mieloblasti (non ancora polimorfonucleati) > promielociti (non ancora PMN ma presenza di granuli) > mielociti > metamielociti > band-cells > granulociti neutrofili (nucleo PMN). Fagociti mononucleati (monociti-macrofagi) I monociti rappresentano il 3-7% dei leucociti circolanti, e sono i leucociti di maggiori dimensioni. Derivano da precursori mieloidi comuni e si differenziano grazie ai fattori stimolanti colonie M-CSF e GM-CSF. Questi precursori maturano dando origine ai monociti, che entrano e circolano nel sangue, per poi migrare nei tessuti dove maturano in macrofagi durante le reazioni infiammatorie. I monociti contengono lisosomi che sono granuli azzurrofili o primari, il loro nucleo forma un “ferro di cavallo”. In molti tessuti ci sono macrofagi residenti che derivano dal sacco vitellino e dal fegato fetale (cellule di Kupffer, macrofagi alveolari, microglia). I macrofagi residenti vivono per anni, mentre i macrofagi infiammatori vivono da giorni a settimane. Differenziazione: nel passaggio da monocita a macrofago avvengono dei cambiamenti morfologici come l’aumento di dimensioni, del numero dei lisosomi e aumento della produzione di enzimi idrolitici. NB. A differenza dei neutrofili, i macrofagi non sono cellule terminalmente differenziate e possono andare incontro a divisione cellulare. Perciò i macrofagi sono le cellule effettrici che predominano nelle fasi tardive di una risposta immunitaria innata e persistono anche per giorni dopo l’infezione. Funzioni: sono la fagocitosi di microbi, cellule necrotiche, apoptotiche e neutrofili morti (processo di pulizia che segue un’infezione o un danno al tessuto); la secrezione di citochine (che vanno a reclutare altri leucociti agendo anche sull’endotelio dei vasi, amplificando così la risposta immunitaria); presentazione dell’antigene. Attivazione dei macrofagi: alcuni macrofagi sviluppano un citoplasma abbondante e sono detti cellule epitelioidi (simili a cellule epiteliali), altri si fondono tra loro formando cellule giganti multinucleate. ➢ M1 (attivazione classica): attivati dall’INF-γ che stimolano la funzione microbicida; ➢ M2 (attivazione alternativa): attivati da IL-4 e IL-13 che stimolano la riparazione tissutale. 2 • MASTOCITI E GRANULOCITI BASOFILI: Derivano entrambi dal progenitore mieloide comune. I mastociti sono cellule solo residenti nei pressi di piccoli vasi a livello dei quali esplicano le proprie funzioni effettrici. Inoltre, essi terminano il processo differenziativo a livello tessutale, influenzati dal microambiente. I granulociti basofili, invece, una volta maturati nel midollo osseo, vengono rilasciati nel sangue. Sono infatti leucociti circolanti ne rappresentano la più piccola percentuale (0-2%). Hanno un nucleo bilobato. Sono soggetti a ritmo circadiano (aumentano di numero durante la notte, in modo opposto rispetto agli eosinofili). Entrambi non effettuano fagocitosi e svolgono un ruolo nelle reazioni infiammatorie allergiche. Presentano numerosi granuli contenenti sostanze come eparina e istamina che provocano vasodilatazione arteriolare e contrazione della muscolatura liscia dei bronchi, che una volta rilasciati determinano la tipica sintomatologia allergica. Esprimono numerosi recettori di membrana (FcεRI) tramite cui legano le IgE. Quando le IgE si legano all’allergene, attivano i basofili e i mastociti a cui sono legati, determinando l’esocitosi dei loro granuli. • GRANULOCITI EOSINOFILI: Coprono il 2-4% dei leucociti circolanti. Sono soggetti a ritmo circadiano (maggiori al mattino rispetto alla sera). Derivano dal progenitore mieloide e si differenziano grazie ai fattori di stimolazione GM-CSF e IL-3. Hanno due funzioni principali: nelle infezioni parassitarie, soprattutto elminti (grazie alla presenza di granuli cristalloidi contenti enzimi come la proteina basica maggiore (MBP), riversati all’esterno nel momento in cui il parassita sia troppo grande da fagocitare); e nelle reazioni allergiche (anche se in misura minore rispetto a basofili e mastociti) tramite fagocitosi dei complessi attivi allergene-anticorpo. • CELLULE DENDRITICHE: Sono cellule sia residenti (“sentinelle” nei tessuti linfoidi, epitelio delle mucose e parenchima degli organi) che circolanti nel sangue. Vengono chiamate APC professionali perché esprimono molecole MHC di classe II (come i macrofagi e i linfociti B). Esprimono la più vasta gamma di PRR per PAMP e DAMP tramite i quali riconoscono i microbi o le loro molecole e li fagocitano, in seguito processano i loro antigeni proteici e li presentano ai linfociti T indirizzandoli verso una differenziazione (TH1, TH2, TH17, o CTL). Inoltre, secernono le citochine pro-infiammatorie che reclutano gli altri leucociti del sangue. Attivazione: l’incontro con l’antigene induce una serie di cambiamenti all’interno della DC che ne determinano una completa maturazione e attivazione. Ad esempio, iniziano a esprimere il recettore per chemochine CCR7 che ne facilita la migrazione nelle aree T (che esprimono le chemochine CCL19 e CCL21 a cui si lega CCR7), estendono dei prolungamenti che aumentano la superficie per presentare l’antigene. Ricevono stimoli attivatori dai linfociti T CD4+ attivati che esprimono il ligando di CD40, il quale lega la proteina CD40 espressa dalle DC (licensing), aumentando la produzione di molecole costimolatorie sulle DC (B7) o di adesione (ICAM). Contemporaneamente a questi cambiamenti incominciano a perdere i recettori per l’antigene e iniziano invece a secernere delle citochine pro-infiammatorie che reclutano e attivano altre molecole dell’immunità innata. Popolazioni principali di DC: ➢ DC classiche: presenti principalmente a livello tessutale, sorvegliano l’ambiente e catturano gli antigeni. Ne esistono due forme, quella predominante è la forma più numerosa e la più potente nell’attivare i linfociti T CD4+, mentre ne esistono alcune in grado di cross-presentare gli antigeni ai linfociti T CD8+. ➢ DC plasmacitoidi: presenti nel sangue dove possono catturare eventuali microrganismi per poi presentare i loro antigeni ai linfociti T nella milza. Sono le maggiori produttrici di INF di tipo I e per questo hanno una potente attività antivirale. Esprimono molti TLR endosomiali per gli acidi nucleici (TLR 3,7,8,9) e i sensori citosolici di DNA e RNA che riconoscono gli acidi nucleici virali all’interno delle cellule. ➢ DC infiammatorie: derivano da monociti del sangue reclutati nei tessuti durante la risposta infiammatoria. ➢ FDC (follicolari): hanno la morfologia delle cellule dendritiche ma non sono imparentate con esse, infatti derivano da cellule mesenchimali e sono coinvolte nell’attivazione dei linfociti B negli organi linfoidi. 5 Le cellule staminali ematopoietiche (HSC) sono cellule multipotenti, cioè in grado di generare ogni tipo di cellula matura del sangue. Le HSC hanno anche il potere di auto-rinnovarsi, dal momento che ogni volta che si dividono, almeno una cellula figlia mantiene le proprietà di cellula staminale, mentre l’altra può differenziare lungo una certa linea (divisione asimmetrica). Le HSC si localizzano in nicchie microscopiche specializzate del midollo osseo. Qui le cellule stromali non ematopoietiche forniscono segnali, tramite contatto cellulare, e fattori di crescita, necessari a mantenere la replicazione delle HSC. Danno origine a due progenitori multipotenti: ➢ Progenitore linfoide comune: dà origine ai precursori specifici dei linfociti T, B e ILC (anche NK). ➢ Progenitore mieloide comune: dà origine a precursori della linea eritroide, megacariocitica, granulocitica e monocitica, per generare globuli rossi maturi, piastrine, granulociti (neutrofili, eosinofili, basofili) e monociti. La maggior parte delle DC ha origine dalla linea monocitica. I progenitori immaturi dei mastociti originano da un precursore comune dei monociti/granulociti e poi si differenziano nei tessuti periferici. La proliferazione e la maturazione dei precursori ematici nel midollo osseo sono stimolate dall’azione di citochine, dette fattori di stimolazione della formazione delle colonie (CSF). Nel midollo osseo, le citochine ematopoietiche sono prodotte dalle cellule stromali e dai macrofagi attivati, che contribuiscono a formare il microambiente adatto all’ematopoiesi. Tali citochine sono prodotte anche da linfociti T stimolati dall’antigene e da macrofagi attivati da citochine o microbi; questo meccanismo garantisce il rifornimento dei leucociti necessario a ripristinare la loro eventuale perdita durante le risposte immunitarie e infiammatorie. Esempi di fattori di crescita ematopoietici (prodotti da macrofagi, cellule endoteliali, cellule stromali ecc.) sono: - G-CSF (fattore che stimola la differenziazione in granulociti); - M-CSF (fattore che stimola la differenziazione in monociti); - GM-CSF (fattore che stimola la differenziazione in monociti e granulociti); - Flt-3 ligando (stimola la differenziazione dei linfociti B e delle cellule dendritiche); - IL-7 (stimola la differenziazione in linfociti T); - IL-3 (stimola la differenziazione della maggior parte delle cellule emopoietiche). Oltre alle cellule staminali e alla loro progenie che va incontro a differenziazione, il midollo osseo contiene numerose plasmacellule a lunga sopravvivenza che si sono generate negli organi linfoidi secondari in seguito alla stimolazione dei linfociti B da parte degli antigeni e dei linfociti T helper, e sono successivamente migrate nel midollo. Anche alcuni linfociti T della memoria a lunga sopravvivenza risiedono nel midollo osseo. • TIMO: Il timo è l’organo in cui avviene la maturazione dei linfociti T. È un organo bilobato situato nel mediastino anteriore, che va incontro a involuzione dopo la pubertà così che non è presente negli adulti. Ogni lobo è suddiviso da setti fibrosi in più lobuli dotati di una regione corticale esterna e una midollare interna. La regione corticale contiene un denso agglomerato di linfociti T. La regione midollare, meno intensamente colorata, è meno densamente popolata dai linfociti, ma contiene anche macrofagi e DC (interdigitate). Disseminate in tutto il timo vi sono cellule non linfoidi di tipo epiteliale (TEC) con citoplasma abbondante. Nella regione corticale, le cellule epiteliali corticali timiche (cTEC) producono IL-7, una citochina necessaria per lo sviluppo iniziale dei linfociti T. Nella regione midollare, le cellule epiteliali midollari timiche (mTEC) svolgono un ruolo importante nella presentazione degli antigeni self ai linfociti T in corso di maturazione e nella loro eliminazione, meccanismo che assicura che il sistema immunitario sia tollerante agli antigeni self. I linfociti presenti nel timo, detti timociti, sono cellule T a vari stadi maturativi. Le cellule più immature penetrano nel timo e iniziano la loro maturazione nella regione corticale e migrano progressivamente verso la regione midollare. I linfociti T naïve maturi escono dal timo, entrano in circolo e raggiungono i tessuti linfoidi. I precursori di origine midollare delle cellule T entrano nel timo attraverso il circolo sanguigno. Non esistono vasi linfatici afferenti al timo, ma solo vasi linfatici efferenti. Le cellule T che sopravvivono alla selezione positiva (nella corticale) e alla selezione negativa (nella midollare), escono dal timo attraverso il processo di intravasazione, che coinvolge venule efferenti tramite le quali i linfociti T naïve entrano nel circolo sistemico. 6 Barriera emato-timica: l’educazione dei linfociti T antigene-indipendente deve avvenire in un ambiente molto controllato, privo di antigeni estranei. La barriera è formata dai capillari (cellule endoteliali, membrana basale e periciti) dal connettivo perivascolare (collagene III e macrofagi) e dalle cellule epiteliali (membrana basale). “Topi nudi”: mutazione di un gene per un fattore trascrizionale che causa il mancato differenziamento di cellule epiteliali necessarie per lo sviluppo del timo e dei follicoli piliferi, perciò tali topi non sviluppavano la pelliccia. In questi topi immunodeficienti il trapianto non causa il rigetto, perché incapaci di riconoscere il “non-self”. Il gene responsabile della mutazione è un membro della famiglia genica Fox chiamato FOXN1. Questi ceppi di topi nudi possono essere creati mediante l’uso di tecniche di saggio radioimmuno per rimuovere il gene necessario all’ormone del fattore della crescita della ghiandola del timo e dei follicoli piliferi. Un metodo alternativo è invece quello di asportare completamente la ghiandola del timo entro le 24 ore dalla nascita. Sindrome di DiGeorge (delezione 22q11.2): disordine genetico delle risposte dei linfociti T causato da un mancato sviluppo del timo. Questi pazienti presentano un deficit di linfociti T dovuto a una micro-delezione nel cromosoma 22 che ha come risultato la mancanza dello sviluppo timico, oltre al mancato sviluppo delle paratiroidi. I bambini affetti da questa sindrome presentano dismorfismi e alterazioni dell’omeostasi del calcio (per mancata produzione di paratormone). I soggetti risultano immunodeficienti nell’ambito sia dell’immunità cellulo-mediata che umorale (a causa dell’importante ruolo dei linfociti T helper nell’immunità umorale). • LINFONODI: I linfonodi sono circa 500 organi linfoidi secondari capsulati e vascolarizzati, localizzati lungo i vasi linfatici, che agiscono come filtro per antigeni solubili o associati alle DC, circolanti attraverso la linfa. I linfonodi hanno una forma rotondeggiante sulla cui superficie si aprono i vasi linfatici afferenti, che versano la linfa prima nel seno sottocapsulare e poi nei seni trabecolari e infine seni midollari fino a raggiungere il vaso linfatico efferente, che esce dal linfonodo a livello dell’ilo, dove passano l’arteria e la vena ilari. I linfonodi sono circondati da una capsula fibrosa che, mediante setti, suddivide il parenchima interno in lobuli. Al di sotto della regione più interna del seno sottocapsulare si trova a regione corticale ricca di linfociti. La corticale contiene aggregati di cellule detti follicoli (o area B) costituiti principalmente da linfociti B. La regione che circonda più internamente i follicoli è detta regione paracorticale (o area T), è organizzata in cordoni ricchi di fibre e proteine della matrice extracellulare, ed è costituita soprattutto da linfociti T e da DC. La regione più interna è detta regione midollare, presenta zone meno dense di linfociti dette cordoni midollari. Aree B (follicoli): i follicoli B sono organizzati intorno alle FDC che presentano prolungamenti in grado di formare una densa rete reticolare. I follicoli primari non contengono centri germinativi, sono costituiti solo da linfociti B maturi naïve; i follicoli secondari contengono centri germinativi, poco colorabili, sono costituiti da linfociti B attivati. I centri germinativi si sviluppano in risposta alla stimolazione antigenica e sono caratterizzati da una marcata proliferazione dei linfociti B, dalla selezione dei linfociti B in grado di produrre anticorpi ad alta affinità e dalla generazione di cellule B della memoria e plasmacellule a lunga sopravvivenza. Sono caratterizzati da una zona scura infiltrata da linfociti B in proliferazione, detti centroblasti, e da una zona chiara con cellule che hanno smesso di proliferare, dette centrociti, perché selezionate per poi differenziarsi. I linfociti B naïve esprimono alti livelli del recettore per chemochine CXCR5, che riconosce la chemochina CXCL13, prodotta dalle FDC. Pertanto, entrano nei linfonodi, attraverso le HEV, e migrano nei follicoli. Aree T: si localizzano principalmente nella regione paracorticale, sottostante e tra i follicoli. Queste aree ricche di linfociti T contengono una rete di fibroblasti specializzati denominati fibroblasti reticolari (FRC). Qui si trovano i condotti FRC, strutture costituite da molecole della matrice extracellulare, tra cui fasci paralleli di fibre di collagene immerse in una rete di microfibrille di fibrillina, avvolte da una membrana basale. Servono a traportare alcuni antigeni che entrano nei linfonodi attraverso i vasi linfatici afferenti nelle aree T dove interagiscono con le DC che presentano l’antigene. I condotti iniziano nel seno sottocapsulare e arrivano fino ai vasi linfatici del seno midollare e alle venule a endotelio alto (HEV), da dove arrivano i linfociti T naïve. I linfociti T naïve e le DC esprimono il recettore per chemochine CCR7, che lega le chemochine CCL19 e CCL21 prodotte dalle FRC e da altre cellule stromali nelle aree T del linfonodo e dalle cellule endoteliali dei vasi linfatici esprimono. Con questo meccanismo le DC entrano dai vasi linfatici e si localizzano nelle aree T. 7 Lo sviluppo dei linfonodi dipende da cellule che inducono la formazione del tessuto linfoide (sottoclasse delle ILC3) e dall’azione coordinata di numerose citochine, chemochine e fattori di trascrizione, tra cui la linfotossina-α e la linfotossina-β. La LTβ stimola le cellule stromali a secernere chemochine. Le FDC sono attivate dalla LTβ a produrre la chemochina CXCL13, mentre le FRC attivate producono CCL19 e CCL21. Antigeni microbici ad alto peso molecolare vengono catturati dai macrofagi del seno e presentati ai linfociti B dei follicoli, mentre antigeni solubili a basso peso molecolare escono dal seno attraverso i condotti FRC e arrivano alle DC residenti nelle aree T, che estendono i loro prolungamenti tra i condotti e nel lume. • MILZA: È un organo molto vascolarizzato la cui funzione principale è quella di rimuovere dal circolo i globuli rossi senescenti o danneggiati (emocatèresi) e particelle come gli immunocomplessi e i microbi opsonizzati, oltre che dare inizio alle risposte immunitarie adattative nei confronti degli antigeni presenti nel sangue. È localizzata nel quadrante superiore sinistro dell’addome. Il parenchima della milza è suddiviso in polpa rossa, composta prevalentemente da sinusoidi vascolari ripieni di sangue, e in polpa bianca, ricca di linfociti. Il sangue entra nella milza in corrispondenza dell’ilo. Alcuni rami dell’arteria splenica terminano in sinusoidi vascolari estesi, pieni di globuli rossi, con macrofagi e altre cellule posizionate lungo le pareti. I sinusoidi terminano a loro volta in venule che confluiscono nella vena splenica, che drena nella circolazione portale. La polpa bianca contiene linfociti densamente ammassati in noduli tra i sinusoidi vascolari. È organizzata attorno alle arterie centrali, formando manicotti linfoidi periarteriolari (PALS), costituiti da linfociti T. Le chemochine CCL19 e CCL21 e il loro recettore CCR7 favoriscono la migrazione dei linfociti T nei PALS. I follicoli linfoidi splenici primari e secondari sono situati tra il manicotto PALS e l’arteriola centrale. I primi sono costituiti da linfociti B naïve addensati, i secondi contengono un centro germinativo con linfociti B attivati. Una regione di cellule che circondano il seno marginale, detta zona marginale, fa da confine tra la polpa rossa e quella bianca. Questa zona contiene macrofagi, linfociti B della zona marginale e DC. Gli antigeni del sangue sono trasportati nel seno marginale dalle DC circolanti o catturati dai macrofagi della zona marginale. La chemochina CXCL13 e il suo recettore CXCR5 inducono la migrazione dei linfociti B nei follicoli. Il sangue e gli antigeni finiscono nella polpa rossa, la presentazione degli antigeni avviene a livello marginale dove si trovano DC e macrofagi. Le cellule T dei PALS inducono l’attivazione dei macrofagi e dei linfociti B. • MALT: Il sistema immunitario associato alle mucose gastrointestinale e bronchiale costituisce il MALT (tessuto linfoide associato alle mucose). Il MALT partecipa alle risposte contro antigeni ingeriti e inalati e contro i microbi. Questi tessuti epiteliali sono densamente colonizzati dalla flora microbica commensale. Le mucose sono le zone maggiormente esposte all’ingresso di patogeni poiché poste all’interfaccia con l’ambiente esterno; per tale motivo il sistema immunitario si è specializzato per garantire maggior protezione a questo livello in modo da non risultare dannoso per la flora commensale, particolarmente abbondante nelle mucose. Il MALT può presentarsi sottoforma di: ➢ Linfociti intraepiteliali (singole cellule linfoidi disperse); ➢ Cellule M: cellule epiteliali intestinali modificate che fanno parte del MALT della mucosa gastrointestinale (GULT) e aiutano nella presentazione dell’antigene attraverso la discriminazione tra self e non self. Esse infatti riescono a catturare eventuali antigeni esogeni dal lume intestinale per poi portarle per endocitosi nella zona sottostante, affinché possano essere catturate da macrofagi e presentate ai linfociti. ➢ Piccoli noduli linfoidi solitari o aggregati. Un esempio sono le placche di Peyer le quali sono dei veri e propri aggregati di tessuto linfoide a livello sotto-mucosale situati a livello dell’ileo. ➢ Strutture più organizzate. Un esempio sono le tonsille faringea (adenoidi), tubariche, palatine e linguale che costituiscono l’anello di Waldeyer situato a livello del tratto oro-faringeo, dove il tessuto linfatico si approfonda e si organizza in cripte. Un altro esempio è dato dall’appendice vermiforme, situata all’inizio dell’intestino crasso (è un ricordo della borsa di Fabrizio negli uccelli, il loro organo linfoide primario). 10 4) Transmigrazione dei leucociti attraverso l’endotelio (diapedesi). Le cellule endoteliali alterano le loro giunzioni cellula-cellula temporaneamente. Ciò avviene per mezzo di una protein chinasi che si attiva quando le integrine legano i ligandi, e va a fosforilare le code citoplasmatiche di una proteina detta VE- caderina (caderina dell’endotelio vascolare), principale componente delle giunzioni, alterandone la struttura. Ciò permette la trasmigrazione attraverso l’endotelio, processo che viene chiamato diapedesi. Sindromi da deficit di adesione leucocitaria (LAD): La conferma del ruolo cruciale delle selectine, delle integrine e delle chemochine nel processo di reclutamento leucocitario nei tessuti è dovuta in parte anche alla scoperta nell’uomo di forme di immunodeficienza primaria dette LAD. I pazienti affetti sono soggetti a infezioni batteriche e fungine ricorrenti dovute ad un difetto del reclutamento dei neutrofili nei siti infettati. [LAD-1 è un difetto ereditario recessivo del gene CD18 che codifica per la catena β delle integrine LFA-1; LAD-2 è la mancanza nel Golgi del fattore necessario per la sintesi delle sialomucine che legano le selectine; LAD-3 è la mutazione di elementi della trasduzione del segnale coinvolti nell’attivazione delle integrine.] Il sintomo principale con cui la LAD si manifesta è la presenza di onfalite alla nascita (rigonfiamento e arrossamento attorno al cordone ombelicale); si osservano inoltre gengiviti e difficoltà nella cicatrizzazione delle ferite. Come metodo diagnostico si esegue il test della finestra cutanea di Rebuck sull’avambraccio, che consiste nel provocare una leggera abrasione sulla quale si dispone un vetrino, sostituito ogni 2 ore per un totale di 8 ore. Lo scopo del test è monitorare la migrazione delle cellule immunitarie della pelle danneggiata. In un individuo normale si dovrebbero osservare molti neutrofili (sono i primi ad essere reclutati) e abbastanza monociti. In un individuo malato, non si osserva nessun accumulo di globuli bianchi, nonostante il numero elevato di leucociti nel sangue. L’unica cura efficace a lungo termine risulta essere il trapianto di midollo osseo. • MIGRAZIONE DEI NEUTROFILI E DEI MONOCITI: I neutrofili sono le prime cellule che entrano nei tessuti infiammati, mentre i monociti sono reclutati nelle ore immediatamente successive e per i giorni seguenti. Il rolling iniziale è mediato dall’interazione tra E-selectina e P-selectina con i carboidrati sialilati nei leucociti. Le chemochine sono per lo più prodotte da parte dei macrofagi residenti, e legano i rispettivi recettori: ➢ Neutrofili: esprimono i recettori CXCR1 e CXCR2, che legano le chemochine CXCL1 e CXCL8, le quali contengono un motivo ELR (solo le chemochine contenenti questo dominio possono reclutare i neutrofili). ➢ Monociti: esprimono il recettore CCR2 che lega diverse chemochine, tra cui la principale è CCL2. Una volta avvenuta l’iterazione con le chemochine il legame ad alta affinità è mediato da LFA-1 e ICAM-1; i neutrofili trasmigrano attraverso il processo di diapedesi, dipendente dalla chinasi che fosforila la VE-caderina. • MIGRAZIONE DEI LINFOCITI T NAÏVE AI LINFONODI: I linfonodi T naïve raggiungono le aree T del parenchima linfonodale attraverso le HEV. Il processo di trasmigrazione è lo stesso visto in precedenza. Inizialmente il rolling è mediato dall’interazione tra la molecola di adesione L-selectina (espressa dai linfociti) con le sialomucine PNAd (addressine dei linfonodi periferici, espresse dalle HEV). Dopo che il recettore per chemochine CCR7 (espresso dai linfociti) lega le chemochine CCL19 e CCL21 prodotte dai fibroblasti reticolari (FRC), il recettore per l’integrine LFA-1 diventa ad alta affinità. L’adesione diventa salda e viene indotta la diapedesi. Una volta trasmigrata il linfocita migra nelle aree T seguendo il gradiente di chemochine. [I fibroblasti reticolari (FRC) formano una rete tridimensionale nelle aree T dei linfonodi che vengono seguite dai linfociti T attratti dal gradiente di chemochine. Anche le DC circolano seguendo le stesse reti formate dalle FRC in quanto presentano gli stessi recettori per le chemochine espressi anche dai linfociti (CCR7)] • FUORIUSCITA DEI LINFOCITI T DAI LINFONODI: I linfociti T naïve che nel linfonodo non trovano il proprio antigene non si attivano, perciò ritornano in circolo tramite il vaso linfatico efferente e continuano la ricircolazione che dà ai linfociti T naïve la possibilità di continuare la ricerca dell’antigene in altri linfonodi. In particolare, l’uscita dei linfociti T dai linfonodi è guidata dal gradiente di concentrazione di un fattore chemiotattico lipidico, la sfingosina-1-fosfato (S1P) che lega il recettore S1PR1 espresso dai linfociti T. 11 ➢ Se non incontra l’antigene: La S1P è presente nel sangue e nella linfa a concentrazioni più alte rispetto ai linfonodi, a causa dell’enzima S1P liasi, che degrada la S1P e ne mantiene bassa la concentrazione. I linfociti T naïve circolanti esprimono bassi livelli di S1PR1, perché l’elevata concentrazione ematica di S1P fa sì che essa si leghi al suo recettore, causandone l’internalizzazione. Invece, i linfociti T naïve che entrano in un linfonodo trovano una bassa concentrazione di S1P e questo favorisce nelle ore successive la riespressione in membrana del recettore S1PR1. A questo punto, se i linfociti T non hanno riconosciuto il proprio antigene, abbandonano il linfonodo seguendo il gradiente di concentrazione della S1P. ➢ Se incontra l’antigene: I linfociti T vanno in contro ad attivazione, evento che determina l’espressione sulla membrana dei linfociti T della proteina CD69, che interagisce e quindi inibisce per diversi giorni la ricomparsa in membrana di S1PR1. Così, i linfociti T attivati diventano temporaneamente insensibili al gradiente della S1P e vengono trattenuti nel linfonodo. Questo consente ai linfociti attivati di rimanere nell’organo linfoide per un tempo sufficientemente lungo al fine di andare incontro a differenziazione in linfociti T effettori e ad espansione clonale, processi che richiedono anche diversi giorni. Quando la differenziazione in linfociti T effettori è completata, le cellule effettrici perdono l’espressione di CD69 e ricominciano a esprimere S1PR1. Questo permette ai linfociti T effettori di fuoriuscire dal linfonodo. [Fingolimod: è un farmaco in grado di legarsi a S1PR1 e inibirne l’espressione in membrana. Perciò è in grado di bloccare la fuoriuscita dei linfociti T dagli organi linfoidi e agisce da potente immunosoppressore. L’utilizzo di questo farmaco è stato autorizzato per il trattamento della sclerosi multipla e oggi è sperimentato, insieme ad altri composti che possiedono un simile meccanismo d’azione, anche per il trattamento di diverse altre patologie autoimmuni e per inibire il rigetto degli organi trapiantati.] • RICIRCOLAZIONE DEI LINFOCITI T NEGLI ALTRI ORGANI LINFOIDI SECONDARI: ➢ MALT dell’intestino: interazione dei linfociti T con le HEV che segue lo stesso processo multifasico, in particolare le HEV dell’intestino esprimono MadCAM-1 a cui si lega l’integrina α4β7 espressa dai linfociti. ➢ Polpa bianca della milza: nella milza non ci sono HEV, i linfociti arrivano in assenza di regolazione. Immunità innata • PRIMA LINEA DI DIFESA: Le superfici epiteliali costituiscono una barriera fisica tra i microbi patogeni e l’ambiente e producono sostanze antimicrobiche. Sono rappresentate dalla cute e dalle mucose dei tratti gastro- intestinale, respiratorio e genito-urinario. Le barriere fisiche nella cute sono lo strato di cheratina che si forma in seguito alla morte dei cheratinociti, e nelle mucose il muco, una secrezione viscosa contenente glicoproteine dette mucine. Tali barriere sono potenziate anche da barriere meccaniche costituite dalle ciglia dell’albero bronchiale e dalla peristalsi nel tratto gastrointestinale, oltre che dalle giunzioni tra le cellule degli epiteli. A queste, si aggiungono barriere chimiche che permettono il mantenimento di pH acido all’interno di stomaco e vagina, o la produzione di istatine, saliva, sali biliari e acidi grassi. La flora batterica commensale ostacola eventuali patogeni attraverso la produzione di batteriocine e acido lattico (Lactobacillus acidophilus vagina). Molecole difensive delle barriere epiteliali: ➢ Defensine: prodotte dalle cellule epiteliali mucosali, neutrofili, NK e CTL, sono piccoli peptidi. La loro produzione è incrementata dalle citochine e dai prodotti microbici. Agiscono per tossicità diretta verso i microbi e l’attivazione delle cellule immunitarie. Possono inserirsi e alterare le membrane microbiche. ➢ Catelicidine: prodotte da neutrofili, cellule epiteliali cutanee, mucose gastrointestinale e respiratoria. Sono attivate proteoliticamente sotto lo stimolo di citochine infiammatorie e prodotti microbici. Agiscono per tossicità diretta verso i microbi e l’attivazione delle cellule immunitarie. Possono neutralizzare l’LPS. ➢ Lisozima: enzima glicosidasi che digerisce selettivamente il legame β-glicosidico tra N-acetilglucosamina e acido N-acetilmuramico presente nel peptidoglicano della parete cellulare dei batteri (Gram-positivi). 12 • SECONDA LINEA DI DIFESA: è conferita da ➢ Cellule residenti e circolanti (fagociti, granulociti, DC, ILC, NK, mastociti, linfociti T intraepiteliali): che contrastano la diffusione del patogeno. Molti esprimono PRR e dopo aver riconosciuto PAMP e DAMP rispondono producendo citochine e altre proteine, o uccidendo direttamente i microbi o le cellule infettate. ➢ Proteine solubili (collectine, pentrassine, ficoline, proteine del complemento, citochine): che fungono da mediatori dell’infiammazione e stimolano la risposta innata. Possono legarsi ai microrganismi fungendo da opsonine (favorendone la fagocitosi da parte di macrofagi e neutrofili) oppure promuovono le risposte infiammatorie che a loro volta richiamano nuovi fagociti nel tessuto sede di infezione, dopo aver legato i microrganismi. Possono inoltre provocare direttamente l’uccisione dei microrganismi riconosciuti. • RECETTORI DELL’IMMUNITÀ INNATA: I recettori dell’immunità innata sono chiamati PRR (pattern recognition receptors, recettori per profili molecolari) e sono in grado di riconoscere PAMP e DAMP: ➢ PAMP (profili molecolari associati ai patogeni): strutture molecolari prodotte dai patogeni e spesso condivise da classi di microrganismi che non sono normalmente presenti nelle cellule umane sane. Esempi: - Acidi nucleici: ssRNA (a localizzazione endosomiale), dsRNA, DNA con isole CpG non metilate. - Proteine: pilina e flagellina dei batteri mobili. - Lipidi della parete cellulare: LPS nei batteri Gram-negativi, acido lipoteicoico nei Gram-positivi. - Carboidrati: mannano nei funghi e batteri, glucano nei funghi. ➢ DAMP (profili molecolari associati al danno) cioè molecole endogene prodotte o rilasciate dalle cellule danneggiate o morte sia per cause infettive che non infettive (ustioni, ischemie, ecc.). Esempi: - Allarmine: molecole normalmente rilasciate in quantità esegue dalle cellule. Un rilascio massiccio è indice di danno e attiva le cellule dell’immunità innata portando all’eliminazione di tali cellule; - rilascio di HSPs: sono le Heat-Shock Protein, prodotte in risposta a segnali di stress cellulare; - rilascio di HMGB: sono le High-Mobility Group Box, coinvolte nella trascrizione e nel riparo del DNA. I recettori dell’immunità innata sono codificati da geni della linea germinale (geneticamente stabili, che non subiscono riarrangiamento cromosomico), mentre i recettori di quella adattativa si generano per ricombinazione somatica di geni durante la maturazione dei precursori dei linfociti. Ne consegue che la diversità dei recettori e il grado di specificità del sistema immunitario innato sono limitati rispetto a quelli del sistema adattativo. Infatti, nell’insieme sono stati identificati circa 100 diversi PRR capaci di riconoscere circa 1000 PAMP/DAMP. Nell’immunità adattativa due tipi di recettori (BCR e TCR) possono riconoscere milioni di diversi antigeni. Tipi di recettori PRR: ➢ TLR (recettori Toll-like): si trovano sulla membrana plasmatica e sulle membrane endosomiali di molte cellule dell’immunità innata e riconoscono DAMP e PAMP extracellulari o presenti negli endosomi. ➢ Recettori citosolici (recettori NOD-like e sensori citosolici di DNA): si trovano a livello del citosol delle cellule dell’immunità innata e riconoscono a questo livello l’eventuale presenza di DAMP o PAMP. • RECETTORI TOLL-LIKE (TLR): Esistono nove tipi di TLR, glicoproteine integrali di membrana aventi una porzione ad uncino extracellulare ricca di leucine, adibita al riconoscimento dei profili molecolari e una porzione intracellulare (dominio TIR) che interagisce con le proteine adattatrici con funzione di segnalazione. Il nome deriva dal gene Toll, identificato in Drosophila, che si osservò responsabile di risposte antimicrobiche. Il dominio extracellulare è formato da motivi ricchi di leucina e da residui amminoacidici variabili. I residui variabili sono responsabili del legame al profilo microbico, mentre l’interazione del microbo con i motivi ricchi in leucina causa l’interazione fisica e la dimerizzazione (o talvolta etero-dimerizzazione) dei TLR. I TLR si trovano sia sulla membrana plasmatica che sulle membrane intracellulari (RE ed endosomi) e possono dunque riconoscere microrganismi localizzati in diversi compartimenti cellulari. In particolare: 15 Patologie associate all’inflammasoma: un’eccessiva attivazione dell’inflammasoma può essere causa di: - criopirinopatie (febbri periodiche ereditarie), dovute ad un’attivazione costitutiva dell’inflammasoma; - gotta: deposizione di cristalli di acido urico nelle articolazioni che attivano l’inflammasoma instaurando una condizione di infiammazione cronica sostenuta dall’IL-1 (perciò si usano farmaci antagonisti di IL-1). [pseudogotta: deposizione di cristalli di calcio pirofosfato (inalazione di silicio e asbesto, professionale)]; - malattia di Alzheimer: deposizione di β-amiloide; - aterosclerosi: deposizione di cristalli di colesterolo all’interno dei macrofagi; - sindrome metabolica associata a obesità: deposizione di acidi grassi liberi e lipidi nel tessuto adiposo. • RECETTORI LECTINICI DI TIPO C (CLR): Sono tipici dei fagociti, inducono la fagocitosi riconoscendo i carboidrati sulla superficie dei microbi e facilitano la secrezione di citochine che promuovono infiammazione e la differenziazione dei linfociti T verso TH17. I CLR legano carboidrati microbici con un meccanismo calcio-dipendente. Sono proteine integrali di membrana che si ritrovano sulla superficie di macrofagi, DC e di alcune cellule presenti nei tessuti, o proteine solubili presenti nel sangue e nei liquidi extracellulari. Queste molecole contengono tutte un dominio conservato deputato al riconoscimento dei carboidrati. Diverse lectine possono riconoscere carboidrati diversi (mannosio, glucosio, N-acetilglucosammina e β-glucani): ➢ Recettore del mannosio: è coinvolto nella fagocitosi. Riconosce particolari zuccheri terminali, quali D- mannosio, L-fucosio e N-acetil-D-glucosammina, caratteristici della superficie dei microrganismi, dato che i carboidrati sulla superficie delle cellule eucariotiche terminano con galattosio e acido sialico. Il ruolo di questo recettore è legare i microrganismi per renderne possibile l’ingestione da parte di macrofagi e DC. ➢ Dectine: Sono espresse dalle DC e dai macrofagi e, in particolare, svolgono un importante ruolo nella risposta contro i funghi e alcune specie di batteri. In seguito alla loro attivazione, le dectine promuovono meccanismi di trasduzione del segnale che attivano differenti funzioni effettrici nei macrofagi e nelle DC. - Dectina-1: lega il β-glucano della parete dei funghi (Candida, Aspergillus e Pneumocystis). - Dectina-2 e mincle: riconoscono oligosaccaridi ricchi di mannosio sulle ife di alcuni funghi e batteri. • RECETTORI SCAVENGER: Gli SR-A legano lipoproteine a bassa densità (LDL) presenti nella parete batterica mentre gli SR-B legano le lipoproteine ad alta densità (HDL). Riconoscono cellule invecchiate e componenti inutili e li eliminano. Alcuni, come SR-A e CD36 (SR-B), sono espressi dai macrofagi e coinvolti nella fagocitosi dei microrganismi. Inoltre, CD36 funziona come co-recettore per l’eterodimero TLR2/TLR6 nell’ambito della risposta contro gli acidi lipoteicoici e i lipopeptidi diacetilati. Molte strutture molecolari, tra cui LPS, acido lipoteicoico, acidi nucleici, β-glucano e proteine possono legare molteplici recettori scavenger. Diversi fattori di virulenza agiscono bloccando il riconoscimento e la fagocitosi mediata da questi recettori. • RECETTORI PER I PEPTIDI FORMILATI (FPR): Il recettore 1 per i peptidi formilati (FPR1) è espresso dai leucociti, riconosce peptidi batterici contenenti residui N-formil-metioninici e stimola il movimento direzionale delle cellule. Poiché tutte le proteine batteriche, ma solo poche nei mammiferi (quelle sintetizzate nei mitocondri), iniziano con l’N-formil-metionina, FPR1 permette ai fagociti di identificare e rispondere preferenzialmente alle proteine batteriche. I ligandi di questo recettore sono considerati tra i più potenti chemiotattici: comprendono molecole che si diffondono dai siti di infezione, legano recettori specifici sulle cellule bersaglio e ne dirigono il movimento verso il sito di produzione. FPR1, come gli altri recettori chemio- tattici, appartiene alla superfamiglia dei GPCR, che iniziano la trasduzione del segnale attraverso le proteine G eterotrimeriche e stimolano modificazioni del citoscheletro che determinano un’aumentata mobilità cellulare. 16 • PROTEINE SOLUBILI DELL’IMMUNITÀ INNATA: L’immunità innata oltre alle cellule effettrici, si serve di una serie di molecole plasmatiche (quindi solubili) che circolano nel sangue e nei fluidi extracellulari le quali sono in grado di riconoscere i microrganismi e promuovere la risposta innata attraverso varie modalità. Queste molecole possono ad esempio agire da opsonine marchiando le cellule bersaglio in modo da renderle più visibili al SI ma possono promuovere l’infiammazione attraverso il rilascio di sostanze pro-infiammatorie. ➢ Pentrassine: Sono proteine solubili pentameriche filogeneticamente molto conservate. Si dividono in: - pentrassine corte: fanno parte delle proteine di fase acuta poiché durante processi infiammatori acuti la loro concentrazione plasmatica può aumentare anche di 1000 volte ed è indice di infezione. Le più note sono la proteina C-reattiva (PCR) e la siero amiloide P (SAP). La loro produzione avviene a livello epatico ed è attivata dalle citochine IL-6 e IL-1 prodotte dai fagociti e dalle DC nel corso della risposta innata. La funzione delle proteine di fase acuta è quella di riconoscere ed opsonizzare componenti batteriche e fungine per poi attivare la via classica del complemento legandosi a C1q. - pentrassine lunghe: la principale è PTX3 prodotta da molti tipi cellulari dell’immunità innata previa stimolazione di citochine pro-infiammatorie. Nelle cellule, come i neutrofili, che producono granuli, questa pentrassina è accumulata all’interno di essi e rilasciata al momento dell’esocitosi. È anch’essa considerata una proteina di fase acuta e può attivare la via classica del complemento legando C1q. ➢ Collectine: Sono una famiglia di proteine trimeriche o esameriche solubili che contengono un dominio collageno-simile legato ad un dominio lectinico che lega i carboidrati in modo calcio-dipendente. - lectina legante il mannosio (MBL): lega i residui di mannosio dei polisaccaridi delle pareti batteriche. Funziona da opsonina ed è in grado di attivare la via lectinica del complemento. - proteine surfactanti polmonari (SP-A e SP-D): proteine solubili che contribuiscono alla formazione del surfactante polmonare e hanno un ruolo nella riduzione della tensione superficiale negli alveoli permettendone l’espansione. Tuttavia, hanno anche un ruolo nella risposta immunitaria locale poiché riconoscono carboidrati e fungono da opsonine promuovendo la fagocitosi nei macrofagi alveolari. ➢ Ficoline: Sono proteine solubili strutturalmente simili alle collectine con un dominio collageno-simile, ma al posto del dominio lectinico hanno un dominio fibrinogeno-simile, che riconosce pur sempre carboidrati. Agiscono anch’esse da opsonine e attivano il complemento (in modo simile a MBL), si legano ai residui di N-acetilglucosammina e di acido lipoteicoico, componenti delle pareti batteriche dei Gram-positivi. • CITOCHINE: Nell’infiammazione acuta, i leucociti e le proteine plasmatiche che circolano normalmente nel sangue sono reclutati nei tessuti sede di infezione o danneggiati, dove contribuiscono all’eliminazione dei patogeni e alla riparazione del danno tissutale. L’afflusso di cellule e proteine nel sito infiammatorio dipende da vari cambiamenti reversibili dei vasi sanguigni come l’aumento permeabilità dei capillari e l’aumento dell’adesività dei leucociti circolanti all’endotelio delle venule. Questi sono provocati da citochine prodotte inizialmente da cellule residenti (mastociti, macrofagi, DC, cellule endoteliali) in risposta al riconoscimento di PAMP o DAMP. Successivamente, possono derivare dagli stessi leucociti che sono stati reclutati e attivati. Le citochine non sono mai presenti come riserva in quanto la loro sintesi inizia per trascrizione genica solo successivamente allo stimolo e il loro mRNA è instabile e di breve durata. La maggioranza delle citochine agisce a livello della stessa cellula produttrice o di cellule vicine (azione autocrina e paracrina). Tuttavia, alcune gravi infezioni possono determinare una abnorme produzione di citochine (tempesta citochinica) tale da farle entrare in circolo e agire a distanza (azione endocrina) con conseguenze spesso dannose per l’organismo. Le citochine, dal punto di vista funzionale, sono caratterizzate da: pleiotropismo, cioè la proprietà di una citochina per cui questa, legandosi a recettori posti su cellule diverse induce degli effetti diversi; ridondanza, secondo cui due o più citochine possono causare effetti sovrapponibili nella stessa cellula bersaglio; antagonismo, cioè la capacità di una citochina di inibire il rilascio e l’attività di un'altra citochina. Le citochine dell’immunità innata, oltre ad attivare l’infiammazione, inibiscono la replicazione virale, stimolano l’immunità adattiva e intervengono nell’ematopoiesi indirizzando il differenziamento dei precursori mieloidi e linfoidi. 17 ➢ Fattore di necrosi tumorale (TNF-α): Il TNF è una citochina mediatrice della risposta infiammatoria acuta prodotta principalmente da macrofagi attivati e DC in risposta alla presenza di DAMP e PAMP. [Il nome deriva dal fatto che venne identificato come fattore presente nel siero in grado di causare la necrosi dei tumori. Inoltre, il TNF è anche chiamato TNF-α per distinguerlo dal TNF-β, detto anche linfotossina]. Nei macrofagi viene inizialmente sintetizzato come proteina omotrimerica transmembrana. Questa, subisce un taglio proteolitico da parte di una metallo-proteasi (TACE, TNF-α Converting Enzyme) che determina il rilascio di 3 frammenti che polimerizzano nello spazio extra-cellulare formando una proteina piramidale triangolare che rappresenta il TNF circolante, in grado di legare simultaneamente tre recettori. Esistono due distinti recettori per il TNF, che fanno parte dei recettori di classe II. Essi sono il TNF di tipo I (TNF-RI) e TNF di tipo II (TNF-RII), presenti in forma trimerica sulla membrana di innumerevoli cellule immunitarie. L’interazione del TNF con i propri recettori determina l’associazione della porzione citoplasmatica del recettore con proteine TRAF che inducono l’attivazione di fattori di trascrizione, come NF-κB e AP-1, che inducono l’attivazione di geni per citochine e chemochine pro-infiammatorie. Il legame al TNF-RI può anche reclutare una proteina adattatrice che attiva le caspasi innescando l’apoptosi. È coinvolto nelle reazioni infiammatorie croniche tipiche delle malattie autoimmuni. Alcuni esempi sono l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante, il morbo di Crohn e la psoriasi. Attualmente sono già disponibili dei farmaci anti-TNF in grado di neutralizzare la citochina ad esempio attraverso anticorpi monoclonali che riconoscono TNF e lo legano bloccando la sua capacità di interazione con il recettore o attraverso proteine di fusione, di fatto recettori solubili che fungono da trappola molecolare legando TNF e sottraendolo al legame con il suo recettore, riducendo l’infiammazione. Alcuni di questi farmaci sono: Etanercept, proteina di fusione tra il recettore solubile di TNF e la porzione Fc di una immunoglobulina (con funzione stabilizzante) e Adalimumab (Humira), anticorpo monoclonale anti-TNF totalmente umano. ➢ Interleuchina-1 (IL-1): L’IL-1 è un altro mediatore della risposta infiammatoria acuta e condivide con il TNF molte funzioni. La fonte cellulare principale di IL-1, come di TNF, sono i macrofagi attivati. A differenza del TNF, però, IL-1 è prodotta anche da neutrofili, cellule epiteliali (cheratinociti) e endoteliali. Esistono due forme di IL-1, denominate IL-1α e IL-1β (forma principale e biologicamente attiva). La produzione di IL-1β richiede normalmente due segnali distinti, che corrispondono a due tappe consecutive: 1. trascrizione genica di pro-IL-1β, tramite trasduzione del segnale dei TLR e NLR, che attiva NF-κB; 2. inflammasoma, che sua volta attiva la caspasi-1, che effettua il taglio proteolitico che attiva IL-β. L’IL-1 è secreta attraverso una via non classica, in quanto non possiede una sequenza segnale idrofobica, una via di secrezione è attraverso pori della membrana formati dalla gasdermina D durante la piroptosi. L’IL-1 induce i suoi effetti biologici interagendo con un recettore di membrana detto recettore di tipo I, espresso da cellule endoteliali e leucociti, e dotato Ig di legame all’IL-1 e un dominio TIR (come i TLR). Gli eventi di attivazione intracellulare che susseguono al legame dell’IL-1 al recettore di tipo I sono simili a quelli del TLR e determinano l’attivazione dei fattori trascrizionali tra cui NF-κB e AP-1. Il recettore di tipo II dell’IL-1, invece, non è in grado di trasdurre il segnale e funziona da recettore decoy (inibitore). ➢ Interleuchina-6 (IL-6): L’IL-6 è un’altra importante citochina nelle risposte infiammatorie acute e viene sintetizzata da macrofagi, DC, cellule endoteliali, fibroblasti e altre cellule in risposta a PAMP, IL-1 e TNF (le altre 2 citochine di fase acuta più importanti). Ha una subunità che trasduce il segnale detta gp130. L’IL-6 è uno dei principali mediatori di infiammazione in parecchie malattie infiammatorie, tra le quali l’artrite reumatoide, e anticorpi monoclonali contro il recettore dell’IL-6 vengono comunemente utilizzati nella terapia di alcune forme di artrite. La malattia di Castleman è linfoproliferativa e causata da HHV- 8, che codifica un omologo dell’IL-6; la neutralizzazione di IL-6 è usata come terapia in questa malattia. ➢ Interleuchina-10 (IL-10): è una citochina inibitoria prodotta dai macrofagi e dalle DC, che inibisce la produzione di citochine pro-infiammatorie quali l’IL-1, il TNF e l’IL-12. Essendo prodotta dalle stesse cellule che ne rappresentano il bersaglio funzionale costituisce un esempio eccellente di feedback negativo. 20 Sepsi e shock settico: la sepsi prevede febbre, tachicardia, iperventilazione, anomalie metaboliche e disturbi mentali (batteriemia, LPS dei Gram- o acido lipoteicoico dei Gram+, legandosi ai TLR inducono la sintesi di TNF, IL-12, IFN-γ e IL-1); lo shock settico il collasso cardio-circolatorio e la CID. [nelle malattie non infettive (ustioni, traumi, pancreatite, ecc.) si chiama sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS).] - basse quantità di TNF (<10-9 M): infiammazione locale, associata a calore, rossore, dolore, gonfiore. Stimolano le molecole endoteliali e i leucociti circolanti (neutrofili e monociti) a esprimere molecole di adesione, stimolano le cellule a produrre chemochine che aumentano l’affinità delle integrine, e quindi l’adesione di neutrofili e monociti alle cellule endoteliali e la trasmigrazione attraverso la parete dei vasi. - quantità moderate di TNF: hanno effetti sistemici di tipo protettivo, agiscono sull’ipotalamo provocando l’aumento della temperatura corporea portando alla febbre (pirogeni endogeni), che tende a contrastare la vitalità dei microbi. Nel fegato stimolano la produzione delle proteine della fase acuta come PCR e SAP. Infine, nel midollo osseo, stimolano la produzione di leucociti, che andranno a combattere l’infezione; - elevate quantità di TNF (≥10-7 M): provocano lo shock settico (spesso letale), causato da una diminuzione della gittata cardiaca, dalla formazione di trombi nei vasi cardiaci e dalla condizione di ipoglicemia. Danno tissutale: Gli enzimi proteolitici e i ROS rilasciati dai fagociti e accumulatisi nella sede di infezione, danneggiano anche le cellule dell’ospite e degradano la matrice extracellulare, soprattutto quando il patogeno resiste all’uccisione e continua a stimolare l’immunità innata. Gran parte delle patologie associate alle infezioni microbiche dipendono dagli effetti patologici della risposta infiammatoria più che dal diretto effetto tossico dei microrganismi. L’infiammazione acuta è anche responsabile del danno tissutale nelle malattie autoimmuni. • RISPOSTA ANTIVIRALE: L’immunità innata controlla le infezioni virali tramite la produzione di IFN di tipo I (α e β), che possono essere prodotti da ogni tipo cellulare in risposta alla presenza di antigeni virali rilevati tramite sensori citosolici. L’effetto antivirale degli IFN di tipo I ha principalmente azione paracrina, ma può anche agire in modo autocrino, inibendo la replicazione virale nella cellula che lo ha prodotto. I diversi tipi di IFN di tipo I sono strutturalmente omologhi e codificati da un cluster di geni presenti sul cromosoma 9. IFN-α e β sono riconosciuti dalle cellule tramite un recettore eterodimerico espresso in maniera ubiquitaria. Avvenuto il legame con l’IFN, il recettore attiva i fattori di trascrizione STAT1, STAT2 e IRF9 che, a loro volta, determinano la trascrizione di geni coinvolti in diversi meccanismi inducono uno stato antivirale: ➢ Stato antivirale: trascrizione di PKR, serina-treonina chinasi attivata da dsRNA che blocca la trascrizione e la traduzione virale, 2’,5’-oligoadenilatosintetasi e RNAsi L che degradano l’RNA virale. ➢ Segregazione dei linfociti nei linfonodi: espressione della CD69 che forma un complesso con S1PR1, riducendone l’espressione per ottimizzare la possibilità di incontro dei linfociti con l’antigene. ➢ Aumento della citotossicità delle NK e dei CTL, differenziamento dei linfociti T helper verso TH1. ➢ Aumento dell’espressione di molecole MHC di classe I: ciò aumenta la probabilità che le cellule infettate siano riconosciute e uccise dai CTL che riconoscono sulla superficie cellulare i complessi peptide-MHC. ➢ Attivazione di meccanismi pro-apoptotici: le cellule infettate diventano suscettibili all’azione del TNF che è pro-infiammatoria e pro-apoptotica. Le infezioni virali possono spostare l’equilibrio verso l’apoptosi. Antigeni e anticorpi Gli anticorpi, o immunoglobuline Ig, sono proteine glicosilate di tipo globulare (la glicosilazione è una modifica post-traduzionale che avviene a livello del Golgi). Prima dell’incontro con l’antigene, vengono espressi dai linfociti B maturi naïve sottoforma di recettori di membrana (BCR) che sono in grado di riconoscere l’antigene. Se si attiva, comincia a proliferare e si trasforma in plasmacellula che secerne anticorpi. Ogni individuo, grazie a meccanismi di ricombinazione genica, possiede milioni di cloni diversi di linfociti B, ognuno specifico per un determinato epitopo. 21 • STRUTTURA DEGLI ANTICORPI: Gli anticorpi sono proteine sieriche che fanno parte delle globuline γ (nel siero ci sono albumine e globuline). L’unità di base degli anticorpi è il dominio Ig, una struttura globulare formata da due foglietti β-planari composti da 3-5 nastri polipeptidici ad andamento antiparallelo. I due foglietti sono tenuti assieme da un ponte disolfuro mentre i nastri sono connessi tra loro da brevi anse. La struttura base di un anticorpo è costituita da un tetramero simmetrico formato da due catene leggere identiche e da due catene pesanti identiche. Sia le catene leggere che le catene pesanti presentano domini variabili (V) all’N-terminale e domini costanti (C) al C-terminale. In particolare, la catena leggera presenta un dominio Ig variabile (VL) e un dominio Ig costante (CL) mentre la catena pesante presenta anch’essa un solo dominio Ig variabile (VH) e ben tre o quattro domini Ig costanti CH1, CH2 , CH3 (e CH4). Le estremità variabili formano il sito di riconoscimento dell’antigene mentre le estremità costanti svolgono funzioni effettrici. Le catene leggere possono essere di tipo κ o λ, mai entrambe, le catene pesanti possono essere α, δ, ε, γ e μ. A connettere le catene pesanti, oltre ai ponti disolfuro, è presente una regione cerniera che è particolarmente ricca in prolina e cisteina. La sua funzione è quella di conferire agli anticorpi una certa flessibilità. Infatti, nel caso in cui sulla superficie di un microorganismo vi siano pochi epitopi antigenici posti in modo molto distanziato, essa si apre, permettendo alla coppia VH-VL di contattare contemporaneamente due antigeni. In una superficie dove invece gli antigeni sono molto concentrati non è necessaria l’apertura della regione cerniera, che può rimanere compatta. La regione cerniera permette di formare strutture immunoglobuliniche con angoli di 60° o 90° (l’ampiezza dipende dalla concentrazione dell’antigene e da come è disposto sulla superficie). Esperimenti di proteolisi controllata: utilizzando Ig di coniglio ed enzimi specifici (papaina e pepsina), si è osservato che attuando una proteolisi controllata delle immunoglobuline con la papaina, enzima che effettua il taglio proteolitico al di sopra la regione cerniera, l’anticorpo veniva suddiviso in 3 regioni: due strutture in grado di riconoscere l’antigene, chiamate frammenti Fab (“frammento che lega l’antigene”, VL e CL + VH e CH1) e un frammento Fc (“frammento cristallizzabile”, CH2 + CH3), che svolge le funzioni effettrici. Attuando al contrario una proteolisi controllata delle immunoglobuline con la pepsina, enzima che effettua il taglio proteolitico al di sotto la regione cerniera, l’anticorpo veniva suddiviso in due regioni: un frammento Fab2 bivalente dotato di due identici siti di legame all’antigene e un frammento Fc degradato. In questo caso si è osservato che, essendo il frammento Fab2 una struttura unica, gli antigeni venivano legati contemporaneamente. Quindi in questo modo sono state identificate le due funzioni dell’anticorpo: riconoscere l’antigene tramite la porzione N-terminale (Fab), e mettere in moto delle funzioni effettrici tramite la porzione C-terminale (Fc). Regioni variabili: Sono le regioni che diversificano i vari anticorpi, le cui differenze si concentrano in 6 brevi segmenti delle regioni variabili (3 in VH e 3 in VL) che si uniscono per formare il sito di legame per l’antigene. L’acronimo delle regioni ipervariabili è CDR (“regioni che determinano la complementarità”). Partendo dall’estremità N-terminale queste regioni sono chiamate CDR1, CDR2 e CDR3 (CDR3 è la più variabile). Anticorpi secreti e di membrana: Gli anticorpi possono essere espressi in forma secreta o in forma associata alla membrana plasmatica delle cellule B, a seconda della sequenza C-terminale e dell’ultimo dominio CH. ➢ Anticorpi di membrana: sono presenti sulla superficie di linfociti B maturi e appartengono alle classi delle IgM e delle IgD che fungono da recettori per l’antigene (BCR). La sintesi di questi isotipi anticorpali di membrana avviene durante la maturazione dei linfociti B dai precursori midollari. I linfociti B maturi saranno in grado di produrre e quindi secernere tutti gli altri isotipi anticorpali solamente dopo che si saranno trasformati in plasmacellule in seguito al riconoscimento dell’antigene. Nella regione C-terminale presenta una sequenza idrofobica tramite cui interagisce con le code fosfolipidiche della membrana del linfocita B e una piccola coda intra-citoplasmatica composta da 3 amminoacidi carichi positivamente (lisina-valina-lisina) che si legano alle teste cariche negativamente dei fosfolipidi sul lato interno della membrana plasmatica. Queste due sequenze stabilizzano l’ancoraggio della proteina alla cellula B. ➢ Anticorpi secreti: sono secreti nel sangue, nelle secrezioni mucosali, nei fluidi interstiziali, hanno una sequenza idrofilica al C-terminale che non viene inserita in membrana e ne permette la secrezione. 22 NB. Le code citoplasmatiche che caratterizzano i BCR sono troppo corte per poter trasdurre il segnale di attivazione della cellula successivamente al legame con l’antigene. La traduzione avviene grazie a 2 proteine transmembrana Igα e Igβ legate in modo non covalente all’Ig (con funzione analoga al CD3 nei TCR). Queste proteine contengono motivi ITAM nella coda citoplasmatica con 2 residui tirosinici che una volta avvenuto il legame Ig-antigene vengono fosforilati dalle chinasi appartenenti alla famiglia Src (tirosin chinasi associate al recettore) reclutate. Ciò determina l’innesco della traduzione del segnale e all’attivazione dei linfociti B. • EPITOPI: L’epitopo è la parte dell’antigene che viene riconosciuta e legata dall’anticorpo in modo specifico. Non corrisponde alla totalità dell’antigene poiché quest’ultimo, che può essere una proteina, un polisaccaride, un acido nucleico, ha dimensioni maggiori del sito di legame. Le macromolecole generalmente possiedono più epitopi identici (polivalenti), mentre le proteine globulari possiedono un unico epitopo (monovalenti), che tuttavia se si trova ripetuto sulla superficie di un microrganismo può essere esposto in modo polivalente. Nel caso di antigeni proteici l’epitopo riconosciuto dall’anticorpo può essere di tipi diversi: ➢ Epitopo conformazionale: è costituito da residui amminoacidici non disposti in sequenza e si forma per sovrapposizione spaziale di regioni distanti tra loro durante il ripiegamento della proteina (che viene quindi riconosciuta nella sua conformazione nativa). La denaturazione determina la perdita dell’epitopo. ➢ Epitopo lineare: è costituito da una sequenza lineare di amminoacidi in successione. È accessibile agli anticorpi se compare sulla superficie esterna dell’antigene, mentre se è inaccessibile nella conformazione nativa, può essere smascherato solo qualora la proteina venga denaturata perdendo la struttura terziaria. ➢ Epitopo neoantigenico: è costituito da proteine che sono andate incontro a delle modifiche (fosforilazione, acetilazione, ubiquitinazione, proteolisi) che alterano la struttura della proteina generando nuovi epitopi. La disposizione spaziale dei vari epitopi di un antigene può influenzare il legame degli anticorpi: quando gli epitopi sono ben separati, due o più anticorpi possono legarsi a uno stesso antigene proteico senza ostacolarsi a vicenda (non sovrapposti). Quando invece i due epitopi sono vicini, il legame di un anticorpo al primo può causare un'interferenza sterica con il legame del secondo anticorpo (sovrapposti). In casi più rari, il legame del primo anticorpo può causare un cambiamento conformazionale nella struttura dell’antigene, influenzando positivamente oppure negativamente il legame del secondo anticorpo all’antigene (effetto allosterico). • CLASSI O ISOTIPI ANTICORPALI: Isotipi anticorpali diversi differiscono a livello della catena pesante [altre differenze possono essere date dal grado di glicosilazione, dall’assenza della regione cerniera (IgE), dalla presenza di un extra dominio nella catena pesante, IgE e IgM presentano 4 domini immunoglobulinici]. Infatti, anticorpi appartenenti ad una stessa classe presentano essenzialmente la stessa sequenza amminoacidica della catena pesante, che varia da quella delle altre classi. Inoltre, alcuni isotipi hanno anche dei sottotipi. ➢ IgG, IgE e IgD secrete e tutte le Ig di membrana sono monomeriche. ➢ IgM e IgA secrete formano complessi multimerici, grazie alle interazioni tra le sequenze di coda. Inoltre, contengono anche un polipeptide addizionale denominato catena J (joining) che si lega alla sequenza di coda mediante ponti disolfuro ed ha la funzione di stabilizzazione (queste si legano più avidamente). IgA: presenta una catena pesante con una specifica sequenza che prende il nome di catena α. Essendoci due tipi di catene α (1 e 2) si avranno le IgA1 e IgA2. Le IgA secrete si trovano sempre come dimeri. Nel sangue, possono essere presenti anche come monomeri. L’emivita è di 6 giorni. Nonostante le IgA siano le più prodotte, la concentrazione nel plasma è molto bassa (pari a 3,5 mg/mL). Questo perché la maggior parte si trova nelle secrezioni mucose (latte materno, colostro, lacrime, saliva…). In particolare, il colostro, è la prima forma di latte materno secreta nel periodo post-partum e contiene le IgA che vengono trasferite dalla madre all’intestino del neonato, ancora privo di anticorpi propri. Inoltre, le IgA (e anche le IgG), passano attraverso la placenta e sono fondamentali per l’immunità del bambino. La produzione delle IgA da parte delle plasmacellule avviene soprattutto a livello del MALT dove dopo essere state prodotte si associano in dimeri grazie alla catena J. 25 L'affinità è solitamente espressa come costante di dissociazione (KD), ovvero la minima concentrazione di antigene sufficiente a determinare il legame dell’anticorpo (più è bassa la KD, più è alta l’affinità dell’anticorpo). Avidità: grazie alla regione cerniera che conferisce agli anticorpi una certa flessibilità, in caso di antigeni polivalenti, una singola Ig, può legarsi con tutti gli epitopi disponibili su di esso tramite i suoi siti combinatori. Per le IgG o IgE, tale legame può interessare al massimo due siti combinatori, uno per ognuno dei Fab. Per le IgM pentameriche, invece, un singolo anticorpo può legare fino a 10 differenti epitopi contemporaneamente. La forza complessiva di legame che deriva dal legame di tutti i siti con tutti gli epitopi disponibili sull’antigene polivalente prende il nome di avidità ed è molto maggiore dell'affinità di un singolo sito combinatorio. Interazioni non covalenti: Le forze di attrazione/repulsione che determinano il legame tra antigene e anticorpo sono forze non covalenti: legami a idrogeno, forze elettrostatiche, forze di Van der Waals e legami idrofobici. Esse possono essere sia attrattive, nel caso di forte affinità, che repulsive, in caso di bassa affinità. Fenomeno della cross-reazione: Quando due antigeni possiedono epitopi comuni o strutturalmente simili, gli anticorpi prodotti verso uno di questi antigeni tendono a reagire anche verso l’altro. Se questo si tratta di un antigene self possono verificarsi malattie autoimmuni. Spesso il secondo epitopo coinvolto è un allergene di origine ambientale che normalmente non darebbe reazione allergica ma in caso di reazioni crociate viene riconosciuto dagli anticorpi di un altro specifico allergene inducendo reazioni immunitarie di tipo allergico. [Es. infezioni streptococciche possono causare cross-reazione di alcuni antigeni con proteine del miocardio] • FUNZIONI EFFETTRICI DEGLI ANTICORPI: La funzione primaria degli anticorpi è riconoscere gli antigeni attraverso le regioni CDR (nella regione variabile N-terminale). In generale, dopo aver riconosciuto l’antigene, l’anticorpo può esplicare la sua azione antimicrobica effettrice in modo diretto o indiretto: ➢ Neutralizzazione: è un’azione diretta. Gli anticorpi “neutralizzano” l’infettività dei microbi legandosi alle proteine di superficie dei microbi deputate all’interazione con i recettori cellulari. In questo modo causano un impedimento sterico che impedisce ai microbi di interagire con le cellule ospite prevenendo l’infezione. Inoltre, possono ostacolare stericamente l’interazione anche delle tossine batteriche con le cellule ospite (funzione svolta soprattutto delle IgG ed IgA). In particolare, le IgA possono indurre l’agglutinazione dei microbi a livello delle mucose intrappolandoli nel muco e facilitare la oro eliminazione. Infine, gli anticorpi possono legarsi ad un microbo e causare cambiamenti conformazionali (effetto allosterico degli anticorpi). ➢ Opsonizzazione: è svolta soprattutto dalle IgG (e in piccola parte anche dalle IgA ed IgM), mentre non è attuata dalle IgD e dalle IgE. Gli anticorpi opsonizzano (ossia rivestono) i microrganismi favorendone la fagocitosi attraverso il loro legame agli FcR dei fagociti. [I microbi possono essere opsonizzati anche dal complemento.] Si tratta di un meccanismo di cooperazione tra immunità innata e adattativa. ➢ ADCC (citotossicità cellulare mediata da anticorpi): tramite i loro FcR, le cellule NK e altri leucociti sono in grado di legare e uccidere le cellule opsonizzate dagli anticorpi (in particolare FcγRIIIA). Il legame e l’attivazione de recettore FcγR da parte delle IgG aggregate stimolano le cellule NK a sintetizzare citochine, come l’IFN-γ, e a liberare il contenuto dei loro granuli, svolgendo così la loro azione citolitica. Anche in questo caso si tratta di un meccanismo di collaborazione tra immunità innata e adattativa. ➢ Attivazione del complemento: è operata soprattutto dalle IgM ed IgG, in maniera minore dalle IgA. ➢ Attivazione dei mastociti: è dovuta soprattutto alle IgE. Nel corso delle reazioni allergiche (o elmintiche) le IgE legano i recettori FcεR dei mastociti e li rivestono. Quando l’antigene (allergene) lega le IgE legate ai mastociti si attiva la trasduzione del segnale sui mastociti che porta alle loro funzioni effettrici.ù ➢ Immunità neonatale: il trasporto trans-epiteliale delle IgA nel latte materno dipende dal recettore poly- Ig (recettore polivalente per le Ig) che conduce all’intestino del neonato; il trasporto delle IgG materne attraverso la placenta è dovuto invece al recettore FcRn (simile a una molecola MHC di classe I, ma senza coinvolgere la tasca del peptide), che mantiene elevata l’emivita delle IgG prevenendone la degradazione. 26 • ANTICORPI MONOCLONALI: Per anticorpi monoclonali si intende un insieme di anticorpi strutturalmente identici e dotati di una sola specificità che possono essere realizzati appositamente per colpire determinati bersagli terapeutici. Hanno quindi dal punto di vista clinico grandi potenzialità. I primi tentativi di produzione in vitro di anticorpi monoclonali furono sperimentati dal momento in cui si scoprì negli anni ’70 che i tumori delle plasmacellule (mielomi e plasmocitomi) inducevano proprio la produzione di anticorpi monoclonali. Il metodo si basa sulla possibilità di fondere dei linfociti B provenienti da un animale immunizzato con una linea di cellule di mieloma immortalizzate, coltivando le cellule in condizioni tali che le cellule normali e quelle tumorali immortalizzate che non si sono fuse non possano sopravvivere, mentre siano in grado di cresce in coltura solo le cellule che derivano dalla fusione dei due tipi cellulari (che vengono chiamate ibridomi). Ogni ibridoma produce un solo tipo di Ig che deriva da un clone di linfociti B dell’animale immunizzato. Gli anticorpi secreti dai diversi cloni di ibridoma vengono poi testati per la loro capacità di riconoscere l’antigene di interesse e il clone che produce l’anticorpo per la specificità voluta viene selezionato ed espanso. I prodotti di tali cloni sono gli anticorpi monoclonali, ognuno specifico per un epitopo diverso dell’antigene. La fusione avviene utilizzando reagenti chimici come il glicole polietilenico, che facilita la fusione delle membrane plasmatiche e la formazione di cellule ibride, che contengono cromosomi di entrambi tipi cellulari usati. Il mieloma utilizzato per la fusione non è in grado di secernere proprie Ig. Dalle cellule ibride vengono selezionati cloni che derivano da una singola cellula, testati per la produzione degli anticorpi contro l’antigene. Il terreno di selezione utilizzato è chiamato terreno HAT perché contiene ipoxantina, aminopterina e timidina. Nella maggior parte delle cellule ci sono due vie di sintesi delle purine: una via per la sintesi ex novo, che necessita di tetraidrofolato (THF), e una via di salvataggio delle purine, che utilizza l’enzima ipoxantina- guanina fosforibosil trasferasi (HGPRT). Per le fusioni si usano cellule di mieloma prive di HGPRT che normalmente sopravvivono usando la via della sintesi ex novo della purina. In presenza di aminopterina, però, non si forma il tetraidrofolato, provocando un difetto nella sintesi ex novo delle purine e nella biosintesi delle pirimidine. Le cellule ibride invece simultaneamente contengono HGPRT, che deriva dagli splenociti, e hanno la capacità di proliferare del mieloma. In presenza di ipoxantina e timidina nel terreno possono sintetizzare DNA in assenza di tetraidrofolato. Ciò determina che solo gli ibridomi possano sopravvivere nel terreno HAT. Uno dei limiti nell’uso terapeutico degli anticorpi monoclonali deriva dalla loro origine animale, che in genere è il topo. I pazienti trattati con anticorpi monoclonali di topo possono produrre anticorpi contro le Ig murine, fenomeno definito risposta anticorpale umana anti-topo (HAMA). Tali anticorpi bloccano la funzione o favoriscono l’eliminazione degli anticorpi monoclonali iniettati e possono provocare la malattia da siero. Per minimizzare l’insorgenza della risposta HAMA, aumentando così le potenzialità d’impiego degli anticorpi monoclonali, sono state utilizzate tecniche di ingegneria genetica. I cDNA dei geni che codificano per le catene polipeptidiche di un anticorpo monoclonale possono essere isolati da un ibridoma e manipolati in vitro. Poiché solo piccole regioni all’interno della molecola anticorpale sono responsabili del legame con l’antigene, è possibile inserire segmenti di DNA che codificano per la sequenza dei siti di legame con l’antigene, di un anticorpo monoclonale murino, all’interno di un cDNA che codifica per un’immunoglobulina umana, creando così un gene ibrido. Quando questo gene viene espresso, la proteina ibrida che ne risulta mantiene la specificità dell’anticorpo monoclonale murino pur possedendo l’“impalcatura” di un anticorpo umano e viene perciò definita anticorpo umanizzato. Gli anticorpi umanizzati si realizzano tramite la tecnologia di “phage display”. Nonostante gli anticorpi umanizzati risultino meno “estranei” al sistema immunitario umano, riducendo la probabilità di risposta anticorpale contro gli anticorpi murini, una parte di soggetti sottoposti a tale trattamento terapeutico sviluppa comunque, per ragioni ancora sconosciute, anticorpi neutralizzanti. L’ultima frontiera è stata la creazione di anticorpi monoclonali fully human la cui immunogenicità è quasi zero. Questi ultimi si ottengono in diversi modi, uno di questi prevede l’uso di topi transgenici dotati di linfociti B che esprimono Ig umane: in questi si inibisce la capacità di produrre anticorpi e vengono trasferiti i geni per produrre gli anticorpi umani affinché gli anticorpi prodotti da questi dopo l’immunizzazione siano completamente umani. Nomenclatura: prefisso variabile - bersaglio/malattia - fonte dell’anticorpo - suffisso “-mab” (es. “Rituximab”) 27 Presentazione dell’antigene e complesso MHC Mentre i linfociti B, grazie ai BCR, riconoscono l’antigene (proteico, polisaccaridico, lipidico, ecc.) senza alternarne la struttura di base (cioè lo riconoscono in forma nativa), i linfociti T riconoscono solo antigeni non-self di natura proteica, precedentemente processati, e presentati dalle cellule APC come peptidi legati a molecole del complesso MHC. Le molecole MHC sono altamente polimorfe e ogni singolo linfocita T riconosce uno specifico peptide presentato da una sola delle numerose molecole MHC disponibili: questo fenomeno è chiamato restrizione per MHC. Esistono due tipi di molecole del complesso MHC: le molecole MHC di classe I, che presentano l’antigene ai linfociti T CD8+, e molecole MHC di classe II, che presentano l’antigene ai linfociti T CD4+. • PRESENTAZIONE DELL’ANTIGENE: Alcuni antigeni sono trasportati nella linfa dalle APC che hanno catturato l’antigene e sono entrate nei vasi linfatici, mentre altri entrano nel torrente linfatico in forma libera. La linfa, quindi, contiene un campionario degli antigeni solubili oppure legati alle DC, che poi si concentrano nei linfonodi localizzati lungo la rete linfatica. Gli antigeni presenti nel circolo sanguigno invece possono essere “campionati” dalle DC della milza, o venire catturati dalle DC plasmacitoidi e trasportati alla milza. ➢ Antigeni catturati dalle DC. Le DC tissutali quiescenti esprimono numerosi recettori di membrana, come le lectine di tipo C, con cui catturano i microbi o le proteine microbiche tramite endocitosi, fagocitosi o pinocitosi, poi trasformano le proteine ingerite in peptidi in grado di legarsi alle molecole MHC. Le DC, grazie ai segnali generati dai TLR e gli altri recettori, si attivano a diventare potenti APC in grado di attivare i linfociti T. Le DC attivate hanno perso la loro adesività per gli epiteli e i tessuti e iniziano a esprimere il CCR7 (come i linfociti T naïve, motivo per cui si co-localizzano nelle aree T linfonodali), elevati livelli di molecole MHC e elevati livelli di molecole costimolatorie, necessarie per l’attivazione dei linfociti T. ➢ Antigeni solubili. Quando la linfa entra nel linfonodo attraverso i vasi linfatici afferenti, essa si riversa nel seno sottocapsulare e in parte entra nei condotti FRC che hanno origine nel seno e attraversano la regione corticale. Qui gli antigeni a basso peso molecolare possono essere catturati dalle DC che si insinuano tra gli FRC con processi citoplasmatici. Gli antigeni ad alto peso molecolare presenti nel seno sottocapsulare sono catturati dai macrofagi per essere portati nei follicoli ed essere presentati ai linfociti B residenti. Gli antigeni presenti nel circolo ematico sono invece controllati dalle APC della milza, e tali antigeni possono raggiungere il sangue direttamente dai tessuti o dal linfatico riversandosi nell’angolo giugulo-succlavio. Cellule che presentano l’antigene (APC): ➢ Cellule dendritiche (DC): sono le più efficaci APC in quanto sono localizzate nei siti di ingresso e nei tessuti, esprimono molti recettori per microrganismi, migrano attraverso i vasi linfatici dai tessuti nelle aree T dei linfonodi, dove i linfociti T ricircolano, ed esprimono sulla loro membrana un numero elevato di complessi peptide-MHC, molecole costimolatorie e citochine, necessarie per l’attivazione dei linfociti T. ➢ Macrofagi: i macrofagi presentano gli antigeni dei microbi fagocitati ai linfociti T effettori, che rispondono attivando l’attività microbicida dei macrofagi. I linfociti T CD4+ riconoscono antigeni microbici presentati dai macrofagi, in seguito forniscono segnali che aumentano la capacità microbicida dei macrofagi. ➢ Linfociti B: nelle risposte umorali, i linfociti B internalizzano gli antigeni proteici e presentano i peptidi ai linfociti T CD4+. Questo è essenziale per la produzione di anticorpi in risposta ad antigeni T-dipendenti. ➢ Tutte le cellule nucleate: tutte le cellule nucleate possono presentare su molecole MHC di classe I peptidi derivati da antigeni proteici citosolici ai linfociti T citotossici CD8+. Tutte le cellule, infatti, sono suscettibili all’infezione virale e a mutazioni che causano la trasformazione neoplastica. I CTL CD8+ sono capaci di riconoscere questi antigeni e di eliminarne le cellule produttrici, inoltre riconoscono i microbi fagocitati nel caso in cui questi, o i loro antigeni, siano riusciti a fuoriuscire dalle vescicole fagocitiche nel citosol. ➢ Cellule endoteliali ed epiteliali: queste cellule possono esprimere anche molecole MHC di classe II. 30 • PROCESSAZIONE DEGLI ANTIGENI: Esistono tre pathway attraverso cui l’antigene viene processato: 1. Peptidi endogeni processati dal proteasoma e presentati ai linfociti T CD8+ da MHC di classe I: Le proteine endogene (proteine senescenti, proteine virali sintetizzate nel citosol, proteine nucleari tumorali) vengono indirizzate al proteasoma attraverso la marcatura con il polipeptide ubiquitina catalizzata dalla ligasi E3. Il proteasoma consiste in un complesso multicatalico a forma di cilindro in cui si distinguono due anelli β interni e due anelli α esterni coassiali. Ciascun anello è formato da 7 subunità. Gli anelli esterni α hanno ruolo solo strutturale, mentre tre degli anelli interni β (β1, β2 e β5) costituiscono il sito catalitico. L’interferone IFN-γ, prodotto durante le reazioni infiammatorie, induce l’espressione del complesso PA28 (o complesso attivatore del proteasoma), che, legandosi al proteasoma, forma l’immuno-proteasoma. I peptidi che fuoriescono dall’immuno-proteasoma sono leggermente diversi rispetto a quelli che escono dal proteasoma normale in quanto presentano caratteristiche che favoriscono il legame con le tasche dell’MHC. La proteina viene quindi frammentata in peptidi rilasciati nel citosol, che si collocano in prossimità del RE, dove si associano ai trasportatori TAP che ne permettono il trasporto all’interno del RE. Essi legano preferenzialmente peptidi formati da 10-13 amminoacidi, cioè quelli più compatibili con la tasca dell’MHC di classe I. Inoltre, TAP si trova legato alla tapasina, proteina che lega a sua volta anche le MHC di classe I neosintetizzate e correttamente assemblate nel RE da chaperonine, in modo che le molecole MHC di classe I si vengano a trovare vicino al trasportatore TAP, pronte ad accogliere i peptidi entranti. Una volta che le MHC di classe I sono state correttamente caricate con il peptide (sminuzzato anche da aminopeptidasi se necessario) perdono l’affinità per la tapasina e il complesso peptide-MHC di classe I, così stabilizzato, passa nel Golgi, dove viene incorporato in vescicole esocitiche che si portano sulla superficie della cellula. 2. Peptidi esogeni processati da endosomi-lisosomi e presentati ai linfociti T CD4+ da MHC di classe II: Le proteine esogene (proteine extracellulari, di membrana o intracellulari per autofagia) vengono captate dall’esterno e fagocitate con formazione dell’endosoma precoce. Questo, avendo pH neutro, mantiene inattive le proteasi contenute al suo interno. Dopodiché, gli endosomi si acidificano progressivamente grazie a delle pompe protoniche e diventano endosomi tardivi, aventi un pH di circa 4,5. Ciò attiva le proteasi che degradano gli antigeni di natura proteica in frammenti peptidici (gli endosomi tardivi per completare il processo di degradazione possono anche fondersi con i lisosomi generando dei fagolisosomi). Contemporaneamente, i ribosomi del RE sintetizzano le molecole MHC di classe II alle quali viene subito associata una catena invariante Ii, disposta nella tasca dove normalmente dovrebbe risiedere il peptide, impedendo ai peptidi presenti nel RE (che sono invece destinati all’MHC di classe I) di legarcisi. Il complesso MHC-Ii transita tramite vescicole fino ai complessi endosomi tardivi-lisosomi, dove avverrà l’incontro con l’antigene. Qui, la catena invariante viene tagliata da enzimi proteolitici (gli stessi che generano i peptidi dalle proteine endocitate) formando un frammento di 24 aminoacidi, chiamato CLIP, che rimane all’interno della tasca di legame. CLIP viene successivamente rimosso dalla tasca da HLA- DM, che ha il ruolo di sostituire CLIP con un peptide dotato di maggiore affinità per le molecole MHC di classe II. Infatti, i peptidi dotati di maggiore affinità, possono scalzare DM (che rimuoverà la sequenza CLIP), e occupare la tasca di legame. Quindi, i peptidi antigenici ad alta affinità si legano all’MHC e, tramite vescicole esocitiche, il complesso viene portato in superficie ed esposto sulla membrana cellulare. 3. Antigeni non peptidici presentati (senza essere processati) ai linfociti NKT e ai linfociti Tγδ: Le cellule NKT riconoscono i lipidi e i glicolipidi espressi dalle molecole CD1 (MHC non classiche), che legano i lipidi self e non self presenti nella cellula e li portano sulla superficie cellulare. Se il lipide non viene riconosciuto, viene riciclato dalla cellula. I complessi CD1-lipide sono endocitati in endosomi, perdono l’antigene e si fondono con i lisosomi, dove i lipidi ingeriti dall’ambiente esterno sono catturati e possono formarsi nuovi complessi CD1-lipidi che tornano sulla superficie cellulare. Le molecole CD1 durante il riciclo perdono gli antigeni lipidici endocitati e ne presentano di nuovi, senza processarli. I linfociti T γδ esprimono recettori per l’antigene con limitata diversificazione, riconoscono antigeni come proteine, lipidi, molecole trifosforilate e alchilammine, che non sono però presentati su molecole MHC. 31 • CROSS-PRESENTAZIONE: Normalmente, le proteine di origine esogena sono fagocitate e presentate tramite gli MHC di classe II ai linfociti T CD4+ dopo essere state degradate negli endosomi-lisosomi. Tuttavia, alcune DC sono dotate della particolare capacità di fagocitare cellule infettate da virus o cellule tumorali (proteine esogene) e di presentarne gli antigeni ai linfociti T CD8+ naïve tramite MHC di classe I. Questo processo è chiamato cross-presentazione. Apparentemente potrebbe sembrare che violi la regola che gli antigeni ingeriti sono degradati negli endosomi e nei lisosomi per essere presentati in associazione alle molecole MHC di classe II, ma ciò non avviene poiché in questa situazione gli antigeni ingeriti accedono al citosol tramite endocitosi ma poi sono degradati nei proteasomi ed entrano nella via di presentazione di classe I. Quindi, la regola fondamentale che i peptidi lisosomiali vengono presentati su MHC di classe II e che i peptidi generati dal proteasoma sono presentati su MHC di classe I non viene mai violata. La cross-presentazione avviene spesso in un particolare tipo di cellule DC che al tempo stesso possono presentare questi antigeni attraverso la via di classe II ai linfociti T helper CD4+, che sono necessari per attivare completamente la risposta dei linfociti CD8+. Recettori per l’antigene e maturazione dei linfociti • STRUTTURA DEL TCR: Il TCR dei linfociti T CD4+ e CD8+ ristretti per MHC è un eterodimero composto da due catene polipeptidiche trans-membrana (catene α e β) unite covalentemente da un ponte disolfuro tra cisteine extracellulari. Il TCR è composto da un dominio Ig variabile (V) N-terminale, da un dominio Ig costante (C), da una regione transmembrana idrofobica e da una sequenza citoplasmatica C-terminale. Le regioni V delle catene α e β contengono brevi sequenze nelle quali si concentra la variabilità tra i diversi TCR; queste regioni ipervariabili sono le regioni che determinano la complementarità (CDR). Tre CDR della catena α e tre CDR della catena β costituiscono la porzione del TCR che riconosce in modo specifico i complessi MHC-peptide. Le regioni C delle catene α e β si estendono in una breve regione cerniera, contenente il ponte disolfuro, seguita dalla porzione idrofobica transmembrana formata da residui positivi che interagiscono con residui di carica negativa nelle porzioni transmembrana di altre proteine del complesso TCR (CD3 e catena ζ). Le catene α e β del TCR presentano code citoplasmatiche C-terminali troppo corte per trasdurre segnali. Infatti, tale funzione è svolta dalle altre catene associate al TCR, il CD3 e la catena ζ, associate non covalentemente agli eterodimeri αβ, formando il complesso TCR, e deputate alla trasduzione del segnale generato dell’antigene. Il complesso CD3 consiste in tre proteine denominate CD3 γ, δ e ε, omologhe fra loro della superfamiglia delle Ig. Ciascuna contiene un dominio citoplasmatico che presenta un dominio ITAM che trasduce il segnale. La catena ζ è espressa come omodimero costituito da un lungo dominio citoplasmatico con tre domini ITAM. Quando il TCR lega il complesso MHC-peptide, i corecettori si aggregano al TCR permettendo la fosforilazione delle tirosine dei domini ITAM di CD3 e ζ da parte di chinasi Src. Quindi, ogni complesso del TCR è costituito da un dimero αβ, associato ad un eterodimero CD3 δε, un eterodimero CD3 γε e un omodimero ζζ. • CORECETTORI CD4 E CD8: Il CD4 e il CD8 sono corecettori espressi dai linfociti T che legano regioni non polimorfe delle molecole MHC e facilitano la trasduzione del segnale del TCR. Sono glicoproteine transmembrana appartenenti alla superfamiglia delle Ig. Legando molecole MHC, riconoscono parte dello stesso ligando (il complesso MHC-peptide) che interagisce con il TCR. I linfociti T αβ maturi esprimono il CD4 oppure il CD8, ma mai entrambe le molecole. Il CD4 e il CD8 interagendo rispettivamente con le MHC di classe II e di classe I, sono responsabili della restrizione per MHC delle rispettive popolazioni di linfociti T. ➢ CD4 è un monomero espresso dai linfociti T periferici e dai timociti costituito da quattro domini Ig extra- cellulari N-terminali che legano i domini non polimorfi α2 e β2 delle molecole MHC di classe II. ➢ CD8 è un eterodimero costituito da catene α e β con un dominio Ig extracellulare che si lega al dominio non polimorfo α3 della molecola MHC di classe I (interagisce anche con α2 e la β2-microglobulina). La chinasi Lck della famiglia Src si associa alla coda citoplasmatica di CD4 e CD8, Lck viene a trovarsi molto vicino agli ITAM delle catene CD3 e ζ e fosforila i residui di tirosina, attivando la tirosin-chinasi ZAP-70. 32 • TCR γδ: costituiscono solo l’1-10% dei TCR e prendono il nome di TCR γδ in quanto non contengono le catene α e β dei TCR αβ ma le catene γ e δ. Il repertorio dei geni variabili è molto ristretto per i γδ i quali possono infatti riconoscere molti meno antigeni rispetto ai TCR αβ. Inoltre, questa tipologia di TCR non sono ristretti MHC in quanto riconoscono MHC non convenzionali che appartengono alla famiglia CD1 i quali presentano antigeni di natura fosfolipidica e non proteica a differenza di quelli riconosciuti dai classici TCR αβ. • STRUTTURA DEL BCR: Il recettore per l’antigene dei linfociti B è costituito da un anticorpo di membrana IgM e IgD. Queste Ig hanno una coda citoplasmatica composta solo da tre aminoacidi (lisina, valina e lisina), troppo corta per poter trasdurre i segnali generati dal riconoscimento dell’antigene. La trasduzione del segnale da parte delle Ig, infatti, è deputata due proteine chiamate Igα e Igβ, che formano un dimero composto da due catene legate da un ponte disolfuro e associate in modo non covalente alle Ig di membrana. Queste proteine sono analoghe alle proteine CD3 e ζ del TCR. Anche queste proteine contengono motivi ITAM nella coda citoplasmatica, e sono necessarie per la formazione e l’espressione in membrana del complesso del BCR. Le code di Igα e Igβ interagiscono con le tirosin-chinasi della famiglia Src. Nelle cellule che sono andate incontro a scambio di classe, come i linfociti B della memoria, i complessi BCR contengono IgG, IgA o IgE. L’inizio della trasduzione del segnale avviene in seguito all’aggregazione delle Ig di membrana da parte di antigeni multivalenti. Questo permette l’avvicinamento di protein chinasi della famiglia Src, la cui interazione fisica ne determina l’attivazione, consentendo loro di fosforilare i residui di tirosina presenti nelle sequenze ITAM di Igα e Igβ. Tutte le molecole coinvolte nella trasduzione del segnale si concentrano in strutture di membrana note come raft lipidici. Igα e Igβ sono debolmente associate alle tirosin chinasi della famiglia Src, legate da ancore lipidiche nel lato interno della membrana plasmatica. La fosforilazione delle sequenze ITAM di Igα e Igβ forniscono un sito d’attracco per i due domini SH2 presenti nella tirosina chinasi Syk (omologa a ZAP70). L’associazione di Syk alle tirosine fosforilate delle sequenze ITAM ne determina l’attivazione per fosforilazione delle sue tirosine a opera di chinasi della famiglia Src associate al BCR. Sia le chinasi della famiglia Src sia Syk contribuiscono all’attivazione della tirosin chinasi Btk. Nel caso, invece, di un antigene monovalente, incapace di indurre l’aggregazione delle Ig di membrana, i segnali generati sono deboli e per promuovere la piena attivazione dei linfociti B è necessaria la cooperazione dei linfociti T helper. • CO-RECETTORE PER IL COMPLEMENTO CR2: L’attivazione dei linfociti B è potenziata dai segnali generati da proteine del complemento attraverso il recettore CR2, che fa da tramite tra l’immunità innata e l’immunità specifica umorale. Durante la risposta immunitaria innata, molecole e polisaccaridi di superficie dei microbi possono attivare il sistema del complemento attraverso la via lectinica e la via alternativa, in assenza di anticorpi, attivando direttamente il sistema del complemento. Le proteine e gli altri antigeni che non attivano direttamente il complemento possono, invece, legarsi ad anticorpi pre-esistenti o prodotti durante le prime fasi della risposta e questi immunocomplessi possono attivare il complemento attraverso la via classica. In generale, l’attivazione del complemento produce il frammento C3b che lega il microrganismo o l’immunocomplesso e viene poi degradato a formare C3d, che resta legato covalentemente. Il complesso formato da C3d e antigene si lega ai linfociti B in quanto il BCR lega l’antigene mentre il co-recettore CR2 lega una porzione di C3d. Sulla membrana dei linfociti B viene espresso un complesso trimolecolare formato da CR2, CD19 e CD81 chiamato complesso co-recettoriale dei linfociti B (o TAPA-1) poiché il CR2, attraverso il C3d, lega l’antigene, che nello stesso momento è riconosciuto direttamente dalle Ig di membrana. Il legame di CR2 a C3d porta la coda intra-citoplasmatica di CD19 in prossimità delle chinasi associate al BCR. Di conseguenza, CD19 viene fosforilato. Questo porta all’attivazione della chinasi PI3K, che genera PIP3, che a sua volta lega e attiva Btk e PLCγ2. Quindi, l’attivazione dei co-recettori determina un potenziamento della risposta dei linfociti B. • PUNTI DI CONTROLLO (“CHECKPOINTS”): assicurano che solo le cellule che hanno correttamente portato a termine le fasi della differenziazione proseguano nel processo di maturazione. Il primo checkpoint si basa sulla corretta espressione di una delle due catene del recettore per l’antigene, mentre in un punto successivo sono controllati il corretto assemblaggio e la funzionalità del recettore completo. Il superamento 35 - Diversità giunzionale: la rimozione o aggiunta di nucleotidi tra le terminazioni dei segmenti genici V, (D) e J al momento della loro ricongiunzione, a opera di endonucleasi, è il principale responsabile della diversificazione dei recettori per l’antigene. A livello del taglio della doppia elica, il filamento di DNA più corto deve essere esteso con nucleotidi complementari a quelli del filamento più lungo per aggiunta di nucleotidi P. Inoltre, si verifica anche l’aggiunta casuale di un massimo di 20 nucleotidi N, dovuta all’enzima TdT. L’aggiunta di nucleotidi P e N può causare uno slittamento dello schema di lettura che può generare codoni di stop in due casi su tre (se il numero di basi aggiunte non è multiplo di tre). NB. A causa della diversità giunzionale, le Ig e i TCR mostrano la massima variabilità a livello della terza regione ipervariabile (CDR3), in quanto comprende le giunzioni di segmenti V, (D) e J. Linfociti T (immunità cellulare) • SVILUPPO DEI LINFOCITI T: Lo sviluppo dei linfociti T avviene attraverso riarrangiamento ed espressione dei geni per il TCR, proliferazione cellulare, incontro con l’antigene e acquisizione di capacità funzionali. ➢ Timo: I linfociti T originano da precursori del fegato fetale e del midollo osseo adulto e successivamente popolano il timo. I precursori sono progenitori multipotenti che arrivano al timo provenendo dal circolo ematico attraverso le HEV. I timociti immaturi non esprimono il TCR o i co-recettori CD4 e CD8 e si trovano nel seno sottocapsulare e nella corticale esterna, migrano attraverso la corticale, dove esprimono per la prima volta il TCR. I linfociti T αβ maturano a linfociti T CD4+ o CD8+ ristretti per MHC quando lasciano la zona corticale ed entrano nella midollare. Da qui, i timociti che hanno assunto la positività per CD4+ o CD8+ escono dal timo e si riversano nel torrente circolatorio. L’ambiente timico fornisce gli stimoli necessari alla proliferazione e alla maturazione dei timociti. All’interno della corticale, le cTEC formano un reticolo di lunghi prolungamenti citoplasmatici attraverso cui i timociti devono passare per raggiungere la midollare. Nella midollare le mTEC svolgono un particolare ruolo nella presentazione di antigeni self per la selezione negativa dei linfociti T in corso di maturazione. Le DC sono presenti all’interfaccia cortico- midollare e all’interno della midollare, mentre i macrofagi del timo si collocano soprattutto nella midollare. L’arrivo delle cellule al timo e gli spostamenti al suo interno sono guidati dalle chemochine. I progenitori dei linfociti T esprimono il recettore per chemochine CCR9 che si lega alla chemochina CCL25, prodotta a livello della corticale timica. Le chemochine CCL21 e CCL19 legano il recettore per chemochine CCR7 sui timociti, guidandone lo spostamento verso la midollare. I linfociti T di nuova generazione esprimono il recettore S1PR1 ed escono dalla midollare seguendo il gradiente di S1P per entrare nel circolo ematico. ➢ Timociti doppio-negativi: I timociti corticali immaturi contengono i geni per il TCR nella configurazione germinativa e non esprimono TCR, CD3, catena ζ, CD4 o CD8 perciò sono dette timociti doppio-negativi e sono considerati linfociti pro-T. L’espressione delle proteine Rag-1 e Rag-2 serve per il riarrangiamento dei geni per il TCR. I primi riarrangiamenti formano l’esone VDJ(β). I trascritti nucleari primari dei geni per il TCR β contengono anche gli introni tra gli esoni VDJβ ricombinati e il gene Cβ. Code poli-A sono aggiunte e il trascritto va incontro a splicing per formare un mRNA maturo in cui i segmenti genici VDJ sono giustapposti al primo esone di uno dei geni Cβ. La traduzione di questo mRNA dà origine alla catena β del TCR completa. Queste cellule che esprimono il TCR β possono superare il primo checkpoint. Nel linfocita T doppio-negativo la catena β del TCR verrà espressa sulla superficie della cellula in associazione a una catena invariante (pre-Tα), alla catena CD3 e alla catena ζ, per formare il complesso del pre-TCR. I segnali provenienti dal pre-TCR sono responsabili della sopravvivenza dei linfociti pre-T e della loro espansione proliferativa e promuovono la ricombinazione del locus per la catena α. Inoltre, inibiscono ulteriori riarrangiamenti del locus per la catena β del TCR sull’allele non riarrangiato (esclusione allelica). ➢ Timociti doppio-positivi: L’espressione degli eterodimeri αβ avviene solo nella popolazione CD4+ CD8+ doppio-positiva che esprime sia CD4 che CD8, subito prima del primo punto di controllo al pre-TCR. 36 Un secondo picco di espressione del gene RAG allo stadio pre-T promuove la ricombinazione del gene per la catena α. Non essendoci segmenti genici D, il riarrangiamento consiste nella ricongiunzione dei segmenti V e J. Qui l’esclusione allelica è scarsa o del tutto assente e il linfocita T può esprimere anche due catene α. I timociti αβ che non hanno portato a termine riarrangiamenti produttivi della catena α del TCR andranno incontro ad apoptosi. L’espressione della catena α allo stadio doppio-positivo porta alla formazione del TCR αβ completo, che è espresso sulla superficie cellulare in associazione con CD3 e la catena ζ. L’espressione coordinata di queste due proteine è necessaria per la corretta espressione in superficie del TCR αβ. Il riarrangiamento del gene per la catena α provoca la delezione del locus per la catena δ (che si trova tra al suo interno), rendendo la differenziazione T αβ irreversibile. L’espressione dei geni RAG e l’ulteriore ricombinazione del gene per il TCR a questo punto cessano. Prima di entrare nella midollare, i timociti devono selezionare uno dei due co-recettori (CD4 o CD8) per diventare timociti singolo-positivi. ➢ Selezione positiva: Processo attraverso il quale i timociti dotati di TCR che legano i complessi MHC- peptidi self vengono stimolati a sopravvivere e a differenziarsi in una delle due sottopopolazioni di linfociti T CD4+ o CD8+. Nella corticale timica, i timociti doppio-positivi incontrano le cTEC che presentano una varietà di peptidi self legati a molecole MHC di classe I e II. Un riconoscimento a bassa affinità di questi complessi promuove la sopravvivenza del timocita. Invece, i timociti che non riconoscono molecole MHC self sono indotti a morte per apoptosi con un meccanismo detto morte per deprivazione (death by neglect). Durante la transizione a cellule singolo-positive, i timociti sono irreversibilmente indirizzati verso le linee CD4+ o CD8+: secondo il modello stocastico la differenziazione verso una o l’altra linea è del tutto casuale, a seconda che riconoscano casualmente una molecola MHC di classe I o II; secondo la teoria educativa i linfociti doppio-positivi esprimono elevati livelli di CD4 e bassi livelli di CD8, se il TCR è ristretto per MHC di classe I riceverà un debole segnale che indirizza verso il fenotipo CD8+, se è ristretto per MHC di classe II invece riceverà un segnale più forte che attiverà il differenziamento verso il fenotipo CD4+. L’intensità del segnale può discriminare i due fenotipi tramite attivazione di diversi fattori di trascrizione. NB. La sopravvivenza dei linfociti naïve, prima dell’incontro con l’antigene estraneo, richiede segnali apparentemente generati dal debole riconoscimento di peptidi self negli organi linfoidi secondari. ➢ Selezione negativa: Prevede che i timociti dotati di recettori che riconoscono con elevata affinità il complesso peptide-MHC a livello timico vadano incontro ad apoptosi o si differenziano in Treg. I peptidi presenti nel timo sono peptidi self che derivano da proteine ampiamente espresse nell’organismo e da alcune proteine la cui espressione è, invece, normalmente ristretta a particolari tessuti. Nei linfociti T immaturi, la principale conseguenza del riconoscimento di un antigene a elevata affinità causa apoptosi. Questo processo elimina i linfociti T autoreattivi e rappresenta il fenomeno della tolleranza centrale (per distinguerla dalla tolleranza periferica esercitata dai linfociti maturi nei tessuti periferici). L’eliminazione dei linfociti T autoreattivi immaturi può avvenire sia allo stadio di cellule doppio-positive (nella corticale timica) sia nei linfociti T singolo-positivi neoformati (nella midollare timica). Nella corticale avviene ad opera delle cTEC, coinvolte nel processo di selezione positiva, mentre nella midollare avviene ad opera di mTEC, DC e macrofagi. I timociti singolo-positivi sono richiamati nella midollare timica da chemochine. Qui, le cellule epiteliali della midollare timica esprimono una proteina nucleare detta AIRE, che promuove l’espressione a bassi livelli di antigeni ristretti, normalmente espressi solo in particolari organi periferici. [Una mutazione nel gene AIRE causa una sindrome autoimmune poliendocrina o poliendocrinopatia 1] Il principale meccanismo che regola la selezione negativa nel timo è l’induzione della morte per apoptosi. A differenza della morte per deprivazione (per assenza di segnali di sopravvivenza causa mancata selezione positiva), nella selezione negativa il riconoscimento a elevata affinità dell’antigene da parte del TCR genera segnali che promuovono l’apoptosi dei timociti, tramite l’espressione della proteina pro-apoptotica Bim. NB. È possibile che mentre deboli segnali promuovano la selezione positiva dei timociti e segnali intensi la selezione negativa, i segnali di intensità intermedia potrebbero portare alla differenziazione dei linfociti T CD4+ regolatori (Treg), che prevengono le reazioni autoimmuni e mantengono la tolleranza periferica. 37 • SINAPSI IMMUNOLOGICA: Il riconoscimento dei complessi peptide-MHC da parte del TCR causa il reclutamento di diverse proteine di membrana e citosoliche nel sito di contatto tra il linfocita T e l’APC. Questa regione di contatto è detta sinapsi immunologica o SMAC. Le molecole che traslocano verso il centro della sinapsi includono il complesso del TCR (TCR, CD3 e catene ζ), i co-recettori CD4 o CD8, i recettori per le molecole costimolatorie (come CD28), enzimi come la protein-chinasi θ (PKC-θ) e le proteine adattatrici citoplasmatiche associate alle code dei recettori. Nella regione centrale della sinapsi c-SMAC la distanza tra la membrana plasmatica del linfocita e dell’APC è di circa 15 nm. Le integrine invece rimangono nelle regioni periferiche della sinapsi e stabilizzano il legame del linfocita T all’APC, formando la p-SMAC, in cui le due membrane distano circa 40 nm. Molte molecole coinvolte nella trasduzione si localizzano prima in raft lipidici sulla membrana plasmatica, dove inizia l’attivazione del TCR e dei recettori co-stimolatori che portano ad un riarrangiamento del citoscheletro, processo che permette ai raft di unirsi a formare la sinapsi immunologica. La sinapsi rappresenta un punto in cui è facilitato l’ingaggio ripetuto dei TCR da parte dei pochi complessi peptide-MHC presenti sull’APC. Questo permette quindi alle poche molecole MHC di promuovere comunque una trasduzione del segnale protratta ed efficace. La sinapsi permette un rilascio “direzionato” del contenuto di granuli secretori dal linfocita T verso l’APC o la cellula bersaglio che prende parte alla sinapsi stessa. Anche le interazioni CD40L-CD40 sono facilitate dall’accumulo di queste due proteine a livello della sinapsi immunologica. Inoltre, nelle regioni delle sinapsi immunologiche anche alcune citochine vengono secrete in modo direzionale verso la cellula che sta presentando l’antigene al linfocita T. La c-SMAC rappresenta anche il sito preferenziale di degradazione delle molecole coinvolte nella trasduzione del segnale, principalmente mediante ubiquitinazione e degradazione in endosomi-lisosomi, per spegnere l’attivazione dei linfociti T. • RECETTORI CO-STIMOLATORI: I segnali co-stimolatori sono generati dai recettori che riconoscono ligandi sulle APC e cooperano con i segnali del TCR per promuovere l’attivazione dei linfociti T (“teoria dei due segnali” per l’attivazione dei linfociti T). Il segnale trasdotto dal TCR e dai co-recettori in seguito al riconoscimento di un complesso MHC-peptide è il “segnale 1”. Tuttavia, affinché l’attivazione dei linfociti T sia massimale, è necessario che l’antigene peptidico sia già stato riconosciuto dalle cellule dell’immunità innata promuovendo l’espressione, da parte delle APC, dei ligandi dei recettori co-stimolatori che rappresentano un segnale di pericolo detto “segnale 2”. Quindi, per avere la massima attivazione dei linfociti T, il riconoscimento degli antigeni deve essere combinato con la percezione di una situazione di pericolo. Due famiglie principali: ➢ B7 e CD28. Le molecole costimolatorie B7-1 e B7-2 sono glicoproteine integrali di membrana espresse dalle APC attivate da prodotti microbici che legano i TLR, o da citochine, quali l’IFN-γ prodotto durante le risposte antimicrobiche; mentre il recettore CD28 è espresso dai linfociti T ed è un omodimero la cui porzione citoplasmatica contiene residui tirosinici che legano proteine adattatrici e secondi messaggeri. L’interazione CD28-B7 è un esempio del ruolo dell’immunità innata nel potenziare la risposta adattativa. Gli adiuvanti sono prodotti microbici che stimolano l’espressione di molecole costimolatorie sulle APC. I segnali innescati dall’attivazione di CD28 agiscono in cooperazione con il riconoscimento dell’antigene per promuovere la sopravvivenza, la proliferazione e la differenziazione dei linfociti T antigene-specifici. I segnali co-stimolatori attivati da CD28 amplificano anche le vie di trasduzione a valle del TCR: la chinasi PI3K (nella coda citoplasmatica di CD28) attiva la chinasi Akt, che permette la sopravvivenza del linfocita T e attiva le vie di trasduzione del segnale delle MAP chinasi e della PLCγ, portando all’espressione dei fattori NF-κB e AP-1 causando l’espressione di molecole anti-apoptotiche (Bcl-2, Bcl-XL) che aumentano la sopravvivenza cellulare, la produzione di citochine come IL-2 e la differenziazione dei linfociti T naïve. ➢ ICOS e ICOS-L. Il ligando di ICOS (ICOSL) è espresso da DC, linfociti B e altre popolazioni cellulari. Il recettore ICOS gioca un ruolo essenziale nelle risposte anticorpali T-dipendenti e in modo particolare nelle reazioni che avvengono nei centri germinativi, essendo necessario per lo sviluppo e l’attivazione dei linfociti T helper follicolari (THF) che sono essenziali per la formazione dei centri germinativi. 40 dell’antigene stimolano il differenziamento TH1 attivando i fattori trascrizionali T-bet, STAT1 e STAT4. Una volta differenziati, i linfociti TH1 cominciano a secernere l’IFN-γ, amplificando ulteriormente il differenziamento TH1 e favorendo la polarizzazione della risposta immunitaria. I linfociti T attivati possono potenziare la produzione di IL-12 tramite il legame del ligando CD40L (espresso dai linfociti attivati) al recettore CD40 (espresso dalle APC). La principale funzione dei linfociti TH1 è di attivare i macrofagi a fagocitare ed eliminare i microrganismi. L’attivazione dei macrofagi da parte dei TH1 è anche coinvolta nella reazione di ipersensibilità ritardata (DTH) e si associa allo sviluppo dei granulomi. Oltre all’IFN-γ, i linfociti TH1 producono TNF e chemochine che contribuiscono all’infiammazione, e rappresentano anche un’importante fonte di IL-10 (regolazione a feedback negativo delle risposte T). Le risposte TH1 sono sempre associate a un certo grado di danno tissutale dovuto ai prodotti microbicidi liberati da macrofagi e neutrofili attivati che non sono in grado di discriminare tra i patogeni e l’ospite. Interferone-γ (IFN-γ): è la principale citochina responsabile dell’attivazione dei macrofagi. È una proteina omodimerica della famiglia delle citochine di tipo II. Viene prodotta da linfociti CD4+ TH1, cellule natural killer (NK) e linfociti T CD8+. Le cellule NK secernono l’IFN-γ in risposta a molecole presenti sulla membrana di cellule infettate o alterate, oppure in risposta all’IL-12. I linfociti T invece producono IFN-γ in risposta al riconoscimento dell’antigene e tale effetto è potenziato da IL-12. Il recettore per l’IFN-γ è composto da due catene polipeptidiche omologhe, definite IFNγR1 e IFNγR2. L’IFN-γ lega le due catene recettoriali e ne induce la dimerizzazione. Vengono così attivate due protein chinasi, JAK1 e JAK2, associate alle catene recettoriali che attivano il fattore STAT1 che induce la trascrizione di diversi geni. L’IFN-γ oltre ad attivare i macrofagi promuove la differenziazione dei linfociti T CD4+ in cellule TH1 e inibisce lo sviluppo dei linfociti TH2 e TH17. Quest’azione serve ad amplificare la risposta TH1, come descritto precedentemente. Inoltre, stimola l’espressione di proteine che contribuiscono a una migliore presentazione dell’antigene e all’attivazione dei linfociti T (molecole MHC, il proteasoma e le molecole di co-stimolazione B7). Infine, promuove lo scambio isotipico verso alcune classi di IgG nei linfociti B, che legano i recettori Fcγ espressi dai fagociti e l’attivazione del complemento favorendo la fagocitosi. Attivazione classica dei macrofagi: L’attivazione dei macrofagi associata al potenziamento dell’attività microbicida viene definita attivazione classica dei macrofagi (in contrapposizione ad una via di attivazione alternativa che è invece promossa dalle citochine prodotte dai linfociti TH2). I linfociti TH1 attivano i macrofagi tramite i segnali generati dall’interazione CD40L-CD40 e la produzione di IFN-γ. I macrofagi attivati in modo classico sono chiamati M1. I segnali generati da CD40 attivano i fattori di trascrizione NF- κB e AP-1 e l’IFN-γ attiva il fattore STAT1. Questi fattori stimolano l’espressione di enzimi contenuti nei fagolisosomi, come l’ossido nitrico sintasi inducibile (iNOS) e l’assemblaggio dell’ossidasi fagocitica sulla membrana del fagolisosoma, responsabile della produzione di ROS. Tutti questi sono potenti agenti microbicidi prodotti dai macrofagi all’interno dei lisosomi e degradano il microrganismo ingerito solo dopo che il fagosoma si è fuso con il lisosoma, ma possono essere rilasciate anche nel tessuto circostante, dove possono uccidere i microrganismi extracellulari, ma possono anche rendersi responsabili dei danni tissutali. I macrofagi attivati dai linfociti TH1 (M1) stimolano l’infiammazione tramite la secrezione di citochine, come il TNF, l’IL-1, le chemochine e i mediatori lipidici a breve emivita (prostaglandine, leucotrieni e il fattore di attivazione piastrinica) che potenziano ulteriormente il reclutamento dei monociti. Inoltre, aumentano la propria efficienza come APC, grazie all’aumento dell’espressione di molecole MHC di classe II, molecole costimolatorie e citochine (IL-12) che stimolano la differenziazione dei linfociti T. ➢ Linfociti TH2: La differenziazione TH2 avviene in risposta agli elminti e agli allergeni ed è potenziata dalla citochina IL-4 (ma anche da IL-25, IL-33 e TSLP). L’IL-4 prodotta dai mastociti e dai linfociti TH2 stessi promuove ulteriormente la differenziazione TH2 attivando il fattore di trascrizione STAT6, che, in associazione ai segnali provenienti dal TCR, induce l’espressione di GATA-3, un fattore di trascrizione che stimola l’espressione dei geni delle citochine dei linfociti TH2. La funzione di difesa contro i parassiti dei linfociti TH2 dipende dall’IL-5, che attiva gli eosinofili, e dall’IL-13, che svolge diverse funzioni. L’IL-4 prodotta dai linfociti TH2 e dai mastociti attivati è in grado di legare anche il recettore di l’IL-13. Quando è prodotta dalle cellule TFH promuove lo scambio isotipico verso la classe IgE nei linfociti B, 41 principali effettori della difesa esercitata dagli eosinofili contro le infezioni da elminti e nelle allergie. Induce lo sviluppo dei linfociti TH2 e funziona da fattore di crescita per questi ultimi. Insieme all’IL-13, contribuisce a all’attivazione alternativa dei macrofagi, e sopprime l’attivazione classica dei macrofagi causata dall’IFN-γ. L’IL-4 e l’IL-13 stimolano la peristalsi del tratto gastrointestinale e l’IL-13 stimola anche la secrezione di muco contribuendo all’eliminazione dei microrganismi. Promuovono, inoltre, il reclutamento degli eosinofili, aumentando l’espressione di molecole di adesione e di chemochine. L’IL- 5 stimola la proliferazione e la differenziazione degli eosinofili e ne induce attivazione una volta maturi. Gli eosinofili attivati esprimono sulla loro superficie recettori specifici per il frammento Fc delle IgE e sono quindi in grado di legare ed eliminare i microrganismi (soprattutto elminti) opsonizzati da questi anticorpi. Attivazione alternativa dei macrofagi: l’IL-4 e l’IL-13 attivano i macrofagi a produrre quegli enzimi che catalizzano la sintesi del collagene e promuovono la fibrosi. I macrofagi alternativamente attivati, detti M2, producono citochine deputate alla risoluzione della risposta infiammatoria e al riparo dei tessuti, promuovono la cicatrizzazione e la fibrosi secernendo fattori di crescita che stimolano la proliferazione dei fibroblasti (come il fattore di crescita derivato dalle piastrine), la sintesi del collageno (come l’IL-13 e il TGF-β), e la formazione di nuovi vasi sanguigni o angiogenesi (come il fattore di crescita dei fibroblasti). ➢ Linfociti TH17: I linfociti TH17 sono principalmente coinvolti nel reclutamento di neutrofili e, in misura minore, di monociti in siti di infezione e infiammazione, fondamentali per l’eliminazione di batteri e funghi e altri microbi extracellulari che vengono solitamente uccisi dai fagociti. Lo sviluppo delle cellule TH17 è stimolato dalle citochine pro-infiammatorie IL-6, IL-1 e IL-23, che sono prodotte in risposta al riconoscimento di batteri e funghi (ad esempio il glucano dal recettore Dect-1) o alla fagocitosi di corpi apoptotici di cellule da essi infettate. Anche la citochina antinfiammatoria TGF-β promuove la risposta TH17. Il differenziamento TH17 è inibito dall’IFN-γ e dall’IL-4 e dipende dai fattori trascrizionali RORγt e STAT3, attivati da IL-6 e IL-1. I linfociti TH17 sono abbondanti nelle mucose, specialmente in quella gastrointestinale (grazie all’influenza del microambiente microbico locale). I linfociti TH17 promuovono il reclutamento nei siti di infezione dei leucociti, principalmente neutrofili (principale meccanismo di difesa verso i più comuni batteri e i funghi). Molte delle azioni proinfiammatorie di queste cellule dipendono soprattutto dalla produzione di IL-17, una citochina che promuove un’infiammazione caratterizzata da una forte componente neutrofilica. L’IL-1 stimola la produzione di chemochine e altre citochine che reclutano i neutrofili (e i monociti), aumenta la sintesi di G-CSF (che stimola le colonie di granulociti) e stimola la produzione di sostanze antimicrobiche (incluse le defensine) da parte di diversi citotipi. Le altre citochine prodotte dai linfociti TH17, oltre a IL-17, sono IL-22 (importante per l’integrità epiteliale delle mucose) e IL-21 (importante nell’attivazione dei linfociti B perché stimola la generazione di linfociti THF). ➢ Linfociti Treg: Possono derivare da linfociti CD4+ naïve che si differenziano nei linfonodi (Treg inducibili o iTreg), oppure possono originare direttamente nel timo (Treg naturali o nTreg). Il fattore responsabile della polarizzazione è FoxP3 che viene attivato principalmente dall’IL-2. Questi linfociti esprimono CTLA-4, uno dei checkpoint inibitori della risposta immunitaria. Il compito di queste cellule è infatti quello di inibire le risposte immunitarie, sia di tipo adattativo sia innato. Oltre ad esprimere CTLA-4, producono l’IL-10 e il TGF-β, citochine anti-infiammatorie, ed esprimono il recettore ad alta affinità per IL-2, grazie al quale sequestrano grandi quantità di IL-2, diminuendone la disponibilità nel microambiente. • DIFFERENZIAZIONE LINFOCITI T CD8+: La differenziazione dei linfociti T CD8+ in CTL effettori prevede l’acquisizione dei meccanismi necessari per l’uccisione delle cellule bersaglio. Nel citoplasma dei CTL differenziati si trovano numerosi granuli contenenti proteine la cui funzione è uccidere le cellule bersaglio. I CTL differenziati sono in grado di secernere citochine, principalmente IFN-γ, in grado di attivare i fagociti. Sono necessari i fattori di trascrizione T-bet (implicato anche nei linfociti TH1) e Eomesodermina (correlato a T-bet), che contribuiscono all’espressione di perforina, granzimi e citochine (tra cui l’IFN-γ). L’attivazione dei linfociti T CD8+ naïve richiede il riconoscimento dell’antigene e di secondi segnali, con due caratteristiche peculiari: spesso dipende dalla cross-presentazione e può anche richiedere l’intervento dei linfociti T CD4+. 42 I CTL eliminano i microbi intracellulari principalmente uccidendo le cellule infettate. Oltre a questo, i linfociti T CD8+ secernono IFN-γ e in alcuni casi IL-17. Ciò determina il loro coinvolgimento anche nell’attivazione classica dei macrofagi nell’ambito delle risposte infiammatorie protettive e nelle reazioni di ipersensibilità. In alcune malattie infettive (come HBV e HCV), l’uccisione da parte dei CTL delle cellule infettate è causa di un danno tissutale. I CTL sono anche importanti effettori dell’immunità nei confronti dei tumori e sono coinvolti nel danno tissutale che si osserva in alcune malattie autoimmuni e al rigetto dei tessuti trapiantati. Cross-presentazione: La via di presentazione dell’antigene su molecole MHC di classe I richiede la presenza di antigeni proteici citosolici tali che possano essere degradati dal proteasoma ed entrare nel reticolo endoplasmatico tramite il trasportatore TAP. La maggior parte dei virus non è in grado di infettare le DC, ma DC specializzate possono ingerire cellule infettate o cellule tumorali e trasferire i relativi antigeni nel citosol dove vengono processati per la presentazione ai linfociti T CD8+ su MHC di classe I. inoltre, le DC forniscono anche i segnali di co-stimolazione attraverso diversi tipi di molecole, tra cui ad esempio le molecole B7. Ruolo dei linfociti T helper: In presenza di forte attivazione dell’immunità innata, o nel caso in cui le APC siano direttamente infettate, l’intervento dei linfociti T helper potrebbe non essere necessario. È necessario invece nelle risposte dei linfociti T CD8+ nei confronti di infezioni virali latenti, nelle risposte verso organi trapiantati e in quelle contro cellule tumorali (tutte caratterizzate da una debole attivazione dell’immunità innata). Sembra che i linfociti T helper siano importanti per la generazione dei linfociti T CD8+ della memoria. I linfociti T helper producono citochine che stimolano la differenziazione dei linfociti T CD8+, esprimono il ligando di CD40 che si lega a CD40 espresso dalle DC che presentano l’antigene (licensing) rendendole più efficienti nell’attivare i linfociti T CD8+, e aumentando in parte l’espressione di molecole co-stimolatorie. Ruolo delle citochine: L’IL-2 prodotta dai linfociti T CD8+ o dai linfociti T helper promuove la proliferazione dei linfociti T CD8+ e la loro differenziazione in CTL e cellule della memoria. I CTL dopo l’attivazione esprimono anche momentaneamente elevati livelli della catena α del recettore per IL-2. L’IL-12 e gli IFN di tipo I stimolano la differenziazione in CTL effettori e possono essere prodotte da diverse popolazioni di DC durante la risposta immunitaria innata a infezioni virali e alcune infezioni batteriche (sono coinvolte nella differenziazione dei linfociti T CD4+ in linfociti TH1). Le citochine stimolano l’espressione dei fattori di trascrizione T-bet (per i linfociti TH1 e CTL) e eomesodermina per CTL. L’IL-15 è importante per la sopravvivenza dei linfociti CD8+ della memoria e può essere prodotta da molti tipi cellulari, incluse le DC, e l’IL-21 prodotta dai linfociti T helper influisce nella produzione di linfociti CD8+ effettori e della memoria. Esaurimento funzionale dei CTL: In alcune infezioni virali croniche le risposte effettrici dei CTL si riducono nel tempo, un fenomeno definito esaurimento funzionale, in cui la risposta effettrice viene progressivamente spenta. Si sviluppa in condizioni di persistenza dell’antigene. Una volta divenuti esausti, i linfociti T CD8+ presentano numerosi difetti funzionali che ne compromettono la capacità di eliminare le infezioni, tra cui una ridotta proliferazione, una ridotta produzione di IFN-γ e una scarsa attività citotossica. Queste cellule esprimono, inoltre, aumentati livelli di recettori inibitori, in particolare PD-1 (ma anche CTLA-4 e altri). Inoltre, pur esprimendo i fattori di trascrizione T-bet e eomesodermina, rimangono funzionalmente inattivi. Questo fenomeno può contribuire anche alla cronicizzazione di alcune infezioni virali nell’uomo (come HIV e HCV) e alla capacità di alcuni tumori di eludere la risposta immunitaria. L’esaurimento funzionale dei linfociti T citotossici potrebbe quindi essersi evoluto per ridurre il danno tissutale causato dalla cronicizzazione. Meccanismi di citotossicità: I CTL uccidono le cellule bersaglio che esprimono molecole MHC di classe I associato all’antigene che inizialmente ha causato la differenziazione dei linfociti CD8+ naïve. L’uccisione da parte dei CTL è strettamente dettata dalla specificità per l’antigene, salvaguardando quindi le cellule adiacenti. Questa selettività d’azione viene ottenuta grazie alla secrezione localizzata delle molecole citotossiche, nella sinapsi immunologica che si forma tra il CTL e la cellula bersaglio. Il processo di uccisione consiste quindi nel riconoscimento dell’antigene, seguito dall’attivazione del CTL con il rilascio del “colpo letale” che causa la morte della cellula bersaglio e quindi il distacco del CTL dalla cellula bersaglio. In particolare: 45 La co-espressione di IgM e IgD è accompagnata dall’acquisizione della competenza funzionale e dalla capacità di ricircolare e perciò i linfociti B IgM+IgD+ sono detti linfociti B maturi. I linfociti B follicolari sono anche chiamati linfociti B ricircolanti perché passano da un organo linfoide all’altro, stabilendosi nei follicoli. I linfociti B follicolari naïve sopravvivono per un breve periodo di tempo, a meno che non incontrino l’antigene. Infatti, la loro sopravvivenza dipende sia dai segnali generati dal BCR in seguito all’attivazione da parte dell’antigene sia da stimoli, quali la citochina BAFF. - Linfociti B-1: originano dalle HSC del fegato fetale e si localizzano nel peritoneo e nelle mucose. Esprimono un repertorio di geni V limitato e con minore diversità giunzionale (anche a causa della mancata espressione di TdT). I linfociti B-1 secernono anticorpi IgM naturali frequentemente diretti contro polisaccaridi e lipidi di origine microbica, lipidi ossidati e contro gli antigeni del sistema AB0. - Linfociti B della zona marginale: sono localizzati nella milza, in prossimità del seno marginale, hanno una limitata diversificazione e possono rispondere ad antigeni polisaccaridici producendo anticorpi naturali. I linfociti B della zona marginale esprimono IgM in assenza di IgD e in presenza di elevati livelli del co-recettore CR2 (che li distingue dai linfociti B follicolari). ➢ Selezione del repertorio dei linfociti B maturi: Il riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti B non presuppone la restrizione per MHC e non è quindi possibile identificare un processo di selezione positivo analogo a quello dei linfociti T. In ogni caso, solo i linfociti B che esprimono Ig di membrana funzionanti ricevono segnali da parte del BCR, necessari per la sopravvivenza dei linfociti B immaturi. I linfociti B immaturi che riconoscono antigeni autoreattivi con grande affinità sono spesso indotti a modificare la loro specificità mediante un processo di editing recettoriale. Il riconoscimento di antigeni self da parte dei linfociti B immaturi causa la riattivazione dei geni RAG e il riarrangiamento e la produzione di una nuova catena leggera dell’Ig, consentendo alla cellula di esprimere un recettore diverso. Se il processo di editing non riesce a generare un riarrangiamento della catena leggera κ produttiva “in- frame” su entrambi i cromosomi, i linfociti B immaturi possono tentare di riarrangiare la catena leggera λ prima su un cromosoma e poi sull’altro. Se nemmeno questo ha successo, possono morire per apoptosi, (selezione negativa). Sia l’editing recettoriale sia la selezione negativa sono responsabili del mantenimento del fenomeno della tolleranza centrale dei linfociti B verso gli autoantigeni presenti nel midollo osseo. Una volta avvenuta la transizione a linfocita B maturo IgM+IgD+, il riconoscimento dell’antigene non induce più apoptosi né editing recettoriale, bensì proliferazione e differenziazione. I linfociti B maturi che riconoscono antigeni con alta affinità nei tessuti linfoidi secondari innescano la risposta umorale. I linfociti B follicolari sono responsabili della maggior parte delle risposte T-dipendenti contro antigeni proteici. • ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI B: A seconda della natura dell’antigene le risposte umorali si distinguono in risposte T-dipendenti agli antigeni proteici, che necessitano dell’intervento dei linfociti T helper e risposte T-indipendenti agli antigeni multivalenti che possiedono sequenze ripetute (polisaccaridi, lipidi). Le risposte anticorpali verso antigeni proteici si differenziano a livello qualitativo e quantitativo in risposte primarie, che risultano dall’attivazione di linfociti B naïve, e risposte secondarie che sono, invece, dovute a stimolazione di cloni di linfociti B della memoria, hanno sviluppo più rapido e producono una maggiore quantità di anticorpi. ➢ Riconoscimento dell’antigene: L’antigene presentato ai linfociti B è integro, nella conformazione nativa, non processato dalle APC. La maggior parte degli antigeni è trasportata nei linfonodi attraverso i vasi linfatici afferenti. Gli antigeni solubili possono raggiungere i follicoli B attraverso condotti tra il seno sottocapsulare e i follicoli. I macrofagi del seno sottocapsulare catturano i microbi di grandi dimensioni e li trasferiscono nei follicoli B. Gli antigeni troppo grandi per entrare nei condotti sottocapsulari e per essere catturati dai macrofagi, si pensa che siano catturati nella midollare da un tipo di DC residenti e trasportati nei follicoli B. Gli antigeni che fanno parte di immunocomplessi possono legare i recettori del complemento (come il CR2) espressi dai linfociti B della zona marginale per essere trasferiti ai linfociti B dei follicoli nella milza, ma possono anche legare il CR2 espresso dalle FDC e gli antigeni presentati ai linfociti B. Gli antigeni polisaccaridici possono essere catturati dai macrofagi della zona marginale. 46 ➢ Attivazione dei linfociti B: Il complesso recettoriale del BCR è composto da Ig di membrana associate alle proteine Igα e Igβ. Il BCR svolge due ruoli cruciali nell’attivazione dei linfociti B. In primo luogo, la sua aggregazione, provocata dal legame con l’antigene, genera i segnali per l’attivazione della cellula. L’intensità di questi segnali è maggiore nel caso di antigeni multivalenti T-indipendenti rispetto a quelli prodotti nel caso di antigeni T-dipendenti. La trasduzione del segnale inizia a opera di proteine della famiglia delle chinasi Src che fosforilano le tirosine dei domini ITAM delle catene Igα e Igβ. L’antigene legato al BCR viene internalizzato e veicolato agli endosomi dove, se è proteico, viene processato in peptidi che verranno presentati sulla superficie dei linfociti B per il riconoscimento da parte dei linfociti T. Per ottenere una risposta completa necessita di altri stimoli, come le proteine del complemento, i PRR e, nel caso degli antigeni proteici, i linfociti T helper. L’attivazione dei linfociti B è facilitata dal co-recettore CR2, che riconosce frammenti C3d associati covalentemente all’antigene o dell’immunocomplesso. Attivando i TLR, i prodotti microbici attivano i linfociti B direttamente oppure indirettamente (le DC attivate dai TLR attivano i linfociti T helper che stimolano le risposte T-dipendenti; oppure le cellule mieloidi attivare dai TLR producono APRIL e BAFF che promuovono le risposte T-indipendenti). - antigeni T-indipendenti: come i polisaccaridi e i glicolipidi, contengono epitopi identici e ripetuti su ciascuna molecola. Quindi legano e inducono l’aggregazione di un numero elevato di molecole BCR e avviano le risposte dei linfociti B nonostante non siano riconosciuti dai linfociti T helper; - antigeni T-dipendenti: sono globulari di natura proteica e quindi possiedono un epitopo monovalente, non possono indurre un’efficace aggregazione del BCR né attivare in modo efficiente il recettore, tanto da non essere in grado di attivare la proliferazione e la differenziazione dei linfociti B. Tuttavia, questi segnali, anche se deboli, possono favorire la sopravvivenza del linfocita B, mutarne il profilo di espressione dei recettori per le chemochine e anche promuovere l’endocitosi dell’antigene. • RISPOSTE ANTICORPALI CONTRO ANTIGENI PROTEICI T-DIPENDENTI: Negli organi linfoidi secondari, gli antigeni proteici sono riconosciuti in modo indipendente dai linfociti B e T e, una volta attivati, i due tipi cellulari interagiscono per dare inizio alle risposte umorali. I linfociti T CD4+ naïve si attivano nelle aree T in seguito al riconoscimento degli antigeni (processati e associati sotto forma di peptidi lineari alle molecole MHC) presentati dalle DC. I linfociti B naïve si attivano nei follicoli inseguito al riconoscimento degli stessi antigeni (nella loro conformazione nativa). A questo punto, i linfociti T helper e i linfociti B attivati si dirigono uno verso l’altro per incontrarsi ai bordi dei follicoli e dare inizio alla risposta anticorpale. Alcuni ritornano nei follicoli per dare origine ai centri germinativi, responsabili di risposte anticorpali più specializzate. Co-localizzazione dei linfociti T e B: L’attivazione contemporanea dei linfociti B e T da parte di un antigene proteico provoca cambiamenti che permettono la co-localizzazione delle due cellule. Perciò, linfociti T helper e linfociti B attivati modificano radicalmente il profilo di espressione dei recettori chemochinici: i linfociti T helper diminuiscono l’espressione del recettore CCR7 e aumentano l’espressione di CXCR5 (questo li spinge a migrare verso il follicolo in risposta a CXCRL13 secreto dalle FDC e altre cellule follicolari); i linfociti B attivati riducono l’espressione del recettore CXCR5 e aumentano l’espressione di CCR7 (questo li spinge a migrare verso le aree T in risposta al gradiente di concentrazione ligandi di CCR7, CCL19 e CCL21). Nel loro insieme tutti questi eventi determinano l’attrazione dei linfociti T e B attivati l’uno verso l’altro. Presentazione dell’antigene da parte dei linfociti B: Gli antigeni proteici riconosciuti dal BCR vengono endocitati e processati per generare peptidi da caricare su molecole MHC di classe II e presentare ai linfociti T helper. I peptidi presentati dai linfociti B ai linfociti T helper sono gli stessi che erano stati inizialmente presentati dalle DC al linfocita T CD4+ naïve nelle aree T linfonodali. Il BCR riconosce con elevata affinità un epitopo della proteina nativa, ciò permette ai linfociti B specifici di presentare in modo più efficiente i peptidi. Inoltre, possono interagire con migliore efficienza con i linfociti T helper specifici per lo stesso antigene. I linfociti T infatti riconoscono un epitopo lineare, che deriva dalla proteina nativa processata per proteolisi e che lega molecole MHC di classe II. tuttavia, gli anticorpi prodotti sono specifici per epitopi conformazionali dell’antigene, e questo è indipendente dal fatto che i linfociti T helper riconoscano solo epitopi lineari. 47 Effetto aptene-carrier: Gli apteni sono molecole di piccole dimensioni riconosciute da anticorpi e di per sé non immunogeniche. Tuttavia, se coniugati a proteine, che servono da carrier, il coniugato è in grado di indurre una risposta anticorpale verso l’aptene. Le risposte anticorpali ai coniugati aptene-carrier richiedono la presenza di linfociti B, specifici per l’aptene, e linfociti T helper, specifici per il carrier proteico, l’aptene e il carrier devono essere fisicamente legati, e l’interazione è ristretta per i linfociti B che esprimono molecole MHC di classe II identiche a quelle che erano state riconosciute inizialmente dai linfociti T naïve sulle DC. Il linfocita B specifico per l’aptene lega il coniugato aptene-carrier attraverso l’aptene, lo endocita, lo processa e presenta i peptidi derivati dal carrier ai linfociti T helper specifici. Questo è alla base dello sviluppo di vaccini coniugati. Interazione CD40L-CD40: In seguito all’attivazione, i linfociti T helper cominciano a esprimere il ligando di CD40 che lega il suo recettore CD40 espresso dai linfociti B attivati e ne induce la differenziazione e la proliferazione e a livello dei foci extra-follicolari e successivamente nei centri germinativi. Il recettore CD40 è espresso costitutivamente sulla superficie dei linfociti B, mentre il ligando CD40L viene espresso sulla superficie dei linfociti T helper nelle fasi precoci di attivazione da parte dell’antigene e delle molecole co- stimolatorie. Quando i linfociti T helper attivati si legano ai linfociti B che presentano l’antigene, CD40L interagisce con CD40 attivando una via di trasduzione del segnale a valle di CD40 che induce il reclutamento di proteine citosoliche TRAF e la traslocazione nucleare di fattori di trascrizione come NF-κB e AP-1 che stimolano la proliferazione dei linfociti B e aumentano la sintesi e la secrezione delle immunoglobuline. [Mutazioni a carico del gene di CD40L sono responsabili della sindrome da iper-IgM legata al cromosoma X.] Successivamente all’interazione dei linfociti B con i linfociti T helper all’interfaccia tra i follicoli e le aree T, l’attivazione dei linfociti B può avvenire all’esterno dei follicoli in foci extra-follicolari o nei centri germinativi. Foci extra-follicolari: L’attivazione dei linfociti B nei foci extrafollicolari fornisce una risposta anticorpale veloce agli antigeni proteici e prepara alla successiva reazione dei centri germinativi. Infatti, genera anticorpi a bassa affinità che entrano in circolo per limitare la diffusione di un’infezione. I linfociti B attivati tramite CD40L nei foci extrafollicolari vanno incontro a scambio isotipico. Le cellule generate nei foci extrafollicolari che producono anticorpi, tra cui i plasmablasti e le plasmacellule tissutali, sono prevalentemente cellule a breve sopravvivenza, che non acquisiscono la capacità di migrare in siti distali. La limitata quantità di anticorpi prodotta nei foci può contribuire alla formazione di immunocomplessi che vengono catturati dalle FDC nei follicoli degli organi linfoidi secondari, che producono chemochine che attirano un limitatissimo numero di linfociti B attivati dai foci extrafollicolari al follicolo, per dare inizio alla reazione del centro germinativo. Reazione del centro germinativo: I centri germinativi si sviluppano nei 4-7 giorni successivi all’inizio della risposta dei linfociti B. Un numero limitato di linfociti B che si erano attivati nei foci extrafollicolari ritorna nei follicoli per dar luogo a un rapido processo proliferativo nel centro germinativo, dove è presente una zona scura popolata da linfociti B proliferanti che danno origine a cloni costituiti da linfociti B destinati a ulteriori processi di differenziazione e selezione nella zona chiara, dove sono presenti le FDC e i linfociti THF. Il contorno costituito da linfociti B naïve che circonda il centro germinativo è detto zona mantellare. Cellule dendritiche follicolari (FDC): Esprimono recettori per il complemento (CR1, CR2 e CR3) e recettori per Fc (FcR), tutti coinvolti nella stimolazione e nella selezione dei linfociti B del centro germinativo. Inoltre, presentano lunghi prolungamenti citoplasmatici che formano l’intelaiatura del centro germinativo stesso. Linfociti T helper follicolari (TFH): Nei 4-7 giorni successivi al riconoscimento dell’antigene, i linfociti B attivati promuovono la differenziazione di alcuni dei linfociti T attivati in linfociti TFH. Questi sono attirati all’interno dei follicoli in risposta a CXCL13, una chemochina che lega il recettore CXCR5 da loro espresso. Oltre a CXCR5, i linfociti TFH esprimono il recettore ICOS, il PD-1, l’IL-21 e il fattore di trascrizione Bcl-6. La differenziazione dei linfociti TFH necessita di due fasi: l’attivazione dei linfociti CD4+ T naïve da parte delle APC e la successiva attivazione da parte dei linfociti B. Una forte attivazione del TCR da parte delle DC promuove l’espressione del repressore trascrizionale Bcl-6 con conseguente riduzione dell’espressione IL-2Rα e la differenziazione verso TFH; alcuni linfociti T attivati cominciano a esprimere anche il recettore CXCR5. 50 • RISPOSTE ANTICORPALI AGLI ANTIGENI T-INDIPENDENTI: Gli antigeni T-indipendenti (TI) sono antigeni non proteici, come i polisaccaridi, i lipidi e gli acidi nucleici stimolano la produzione di anticorpi in assenza del coinvolgimento dei linfociti T helper. Gli anticorpi prodotti in assenza della cooperazione dei linfociti T sono generalmente caratterizzati da bassa affinità e sono rappresentati principalmente da IgM. I linfociti B della zona marginale rispondono ai polisaccaridi e si differenziano in plasmacellule a breve sopravvivenza che producono IgM. I linfociti B-1 localizzati nel peritoneo e nelle mucose rispondono anch’essi agli antigeni TI. Le risposte anticorpali agli antigeni TI si generano principalmente a livello della milza, della cavità peritoneale e delle mucose. I più importanti antigeni TI sono i polisaccaridi, i glicolipidi e gli acidi nucleici. Questi antigeni non possono essere processati in MHC e quindi riconosciuti dai linfociti T helper, ma la maggior parte di questi sono molecole polivalenti composte da molteplici epitopi antigenici identici e ripetuti, in grado di promuovere efficientemente l’aggregazione delle Ig di membrana attivando i linfociti B anche in assenza dei linfociti T. Inoltre, molti polisaccaridi attivano il sistema del complemento attraverso la via alternativa o la via lectinica, generando il frammento C3d, che può essere riconosciuto dal recettore CR2. Molti polisaccaridi che compongono la parete cellulare batterica sono antigeni TI e in questi casi l’immunità umorale è il principale meccanismo di difesa dell’ospite verso le infezioni da parte di questi microrganismi. Gli antigeni TI contribuiscono inoltre a stimolare la produzione di anticorpi naturali, presenti fisiologicamente in circolo e apparentemente prodotti senza una riconoscibile esposizione all’antigene, probabilmente prodotti dai linfociti B-1 peritoneali, stimolati dai batteri che colonizzano il tratto gastrointestinale. Gli anticorpi anti-AB0 sono anticorpi naturali che riconoscono antigeni di gruppo ematico espressi sulla superficie degli eritrociti. • FEEDBACK ANTICORPALE: Le IgG bloccano l’attivazione dei linfociti B formando dei complessi con l’antigene che si possono legare al recettore FcγRIIB, il cui dominio citoplasmatico contiene un dominio inibitorio ITIM, che viene fosforilato nei residui di tirosina, formando un sito di attacco per la fosfatasi SHIP che bloccando la cascata di trasduzione del segnale del BCR inibisce la risposta del linfocita B all’antigene. Sistema del complemento Il sistema del complemento è costituito da numerose proteine solubili e di membrana, che interagiscono tra loro e con altre componenti del sistema immunitario. Le proteine del complemento sono presenti nel torrente circolatorio in forma di precursori inattivi, che vengono attivati solo in particolari condizioni. Il sistema del complemento è attivato da microrganismi e anticorpi legati a microrganismi o ad altri antigeni. L’attivazione del complemento avviene tramite la proteolisi sequenziale delle sue diverse componenti, che porta all’assemblaggio di complessi enzimatici dotati volta di attività proteolitica. Il processo di attivazione sequenziale degli zimogeni avviene con un meccanismo a cascata proteolitica che consente una straordinaria e rapida amplificazione. La completa attivazione del sistema del complemento è limitata alla superficie del microrganismo, infatti le componenti se rimangono solubili sono inattive, evitando che i suoi effetti si estendano ad altri distretti o al circolo sanguigno. I prodotti attivi della cascata del complemento stimolano i processi infiammatori. L’attivazione del complemento è inibita da proteine espresse sulla membrana delle cellule dell’ospite, ma non su quella dei microrganismi. • VIE DI ATTIVAZIONE DEL COMPLEMENTO: Vi sono tre maggiori vie di attivazione del complemento: ➢ Via classica, attivata da alcuni anticorpi a seguito della loro aggregazione da parte di antigeni multivalenti; ➢ Via alternativa, attivata da alcuni componenti della superficie microbica in assenza di anticorpi; ➢ Via lectinica, attivata da una lectina in seguito al legame ai residui di mannosio sulla superficie microbica. NB. La via alternativa e quella lectinica, devono essere considerate risposte immunitarie innate, mentre la via classica rappresenta un meccanismo effettore dell’immunità umorale adattativa. Le vie di attivazione del complemento, sebbene differiscano nel processo di attivazione, portano tutte alla generazione di complessi enzimatici in grado di clivare il frammento C3, che è la componente più abbondante del complemento. 51 ➢ Via alternativa: Di norma, la frazione C3 nel plasma è sottoposta a una lenta (1-2% all’ora) ma continua degradazione (“tickover”) che genera il frammento C3b. Il frammento C3 contiene un gruppo tioesterico reattivo, ma circondato (perciò inaccessibile) da un più ampio dominio tioesterico. Quando viene tagliato, il C3b subisce modifiche conformazionali del dominio tioesterico che espongono il gruppo tioesterico reattivo. Una piccola quantità di C3b può quindi legarsi covalentemente alla superficie di tutte le cellule, compresi i microrganismi eventualmente presenti in circolo. Tale legame avviene a livello del gruppo tioesterico di C3b che reagisce con gruppi aminici o idrossilici presenti in proteine o polisaccaridi delle superfici cellulari, formando legami covalenti aminici o esterici. Se non si formano, il C3b rimane in fase fluida e il gruppo tioesterico reattivo viene idrolizzato bloccando l’attivazione del complemento. Oltre al gruppo tioesterico reattivo, il C3b espone anche un sito di legame per la proteina plasmatica fattore B, che si lega alla proteina C3b sua volta legata covalentemente alla superficie della cellula. Appena legatosi alla proteina C3b, il fattore B viene tagliato a opera della serina proteasi plasmatica fattore D, rilasciando un piccolo frammento Ba e originando al contempo un frammento Bb più grande che rimane legato al frammento C3b. Il complesso C3bBb rappresenta la C3 convertasi della via alternativa, che taglia massicciamente la frazione C3, innescando un’amplificazione che genera quantità sempre maggiori di C3b. Un’altra proteina della via alternativa, la properdina, può legarsi al complesso C3bBb stabilizzandolo. È secreta dai neutrofili attivati (ma anche da macrofagi e alcuni linfociti T) ed è l’unico regolatore positivo. Il frammento C3b generato dalla C3 convertasi della via alternativa può legarsi alla C3 convertasi stessa. Ciò porta a formare un complesso C3bBb3b (contenente un frammento Bb e due frammenti C3b), che agisce da C5 convertasi della via alternativa tagliando la frazione C5 e innescando le fasi terminali. ➢ Via classica: La via classica è avviata dal legame della frazione C1 ai siti di legame per il complemento degli anticorpi (domini CH2 delle IgG, soprattutto IgG1 e IgG3, e domini CH3 delle IgM) complessati all’antigene. La frazione C1 è un complesso proteico multimerico di grandi dimensioni composto da una subunità C1q, deputata al legame con l’anticorpo, e dalle subunità C1r e C1s, dotate di attività proteasica. - C1q: ha una struttura simile a un ombrello, è composta da 6 catene disposte radialmente, ognuna con una testa globulare, connesse a uno stelo centrale strutturalmente simile al collageno. L’esamero C1q deve legare specificamente le regioni Fc delle catene pesanti μ e alcune catene pesanti γ. Solo più anticorpi legati ad un antigene multivalente e non i singoli anticorpi liberi circolanti possono attivare la via classica del complemento. Ciò accade perché ogni regione Fc possiede un solo sito di legame per la C1q, mentre la C1q richiede l’interazione con almeno due porzioni Fc per attivarsi. Poiché ogni IgG possiede solo una regione Fc, è necessario che le IgG siano aggregate; le IgM libere e quelle circolanti nel plasma, sebbene siano pentameriche, non legano la C1q, poiché in questa configurazione le 5 regioni Fc delle IgM sono inaccessibili alla C1q, ma se legate ad un antigene, le IgM subiscono una modificazione conformazionale che espone le porzioni Fc alla subunità C1q permettendone il legame. Le IgM sono quindi più efficienti delle IgG nell’attivare il complemento. - C1r e C1s: sono serine proteasi organizzate a formare un tetramero C1r2-C1s2 contenente due molecole di ciascuna subunità. Il legame di due o più teste globulari della subunità C1q alle regioni Fc delle IgG o IgM attiva la subunità C1r, che attiva mediante taglio proteolitico la subunità C1s. A sua volta, C1s attivato taglia il frammento C4, generando un frammento C4a più piccolo, rilasciato in fase fluida, e un frammento C4b più grande, che ha omologie strutturali con il frammento C3b, cioè un gruppo tioesterico capace di formare legami esterici o amidici con la superficie dell’antigene. Il legame covalente del frammento C4b garantisce che la via prosegua solo a stretto contatto con la superficie. Il frammento C2 tende a legarsi al frammento C4b. Così C2 viene tagliata dalla subunità C1s generando un frammento solubile C2b e un frammento più grande, C2a, che rimane associato a C4b sulla superficie. Il complesso C4b2a rappresenta la C3 convertasi della via classica, capace di tagliare la frazione C3. Il frammento C3b può amplificare la via alternativa oppure legarsi alla C3 convertasi della via classica generando il complesso C4b2a3b che agisce da C5 convertasi della via classica, tagliando la frazione C5. 52 ➢ Via lectinica: Si attiva in assenza di anticorpi a partire dall’interazione dei polisaccaridi microbici con le lectine circolanti, come la lectina legante il mannosio (MBL) o le ficoline, che fanno parte della famiglia delle collectine e da un punto di vista strutturale ricordano la subunità C1q. La lectina MBL contiene un dominio N-terminale simile al collageno e all’estremità C-terminale un residuo di riconoscimento lectinico. Le ficoline hanno il dominio N-terminale simile al collageno e uno C-terminale simile al fibrinogeno. Il dominio lectinico della MBL si lega ai residui di mannosio dei polisaccaridi, mentre il dominio simile al fibrinogeno delle ficoline si lega ai glicani con residui di N-acetilglucosammina. La MBL e le ficoline sono associate a serine proteasi MASP (tra cui MASP-1, MASP-2 e MASP-3), che hanno una struttura omologa a quella delle serina proteasi C1r e C1s e svolgono funzioni simili, quali il taglio delle frazioni C4 e C2 per attivare la via del complemento. Gli oligomeri della MBL si associano a MASP-1 e MASP-2. Analogamente alla via classica: il riconoscimento di residui di mannosio da parte del dominio lectinico della MBL o di glicani da parte del dominio fibrinogeno-simile delle ficoline determinano l’attivazione di una serina proteasi MASP che taglia il frammento C4. Il C4b lega la superficie a cui si lega il C2a, generato a partire dal frammento C2 tagliato dalla serina proteasi. Il C4b2a costituisce la C3 convertasi, che genera il frammento C3b, il quale può legarsi a sua volta e formare il C4b2a3b che costituisce la C5 convertasi. ➢ Sequenza terminale: Le C5 convertasi generate attraverso la via alternativa, la via classica o lectinica tagliano la frazione C5 generando il frammento C5a solubile (con potenti effetti biologici) e il frammento C5b (formato da catene α e β) che lega la frazione plasmatica C6. Il complesso C5b-C6 può legarsi alla membrana cellulare attraverso interazioni ioniche e idrofobiche. Poi, si aggiunge la frazione plasmatica C7 (formando il complesso C5b-C6-C7) che penetra nella membrana ma senza formare pori completi. La proteina C8 è un trimero (di cui una catena si lega al complesso C5b-C6-C7 e lega la seconda catena; mentre la terza catena si inserisce nel doppio strato lipidico della membrana). Il complesso C5b-C6-C7-C8 si inserisce in modo stabile nella membrana e forma pori instabili (0,4-3 nm). L’aggiunta di C9, una proteina sierica in grado polimerizzare, porta alla formazione di un MAC (complesso di attacco alla membrana) completamente attivo, che forma pori stabili che consentono il movimento di acqua e ioni. L’ingresso di acqua determina il rigonfiamento osmotico e la lisi delle cellule sulla cui superficie è depositato il MAC. • RECETTORI PER LE PROTEINE DEL COMPLEMENTO: Molti degli effetti biologici del sistema del complemento sono dovuti al legame dei suoi componenti con i recettori espressi sulla membrana di varie cellule. ➢ CR1: recettore ad alta affinità per C3b e C4b, espresso prevalentemente da molte cellule ematopoietiche e dalle FDC dei centri germinativi. Quando è attivato sulla superficie dei fagociti stimola i meccanismi microbicidi associati alla fagocitosi. Quando è sulla superficie degli eritrociti favorisce la rimozione degli immunocomplessi circolanti trasportandoli al fegato e alla milza. Ha anche un ruolo nella regolazione. ➢ CR2: recettore specifico per i frammenti C3d, C3dg e iC3b, espresso dai linfociti B, dalle FDC e da alcune cellule epiteliali. I frammenti C3d, C3dg e iC3b sono generati dal taglio del frammento C3b operato dal fattore I. Sui linfociti B potenzia l’attivazione dell’immunità umorale fungendo da co-recettore. Inoltre, ha un ruolo nel confinare gli immunocomplessi nei centri germinativi, quando è espresso dalle FDC. ➢ CR3 (o Mac-1): è un’integrina che agisce anche da recettore per il frammento iC3b generato dal taglio del C3b. È espresso sulla superficie dei neutrofili, dei fagociti mononucleati, dei mastociti e delle cellule NK. Promuove la fagocitosi dei microbi opsonizzati dal frammento iC3b, nei neutrofili e monociti. In assenza di opsonine, promuove il riconoscimento diretto di microbi da parte del fagocita. Infine, si lega a ICAM-1 sulle cellule endoteliali, favorendo l’adesione dei leucociti all’endotelio (anche senza il complemento). ➢ CR4: è un’integrina che lega il frammento iC3b, svolgendo probabilmente funzioni simili a Mac-1. ➢ Altri recettori: esistono altri recettori per i frammenti C3a, C4a e C5a, che stimolano l’infiammazione. I principali sono quelli per il C5a e il C3a (famiglia dei GPCR), espressi in neutrofili, eosinofili, basofili, monociti, macrofagi, mastociti, cellule endoteliali, cellule muscolari lisce, cellule epiteliali e astrociti. 55 - CTLA-4: è un inibitore competitivo per il recettore attivatorio CD28 in quanto si lega alle molecole B7 con affinità 10-20 volte maggiore. CTLA-4 inibisce l’attivazione dei linfociti T con un meccanismo intrinseco (inibisce l’attivazione dei linfociti T attivati, mettendo fine alla risposta) e uno estrinseco (i Treg esprimono elevati livelli di CTLA-4, prevenendo l’attivazione dei linfociti). L’espressione di CTLA-4 da parte dei linfociti T effettori o dei Treg, compete con CD28 riducendo la disponibilità delle molecole B7 presenti sulla superficie delle APC e quindi i segnali co-stimolatori. Questo è efficace nei casi in cui i livelli di molecole B7 sulle APC siano bassi (APC quiescenti che presentano antigeni self). Quando aumentano, dopo esposizione a prodotti microbici, prevale il legame a bassa affinità con CD28. - PD-1: è un recettore inibitorio della famiglia di CD28, che riconosce i ligandi PD-L1, espresso dalle APC e da molte altre cellule tissutali, e PD-L2, espresso principalmente dalle APC. Il recettore PD-1 è espresso dai linfociti T attivati dall’antigene. Il legame di PD-1 ai ligandi causa il reclutamento di fosfatasi che spengono i segnali generati dall’attivazione delle chinasi coinvolte nella trasduzione del segnale del TCR. L’espressione di PD-1 aumenta in seguito a stimolazione protratta dei linfociti T (esposizione cronica all’antigene, come nell’esposizione ad antigeni self, tumori e infezioni corniche). ➢ Linfociti T regolatori (Treg): Sono una popolazione di linfociti T CD4+ che ha la funzione di inibire le risposte immunitarie e mantenere la tolleranza al self. Molti Treg esprimono elevati livelli dell’IL-2Rα (o CD25) e del fattore di trascrizione FoxP3, perciò si chiamano anche linfociti Treg CD25+FOXP3+. [La malattia autoimmune rara IPEX (disregolazione immunitaria, con poliendocrinopatia e enteropatia, legata al cromosoma X) è causata da mutazioni nel gene FOXP3 ed è associata a una carenza di Treg.] Inoltre, i Treg esprimono elevati livelli di CTLA-4, molecola coinvolta nella loro funzione inibitoria. I Treg hanno origine nel timo o negli organi linfoidi secondari in seguito al riconoscimento degli antigeni. Quelli che si sviluppano nel timo sono detti linfociti T regolatori timici o naturali (tTreg) e sono specifici per antigeni self. Quelli che si sviluppano negli organi linfoidi secondari a causa del riconoscimento dell’antigene in assenza di una forte attivazione dell’immunità innata sono chiamati linfociti T regolatori periferici o adattativi o inducibili (pTreg) e possono essere specifici per antigeni self o non self. La generazione di alcuni Treg richiede la citochina TGF-β, che stimola l’espressione di FoxP3. Tuttavia, la sopravvivenza e le funzioni dei Treg dipendono dalla citochina IL-2. I Treg non producono IL-2, perciò questo fattore di crescita è fornito dai linfociti T convenzionali in risposta ad antigeni self o non self. I Treg sono in grado di inibire le risposte immunitarie durante l’attivazione dei linfociti T negli organi linfoidi, ma anche nei tessuti durante la loro fase effettrice. Possono, inoltre, sopprimere direttamente l’attivazione dei linfociti B e inibire la proliferazione e la differenziazione delle cellule natural killer (NK). I meccanismi di soppressione prevedono la produzione delle citochine immunosoppressive IL-10 e TGF- β, la riduzione della capacità delle APC di stimolare i linfociti T (a causa del legame del CTLA-4, espresso dai Treg, alle molecole B7 delle APC, inibendo competitivamente i segnali di co-stimolazione), e il consumo di IL-2 (deprivando altre popolazioni cellulari di questo fattore di crescita importante). ➢ Delezione dei linfociti T mediante apoptosi: I linfociti T che riconoscono antigeni self a elevata affinità o ripetutamente stimolati da antigeni persistenti muoiono per apoptosi. Esistono due vie di apoptosi: - Via mitocondriale (o intrinseca): è attivata da sensori di stress cellulare (tra cui la proteina Bim) che si attivano in seguito a segnali come la deprivazione dei fattori di crescita, stimoli nocivi, danno al DNA, ecc. Bim lega Bax e Bak, proteine pro-apoptotiche che oligomerizzano e si inseriscono nella membrana mitocondriale esterna, causando un aumento della permeabilità mitocondriale. [Bcl-2 è una proteina anti-apoptotica che inibisce l’apoptosi bloccando le proteine Bax e Bak.] Il citocromo c fuoriesce e attiva delle caspasi che causano la frammentazione del DNA e quindi la morte apoptotica. - Via attivata da recettori (o estrinseca): Si attiva in seguito all’ingaggio di recettori di morte presenti nella membrana da parte dei rispettivi ligandi (omologhi del TNF). Questi recettori attivano delle caspasi che portano all’apoptosi. Il più importante è il recettore Fas che lega il suo ligando FasL. 56 • TOLLERANZA DEI LINFOCITI B: Tolleranza centrale dei linfociti B: I linfociti B immaturi che riconoscono con elevata affinità un antigene self che si trova nel midollo osseo vengono eliminati oppure sono indotti a modificare la loro specificità. ➢ Editing recettoriale: Il riconoscimento degli antigeni self presenti ad alte concentrazioni nel midollo osseo e soprattutto degli antigeni multivalenti determina il cross-linking dei recettori per i linfociti B e l’innesco di un forte segnale di attivazione. In queste condizioni, i linfociti B riattivano i geni RAG1 e RAG2 e procedono a una nuova ricombinazione VJ nel locus della catena leggera κ delle Ig. Se non è produttivo, si avrà un riarrangiamento addizionale nello stesso locus e, se anche questo fallisce, il processo continuerà nel locus κ dell’altro cromosoma. Se nemmeno questo fosse produttivo, si riarrangerà la catena leggera λ. ➢ Delezione. Se il processo di editing fallisce, i linfociti B immaturi autoreattivi sono eliminati per apoptosi. ➢ Anergia. Nel caso in cui il legame dell’antigene da parte del linfocita B immaturo sia debole (come nel caso degli antigeni solubili che non sono in grado di indurre il cross-linking del BCR o di un legame a bassa affinità), i linfociti B fuoriescono dal midollo in condizioni anergiche. L’anergia (mancata responsività) è causata dall’inibizione dell’espressione del recettore per l’antigene (BCR) o da un suo blocco funzionale. Tolleranza periferica dei linfociti B: I linfociti B maturi che riconoscono gli antigeni self nei tessuti periferici in assenza del coinvolgimento di linfociti T helper specifici vengono inattivati o eliminati per apoptosi. La co- stimolazione da parte dei linfociti T helper può mancare nel caso in cui queste cellule siano state delete o rese anergiche oppure nel caso in cui gli antigeni self siano di natura non proteica. In assenza di riposta innata, i linfociti B non sono attivati dai recettori del complemento dai PRR. Per questo motivo, i linfociti B non riceveranno alcun segnale di co-stimolazione e manterranno la tolleranza. I meccanismi di tolleranza periferica sono anche in grado di eliminare i cloni dei linfociti B autoreattivi generati durante l’ipermutazione somatica: ➢ Anergia e delezione: I linfociti B autoreattivi stimolati ripetutamente da antigeni self diventano incapaci di rispondere a stimolazioni successive. I linfociti B anergici necessitano di maggiori livelli del fattore di crescita BAFF per la loro sopravvivenza e non riescono a competere con i linfociti B naïve per le quantità disponibili. Di conseguenza, questi linfociti B hanno una ridotta capacità di sopravvivere. Nei tessuti periferici, i linfociti B ad alta affinità per antigeni self possono entrare nella via mitocondriale dell’apoptosi. ➢ Recettori inibitori: I recettori inibitori aumentano la soglia necessaria per l’attivazione, permettendo ai linfociti B di rispondere agli antigeni non self che in genere attivano segnali molto forti grazie alla combinazione dei segnali del BCR, dei co-recettori, dei recettori dell’immunità innata e di quelli forniti dai linfociti T helper, ma impedendo la risposta agli antigeni self che sono in grado di attivare solo il BCR. • TOLLERANZA AI MICROBI COMMENSALI: I microbi commensali sono abbondanti nell’intestino, nella cute e in altri tessuti senza che questo provochi l’attivazione delle risposte immunitarie. Molti di questi microbi non possono superare le barriere epiteliali e pertanto non sono accessibili alle cellule dell’immunità adattativa. I microbi commensali, inoltre, non sono in grado di stimolare, o attivano solo debolmente, le risposte innate evitando di stimolare l’espressione di molecole co-stimolatorie e gli altri segnali necessari per promuovere efficacemente le risposte adattative. Questi microbi sono anche in grado di attivare i Treg che prevengono lo sviluppo di risposte effettrici e dei linfociti della memoria. Inoltre, la somministrazione per via orale di un antigene proteico in genere porta a una marcata soppressione della risposta immunitaria e ad una successiva immunizzazione con lo stesso antigene. Questo fenomeno prende il nome di tolleranza orale. 57 Immunologia dei trapianti Il trapianto è una strategia molto diffusa, utilizzata per sostituire organi o tessuti con compromessa funzionalità con controparti sane. Tecnicamente è la procedura con cui si prelevano da un individuo cellule, tessuti oppure organi e si trasferiscono a un soggetto, solitamente diverso. Il soggetto che fornisce il trapianto è detto donatore e quello che lo riceve è detto ricevente o ospite. Se è posto nella sua sede anatomica naturale il trapianto è detto ortotopico, se invece avviene in un sito anatomico diverso è detto eterotopico. Con il termine trasfusione si intende, invece, il trapianto di cellule ematiche circolanti o plasma da un individuo a un altro. Un trapianto da un individuo allo stesso individuo è detto trapianto autologo, tra due individui geneticamente identici è chiamato trapianto singenico, tra due individui geneticamente diversi ma appartenenti alla stessa specie è detto trapianto allogenico, tra individui appartenenti a specie diverse è detto trapianto xenogenico. Le molecole riconosciute come estranee nell’allotrapianto sono chiamate alloantigeni, mentre negli xenotrapianti sono dette xenoantigeni. I linfociti e gli anticorpi che reagiscono contro di essi sono definiti rispettivamente alloreattivi e xenoreattivi. Il trapianto di cellule o tessuti da un individuo a un altro è sempre seguito da un rigetto causato dall’immunità adattativa, in quanto è caratterizzato da memoria e specificità ed è dovuto ai linfociti. Oltre all’immunità adattativa specifica, anche l’immunità innata può contribuire. L’interruzione dell’apporto di sangue ai tessuti e organi durante l’espianto crea un danno ischemico che può comportare all’espressione di DAMP, che attivano risposte innate sia nelle cellule del trapianto che nel ricevente. In aggiunta, le cellule NK dell’ospite possono attivarsi per mancata espressione di molecole di MHC singeniche, contribuendo all’insorgenza del rigetto. L’immunità innata può causare un danno diretto al trapianto, ma può anche potenziare la risposta adattativa dell’ospite attivando le APC. • ALLOANTIGENI: La maggior parte degli antigeni che stimolano le risposte adattative nei confronti dei trapianti allogenici sono molecole MHC, codificate da geni polimorfici che differiscono da un individuo all’altro. Si è osservato che cellule o organi trapiantati tra individui singenici (gemelli o animali dello stesso ceppo inbred) non vengono mai rigettati, mentre cellule o organi trapiantati tra individui non singenici (animali di ceppi inbred diversi) di una stessa specie sono rigettati. La prole dell’incrocio tra due diversi ceppi inbred non rigetta trapianti provenienti dai genitori (ad eccezione dei trapianti di HSC, per la presenza di cellule NK). Un trapianto che deriva dalla prole di un incrocio tra due diversi ceppi inbred sarà invece rigettato dai genitori. I geni che codificano per le molecole MHC sono polimorfi e codominanti. I trapianti, infatti, sono rigettati perché le molecole MHC si comportano da antigeni in quanto i linfociti T ne riconoscono l’estraneità. Oltre ai geni MHC, esistono altri antigeni polimorfi verso i quali il ricevente può sviluppare una risposta immunitaria. Questi antigeni solitamente inducono reazioni di rigetto deboli o più lente (più graduali) rispetto alle molecole MHC e sono quindi chiamati antigeni minori di istocompatibilità (nel topo, ad esempio, l’antigene H-Y del maschio può essere riconosciuto dal sistema immunitario di femmine riceventi trapianto da donatori maschi). • RICONOSCIMENTO DEGLI ALLOANTIGENI: Molecole allogeniche MHC del trapianto sono presentate e riconosciute dai linfociti T del ricevente in due modi distinti, indicati come riconoscimento diretto e indiretto: ➢ Riconoscimento diretto: Le molecole MHC intatte presenti nelle cellule del trapianto sono riconosciute dai linfociti T del ricevente senza che debbano essere processate dalle APC dell’ospite. È probabile che i TCR abbiano un certo grado di affinità per molecole MHC, che prescinde dal loro essere di natura self o estranee. Durante lo sviluppo timico, la selezione positiva promuove la sopravvivenza dei linfociti T dotati di debole reattività nei confronti delle molecole MHC self, e tra queste potrebbero anche esserci cellule dotate di elevata affinità per le molecole MHC allogeniche. La selezione negativa elimina i linfociti T con un’alta affinità per le molecole MHC self e non elimina necessariamente i linfociti T che hanno elevata affinità per molecole MHC allogeniche, semplicemente perché queste molecole non sono presenti nel timo. Ne consegue che il repertorio dei linfociti T maturi può includere molte cellule che legano anche MHC allogenici con alta affinità. L’allo-riconoscimento diretto è quindi un esempio di reazione immunologica crociata in cui un linfocita T, selezionato per essere ristretto per MHC self, è in grado di legarsi a molecole MHC allogeniche strutturalmente simili con un’affinità sufficientemente alta da permetterne l’attivazione. 60 I cambiamenti a carico delle arterie sono noti come vasculopatia da trapianto o anche arteriosclerosi indotta da trapianto. I meccanismi più probabili alla base delle lesioni vascolari occlusive nel rigetto cronico sono l’attivazione dei linfociti T alloreattivi e la produzione di IFN-γ e altre citochine in grado di stimolare la proliferazione della muscolatura liscia vasale. Con il progredire delle lesioni arteriose l’apporto di sangue all’organo si riduce ed il parenchima è progressivamente sostituito da tessuto fibrotico non funzionale. La fibrosi interstiziale può anche rappresentare una sorta di risposta di riparazione al danno subito dal parenchima a seguito di rigetto acuto mediato sia da linfociti T alloreattivi che da alloanticorpi, ischemia perioperatoria, effetti tossici dei farmaci immunosoppressivi e persino infezioni virali croniche. • PREVENZIONE DEL RIGETTO DELL’ALLOTRAPIANTO: La principale strategia consiste nel ridurre le differenze genetiche tra il donatore e il ricevente. Diversi test di laboratorio vengono abitualmente condotti: ➢ Tipizzazione AB0. Per evitare il rigetto iperacuto, gli antigeni del gruppo sanguigno del donatore vengono selezionati in modo da essere compatibili con quelli del ricevente. Gli anticorpi IgM naturali specifici per gli antigeni del gruppo sanguigno causano rigetto iperacuto. La tipizzazione si effettua aggiungendo gli eritrociti di un paziente a sieri standardizzati contenenti anticorpi anti-A o anti-B. Se il paziente esprime uno degli antigeni del gruppo sanguigno, il siero specifico per esso causa l’agglutinazione degli eritrociti. ➢ Reazione linfocitaria mista (MLR): La risposta alloreattiva dei linfociti T verso molecole MHC può essere studiata in vitro attraverso una reazione linfocitaria mista, nella quale i linfociti di due individui diversi vengono co-coltivati in vitro. Le cellule di ciascun individuo si attivano in risposta al reciproco riconoscimento di MHC estraneo. In passato, questa reazione era utilizzata in clinica per predire il grado di compatibilità tra un donatore e un ricevente. Si effettua un prelievo di sangue dal donatore e dal ricevente. Per studiare la risposta del ricevente contro il donatore i linfociti del donatore devono essere inattivati mitoticamente, cioè deve essere impedita la loro proliferazione (con irradiazione ad una dose sub-letale o con un chemioterapico come la mitomicina c). I campioni di sangue dei due individui vengono quindi posti in coltura assieme. Se la risposta dei linfociti del ricevente contro quelli del donatore è molto intensa, nel giro di una settimana si ha una forte proliferazione dei linfociti del ricevente che può essere quantificata osservando la citotossicità (dovuta all’azione dei CD8) o la secrezione di citochine (dovuta ai CD4). Fino a qualche anno fa, la proliferazione veniva valutata in base all’incorporazione di 3HTdR (timidina triziata, un radioisotopo), precursore di una basi azotata, oggi si usano metodiche che sfruttano la fluorescenza. ➢ Tipizzazione HLA. La sopravvivenza è significativamente superiore per i trapianti in cui donatore e ricevente hanno un grado minore di mismatch tra alleli HLA. Il match/mismatch di tutti i loci MHC di classe I e di classe II per HLA-A, B e DR è particolarmente importante per prevedere la sopravvivenza degli allotrapianti di rene (HLA-C non è polimorfo quanto A o B, mentre HLA-DR e DQ tendono ad essere trasmessi in blocco), anche se gli attuali protocolli in molti centri includono anche la tipizzazione dei loci HLA-C, DQ e DP. Poiché sono ereditati due alleli espressi in modo co-dominante da ognuno di questi geni HLA, è possibile che vi siano da zero a sei mismatch di HLA per i tre loci tra il donatore e il ricevente. Per la tipizzazione esistono una tecnica sierologia, che utilizza anticorpi diretti verso molecole HLA (ormai sorpassata) e una tecnica molecolare, che prevede PCR e sequenziamento. I geni MHC possono essere amplificati con primer che si legano a sequenze non polimorfe delle estremità 5’ e 3’ degli esoni che codificano per le regioni polimorfe delle molecole MHC. Il segmento amplificato può essere sequenziato. In alcuni casi, come i trapianti di cuore, non è possibile tenere conto della perfetta compatibilità di MHC. Nei trapianti di rene (e in generale nei trapianti solidi) è importante tipizzare i loci HLA-A, B e DR, mentre nel trapianto di HSC sono importanti tutti i loci. La buona riuscita del trapianto e la sopravvivenza del ricevente è ampiamente influenzata dal numero di mismatches presenti fra gli alleli HLA del donatore e del ricevente. Quando i mismatches sono tali da indurre una risposta immunitaria molto intensa e rapida, è necessario l’impiego di trattamenti farmacologici immunosoppressivi che bloccano la risposta adattativa. 61 ➢ Cross-matching. È l’esame svolto in vitro per ricercare nel siero del ricevente l’eventuale presenza di anticorpi preformati contro antigeni HLA del donatore. Solo così è possibile evitare il trapianto di un organo che andrebbe certamente incontro a rigetto iperacuto e accelerato, causati da anticorpi pre-formati. - CDC cross-match (Complement-Dependent Cytotoxicity): si basa sulla risposta del complemento e consente di rilevare nel ricevente la presenza di DSA (Donor Specific Antibodies), anticorpi diretti contro determinati antigeni HLA, in modo indiretto. Per svolgere questo test, vengono fatti incontrare in provetta i linfociti del donatore, il siero del ricevente e alcune componenti del complemento. Se nel siero del ricevente sono presenti anticorpi contro HLA del donatore si attiverà una risposta immunitaria mediata dal complemento e si potrà dunque osservare la lisi dei linfociti. In questo caso, il cross-match darà un risultato positivo. Questo significa che se il paziente ricevesse l’organo da un donatore con cui il cross-match è risultato positivo, si verificherebbe un rigetto iperacuto o accelerato. Al contrario, se non si osserva lisi cellulare, il test darà esito negativo e si potrà dunque procedere con il trapianto. - cross-match in citofluorimetria: sono state introdotte tecniche più raffinate che misurano anche la quantità di anticorpi presenti nel siero. Infatti, a seconda del titolo di anticorpi si può sviluppare un rigetto iperacuto (nelle prime ore dopo il trapianto) o un rigetto iperacuto detto accelerato (che invece necessita di qualche giorno ed è dovuto alla presenza di anticorpi pre-formati in piccole quantità). Se il CDC cross-match risulta positivo si avrà un rigetto iperacuto, se è negativo può comunque essere presente una piccola quantità di anticorpi pre-formati che non è stata in grado di attivare la risposta mediata dal complemento durante il test, e perciò si potrà avere comunque un rigetto accelerato, perché gli anticorpi necessitano del tempo per espandersi e dare inizio alla reazione. La tecnica luminex di citofluorimetria permette di rilevare i DSA di tutte le persone in lista d’attesa per un trapianto, al fine di stabilire quali sono gli antigeni proibiti per ciascun paziente. Queste informazioni vengono poi conservate in banche dati, da consultare quando bisogna scegliere la coppia donatore-ricevente. L’approccio fluorimetrico consente di rilevare anche una piccola quantità di anticorpi. In questo modo è possibile ottenere una mappa degli antigeni proibiti per ogni ricevente, a prescindere dalla presenza del donatore. Il test usato oggi si chiama Single Antigen e ha una sensibilità molto elevata, riuscendo a distinguere ogni singolo antigene HLA e certe volte anche distinti nelle loro catene α e β. Nella lettura dei risultati di questi tipi di test si osservano numeri corrispondenti a tutti i possibili antigeni HLA e per quali accoppiamenti con eventuali anticorpi si ha una reazione di fluorescenza. In questo modo si vede quali anticorpi sono preseti nel campione. Per quantificare la presenza di anticorpi non si usa un titolo, bensì l’intensità del segnale emesso MFI (Mean Fluorescence Intensity). ➢ Panel of Reactive Antibodies (cPRA): Prima della comparsa dei test sopracitati, i pazienti in attesa di trapianto d’organo venivano sottoposti a screening per la presenza di anticorpi reattivi preformati con molecole HLA allogeniche prevalenti nella popolazione. La presenza di questi anticorpi, che possono essere stati prodotti in seguito a precedenti gravidanze, trasfusioni o trapianti, aumenta il rischio di rigetto acuto e iperacuto. Piccole quantità di siero del paziente vengono miscelate in diversi pozzetti con un fluorocromo in associazione con molecole MHC definite, che rappresentano gli alleli MHC che possono essere presenti in una popolazione casuale di donatori d’organo. Ogni allele MHC è posto in un pozzetto diverso. Il legame degli anticorpi del paziente alla popolazione casuale di MHC viene rivelato mediante citometria a flusso. Meno sono i pozzetti in cui si osserva una reazione, più alta è la probabilità di avere un trapianto senza rigetto. Ad esempio, se un paziente ha il 20% PRA, il 20% dei possibili donatori sono incompatibili, quindi ha l’80% di probabilità di trovare un donatore compatibile. Più basso è il PRA, più è probabile il successo del trapianto. Il PRA è determinato diverse volte durante l’attesa di un trapianto perché può cambiare, essendo ogni pannello scelto a caso e poiché i titoli anticorpali del paziente possono variare nel tempo. 62 • IMMUNOSOPPRESSIONE: Gli immunosoppressori che inibiscono o uccidono i linfociti T rappresentano il principale regime terapeutico nel rigetto del trapianto. Vengono comunemente utilizzati numerosi metodi: ➢ Inibitori dell’attivazione dei linfociti T: Gli inibitori della calcineurina inibiscono la trascrizione di alcuni geni dei linfociti T, in particolare quelli che codificano per le citochine, come ad esempio l’IL-2. - Ciclosporina: è un peptide ciclico di origine fungina, che si lega con alta affinità a una proteina cellulare ubiquitaria chiamata ciclofillina. Il complesso ciclosporina-ciclofillina si lega e inibisce l’attività enzimatica della calcineurina, una serina-treonina fosfatasi attivata dal complesso calcio- calmodulina. Poiché l’attivazione della calcineurina è necessaria per indurre il fattore di trascrizione NFAT, la Ciclosporina inibisce l’attivazione di NFAT e quindi la trascrizione dei geni dell’IL-2 e di altre citochine. Di conseguenza, blocca la proliferazione indotta dall’IL-2 e la differenziazione dei linfociti T. Purtroppo, però, alcuni episodi di rigetto sono refrattari all’azione di questo farmaco. Alcuni effetti collaterali sono: nefrotossicità, epatotossicità, ipertensione, linfomi EBV-indotti, irsutismo, ipertrofia gengivale (mal tollerato dai pazienti), neurotossicità e sindrome emolitico-uremica. - Tacrolimus: è un macrolide batterico che agisce in modo analogo alla Ciclosporina, avendo come bersaglio la proteina FKBP (FK506-binding-protein). Il complesso FKBP-tacrolimus blocca anch’esso la calcineurina. Questo farmaco è considerato il gold standard, infatti non dà effetti antiestetici ed è più efficace della Ciclosporina, anche se ha diversi effetti tossici: nefrotossicità, epatotossicità, tossicità neurologica (maggiore rispetto alla Ciclosporina), squilibri elettrolitici e diabete post-trapianto. - Rapamicina (Sirolimus): inibisce la proliferazione dei linfociti T attivata da fattori di crescita. Anch’essa lega la proteina FKBP, ma il complesso rapamicina-FKBP anziché inibire la calcineurina, lega e inibisce l’enzima mTOR, una serina treonina chinasi necessaria per la traduzione di proteine coinvolte nella sopravvivenza e nella proliferazione dei linfociti T. La Rapamicina inibisce quindi la generazione di cellule T effettrici, ma non interferisce con la sopravvivenza e le funzioni delle cellule Treg (perché non inibisce la produzione di IL-2, a differenza degli inibitori della calcineurina) che possono così favorire l’immunosoppressione e sfavorire il rigetto. Inibendo mTOR, la Rapamicina svolge un effetto inibitorio anche sulle funzioni delle DC e nella proliferazione dei linfociti B nelle risposte anticorpali. La Rapamicina non ha nefrotossicità ma ha altri effetti collaterali: mielotossicità (leucopenia e piastrinopenia), ipertrigliceridemia e ipercolesterolemia, ritardata guarigione delle ferite (perché inibisce la fibrosi), aumentato rischio di linfocele, afte orali, polmoniti non infettive, artralgie. ➢ Blocco delle molecole costimolatorie: Il blocco delle vie di co-stimolazione dei linfociti T riduce il rigetto acuto prevenendo l’attivazione dei segnali co-stimolatori richiesti per l’attivazione da parte delle APC. - Belatacept (CTLA4-Ig): è una proteina ricombinante composta dalla parte extracellulare di CTLA4 fusa con il dominio Fc dell’IgG. Belatacept è una forma a elevata affinità di CTLA4-Ig che lega le molecole B7 sulle APC e previene la loro interazione con il CD28 espresso dai linfociti T. Con questo farmaco si è osservato un miglioramento in ambito di funzionalità renale, essendo meno nefrotossico, inoltre presenta meno rischio cardiovascolare e minore impatto metabolico. Deve essere assunto per via endovenosa una volta al mese, costituendo un grande vantaggio per il paziente e anche per l’intero SSN, perché con questo tipo di somministrazione in ospedale si è certi della compliance del paziente. - Anticorpo anti-CD40L: si potrebbe bloccare l’interazione di CD40L (linfociti T) con CD40 (APC). ➢ Farmaci antinfiammatori (corticosteroidi): I farmaci antinfiammatori più potenti sono i corticosteroidi, che agiscono bloccando la sintesi e la secrezione di citochine (TNF e IL-1) e altri mediatori infiammatori, come prostaglandine, ROS e NO prodotti dai macrofagi e altre cellule infiammatorie. Questa terapia causa la riduzione del reclutamento leucocitario, dell’infiammazione e del danno tissutale. I corticosteroidi presentano numerosi effetti collaterali: ipertensione, problemi dermatologici, metabolici (problemi nella crescita, diabete, ritenzione di H2O e K+, calciuria), gastrici (ulcera, emorragia), aumento della suscettibilità alle infezioni, ritardo nella guarigione di ferite, effetti neurologici, cataratta, glaucoma, osteoporosi, ecc. Ad oggi, grazie all’associazione con altri farmaci, si è potuto ridurre di molto la dose di corticosteroidi. 65 Immunologia dei tumori I tumori maligni sono una tra le più importanti cause di morbilità e mortalità, a causa della crescita incontrollata e del danno e deficit funzionale del tessuto colpito. La malignità del tumore riflette il deficit di regolazione della proliferazione e del ciclo cellulare, la resistenza delle cellule tumorali all’apoptosi, la capacità di invadere i tessuti e formare metastasi a distanza e la capacità dei tumori di eludere la risposta immunitaria dell’ospite. Le risposte clinicamente rilevanti ai tumori coinvolgono soprattutto i linfociti T CD8+ e linfociti TH1 CD4+. Cellule mononucleate, come i linfociti T e macrofagi infiltrano il tumore e sono presenti nei linfonodi drenanti la sede della crescita tumorale. Una maggiore presenza di linfociti T CD8+ e CD4+ è predittiva di una prognosi migliore. Tuttavia, le risposte immunitarie spesso non riescono a prevenire lo sviluppo di tumori. In primo luogo, molti tumori usano specifici meccanismi per eludere le risposte dell’ospite. In secondo luogo, anche tumori che inizialmente inducono un’efficace risposta immunitaria possono diventare meno immunogenici con il progredire della malattia a causa del vantaggio selettivo di sopravvivenza che hanno i cloni che perdono l’espressione degli antigeni immunogenici. In terzo luogo, la rapida crescita e la diffusione del tumore possono prevalere sulla capacità del sistema immunitario di controllare le cellule maligne. I tumori stimolano risposte immunitarie adattative che possono prevenire o limitare la loro crescita e diffusione. Risposte immunitarie verso il cancro possono essere riattivate mediante strategie terapeutiche opportune. Questo è alla base dell’immunoterapia dei tumori. • PRIMI ESPERIMENTI: La prima dimostrazione sperimentale che i tumori possono attivare delle risposte immunitarie protettive deriva da esperimenti condotti negli anni ’50. Se si applica sulla cute di un topo inbred il carcinogeno chimico metilcolantrene (MCA) si provoca la formazione di un sarcoma. Se questo tumore viene rimosso e trapiantato in topi singenici, esso continua a crescere. Al contrario, se le cellule prelevate dal tumore vengono nuovamente trapiantate nel topo in cui il tumore era originato, il topo le rigetta e il tumore non si sviluppa. Lo stesso topo che è diventato immune al proprio tumore non è però in grado di rigettare sarcomi indotti con l’MCA in altri topi, poiché questi possiedono mutazioni causate da MCA che sono diverse ed esprimono antigeni tumorali differenti. Inoltre, il trasferimento di linfociti T di un animale in cui si è sviluppato il tumore può trasferire un’immunità protettiva nei confronti di quel tumore a un animale privo di tumore. • IMMUNOSORVEGLIANZA: teoria proposta da Macfarlane Burnet e Thomas negli anni ’50, che stabilisce che tra le funzioni fisiologiche del sistema immunitario vi sono il riconoscimento e l’eliminazione di cloni di cellule trasformate, prima che diano origine a un tumore e dopo la loro formazione. In altre parole, quando cellule aberranti con potenziale proliferativo si formano nel corpo porteranno nuovi antigeni e, quando una quantità significativa di nuovo antigene si sviluppa, sarà iniziata una risposta immunologica T-dipendente che eventualmente eliminerà le cellule aberranti in modo simile alla distruzione di un tessuto trapiantato. Secondo questa ipotesi i tumori si sviluppano continuamente e il sistema immunitario deve costantemente opporsi al loro sviluppo. Perciò, solo le neoformazioni non-immunogeniche riescono a superare l’immunosorveglianza. Il nostro corpo è spesso esposto a sostanze cancerogene, come raggi UV e composti chimici ad esempio, i quali danneggiano il DNA in modo spesso irreversibile dagli enzimi di riparazione. Dunque, la trasformazione di una cellula normale a tumorale è un evento molto più comune di quanto si creda. La conseguenza logica di questa teoria è che gli individui immunodepressi presentino una maggiore incidenza di neoplasie (pazienti con AIDS o soggetti a trapianti). In realtà, però, si è osservato che i tumori più frequenti negli immunodepressi sono spesso di origine virale. Successivamente, invece, sono state individuate ulteriori tesi a sostegno della teoria, come ad esempio l’aumento di incidenza di melanomi maligni de novo in pazienti trapiantati (Ad esempio, si potrebbe sviluppare un melanoma che deriva dal donatore e non dal ricevente; il donatore 20 anni prima ha sviluppato un melanoma, successivamente asportato con esito positivo. In questo caso, qualche cellula maligna potrebbe essere rimasta nel rene senza mai svilupparsi, fino all’esposizione ad un ambiente immunosoppresso, che ha dato modo al melanoma di riformarsi nel ricevente). Questo prova che il sistema immunitario esercita una certa pressione sulle cellule tumorali, evitando la loro crescita incontrollata. Altre prove a sostegno della teoria sono l’aumento di 25 volte dell’incidenza di tumore al polmone a seguito di un trapianto di cuore, e l’esistenza di una correlazione inversa tra la sopravvivenza del tumore e il numero di linfociti che lo infiltrano. 66 Ulteriori esperimenti sono stati eseguiti con l’ausilio del topo nudo, il quale è privo di pelo e presenta mutazioni genetiche che causano il blocco funzionale o l’aplasia del timo. Vi è una drastica riduzione di linfociti T, mentre tutte le altre cellule immunitarie (linfociti B, NK, granulociti) sono presenti normalmente. Gli esperimenti, al contrario del precedente, sembrano negare la teoria dell’immunosorveglianza. Negli anni ’60 e ’70 dati ottenuti negli animali immunosoppressi danno risultati contrastanti. Nel ’74 Stutman realizza un esperimento con ben 18.000 esemplari di topi nudi con circa 6 mesi di età, nel quale non riscontra alcuna differenza nell’incidenza di tumori dei topi immunosoppressi e topi immunocompetenti. Tuttavia, Stutman aveva tralasciato due fattori importanti: l’età (i topi vivono in media 3 anni, dunque l’utilizzo di un campione di cavie troppo giovani comporta l’incapacità di mimare in maniera efficiente l’incidenza dei tumori spontanei nella popolazione, la cui maggior parte si sviluppa in età avanzata) e l’immunodeficit parziale (nonostante l’assenza del timo comporti un’immunodeficienza importante, tutte le altre cellule immunitarie funzionano perfettamente e possono contribuire in modo importante alla soppressione tumorale, il motivo di questa svista è legato all’idea che solo i linfociti T CD8+ possano contrastare l’insorgenza di neoplasie, dimostratasi errata in seguito). Queste evidenze hanno affossato la teoria dell’immunosorveglianza per molti anni ma, all’inizio degli anni 2000, alcune scoperte hanno permesso la resurrezione di questa teoria. Si sono prodotti animali con immuno- deficit mirati e precisi e con un’età più avanzata e consona allo studio dei tumori. Uno studio del 1992 è riuscito a produrre animali Rag-2 deficienti (Rag-2 è una proteina che partecipa al riarrangiamento dei linfociti T e B), sprovvisti sia di linfociti T che di linfociti B. L’immunodeficienza di questi animali è estremamente più severa rispetto a quella dei topi nudi, rendendoli modelli più rappresentativi per gli studi futuri. Nel 2001 Schreiber utilizza animali più anziani e confronta l’incidenza di tumori di tipo benigno e maligno: nei topi wild-type nessun animale presenta tumori maligni, mentre circa il 20% comincia a mostrare dei tumori benigni. Nei topi knockout per Rag-2 privi di linfociti T e B, il 50% degli animali presenta tumori benigni e l’altro 50% presenta tumori maligni molto comuni. Nei topi derivati dall’incrocio di topi knockout per Rag-2 e Stat-1 (fattore di trascrizione utilizzato nel signaling dell’IFN-γ e legato all’attivazione delle cellule NK) nessun animale è sano, il 20% presenta tumori benigni e il restante 80% contrae tumori maligni molto comuni. Questo esperimento ha dimostrato che l’immunosorveglianza esiste e che è molto importante nel contrastare i tumori più comuni, e non solo i casi particolari di origine virale. Un altro esperimento di Schreiber consiste nell’applicazione di MCA sui topi, ma questa volta in concentrazione sub-ottimale per lo sviluppo di tumori. Confronta, in uno spazio temporale di 200 giorni, l’incidenza di carcinomi in topi immunocompetenti e in topi immunodeficienti. Si osserva che gli animali immunodeficienti hanno uno sviluppo più rapido e frequente di tumori rispetto a quelli immunocompetenti, che dispongono di mezzi di protezione contro la proliferazione delle cellule maligne. • ANTIGENI TUMORALI: La maggior parte degli antigeni tumorali che stimolano risposte protettive sono neoantigeni generati da geni che sono mutati in cloni diversi del tumore. Poiché questi antigeni non sono prodotti dalle cellule normali del self, il sistema immunitario non è tollerante nei loro confronti. Nei tumori causati da virus, gli antigeni tumorali sono proteine non-self prodotte dai virus oncogeni verso cui il sistema immune attiva una risposta anti-virale. Altri sono antigeni espressi nelle fasi precoci dello sviluppo embrionale. I neoantigeni tumorali proteici rappresentano soprattutto prodotti di geni mutati in modo casuale (“mutazioni passenger”) che riflettono l’instabilità genetica tipica delle cellule neoplastiche o, meno comunemente, prodotti mutati di oncogeni o geni oncosoppressori direttamente coinvolti nell’oncogenesi (“mutazioni driver”). Esperimenti di individuazione degli antigeni tumorali: Originariamente gli antigeni tumorali venivano denominati TSTA (Tumor Specific Trasplantation Antigen), poiché le neoplasie derivavano da tecniche di trapianto sui topi. Si preparano delle cellule irradiate (incapaci di proliferare, ma che presentano gli antigeni) di un sarcoma A e le si inoculano in una cavia murina (vaccinazione preventiva contro il tumore). Una successiva iniezione di cellule non irradiate, vive e proliferanti, del sarcoma A non comporta lo sviluppo di masse neoplasiche. Mentre l’inoculazione di cellule non irradiate di un sarcoma B porta all’insorgenza del tumore. Questo esperimento dimostra che la risposta immunitaria anti-tumorale è specifica per gli antigeni del tumore con cui è entrata in contatto, ma non per gli antigeni del tumore che non sono mai stati incontrati prima. 67 Le moderne tecniche di sequenziamento hanno identificato in diversi tipi di tumori peptidi mutati in grado di attivare risposte T. Di solito, questi neoantigeni derivano da mutazioni puntiformi o delezioni in geni non correlati allo sviluppo del tumore. Le proteine codificate da questi geni generano nuovi peptidi capaci di legare molecole MHC che possono essere riconosciute come non-self dai linfociti T, in quanto normalmente assenti. Spesso i neoantigeni sono proteine citosoliche o nucleari che vengono degradate dal proteasoma e presentate dalle cellule tumorali su molecole MHC di classe I. Dopo fagocitosi da parte delle DC, questi antigeni entrano nella via di presentazione delle MHC di classe II o vengono cross-presentate su molecole MHC di classe I. Lo stesso tipo di tumore in pazienti diversi può esprimere un diverso profilo di neoantigeni. Inoltre, anche nello stesso paziente, il tumore può acquisire nuove mutazioni durante la sua evoluzione e produrre un nuovo repertorio di neoantigeni. Il concetto di “antigeni neoclonali” implica quindi la variabilità tra cloni cellulari. I prodotti dei virus oncogeni si comportano da antigeni tumorali ed evocano risposte specifiche dei linfociti T. Esempi che riguardano l’uomo comprendono il virus di Epstein-Barr (EBV), associato a linfomi a cellule B e al carcinoma nasofaringeo, e il Papillomavirus umano (HPV), associato a carcinomi della cervice uterina. Alcuni virus, tra cui quelli dell’epatite B e C, sono associati allo sviluppo di tumori pur non essendo oncogenici, ma attraverso uno stato di infiammazione cronica in cui si generano fattori di crescita e altri segnali oncogenici. La vaccinazione che previene l’infezione da parte di questi virus diminuisce anche l’incidenza dei tumori. Alcuni antigeni tumorali sono il prodotto di geni che in condizioni normali sono silenziati ma sono espressi in modo anomalo nelle cellule trasformate, o proteine normalmente prodotte dalle cellule che però vengono prodotte in quantità abnorme dalle cellule tumorali. Questi antigeni non sono intrinsecamente estranei per l’ospite ma sono capaci di stimolare una risposta immunitaria. Infatti, normalmente, questi antigeni sono espressi per un periodo di tempo limitato o solo in uno specifico contesto (per esempio durante lo sviluppo embrionale o da cellule presenti in siti immunologici privilegiati, per i quali l’ospite non sviluppa tolleranza). L’espressione da parte del tumore di questi antigeni durante la vita post-natale, in tessuti non segregati o la loro produzione in grandi quantità possono essere elementi in grado di innescare una risposta immunitaria. ➢ Espressione disregolata di antigeni tumorali/testicolari, ad esempio l’antigene associato al melanoma (MAGE): questi antigeni sono espressi nei melanomi e in molti altri tipi di tumore nonché nei testicoli normali. I geni che li codificano sono normalmente silenziati da meccanismi epigenetici (metilazione dei promotori) nella maggior parte dei tessuti normali, con l’eccezione del testicolo e dei trofoblasti della placenta, ma sono espressi da molti tipi di tumori (nelle cellule tumorali i loci genici vengono demetilati). ➢ Amplificazione genica: nelle cellule tumorali, alcune proteine sono espresse a livelli abnormi perché i geni che li codificano sono amplificati. Un esempio di tali proteine è il fattore di crescita epidermico umano 2 (HER2/neu), che si comporta da oncogene quando è iper-espresso in alcuni tumori della mammella. Essendo espressa anche dalle cellule normali, questa proteina induce tolleranza e non vi sono indicazioni che questa proteina possa essere riconosciuta e attivare risposte protettive nei pazienti. Un anticorpo monoclonale anti-HER2 è stato autorizzato per il trattamento di pazienti con alti livelli di questa proteina. ➢ Proteine tessuto-specifiche: le cellule trasformate e i tessuti da cui origina il tumore possono esprimere antigeni di differenziazione, non presenti nelle cellule sane. Due esempi di questo tipo nel melanoma sono la tirosinasi, un enzima implicato nella biosintesi della melanina, e MART1 (o melan-A), una proteina necessaria per la normale funzione del melanosoma. Nei pazienti con melanoma è possibile riscontrare linfociti T CD8+ e CD4+ in grado di riconoscere antigeni peptidici di tirosinasi o MART1, forse perché sono espressi a livelli elevati, ma è anche possibile che gli antigeni di differenziazione non siano in grado di attivare risposte immunitarie a causa del fatto che sono antigeni self. Questi antigeni aiutano nella diagnosi e fungono da bersaglio per l’immunoterapia passiva. Per esempio, alcune leucemie e linfomi dei linfociti B esprimono il marcatore CD20. Anticorpi e linfociti T specifici per CD20 sono usati in terpia. ➢ Antigeni oncofetali: sono proteine espresse a elevati livelli dalle cellule neoplastiche e dai tessuti fetali durante lo sviluppo, ma non dai tessuti adulti. Tuttavia, la loro espressione nell’adulto risulta aumentata anche durante varie condizioni infiammatorie e possono trovarsi in piccole quantità anche in tessuti sani. Gli antigeni oncofetali principali sono l’antigene carcinoembrionale (CEA) e l’α-fetoproteina (AFP). 70 La parte dell’“Equilibrium” è stata dimostrata da Schreiber grazie ad un esperimento. Dei topi immuno- competenti vengono trattati con una dose sub-ottimale di metilcolantrene (MCA). I topi che sviluppano tumori vengono eliminati dall’esperimento, mentre quelli che rimangono sani vengono trattati in due modi: - inoculo di anticorpi depletanti contro CD4, CD8 e IFN-γ, rendendo i topi immunodeficienti, - inoculo di un anticorpo monoclonale di controllo, mantenendo i topi immunocompetenti. I topi resi immunodeficienti sono soggetti a sviluppare il tumore, mentre i topi immunocompetenti non presentano crescita significativa di neoplasie. Questo dimostra che gli animali che non hanno sviluppato subito il tumore non sono riusciti ad eliminarlo del tutto, bensì hanno instaurato un equilibrio con il tumore stesso, finché a causa dell’immunodeficienza questo non ha prevalso e proliferato incontrollatamente (la stessa problematica che si è verificata dopo il trapianto di rene con lo sviluppo di melanoma, vedi prima). ➢ Riduzione dell’espressione di molecole MHC di classe I: le cellule tumorali possono ridurre l’espressione delle molecole MHC di classe I in modo da sfuggire al riconoscimento da parte dei CTL. Diversi tumori mostrano una ridotta sintesi di molecole MHC di classe I, β2-microglobulina, TAP e di alcune subunità del proteasoma. Queste cellule sarebbero più facilmente riconosciute dalle cellule NK, ma potrebbero emergere ulteriori mutazioni che impediscono l’espressione dei ligandi dei recettori attivatori delle cellule NK. • IMMUNOTERAPIA DEI TUMORI: Le terapie attuali contro i tumori si basano su farmaci chemioterapici che eliminano le cellule in corso di divisione cellulare; questi farmaci hanno effetti nocivi sulle cellule sane che proliferano e non hanno effetti durevoli, quindi non fermano la diffusione neoplastica. Le risposte immunitarie, invece, possono essere indirizzate in modo specifico verso antigeni tumorali senza danneggiare le cellule sane. ➢ Blocco dei circuiti inibitori (checkpoint): - anticorpo anti-CTLA-4: il primo farmaco di questa classe a essere sviluppato (Ipilimumab) è stato un anticorpo monoclonale contro CTLA-4, il recettore inibitorio delle molecole B7. È stato autorizzato per il trattamento del melanoma in stadio avanzato, e si è rivelato efficace, rallentando la progressione tumorale in molti ma non nella maggioranza dei pazienti. L’efficacia di questo anticorpo potrebbe dipendere anche dalla sua capacità di eliminare i linfociti Treg che esprimono alti livelli di CTLA-4. - anticorpi anti-PD-1/PD-L1: L’impiego di anticorpi bloccanti specifici per PD-1 (Nivolumab) o per il suo ligando PD-L1 (Atezolizumab) è anche più efficace di quelli anti-CTLA-4. Questi causano anche minori effetti indesiderati rispetto agli anti-CTLA-4 e sono stati autorizzati per il trattamento di diversi tipi di tumori metastatici, tra cui melanoma, carcinomi polmonari, renali, vescicali, del colon e il linfoma di Hodgkin. Questi anticorpi sono la prima linea terapeutica per alcuni di questi tumori. Una terapia combinata che blocca sia il PD-1 che il CTLA-4 si è rivelata anche più efficace ed è stata autorizzata per il trattamento di diversi tipi di tumori. Tuttavia, alcuni effetti indesiderati comunemente associati a queste terapie riguardano lo sviluppo di reazioni autoimmuni e infiammatorie, prevedibili alla luce del ruolo svolto da CTLA-4 e PD-1 nel mantenimento della tolleranza al self e nella regolazione delle risposte dei linfociti T. I più frequenti effetti indesiderati sono l’infiammazione del colon, polmone, fegato e diverse ghiandole endocrine, il diabete di tipo 1 a esordio improvviso e instabile, lesioni della ghiandola pituitaria e miocarditi. In molti, ma non in tutti i casi, queste reazioni possono comunque essere tenute sotto controllo con farmaci antinfiammatori come i corticosteroidi o corrette dalla terapia sostitutiva ormonale. Più del 50% dei pazienti trattati con anti-CTLA-4 o anti-PD-1 non rispondono a questi farmaci. Questo accade nei pazienti affetti da tumori con scarse mutazioni somatiche capaci di generare neoantigeni, nei pazienti con infiltrati cellulari limitati o con abbondanza di Treg e nei pazienti con tumori che utilizzano delle strategie di elusione del sistema immunitario indipendenti da PD-1 o PD-L1. Inoltre, tumori che esprimono PD-L1 e rispondono inizialmente alla terapia possono sviluppare una resistenza acquisita per l’espansione selettiva di cloni tumorali che esprimono molecole inibitorie delle risposte T diverse da PD- L1 oppure perché si selezionano cloni tumorali che riconoscono dei checkpoint diversi rispetto al PD1. 71 ➢ Vaccinazione con antigeni tumorali: Oggi è possibile identificare peptidi riconosciuti da CTL specifici. Le strategie vaccinali antitumorali impiegano diversi adiuvanti e diversi metodi di somministrazione. Le molecole pro-infiammatorie aumentano il numero di DC e si attivano nel sito di vaccinazione, includono ligandi dei TLR come i DNA a CpG non metilati, mimetici molecolari di dsRNA, GM-CSF e IL-12. I primi meccanismi prevedevano l’utilizzo di cellule tumorali autologhe (del paziente stesso), che venivano uccise e re-inoculate in modo da vedere se esse stimolassero meglio il sistema immunitario. Il vaccino di Morton negli anni ’80 utilizzava contro il melanoma un pool di cellule tumorali allogeniche uccise e re- inoculate. Antigeni tumorali purificati furono scoperti poco dopo. Ad oggi si esegue invece l’immuno- stimolazione delle cellule dendritiche, mediante pulsazione o trasfezione con antigeni tumorali. Le DC possono essere prelevate, purificate, incubate con antigeni tumorali e poi iniettate nuovamente al paziente. DNA e vettori virali codificanti per gli antigeni tumorali sono in fase di sperimentazione clinica. Questi costituiscono il modo migliore per attivare una risposta CTL. Infatti, gli antigeni codificati dai plasmidi e i vettori catturati efficientemente dalle DC seguono la via di presentazione delle molecole MHC di classe I. - Vaccinazione terapeutica: somministrazione a pazienti con tumore in progressione. È svantaggiata dal fatto che il paziente ha sicuramente delle compromissioni e il tumore ha dei meccanismi di escape. - Vaccinazione adiuvante: somministrazione a pazienti in cui il tumore primitivo è stato resecato e dunque non presentano malattia, ma che possiedono un rischio di recidiva. Il tumore alla mammella, superata una certa dimensione e un certo numero di linfonodi coinvolti, possiede un rischio di metastasi che varia anche in base al tempo trascorso (ad esempio 20% a 5 anni). Tuttavia, la presenza di un rischio indica che molti pazienti non recidiveranno, dunque ad essi la terapia verrebbe somministrata inutilmente. Per questo motivo ad oggi si cercano di identificare dei fattori predittivi di recidiva. - Vaccinazione preventiva: somministrazione a pazienti che hanno un rischio genetico familiare di sviluppare uno o più tumori nel corso della loro vita. Una vaccinazione di questo tipo esiste già, ed è quella contro il tumore della cervice uterina causato dall’infezione con Papillomavirus umano (HPV). ➢ Terapia cellulare (attiva): L’immunoterapia cellulare consiste nell’estrazione di leucociti derivanti dal sangue periferico o dal tumore del paziente. Questi vengono trattati in vari modi in vitro per aumentarne il numero e l’attività antitumorale verso neoantigeni tumorali e poi vengono reinfusi nel paziente stesso. Provenge (sipuleucel-T): la prima immunoterapia approvata dalla FDA è un vaccino cellulare per il tumore metastatico della prostata. Si prende una preparazione di leucociti prelevati dal sangue periferico del paziente tramite aferesi, che vengono arricchiti con DC e incubati in vitro con una proteina di fusione tra il GM-CSF e la fosfatasi acida prostatica, un antigene tumorale. GM-CSF promuove la maturazione delle DC, che presentano l’antigene tumorale e stimolano risposte antitumorali dei linfociti T. Il prodotto è coltivato qualche giorno in vitro, raccolto e reinfuso al paziente. Si effettuano in tutto tre cicli di terapia. ➢ Recettori T chimerici (CAR-T): Terapia con linfociti T ingegnerizzati che esprimono recettori chimerici per l’antigene (CAR). Si è dimostrata efficace contro alcune patologie ematologiche maligne ed è in fase di sperimentazione per altri tumori. I CAR ingegnerizzati sono linfociti T dotati di siti di legame per l’antigene codificati dai geni delle regioni variabili delle Ig e di code citoplasmatiche contenenti i domini responsabili della trasduzione del segnale, sia del recettore per l’antigene che delle molecole co- stimolatorie, ovvero i domini ITAM della catena ζ e i motivi attivatori dei recettori co-stimolatori CD28 o 41-BB. Una Ig dotata di un sito di legame per un antigene tumorale che funziona come TCR può evitare i problemi di restrizione del TCR per MHC, pertanto lo stesso CAR può essere usato in pazienti diversi. I protocolli attuali prevedono l’isolamento dei linfociti T dal sangue periferico, la loro stimolazione con anticorpi anti-CD3 e anti-CD28 e la loro trasduzione con vettori virali che codificano per CAR. I linfociti T che esprimono i CAR vengono poi espansi in vitro e re-iniettati nel paziente dove vanno incontro a forte proliferazione in seguito al riconoscimento dell’antigene tumorale. La specificità originale di questi linfociti T (dettata dai TCR che continuano a essere espressi) è irrilevante poiché tutte le cellule trasfettate possono essere attivate dall’antigene tumorale che lega il sito di legame codificato dal gene del CAR. L’uccisione del tumore si realizza tramite citotossicità diretta e mediante rilascio di citochine. 72 I pazienti con tumori maligni dei linfociti B sono trattati con linfociti T in grado di esprimere CAR specifici per CD19, un marcatore di tutti i linfociti B espresso anche dalle cellule tumorali. Così vengono eliminati anche i linfociti B normali, ma non le cellule a lunga sopravvivenza che perdono l’espressione di CD19. Ostacoli della terapia con CAR-T: la diffusione dell’uso della terapia con cellule CAR-T e limitata da: - sindrome da rilascio di citochine: nei pazienti con un’estesa massa neoplastica, un numero elevato di linfociti T si attiva contemporaneamente, e può innescare un’intensa risposta infiammatoria sistemica; - perdita dell’antigene bersaglio del CAR: se il tumore non è completamente eliminato, le cellule che sopravvivono possono subire una pressione selettiva che le induce a perdere l’antigene bersaglio del CAR e il tumore può recidivare. Si potrebbero, però, ingegnerizzare i linfociti T con due CAR, specifici per due diversi antigeni tumorali, e trasferire questi CAR-T doppiamente transfettati nei pazienti; - esaurimento funzionale dei CAR-T: nel tempo i tumori inizialmente controllati possono ricorrere quando le cellule CAR-T esprimono marcatori di disfunzionalità (con fenotipo “exhausted”), tra cui livelli elevati di PD-1. Si potrebbe alterare il genoma delle cellule CAR-T per silenziare l’espressione di PD-1 e, per prevenire ripercussioni autoimmuni, eliminare i TCR originali dalle cellule CAR-T; - tumori solidi: è necessario che le cellule infuse siano in grado di raggiungere il sito tumorale. Inoltre, bisogna identificare CAR specifici per le cellule tumorali che salvaguardino quelle normali. Si potrebbero identificare coppie di antigeni entrambi espressi solo dalle cellule tumorali, e somministrare cellule CAR-T bi-specifiche che siano in grado di attivarsi solo riconoscendo entrambi gli antigeni. ➢ Terapia cellulare adottiva (ACT): Negli anni ’80 il pioniere dell’immunoterapia adottiva è stato Steven Rosemberg. Egli si occupava di melanoma, che è uno dei tumori più accessibili e che presenta un grande numero di linfociti nelle masse tumorali chiamati TIL (linfociti infiltranti il tumore). Dato che sono stati richiamati dalla presenza del tumore, si presume che i TIL siano linfociti tumore-specifici, anche potrebbero essere bloccati. Nell’immunoterapia adottiva la massa tumorale viene resecata, i TIL vengono isolati e successivamente espansi in coltura con alte dosi di IL-2. I linfociti ottenuti venivano trasferiti senza o con IL-2 nello stesso individuo da cui erano stati prelevati. Senza IL-2 i linfociti muoiono quasi subito, mentre con IL-2 sopravvivono maggiormente. La somministrazione di citochina deve essere eseguita con dosi sistemiche, ma IL-2 agisce solo nel microambiente e ad alte dosi è estremamente tossica. Dunque, questa terapia è molto rischiosa e richiede una tecnologia molto sofisticata, perciò non è stata messa in pratica. In generale, la terapia cellulare adottiva oggi consiste nell’isolare dai tessuti tumorali o dal sangue del paziente di cellule effettrici specifiche per antigeni tumorali che vengono purificati, stimolati in vitro con l’antigene per aumentarne il numero e l’efficacia e reinfusi nello stesso paziente. L’ACT può essere non specifica, quando si traferiscono linfociti o cellule CIK (citokine-induced killer cells, ovvero CD8 e NK attivate da citochine), oppure specifica, quando si basa sul trasferimento di cellule immunitarie caratterizzate da una precisa specificità di riconoscimento del tumore (come la terapia di Rosemberg). Linfociti infiltranti il tumore (TIL): la terapia cellulare adottiva con TIL prevedere resezione del tumore, isolamento dei linfociti della massa tumorale, espansione in vitro dei linfociti e re-infusione dei linfociti. L’utilizzo terapico dei TIL presenta anche degli effetti collaterali: nel caso del melanoma può indurre vitiligine (aree della cute prive di pigmentazione), uveite (infiammazione di parte dell’occhio), ecc. Oggi la terapia è utilizzata, anche se bisogna precisare che si tratta di una terapia sperimentale e non assodata. ➢ Anticorpi monoclonali: L’immunoterapia passiva implica la somministrazione di anticorpi monoclonali tumore-specifici. Questo approccio è rapido e altamente specifico (spesso definito “proiettili magici”), anche se non persiste a lungo. Paul Ehrlich scrisse più di un secolo addietro sulla possibilità di trattare i tumori con anticorpi. Alcuni anticorpi monoclonali vengono impiegati in oncologia da oltre 20 anni. NB. Sebbene anche gli agenti che bloccano i checkpoint siano anticorpi monoclonali, molti di essi non legano le cellule tumorali e il loro meccanismo d’azione riguarda solo l’inibizione dell’attivazione cellulare. 75 Caratteristiche delle malattie autoimmuni: Le malattie autoimmuni possono essere sistemiche o organo- specifiche in relazione alla distribuzione degli autoantigeni riconosciuti. Diversi meccanismi effettori possono essere responsabili del danno tissutale (immunocomplessi, autoanticorpi, linfociti T autoreattivi). Le malattie autoimmuni tendono a essere croniche, progressive e ad autoperpetuarsi, in quanto gli antigeni self che scatenano tali reazioni sono persistenti e una volta che la reazione ha inizio si attivano diversi meccanismi di amplificazione che perpetuano la risposta. Le risposte contro un antigene self possono danneggiare i tessuti circostanti, determinando il rilascio o l’alterazione di altri antigeni tissutali (“epitope spreading”). Alla base di tutte le malattie autoimmuni c’è un deficit nella tolleranza al self, che può subentrare se i linfociti autoreattivi non sono eliminati o inattivati e se le APC sono attivate in modo tale che antigeni self siano presentati al sistema immunitario in un contesto immunogenico. Rientrano, in questo caso, difetti di selezione negativa dei linfociti T o B durante la maturazione negli organi linfoidi primari, carenza o difetti funzionali dei linfociti Treg, difetti nei meccanismi di apoptosi dei linfociti autoreattivi maturi e inadeguato funzionamento dei recettori inibitori. In aggiunta, si verifica una presentazione anomala degli antigeni self, quindi un’aumentata espressione e persistenza di antigeni self, che in condizioni normali sarebbero eliminati, o variazioni strutturali causate da modifiche enzimatiche, danni o lesioni cellulari (“neoantigeni”). I processi infiammatori possono contribuire all’insorgenze di malattia autoimmuni in quanto l’immunità innata è un forte stimolo per l’attivazione delle APC, che soverchiano i meccanismi regolatori e determinano un’eccessiva attivazione dei linfociti T. Le anomalie a carico dei linfociti T helper possono, infine, portare anche alla produzione di autoanticorpi. ➢ Fattori genetici: La maggior parte delle malattie autoimmuni è poligenica e i soggetti ereditano molteplici polimorfismi che definiscono una predisposizione genetica per la malattia. Questi geni agiscono di concerto con fattori ambientali. La maggior parte geni identificati non sono specifici per una particolare malattia ma predispongono l’individuo molteplici patologie autoimmuni, alcuni sono invece associati a specifiche malattie autoimmuni, suggerendo che siano implicati nel danno d’organo o possano influenzare specifici linfociti autoreattivi. Ogni polimorfismo dà un piccolo contributo allo sviluppo di una particolare malattia autoimmune ed è generalmente presente anche negli individui sani, ma con frequenza minore. Quando diversi polimorfismi vengono co-ereditati, contribuiscono nel loro insieme alla patogenesi della malattia. La maggior parte dei polimorfismi associati a malattie autoimmuni si trovano in geni coinvolti nello sviluppo e nella regolazione delle risposte immunitarie. Tuttavia, alcuni polimorfismi possono avere anche un ruolo protettivo. Altri polimorfismi possono essere invece localizzati in regioni non codificanti dei geni, dove si ritiene svolgano un ruolo nella regolazione dell’espressione delle proteine codificate. - Alleli MHC: L’associazione con i geni MHC è la più forte. Infatti, nella maggior parte dei casi, il locus HLA da solo contribuisce per almeno la metà della suscettibilità genetica. Ad esempio, nella spondilite anchilosante, gli individui portatori dell’allele HLA-B27 hanno una probabilità 100 volte superiore di sviluppare la malattia. Recentemente, si è osservata anche l’associazione di alleli HLA-DR e DQ con alcune malattie autoimmuni. Un’associazione tra l’HLA e la malattia può essere identificata mediante la tipizzazione sierologica di un locus HLA, ma la reale associazione potrebbe essere con altri alleli ereditati congiuntamente (“linkage disequilibrium”, segregazione di due loci). Questo richiama il concetto di aplotipi HLA estesi, ossia geni del complesso HLA o ad esso adiacenti, che tendono ad essere ereditati in blocco. In molte malattie autoimmuni, i polimorfismi sono presenti nella tasca della molecola MHC che alloggia il peptide. La ragione per cui alcune malattie autoimmuni sono associate ad alleli MHC potrebbe riguardare la presentazione di un certo peptide self a linfociti T patogenetici. - NOD2: i polimorfismi di questo gene sono associati al morbo di Crohn. NOD2 è un NLR, sensore citoplasmatico dei peptidoglicani della parete batterica. Si presume che i polimorfismi ne riducano la funzionalità; di conseguenza i microrganismi sarebbero in grado di oltrepassare l’epitelio intestinale e attivare una reazione infiammatoria cronica e una sregolata risposta contro i microbi commensali. - Proteine del complemento: il deficit di numerose proteine del complemento, quali C1q, C2 e C4 è associato a malattie autoimmuni simili al lupus eritematoso sistemico (LES). È probabile che il deficit di rimozione degli immunocomplessi circolanti e dei corpi apoptotici nei tessuti, dovuto all’assenza dei fattori del complemento, determini il loro accumulo e una conseguente persistenza degli antigeni. 76 - CD25 (IL-2Rα): I polimorfismi che alterano la catena α del recettore per IL-2 sono associati a sclerosi multipla e diabete di tipo 1, in quanto potrebbero compromettere la generazione e funzione dei Treg. - Insulina: polimorfismi del gene per l’insulina sono associati al diabete di tipo 1, in quanto potrebbero ridurre l’espressione timica dell’insulina e impedire l’eliminazione di linfociti T specifici per l’insulina. - Anomalie ereditarie monogeniche (mendeliane): a differenza dei polimorfismi, difetti presenti a livello di un singolo gene, sono esempi di malattie mendeliane in cui la mutazione è rara ma presenta un’alta penetranza e quindi causa l’insorgenza della malattia nella maggior parte degli individui che ne sono portatori. I geni in questione sono AIRE, FoxP3, IL2, IL2R, CTLA4, Fas, FasL, IL10, IL10R. ➢ Fattori ambientali: Contribuiscono alla genesi di malattie autoimmuni in concerto con i fattori genetici: - Infezioni microbiche: L’insorgenza di malattie autoimmuni è spesso associata o preceduta da episodi infettivi. Le infezioni possono favorire l’autoimmunità attraverso due principali meccanismi. o Attivazione bystander (delle cellule limitrofe): Le infezioni a carico di un particolare tessuto possono promuovere l’attivazione locale dell’immunità innata, che comporta il reclutamento tissutale dei leucociti e l’attivazione delle APC. Le APC esprimono molecole co-stimolatorie e secernono citochine in grado di attivare i linfociti T, con la conseguente rottura della tolleranza T verso gli antigeni self. Pertanto, l’infezione causa l’attivazione non specifica dei linfociti T. I microbi possono anche legare i TLR e attivare linfociti B autoreattivi secernenti autoanticorpi. o Mimetismo molecolare: Gli agenti infettivi possono contenere antigeni che cross-reagiscono con gli antigeni self, ne consegue che la risposta verso i microbi può determinare risposte contro gli antigeni self. Un esempio è la febbre reumatica, che si sviluppa in seguito ad infezioni da parte di streptococchi con produzione di anticorpi che cross-reagiscono con proteine del miocardio. o Ruolo protettivo delle infezioni: Alcune infezioni proteggono dallo sviluppo dell’autoimmunità. Infatti, la riduzione degli episodi infettivi è associata all’aumento dell’incidenza di diabete di tipo 1 e sclerosi multipla. Il microbioma intestinale e cutaneo può influenzare lo sviluppo delle malattie autoimmuni, in quanto condiziona la maturazione e l’attivazione del sistema immunitario. - Alterazioni anatomiche nei tessuti: alterazioni tissutali causate da infiammazione, danno ischemico o traumi possono portare all’espressione di antigeni self che non abbiano causato la tolleranza perché normalmente inaccessibili al sistema immunitario. Infatti, antigeni di distretti anatomici con “privilegi immunitari”, come proteine intraoculari e spermatiche, causano uveiti e orchiti post-traumatiche. ➢ Fattori ormonali: molte malattie autoimmuni hanno un’incidenza più elevata nelle donne rispetto agli uomini (per esempio, il LES colpisce le donne con una frequenza circa 10 volte maggiore degli uomini). • MALATTIE DA IPERSENSIBILITÀ: Le malattie a patogenesi immunitaria sono anche chiamate malattie da ipersensibilità. Normalmente, le risposte immunitarie eliminano microrganismi patogeni senza causare gravi lesioni ai tessuti dell’ospite. Talvolta però queste risposte non sono adeguatamente controllate, si rivolgono in modo inappropriato contro i tessuti dell’ospite, o sono attivate da microbi commensali o da antigeni ambientali innocui. In questi casi, la risposta, anziché svolgere un ruolo protettivo, diventa essa stessa causa di malattia. Le malattie da ipersensibilità possono derivare dalla sensibilizzazione nei confronti di diversi tipi di antigeni: - antigeni self (autoimmunità): mancato funzionamento dei normali meccanismi di tolleranza al self; - antigeni non self microbici: nel caso in cui i microbi siano persistenti o nel caso in cui le risposte siano abnormi; le risposte immunitarie a certi microbi possono causare infiammazione grave con formazione di granuloma (es. tubercolosi), possono cross-reagire con i tessuti dell’ospite (es. febbre reumatica), possono essere dirette contro i batteri commensali (es. malattia infiammatorie intestinali), possono causare danno tissutale eliminando cellule dell’ospite che sono ricettacolo per il patogeno (es. epatite virale); - antigeni non microbici ambientali, si manifestano come allergie (mediate da IgE), ipersensibilità da contatto o reazioni idiosincrasiche ai farmaci (“ADR immuno-mediate”, Adverse Drug Reaction). 77 Classificazione delle malattie da ipersensibilità: 1. Ipersensibilità immediata (di tipo I): Le malattie da ipersensibilità immediata sono chiamate allergie o atopie, sono sostenute da anticorpi di classe IgE specifici per antigeni ambientali e rappresentano la forma prevalente di malattie da ipersensibilità. Vedono l’intervento di linfociti TH2 che producono IL-4, IL-5 e IL-13, e la produzione di IgE in grado di attivare i mastociti e gli eosinofili, provocando infiammazione. 2. Ipersensibilità mediata da anticorpi (di tipo II): È causata da anticorpi di classe IgG e IgM specifici per antigeni di superficie o della matrice extracellulare che inducono danno tissutale per attivazione del complemento, reclutamento di cellule infiammatorie e per interferenza con le normali funzioni cellulari. 3. Ipersensibilità mediata da immunocomplessi (di tipo III): È dovuta alla presenza di anticorpi di classe IgM e IgG specifici per antigeni solubili nel sangue che possono formare immunocomplessi. Questi possono depositarsi a livello delle pareti vascolari, causando infiammazione, trombosi e danno tissutale. 4. Ipersensibilità mediata da linfociti T (di tipo IV): Il danno tissutale può derivare dall’attività dei linfociti T CD4+, che producono citochine pro-infiammatorie e reclutano neutrofili e macrofagi, che determinano l’infiammazione, o dei linfociti T CD8+ che contribuiscono al danno tissutale per azione citotossica diretta. • IPERSENSIBILITÀ IMMEDIATA (ALLERGIE): Le allergie (o atopie) vedono coinvolte IgE, citochine come IL-4, IL-5 e IL-13, prodotte da mastociti e eosinofili, linfociti TH2 e cellule linfoidi innate ILC2. Nella fase effettrice di queste risposte, mastociti e eosinofili attivati rilasciano mediatori che causano vasodilatazione, aumento della permeabilità vascolare e contrazione della muscolatura liscia bronchiale e viscerale. Tali reazioni sono chiamate “ipersensibilità immediata” perché, in un individuo precedentemente sensibilizzato, si manifestano rapidamente, entro pochi minuti. Dopo la risposta immediata si attiva anche una “reazione di fase tardiva”, caratterizzata da accumulo di neutrofili, eosinofili e macrofagi. Gli antigeni in grado di scatenare l’ipersensibilità immediata sono chiamati allergeni, e sono comuni proteine ambientali o sostanze chimiche. La produzione di IgE dipende dall’attivazione dei linfociti T CD4+ che producono IL-4. Le reazioni allergiche avvengono solo nel caso in cui i linfociti T abbiano precedentemente stimolato i linfociti B a produrre IgE specifiche per l’allergene e queste si siano fissate sulla superficie dei mastociti legandosi al recettore FcεRI, secondo un fenomeno definito sensibilizzazione dei mastociti. Una successiva riesposizione all’allergene attiverà il rilascio da parte dei mastociti sensibilizzati dei mediatori chimici. L’allergia è l’esempio prototipico di malattie infiammatorie di tipo 2 (che coinvolgono citochine IL-4, IL-5 e IL-13 secrete dai linfociti TH2, dai linfociti TFH e dalle ILC2). Le reazioni allergiche si manifestano con diverse modalità, in relazione al tessuto interessato (rash cutanei, congestione dei sinusoidi, broncocostrizione e difficoltà respiratorie, diarrea, dolori addominali, shock sistemico). Nella forma sistemica più grave, detta anafilassi, i mediatori mastocitari possono provocare la costrizione delle vie aeree fino a causare collasso cardiovascolare e conseguente shock o produrre asfissia, entrambi frequentemente causa di morte. Lo sviluppo delle allergie è il risultato di una serie di interazioni genetico-ambientali estremamente complesse e ancora oggi scarsamente conosciute. È nota una chiara predisposizione genetica allo sviluppo di allergie. Oltre all’esposizione agli allergeni, anche i fattori ambientali, come l’inquinamento atmosferico e l’esposizione a microbi, influenzano lo sviluppo di allergie. 80 Altri stimoli che attivano i mastociti: frammenti C3a e C5a del complemento, anche dette anafilotossine, possono indurre la degranulazione dei mastociti; ligandi dei TLR (DAMP, glucani, peptidi antimicrobici, citochine, ATP, leucotrieni e chemochine), invece, possono indurre la produzione metaboliti dell’acido arachidonico (ma non la degranulazione); neuropeptidi (sostanza P, somatostatina e peptide intestinale vasoattivo) inducono il rilascio di istamina e possono promuovere un’attivazione di tipo neuroendocrino (mediata dal sistema nervoso); basse temperature ed esercizio fisico intenso possono determinare la degranulazione dei mastociti; secretagoghi (sostanze cationiche: peptidi infiammatori endogeni, farmaci) possono indurre la degranulazione; IgG fissate possono attivare i mastociti che esprimono anche FcγR. ➢ Eosinofili: GM-CSF, IL-3 e IL-5 inducono la differenziazione degli eosinofili che poi entrano nel circolo ematico. Gli eosinofili sono normalmente presenti nelle mucose respiratoria, gastrointestinale, genitale e urinaria. Le citochine prodotte dai linfociti TH2 promuovono l’attivazione e il reclutamento degli eosinofili ai siti dove è in corso una reazione di fase tardiva o dove è presente un’infezione da elminti. Sono reclutati grazie alle interazioni fra E-selectina e VCAM-1, espresse dall’endotelio attivato. Altre molecole chemotattiche per gli eosinofili sono CCL11 (eotassina), il frammento del complemento C5a e i mediatori lipidici PAF e LTB4. In seguito ad attivazione, gli eosinofili degranulano. I granuli comprendono idrolasi lisosomiali, la proteina basica maggiore, la proteina cationica e la perossidasi eosinofila; queste ultime tre sono particolarmente tossiche per gli elminti e per i batteri, oltre che per i tessuti circostanti. Inoltre, gli eosinofili producono anche mediatori lipidici, PAF, prostaglandine e cisteinil leucotrieni, e citochine. ➢ Reazione immediata: I primi cambiamenti vascolari sono ben evidenziabili nella reazione pomfoide. La reazione pomfoide deriva dalla sensibilizzazione dei mastociti del derma da parte di IgE legate a FcεRI, dall’aggregazione delle IgE da parte dell’antigene e dall’attivazione dei mastociti con rilascio di mediatori, principalmente l’istamina. Questa lega i recettori espressi dalle cellule endoteliali delle venule che, di conseguenza, sintetizzano e rilasciano PG12 ed NO, causando la vasodilatazione e la fuoriuscita di plasma. Test allergologici: quando un individuo precedentemente esposto ad un allergene viene sottoposto ad un richiamo mediante un’ulteriore iniezione intradermica dello stesso antigene, il sito d’inoculo si arrossa, a causa della vasodilatazione locale, e si gonfia rapidamente, a causa della fuoriuscita di plasma dalle venule. Questa tumefazione morbida è detta pomfo e può riguardare un’area cutanea di svariati cm di diametro. Successivamente, i vasi sanguigni presenti ai margini del pomfo si dilatano e appaiono congestionati per la presenza di globuli rossi, fino a produrre una caratteristica formazione arrossata periferica definita eritema. Il pomfo raggiunge l’apice entro 5-10 min dalla somministrazione dell’antigene e recede in meno di 1 h. I test allergologici utilizzati in clinica si basano sulla capacità dei diversi antigeni di provocare una reazione pomfoide quando vengono applicati sulla cute con un cerotto a lento rilascio o con iniezioni superficiali. ➢ Reazione di fase tardiva: Nel giro di 2-4 ore, la formazione pomfoide è seguita da una reazione tardiva che consiste nell’accumulo di neutrofili, eosinofili, basofili e linfociti TH2. L’infiammazione raggiunge il suo apice intorno alle 24 ore, per poi recedere gradualmente. Le citochine prodotte dai mastociti (come il TNF) inducono nell’endotelio l’espressione di molecole di adesione come la E-selectina, ICAM-1 e varie chemochine, che legano i recettori CCR4 e CCR3 espressi dagli eosinofili e dai linfociti TH2. Tali eventi sono responsabili del reclutamento dei leucociti. La reazione di fase tardiva può verificarsi anche in assenza di una precedente e conclamata reazione di ipersensibilità immediata (asma bronchiale, eczema). ➢ Malattie a base allergica: La sede di contatto dell’allergene determina in quali organi o tessuti avviene l’attivazione dei mastociti e dei linfociti TH2. I mastociti sono particolarmente abbondanti nella cute e nella mucosa respiratoria e gastrointestinale e in effetti questi tessuti sono quelli più frequentemente interessati. - Anafilassi sistemica: è una reazione sistemica spesso causata da antigeni introdotti tramite iniezione, puntura d’insetto o assorbimento intestinale. In questi casi, l’allergene attiva contemporaneamente i mastociti presenti in vari tessuti, provocando la liberazione di mediatori che diffondono in tutti i distretti corporei. La riduzione del tono vascolare (vasodilatazione) e la perdita di plasma (aumento della permeabilità vascolare) provocati dai mediatori di origine mastocitaria possono portare ad una significativa riduzione della pressione arteriosa (ipotensione) detta shock anafilattico, spesso letale. 81 I mediatori mastocitari possono causare difficoltà respiratorie (edema alla laringe, broncocostrizione ed eccessiva secrezione di muco), diarrea (aumentata peristalsi intestinale e eccessiva secrezione di muco) e orticaria a livello cutaneo. L’anafilassi si sviluppa entro pochi secondi o al massimo un’ora dall’esposizione all’allergene. La terapia d’obbligo in questi casi è la somministrazione di adrenalina per via sistemica che interrompe gli effetti broncocostrittori e vasodilatatori causati dai mediatori rilasciati dai mastociti, migliora anche la gittata cardiaca, aumentando la probabilità di sopravvivenza al temuto collasso circolatorio. Anche i farmaci antistaminici possono portare qualche beneficio. - Asma bronchiale: gruppo di malattie polmonari caratterizzate da ipersensibilità delle cellule muscolari lisce dei bronchi e conseguenti attacchi ricorrenti e reversibili di ostruzione delle vie aeree superiori. I pazienti presentano attacchi parossistici di broncocostrizione e abbondante produzione di muco denso, che portano all’ostruzione bronchiale e difficoltà respiratorie. Circa il 70% dei casi di asma è dovuto a reazioni da IgE, che indicano la presenza di atopie (nel rimanente 30% l’asma può essere innescato da stimoli di natura non immunologica come farmaci, basse temperature ed esercizio fisico). L’asma bronchiale atopico è innescato dall’attivazione dei mastociti in risposta al legame dell’allergene alle IgE e dall’attivazione dei linfociti TH2. I mediatori lipidici e le citochine prodotti causano la costrizione delle fibrocellule muscolari lisce respiratorie e l’aumento della secrezione di muco. Gli agenti antinfiammatori rappresentano la prima opzione terapeutica: i corticosteroidi somministrati per inalazione bloccano la produzione di citochine infiammatorie. Il rilassamento della muscolatura liscia bronchiale (che previene il broncospasmo) si ottiene principalmente mediante somministrazione di farmaci che inducono un aumento dei livelli di cAMP, noto per inibire la contrazione delle cellule muscolari lisce. Questi farmaci sono attivatori dell’adenilato ciclasi, come gli agonisti β2-adrenergici (Sulbutamolo o Ventolin) somministrati per inalazione e dotati di azione prolungata. Gli antagonisti del leucotriene agiscono bloccandone il legame ai recettori sulle cellule muscolari lisce bronchiali. Poiché l’istamina ha un ruolo modesto nella broncocostrizione, gli antistaminici (H1-antagonisti) non sono utili nel trattamento dell’asma. Inoltre, poiché molti di questi sono anche anticolinergici, possono addirittura peggiorare l’ostruzione delle vie respiratorie causando l’aumento delle secrezioni di muco. È stato approvato anche un anticorpo monoclonale umanizzato contro le IgE (Omalizumab). - Orticaria: è una reazione pomfoide acuta indotta dai mediatori dei mastociti che si manifesta in risposta al un contatto diretto con l’allergene o il suo ingresso in circolo. Poiché la reazione è dovuta in particolare all’istamina, gli antistaminici la attenuano efficacemente. Può persistere per ore o giorni. - Rinite allergica: definita anche febbre da fieno, è la più frequente patologia a base allergica ed è una conseguenza delle reazioni di ipersensibilità immediata delle vie aeree (per esempio pollini e polveri domestiche da acari) dopo l’inalazione. Le manifestazioni clinico-patologiche comprendono edema della mucosa associato a infiltrazione leucocitaria (principalmente eosinofili), ipersecrezione di muco, tosse e difficoltà respiratorie. I più comuni farmaci impiegati sono gli antistaminici H1-antagonisti. ➢ Immunoterapia specifica (desensibilizzazione): Sono stati messi a punto protocolli empirici di immuno- terapia, tra cui la desensibilizzazione (immunoterapia specifica o “vaccino”), in cui piccole quantità di antigene vengono somministrate ripetutamente sottocute o a livello sottolinguale. Questo determina la diminuzione della IgE specifiche e l’aumento delle IgG che, a loro volta, possono contribuire a inibire la produzione delle IgE neutralizzando l’antigene e promuovendo una reazione di feedback anticorpale. • MALATTIE CAUSATE DA ANTICORPI: Queste malattie sono provocate da: - anticorpi che legano antigeni espressi da particolari cellule/tessuti oppure dalla matrice extracellulare; - complessi antigene-anticorpo che si sono formati in circolo per poi depositarsi sulla parete vascolare. Gli anticorpi verso antigeni cellulari o tissutali riguardano in modo specifico le cellule/tessuti che li esprimono, infatti la condizione è spesso locale piuttosto che sistemica. Al contrario, la formazione e la deposizione di immunocomplessi sono indipendenti dall’ubicazione delle cellule che esprimono l’antigene in questione, perciò tendono a essere sistemiche, coinvolgendo una molteplicità di tessuti e organi (es. rene e articolazioni). 82 ➢ Malattie causate da anticorpi contro antigeni cellulari e tissutali (ipersensibilità di tipo II): Questi anticorpi sono, in genere, di natura autoimmune e talvolta contro antigeni microbici. Più raramente, gli anticorpi possono essere prodotti contro un antigene esogeno cross-reattivo con una componente self dell’ospite: ad esempio, anticorpi contro alcuni antigeni degli streptococchi cross-reagiscono con antigeni cardiaci, depositandosi nel cuore e causando miocardite; questo è responsabile della febbre reumatica. Gli anticorpi rivolti contro antigeni tissutali assumono rilevanza patogenetica con tre meccanismi principali: - Opsonizzazione e fagocitosi: gli anticorpi che si legano agli antigeni espressi sulla membrana di una cellula possono opsonizzarla direttamente o tramite l’attivazione della cascata del complemento (che opsonizza la cellula). Le cellule opsonizzate vengono poi fagocitate ed eliminate dai fagociti che esprimono recettori per la porzione Fc delle Ig o per le proteine del complemento. Questo meccanismo citotossico caratterizza l’anemia emolitica e la trombocitopenia autoimmuni (in cui gli anticorpi specifici causano l’opsonizzazione e la rimozione di eritrociti e piastrine), e le reazioni trasfusionali. - Infiammazione: gli anticorpi che si depositano nei tessuti attivano il complemento, con liberazione di frammenti come C5a e C3a, che reclutano neutrofili e macrofagi. Tali leucociti esprimono recettori per l’Fc delle IgG e per il complemento. L’attivazione di questi recettori (in particolare quelli per l’Fc) ne attiva la cascata di trasduzione intracellulare, che provoca il rilascio di mediatori come enzimi lisosomiali e specie reattive dell’ossigeno (ROS), responsabili di danno tissutale. Un tipo di flogosi immuno-mediata con attivazione leucocitaria e danno tissutale è, ad esempio, la glomerulonefrite. - Funzioni cellulari anomale: gli anticorpi si possono anche legare a recettori (per specifici ligandi endogeni, quali ormoni o neurotrasmettitori) o a proteine della cellula e interferire con le loro funzioni. Per esempio, anticorpi specifici per i recettori dell’ormone che stimola la tiroide causano il morbo di Graves, anticorpi specifici per il recettore nicotinico dell’acetilcolina causano la miastenia gravis, e anticorpi specifici per il fattore intrinseco (assorbimento vitamina B12) causano l’anemia perniciosa. ➢ Malattie causate da accumulo e deposito di immunocomplessi (ipersensibilità di tipo III): Questi immunocomplessi capaci di causare malattie sono anticorpi legati ad autoantigeni o ad antigeni non-self. Malattia da siero: L’esistenza delle malattie da immunocomplessi fu inizialmente ipotizzata all’inizio del ’900 da un brillante medico, Clemens Von Pirquet. A quell’epoca, la difterite veniva trattata con siero prelevato da cavalli immunizzati con la tossina difterica, un tipico esempio di immunizzazione passiva. Von Pirquet notò che, nei pazienti che ricevevano siero di cavallo contenente antitossine, si sviluppavano infiammazioni articolari (artrite), eritema cutaneo e febbre. La presentazione clinica di tali manifestazioni suggeriva che il danno non fosse dovuto all’infezione o a componenti tossici presenti nel siero. I sintomi comparivano almeno una settimana dopo la prima iniezione di siero e si presentavano sempre più rapidamente a ogni successivo inoculo. Von Pirquet concluse che questa malattia era causata da una risposta immunitaria dell’ospite a qualche componente del siero, ipotizzando che l’ospite producesse anticorpi in grado di formare complessi con le proteine di cavallo e che quindi la malattia fosse dovuta agli anticorpi stessi o agli immunocomplessi. Sappiamo ora che le sue conclusioni erano del tutto esatte. Von Pirquet chiamò questa patologia malattia da siero. La stessa reazione era stata osservata anche nei soggetti trattati con siero per il tetano. Questa evenienza rimane un problema clinico ancora attuale in quanto si verifica in pazienti che ricevono anticorpi monoclonali, ottenuti in roditori, contenenti sequenze specie-specifiche, e anche in pazienti che ricevano anticorpi di origine animale contro il veleno di serpenti o contro la rabbia. La malattia da siero è utilizzata oggi in un modello sperimentale che prevede l’immunizzazione di un coniglio con una dose elevata di un antigene proteico. Questo determina la formazione di anticorpi specifici che si legano ad antigeni circolanti, formando complessi, che vengono inizialmente rimossi dai macrofagi epatici e splenici. A mano a mano che gli immunocomplessi si accumulano, una quantità sempre maggiore si deposita nel letto vascolare. Qui i complessi inducono un’infiammazione ricca di neutrofili, attivando la via classica del complemento e legando i recettori per Fc dei leucociti. Gli immunocomplessi si depositano spesso a livello delle arteriole, dei glomeruli renali e delle sinovie articolari, e per questo motivo le manifestazioni cliniche e patologiche più comuni sono costituite spesso da vasculiti, nefriti e artriti. 85 ➢ Malattie causate da linfociti T citotossici: Le risposte dei CTL verso i virus si rendono responsabili di danno tissutale per l’azione litica dei CTL. Poiché i CTL non sono in grado di distinguere a priori i virus citopatici (che danneggiano direttamente la cellula infettata) dai virus non citopatici, uccidono le cellule infettate a prescindere dal fatto che l’infezione sia o meno pericolosa per l’ospite. Tipici esempi di infezioni virali in cui le lesioni sono largamente dovute alla risposta dei CTL e non al virus sono la coriomeningite linfocitica murina e alcune forme di epatite virale nell’uomo. Inoltre, i CTL sembrerebbero contribuire al danno tissutale nel diabete di tipo 1, in cui si ha la distruzione delle cellule β delle isole pancreatiche. • PATOGENESI DELLE PRINCIPALI MALATTIE DA IPERSENSIBILITÀ: ➢ Lupus eritematoso sistemico (LES): è una patologia autoimmune cronica multisistemica con fasi di remissione e riacutizzazione che colpisce prevalentemente le donne (il rapporto donne/uomini è di 10:1). Le sue principali manifestazioni cliniche sono l’eruzione cutanea, l’artrite e la glomerulonefrite, sono anche frequenti l’anemia emolitica, la trombocitopenia e disturbi del sistema nervoso centrale. Nei pazienti affetti da LES si riscontrano autoanticorpi antinucleo (anti-DNA, anti-ribonucleoproteine, contro istoni e antigeni nucleari). Gli immunocomplessi, formati dagli autoanticorpi e dai loro antigeni, si depositano nelle arteriole e nei capillari sistemici, rendendosi responsabili di nefrite, artrite e vasculite. Tra i fattori genetici c’è una maggiore incidenza negli individui che esprimono alleli HLA-DR2 o DR3. Nel 5% dei casi si osserva un deficit delle proteine della via classica del complemento, C1q, C2 e C4, che può determinare inefficienza nell’eliminazione degli immunocomplessi e delle cellule apoptotiche. In alcuni pazienti è stato descritto un particolare polimorfismo nel gene per il recettore inibitorio FcγRIIB, che può contribuire a un inadeguato controllo dell’attivazione dei linfociti B e dell’immunità innata. Tra i fattori ambientali, invece, si annoverano l’esposizione ai raggi ultravioletti, che si presume possa causare la morte per apoptosi delle cellule, con conseguente rilascio di antigeni nucleari. I polimorfismi dei geni che predispongono al LES determinano l’incapacità di mantenere la tolleranza da parte dei linfociti B e T, permettendo la persistenza dei cloni autoreattivi. I linfociti B autoreattivi vengono quindi stimolati a produrre anticorpi verso gli antigeni nucleari. Gli immunocomplessi sono internalizzati nell’endosoma e gli acidi nucleici possono legare i TLR endosomiali inducendo la produzione di nuovi autoanticorpi e stimolando le DC plasmacitoidi a produrre IFN-α, che amplifica ulteriormente la risposta e potenzia i meccanismi apoptotici. Ne deriva un ciclo vizioso in cui gli autoanticorpi hanno affinità sempre maggiore. Gli approcci terapeutici in sperimentazione prevedono anticorpi anti-IFN-α, la possibilità di interferire con i sistemi di trasduzione dei TLR, oppure anticorpi anti-CD20 per eliminare i linfociti B autoreattivi. Un anticorpo che blocca la proteina BAFF è stato recentemente autorizzato. Ulteriori approcci prevedono la deplezione di linfociti B e plasmacellule a lunga sopravvivenza tramite inibitori del proteasoma. ➢ Artrite reumatoide (AR): è una patologia infiammatoria che coinvolge le articolazioni. È caratterizzata da un’infiammazione della sinovia associata alla distruzione della cartilagine articolare e dell’osso. Nella sinovia infiammata si riscontra la presenza di linfociti TH1 o TH17, linfociti B attivati, plasmacellule e macrofagi e, nei casi più gravi, organi linfoidi terziari. Nel liquido sinoviale sono presenti numerose citochine, tra cui IL-1, IL-8, TNF, IL-6, IL-17 e IFN-γ, che stimolano il reclutamento dei leucociti (i cui prodotti causano danno tissutale) e attivino le cellule sinoviali residenti a produrre enzimi proteolitici (collagenasi), anch’esse in grado di provocare la distruzione della cartilagine, dei legamenti e dei tendini. Infine, anche un’aumentata attività degli osteoclasti contribuisce al danno osseo e potrebbe essere causata dalla produzione da parte dei linfociti T attivati del ligando di RANK, che attiva la differenziazione dei precursori degli osteoclasti legando RANK. Le complicanze sistemiche sono vasculite e danno polmonare. I pazienti affetti da AR spesso presentano IgM o IgG circolanti dirette verso le porzioni Fc delle loro stesse IgG e sono dette fattori reumatoidi (la loro presenza è un parametro diagnostico). Un’altra specificità anticorpale è verso peptidi ciclici contenenti residui di citrullina (CCP), anch’essi marker diagnostici. La predisposizione all’AR è legata all’aplotipo HLA-DR4 e a polimorfismi del gene per la tirosin fosfatasi PTPN22. Le lesioni causate da insulti ambientali (es. fumo, infezioni) inducono la sostituzione dei residui di arginina con citrullina nelle proteine self che si comportano da neoantigeni per cui non c’è tolleranza. 86 Le terapie più promettenti prevedono il blocco delle citochine tramite antagonisti del TNF, un anticorpo anti-IL-6R, un antagonista di IL-1 e un molecola che inibisce la via di JAK, il blocco della co-stimolazione con CTLA-4-Ig (Belatacept), e l’eliminazione dei linfociti B con anticorpi anti-CD20 (Rituximab). ➢ Sclerosi multipla (SM): è una malattia autoimmune del sistema nervoso centrale in cui i linfociti T CD4+ del tipo TH1 e/o TH17 reagiscono contro gli antigeni self della mielina causando neuroinfiammazione con attivazione dei macrofagi presenti attorno alle fibre nervose intracraniche e del midollo spinale. Ciò porta alla degradazione della mielina e quindi ad anomalie della conduzione nervosa e deficit neurologico. A livello clinico, la malattia esordisce con debolezza fisica, per poi progredire con paralisi e disturbi oculari. È possibile che un’infezione virale attivi i linfociti T autoreattivi per gli antigeni della mielina attraverso un meccanismo di mimetismo molecolare, mentre la perdita della tolleranza verso il self potrebbe essere causata della presenza di geni predisponenti (polimorfismi del locus HLA-DRB1*1501). Si è osservata anche una associazione con un polimorfismo della regione non codificante di CD25, che codifica per IL- 2Rα, importante per la sopravvivenza dei linfociti Treg (infatti la presenza di Treg risulta deficitaria). Una volta generati, i linfociti T autoreattivi specifici migrano nel SNC, dove si attivano per il riconoscimento della mielina e rilasciano citochine in grado di reclutare e attivare macrofagi e linfociti T, che portano alla distruzione della mielina. La malattia si propaga attraverso un processo noto come espansione epitopica (il danno tissutale porta ad una liberazione anomala di antigeni proteici con esposizione di nuovi epitopi). In passato, l’immunoterapia per la SM si basava sulla somministrazione di IFN-β, che potrebbe alterare la risposta ad altre citochine. Di recente, sono state sviluppate nuove terapie, tra cui un anticorpo contro l’integrina VLA-4 (Natalizumab) che blocca il reclutamento leucocitario, Fingolimod, che blocca la migrazione dei linfociti T ad opera della S1P, e la soppressione dei linfociti B tramite l’anticorpo anti- CD20 (Rituximab). Si sta valutando la possibilità di somministrare peptidi correlati alla proteina basica della mielina (MBP) al fine di indurre una tolleranza antigene-specifica o per generare Treg specifiche. La maggior parte delle terapie sono più efficaci nei primi stadi della malattia, caratterizzati da infiammazione, piuttosto che nelle fasi di neuro-degenerazione della malattia, responsabili della disabilità permanente. ➢ Diabete mellito di tipo 1: è una malattia metabolica multisistemica causata da un deficit di produzione di insulina. La malattia si manifesta con iperglicemia e chetoacidosi, mentre le sue complicanze croniche includono l’aterosclerosi progressiva delle arterie (e conseguente necrosi ischemica) e un difetto micro- angiopatico con conseguente danno alla retina, ai glomeruli renali e ai nervi periferici. La malattia è causata da una carenza di insulina dovuta alla distruzione da parte del sistema immunitario delle cellule β delle isole di Langerhans nel pancreas. I pazienti necessitano di una terapia sostitutiva continua con insulina. La distruzione delle cellule β del pancreas può essere causata dall’infiammazione attivata dai linfociti TH1 autoreattivi verso antigeni delle isole pancreatiche (tra cui l’insulina), la lisi delle cellule pancreatiche da parte di CTL, la produzione locale di citochine (TNF, IL-1) e la produzione di autoanticorpi. Modificazioni post-traduzionali di antigeni insulari possano comportare l’emergenza di neoantigeni non tollerati. Una forte predisposizione è determinata dagli alleli HLA-DR3 e DR4 e da polimorfismi nel gene per l’insulina che potrebbero condizionarne l’espressione a livello timico impedendo la selezione negativa dei linfociti T autoreattivi verso l’insulina. Le infezioni virali (es. virus Coxsackie B4) potrebbero precedere l’esordio del diabete di tipo 1, forse provocando un primo danno cellulare, cui segue una risposta infiammatoria, l’espressione delle molecole costimolatorie e la conseguente risposta autoimmune. Pare però anche che in altri casi contrarre infezioni microbiche ripetute possa proteggere dall’insorgenza del diabete di tipo 1. Tra le nuove terapie per la cura del diabete di tipo 1, le più interessanti mirano ad indurre la tolleranza tramite peptidi “diabetogenici” derivati dall’insulina e l’induzione o somministrazione di linfociti Treg. • TERAPIA PER LE MALATTIE A BASE IMMUNITARIA: Il principale trattamento da anni si basa su antinfiammatori corticosteroidei che inibiscono la secrezione di citochine e altri mediatori infiammatori. Tuttavia, di recente sono emerse nuove terapie, come gli antagonisti delle citochine (anti-TNF, IL-1, IL-17 e IFN-α), anticorpi monoclonali che depletano i linfociti B (anti-CD20) oppure le integrine (anti-VLA-4). 87 Malattie da ipersensibilità immediata (ipersensibilità di tipo I) Anafilassi sistemica Liberazione di mediatori dell’infiammazione che diffondono in modo sistemico causando la contrazione delle cellule endoteliali, che porta a vasodilatazione e aumento della permeabilità vascolare con conseguente fuoriuscita di plasma. Questi eventi possono portare ad abbassamento della pressione arteriosa con shock anafilattico, spesso letale. Gli stessi mediatori, prodotti da mastociti e altre cellule coinvolte nelle reazioni allergiche, causano la costrizione della muscolatura liscia delle pareti dei bronchi (broncocostrizione) e del tratto gastrointestinale (aumentata peristalsi) e aumentano la secrezione di muco. Asma bronchiale È un gruppo di malattie polmonari caratterizzate da ipersensibilità delle cellule muscolari lisce dei bronchi e conseguenti attacchi ricorrenti e reversibili di ostruzione delle vie aeree superiori. I pazienti presentano attacchi parossistici di broncocostrizione e abbondante produzione di muco denso, che portano all’ostruzione bronchiale e difficoltà respiratorie. Questi effetti sono causati dalla liberazione dei mediatori lipidici e delle citochine prodotti dall’attivazione dei mastociti durante le reazione allergiche (in misura minore istamina). Rinite allergica È una conseguenza delle reazioni allergiche delle vie aeree verso pollini e polveri da acari in seguito ad inalazione. Si manifesta con edema della mucosa associato a infiltrazione leucocitaria (soprattutto eosinofili), ipersecrezione di muco, tosse e difficoltà respiratorie. Allergie alimentari Sono causate da reazioni allergiche nei confronti di alcuni alimenti che inducono il rilascio di mediatori da parte dei mastociti mucosali e sub-mucosali del tratto gastrointestinale dell’orofaringe. Si manifestano con prurito, edema, aumentata peristalsi, diarrea e vomito. Orticaria Si tratta di una reazione pomfoide acuta indotta dai mediatori dei mastociti in risposta al un contatto diretto con l’allergene o il suo ingresso in circolo. Può persistere per ore/giorni. Dermatite atopica (eczema) È una malattia della pelle spesso associata a mutazione del gene che codifica per la proteina filaggrina, che causa una disfunzionalità della barriera cutanea aumentandone la capacità di assorbire antigeni ambientali e attivare i cheratinociti a produrre citochine infiammatorie. Malattie causate da anticorpi (ipersensibilità tipo II) Anemia emolitica Gli antigeni bersaglio sono proteine di membrana degli eritrociti. Autoanticorpi diretti contro tali antigeni causano l’opsonizzazione, la fagocitosi degli eritrociti e lisi mediata dal complemento. Si manifesta clinicamente mediante emolisi e anemia. Può agire come patologia autoimmune, oppure anche come reazione emolitica mediata da alcuni farmaci. Porpora trombocitopenica Gli antigeni bersaglio sono proteine di membrana delle piastrine. Autoanticorpi sono diretti contro questi antigeni secondo lo stesso dell’anemia emolitica: l’opsonizzazione, la fagocitosi delle piastrine e la lisi mediata dal complemento. Si manifesta patologicamente sottoforma di emorragie anomale dovute a mancata coagulazione per deficit di piastrine. Reazione trasfusionale Gli antigeni bersaglio sono gli antigeni ematici del gruppo AB0 e del gruppo Rh. Gli anticorpi diretti contro questi antigeni si formano per cross-reazione con antigeni dei batteri commensali; ogni individuo è tollerante solo nei confronti dei propri antigeni ematici. Se un soggetto subisce una trasfusione con sangue incompatibile per il gruppo AB0, gli anticorpi naturali diretti contro i glicolipidi sulla membrana degli eritrociti determineranno una reazione emolitica causata da opsonizzazione, fagocitosi e lisi del complemento. Si piò manifestare con febbre, shock, brividi, insufficienza renale e talvolta può essere fatale. Il rigetto iperacuto ai trapianti è un esempio di questo tipo di reazione emolitica. Pemfigo volgare Gli antigeni bersaglio sono proteine della giunzione intracellulare delle cellule epidermiche (desmoglenia). Autoanticorpi diretti contro questi antigeni causano la distruzione delle adesioni intercellulari che si manifestano tramite la formazione di vescicole cutanee. Sindrome di Goodpasture Gli antigeni bersaglio sono proteine della membrana basale dei glomeruli renali e degli alveoli polmonari (non-collagene). Autoanticorpi contro questi antigeni comportano uno stato infiammatorio causato dal reclutamento di leucociti tramite recettori del complemento e recettori per Fc. Si manifesta clinicamente con nefrite ed emorragia polmonare.
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