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RIASSUNTO Introduzione all'archeologia - Bianchi Bandinelli, Sintesi del corso di Archeologia

Il riassunto è fino alle fonti letterarie

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 14/03/2020

maartas
maartas 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTO Introduzione all'archeologia - Bianchi Bandinelli e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! Bianchi Bandinelli – introduzione all’archeologia Prefazione L’archeologia ha subito trasformazioni profonde nel suo metodo e nel suo fine. La parola archaiologìa la troviamo già negli autori antichi con il suo senso letterale di discorso sulle cose antiche: nell’introduzione all’opera dello storico Tucidide, che è detta appunto archaiologìa, troviamo una deduzione storica da un dato archeologico: Tucidide sostiene infatti che Fenici e Cari erano i pirati che abitavano la maggior parte delle isole egee in età remota, sulla base del fatto che quando gli Ateniesi purificarono Delo togliendo le tombe dall’isola, oltre la metà delle salme apparvero di Cari a causa dell’armatura sepolta con essi e del sistema di sepoltura ancora oggi utilizzato. Questa unità della ricerca storica si frantumò quando il termine archeologia venne applicato alo studio delle antichità in sé per se stesse decontestualizzate, abbassandole a oggetto di curiosità nell’ambito di una ricerca priva di metodo che degenerò nelle dispute individuali che riempivano le accademie sorte in Europa in ambito riformista e barocco. Ancora ai tempi della stesura de l’Introduzione all’archeologia (1976) sussistevano i continuatori dell’archeologia antiquaria settecentesca che faceva scrivere al Winckelmann in una lettera al Genzmar che un fine collaterale dell’opera era mandare all’aria gli studi dei miserabili antiquariorum romani. Quest’opera del W. era Storia delle arti del disegno presso gli antichi (1764), che doveva costituire l’atto di nascita della moderna archeologia, che ebbe da allora come oggetto principale di studio lo studio dell’arte classica. Il pensiero del W. Venne frainteso: il grande salto di qualità che egli aveva fatto fare agli studi di antiquaria consisteva nel passaggio dalla erudizione fine a sé stessa ad una prima ricerca e distinzione cronologica di varie fasi dell’arte nel mondo antico e alla ricerca di leggi che presiedessero al raggiungimento della bellezza assoluta nell’arte. In questo modo l’antichità cessava di essere un tutto omogeneo e si introdussero in questi studi due esigenze di ricerca: l’una storicistica, l’altra di definizione estetica. L’esigenza di definizione estetica prevalse portando gli studiosi di arte antica a rifiutare tutto ciò che non corrispondesse ai canoni di quel neoclassicismo che avevano creduto di poter desumere dalle sopravvivenze della scultura antica con una convinzione tale da non mutare nemmeno quando fu chiaro che la scultura antica non era la vera scultura greca, ma copie di quelle opere che la tarda cultura ellenistica, nostalgicamente retrospettiva, aveva ritenuto degne di riproduzione in quanto più nobili. Si continuò così a studiare l’arte greca sulle copie che l’industria artistica commerciale aveva approntato per gli appassionati collezionisti dell’antica Roma, anche quando gli archeologi inglesi, tedeschi e francesi in scoperta degli antichi centri dell’Asia minore e della Grecia portarono alla luce le vere opere d’arte della scultura greca. L’archeologia venne intesa come storia dell’arte greca basata sulle fonti letterarie, dunque figlia della filologia, mentre lo scavo archeologico era inteso come recupero di pezzi da collezione. Questa archeologia di stampo winckelmaniano fu posta in crisi e superata da due fattori: 1) lo storicismo affermatosi negli ultimi decenni dell’ottocento in ambito europeo; 2) l’accresciuta importanza dell’indagine sulla preistoria nell’ambito dello scavo. Lo storicismo fece una sua prima apparizione negli scritti del massimo rappresentante della scuola viennese Alois Riegl, il quale, nella sua Industria artistica tardoromana (1901) si oppose all’opinione comune degli altri studiosi che consideravano l’arte successiva all’età degli Antonini come un fenomeno di decadenza, dimostrando come essa andasse invece considerata come espressione di un gusto ed una volontà artistica diversi da valutare separatamente dall’arte greca di sette-otto secoli prima. Tuttavia il linguaggio del Riegl apparve così insolito che ci volle una generazione affinché l’impostazione della scuola viennese venisse accolta, e un’altra generazione ancora prima che ci si rendesse conto che l’impostazione del Riegl non era sufficiente a spiegare il fenomeno di una rottura nella tradizione artistica dell’ellenismo che creava una nuova tradizione formale che dal secolo III arriva al XIV. Intanto nuove correnti dello storicismo riportavano la storia ai suoi termini umani; una di queste vide, con Max Weber come la storia sia opera umana e quindi si sforzò di condurre la ricerca storica dalle astrazioni dei principi universali a quello che poteva apparire concreto processo e concatenamenti dei fatti. Sulla base di questa linea si sviluppano ricerche indirizzate al materialismo storico. La crisi dell’arte antica è ora inserita nella crisi sociale, economica e politica che condusse il mondo antico della società medievale e che ne spostò il centro propulsivo dal mediterraneo all’Europa; la stessa arte greca è stata storicizzata, dando il via ad una più coerente e razionale comprensione di questa. Al tempo stesso è stato affrontato diversamente il problema dell’arte romana, alla cui comprensione avevano impedito ila cui comprensione era stata ostacolata da pregiudizi classicisti e dalle esaltazioni nazionalistiche: la storicizzazione della ricerca artistica aveva permesso la comprensione delle civiltà estranee al mondo classico (mesopotamica, egizia ecc), che ora vengono riconosciute quali elementi costitutivi della civiltà artistica europea. Ciò accade quando, alla dissoluzione dell’Impero Romano, i popoli sottomessi sorsero ad autonomia con espressioni culturali proprie vive di una nuova carica umana, sebbene più rozze della mondana civiltà ellenistica. Ciò dimostra che la ricerca storico-artistica può avere valore di indagine storica se rettamente condotta come interpretazione di un fatto sociale. Infatti nell’arte figurativa non vi sono mai salti improvvisi, ma c’è sempre un filo che unisce le diverse esperienze; perciò, se l’interpretazione del fenomeno artistico avviene correttamente, questo avrà valore di documento sociale e storico. Una volta superato il pregiudizio della critica idealistica dell’assoluta autonomia dell’opera d’arte, anche la storia dell’arte rientra tra le scienze storiche ed il mondo dell’arte risulta immerso nel mondo pratico in un continuo scambio di impulsi. Qui si innesta il secondo punto:l’archeologia come documentazione per mezzo della ricerca di scavo sul terreno. Un tempo gli archeologi classici ironizzavano sull’attività degli studiosi di preistoria, poiché priva di fonti scritte; tuttavia sono stati proprio questi “analfabeti” (così venivano definiti) a rinnovare la ricerca archeologica: costretti a ricostruire tutto sul dato oggettivo, gli studiosi di preistoria hanno elaborato metodi di scavo oculati, consci che ogni scavo archeologico distrugge una documentazione accumulatasi nei millenni. Perciò questa documentazione deve essere rilevata e asportata in modo che la costruzione originaria di ogni oggetto reperito possa essere ricostruita e interpretata anche a distanza di anni sotto nuovi punti di vista → ogni scavo non scientifico e deprecabile non tanto perché sottrae alla collettività oggetti più o meno preziosi, ma perché distrugge una documentazione. Così si è perfezionato lo scavo stratigrafico con l’esatta osservazione delle varie successioni e lo studio dei reperti ceramici, grazie ai quali è possibile risalire allo svolgimento di una produzione, la sua diffusione mercantile e a situazioni socioeconomiche prima ignote. Accanto a questa rigorosa tecnica di scavo, si sono sviluppate anche tecniche scientifiche, come il rilevamento dei radiocarbonio C/14 nei materiali organici per arrivare alle indicazioni cronologiche. Queste innovazioni hanno permesso di dilatare la storia della civiltà umana di alcuni millenni, arrivando a datare le prime associazioni umane in comunità tra l’8000 ed il 7000 nelle zone del Gerico nella valle del Giordano, a Jarmo in Iraq, a Rash-Shamra in Siria settentrionale, a Khirokitia nell’isola di Cipro e ad Argissa in Tessaglia. Il luogo più importante, poiché centro di irradiazione culturale attraverso contatti di scambio, è çatal-Huyuk in Anatolia, la cui vita si articola in 13 strati archeologici dal 7000 al 5700 a.C. Qui è stata portata alla luce una città dell’estensione di 12 ettari, munita di case a pianta rettangolare, cui si accedeva dal tetto tramite delle scale in legno non fisse, in mattoni crudi sorretti da intelaiature in legno. Sono stati ritrovati anche utensili in selce e ossidiana, vasi di uso domestico in marmo e in lava, resti di stoffe tessute in lana e in fibre di tiglio e lino, ma anche pitture sulle pareti interne delle case e nei sacelli di culto; nei livelli più recenti (VI millennio) sono state rinvenute immagini di una dea madre antropomorfa, accompagnata da una figura maschile con aspetto, in parte, di ariete o toro. Nei sacelli di culto (strati dal V al III) pitture con combattimenti di animali e cacce, scene di corse e di danze ed una scena di morte con avvoltoi che divorano cadaveri privi di testa. Nei livelli finali cessano le tracce di esercizio della caccia e le pitture di animali. Si è potuta così affermare l’esistenza di una civiltà complessa soggetto della cosiddetta rivoluzione neolitica: un profondo provinciale dagli archeologi. In particolar modo, il soggetto nella figura dello stalliere seduto che si tocca il piede con la mano apparve troppo realistico e volgare. Ciò a dimostrazione che l’idea che l’archeologia archeologica aveva dell’arte greca non corrispondeva alla realtà, sebbene restino innegabili i meriti del W., il cui amore per la bellezza del mondo antico era maturato attraverso il suo esercizio come bibliotecario di un nobile tedesco, da povero figlio di un ciabattino di un villaggio nordico che era. Convertendosi dal luteranesimo al cattolicesimo, si era poi trasferito a Roma nel 1755, ospitato come servo al palazzo della Cancelleria Apostolica; riuscì ad emergere in quell’ambiente, arrivando a ricoprire la carica di Conservatore delle Antichità di Roma, conquistando il successo che gli risultò fatale perché, tornando da Vienna l’8 giugno 1768, fu ucciso a Trieste da qualcuno probabilmente interessato ai doni avuti dalla Corte Imperiale dei quali il W. si vantava. La prima edizione della sua opera Storia delle arti del disegno presso gli antichi fu pubblicata in lingua originale a Dresda poco prima del Natale 1763, con data 1764. Dopo la morte dell’autore fu pubblicata, nel 1766 a Vienna a cura dell’Accademia di Belle Arti, la seconda edizione. La prima traduzione italiana dell’opera fu pubblicata a Roma nel 1783. 1. Primo libro: origini delle arti e delle loro differenze presso le varie nazioni. Nel primo capitolo, dopo l’analisi dell’idea generale delle arti del disegno, nota che l’origine ne è simile nei diversi popoli, dunque lo stile arcaico ha punti di contatto presso le varie genti dell’antichità. Nel secondo libro spiega la capacità artistica dei Greci in base all’influenza del clima; 2. secondo libro: disegno presso Egizi, Fenici e Persiani; 3. terzo libro: arte etrusca, più antica della greca, e dei popoli confinanti; 4. quarto libro: disegno presso i Greci e l’idea del Bello; 5. quinto libro: il Bello considerato nelle varie figure dell’arte greca; 6. sesto libro: tratta del panneggio; 7. settimo libro: meccanismo della scultura presso i Greci e loro pittura; 8. ottavo libro: sintesi della decadenza dell’arte presso i Greci e presso i Romani, analizzando i tre momento dello stile antico, sublime e della decadenza; 9. nono libro: percorso della storia dell’arte greca dagli inizi fino ad Alessandro il Macedone; 10. decimo libro: storia delle arti del disegno da Alessandro fino al domino romano in Grecia; 11. undicesimo e dodicesimo: storia dell’arte greca presso i Romani dai tempi della repubblica fino al 663 d.C. Si parla sempre di arte greca. Fu il Wickhoff nel 1895 a cominciare a parlare di arte romana come di un’arte con autonomi elementi di originalità. L’archeologia filologica La filologia come indagine e sistemazione dei testi letterari era sorta nel tardo ellenismo; nel mondo moderno, essa può dirsi nata nel 1777 quando August Wolf fu immatricolato presso l’Università di Gottinga come studiosus philologiae → diviene una facoltà. La filologia si affermò in Germania dividendosi in due rami: la grammatica comparata e la critica dei testi, e fu proprio quest’ultima ad indirizzare la ricerca archeologica nella ricostruzione della storia della scultura greca. Proprio la scuola filologica scoprì che il Winckelmann aveva visto a Roma solo copie romane di originali greci. Da circa il 1830 per un secolo, l’archeologia diviene una scienza diretta dalle scuole in Germania, che vide in se stessa l’erede della civiltà greca e perciò lo Stato prussiano favorì lo studio delle antichità. Il Friederichs identificò una serie di copie del Doriforo di Policleto, considerato il canone della formazione classica; il Brunn tracciò, basandosi sulle fonti letterarie, la prima vera storia dell’arte greca: Storia degli artisti greci; l’Overbeck creò una raccolta importantissima, nonostante le lacune, raccogliendo il materiale iconografico-mitologico e i testi letterari basandosi sulle citazioni del Brunn. In questo periodo si dà importanza allo studio critico dei testi antichi, dai quali si traggono le notizie relative agli artisti, cercando di mettere d’accordo le varie fonti e di correggere filologicamente i testi corrotti. Da questo processo si ottiene il nucleo di tutte queste ricerche: da una parte, che le copie romane rinvenute devono rifarsi agli originali greci più famosi ed apprezzati nell’antichità, dall’altra una serie di menzioni di opere di grandi artisti greci, descritte dalle fonti antiche. Il problema che si pone agli studiosi è identificare le une nelle altre, mettendo d’accordo monumenti e fonti. La prima identificazione fu quella dell’Apoxyomenos di Lisippo in una copia in marmo scoperta nel 1849, resa facile per l’atto compiuto dalla figura di pulirsi con lo strigile, come descritto da Plinio. Si tratta di un caso isolato, anche perché non ne sono state trovate altre copie, mentre solitamente delle opere famose c’erano numerose repliche. Tale identificazione insegnò che le statue in bronzo potevano essere copiate in marmo con qualche espediente tecnico, primo fra tutti l’uso dei puntelli, che divenne il primo criterio di riconoscimento di una copia: mentre il bronzo si regge in equilibrio statico, per la statua di marmo il copista necessita di punti di appoggio per la statica della statua o, per sorreggere parti libere o traforate, si serve di puntelli di raccordo che uniscono parti della statua stessa. L’identificazione più importante fu quella del Doriforo di Policleto, partendo da una replica del museo di Napoli. Il Doriforo è la creazione statuaria che risolse il problema, nel passaggio dall’età arcaica all’età classica, della rappresentazione della figura virile nuda e stante, ben proporzionata, non impegnata in alcuna azione ma tale da avere la possibilità di movimento. Nel periodo arcaico il kouros non rappresentava un determinato personaggio o divinità: poteva essere dedicato in un santuario come ex voto, come mnèma su una tomba, o come immagine di culto della divinità caratterizzandolo con attributi specifici posti in mano, altrimenti il kouros e la kore sono agàlmata, creazioni di bellezza. Tra la fine del VI e la metà del V secolo a.C. ci si pose il problema di di dare alla figura possibilità di movimento; la soluzione fu trovata da Policleto che la canonizzò per tutto lo svolgimento dell’arte antica. Per tutto il IV secolo si hanno variazioni del Doriforo, e persino in età romana se ne ha una eco: l’Augusto di Prima Porta, per esempio, altro non è che il Doriforo vestito di corazza e col braccio sollevato, secondo uno schema compositivo che le statue imperiali della tarda antichità ancora rispetteranno. L’identificazione del Doriforo fu dunque importate per conoscere una norma fondamentale dell’arte greca. La migliore replica dell’opera è quella in basalto degli Uffizi, meno commerciale per la durezza e preziosità del materiale e che presenta qualche traccia dello stile severo giovanile di Policleto. Il Friederichs, che identificò il Doriforo in una copia del Museo di Napoli, notò anzitutto che di questa statua c’erano numerose repliche: doveva essere una statua famosa. Da ciò la sicurezza che doveva trattarsi di una delle tante copie. Lo studio della capigliatura convinse il Friederichs che doveva trattarsi di un bronzo, quindi si dovevano togliere i puntelli. Studiò la composizione armoniosa della figura, segno di una ricerca di equilibrio delle varie parti della figura: da una parte la gamba è tesa, l’altra è leggermente flessa e in corrispondenza all’impiantarsi della figura si ha lo spostarsi del busto e della testa per creare l’equilibrio della composizione; analizzò poi il chiasma, cioè le masse del corpo composto ad X corrispondenti da un lato all'altro della figura e dall'alto al basso, che crea il senso di equilibrio e al tempo stesso la possibilità di movimento della statua non impegnata in un’azione. Il F. trovò la corrispondenza tra questo equilibrio e quello descritto dalle fonti rispetto a Lisippo. Nel Doriforo però si nota ancora qualche traccia di arcaismo, che fa risalire la datazione dal IV al V secolo, cioè l’epoca in cui le fonti pongono Policleto: viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che aveva messo in mano alla statua una lancia. fonti letterarie La scuola filologica fece fare progressi decisivi nella documentazione agli studi di archeologia intesa come storia dell’arte antica, ma fece perdere alla nostra cultura il contatto col problema di ciò che l’arte antica significa per noi. La scuola filologica partì dalle fonti letterarie ricercando nel patrimonio monumentale la conferma alle notizie e alle valutazioni delle fonti letterarie antiche, senza porsi il problema sul valore critico di tali fonti. Le fonti si dividono in dirette, che si occupano specificamente di storia dell’arte (Plinio e Pausania sono fonti dirette perché dedicano interi capitoli proprio alla storia dell’arte), ed indirette, quando nell’ambito di altri tipi di trattatistica troviamo citazioni accidentali o giudizi critici riguardo statue o documenti. Le fonti più importanti sono la Naturalis Historia di Plinio e la Periegesi della Grecia di Pausania. Le altre fonti sono state raccolte dall’Overbeck nel volume Le fonti letterarie antiche per la storia dell’arte greca e romana (1868): una raccolta quasi completa dei passi tratti dalla letteratura greca e latina nei quali si trova accenno ad un’opera d’arte. Troviamo le fonti citate dall’O. nella forma di excerpta con la sola citazione dell’opera d’arte, motivo per il quale tale volume va utilizzato come indice dal quale risalire alla lettura dell’opera integrale. Plinio (I secolo d.C.) La Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, scritta in latino, è la nostra fonte più preziosa. Lo stesso autore inviò una lettera di presentazione dell’opera all’imperatore Vespasiano (60-70 d.C.), mettendone in risalto la novità e definendola come un insieme di notizie relative a tutto il mondo della natura (20.000 notizie derivate dalla lettura circa 2.000 libri volumi caratterizzati dall’astrusità della materia), dunque un’opera a metà tra impostazione scientifica e dilettantistica. Plinio il Giovane nell’epistola III a Bebio Macrone ci dice che suo zio leggeva ovunque facendo annotare al suo segretario tutto ciò che leggeva, componendo così la Naturalis Historia. I libri più importanti per noi sono: • XXXIV libro: tratta di pietre e marmi, citando tutta una serie di sculture greche e romane; • XXXV: tratta del bronzo e della metallotecnica; • XXXVI: parlando di terre colorate, tratta della pittura. Questa composizione presenta tuttavia dei problemi: • è mancata una revisione e un coordinamento delle notizie, a volte in contrapposizione tra loro; • è un insieme di notizie raccolte da un autore che di arte non se ne intendeva e dunque talvolta non capiva ciò a cui si trovava davanti → sceglie una posizione propria rispetto a notizie contrastati; • nel riportare in latino espressioni tardoellenistiche, Plinio ha talvolta latinizzato la desinenza dei termini greci, talvolta li ha tradotti cercando nuovi termini → equivoci. Plinio a sua volta è vissuto nel I secolo d.C., dunque a sua volta compie un lavoro filologico rifacendosi a fonti più antiche, in particolare a due autori greci di età ellenistica: Apollodoro e Senocrate, che hanno profondamente condizionato il gusto di Plinio, come del Winckelmann, perché quando essi scrivono, nel tardo ellenismo, si era formata ad Atene una visione retrospettiva, nostalgica del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita dell’indipendenza prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello romano. Per questo motivo, le fonti antiche esaltavano gli artisti del V e del IV secolo, mettendo in ombra l’arte ellenistica. Pausania (II secolo d.C.) Scrive in greco in un mondo romano perché ormai c’è la dominazione romana → ci dà importanti informazioni sulla grecità in era volgare. Nell'età del tardo ellenismo la Periegetica dieventa un genere molto sviluppato, anche perché permetteva di raccogliere e volgere a uso di erudizione il patrimonio del passato. La sua opera è da datarsi tra il 143 e 175 d.C. Ordine geografico seguito: passa dall'Attica al Peloponneso, passando poi per l'Arcadia, alla Beozia, alla Focide, alla Locride. Ricostruisce la storia della Grecia attraverso la descrizione dei luoghi della periegesi (“giro intorno”) della Grecia, in una sorta di vademecum da portare con sé quando si faceva il giro città per città. Chiaramente P. non ha visitato tutti i luoghi citati, dunque si è ispirato ad altre fonti, per cui molte notizie si sono rivelate inesatte. P. ci ha dato importanti informazioni es. sul sito di Olimpia dove nell’VIII secolo si sono tenuti per la prima volta i giochi olimpici, divenuto poi santuario panellenico per giochi e pellegrinaggi. P. era veramente stato a Olimpia e racconta del santuario di Hera, della statua di Ermes con Dioniso in braccio (Prassitele – V a.C.) con puntello. Nell’800, durante gli scavi a Olimpia, la statua è stata ritrovata e si è capito che era l’originale perché posta dove l’aveva collocata P. Dal punto di vista
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