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Riassunto "Inferni Artificiali" di Claire Bishop, Sintesi del corso di Arte

Riassunto "Inferni Artificiali" di Claire Bishop.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 01/07/2020

Alessandra____97
Alessandra____97 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Inferni Artificiali" di Claire Bishop e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! 1 RIASSUNTO “INFERNI ARTIFICIALI – LA POLITICA DELLA SPETTATORIALITA’ NELL’ARTE PARTECIPATIVA” di Claire Bishop INTRODUZIONE 1.1 L’affermarsi dell’arte partecipativa a partire dai primi anni ‘90 A partire dei primi anni ’90 si assiste alla crescita dell’interesse artistico per la partecipazione e per la collaborazione in molti luoghi a livello globale. Questo campo di pratiche che si svolgono al di fuori dello studio dell’artista (post-studio pratices) è attualmente indicato con una varietà di termini: arte partecipativa, arte impegnata socialmente, arte incentrata sulla comunità, arte collaborativa e (più di recente) pratica sociale. Ci riferiremo a questa tendenza con il termine arte partecipativa, poiché tale espressione connota il coinvolgimento di molte persone ed evita le ambiguità dell’“impegno sociale”, che potrebbe riguardare una vasta gamma di lavori. Dal momento che l’arte risponde sempre al suo ambiente, quale artista non è socialmente impegnato? In questo libro si riflette sulla definizione di partecipazione, secondo la quale le persone costituiscono sia il medium sia il materiale artistico fondamentale, da intendersi nel senso che hanno nel teatro e nella performance. Fino ai primi anni Novanta, l’arte incentrata sulla comunità era confinata nella periferia del mondo dell’arte; oggi è diventato un genere vero e proprio, con tanto di Master sulle pratiche sociali e due premi dedicati. Come affermato precedentemente, si tratta di un fenomeno globale che si estende dall’America al Sud-est asiatico e alla Russia, e che cresce più intensamente nei Paesi europei con una forte tradizione di finanziamenti pubblici per le arti. Queste pratiche hanno avuto, per la maggior parte, un profilo debole nel mondo dell’arte commerciale. I progetti collettivi sono infatti difficili da vendere rispetto ai lavori firmati da artisti singoli ed è meno probabile che la frammentaria gamma di eventi sociali, pubblicazioni o performance siano concepiti come “opere”. Nonostante ciò i progetti collettivi occupano una posizione di rilievo nel settore pubblico: commissioni, biennali e mostre a tema politico. Il nucleo centrale del libro è la crescita di queste pratiche in Europa e la loro relazione con l’immaginario politico in trasformazione di quest’area. L’elemento caratteristico dell’interesse artistico per il sociale negli anni Novanta è stato il desiderio di rovesciare il rapporto tradizionale tra l’oggetto d’arte, l’artista e il pubblico: 1. L’artista è visto meno come produttore singolo di oggetti specifici e più come collaboratore e produttore di situazioni; 2. L’opera d’arte da prodotto finito, trasportabile, commerciabile è ripensata come progetto in corso; 3. Il pubblico, precedentemente concepito come “spettatore” o “osservatore”, diventa co-produttore o partecipante. Si mira a mettere sotto pressione i modi convenzionali di produzione e di consumo di arte propri del capitalismo. In questo libro ci si concentrerà soprattutto sull’arte degli anni Novanta e Duemila, ma l’interesse degli artisti per la partecipazione e la collaborazione non è senza precedenti. Da una prospettiva europea occidentale, la svolta sociale nell’arte contemporanea può essere contestualizzata all’interno di tre eventi storici antecedenti, sintomi di sconvolgimenti politici e di movimenti per il cambiamento sociale: 1. Le avanguardie storiche europee che si sviluppano intorno al 1917 2. La neo-avanguardia che conduce al 1968 3. La caduta del comunismo nel 1989. 2 Queste tre date formano la narrazione del trionfo, dell’ultima eroica resistenza e del collasso di una visione collettivista della società. Da una prospettiva disciplinare, qualsiasi arte che si impegna nella società e che coinvolge le persone in essa richiede una lettura metodologica che è, almeno in parte, sociologica. L’arte partecipativa ci richiede nuovi modi di analizzare l’arte che non sono legati più esclusivamente alla visualità, anche se la forma rimane un vettore cruciale per comunicare un significato. 1.2 Le tre strutture in cui è suddiviso il libro La struttura del libro è divisa in tre parti: 1. Prima parte: costituisce un’introduzione teorica che espone i termini chiave intorno ai quali ruota l’arte partecipativa. 2. Seconda parte: comprende dei case studies storici, ovvero momenti critici in cui questioni pertinenti ai dibatti contemporanei sull’impegno sociale nell’arte sono state espresse e inquadrate in modi particolarmente precisi. 3. Terza parte: tenta di storicizzare il periodo successivo al 1989 e si concentra su due tendenze contemporanee dell’arte partecipativa. PARTE I La prima parte del libro costituisce un’introduzione teorica che espone i termini chiave intorno ai quali ruota l’arte partecipativa. CAPITOLO 1 LA SVOLTA SOCIALE: LA COLLABORAZIONE E LE SUE INSODDISFAZIONI 1.1 Introduzione Insieme a “utopia” e “rivoluzione”, collettività e collaborazione sono state tra i temi più persistenti all’interno dell’arte d’avanguardia e della produzione espositiva dell’ultimo decennio. Anche quando un’opera d’arte non è esplicitamente partecipativa, i riferimenti a comunità, collettività e rivoluzione, sono sufficienti a indicare una distanza critica nei confronti del nuovo ordine neo-liberista mondiale (riduzione degli spazi di aggregazione, per esempio con la dittatura di Pinochet). Si è tentati di affermare che l’arte partecipativa costituisca probabilmente l’avanguardia che abbiamo oggi: artisti che disegnano situazioni sociali come progetti de-materializzati, contro il mercato e politicamente impegnati a proseguire la vocazione dell’avanguardia a fare dell’arte una parte più vitale dell’esistenza. 1.1.1 Il pensiero di Guy Debord Sono molteplici i punti di riferimento di teorici che dominano l’odierna letteratura sull’arte collaborativa, un esempio è Walter Benjamin. Tra questi teorici, il più frequentemente citato è il regista e scrittore francese Guy Debord (1931-1994), per il suo atto d’accusa contro gli effetti alienanti e separatori del capitalismo (all’interno de “La società dello spettacolo” del 1967/1968) e per aver teorizzato la produzione collettiva di “situazioni”. Per molti artisti e curatori di sinistra, la critica di Debord centra perfettamente il motivo per cui la partecipazione è importante in quanto progetto: essa ri-umanizza una società resa inebetita e frammentata dagli strumenti repressivi della produzione capitalista. Considerata la quasi totale saturazione da parte del mercato del nostro repertorio di immagini, la pratica artistica non può più ruotare intorno alla costruzione di oggetti che vengono consumati da uno spettatore passivo. Deve esserci, al contrario, un’arte dell’azione che si interfaccia con la realtà e si muove per ricostruire il legame sociale. 5 1.4 Il regime estetico Uno dei problemi maggiori all’interno del dibattito sull’arte socialmente impegnata è il suo rapporto rinnegato (=negato, respinto) con l’estetica3. Con ciò non si intende dire che l’opera non si adatta alle nozioni dell’“attraente” o del bello, anche se spesso è così; molti progetti sociali offrono pessime fotografie, e queste immagini comunicano pochissime informazioni riguardo al contesto, pur se cruciale per capire l’opera. Significativa è la tendenza dei sostenitori dell’arte socialmente collaborativa a vedere l’estetica come (nel migliore dei casi) qualcosa di meramente visivo e come (nel peggiore dei casi) un ambito elitario di seduzione sfrenata complice con lo spettacolo. Nello stesso tempo, tali sostenitori affermano anche che l’arte è una zona indipendente, libera dalle pressioni della giustificazione, della burocrazia istituzionale e dai rigori della specializzazione. La conclusione è che l’arte è percepita come troppo separata dal mondo reale e tuttavia come l’unico spazio in cui è possibile sperimentare; paradossalmente l’arte deve rimanere autonoma al fine di avviare o realizzare un modello per il cambiamento sociale. 1.4.1 La relazione tra estetica e politica secondo Jacques Rancière Jacques Rancière, a partire dai tardi anni Novanta, ha elaborato un resoconto della relazione tra estetica e politica. Egli sostiene che il sistema dell’arte così come noi lo conosciamo a partire dall’Illuminismo – un sistema che egli chiama “regime estetico dell’arte” – implica una tensione e una confusione tra autonomia (il desiderio che l’arte ha di essere estranea a relazioni finalizzate a uno scopo) ed eteronomia (cioè la confusione tra arte e vita). Rancière più che considerare autonoma l’opera d’arte, pone l’attenzione sull’autonomia della nostra esperienza in relazione all’arte. Nel fare ciò, Rancière riprende la tesi di Kant secondo la quale il giudizio estetico sospende il dominio delle facoltà che appartengono alla ragione (nella morale) e alla comprensione (nella conoscenza). Secondo Rancière l’esperienza estetica implica l’interrogarsi su come il mondo è organizzato e quindi sulla possibilità di cambiarlo o ridistribuirlo. L’estetica e la politica quindi si sovrappongono nel loro interesse per la distribuzione e la condivisione di idee, abilità ed esperienze su certi argomenti – ciò che Rancière chiama le partage du sensible (la partizione del sensibile). In questa cornice non è possibile concepire un giudizio estetico che non sia allo stesso un giudizio politico. Se da un lato egli teorizza la relazione tra estetica e politica, uno degli inconvenienti di questa teoria è che apre la porta a una situazione in cui tutta l’arte è politica, dal momento che il sensibile può essere partage in modo sia progressista sia reazionario; la porta è spalancata per entrambi. Rancière afferma: “Proprio come la politica si cancella nella coppia del consenso e della giustizia infinita, allo stesso modo l’arte tende a dividersi tra una visione che la mette al servizio del legame sociale e un’altra che la destina alla testimonianza interminabile della catastrofe”. Questi due sviluppi sono collegati: un’arte della prossimità (che ricostruisce il legame sociale) è allo stesso tempo un’arte che cerca di dare testimonianza di ciò che è strutturalmente escluso dalla società. L’atto etico esemplare nell’arte è quindi un offuscamento strategico della politica e dell’estetica. Rancière non è contrario all’etica, ma solo alla sua strumentalizzazione come zona strategica in cui si appiattisce il conflitto tra politica ed estetica. L’etica costituisce un territorio che, secondo lui, ha poco a che fare con l’estetica, poiché appartiene a un modello precedente di interpretazione dell’arte. 3 Letteralmente, dottrina della conoscenza sensibile (sign. che il termine ha ancora in E. Kant: E. trascendentale). Nel sec. 18°, con senso specifico e tecnico, dovuto al filosofo tedesco A. G. Baumgarten, la dottrina del bello, naturale o artistico, e quindi l’esperienza del bello, della produzione e dei prodotti dell’arte. Più in partic., la concezione filosofica dell’arte, che caratterizza un periodo storico, una civiltà, l’opera di un artista, il pensiero di un autore, di un filosofo. 6 Nel suo sistema, il regime estetico dell’arte è preceduto da altri due regimi: 1. Il primo è quello del “regime etico delle immagini” governato dalla duplice questione del loro contenuto-verità e degli usi per cui esse sono impiegate; 2. Il secondo è il “regime rappresentativo delle arti”, ovvero un regime di visibilità sulla base del quale le belle arti vengono classificate secondo la logica del cosa può essere fatto e prodotto in ogni arte, una logica che corrisponde alla pervasiva gerarchia delle occupazioni sociali e politiche. Il regime estetico dell’arte, introdotto con l’Illuminismo, continua ancora oggi. Esso fa sì che tutto sia potenzialmente un soggetto o un materiale artistico, che tutti siano potenzialmente osservatori di quest’arte e denota l’estetica come forma di vita autonoma. 1.5 Dirigere la realtà: la battaglia di Orgreave 1.5.1 “The Battle of Orgreave” (2001): la performance (di Jeremy Deller) e il lungometraggio (di Mike Figgis) La teoria di Rancièere tende a schivare la questione del come potremmo affrontare in maniera più specifica le appartenenze ideologiche di ogni opera. Questo problema emerge quando osserviamo un lavoro che è diventato probabilmente l’emblema dell’arte partecipativa: The Battle of Orgreave (La battaglia di Orgreave, 2001) dell’artista britannico Jeremy Deller. A partire dalla metà degli anni ’90, la ricerca di Deller ha frequentemente dato vita a incontri inaspettati tra diversi gruppi sociali ed esprime un forte interesse per le classi, la sottocultura e l’autorganizzazione – interessi che hanno preso forma sia di performance sia di mostre temporanee. The Battle of Orgreave è una performance di Jeremy Deller (del 17 giugno 2001) che rimette in scena un violento scontro avvenuto tra minatori e poliziotti nel 1984. Quasi 8000 poliziotti antisommossa si scontrarono con circa 5000 minatori in sciopero a Orgreave, un paese nello Yorkshire. Tale evento segnò un punto di svolta nelle relazioni industriali nel Regno Unito, indebolendo il movimento dei sindacati e permettendo al governo conservatore di consolidare un programma di libero commercio. La ricostruzione dell’evento da parte di Deller riunì ex minatori e residenti del luogo insieme ad alcune compagnie di rievocazione storica che provarono e poi rimisero in scena il conflitto di fronte al pubblico, sul luogo originario dell’ostilità. Allo stesso tempo, il lavoro dell’artista britannico presente una ontologia multipla: esso non consiste soltanto nella ricostruzione dal vivo del 17 giugno 2001, ma anche in: - Un lungometraggio di Mike Figgis (“The Battle of Orgreave”) che usa l’evento per veicolare in maniera esplicita la sua accusa verso il governo Thatcher; - Una pubblicazione di storia orale: “The English Civil War Part II: Personal Accounts of the 1984- 85 Miners’ Strike”; - Un archivio: The Battle of Orgreave Archive (2004); 7 A prima vista, The Battle of Orgreave sembra avere una funzione terapeutica: far sì che gli ex minatori rivivano gli eventi traumatici degli anni ’80, e invitarne alcuni a cambiare ruolo e interpretare i poliziotti. Tuttavia più che guarire la ferita il lavoro sembra riaprirla, come si evidenzia nel documento video e nella pubblicazione. Il film di Figgis mostra interviste cariche di emotività agli ex minatori, una chiara testimonianza dell’antagonismo di classe esistente. La rabbia degli ex minatori per il trattamento che ricevevano da parte del governo conservatore è ancora viva ed emerge in alcune riprese casuali delle prove del giorno prima, in cui diversi partecipanti sono sopraffatti dall’amarezza. E’ importante, comunque, che mentre il libro e il film sono di parte nell’approccio allo sciopero dei minatori, la performance in sé è più ambigua. Le riprese di Figgis della performance sono inserite come brevi sequenze tra le interviste agli ex minatori e il contrasto di tono è sconcertante. Sebbene l’evento di Deller riunisse la gente per ricordare e ripete un evento carico e disastroso, esso si svolse in circostanze che somigliavano più che altro a una festa di paese, con banda di ottoni, bambini che correvano intorno a bancarelle che vendevano torte e piante; c’era persino un intervallo tra i due “atti” durante il quale vennero suonate le canzoni di successo della metà degli anni Ottanta. The Battle of Orgreave si aggira ambiguamente tra la violenza minacciosa e l’intrattenimento per le famiglie. In altre parole, è difficile ricondurre l’opera a un semplice messaggio o a una funzione sociale, poiché il carattere visivo e teatrale dell’evento era strutturalmente contradditorio. Tentare di ricreare il caos portava con sé un rischio doppio: che la rimessa in scena dello scontro si smorzasse in una coreografia super organizzata o, al contrario, che l’ordine sfuggisse del tutto di mano e l’evento diventasse uno scompiglio indecifrabile. Questa polarità riuscì a gestire con l’imposizione di una struttura che aveva un nucleo concettuale saldo – una rievocazione dello sciopero fatta dagli ex minatori e dalle compagnie specializzate in rievocazione di battaglie – ma con una certa libertà formale e una certa improvvisazione, anche se le “condizioni di partecipazione” per gli attori erano piuttosto severe. E’ precisamente qui che si vede la zona grigia artistica di un lavoro di arte partecipativa, cioè di decidere quanto rigorosamente la sceneggiatura debba essere seguita, più che il bianco/nero etico della “buona” o “cattiva” collaborazione. Tutte le scelte di Deller avevano una risonanza sia sociale sia artistica. La decisione di re-inscenare uno degli ultimi maggiori conflitti della classe operaia industriale nel Regno Unito ebbe un impatto sia sul processo sia sul risultato del progetto, come anche sulla sua più vasta eco culturale. In termini di processo portò gli attori (appartenenti alla classe media) a diretto contatto con i minatori della classe operaia. The Battle of Orgreave riesce a dialogare simultaneamente con la storia sociale e la storia dell’arte, e questa efficacia è rafforzata dalla ricezione dell’opera da parte dei media mainstream, delle riviste di storia orale e da quelle d’arte. Nel 1984 la stampa presentò la rivolta come se a cominciarla fossero stati i minatori ribelli e non la decisione di mandare i poliziotti a cavallo incontro alla prima linea di scioperanti – un’impressione ottenuta montando al contrario la sequenza degli eventi nei telegiornali. Deller fa riferimento a The Battle of Orgreave sia come a un dipinto della storia contemporanea attraverso il medium della performance, sia come a un’opera di “teatro comunitario”. 1.5.2 “The Battle of Orgreave Archive” (2004): l’archivio Nel 2004 The Battle of Orgreave ebbe, come accennato precedentemente, un’ulteriore diffusione nella forma dell’installazione The Battle of Orgreave Archive, che comprende una sequenza temporale di eventi che conducono al momento dello scontro e a quanto ne seguì. All’interno dell’archivio troviamo: - Sulle pareti distintivi, manifesti, giacche, uno scudo antisommossa; 10 1.1 Il Futurismo italiano: provocazione, promozione e partecipazione Il luogo comune sul Futurismo è che il suo approccio alla performance fosse convenzionale, visto che il palcoscenico divideva spazialmente i ruoli dei performer e quelli del pubblico. Va ricordato però che ciò che si presentava non erano spettacoli tradizionali, ma azioni brevi con l’uso di vari media, che anticipano quella che oggi chiamiamo performing art: queste serate comprendevano, di solito, declamazioni di politica e di manifesti artistici, composizioni musicali, poesia e pittura. La prima serata si tenne nel gennaio del 1910, ma fu nel marzo dello stesso anno che furono coinvolti artisti visivi come Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo, i quali avevano incontrato il poeta Filippo Tommaso Marinetti (1876- 1944) meno di un mese prima. Si dava meno attenzione alle singole performance che all’effetto complessivo sul pubblico: i racconti verbali, come anche le documentazioni visive (per esempio Caricatura della serata futurista di Boccioni del 1910, vedi immagine di lato), trasmettono l’impressione di un caos completo. Ad ogni modo, le serate non erano senza struttura. La Grande Serata Futurista del 1913 fu suddivisa in tre sezioni: una sinfonia futurista, una lettura di poesia futurista e una presentazione di pittura e di scultura futuriste. L’attrattiva del teatro per gli artisti futuristi risiedeva quindi, almeno in parte, nel suo offrire uno spazio di esposizione alternativo: gli artisti avevano il controllo totale di un modello espositivo in cui potevano confrontarsi direttamente con il pubblico, invece che attraverso la mediazione di una mostra o di un libro. Si può quindi iniziare a comprendere quanto davvero inaspettato e innovativo fosse l’impegno futurista verso la spettatorialità. Fino a quel momento l’arte moderna si era limitata all’esposizione dei lavori in spazi interni: nei salon, nelle gallerie commerciali e nella forma emergente della Biennale (dal 1895 in poi). Al contrario, le attività futuriste erano basate sulle performance, tenute nei teatri ma anche nelle strade, itineranti (in giro per le città italiane) e sostenute da un attacco a tutto campo alla coscienza pubblica attraverso materiale stampato. Gli eventi erano infatti preceduti da manifesti e da volantini in città per attirare l’attenzione; dopo le performance, i comunicati stampa venivano scritti e inviati ai giornali nazionali e stranieri. Dall’inizio, Marinetti era consapevole del bisogno di raggiungere un pubblico vasto per realizzare i suoi obiettivi culturali e politici di rovesciare la borghesia dominante e promuovere un nazionalismo patriottico e industrializzato. A tal fine, egli si allineò con le strategie di comunicazione di tipo populista. Il fatto che il primo manifesto futurista fu stampato per intero sulla prima pagina de’ “Le Figaro” (il 20 febbraio del 1909), così come in alcuni giornali italiani, è una sbalorditiva impresa promozionale. Il manifesto elogiava la folla come un aspetto della modernità da abbracciare insieme alla tecnologia e alla guerra. Gustave Le Bon4 aveva scritto che le immagini avevano un’importanza maggiore del discorso razionale per comunicare alla folla e questo andava precisamente in parallelo all’adozione da parte del Futurismo della performance visiva come veicolo primario con cui entrare in contatto con pubblici vasti. Per giunta era un medium pronto per essere reinventato, come il Manifesto del teatro futurista sintetico (1915) dice chiaramente: “[…] Noi crediamo che non si possa oggi influenzare guerrescamente l’anima italiana, se non mediante il teatro. Infatti il 90% degli italiani va a teatro, mentre soltanto il 10% legge libri e riviste. E’ necessario però un teatro futurista, cioè assolutamente opposto al teatro passatista, che prolunga i suoi cortei monotoni e deprimenti sulle scene sonnolente d’Italia”. 4 Gustave Le Bon (1841-1931) è stato un antropologo, psicologo e sociologo francese. 11 Vediamo, quindi, che qui ha inizio quella dicotomia attivo/passivo che sarà importante nel XX secolo riguardo al tema della partecipazione: il teatro convenzionale è deriso perché produce passività, mentre a quanto pare la performance futurista induce a una spettatorialità attiva, più dinamica. Il modello era il teatro di varietà, che aveva connotazioni popolari e tendeva a comprendere apparizioni non sequenziali di spettacolo, esercizi ginnici, comiche, canzoni, mostruosità anatomiche e così via. Il teatro di varietà attestava la fedeltà dei futuristi alla cultura popolare; inoltre, aveva sue specifiche convenzioni spettatoriali, tese a collocare il pubblico al centro di un’esperienza, il che era già l’obiettivo della pittura futurista. Il manifesto di Marinetti del 1913 sul teatro di varietà spiegava l’interesse verso questa dinamica relazione spettatoriale: “Il Teatro di Varietà è il solo che utilizzi la collaborazione del pubblico. Questo non vi rimane statico come uno stupido voyeur, ma partecipa rumorosamente all’azione, cantando anch’esso, accompagnando l’orchestra, comunicando con motti imprevisti e dialoghi bizzarri cogli attori. Questi polemizzano buffonescamente coi musicanti. Il Teatro di Varietà utilizza il fumo dei sigari e delle sigarette per fondere l’atmosfera del pubblico con quella del palcoscenico. E poiché il pubblico collabora così colla fantasia degli attori, l’azione si svolge ad un tempo sul palcoscenico, nei palchi e nella platea. Continua poi alla fine dello spettacolo, fra i battaglioni di ammiratori, smockings caramellati che si assiepano all’uscita per disputarsi la stella; doppia vittoria finale: cena chic e letto.” Nel Manifesto del Teatro di Varietà si possono trovare alcune delle tecniche proposte per creare scandalo e confusione: mettere “della colle su alcune poltrone, perché lo spettatore che rimane incollato susciti l’ilarità generale” oppure “vendere lo stesso prodotto a dieci persone: quindi ingombro, battibecchi e alterchi”. Per quanto infantili possano sembrare queste azioni, sono niente in confronto agli insulti lanciati contro gli artisti, compreso quel tale del pubblico che, nel dicembre 1913, durante uno spettacolo diede una pistola a Marinetti e lo invitò a commettere suicidio in diretta. Tutti questi gesti dobbiamo considerarli come forme di spettatore-filìa: le performance futuriste non erano progettate per negare la presenza del pubblico, ma per esagerarla, renderla evidente a se stessa, istigarla, dare un taglio al compiacimento e infondere coraggio piuttosto che arrendevole rispetto. A tale scopo, i performer futuristi ribaltarono i criteri convenzionali del coinvolgimento del pubblico: erano pronti a subire “disprezzo del pubblico”, specialmente la sera della prima, ed elaborarono “una specie di ripugnanza per il successo immediato”. La provocazione inquadrata nella cornice teatrale non fu l’unico mezzo messo in campo dai futuristi per istigare l’opinione pubblica. Essa fu supportata da altre attività pubbliche: incontri, scontri, conferenze, gare di poesia, picchettaggi, assemblee e boicottaggi. Nel 1910, per esempio, Marinetti e compagni scalarono il campanile di piazza San Marco a Venezia per rovesciare sulla piazza 80 mila copie del loro pamphlet Contro Venezia Passatista. Altri eventi furono dedicati specificatamente ai lavoratori in diverse città italiane come Napoli, Parma e Milano. Queste azioni di disturbo sociale ebbero luogo per convertire il maggior numero possibile di italiani alla causa nazionalista, militarista, tecno-futurista, che mirava a motivare l’espansione coloniale e a destare entusiasmo per la guerra. La partecipazione al teatro futurista era vista esplicitamente come modo per formare e preparare lo spettatore alla partecipazione in questa “nuova era”. Finché il pubblico continuò a prestar loro attenzione e a esserne provocato, il Futurismo raggiunse il suo obiettivo di progetto politico, mirato all’affermazione dell’entrata dell’Italia nel mondo moderno attraverso la guerra, la tecnologia e la distruzione. L’insuccesso avrebbe potuto essere evidenziato solamente dalla neutralità del pubblico: dal suo rimanere inalterato, in una modalità spettattoriale tradizionale di contemplazione benevola e distaccata. Per Marinetti la partecipazione era intesa, quindi, come fine della spettattorialità tradizionale e totale dedizione a una causa. 12 Dopo il 1918, quando Marinetti tornò dal fronte (la Prima Guerra Mondiale fu dal 1914 al 1918), le performance futuriste diventarono più spettacolari e più palesemente politiche. Agli inizi l’estetica futurista era in armonia con gli obiettivi politici, ma non completamente soggetta a essa; un poco alla volta, le ambizioni politiche crebbero fino a diventare preminenti, con rivendicazioni sempre più chiaramente caratterizzate in senso antitradizionalista e nazionalista militante, verso un maggiore sviluppo formale. Il pubblico divenne estremamente più numeroso (fino a 5 mila persone) e la stretta amicizia tra Marinetti e Mussolini significò per il gruppo ottenere i mezzi per costruire un teatro sperimentale nelle terme di Settimo Severo a Roma, propedeutico a esperimenti ambiziosi di teatro totale. Nel Futurismo, quindi, la performance diventò il paradigma privilegiato di operazioni artistiche e politiche nella sfera pubblica. Più della pittura, della scultura o letteratura, la performance costituì uno spazio di presenza collettiva condivisa e di auto-rappresentazione. 1.2 Il teatro del Proletkult e lo spettacolo di massa in Russia: teatralizzare la vita 1.2.1 Il teatro del Proletkult in Russia Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 19175, la triade composta da autore, opera d’arte e pubblico passò attraverso una fase di riprogrammazione ideologica che si estese ad arte, teatro e musica. L’obiettivo era di allineare la pratica culturale della Rivoluzione bolscevica, per quanto ciò sollevasse una domanda insidiosa: ridurre il dominio dell’aristocrazia sulla cultura o promuovere la produzione culturale della classe operaia? Gli esempi più noti dell’avanguardia post rivoluzionaria – definiti all’inizio come futuristi/costruttivisti e dopo il 1921 come produttivisti – affrontarono questi problemi rifiutando le forme d’arte borghesi (per esempio la pittura), fondate sul gusto e prodotte per il mercato, in favore di pratiche integrate alla produzione industriale e progettate per una fruizione collettiva. Artisti come Tatlin, Rodchenko, Popova e Stapanova cercarono un’applicazione sociale e pratica del loro lavoro, progettando indumenti, ceramiche, manifesti e oggetti d’arredamento per la produzione e il consumo di massa. Sebbene il cinema sia spesso considerato come la forma d’arte d’avanguardia per eccellenza della Rivoluzione sovietica, sono l’immediatezza, l’economicità e la proliferazione delle produzioni teatrali, con i dibattiti che esse provocarono, a fornire il confronto più esemplificativo con l’arte partecipativa di oggi. L’accessibilità alle esperienze teatrali comportò che si sviluppassero anche nella comunità rurali; invece, nel caso del cinema, la 5 La rivoluzione russa è stato un evento sociopolitico, occorso in Russia nel 1917, che portò al rovesciamento dell'Impero russo e alla formazione inizialmente della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e, nel 1922, in seguito alla guerra civile russa, dell'Unione Sovietica; fu un tentativo di applicazione delle teorie sociali ed economiche di Karl Marx e Friedrich Engels. All'inizio del 1917 l'Impero russo, che da tre anni combatteva nella prima guerra mondiale come membro della Triplice intesa, era stremato: le perdite ammontavano a più di sei milioni tra morti, feriti e prigionieri e tranne alcune vittorie sul fronte austriaco, ormai vanificate dagli eventi, la Russia aveva subìto una grave serie di sconfitte che avevano comportato la perdita della Polonia, di una parte di Paesi Baltici e dell'Ucraina, portando così il fronte all'interno dei suoi stessi confini, mentre le condizioni del popolo si aggravavano fortemente. Il regime zarista, chiuso a riccio nella difesa del principio dell'autocrazia, aveva ormai perso del tutto il contatto con la realtà della Russia, al punto che anche molti degli elementi conservatori delle classi tradizionalmente alleate del regime, stavano prendendo coscienza che solo un'uscita di scena dello zar Nicola II avrebbe loro permesso di mantenere il controllo dello Stato. A Pietrogrado scoppiò la rivolta con la rivoluzione di febbraio e il 2 marzo (calendario giuliano) Duma e soviet di operai e soldati si accordarono per la deposizione dello zar, e l'istituzione di un governo provvisorio formato da cadetti, menscevichi e socialisti rivoluzionari. Si formò il governo provvisorio di Georgij Evgen'evič L'vov, che indusse Nicola II ad abdicare. Mentre lo zar e la sua famiglia venivano arrestati, nel Paese si formarono due poteri: quello del governo provvisorio, e quello dei Soviet, formato da delegati eletti compresi i bolscevichi. Contemporaneamente si diffuse in tutto il paese il disfattismo nazionale, segno della crescente stanchezza verso la guerra. Il leader bolscevico Lenin, tornato dall'esilio sostenne la necessità di trasformare la rivoluzione borghese di febbraio in Rivoluzione Proletaria, guidata dai Soviet e che mirava alla instaurazione di una società comunista. Nell'ottobre i bolscevichi occuparono i punti nevralgici della capitale dando vita alla rivoluzione d'ottobre. La vittoria dei bolscevichi portò al rovesciamento del Governo provvisorio russo e alla nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, governata dal Consiglio dei commissari del popolo. Dal 1917 al 1921 esplose la guerra civile russa che avrebbe visto la vittoria dell'Armata Rossa (bolscevichi) sull'Armata Bianca (contro-rivoluzionari) e ciò portò nel 1922 all'istituzione dell'Unione Sovietica. 15 pubblico in periferia. Tuttavia, sebbene lo spettacolo fosse crudo e la recitazione goffa, quando gli uomini, con il rischio di morire, si calarono giù nel pozzo per salvare la fabbrica, i minuti si caricarono di inquietudine con un realismo tale che nessuno spettacolo teatrale, con attori professionisti e illuminazione moderna, avrebbe potuto neppure sfiorarne i margini. Quest’immediatezza è percepibile nelle immagini esistenti della produzione: la silhouette di un uomo in piedi su una passerella sopra un baratro di carrucole, sbarre e tubi, retroilluminata da una luce industriale (vedi fotografia pagina su). 1.2.2 Lo spettacolo di massa in Russia La storia dell’arte e la storia del teatro offrono differenti narrazioni sulle genealogie dello spettacolo di massa. Per la storia dell’arte, l’evento precursore accadde nel 1918, quando gli artisti futuristi russi presentarono una dinamica rielaborazione scenica dell’assalto al Palazzo d’Inverno e della sua piazza. Invece, la storia del teatro presenta lo spettacolo di massa come emergente da un insieme di prese di posizione teoriche e ideologiche che si erano sviluppate sin dai primi anni del 1900, e mai menziona l’evento del 1918. La figura chiave fu Kerzencev, un influente sostenitore del teatro collettivo non professionale. Egli promosse i cortei storici e lo spettacolo di massa come forme di teatro particolarmente efficaci, poiché entrambi invitavano all’uso dello spazio pubblico. Gli spettacoli monumentali all’aperto incoraggiarono la partecipazione di massa, rimuovendo l’individualismo con l’uso di rappresentazioni visualmente molto forti della presenza collettiva. Essi furono molto popolari a San Pietroburgo, dove una serie di festival di massa ebbe luogo tra il 1919 e il 1920. Vediamo alcuni dei problemi artistici che si presentarono nella produzione degli spettacoli di massa, tutti ruotanti intorno al conflitto tra esigenze artistiche e ideologiche: - L’utilizzo di dilettanti comportava la debolezza della recitazione; - Il desiderio di spontaneità determinava un’azione teatrale confusa; - L’uso di migliaia di corpi portava a performance lente, alcune volte dalla durata di sei ore. - La natura ripetitiva delle trame (rivolte e ribellioni infinite) aveva bisogno di più variazioni per funzionare artisticamente, ma questo non sarebbe potuto succedere senza metter a rischio l’accuratezza storica e un messaggio ideologico corrente. Lo spettacolo di massa aveva un’elevata forza seduttiva. 1.2.3 La musica Per quanto il teatro collettivo fosse molto popolare negli anni ’20, tuttavia è analizzando due forme di innovazione musicale che possiamo vedere in modo più chiaro come la cultura sovietica cercasse di eliminare gerarchia e individualismo. 1.2.3.1 L’orchestra senza direttore La prima innovazione fu quella dell’orchestra senza direttore, che dimostrava il suo impegno al collettivismo nella performance musicale non solo attraverso la rinuncia alla tirannia di un singolo direttore privilegiato, ma anche attraverso l’organizzazione di prove e performance programmate in modo da assicurare massima partecipazione e parità di voci. I musicisti si assumevano la responsabilità di una corretta esecuzione tecnica delle loro singole parti, ma anche del tempo, della sfumatura e dell’interpretazione. La più famosa di queste orchestre fu la Persimfans (1922-32), la quale si esibì nelle principali sale da concerto di Mosca, ma anche nelle fabbriche, nei quartieri operai e nei presidi militari. Tuttavia il progetto incontrò delle complicazioni di tipo tecnico: senza un direttore che unificasse il gruppo, l’orchestra aveva problemi con la sincronizzazione dei tempi – e visto che non c’erano grandi compositori rivoluzionari, furono obbligati a continuare a eseguire i vecchi classici borghesi. 16 1.2.3.2 “Sinfonie di rumori” Il secondo esempio è “Sinfonie di rumori”, ovvero uno degli eventi culturali più incredibili del periodo post rivoluzionario. Questa impresa musicale non solo cercava di facilitare la partecipazione di massa, ma reinventò addirittura il concetto stesso di strumentazione sfruttando le sirene e il frastuono industriale della città moderna in una nuova comprensione di ciò che costituisce un’orchestra. Concepita come una musica nuova e realmente proletaria, “Sinfonie di rumori” intendevano trasformare la città intera in auditorium per un’orchestra del nuovo rumore industriale, diretta dal tetto da un uomo che agitava grandi bandiere; esse incorporavano “tutti i rumori dell’epoca maccanicistica”. 1.3 Dada a Parigi: escursioni e processi La Stagione Dada o Grande Saison Dada, della primavera del 1921, serve come prova che la produzione collettiva sopravvive soltanto con difficoltà all’interno del canone ed è ulteriormente marginalizzata dal fatto d’essere basata sulla performance piuttosto che sull’oggetto. Usando le tecniche mediatiche della provocazione e della pubblicità perfezionate dai futuristi, Dada6 a Parigi si fondò sulle innovazioni del Cabaret Voltaire di Dada a Zurigo (1915-17) e organizzò programmi misti di performance, musica e poesie in sale da concerto. Già nella primavera del 1921 il gruppo decideva di tenere delle rappresentazioni fuori dal contesto del cabaret e dentro spazi pubblici non istituzionali. Gli eventi sperimentali della Stagione Dada danno forma a un forte contrasto con i contemporanei esperimenti russi. Entrambi cercavano di coinvolgere il pubblico e usare lo spazio pubblico, ma con fini completamente differenti; se lo spettacolo di massa russo era palesemente ideologico e propositivo, il gruppo Dada era (almeno nella sua fase iniziale) totalmente negativo, anti-ideologico e anarchico. Il centro della Stagione Dada fu una serie di manifestazioni nell’aprile e maggio 1921 che cercavano di coinvolgere il pubblico parigino. In un’intervista radiofonica del 1952, Andrè Breton7 (1896-1966) identificò tre fasi dell’attività di Dada come essa si era sviluppata a Parigi: 1. Prima fase: una fase di vivace agitazione iniziata con l’arrivo in città di Tristan Tzara; 2. Seconda fase: una fase più incerta che mirava agli stessi obiettivi ma attraverso “mezzi radicalmente rinnovati”, sotto la spinta di Aragon e Breton stesso; 3. Terza fase: una fase di malessere, dove il tentativo di ritornare alle forme iniziali causò maggiori divisioni fino all’agosto del 1922 quando il gruppo si sciolse. 6 Il Dadaismo o Dada è una tendenza culturale nata a Zurigo, nella Svizzera neutrale della prima guerra mondiale, e sviluppatasi tra il 1916 e il 1920. Il movimento, che ha interessato soprattutto le arti visive, la letteratura (poesia, manifesti artistici), il teatro e la grafica, incarnava la sua politica antibellica attraverso un rifiuto degli standard artistici, come dimostra il nome dada che non ha un vero e proprio significato, tramite opere culturali che erano contro l'arte stessa. Il dadaismo ha quindi messo in dubbio e stravolto le convenzioni dell'epoca, dall'estetica cinematografica e artistica, alle ideologie politiche; ha inoltre proposto il rifiuto della ragione e della logica, ed ha enfatizzato la stravaganza, la derisione e l'umorismo. Gli artisti dada erano volutamente irrispettosi, stravaganti, provavano disgusto nei confronti delle usanze del passato; ricercavano la libertà di creatività per la quale utilizzavano tutti i materiali e le forme disponibili. Secondo i dadaisti stessi, il dadaismo non era arte, era anti-arte. Tentava, infatti, di combattere l'arte con l'arte. Per ogni cosa che l'arte sosteneva, Dada rappresentava l'opposto. Se l'arte prestava attenzione all'estetica, Dada ignorava l'estetica; se l'arte doveva lanciare un messaggio implicito attraverso le opere, Dada tentava di non avere alcun messaggio, infatti l'interpretazione di Dada dipende interamente dal singolo individuo; se l'arte voleva richiamare sentimenti positivi, Dada offendeva. Attraverso questo rifiuto della cultura e dell'estetica tradizionali i dadaisti speravano di distruggere loro stessi, ma, ironicamente, l'arte Dada è diventato un movimento che ha influenzato l'arte moderna. 7 André Breton è stato un poeta, saggista e critico d'arte francese. Noto come poeta e teorico del surrealismo, che favorì con la stesura dei manifesti e curando riviste, mostre e incontri; fu allievo del filosofo André Cresson. 17 La Stagione Dada appartiene alla seconda di queste tre fasi e denota un periodo di frattura all’interno del gruppo; specificatamente, essa testimonia una maggiore tensione tra Breton, Tzara e Francis Picabia. La prima parte della Stagione comprendeva “Escursioni e visite”, lanciando gli eventi Dada in un nuovo tipo di spazio pubblico oltre a quello delle sale da concerto. La prima di queste escursioni fu programmata per il 14 aprile 1921, presso il cimitero della chiesa di Saint Julien le Pauvre. I volantini di promozione dell’evento, che erano stati anche pubblicati su alcuni quotidiani, dichiaravano che gli artisti volevano condurre una serie di “escursioni e visite” a luoghi che non hanno “ragione di esistere”. Invece di portare l’attenzione su siti pittoreschi o luoghi di interesse storico o valore sentimentale, l’obiettivo era di trasformare in non-senso la forma sociale della visita guidata. Vi presero parte diverse persone a questa prima iniziativa. Un mese dopo quest’esperienza pare che il gruppo, secondo Breton, avesse difficoltà a cercare nuove forme di relazione tra performer e pubblico perché ormai quest’ultimo si aspettava e desiderava provocazione. Fino a che punto l’entusiasmo del pubblico per la performance Dada era andato fossilizzandosi, lo si può vedere nel ricordo della Salle Gaveau di Tzara: “Per la prima volta nella nostra esperienza fummo attaccati, non solamente con uova, cavoli e monete, ma persino con bistecche. Fu davvero un grande successo. Il pubblico era estremamente dadaista. L’avevamo detto che i veri dadaisti sono contro Dada”. Lo stesso mese, a un altro evento, “membri entusiasti del pubblico si erano portati strumenti per interromperci”. Per Breton, al contrario di Tzara, questo tipo di evento aveva esaurito il suo potenziale e non c’era bisogno di continuare a ripeterlo; la pratica di provocare il pubblico stava diventando “stereotipata” e “fossilizzata”. Breton divenne più interessato a ripensare gli eventi Dada come eventi meno indirizzati a provocare scandalo. Per Breton era cruciale che Dada entrasse nello spazio pubblico, liberandosi delle convenzioni del cabaret e del teatro per creare situazioni dove il pubblico si confrontasse con un nuovo tipo di azione artistica e di spettatorialità. Questo desiderio per l’attenzione del pubblico determina un importante cambiamento nella modalità Dada di relazionarsi a esso, fino ad arrivare ad atteggiamenti simili a quelli delle serate futuriste, basati sul protagonismo antagonista. Piuttosto che operare all’interno della cornice del palcoscenico, Breton suggeriva che gli osservatori dovessero trovare una continuità tra l’opera d’arte e le loro vite: “scendere in piazza” voleva così essere un modo per plasmare una connessione più stretta tra arte e vita. Breton stesso sembrava ansioso di sviluppare aree più precise di ricerca sociale e di rifiutare l’anarchismo caotico che era stato finora il segno caratteristico di Dada. La nuova direzione, invece, propendeva verso forme di esperienza partecipativa più accurate e significative. Questa nuova direzione non fu accettata allo stesso modo dai componenti del gruppo, in particolar modo da Picabia. Ciò che Breton voleva dire con un nuovo ri-orientamento si fece evidente nel secondo importante evento della Stagione Dada, Le procès Barrès del maggio 1921. Questo evento fu pubblicizzato come un’udienza all’autore Maurice Barrès (1862-1923), il cui libro Un Homme Libre (1889), aveva avuto un’enorme influenza su Breton e Aragon nella loro giovinezza. Barrès aveva sostenuto l’anarchia, la libertà e il totale individualismo, ma negli ultimi tempi aveva cambiato bandiera ed era diventato di destra, nazionalista e borghese. L’obiettivo del processo era “determinare fino a che punto un uomo potesse essere considerato responsabile, se il suo desiderio di potere lo portasse a sposare valori conformisti diametralmente opposti alle idee della sua giovinezza”. L’evento annetteva a sé e detournava una forma sociale (il processo) e coinvolgeva la partecipazione del pubblico, ora con un ruolo più attivo rispetto alla prima esperienza, visto che i volantini dell’evento invitavano dodici persone a fare domande per diventare parte della giuria. Il tribunale si riunì nella sala delle Sociétés Savantes, con il gruppo Dada vestito con gli abiti da cerimonia del Palazzo di Giustizia (toghe bianche con cappelli da cerimonia, rossi per la difesa e neri per l’accusa). Ogni membro del gruppo aveva un ruolo specifico (difesa, pubblica accusa, presidente etc.). Fu invitato a partecipare 20 In quanto modo di presa di coscienza dell’ambiente circostante (specialmente urbano), la dérive si discostava dal vagabondaggio surrealista per il fatto che dava meno importanza all’automatismo e all’inconscio dell’individuo. Da una prospettiva storico-artistica, la dérive offre ben poco in termini di analisi visiva. I resoconti scritti tendono a essere vari quanto inutili. Il reportage del 6 marzo 1956 di Guy Debord racconta la dérive che quest’ultimo ha vissuto con Gil Wolman. I due vagano verso nord partendo da Rue des Jardin-Paul e trovano una rotonda abbandonata di Claude-Nicolas Ledoux8. Continuano a girovagare nel diretto, entrano in un bar e terminano la dérive quando fa notte. Sebbene questa particolare dérive sia descritta come “di scarso interesse”, nondimeno in rapporto al tenore apertamente critico e politico degli altri testi situazionisti questo reportage è straordinariamente flauneristico. Guy Debord osservava come le strategie di dérive di gruppo e l’urbanismo unitario dovessero essere interpretati nei termini della loro “lotta” contro l’architettura utopica, la Biennale di Venezia, gli happening e il Groupe Recherche d’Art Visuel (Gruppo di ricerca d’arte visiva, GRAV). 1.2.3 Il rapporto dell’IS con l’arte visiva: le due diverse fasi Il rapporto dell’IS con l’arte visiva fu paradossale e denso di contraddizioni. Le storie dell’IS tendono a essere divise sulla base del fatto che il gruppo visse una prima fase e una più tarda, a seconda del rapporto che ebbe con l’arte visiva. La prima fase, dal 1957 al 1962, si ritiene sia stato il periodo in cui il gruppo fu più bendisposto nei confronti dell’arte: questi anni videro mostre, nelle gallerie commerciali di Parigi, di Asger Jorn e di Giuseppe Pinot Gallizio. Entrambe ebbero luogo nel 1959 ed entrambe cercavano di mettere in discussione le idee tradizionali sull’autorialità singola: Jorn dipingendo su quadri già dipinti comprati al mercato delle pulci, e Pinot Gallizio presentando dei quadri astratti dipinti su rotoli di tela, che si potevano comprare a metraggio e che egli definiva “pittura industriale”. Nel 1960 l’equilibrio tra interessi artistici e letterari comincia a mutare: Pinot Gallizio fu espulso dall’IS e, un anno più tardi, Asger Jorn si ritirò. Il gruppo si oppose sempre di più all’arte intesa come attività separata dalla prassi rivoluzionaria. I membri si chiusero fino al punto di escludere gli artisti, le cui attività e atteggiamenti non si accordavano con la pretesa di Debord che l’arte dovesse essere radicale non solo nel contenuto, ma anche nella forma. E’ significativo che, già nel 1961, la maggior parte degli artistici avessero lasciato l’organizzazione volontariamente o perché espulsi. Una prova ulteriore di questa rottura è il fatto che l’arte non fu più inclusa nel programma della quinta conferenza dell’IS che si tenne nell’estate del 1961. Per Debord, non c’erano stati movimenti rivoluzionari nella politica o nell’arte moderna a partire dalla fine degli anni Trenta e quindi il compito dell’IS non era di subordinare l’arte alla politica ma di riportare in auge sia l’arte moderna sia la politica rivoluzionaria delle avanguardie storiche: l’integrazione dell’arte con la vita. Questa negazione esigeva fare tabula rasa: arte e poesie dovevano essere soppresse per essere realizzate come una vita più piena e stimolante. In questo è il paradosso centrale dell’IS: bisogna rinunciare all’arte e farlo per amore di una vita quotidiana ricca ed entusiasmante quanto l’arte, al fine di superare la schiacciante mediocrità dell’alienazione. Questo è il motivo per cui i loro scritti sono anti-visivi, ma non sono necessariamente rifiuto della dimensione estetica per sé: arte e poesia rimangono gli eterni parametri dell’esperienza appassionata, intensa, sperimentale e non alienata. Secondo Debord potrebbero non esserci opere d’arte situazioniste, ma solo usi situazionisti delle opere d’arte. In un articolo del 1963 egli offre un esempio della funzione rivoluzionaria dell’arte, includendovi come 8 Ciò sembrava offrire un centro psicogeografico ai due, aprendo di fatto due strade e due canali, evocando il genere di illustrazioni che si trova nei libri per bambini dove molte caratteristiche geografiche sono condensate in un’unica immagine. 21 esempio un gruppo di studenti di Caracas che aveva sferrato un attacco a una mostra d’arte francese, portando via cinque dipinti che in seguito aveva offerto di restituire in cambio del rilascio dei prigionieri politici. 1.2.4 Il détorunement Per Debord, una pratica culturale di tipo critico non avrebbe creato nuove forme, ma avrebbe usato, piuttosto, “i mezzi di espressione culturale già esistenti” attraverso la tecnica situazionista del détournement, cioè l’appropriazione sovversiva di immagini esistenti al fine di rovesciare il loro significato stabilito. Il détournement fu considerato di maggiore successo quando meno si avvicinava a una risposta razionale. Per l’IS, un buon détournement capovolgeva la funzione ideologica degli effluvi (=emanazione) della cultura dello spettacolo, ma senza adottare la forma di una semplice inversione dell’originale, in quanto ciò sarebbe servito a mantenere l’identità del secondo sicura al suo posto. Questa teoria del détournement si costruisce in modo chiaro sul fotomontaggio dadaista e sull’assemblaggio surrealista che tentavano di distruggere il significato, sia sovvertendo il genere (la Monna Lisa con i baffi di Duchamp del 1919) sia facendo critica politica (i numerosi fotomontaggi anti-hitleriani di John Heartfield dei primi anni Trenta). Un buon détournement sembra imbrigliare (=tenere) entrambe le strategie, combinando irrazionalità sovversiva (=che persegue la rottura di una situazione esistente o di un ordine tradizionale.e caustica (=pungente) attualità politica. 1.2.5 La critica Debord si mostrò irremovibile sul fatto che la critica, di qualsiasi genere essa fosse, non dovesse avere la forma di una discussione razionale: era ostile alle interpretazioni strutturaliste della cultura e a tutti i linguaggi critici che affermano la loro supremazia sulle metodologie precedenti. Le alternative dell’IS all’arte visiva, ossia la dérive e la situazione costruita, evitavano anch’esse la critica razionale ed enfatizzavano l’importanza del gioco e dell’approccio ludico. Poiché queste realtà esperienziali sono raramente documentate, è difficile analizzarle, ma le numerose mappe e schizzi realizzati dal gruppo ne offrono analoghi visivi importanti. La Guida psicogeografica di Parigi (1957) di Debord è suggestiva per riflettere sul carattere istruttivo delle attività dell’IS. La città è mostrata come frammentaria, collegata da aree vuote indicate soltanto dal susseguirsi di frecce rosse. La mappa è una pessima guida di Parigi, non ha alcuna funzione. Essa mostra una forma di simbologia che per noi è più significativa come stimolo a valutare le nostre sensibilità rispetto all’ambiente urbano che come testimonianza. 1.2.6 La situazione costruita Quanto l’Internazionale Letterista nel 1957 fu soppiantata dall’Internazionale Situazionista, prevalse un terzo concetto: la situazione costruita. Una delle caratteristiche centrali della situazione costruita era la sua struttura partecipativa, ideata in intenzionale opposizione alla nozione di “non intervento” dello spettacolo e all’alienazione. 22 Quest’enfasi sulla collettività fu, fin dall’inizio, concepita in maniera politicizzata: come spiega Debord, la vera idea di avanguardia collettiva comprende la trasposizione dei metodi organizzativi della politica rivoluzionaria all’arte. Le situazioni costruite realizzate collettivamente furono pensate in opposizione al capitalismo nella loro negazione dell’autorialità individuale, e soprattutto nel loro rifiuto della burocrazia e del consumismo attraverso la libera attività del gioco. E’ significativo che sia difficile trovare esempi che informino sulle situazioni costruite nell’I.S.; l’enfasi è posta continuamente sulla struttura e sulla base razionale di una situazione, più che sugli esempi specifici. Quest’avversione nei confronti della documentazione serve come stratagemma volto a evitare di proposito l’imitazione. L’enfasi veniva posta: - Sull’istantaneità e sulla rottura (a confronto con l’eterna bellezza dell’arte tradizionale); - Sull’immediatezza (con l’organizzazione diretta delle sensazioni più che il semplice rapporto sulle stesse); - Sull’autodeterminazione. Cruciale era il fatto che si attribuisse importanza al reperimento di spazi di gioco nell’ambiente urbano, interpretando il gioco come attività umana non alienante a disposizione di tutti. In definitiva, la vita poteva essere concepita come una serie di situazioni costruite. E’ da notare che quest’ultime avevano una specifica relazione con la gerarchia: ogni situazione richiedeva la guida temporanea di un individuo con il ruolo di regista. 1.3 Il GRAV: rieducazione percettiva Il Groupe de Recherche d’Art Visuel (GRAV) attuò ripetuti tentativi di raggiungere il maggior pubblico. Fondato a Parigi nel 1960, il GRAV comprendeva un gran numero di artisti internazionali che lavoravano con l’arte cinetica e optical; il teorico principale del gruppo, Julio La Parc, era argentino e aveva studiato con Lucio Fontana a Buenos Aires negli anni ’40. Sebbene la maggior parte del lavoro del GRAV si svolgesse a Parigi, il gruppo partecipò a mostre in tutto il mondo. La loro attenzione era posta sugli ambienti polisensoriali e sulla scultura cinetica come mezzi capaci di stimolare gli effetti sulla percezione dell’osservatore, su un ripensamento del rapporto opera-occhio volto a trasformare l’esperienza abituale del tempo, e sulla costruzione di “nuovi strumenti per il contatto diretto tra il pubblico e i lavori prodotti”. A fare contorno da ciò vi era un attacco al culto della personalità dell’artista individuale e al mercato dell’arte. La produzione del GRAV comprendeva installazioni ottiche e cinetiche bi e tridimensionali che indagavano le risposte psicologiche e fisiologiche al movimento, al colore e alla luce, ma includeva anche opere che coinvolgevano direttamente il pubblico generico e i passanti: questionari sottoposti ai visitatori e giochi organizzati. Il nome del gruppo riflette il modo in cui esso considerava quest’attività come costitutiva di un progetto sovra- individuale di ricerca visiva quasi scientifica; fino al suo scioglimento nel 1968, il GRAV funzionò principalmente come un gruppo di lavoro comune. Malgrado le dichiarazioni in merito alla centralità del pubblico, le esperienze prodotte dalle installazioni del GRAV sono più individuali che sociali, e oggi sarebbe più corretto definirle interattive piuttosto che partecipative. Comunque, il gruppo finì per credere che tali esperienze avessero implicazioni sociali. Inizialmente, la frequente ed esplicita denigrazione che il GRAV faceva dell’autorialità singola e del mercato implicava solamente una critica dell’arte come merce; se c’era un’azione politica da potersi attribuire al gruppo, essa doveva essere cercata nella percezione e in particolar modo nel potere conferito all’osservatore di poter contare sulle proprie capacità sensoriali e di interpretazione. 25 1. Per esorcizzare lo spirito dalla catastrofe (1962) Importante è stato l’happening di Lebel intitolato Per esorcizzare lo spirito dalla catastrofe (1962). L’evento si componeva di un flusso di azioni accompagnate da un gruppo di jazz, la cui musica improvvisata appariva essere in diretta analogia con l’assenza di struttura compositiva degli eventi che avvenivano intorno al pubblico. Vediamo quali erano alcune delle azioni:  Errò proiettava immagini artistiche di carattere erotico e opere d’arte sul ventre nudo di Johanna Lawrenson;  Lebel portava un televisore di cartone in testa e parlava della rivoluzione permanente e degli obiettori di coscienza;  Tetsumi Kudo brandiva una delle sue sculture “falliche” e dava una lezione in giapponese;  Vari performer indossavano una maschera di de Gaulle (compreso Lebel);  Una sconosciuta si spogliava e si arrampicava su un’amaca;  Tre soggetti iniziavano a danzare freneticamente;  Il culmine si raggiungeva quando Lebel e diverse altre persone si toglievano i vestiti e facevano un “action painting”, in cui Lebel si lanciava attraverso la tela fuori dalla galleria. Con il suo aperto riferimento alla società dei consumi e ai tabù sessuali e politici, il lavoro di Lebel non poteva essere più diverso dalla maggior parte degli happening degli artisti statunitensi di questo periodo. Negli eventi di Lebel la nudità era un veicolo per la liberazione sessuale e la coscienza politica e, inoltre, tendevano a essere meno strutturati, improvvisati e soggetti a cambiamenti poiché si trattava di performance uniche. 2. Lebel VS Debord I due, a livello artistico, avevano molti aspetti in comune: 1. Entrambi erano stati influenzati dal Surrealismo ed erano arrivati a rifiutarlo; 2. Entrami si scagliavano contro l’idea di museo come mausoleo; 3. Entrambi diffidavano altamente della mediazione e della commercializzazione; 4. Entrambi cercavano un’esperienza vissuta in maniera autentica per elevare e liberare il quotidiano attraverso il gioco. Tuttavia, mentre Debord intendeva quest’esperienza di liberazione in termini marxisti come resistenza nei confronti dello spettacolo, come sconfitta all’alienazione e come promessa rivoluzionaria, Lebel trovava un modello anarchico per questa stessa esperienza nelle droghe allucinogene e nella liberazione sessuale. 1.5 Un’insurrezione teatrale Ognuna delle attività di gruppo trattata in questo capitolo mirava a colpire direttamente la coscienza dell’osservatore per liberarla in modi diversi. Tutte e tre le tendenze sono servite da apripista per il più grande rifiuto sociale e teatrale degli anni Sessanta, il maggio 1968. E’ significativo che dopo il maggio 1968 Lebel cessò di fare happening, poiché riteneva che fossero stati fatti nelle occupazioni, nelle barricate e nelle proteste; il sogno avanguardista di trasformare l’arte in vita attraverso l’esperienza creativa collettiva era stato (per lui) finalmente realizzato. Anche l’IS definì il maggio 1968 come la realizzazione delle sue idee, anche se in termini leggermente meno entusiastici. Dopo tale momento, le attività dell’IS cominciarono a manifestare una crescente stanchezza. 26 CAPITOLO 4 SADISMO SOCIALE ESPLICITATO 1.1 Introduzione In questo capitolo ci si concentra sulle forme di arte partecipativa specificatamente concettuali che si svilupparono in due luoghi differenti: 1. Argentina: a Buenos Aires nella metà degli anni Sessanta sotto l’influenza di Oscar Masotta (1930- 1979), nonché sul Ciclo di Arte sperimentale (1968) del gruppo di Rosario. 2. Brasile: sul regista brasiliano Augusto Boal (1931-2009), che negli anni Settanta, durante il suo esilio in Argentina, sviluppò un metodo di terapia teatrale orientato al cambiamento sociale, che ebbe un notevole seguito. Sebbene all’epoca gli artisti appena menzionati non si conoscessero tra loro, condividevano strategie artistiche comuni: - Considerare la realtà e coloro che la abitano come materiale; - Desiderare di politicizzare quelli che entravano in contatto con questo tipo di opera. Le azioni partecipative prodotte in Argentina erano in forte contrasto con gli esperimenti artistici più conosciuti e canonici realizzati in Brasile durante lo stesso periodo, nei quali le fredde forme costruttive dell’astrazione di matrice europea si sono ri-direzionate verso un’esperienza liberatoria fatta di colore, tattilità e oggetti di intermediazione. Se il fondamento narrativo dell’arte brasiliana era (e in larga parte resta) il sensuale, l’opera argentina era più cerebrale e autoriflessiva. Negli Sessanta la scena argentina differiva da quella brasiliana perché era tendenzialmente una storia di gesti isolati, compiuti da artisti che non si dedicavano a una ricerca struttura e che si sono formati in ambienti diversi. Tale scena era ulteriormente complicata dall’instabilità causata dal susseguirsi di dittature sempre più coercitive, che imposero nuove forme di censura e di repressione disumana sui cittadini. Se i migliori esempi di arte brasiliana di questo periodo invitavano gli spettatori a percepire e a sentire, la loro controparte argentina chiedeva allo spettatore di pensare e di analizzare. 1.2 L’Argentina 1.2.1 Oscar Masotta: sadismo sociale esplicitato Oscar Masotta fu scrittore e intellettuale argentino, conosciuto per aver introdotto nel Paese la psicoanalisi lacaniana. Il coinvolgimento di Masotta nella produzione artistica dei primi anni Settanta fu ampio e autorevole: egli si impegnò nell’arte contemporanea (scrivendo testi fondamentali sul pop e coniando il termine “dematerializzazione”) e organizzò un gruppo di lettura per giovani artisti nel periodo in cui insegnava all’Instituto Torcuato Di Tella. La sua formazione intellettuale era segnata da un particolare interesse nei confronti dell’Europa, in particolare verso la Francia; dopo aver studiato filosofia all’Università di Buenos Aires, negli anni Cinquanta si indirizzò verso il marxismo e l’esistenzialismo, leggendo Sartre. Negli anni Sessanta passò alla linguistica strutturale e all’arte visiva e la sua conferenza del 1995, intitolata “Pop arte e semantica” fu uno dei primi tentativi di usare l’analisi linguistica nell’interpretazione delle opere d’arte. Nel 1966 Masotta, come accennato poco fa, fu a capo di un gruppo di lettura che si incontrava ogni giorno e tra i cui membri c’erano gli artisti Roberto Jacoby, Eduardo Costa, Raul Escarì, Juan Risuleo e il sociologo Eliseo Veròn. Il gruppo leggeva e applicava la linguistica strutturale e la teoria della comunicazione alle opere d’arte, all’immaginario visivo e alla vita quotidiana. 27 1.2.1.1 “Happening per un cinghiale defunto” (1966) de’ Il gruppo delle arti mediali Il gruppo di lettura si riuniva in concomitanza con la formazione di El Grupo de los Artes de los Medios Masivos (Il gruppo delle arti mediali, 1966-68), il cui evento più famoso fu un “anti-happening” nel luglio del 1966, anche conosciuto come Happening per un cinghiale defunto. Realizzato da Jacoby, Escarì, Costa e Masotta, l’opera era la risposta diretta al modo in cui il termine happening era diventato una parola di moda nei media. Gli artisti rilasciarono un comunicato stampa in cui annunciavano l’happening, insieme a fotografie dell’evento (che sembrava una grande festa); servizi giornalistici apparvero sulle testate giornalistiche internazionali. Ma, di fatto, l’happening non avvenne mai: l’opera consisteva soltanto in fotografie costruite per la diffusione mediatica. A differenza degli happening di quel periodo in Europa e Nord America, che enfatizzavano il brivido esistenziale della presenza non mediatica, l’Happening per un cinghiale defunto esisteva solo in quanto pura informazione e circolazione dematerializzata di fatti. Come tale, cancellava la problematica linea divisoria tra partecipante (diretto) e spettatore (secondario), poiché non c’era un evento “originale” a cui aver partecipato. I media stessi divenivano il medium dell’opera e il suo contenuto primario. 1.2.1.2 “Sobre Happenings” (1967) Masotta e il gruppo di lettura, a cui si erano aggiunti Oscar Bony, Leopoldo Maler e Miguel Angel Telechea, produssero nel 1967 Sobre Happenings, un happening costituito dagli happening di altri artisti, i quali furono rimessi in scena come un nuovo solo happening che li sintetizzava. Ciò che risultava rilevante era il fatto che le azioni non fossero basate sull’esperienza in prima persona delle opere, ma sulla descrizione di esse sulle riviste; in altre parole, erano già mediate. Così come nel caso precedente, lo scopo era decostruire l’insistenza degli happening sull’immediatezza e sulla presenza, sfidare il loro esagerato status mediatico e prendersi gioco delle persone che partecipavano a quegli eventi con l’aspettativa di esserne divertiti. 1.2.1.3 “Per indurre lo spirito dell’immagine” (1966) Nel novembre del 1966 Masotta realizzò il suo primo happening: Per indurre lo spirito dell’immagine. Gli elementi base dell’evento erano i seguenti: venti anziani furono pagati 600 pesos per stare in un magazzino, di fronte a un pubblico, ed essere esposti al getto di estintori, sotto un acuto suono assordante e delle accecanti luci bianche. All’inizio dell’evento Masotta fece una conferenza sul tema del controllo, anche se sembrò che stesse per accadere l’esatto contrario. L’esperimento artistico era una sorta di lente attraverso la quale impegnarsi in maniera più diretta con le contraddizioni del contesto sociale e politico esistente. Tale contesto era particolarmente instabile: la Rivoluzione argentina iniziò il 29 giugno 1966, giorno del colpo di stato con cui il generale Onganìa si impadronì del potere di Arturo Illia, presidente eletto democraticamente, e sospese la costituzione. Masotta aveva progettato l’happening per un festival di happening che aveva luogo nel corso dell’estate del 1966, ma l’aveva accantonato temporaneamente perché era opinione di molti che fosse inappropriato fare degli 30 L’artista descrive il suo intervento come segue: “L’opera consiste per prima cosa nella preparazione di una stanza completamente vuota, con pareti totalmente spoglie; una di queste, che era di vetro, doveva essere coperta per riuscire a disporre di uno spazio adeguatamente neutro perché il lavoro potesse avere luogo. I partecipanti, raggruppatisi casualmente per l’apertura, sono stati rinchiusi in questa stanza. Li ho presi prigionieri. Il punto è lasciare che la gente entri ed evitare che esca…non c’è possibilità di fuga, di fatto gli spettatori non hanno scelta: sono obbligati, con violenza, a partecipare. La loro reazione positiva o negativa è sempre una forma di partecipazione. La fine dell’opera, imprevedibile tanto per l’osservatore quando per me, è comunque dovuta a un atto intenzionale: lo spettatore tollererà la situazione passivamente? Un evento inaspettato – aiuto esterno – lo salverà dalla prigionia? O finirà per spaccare il vetro?” Dopo un’ora i visitatori intrappolati nella galleria tolsero i poster che erano stati attaccati sulle vetrate per evitare la comunicazione con chi era fuori. L’eccitazione, e la sensazione che tutto fosse un gioco, si trasformò in frustrazione ma, contrariamente alle speranze di Carnevale, nessuno all’interno della galleria prese l’iniziativa di rompere il vetro. Alla fine fu una persona dalla strada a rompere una delle vetrate e gli spettatori riemersero alla libertà attraverso un passaggio tagliente. Alcune delle persone presenti però pensarono che il soccorritore avesse rovinato l’opera e iniziarono a picchiarlo in testa con un ombrello. Arrivò la polizia e, ritenendo che ci fosse un collegamento tra l’azione e il primo anniversario dall’arresto di Che Guevara – mise fine all’evento e con esso anche a tutto il Ciclo de Arte Experimental. Il Ciclo offre importanti spunti di riflessione per la genealogia dell’arte partecipativa: non solo lo spostamento dalla galleria allo spazio pubblico e il ripensamento della mostra come una serie di eventi collaborativi, ma anche il segnale di un cambiamento, nell’arte argentina, nell’uso delle persone come materiale. 1.3 Il Brasile 1.3.1 Augusto Boal Erano le limitazioni di un’arte politica con motivazioni didattiche dinanzi a una dittatura sempre più repressiva a costituire il punto di partenza per il regista brasiliano Augusto Boal (1931-2009), le cui strategie innovative per il teatro portato negli spazi pubblici nell’America del Sud sembrano, a prima vista, avere molto in comune con gli ultimi eventi del Ciclo de Arte Experimental, sebbene all’epoca i due gruppi fossero ignari della reciproca esistenza. Tali innovazioni scaturivano dal lavoro fatto in Brasile nei tardi anni Sessanta, furono perfezionate durante l’esilio in Argentina (1971-1976) e il viaggio in Perù (1973) e sono documentate nel suo libro Teatro do oprimido. Le sue produzioni all’inizio adattavano al contesto nazionale i classici stranieri (come Gogol e Molière) per passare in seguito ai musical di influenza brechtiana. L’accurata lettura che Boal fece di Brecht lo portò non solo a rompere con l’identificazione, vista come lo strumento teatrale chiave, ma anche a riconfigurare interamente la relazione pubblico/attore secondo le nuove forme della performance partecipativa, al fine di elevare la consapevolezza e dare potere alla classe operaia. Una delle questioni fondamentali per Boal è l’eliminazione degli spettatori per riconcettualizzarli come spett-attori. 1.3.1.1 Il Teatro Invisibile Delle tante innovazioni nel teatro che Boal ideò, la più rilevante per l’arte contemporanea è il Teatro Invisibile, che fu creato a Buenos Aires come modalità d’azione pubblica e partecipativa senza cornice, progettata per evitare di essere individuati dalla polizia. 31 Boal scrisse che nel Teatro Invisibile, gli spettatori avrebbero visto lo spettacolo, senza vederlo come uno spettacolo. Questa forma fu sviluppata in collaborazione con un gruppo di attori con l’intento di promuovere una legge umanitaria, per mezzo della quale la gente senza soldi potesse mangiare nei ristoranti, mostrando una particolare carta d’identità. Il risultato, più che un gioco, fu una situazione piuttosto improvvisata in un ristorante, dove alcuni erano attori, mentre i ruoli di direttore e cameriere erano interpretati involontariamente dal vero direttore e dal vero cameriere – che ripetevano “il nostro copione quasi a memoria”. Nel suo libro Boal racconta questo particolare caso: un certo numero di attori si è seduto a tavoli diversi di un ristorante; il protagonista annuncia ad alta voce di voler mangiare alla carta, perché il cibo altrimenti disponibile è pessimo. Il cameriere gli dice che gli costerà 70 soles e l’attore risponde che non è un problema. Finito il pasto, gli viene dato il conto ed egli dichiara di non poterlo pagare (Boal fa notare che gli avventori seduti ai tavoli vicini seguono attentamente il dialogo, con molto più interesse che se stessero guardando una scena che si svolge su un palco). L’attore si offre di pagare lavorando, magari portando la spazzatura fuori o lavando i piatti. Chiede al cameriere quanto sarebbe pagato per portare la spazzatura fuori. Il cameriere evita di rispondere, ma un secondo attore, da un altro tavolo, si mette in piedi per dire che è amico di chi porta la spazzatura fuori e se che quello guadagna 7 soles all’ora. Il primo attore afferma che forse preferirebbe tagliare l’erba del giardino – il giardiniere quant’è pagato? Un terzo attore interviene dicendo che è amico del giardiniere e sa che prende 10 soles all’ora. A questo punto, il capo-cameriere è disperato. Cerca di distrarre l’attenzione dei clienti, ma il ristorante è diventato ormai una pubblica piazza. Alla fine, uno degli attori inizia a raccogliere soldi per pagare il conto – gesto che offende alcune persone e causa ulteriore disagio, tuttavia riescono ad accumulare 100 soles. Si è tentati di paragonare questo livello di integrazione tra artificio e realtà all’ultimo evento del Ciclo de Arte Experimental. Entrambi operano di nascosto, senza annunciarsi al pubblico come opere d’arte. In entrambi i casi, il pubblico è agente attivo e la riuscita dell’opera dipende dal suo intervento. Il lavoro di Boal porta il teatro a un pubblico che nemmeno riconosce se stesso come tale, e mette in scena con esso un dibattito attorno a temi specifici riguardanti il lavoro. E’ di centrale importanza, per esempio, che gli attori non svelino di essere attori. E’ superfluo dire che l’invisibilità di questo teatro era necessaria a livello politico, considerata l’estrema violenza della dittatura in quel momento. Il Teatro Invisibile mirava a educare il pubblico a essere più consapevole della differenza di classe e a fornirgli uno spazio per manifestare il dissenso. 1.3.1.2 Il Teatro Forum Oggi Boal non è conosciuto tanto per il Teatro Invisibile quanto per le tecniche praticate al Teatro Forum, create in Perù nel 1973 in seguito a un’esperienza nel nord-est del Brasile che lo fece riflettere in merito alla “falsità del teatro politico come ‘messaggero’”. Se il Teatro Invisibile richiedeva molte prove al fine di anticipare qualsiasi possibile reazione del pubblico e manteneva una divisione (sebbene invisibile) tra gli attori che tentavano di pilotare la situazione e la reazione del pubblico, il Teatro Forum è più spontaneo, improvvisato e ha luogo all’interno di una cornice educativa protetta. Il Teatro Forum inizia con una situazione che è presentata dagli attori al pubblico, che poi diventa protagonista nell’idea percorsi d’azione alternativi agli eventi descritti inizialmente; ciò può comprendere la performance di situazioni d’attualità (per esempio le controversie in fabbrica) oppure opere classiche, rispetto alle quali si chiede agli spett-attori: “faresti lo stesso al suo posto?”. Lo scopo del Teatro Forum non è vincere, ma imparare ed esercitarsi. Gli spett-attori, mettendo in scena le loro opinioni, si preparano all’azione nella “vita reale”. Lo scopo di Boal era avere un impatto costruttivo sul pubblico, più che provocare reazioni emotive davanti alla rappresentazione della difficile realtà sociale. 32 CAPITOLO 5 IL SOCIALE SOTTO IL SOCIALISMO 1.1 Introduzione Diversamente dal dibattito sull’arte partecipativa dominante nell’Europa dell’ovest e nell’America del nord, dove essa ricopre una posizione di risposta costruttiva, l’arte partecipativa nell’Europa dell’est e in Russia, nel periodo che va dalla metà degli anni Sessanta ai tardi anni Ottanta, si caratterizzava spesso per il desiderio di un’esperienza estetica sempre più soggettiva e privata. E’ di cruciale importanza che le esperienze individuali, che costituivano l’obiettivo dell’arte partecipativa, sotto il comunismo furono concepite come esperienze private condivise: la costruzione di uno spazio artistico collettivo tra colleghi che si fidavano l’uno dell’altro. Trovare i partecipanti per l’arte di qualcuno era un problema di selezione di colleghi affidabili che non avrebbero informato nessuno di quelle attività. La maggior parte dei case studies di questo capitolo contraddicono il criterio inclusivo del libro, poiché riguardano perlopiù la partecipazione intesa come strumento per mobilitare l’esperienza soggettiva in amici artisti e scrittori, più che nel pubblico generico. La maggior parte di queste azioni si svolgevano in campagna, lontani dalle reti di sorveglianza. Gli artisti non consideravano politica la loro opera, bensì apolitica, legata alle idee di libertà e di immaginazione individuale. Allo stesso tempo, cercavano un orizzonte di produzione artistica più vasto – si potrebbe dire democratizzato – in contrasto con il sistema fortemente regolamentato e gerarchizzato. Le reazioni artistiche al regime variano molto tra i diversi Paesi dell’Europa dell’est, in linea con la particolare relazione che ogni nazione aveva con Mosca e con le negoziazioni di ognuna con la politica russa. In questo capitolo si vogliono mettere a fuoco due momenti che si caratterizzano per la presenza di azioni orientate socialmente e basate sulla performance nel corso degli anni Sessanta e Settanta: 1. Ex Cecoslovacchia: con due scene distinte a Bratislava e Praga; 2. Mosca: dalla prima metà degli anni Settanta alla metà degli Ottanta con il gruppo Azioni collettive. L’arte partecipativa è rara nel blocco sovietico e questi due contesti costituiscono un’importante eccezione. A differenza di alcuni artisti latinoamericani di cui si è parlato prima, per i quali la partecipazione sociale nell’arte significava l’inclusione della classe operaia, in questi casi dell’est la differenza di classe non esisteva. 1.2 Praga: dalle azioni alle cerimonie 1.2.1 Lo scenario storico-politico La Cecoslovacchia9 entrò sotto il controllo sovietico nel febbraio del 1948. Pochi mesi dopo questo cambio di regime, l’influente critico d’arte Chalupecky descrisse l’impatto immediato del colpo di stato in un articolo in cui esprimeva la propria confusione e rabbia per il fatto che il progetto di sinistra (nel quale lui e molti dei suoi contemporanei si erano identificati negli anni Trenta) si era trasformato in una forza repressiva che impediva l’espressione e il dissenso individuali. 9 La Cecoslovacchia fu uno Stato europeo indipendente esistito dal 1918 al 1992. A seguito di una decisione parlamentare del 1992 fu decisa la scissione del paese in due entità statali separate che, dal 1º gennaio 1993, presero il nome di Repubblica Ceca e Slovacchia. 35 2. Cerimonia difficile (1966-69), messa in scena in Greene Street a New York nel 1969: era un evento di 24 ore durante il quale i partecipanti furono istruiti a trascorrere del tempo insieme senza mangiare, bere, fumare, dormire, sballarsi, parlare o comunicare in qualsiasi altro modo. Ventiquattro ore dopo il gruppo si scioglie in silenzio. Se i primi lavori di Knizak cercavano di provocare il pubblico in ambientazioni all’aperto, gli eventi negli Stati Uniti sono caratterizzati dal rifiuto, dall’interiorità, dall’austerità e dal privilegiare l’esperienza soggettiva. L’uso che Knizak fa della parola “cerimonia” per descrivere questi eventi conserva, ciononostante, un’allusione all’azione collettiva e guarda al futuro, alle opere che avrebbe fatto negli anni Settanta, in cui la partecipazione diventa sempre più silenziosa e ritualistica. Importante notare e sottolineare il fatto che Knizak avesse trovato frustrante l’esperienza negli Stati Uniti e fosse tornato a Praga ben prima della scadenza del visto. A Praga egli era l’unico a proclamare la fusione radicale tra arte e vita; invece negli Stati Uniti questo era un luogo comune. 1.2.2.4. Gli anni Settanta a Praga: le cerimonie Negli anni Settanta vi era una situazione politica repressiva in cui era proibito riunirsi negli spazi pubblici. Di conseguenza, i lavori divennero più intimi, rituali di body art messi in scena in spazi domestici per un piccolo gruppo di amici. In linea con questa sobrietà, la pratica di Knizak divenne più ritualistica, con azioni collettive come Cerimonia con pietre (1971), in cui i partecipanti creavano piccoli cerchi di pietre e se ne stavano in piedi in silenzio al loro interno; le fotografie di questo rituale mostrano figure isolate in un paesaggio sperduto. 1.3 Slovacchia: manifestazioni permanenti 1.3.1 L’artista Alex Mlynarcik Se le prime opere di Knizak erano avanguardistiche nella ricerca della rottura come mezzo per avere una maggiore coscienza dell’esperienza quotidiana, l’artista slovacco Alex Mlynarcik era più interessato a forme consensuali e ottimistiche di attività collettiva che fossero radicate nella tradizione rurale. La documentazione dei suoi lavori somiglia in modo impressionante alla recente arte impegnata socialmente. Quando l’artista visitò Parigi per la prima volta nel 1964, trovò un’affinità immediata con il Nouveau Réalisme (César, Arman, Saint Phalle, Christo), di cui si può notare l’influenza nello sviluppo delle sue “manifestazioni permanenti” (dal 1965 in poi), assemblaggi tridimensionali ricoperti di graffiti fatti dal pubblico come se fossero una sorta di palinsesto del consumatore. 1.3.1.1 Metà anni Sessanta: Happsoc I (2-9 maggio 1965) Tale influenza la si può vedere anche in Happsoc I (neologismo di happenings, happy, society e socialism) di Mlynarcik, Stano Filko e della teorica Zita Kostrova. Il trio annunciò che una serie di episodio di “realtà” avrebbe avuto luogo a Bratislava nella settimana dal 2 al 9 maggio del 1965. Il primo maggio i tre membri scrissero un manifesto programmatico che spiegava l’azione artistica che avevano organizzato e la loro idea di arte, cioè prendere un’esperienza o un evento dal flusso della vita quotidiana e dichiararli opere d’arte. In questo particolare caso, l’intera città di Bratislava e la sua comunità furono presentati come materiali di una mostra. Il manifesto e i dati furono spedititi a 400 persone in forma di biglietto di invito per Happsoc I, che aveva eletto la città di Bratislava a opera d’arte per quella settimana. Questo lasso di tempo era collocato tra due feste nazionali: la Festa dei lavoratori, evento chiave nel calendario socialista, e il 9 maggio, giorno in cui si commemorava la liberazione della Slovacchia da parte dell’Armata Rossa nel 1945. 36 Sembra evidente che questo tipo di struttura cercasse di attirare l’attenzione su due tipi di partecipazione: le parate ufficiali, da un lato, e la creazione, da parte degli artisti, di una partecipazione invisibile, involontaria e immaginaria, dall’altro. L’approccio di Happsoc I (nel mantenere il contatto con gran parte delle posizioni del Nouveau Realisme) consisteva nella rivendicazione del possesso temporaneo come mezzo per espandere gli orizzonti di ciò che si poteva considerare opera d’arte, da un lato, e autorialità, dall’altro. E’ significativo che la sola documentazione dell’evento sia il manifesto stampato e due immagini delle parate ufficiali, e che questi abbiano un aspetto burocratico in cui si riflettono le aspirazioni totalitaristiche dell’opera stessa: era impossibile per i residenti di Bratislava non essere parte di Happsoc I e tutte le foto scattate in quella settimane del 1965 potrebbero essere concepite come parte della sua documentazione. Il punto di riferimento è il Neo Dada, con uno sguardo alla produzione dell’arte non destinata allo spazio della galleria ma al suo reinserimento nella vita quotidiana. Questo compito era più facile nell’est rispetto che all’ovest, per via della totale assenza di gallerie commerciali e di appoggio istituzionale alle pratiche d’avanguardia. Presentando Bratislava come objet trouvé, Happsoc I invitava un gruppo selezionato di 400 partecipanti (quelli che avevano ricevuto l’invito) a conoscere la città “doppiamente” – come realtà e come opera d’arte – con l’intenzione di investigare i loro paradigmi della visione, dell’esperienza e della percezione della realtà. Si poneva l’accento, quindi, sulla partecipazione mentale più che fisica: “Vedere Bratislava come un ready made”. L’inconveniente di questa ri-percezione deautorializzata è la perdita del significato intrinseco dell’arte, perdita che inevitabilmente accompagna la completa dispersione dell’opera d’arte nella vita quotidiana. Il manifesto di Happsoc I chiamava la gente a partecipare agli eventi e a vedere la realtà attraverso la lente dell’arte, cosa che sicuramente disperdeva l’autorialità nell’immaginazione collettiva, ma eliminava anche ogni tipo di esperienza specificatamente artistica. 1.3.1.2 Fine anni Sessanta Questo esperimento concettuale di Happsoc I, seguito poi dal II e III, è in forte contrasto con le successive opere partecipative di Mlynarcik dei tardi anni Sessanta, che si caratterizzano in quanto più esplicitamente fisiche, visive e collettive. Tali eventi alludevano alla tradizione vernacolare (matrimoni e feste di paese) e alla storia dell’arte (rimessa in scena di capolavori del XIX secolo in forma di eventi dal vivo), e spesso prevedevano la partecipazione di persone che non sapevano di far parte di un’opera d’arte. Molti di questi avevano luogo in campagna o nella città natale dell’artista. In parte, questa dislocazione rurale era una conseguenza necessaria della “normalizzazione”: l’arte d’azione doveva avvenire illegalmente, così si spostò ai margini della città o più spesso in campagna per sfuggire alla sorveglianza. Mlynarcik faceva riferimento a questi eventi come “manifestazioni permanenti dell’unione di arte e vita”, categoria che aveva proposto e definito nell’autunno del 1965 e che usava riferirsi all’Happsoc I ma anche alle sue fotografie di graffiti di Parigi e della Cecoslovacchia del maggio 1968. Una delle opere più singolari di questo periodo è Primo festival della neve (1970), realizzato in collaborazione con Urbasek e organizzato come evento non ufficiale parallelo ai campionati mondiali di sci sulle montagne degli Alti Tatra. Il motivo ricorrente del festival era ricreare opere d’arte dal Rinascimento al contemporaneo. Il materiale principale era la neve, che gli artisti usarono in vari modi, interpretando i lavori che non sembrano avere un legame diretto con la neve o con lo sci, ma che mostrano in modo soddisfacente il livello dei contatti internazionali tra gli artisti dell’epoca. 37 1.3.1.3 Anni Settanta: Il matrimonio di Eva (1972) Altri lavori di Mlynarcik assunsero la forma di festival in cui si rimettevano in scena opere d’arte storiche, come nel caso di Il matrimonio di Eva (1972), che si basò sull’opera d’arte Il matrimonio al villaggio (1946) dell’artista slovacco Fulla (1902-1980), di cui quell’anno si celebrava il settantesimo compleanno. Mlynarcik trovò una giovane coppia nella sua città natale che aveva intenzione di sposarsi e si offrì di organizzare l’intera cerimonia come un evento teatrale. Il matrimonio era organizzato in due atti e otto scene con prologo ed epilogo; le location furono il municipio, la chiesa e un ristorante. Il fatto che il nome della sposa evocasse Eva fu visto come un elemento particolarmente simbolico, così come il periodo dell’anno (23 settembre, in prossimità dell’equinozio), considerato dai contadini slovacchi come un momento di buon auspicio per i matrimoni. Il matrimonio fu un grande festeggiamento. Fuori dal municipio, un elicottero lanciò volantini di felicitazioni sulla piazza. Durante la cerimonia c’era un enorme barile di vodka di forma fallica, che fu trasformato in scultura rossa alta più di due metri e impacchetta da Christo e messa su un carro. Come per Happsoc I, l’artista “cavalcò” un evento convenzionale per conferirgli uno status ontologico doppio: matrimonio e happening, realtà e gioco, vestito da matrimonio e costume teatrale, foto di matrimonio e documentazione storica. L’opera di Mlynarcik fu poi definita “un insulto alla cultura slovacca” ed egli fu cacciato dall’Unione degli Artisti Socialisti Sovietici (a cui era necessario essere membro per esporre). Ciò che ha importanza dal punto di vista storico-artistico è che il tipo di happening collettivo di Mlynarcik non è un esempio isolato in Slovacchia: in questo periodo hanno luogo altre azioni di artisti, che si caratterizzavano per un tono ugualmente festivaliero e d’evasione, e per un interesse a forme rituali, ancora più antiche, legate alla natura. 1.4 Problematiche dello spazio pubblico Il 2 novembre 1972 il Congresso dell’Unione degli Artisti Socialisti Sovietici approvò una risoluzione che denunciava le attività sperimentali degli anni Sessanta; alcuni artisti video escludere le loro opere dalle acquisizioni delle collezioni pubbliche, fu proibito loro di produrre pubblicazioni sul proprio lavoro e di partecipare a esposizioni in Cecoslovacchia o all’estero. Questo congresso inoltre tornò a sostenere il realismo socialista e una politica culturale allineata a quella degli altri Paesi del blocco sovietico, dove le teorie marxiste e leniniste divennero un criterio vincolante per esprimere giudizi sull’arte. L’effetto immediato sull’arte alternativa fu quello di costringerla a un maggiore isolamento: le azioni si realizzavano solo per una cerchia ristretta di amici fidati. Gli artisti associati a questo periodo dell’arte ceca, come Jan Mlcoch (nato nel 1953, attivo dal 1974 al 1980) e Jiri Kovanda (nato nel 1953), non fanno arte partecipativa con un pubblico generico, ma opere fortemente minimali che testimoniano la natura ristretta dello spazio pubblico e dell’interazione sociale in questi anni. 1.4.1 Jan Mlcoch I primi lavori di Mlcoch richiedono una resistenza fisica e pongono l’enfasi sul corpo inteso come un’estensione materiale dello spirito. Alcune azioni erano realizzate solamente da lui, altre da gruppi di otto o dieci persone che, a turno, facevano la performance mentre una di loro fotografava l’evento. Questi artisti continuavano ad affermare di non avere interesse a essere considerati “politici”, anche se sembra difficile non interpretare le loro azioni come opposizioni critiche alla realtà sociale dell’epoca, soprattutto quelle come Fuga classica (1977) di Mlcoch: “Cacciai tutti i presenti dalla stanza vuota di un 40 La prima azione determinante che cristallizzò questa modalità operativa fu Apparizione, del 13 marzo 1976. Ideata da Monastyrsky e altri tre artisti, coinvolse circa trenta membri del pubblico nel ruolo di partecipanti. All’arrivo in un remoto campo, si chiese al gruppo di aspettare e di guardarsi intorno fino a che sarebbe apparso qualcosa in lontananza. Alla fine, fu visibile una coppia di organizzatori all’orizzonte, in quella che Monastyrsky chiama “zona di indistinguibilità”: il momento in cui si può dire che sta avvenendo qualcosa ma le figure sono troppo lontane perché si possa dire con chiarezza chi sono e cosa sta succedendo esattamente. Le figure si avvicinarono al gruppo e consegnarono il certificato di partecipazione all’evento. In seguito, Monastyrsky spiegò che quello che era accaduto nel campo non era il fatto che loro (gli organizzatori) erano apparsi ai partecipanti, ma piuttosto che i partecipanti erano apparsi a loro. Monastyrsky descrisse l’apparizione finale dei partecipanti nell’opera nei termini di una “pausa”, che quindi ri-concettualizzava l’attesa non come preludio a un’azione più precisa, ma come evento principale. Le azioni svolte dal gruppo di artisti furono raccolte in diversi testi, pubblicati in russo e in tedesco con il titolo Gita in campagna. Il secondo volume del 1983 può essere preso come esempio della loro tipica struttura: - Una prefazione teorica di Monastyrsky; - Le descrizioni degli eventi correlate di fotografie; - Un’appendice documentativa e un elenco di diapositive; - I testi scritti dai partecipanti; - Le fotografie e le descrizioni delle azioni degli artisti individuali; - I commentari e le fotografie. Boris Groys ha notato il modo in cui le performance del CAG fossero “meticolosamente, quasi burocraticamente, documentate, commentate e archiviate”. Tale produzione testuale è una delle caratteristiche dominanti della loro pratica che li pone in posizione opposta rispetto all’approccio dell’arte partecipativa realizzata nei Paesi occidentali – che si oppone costantemente all’atomizzazione delle relazioni sociali dello spettacolo consumista. L’uso di un campo come sfondo nelle opere di CAG è importante. Non indicava uno specifico rifiuto della città o un consapevole abbraccio alla natura; il campo non è scelto per i suoi valori estetici oggettivi, “ma semplicemente come il ‘meno cattivo’, come uno spazio meno occupato di altri, meno segnato dal discorso culturale dominante”. Per Monastyrsky è uno spazio “libero da affiliazioni”: “la campagna, per noi, non è la campagna coltivata dai contadini ma quella dove si ritira in vacanza la classe intellettuale”. 1.6 Contro la dissidenza L’arte partecipativa ai tempi del socialismo reale degli anni Sessanta e Settanta fornisce un importante contro-modello ai contemporanei esempi europei e nordamericani. Più che aspirare alla creazione di una sfera pubblica partecipativa in contrapposizione a un modello privatizzato di affetti e di consumi individuali, gli artisti che cercavano di lavorare in modo collaborativo sotto il socialismo cercarono di fornire uno spazio in cui coltivare l’individualismo contro una sfera culturale oppressivamente monolitica, in cui i giudizi artistici erano ridotti alla questione della posizione che ricoprivano all’interno del dogma marxista-leninista. Ciò portò a una situazione in cui molti artisti non vollero avere nulla a che fare con la politica – e anzi rifiutarono persino la posizione del dissidente – e scelsero di operare, invece, su un piano esistenziale: rivendicando la libertà individuale, anche nella più sottile e silenziosa delle forme. 41 Possiamo confrontare questo approccio con quello degli artisti argentini, che usavano la partecipazione come mezzo per provocare nel pubblico una coscienza più elevata delle sue condizioni sociali e con ciò (si sperava) di spingerlo a prendere parte alla sfera sociale. CAPITOLO 6 PERSONE INCIDENTALI: L’APG E ARTI DI COMUNITA’ 1.1 Introduzione Il periodo successivo al 1968 in Gran Bretagna vide lo sviluppo di due tentativi volti a ripensare il ruolo dell’artista nella società: 1. APG: il primo partì nel 1966 e la sua politica ne fu contestata nel giro di qualche anno. Stiamo parlando dell’Artist Placement Group (AGP), fondato dall’artista John Lathan e dalla sua compagna di allora Barbara Steveni, e che continuò le sue attività fino al 1989 quando fu rinominato O+I. O+I sta per “Organizzazione e Immaginazione”; si tratta di una società di consulenza artistica e di un ente di ricerca indipendente che opera a livello internazionale. 2. Arti di comunità: il secondo è il movimento delle arti di comunità, la cui comparsa nel Regno Unito si inserisce all’interno di una spinta internazionale che mira a rendere democratica e a facilitare la creatività diffusa, e a migliorare l’accessibilità all’arte in favore di pubblici meno privilegiati. Tali sviluppi rappresentano due distinti poli del ripensamento della posizione dell’artista nella società alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta: uno in cui l’artista si impegna a lavorare in un’azienda o in un ente amministrativo, e l’altro in cui l’artista individuale assume il ruolo di facilitatore della creatività della gente “comune”. 1.2 L’APG (Artist Placement Group) 1.2.1 John Latham (1921-2006) John Latham (1921-2006) fu fondatore dell’APG, artista poliedrico coinvolto marginalmente nell’Assemblage (Arte dell’assemblaggio) e in Fluxus durante gli anni Sessanta. Gli interessi di Latham collegavano arte, filosofia e scienza, e possono essere colti, a partire dal 1958, nel suo uso dei libri come materiale scultoreo: le pubblicazioni sono trasformate in monumenti, bruciate, incorporate negli assemblaggi o addirittura immerse in una vasca di piranha. Egli è particolarmente conosciuto per la sua performance del 1966 Fermo e mastica, durante la quale, con alcuni dei suoi studenti, masticò una copia di Arte e Cultura di Clement Greenberg, presa in prestito dalla biblioteca della St Martin’s School of Art. Quando la biblioteca pretese la restituzione del libro, Latham lo riportò nella forma di un contenitore pieno di pagine masticate, che gli causarono il licenziamento e che successivamente vennero acquistate dal MoMa nel 1970. 1.2.2 La nascita dell’APG Sempre nel 1966 Latham fondò l’APG in collaborazione con la partner Barbara Steveni, anche lei un’artista. L’organizzazione era basata sull’idea che l’arte ha un contributo utile da dare al mondo, e che gli artisti possono servire alla società – non facendo opere d’arte ma attraverso i loro scambi verbali nel contesto delle istituzioni e organizzazioni. Con questo fine, Steveni e Latham organizzarono inserimenti o residenze per artisti britannici all’interno di un’ampia gamma di aziende ed enti pubblici. Nel 1966 l’APG divenne un’organizzazione pronta a negoziare inserimenti tra artisti e mondo degli affari. 42 Vediamo brevemente il meccanismo:  Barbara Steveni scriveva a una selezione di potenziali organizzazioni ospitanti delineando gli obiettivi dell’APG;  Tali organizzazioni erano invitate a pagare uno stipendio all’artista che si assumeva l’impegno di una residenza in loco. Il salario che ci si aspettava fosse garantito all’artista era attorno alle 2000 o 3000 sterline;  Le aziende, in cambio, non si aspettavano la produzione di un’opera d’arte, bensì il beneficio che avrebbero ricevuto dall’avere un outsider creativo nel loro organico. Steveni definisce l’obiettivo dell’APG come una nuova forma di mecenatismo che mette assieme due ambiti distanti: l’industria e le arti: “L’APG esiste per creare associazioni tra artisti e organizzazioni industriali, commerciali e pubbliche da cui entrambi possono trarre giovamento. La loro intenzione non è quella del mecenatismo tradizionale. Piuttosto esse cercano di far sì che l’artista sia coinvolto nell’attività quotidiana dell’organizzazione. Quest’ultima potrebbe beneficiarne sotto molteplici aspetti che potrebbero variare dal contributo alla creazione di qualche oggetto concreto fino al dare nuove idee sui metodi di lavoro… Lo scopo dell’APG è il tentativo di colmare la distanza che separa artisti e persone a lavoro, così che entrambi possano avere beneficio dalle prospettive e dalle modalità di agire dell’altro.” Nel 1969 i primi inserimenti erano ormai una realtà. Molti degli artisti coinvolti sono nomi noti nel contesto artistico britannico degli anni Sessanta e Settanta, ma solo alcuni di essi conservano tutt’oggi una reputazione a livello internazionale. Vediamo degli esempi:  Il video artista David Hall fu collocato presso la British Europena Airways e la Scottish Television;  John Latham al Natioanl Coal Board e all’ospedale Clare Hall di Cambridge;  Lo scultore Garth Evans alla British Steel Corporation;  E molti altri. Da questa brevissima lista si può osservare come la scelta dell’organizzazione si indirizzi verso l’industria pesante e le società nazionalizzate, e come gli artisti siano tutti uomini, nonostante la forza motrice dietro ai loro inserimenti fosse Barbara Steveni. Lo slogan dell’APG fu “il contesto è metà del lavoro”, un’idea in sintonia con le tendenze dell’arte fuori dallo studio dell’artista. Invece di coinvolgere il pubblico nel lavoro, l’APG spinse l’artista fuori nella società. L’idea di artisti al lavoro con le imprese e l’industria fu una tendenza comune durante la fine degli anni Sessanta. 1.2.2.1 Il processo espositivo: “Inno70” Il fatto che Steven riuscì ad assicurarsi i finanziamenti per una mostra dell’AGP alla Hayward Gallery nel 1968, un anno prima che gli inserimenti cominciassero, testimonia l’ambizione e la fiducia negli sviluppi futuri del gruppo. La mostra, intitolata Inno70 ma conosciuta anche come Art and Economics, ebbe luogo dal 2 al 23 dicembre 1971 ed espose i risultati raggiunti nei due anni precedenti, indipendentemente dagli sviluppi a cui gli inserimenti fossero effettivamente arrivati. I contenuti di Inno70 furono decisi dagli artisti in collaborazione con le organizzazioni che li ospitavano. All’interno si potevano distinguere tre diversi tipi di spazio espositivo: 1. Diverse sale furono riempite di ingrandimenti fotografici che mostravano i vari passaggi delle associazioni artisti-aziende aggiornati a quel momento, assieme a videointerviste e discussioni registrate tra artisti e rappresentanti dell’industria, del commercio, del governo etc. trasmesse su monitor in tutta la galleria. 2. Lo scultore Garth Evans presentò il suo inserimento nella forma di un’installazione che occupava un’intera sala: egli mise assieme campioni di componenti d’acciaio provenienti da tutte le acciaierie 45 che promuovono […] Si differenziano quindi dai professionisti delle arti più consolidate nell’occuparsi principalmente della creazione di un processo che di un prodotto finito; un processo poliedrico che include manualità, sport etc., in cui l’elemento ‘artistico’ è variabile e spesso non chiaramente distinguibile dal resto”. 1.3.3 The Blackie e Inter-Action Due progetti di più lunga durata delle arti di comunità del Regno Unito presero avvio nel 1968: The Blackie e Inter-Action. 1.3.3.1 The Blackie The Blackie, fondato dal coreografo Bill Harpe e da sua moglie Wendy, continua tutt’ora ad avere la sua sede nella chiesa di St. George nella Chinatown di Liverpool. Il suo scopo originario era di fondare un centro per la comunità e di fornire il meglio che le Arti Contemporanee potrebbero offrire sotto un solo tetto, il tetto di Blackie. Dal principio, il gruppo si impegnò a mostrare arte “alta” accanto alle produzioni quotidiane della gente locale. Durante i primi anni Settanta si svolgevano attività partecipative come la tombola per le madri e i parchi giochi per i bambini, laboratori di ogni genere (scrittura a macchina, spettacoli di burattini, lavorazione del legno, cucina, fotografia), una piccola casa editrice (per produrre pubblicità e pubblicazioni) e una stazione radio. Occupando sempre l’enorme ex chiesa della quale si appropriò nel 1968, The Blackie ospita oggi alcune sale prova, attrezzature per le produzioni in studio e uno spazio espositivo. La partecipazione era la chiave di tutti gli aspetti del progetto e ci si aspettava che lo staff e i volontari si occupassero di attività creative e non creative. 1. L’arte visiva partecipativa The Blackie provò a sperimentare con l’arte visiva partecipativa nel progetto espositivo “Towards a Common Language” (1973) a Liverpool. La mostra era costituita di tele vuote, cartoncini e fogli di carta appesi ai muri della galleria, pronti per essere dipinti dai visitatori, che potevano scegliere tra guardare i lavori completati o crearne uno proprio. 301 opere furono completate da adulti e 642 da bambini. I visitatori potevano portare via il loro dipinto o lasciarlo nella galleria, dove sarebbe stato esposto in raccoglitori di poster. 2. Il gioco Uno degli aspetti più caratteristici dell’identità di The Blackie e di Inter Action è l’impegno nei giochi anche. I giochi sono intesi quali metafore delle relazioni sociali e, quindi, dimostrano la possibilità di produrre trasformazione. Il punto è la cooperazione. 1.3.3.2 Inter-Action Inter Action fu fondato dal regista teatrale statunitense Ed Berman a Londra nel 1968 e si propone come un’iniziativa pioneristica nel campo delle arti di comunità. Per molti anni occupò il primo centro del Regno Unito dedicato alle arti di comunità. Negli anni ’70 Inter Action funzionò come un’organizzazione ombrello di numerose compagnie di teatro sperimentale che si dedicavano all’allargamento del pubblico sotto la bandiera de “l’arte è dove meno te la aspetti”. Queste includevano un gruppo di teatro di strada fatto da bambini, un teatro gratuito per la pausa pranzo, etc. L’organizzazione supportò nuove forme di teatro identitario e mise in scena una delle prime stagioni del Regno Unito di Black Theatre. 46 Berman si definisce direttore artistico dell’organizzazione con il controllo totale sugli spettacoli prodotti; ciò assicurò il sostegno crescente dell’Arts Council, dal momento che la sua politica fu di avere sempre un attore o un regista famoso coinvolto. Berman sostiene di essersi impegnato a ottenere standard professionali: era importante assicurare la qualità, perché il teatro di comunità faceva parte dello stesso mercato di attori e registi. 1. Cammei della comunità Le molteplici ali di Inter Action miravano a essere sia educative sia artistiche, così come si può vedere nel progetto performativo a lungo termine Cammei della comunità. Tre attori, formati a vivere a parlare come una delle tre figure storiche – William Shakespeare, il Capitano Cook ed Edward Lear – furono mandati in giro per Londra (e in seguito per tutto il Regno Unito e anche a Los Angeles) in qualità di archivi ambulanti di informazioni su ciascuno dei tre personaggi storici. Ogni attore, che aveva compiuto un’intensa ricerca sul suo personaggio e ne indossava i costumi del periodo, si comportava come un viaggiatore nel tempo non solo in situazioni pubbliche, ma anche quando prendeva l’autobus o il taxi. Per gli attori, la personificazione continuativa di una figura storica per un periodo dai due ai tre anni diede un nuovo impulso all’idea della performance espansa (durational performance). 2. Il gioco Uno degli aspetti più caratteristici dell’identità di The Blackie e di Inter Action è l’impegno nei giochi anche. I giochi sono intesi quali metafore delle relazioni sociali e, quindi, dimostrano la possibilità di produrre trasformazione. Il punto è la cooperazione. Per esempio l’Inter Action Creative Games Method, un allenamento “per persone che sono interessate alla propria creatività o a quella di gruppo a una professione che implichi il lavoro con altri”. Berman fa come esempio un gioco in cui i partecipanti devono andare da una parte all’altra di una stanza cercando di arrivare ultimi e non primi; scollegando la meta (l’altro lato della stanza) dalle modalità di avanzamento (la velocità), la gara diventa cooperativa e più creativa. 3. L’arte visiva partecipativa I murales, come forma popolare di espressione collettiva, già negli anni ’70 sembravano in qualche modo datati, perciò Liz Leyh di Inter Action partì da un approccio diverso, realizzando sculture di cemento nel nuovo quartiere di Milton Keynes, le cui maquettes furono prodotte in collaborazione con i residenti locali. 1.3.3.3 Il declino The Blackie e Inter Action sono, per certi aspetti, esempi atipici del movimento della arti di comunità, dato che la maggior parte delle organizzazioni fondate alla fine degli anni Sessanta e nei Settanta non esistono più. Entrambi sono rarità per il fatto di essere sopravvissuti ai rilevanti tagli dei finanziamenti per l’arte negli anni Ottanta, grazie soprattutto alla forte identità dei loro leader e al loro spirito creativo. In ogni modo, è importante anche notare che le collaborazioni di Berman con il mondo degli affari garantirono la stabilità finanziaria di Inter Action, assieme a una posizione chiaramente apolitica. Negli anni ’80 i controlli sulle organizzazioni crebbero costantemente e già nel 1982 l’Arts Council aveva quasi completamente cessato il finanziamento diretto a esse. Quando aggiungiamo a questo i problemi del lavoro collettivo inteso come una missione ideologica arriviamo a una situazione in cui la sostenibilità delle arti di comunità diventa estremamente fragile. 47 PARTE III Si tenta in questa parte di storicizzare il periodo successivo al 1989 e ci si concentra su due tendenze contemporanee dell’arte partecipativa. CAPITOLO 7 EX OVEST: ARTE COME PROGETTO NEI PRIMI ANNI NOVANTA 1.1 Il termine “progetto” Il 1989 segna la caduta del socialismo reale, un collasso che nei primi anni Novanta fu inizialmente celebrato come la fine di un regime repressivo, e poi gradualmente, verso la fine del decennio, compianto come la perdita di un orizzonte politico collettivo. L’impatto del 1989 sulla produzione artistica è meno rapido e meno diretto rispetto al trionfo socialista del 1917 e al suo ultimo eroico momento nel 1968. In questo capitolo si vuole seguire la traccia di come una certa tendenza del pensiero di sinistra sia visibilmente migrata verso la produzione artistica dell’Europa occidentale, a seguito del collasso delle “grandi narrazioni” politiche del 1989. Uno dei modi principali in cui si è evidenziata tale tendenza fu la progressiva diffusione di un particolare termine per descrivere l’arte degli anni Novanta: progetto. La parola “progetto” tende a denotare una proposta per un’opera d’arte. Il progetto, nel senso in cui lo stiamo identificando qui come aspetto cruciale dell’arte dopo il 1989, aspira a sostituire l’opera d’arte, intesa come oggetto finito, con un processo sociale aperto, che si sviluppa fuori dallo studio dell’artista, che è basato sulla ricerca sul campo, che si può estendere nel tempo e mutare forma. Dagli anni Novanta il progetto è diventato un termine ombrello in grado di comprendere vari tipi di arte: pratiche collettive, gruppi di attivisti auto-organizzati, ricerca transdisciplinare, arte partecipativa e impegnata socialmente e sperimentazioni curatoriali. La parola per descrivere queste attività artistiche aperte e incompiute arriva in un momento in cui si manifesta una notevole carenza di ciò che potremmo chiamare un “progetto sociale” – un orizzonte o un obiettivo politico collettivamente condiviso. C’è una relazione pesante e complessa fra la progettualità artistica e quella politica, ed essa è la spinta che sta al centro di questo capitolo. 1.2 Projet Unité, Sonsbeek 93 e Culture in Action 1.2.1 Skulpture Projekte (1987) e Chambres d’Amis (1986) In Europa due mostre spianarono la strada al cambiamento che vedremo con Projet Unité (1993), Sonsbeek 93 (1993) e Culture in Action (1993). Queste due mostre furono Skulpture Projekte (1987) curata da Kasper Konig a Munster e Chambres d’Amis (1986) curata da Jan Hoet a Ghent. 1.2.1.1 Chambres d’Amis (1986) a Ghent Si tratta di un’esposizione sperimentale nella quale gli artisti (quasi tutti europei e maschi) furono invitati a realizzare un’installazione in più di cinquanta case private di Ghent. Sebbene la visita ai lavori di Chambres d’Amis implicasse inevitabilmente un contatto con i padroni di ciascuna casa, questo non fu inteso essere l’obiettivo prioritario della mostra. Ogni effetto di tipo sociale fu collaterale non intenzionale. Chambres d’Amis fu, come nota il curatore Jan Hoet, “un’opportunità per un fertile dialogo estetico fra differenti culture” e portò a “caldi e cordiali contatti, non soltanto tra gli artisti e gli ospitanti, ma anche tra questi e i visitatori”. La maggior parte delle opere, piuttosto che occuparsi di questioni sociali di classe o identitarie, fu costituita da riconfigurazioni formali e atmosferiche di spazi domestici. 50 1.2.3.2 Le opere della mostra Sebbene la maggior parte delle opere di Sonsbeek 93 fossero interventi scultorei, c’erano anche due progetti chiave per la storia che stiamo tracciando. 1. Progetto per la casa reale dei reduci (1993) di Mark Dion In primo luogo, l’intervento di Mark Dion a Bronbeek, un museo annesso alla casa reale per veterani in pensione, la cui collezione comprendeva oggetti che i soldati e i marinai olandesi avevano portato indietro dalle loro missioni oltremare. Il suo contributo, oltre a proporre una risistemazione dell’allestimento del museo, affrontava anche una situazione di conflitto: i veterani in pensione era in disaccordo con il curatore del museo, il cui lavoro era di decidere quali dei loro oggetti sarebbero entrati a far parte della collezione dopo la morte del veterano a cui appartenevano. Il progetto di Dion, che partiva da una litografia che mostrava l’originario allestimento nelle vetrine del XIX secolo (che andarono distrutte), consistette nel fare ricostruire due di queste vetrine. Una venne riempita con gli oggetti che comparivano nella litografia, e l’altra con ricordi appartenenti ai veterani e in particolare quegli oggetti che non sarebbero stati ammessi a far parte della collezione dopo la morte del loro proprietario, ma che avevano un grande significato a livello personale. 2. Progetto senza titolo (1993) di Irene e Christine Hohenbuchler In secondo luogo, il lavoro di Irene e Christine Hohenbuchler, nel corso di una residenza nella prigione di Arnhem. Produssero con le carcerate una serie di dipinti che poi vennero allestiti in piccole casupole fuori dal carcere, oltre a un’installazione nello spazio centrale del panopticon17 del carcere, usando lana e stoffa, i materiali tipici delle due artiste. 1.2.3.3 Conclusioni Considerata l’attuale tendenza a riferirsi a questo tipo di lavoro come “sociale” e “politico”, appare sorprendente che Valerie Smith fosse invece riluttante a definire la sua mostra secondo queste categorie. Anche Yves Aupetitallot esprime gli stessi sentimenti in un’intervista fattagli a proposito di Projet Unité. Il fatto che entrambi i curatori siano restii a definire le loro mostre come “sociali”, nonostante questo sia un aspetto importante del loro progetto curatoriale, indica il grado di conservatorismo che era allora dominante nel mondo dell’arte. 1.2.4 Culture in Action (1993) – Stati Uniti d’America Se Smith e Aupetitallot si mostrano riluttanti a definire le loro mostra come mostre di “arte sociale”, il lavoro incentrato sulla comunità che in questo periodo si andava definendo negli Stati Uniti d’America, e che di lì a poco sarebbe stato inquadrato dall’artista Suzanne Lacy come “l’arte pubblica di nuovo genere”, non mostrava alcuna mancanza di fiducia in tale missione. 17 Panopticon o panottico è un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Il concetto della progettazione è di permettere a un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no. 51 1.2.4.1 La mostra Lacy fu una degli otto, fra gli artisti singoli e collettivi, che parteciparono all’ambiziosa mostra di arte impegnata socialmente, Culture in Action, curata da Mary Jane Jacob nell’estate del 1993. Gli otto progetti compresi all’interno di questa mostra restano l’esempio più evidente della “svolta sociale”, che prende forma in una mostra d’arte di quell’anno. Culture in Action trovava fondamento nella tradizione di arte pubblica della città di Chicago, una delle prime città a installare nello spazio pubblico un’opera su larga scala. Culture in Action spostò gli spazi dove commissionare agli artisti le nuove opere, dall’arte del centro-città verso quartieri marginali, prevalentemente abitati da persone con basso reddito. Ne risultarono otto progetti di un vasto gruppo di artisti che lavorarono con la comunità locale per diversi mesi o addirittura anni. 1.2.4.2 Urban Ecology Action Group di Mark Dion Uno dei progetti fu quello di Mark Dion. Egli, a Chicago, lavorò con un gruppo di quindici studenti di due scuole medie superiori a un progetto che anticipava il grande interesse dell’attuale decennio per la formazione, trattato nel capitolo 9. Il progetto di Dion si articolava in tre fasi: 1. Prima fase: un programma di studio sulla foresta pluviale; 2. Seconda fase: un viaggio in Belize; 3. Terza fase: la creazione del Chicago Urban Ecology Action Group, la cui sede era una stazione sperimentale da campo in uno dei distretti di Chicago. La stazione da campo intendeva funzionare come “un’installazione artistica, un laboratorio e un centro di informazione ecologica attivo per tutta l’estate”. Ogni settimana era dedicata a un certo argomento e proponeva conferenze di vari invitati, sessioni di cucina, escursioni, mentre al contempo la stazione serviva anche da centro per i progetti di giardinaggio comunitario e di pulizia del laghetto locale. Dion ricorda che la risposta del pubblico a questo centro sociale ecologico diurno fu deludente. 1.2.5 Conclusioni Il termine “progetto”, usato per descrivere il nuovo orientamento sociale dell’arte, emerge con tutta la sua energia a questo snodo. Projet Unité si auto-riferisce in modo esplicito a questo passaggio, nominando l’impresa nel suo insieme come un “progetto”, con tutte le connotazioni di un progetto architettonico attorno al quale si organizzano le relazioni sociali. Nel catalogo di Sonsbeek 93 Valerie Smith afferma che la sua intenzione era quella di “includere progetti collaborativi, che mettano esplicitamente in questione l’idea dell’identità artistica singola, e celebrino invece la creatività collettiva”. Il “sociale” possiede quindi una molteplicità di connotazioni: il dialogo, la collaborazione, il processo, la diversificazione dei pubblici, la partecipazione democratica. La questione di come valutare la riuscita di questi progetti rimane tuttora oggetto di dibattito. All’epoca, essi furono quasi percepiti come dei fallimenti. Eppure il compito che queste mostre cominciarono a svolgere era importante: ri-concepire il pubblico come pluralità, una combinazione di partecipanti e osservatori provenienti da vari strati della società. 52 1.3 Mostre performative Altri esperimenti di questo tipo, sulla spettatorialità, ebbero luogo in Francia nello stesso periodo, ma con un’enfasi sulla “socievolezza” piuttosto che sulla responsabilità sociale. Una generazione di giovani artisti, fra i quali Pierre Huyghe, Philippe Parreno e Dominique Gonzalez Foster, si volsero a concepire la mostra come un medium creativo in sé. Gli esperimenti formali introdotti da questi artisti comprendevano tra l’altro: 1. Prolungare la durata di una mostra, sia prima dell’apertura sia dopo la chiusura; 2. Includere lavori posti in un altro luogo o comunque assenti dalla sede della mostra; 3. Cambiare l’allestimento nel corso della mostra; 4. Interferire con l’organizzazione della comunicazione della mostra (audioguide, didascalie informative, visite e così via); 5. Proporre altri formati di presentazione, letti attraverso la lente di una mostra. L’effettiva inclusione di altri formati all’interno della mostra (musica, riviste, cucina, cinema, giornalismo, televisione, nuove tecnologie) prese il posto dei sistemi di rappresentazione e illustrazione. Per questa generazione di artisti, il desiderio di sperimentare con il formato stesso della mostra derivava principalmente dall’insoddisfazione verso l’approccio convenzionale, ereditato dagli anni Ottanta, di realizzare mostre basate sulla presentazione di oggetti destinati a essere consumati dal mercato. 1.3.1 Il curatore Eric Troncy Già nel 1991 il curatore Eric Troncy sminuiva “la mostra come nulla di più di uno spettacolo sociale, una convenzione” e poco dopo lamentava che gli anni Ottanta avevano ridotto la mostra a un mero showroom. In particolare, egli metteva sotto accusa le mostre collettive tematiche che, appesantite dalla presenza di un tema, finivano per avere un aspetto illustrativo. Piuttosto che concepire la mostra come un formato che si concretizza a posteriori, nella quale si presentano opere già esistenti, Troncy preferiva pensare la mostra come un progetto artistico a priori. 1.3.1.1 No Man’s Time (1991) Vediamo la mostra No Man’s Time (1991) di Eric Troncy, dove si evidenzia questa riconfigurazione dell’interesse verso la mostra come progetto aperto, con un accento posto sulla collaborazione e sull’idea di presentare il lavoro nel suo farsi. I 22 artisti invitati a No Man’s Time presso la Villa Arson di Nizza passarono un mese in residenza per partecipare a una sessione di brainstorming precedente alla mostra, nella quale furono presentati progetti creati o agiti specificatamente per quel sito. Una delle idee chiave che emergono è quella della mostra vista come un film, con le opere che prendono la forma di attori. Erano svariati i lavori che comprendevano performance, fra questi No More Reality di Philippe Parreno, una dimostrazione di bambini che sfilano per strada tenendo degli striscioni con lo slogan che dà il titolo all’opera. Il riferimento al cinema era evidente nel cartellone stradale dello stesso Parreno, installato fuori dallo spazio espositivo, decorato con lo slogan “Benvenuti a Twin Peaks”, citazione della celebre serie televisiva di David Lynch. 55 CAPITOLO 8 PERFORMANCE PER DELEGA: L’AUTENTICITA’ IN APPALTO 1.1 Le performance per delega 1.1.1 Una definizione e introduzione Insieme alla reinvenzione della mostra come luogo di produzione più che di esibizione visto nel capitolo precedente, una manifestazione ulteriore della svolta sociale nell’arte contemporanea fu l’emergere di un nuovo genere di performance. Il tratto distintivo di quest’ultima è l’ingaggio di performer non professionisti, essendo questi eventi intrapresi di preferenza non dagli artisti stessi. Queste opere mantengono un facile rapporto con la galleria, sia assumendola come cornice per una performance sia come spazio dove esibirne il derivato fotografico o video. Ci riferiamo a tale tendenza come “performance per delega”: l’atto di ingaggiare non professionisti o specialisti di altri campi per intraprendere un lavoro che comprenda la presenza e l’azione in un tempo e in un luogo particolari per conto dell’artista e sulla base delle sue istruzioni. Gli artisti di cui parleremo di seguito tendenzialmente ingaggiano persone che mettano in scena la propria categoria socio-economica di appartenenza, rispetto al genere, alla classe, all’etnia, all’età, alla disabilità e, più di rado, alla professione. 1.1.2 Primo tipo di performance per delega: l’installazione dal vivo per azioni appaltate a non professionisti che mettono in scena un aspetto della loro identità Il primo tipo di performance per delega comprende azioni appaltate a non professionisti, cui viene chiesto di mettere in scena, spesso in una galleria o una mostra, un aspetto della loro identità. Questa tendenza possiamo chiamarla “installazione dal vivo”. 1.1.2.1 Southern Suppliers FC (1991) di Maurizio Cattelan Uno dei primi esempi di tale tendenza è Southern Supplies FC (1991) (ovvero Fornitori del sud) di Maurizio Cattelan. Nel 1991 l’artista italiano mise insieme una squadra di calcio di immigrati nord africani, che furono schierati per giocare le partire di calcio locale in Italia (tutte perse). Le magliette vennero decorate con il nome di uno sponsor fittizio RAUSS: la parola tedesca che significa per “via da qui”, come nella frase “Auslander rauss”, ovvero “Fuori gli stranieri”. Il titolo del progetto allude al lavoro manuale degli immigrati (“fornitori” dal sud), ma anche alla tendenza, all’epoca dibattuta con veemenza dalla stampa italiana, di ingaggiare calciatori stranieri per giocare nelle squadre italiane. Il gesto di Cattelan segna un contrasto tra due tipi di lavoro straniero che si collocano ai capi opposti dello spettro economico – le star del calcio non sono certo percepite negli stessi termini degli operai immigrati – ma senza alcuna percepibile retorica marxista. In effetti, attraverso quest’opera Cattelan soddisfa il sogno maschile di possedere una squadra di calcio e, in apparenza, irride i giocatori vestendoli con magliette marcate RAUSS. Eppure, nello stesso tempo, egli produce un’immagine che disorienta: la parola RAUSS, una volta associata con la fotografia sorprendente di una squadra di calcio italiana fatta tutta di neri, ha una potenza ambigua e provocatoria, specie quando circola nei media, dato che sembra sputar fuori la paura europea, mai esplicitata, di essere sommersi dagli immigrati provenienti dall’esterno della “fortezza Europea”. 56 Southern Suppliers FC è una scultura sociale in quanto performance cinica, inserita dentro il sistema sociale in tempo reale di un campionato di calcio. 1.1.2.2 Linea de 250 cm tatuada sobre 6 personas remuneradas (1999) di Santiago Serra Prima del 1999, l’opera di Santiago Serra comprendeva una potente combinazione di minimalismo e intervento urbano; nel corso del 1999 la sua opera slittò da installazioni prodotte da lavoratori sottopagati ad allestimenti in cui egli metteva in mostra i lavoratori stessi, ponendo in primo piano le transazioni economiche con loro, da cui dipendevano le installazioni. Linea de 250 cm tatuada sobre 6 personas remuneradas è l’opera di Sierra, realizzata nel 1999 a L’Avana. Molte delle prime performance appartenenti a questo genere implicavano il trovare persone che fossero disposte ad assumere incarichi banali o umilianti a un salario minimo. Le opere di Sierra sono spogliate dell’humour leggero che accompagna molti degli altri progetti dell’epoca, dato che spesso hanno luogo in Paesi al limite estremo del disagio provocato dalla globalizzazione, soprattutto nell’America centro-meridionale. Di conseguenza, Sierra è stato aspramente criticato per aver semplicemente replicato le ingiustizie del capitalismo, e più specificatamente della globalizzazione, che porta i Paesi ricchi a “esternalizzare” e a spostare lavoro a operai sottopagati nei Paesi lontani in via di sviluppo. Invece, l’artista attira sempre l’attenzione sui sistemi economici attraverso cui i suoi lavori sono realizzati e il modo in cui tali sistemi influenzano la ricezione dell’opera. Nel suo lavoro la performance è acquisita dall’esterno attraverso agenzie di collocamento e la transazione finanziaria che avviene lascia l’artista a dovuta distanza dal performer; questa distanza è evidente nell’incontro fenomenologico dello spettatore con l’opera, che è freddo e alienato in modo inquietante. A differenza di molti altri artisti, Sierra si prende la briga di rendere i dettagli di ogni pagamento parte della descrizione dell’opera, trasformando il contesto economico in una delle sue “materie prime”. 1.1.2.3 Conclusioni: il collegamento con la body art Potremmo sostenere che questo tipo di performance per delega deve molto alla tradizione della body art degli ultimi anni Sessanta e primi Settanta. Gli artisti degli anni Settanta usavano il proprio corpo come medium e materiale dell’opera, spesso con un’enfasi corrispondente sulla trasgressione fisica e psicologica. La performance per delega di oggi affida ancora un alto valore all’immediatezza, ma se essa ha un qualche carattere trasgressivo, questo tende a derivare dalla percezione che gli artisti stanno esibendo e sfruttando altri soggetti. Come risultato, questo tipo di performance dove l’artista usa altre persone come materiale del suo lavoro, tende a provocare accesi dibattiti sull’etica della rappresentazione. Nello stesso tempo, la durata viene a riconfigurarsi da questione spirituale di energia e resistenza individuale al problema economico dell’avere risorse sufficienti a pagare qualcun altro perché offra la sua presenza. 1.1.3 Secondo tipo di performance per delega: l’installazione dal vivo per azioni con l’uso di professionisti di altre sfere di competenza Un secondo filone di performance per delega, che cominciò a essere proposto alla fine degli anni Novanta, riguarda l’uso di professionisti di altre sfere di competenza: per esempio Tino Sehgal che ingaggia professori universitari e studenti per le sue numerose situazioni basate sulla comunicazione orale. Questi performer sono spesso specialisti in campi altri rispetto a quello dell’arte o della performance, e dal momento che sono tendenzialmente reclutati sulla base della loro identità professionale, invece di essere rappresentativi di una classe o razza particolare, intorno a questo genere di lavori c’è una controversia e 57 un’ambivalenza molto minore. L’attenzione dei critici tende a mettere a fuoco la cornice concettuale nonché le abilità specifiche del performer o dell’interprete in questione, le cui doti sono incorporate nella performance come un ready made. L’opera ha un carattere “basato sul fornire istruzioni” (instruction based) che, unito al fatto che molti dei performer sono bianchi e appartenenti alla classe media, ha facilitato la riproducibilità di questo tipo di opera e potenziato la sua possibilità di essere collezionata nei musei. 1.1.3.1 This Objective of That Object (2004) di Tino Sehgal L’esempio più rinomato di questa tendenza è Tino Sehgal, che è molto ostinato nel pretendere che la sua pratica venga definita non “performance art” ma “situazioni”, e che i suoi performer siano considerati interpreti. L’opera di Sehgal è legata alla danza: come ha osservato ogni critico della sua produzione, l’artista si era formato in coreografia ed economia prima di rivolgersi all’arte visiva. This Objective of That Object (2004) colloca lo spettatore all’interno di un’esperienza ad alto controllo: appena entri nella galleria cinque performer girati di schiena ti spingono a partecipare a una discussione su soggettività e oggettività. Generalmente i performer sono studenti di filosofia, ma il loro dialogo semi- abbozzato su un copione viene trasmesso come qualcosa di spersonalizzato e meccanico, e qualsiasi contributo dai al dibattito viene percepito come imbarazzato e vuoto, dato che è impossibile alterare la struttura dell’opera, e si può solo assumere un ruolo al suo interno (se resti in silenzio i performer si accasciano sul pavimento fino a che un altro visitatore entra nella galleria). Il fatto che la sua opera sia tenuta in attività continuativamente nello spazio per tutta la durata di una mostra, eseguita da quel certo numero di interpreti, corrode ogni attaccamento residuale all’idea di una performance ideale o originale. 1.1.3.1 Conclusioni: il collegamento con la Judson Dance Un punto di riferimento immediato per quanto concerne questa seconda tipologia di performance per delega è la Judson Dance, con la sua enfasi su gesti, abiti e movimenti quotidiani come base per l’invenzione coreografica. Si tratta forse del precedente più immediato. Il Judson Dance Theatre era un collettivo di ballerini, compositori e artisti visivi che si esibivano alla Judson Memorial Church nel Greenwich Village, a New York City, a Manhattan tra il 1962 e il 1964. Gli artisti coinvolti erano sperimentatori d'avanguardia che respingevano i confini della pratica della danza moderna e teoria, inventando i precetti della danza postmoderna. I membri parteciparono anche autonomamente a installazioni artistiche e multimediali, o "Happenings", che si svolgevano in quel periodo in città. 1.1.4 Terzo tipo di performance per delega: situazioni costruite per video e film Un terzo tipo di performance per delega comprende situazioni costruite per video e film; esempi chiave potrebbero comprendere Artur Zmijewski e Phil Collins. Le immagini registrate qui sono cruciali, dal momento che questo genere cattura spesso situazioni che sono troppo difficili o troppo delicate per essere reiterate. A seconda del modo di filmare, queste situazioni possono mettere in discussione il confine tra l’azione dal vivo e quella mediata, fino ad arrivare al punto in cui il pubblico non sarà in grado di decidere se un evento è stato creato in scena oppure previsto da un copione. Poiché l’artista assume un rilevante ruolo di revisione e di controllo, e poiché spesso il successo dell’opera è legato alla capacità dei performer di apparire attraenti, questo genere di lavoro tende anche a richiamare giudizi di tipo etico sia dai critici iper-preoccupati di sinistra sia dai media neoliberali di destra. 60 La Monnaie Vivante colloca la performance art in dialogo diretto con i coreografi contemporanei interessati al “grado zero” della danza. Dal punto di vista curatoriale, La Monnaie Vivante si distingue perché presenta le perfomance sovrapposte in un unico spazio-tempo; questo format plasma una prossimità intensa e continuamente mutevole tra le differenti performance, così come tra performer e osservatore, che occupano lo stesso spazio delle opere e si muovono tra di esse. Per esempio, alla Tate Modern, nel 2008, performance di durata variabile ebbero luogo contemporaneamente nella stessa sala. Il titolo della mostra di Bal Blanc è tratto dal misterioso libro omonimo di Pierre Klossowski, pubblicato nel 1970 in cui l’autore parla della mutua e preoccupante sovrapposizione tra economia e piacere, invece di percepirli come sfere separate. La “moneta vivente” del suo titolo è il corpo umano. Klossowski afferma che l’arte muore in questo regno dell’eccesso perché non è funzionale, ma in effetti essa potrebbe anche essere vista come uno strumento dato che è compensatoria e crea esperienze nuove. Klossowski porta all’estremo la dialettica di uso e non uso, funzionale e non funzionale, per sostenere che processi industriali e arte sono entrambi libidinali e razionali, dato che gli impulsi ignorano tali distinzioni imposte dall’esterno. Gli umani sono “moneta vivente” e il denaro è il mediatore tra piacere libidinale e mondo industriale/istituzionale dell’imposizione normativa. Bal Blanc sostiene che tutte le opere che esibisce mostrano il modo in cui gli impulsi individuali sono sottomessi ai rapporti economici e sociali, e come queste regole sono analizzate nelle leggi di trasmissione e di ricezione dell’industria dello spettacolo. CAPITOLO 9 PROGETTI PEDAGOGICI: “E’ POSSIBILE FAR VIVERE UNA CLASSE COME FOSSE UN’OPERA D’ARTE?” 1.1 Introduzione Ormai da decenni gli artisti cercano di forgiare una connessione più stretta tra arte e vita, riferendosi ai loro interventi nei processi sociali come arte; negli ultimi tempi in questo sforzo sono inclusi anche gli esperimenti educativi. Negli anni Duemila si è assistito a un aumento considerevole di progetti pedagogici avviati da artisti e curatori contemporanei. Ci fu una cospicua ondata di interesse a esaminare la relazione tra arte e pedagogia, motivata sia da argomenti artistici (il desiderio di accrescere il contenuto intellettuale della convivialità relazionale) sia dagli sviluppi dell’istruzione superiore (nascita del capitalismo accademico). Artisti e curatori si sono impegnati sempre più in progetti che si appropriano degli elementi caratteristici dell’istruzione sia come metodo sia come forma: conferenze, seminari, biblioteche, sale lettura, pubblicazioni, laboratori e perfino scuole in piena regola. Ciò è avvenuto parallelamente alla crescita dei dipartimenti educativi nei musei, le cui attività non sono più ristrette a lezioni e a laboratori volti a migliorare la comprensione da parte dei visitatori di una mostra particolare o della collezione, ma possono ora includere reti di ricerca con le università. Tuttavia va sottolineato che, nonostante la loro crescente influenza nel settore pubblico europeo, i progetti pedagogici sono tuttora marginali rispetto al volume d’affari che si muove intorno al mercato dell’arte. La prima cosa che sembra importante notare in questo fiorire dell’interesse artistico nei confronti dell’istruzione è l’indicazione di una mutata relazione tra arte e accademia. Se in passato l’accademia era percepita come un’istituzione arida e elitaria, oggi l’istruzione è immaginata come potenziale alleato dell’arte in un’era di spazio pubblico in continua diminuzione. 61 L’arte pedagogica solleva una serie continua di problemi per lo storico dell’arte e il critico: cosa significa fare didattica e una programmazione come arte? Come giudichiamo queste esperienze? Quale genere di efficacia esse ricercano? Abbiamo bisogno di sperimentarle di prima mano per poterle commentare? In questo capitolo andremo a vedere dei case studies legati a diversi artisti: Tania Bruguera, Paul Chan, Pawel Althamer e Thomas Hirschhorn. Ciascuno di questi artisti presenta un approccio differente al problema della spettatorialità in relazione al compito pedagogico e mostra gli sviluppi che hanno avuto luogo sia nel lavoro basato sul progetto sia nella sua documentazione a partire da Culture in Action. 1.2 Tania Bruguera: Arte de Conducta e l’arte utile 1.2.1 Arte de Conducta (2002-2009) Il primo progetto pedagogico degli anni Duemila, e forse quello durato più a lungo, è stato Càtedra Arte de Conducta (Corso di arte comportamentale, 2002-2009): una scuola pensata come opera d’arte dall’artista cubana Tania Bruguera (nata nel 1968). Con sede nella sua casa ne L’Avana Vecchia e gestita con l’aiuto di due collaboratori, essa era volta a fornire agli studenti d’arte cubani una formazione nell’arte politica e contestuale. Bruguera fondò Arte de Conducta (o arte comportamentale) alla fine del 2002, dopo essere tornata nel suo Paese dalla partecipazione a Documenta 11 con un senso di insoddisfazione per le limitazioni imposte al creare esperienze artistiche per gli osservatori. L’artista desiderava, invece, dare un contributo concreto alla scena artistica cubana, in parte in risposta alla sua mancanza di strutture istituzionali e infrastrutture espositive, e in parte in risposta alle continue restrizioni dello Stato sui viaggi e sull’accesso all’informazione dei cittadini cubani. Un terzo fattore era il nuovo e rapido consumo di arte cubana da parte dei turisti statunitensi sull’onda della Biennale de L’Avana del 2000, quando molti giovani artisti avevano assistito all’acquisto in blocco dei propri lavori e alla loro rapida integrazione all’interno di un mercato occidentale su cui essi non avevano alcun controllo. Uno degli obiettivi del progetto di Bruguera era quindi preparare una nuova generazione di artisti ad affrontare tale situazione in modo auto-riflessivo, con la consapevolezza delle logiche del mercato globale anche nel produrre arte indirizzata al loro contesto sociale. A rigor di termini, Arte de Conducta va intesa meglio come corso di due anni che come scuola d’arte vera e propria. Gli studenti non ricevevano crediti per la frequenza, ma l’iscrizione era necessaria affinché Bruguera potesse assicurarsi i visti per i professori esterni (visiting lecturers). Durante i primi anni, molti di questi professori furono finanziati dalla stessa artista, attraverso il suo incarico di docente all’Università di Chicago (2004-2009). Conducta o “comportamento” è il termine alternativo che Bruguera usa al posto di quello occidentale “performance art”, ma esso evoca anche la Escuela de Conducta, una scuola per giovani delinquenti in cui Bruguera aveva insegnato arte. Arte de Conducta, comunque, non era interessata a far rispettare le norme disciplinari ma al suo opposto: il suo focus era l’arte che si impegna nel reale, in modo particolare l’interfaccia tra utilità e illegalità, dato che l’etica e la legge sono, per Bruguera, ambiti che richiedono continuamente di essere messi alla prova. 62 1.2.1.1 Il corpo studentesco e gli insegnanti Una delle prime questioni che si tende a sollevare in relazione ai progetti d’arte pedagogici riguarda la composizione del corpo studentesco. Nel caso di Arte de Conducta, questa era rigida ma anche molto fluida. Bruguera prendeva otto studenti l’anno, più uno storico dell’arte, a cui veniva chiesto di fare arte e nello stesso tempo di scrivere una relazione del progetto per tutto l’anno, garantendo in questo modo che Arte de Conducta elaborasse dall’interno una propria autovalutazione storica. Al di là delle iscrizioni ufficiali, i laboratori erano aperti anche a chiunque fosse interessato: ex studenti, i loro compagni e il pubblico in generale. L’insegnamento è strutturato attorno a laboratori dalla durata di una settimana e includono sempre una presentazione pubblica e discussioni del lavoro degli studenti. Gli artisti invitati assegnano agli studenti un progetto specifico: per esempio, Artur Zmijewski affidò loro il compito di fare un “adattamento non letterale” di un film polacco di propaganda comunista. La maggior parte degli artisti invitati viene coinvolta in qualche modo nella performance, molti provengono da Paesi ex socialisti, in modo da aiutare gli studenti cubani a comprendere la transizione che la loro stessa società dovrà inevitabilmente attraversare. Ci sono anche curatori e teorici (tra cui la Bishop), che assieme agli artisti danno forma, in qualche modo, a una cultura espositiva d’importazione: mostrare nell’isola immagini e idee che altrimenti non circolerebbero a causa delle severe restrizioni sull’uso di internet. 1.2.1.2 La comunicazione di Arte de Conducta in due Biennali La questione di come comunicare questa scuola-come-arte a un pubblico esterno è un problema aperto. Quando l’artista fu invitata a partecipare alla Biennale di Gwangju del 2008 ella decise di mostrare Arte de Conducta; invece di presentarne la documentazione, volle esporre un campione rappresentativo del lavoro degli studenti, anche se in un’installazione piuttosto convenzionale e poco convincente. Fu più dinamica, invece, la soluzione trovata per sottolineare la chiusura della scuola durante la Biennale de L’Avana del 2009. Con il titolo di Estado de Excepciòn, essa comprendeva nove mostre collettive in altrettanti giorni, aperte al pubblico, disallestite ogni notte e riallestite ogni mattina, che puntavano così a catturare l’attenzione sulla prontezza e sull’intensità della scuola nel suo insieme. Ogni giorno era organizzato attorno a temi come giurisdizione, arte utile e informazioni sul traffico di droga, e presentava una selezione di lavori della scuola accanto a quelli degli artisti in visita, inclusi Thomas Hirschhorn ed Elmgreen & Dragset. 1.2.1.3 Conclusioni: l’arte utile Resta comunque il problema del perché Arte de Conducta abbia bisogno di essere definita un’opera d’arte piuttosto che semplicemente un progetto educativo sviluppato da Bruguera nella sua città d’origine. La scuola, come molti dei progetti studenteschi in essa prodotti, può essere descritta come una variante di ciò che l’artista definiva “arte utile”, in altre parole, un’arte che è sia simbolica sia utile, che rifiuta l’assunto occidentale secondo cui l’arte è inutile o senza funzione. Questo concetto ci permette di guardare ad Arte de Conducta come inscritta all’interno di una pratica incessante a cavallo tra gli ambiti dell’arte e dell’utilità sociale. Presentare Arte de Conducta alla Biennale de L’Avana fu “utile” in quanto permise a Bruguera di mostrare a un pubblico internazionale una giovane generazione che altrimenti non sarebbe mai stata selezionata dal comitato scientifico della Biennale. Nonostante si consideri il progetto come un’opera d’arte, Bruguera non indica cosa potrebbe essere artistico in Arte de Conducta. Il suo scopo è di produrre una nuova generazione di artisti cubani impegnati socialmente e politicamente, ma anche esporre i professori esterni a nuovi modi di pensare l’insegnamento nel contesto. Entrambi questi obiettivi sono a lungo termine e irrappresentabili. 65 L’intero progetto è stato documentato dal regista polacco Visconti, il quale ha inserito interviste alternate ad Althamer, ai bambini e ai loro genitori. Come documentazione, il video è poco interessante e non ha alcuna relazione con l’intensità caotica del progetto; sembra sforzarsi di normalizzare l’iniziativa dell’artista e di provare i suoi effetti positivi sugli studenti. La dinamica di Einstein Class in realtà è stata ben più vivace e impegnativa. Althamer aveva messo un gruppo di ragazzi emarginati insieme con l’insegnante di scienze, a sua volta emarginato, e che questa relazione sociale aveva avuto la funzione di un correttivo tardivo all’esperienza provata dall’artista di un suo sostanziale disinteresse verso la scuola. Einstein Class, come molte delle opere dell’artista, è tipico della sua immedesimazione in soggetti emarginati, dei quali si serve per realizzare una situazione attraverso cui riabilitare retroattivamente il suo passato. 1.5 Thomas Hirschhorn: The Bijlmer-Spinoza Festival L’ultimo esempio è quello di Thomas Hirschhorn (nato nel 1957), che nell’ultimo decennio ha organizzato a intervalli regolati progetti sociali su larga scala in forma di “monumenti”, dedicati spesso a filosofi e realizzati in collaborazione con gli abitanti che vivono vicino al luogo della loro costruzione, generalmente nei sobborghi di una città. Dal 2004 l’elemento pedagogico è diventato sempre più importante in questi lavori. 1.5.1 Musée Precarie Albinet (2004) Facciamo riferimento a Musée Precarie Albinet (2004), realizzato nel quartiere nord-orientale di Parigi, che incluse la collaborazione e la formazione di alcuni residenti del luogo per l’allestimento di sette mostre di durata settimanale con opere di Duchamp, Warhol, Beuys, Malevic, Mondrian e Dalì, prese in prestito dalla collezione del Centre Pompidou. Le mostre furono supportate da un programma settimanale di eventi: un atelier pour enfants il mercoledì, un laboratorio di scrittura per adulti il giovedì, un dibattito pubblico il venerdì e una discussione con uno storico dell’arte o critico il sabato. Il pubblico primario erano gli abitanti del luogo e coloro che vi ritornavano regolarmente, piuttosto che il pubblico generico degli addetti ai lavori. 1.5.2 The Bijlmer-Spinoza Festival (2009) Nel 2009 l’artista affrontò un grande progetto che ebbe luogo in un sobborgo di Amsterdam chiamato Bijlmer. Il suo titolo, The Bijlmer-Spinoza Festival (2009), era deliberatamente fuorviante: non si trattò tanto di un festival quanto di una grande installazione ambientale, che ospitava un programma di conferenze e di laboratori giornalieri. La costruzione era sormontata da una gigantesca scultura di un libro di Spinoza, decorata con bandierine e inquadrata dagli alti edifici condominiali, da una pista da corsa e da una ferrovia sopraelevata. Al fine di attirare l’attenzione dei passanti, nella strada più vicina furono sistemati una bacheca e dei giornali gratuiti, assieme a un’automobile ricoperta di oggetti dai colori vivaci dedicati a Spinoza. Entrando nella struttura si passava attraverso un bar. Il resto dell’installazione aveva l’aspetto della veduta aereo di un libro aperto: le “pagine” erano i muri e gli spazi tra di essi erano le stanze adibite a diverse funzioni: una biblioteca con i libri di e su Spinoza, un ufficio per la produzione del giornale, un’esposizione con materiali d’archivio sulla storia del quartiere. Nonostante l’allestimento della biblioteca/archivio fosse organizzato in modo didattico, in questo contesto esso era meno importante del programma dei laboratori e delle conferenze. Ogni giorno si seguiva lo stesso orario: “giochi per bambini” alle 16.30, un laboratorio in cui i bambini locali imparavano a mettere in scena opere classiche di body art degli anni Settanta; alle 17.30 una conferenza 66 del filosofo Marcus Steinweg e alle 19 uno spettacolo scritto dallo stesso Steinweg, diretto da Hirschhorn e recitato dai residenti. Steinweg teneva quindi la sua conferenza giornaliera, una divagazione filosofica in gran parte improvvisata, in inglese e senza appunti, in cui non esprimeva un vero e proprio punto di vista sulle tematiche affrontate ma seguiva piuttosto un flusso di coscienza filosofico. La funzione della conferenza non era il trasferimento di informazioni ma la condivisione di un’esperienza in cui molti e differenti settori della società venivano riuniti. Non c’era bisogno di seguire il contenuto, ma solo di arrendersi a un calmo spazio meditativo e di usare quel tempo per riflettere su qualsiasi cosa venisse in mente. 1.6 Il capitalismo accademico A partire dagli anni Ottanta, il mondo accademico nel Regno Unito, e in modo crescente in Europa, ha subito la progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici, portando la formazione superiore a operare all’interno di una cornice di tipo economico. L’attività di ricerca imprenditoriale, l’incoraggiamento della collaborazione con l’industria, la maggiore partecipazione degli studenti a una spesa nazionale più bassa e l’incentivo al reclutamento di studenti stranieri, che pagano rette elevate, hanno prodotto l’invasione del movente del profitto all’interno dell’università e ciò che è stato chiamato “capitalismo accademico”. Come tale, è cambiato di conseguenza l’ethos dell’educazione. I valori chiave attuali non sono più quelli culturali o morali ma il concetto di “eccellenza” svuotato di ogni referenza: non importa cosa venga insegnato o sia oggetto di ricerca, ma solo che sia fatto “eccellentemente”. Di recente si è assistito a un ulteriore cambiamento. Dopo il tracollo finanziario del 2008, il punto di riferimento non è più l’eccellenza, ma il successo di mercato: il contenuto è giustificato se attrae gli studenti, e quindi produce ricavi. Il capitalismo accademico porta a cambiamenti sia nel ruolo degli studenti sia degli insegnanti e ha effetti sia sull’estetica sia sull’ethos dell’esperienza educativa. Oggi la figura centrale dell’università è l’amministrazione più che il professore. I risultati dell’apprendimento, i criteri di valutazione, la garanzia di qualità, gli esami parziali, le relazioni sono più importanti del contenuto e del processo di trasmissione di tipo sperimentale. L’educazione è sempre più un investimento finanziario, piuttosto che uno spazio creativo di libertà e di scoperta; un passo per fare carriera più che un luogo di un’indagine epistemologica valida in sé e per sé. CONCLUSIONI La traccia dominante che emerge dagli esempi esaminati in questo libro è caratterizzata da una forma di negazione: l’attivazione del pubblico nell’arte partecipativa si pone in antitesi rispetto alla sua controparte mitica, il passivo consumo spettatoriale. Questo desiderio di rendere attivo il pubblico nell’arte partecipativa è allo stesso tempo un impulso a emanciparlo dallo stato di alienazione indotto dall’ordine ideologico dominante, sia questo il capitalismo comunista, il socialismo totalitario o la dittatura militare. Partendo da tale premessa, l’arte partecipativa mira a ricostruire e a realizzare uno spazio comune e collettivo di impegno sociale condiviso. Il discorso sociale accusa il discorso artistico di amoralità e inefficacia, perché è insufficiente semplicemente rivelare, duplicare o riflettere sul mondo; ciò che conta è il cambiamento sociale. Il discorso artistico accusa quello sociale di rimanere legato alle categorie esistenti, e di concentrarsi su gesti micro-politici a spese dell’immediatezza emozionale come locus di disalienazione potenziale. O è la coscienza sociale a dominare o il diritto dell’individuo di metterla in questione. La relazione dell’arte con il sociale si basa o sulla moralità o sulla libertà. 67 1.1 Critica artistica VS critica sociale Questa dicotomia ha un eco nell’acuta distinzione tra critica artistica e sociale. La critica artistica, radicata nella bohéme del XIX secolo, attinge da due fattori che provocano indignazione nei confronti del capitalismo: da una parte, il disincanto e l’inautenticità, e dall’altra, l’oppressione. La critica sociale attinge da diversi fattori di indignazione: l’egoismo degli interessi privati e la crescente povertà della classe operaia in una società caratterizzata da una ricchezza senza precedenti. Tale critica sociale rigetta inevitabilmente la neutralità morale, l’individualismo e l’egotismo20 degli artisti. I due tipi di critica non sono compatibili in modo diretto e hanno ragion d’essere in virtù di una continua tensione reciproca. Il conflitto tra critica artistica e sociale si ripresenta con forza in determinati momenti storici, come hanno indicato i case studies esaminati nel libro. La comparsa dell’arte partecipativa è sintomatica di questo scontro e tende ad aver luogo in momenti di transizione politica e di fervore rivoluzionario: negli anni che accompagnano il Fascismo italiano, all’indomani della rivoluzione del 1917, nel diffuso dissenso sociale che portò al 1968 e nelle conseguenze negli anni Settanta. In ciascun momento storico l’arte partecipativa assume una forma differente, poiché cerca di porsi dialetticamente in antitesi a specifiche produzioni artistiche e condizioni socio-politiche. Nel corso del tempo è cambiata anche l’identità dei partecipanti: dalla folla negli anni Dieci, alle masse negli anni Venti, al popolo nei tardi anni Sessanta/Settanta, agli esclusi negli anni Ottanta, alla comunità negli anni Novanta, fino ai volontari di oggi, la cui partecipazione è in continuità con la cultura del reality televisivo e dei social network. Dal punto di vista del pubblico possiamo parlare di uno slittamento da un pubblico che richiede un ruolo a un pubblico a cui piace la propria subordinazione alle esperienze ideate da un artista, fino a un pubblico che è incoraggiato a essere co-produttore del lavoro. 1.2 La scala dei livelli partecipativi La maggior parte del dibattito contemporaneo sull’arte partecipativa implica un modello di valutazione affine a quello steso nel famoso diagramma “The Ladder of Participation” (“La scala dei livelli partecipativi”), pubblicato nel 1969 in una rivista di architettura per accompagnare un articolo sulle forme di coinvolgimento della comunità. La scala ha otto gradini. I due più bassi indicano le forme meno partecipative di impegno del cittadino: la non partecipazione della semplice presenza nel livello denominati “manipolazione” e “terapia”. I tre scalini successivi sono gradi di concessioni di tipo simbolico – “informazione”, “consultazione” e “negoziazione” – che aumentano gradualmente l’attenzione data dal potere alla voce delle persone comuni. In cima alla scala troviamo “collaborazione”, “potere per delega” e l’ultimo obiettivo, “controllo attivo da parte del cittadino”. Il diagramma fornisce un utile insieme di distinzioni per riflettere sulle dichiarazioni sulla partecipazione fatte dai politici al potere ed è citato frequentemente da architetti e progettisti. Si è tentati di stabilire (e molti lo hanno fatto) una relazione di uguaglianza tra il valore di un’opera d’arte e il grado di partecipazione che esso comprende, trasformando la scala dei livelli partecipativi in un indicatore per misurare l’efficacia della pratica artistica. 20 Il termine egotismo, dall'inglese égotism e anche dal francese égotisme entrambi derivati dal latino ĕgo «io» indica un comportamento che consiste nell'esagerata considerazione narcisistica di se stessi come persona dotata di alte qualità.
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