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Riassunto "INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA" di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Sintesi del corso di Archeologia

Riassunto dettagliato del volume Introduzione all'archeologia classica come storia dell'arte antica di Ranuccio Bianchi Bandinelli, corredato di immagini.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 04/05/2021

Anita_Mantovani
Anita_Mantovani 🇮🇹

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Scarica Riassunto "INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA" di Ranuccio Bianchi Bandinelli e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! Introduzione all’archeologia  R. B. Bandinelli I. PREMESSA ------------------------------------------------------------------------------------------------------ -È necessario capire perché l’archeologia può ancora risultare interessante. Il volume è stato scritto, dunque, con un duplice scopo: tracciare brevemente la storia di un particolare aspetto di questa disciplina per definire meglio i problemi scientifici odierni; stabilire un rapporto positivo con l'archeologia e la nostra cultura attuale. -Il termine “archeologia”, nelle fonti antiche, indicava genericamente notizie sui tempi antichi. Col tempo, però, ha cambiato significato. Ci sono state differenti tipologie di archeologia: archeologia ottocentesca, essenzialmente filologica, che giunge sino alla Prima guerra mondiale; archeologia puramente storico-artistica, nel periodo intermedio; archeologia essenzialmente storica, con particolare interesse per la preistoria e la protostoria, dal 1945 in poi. Se prima indicava l'antichità classica (greca e romana) oggi ha un senso molto più generale. -Il volume si concentra sull'archeologia winckelmanniana, cioè classica, relativa all'antica Grecia e all'età romana. -Nel Rinascimento si ebbe una ricerca appassionata del mondo antico. Questa ricerca, però, era volta alla conoscenza di quell'arte antica considerata il limite da raggiungere e ritrovare, e un esempio nel quale riconoscere sé stessi ed esprimere i nuovi tempi. Era Aveva dunque un valore attuale, non storico, quindi non si trattava di archeologia. Accanto ad essa nascono le figure degli antiquari, gli studiosi degli usi dei costumi e della mitografia. La loro interpretazione dei monumenti figurati e la ricostruzione dei costumi degli antichi avvenivano senza metodo, tanto che l’antiquaria stessa finì per cadere nel ridicolo. -In epoca moderna gli studi di “antichità” si basarono soprattutto sull'epigrafia e sulla ricostruzione delle norme e delle leggi che regolavano la vita civile e religiosa, nonché sulla ricostruzione della “prosopografia”, ossia la definizione delle personalità storiche menzionate negli epigrafi e le loro funzioni ufficiali. -Questi studi andarono distinguendosi nettamente da quelli archeologici, sempre più rivolti al fatto artistico. -Nella prima metà del ‘700 in molti si dedicano all'antiquaria, favoriti da mecenati ecclesiastici o secolari, che amavano raccogliere oggetti di scavo. L'opera d'arte veniva considerata solamente come un documento. Gli antiquari finirono per cercare nei monumenti soprattutto una conferma a determinata ipotesi, in contrapposizione ad altre ipotesi, dando vita a dispute puramente accademiche. Va riconosciuto loro il merito di aver conservato il ricordo e la documentazione grafica di monumenti oggi scomparsi. -Il classicismo tra la fine del XVIII-inizi del XIX secolo segnò l'inizio dell'archeologia. -Nonostante l'idealizzazione dell'Antico e il principio di imitazione dell'arte antica insito nel neoclassicismo, fu in quel tempo che furono poste le basi per una conoscenza storica dell'antichità. Essa divenne il modello politico della borghesia, divenuta classe di potere dopo la Rivoluzione francese, che in essa trovò esempi di libertà, autonomia e razionalismo, come ve li aveva trovati gli intellettuali umanisti. II. WINCKELMANN -------------------------------------------------------------------------------------------------- -L’archeologia dell’arte studia i monumenti non più come documenti illustrativi ma come opere d’arte in sé stesse. La nascita dell’archeologia in questo senso possiamo attribuirla a Johann Joachim Winckelmann. Dopo la visita a Roma del 1755, anche grazie alla sua vasta conoscenza della letteratura antica, cercò di costruire una vera storia dell’arte, che intitolò Geschichte der Kunst des Alterthums (Storia delle arti del disegno presso gli antichi). Oggi è un’opera superata dal punto di vista scientifico, ma ha il merito di aver reso lo studio dell’arte antica più vasto e meno legato alla mera erudizione. Egli, infatti, cercava “l’essenza dell’arte” attraverso lo studio degli antichi. Il suo fine era rintracciare le supposte leggi che regolano la perfezione di un’opera d’arte e ne fanno un esempio di bellezza. -La ricostruzione della cronologia e uno dei problemi che offriva e offre anche oggi maggiori difficoltà. Considerando l'archeologia uno degli strumenti fondamentali dell'indagine storica e evidente che riconoscere indizi cronologici diviene essenziale. Essa e indispensabile per lo studio di un'opera d'arte, se vogliamo dare su di essa un giudizio storico, non personale. Occorre vedere se l'opera apre una nuova strada, impone un nuovo problema o partecipa alla sua evoluzione, se si inserisce passivamente in una corrente determinata o se è addirittura in arretrato rispetto al tempo. la comprensione dell'opera d'arte a inizio, dunque, proprio attraverso la fissazione della cronologia. -Ai tempi di Winckelmann l'arte antica si presentava come un ammasso di opere di scultura (la pittura stava ancora venendo alla luce con gli scavi di Ercolano), statue frammentarie, sarcofagi soprattutto trovati a Roma, senza che ci fosse un criterio di cronologia (escluse alcune opere di età imperiale che hanno iscrizioni dedicatorie). -Il mondo dell'arte antica appariva come un blocco unico senza prospettiva storica; gli “Antichi” erano indistinti fra i secoli della Grecia Ehi secoli di Roma. Occorreva trovare un criterio per stabilire una cronologia. le fonti antiche, in particolare Plinio, riferivano la cronologia dei maggiori artisti, ma occorreva trovare un criterio per identificare le opere di questi artisti con attribuzioni meno casuali. Il problema più grande stava, però, nel fatto che il 98% dell'estate trovate a Roma non erano originali ma copie dieta romana da originali greci perduti. -Ad Atene e Roma si era formata una specie di industria legata alla copia delle opere. Generalmente tali copie avevano funzione puramente decorativa ed erano perciò dozzinali. Il principio che si potesse usare il criterio dell’analisi stilistica per fondare una cronologia non era ancora sorto: sorse partendo appunto dai criteri proposti da Winckelmann, ma ci volle quasi un secolo affinché venisse ritenuto il più sicuro. Creare dunque un metodo per la lettura stilistica era ed è condizione fondamentale a questa ricerca. -Winckelmann distinse 4 grandi divisioni nel suo criterio stilistico: stile antico, stile sublime (o del periodo aureo, Fidia e successori V-IV sec a.C.), stile bello (da Prassitele a Lisippo), periodo della decadenza (ultimo secolo a.C. ed età imperiale romana). Non trascurò, inoltre, il criterio di ricercare e coordinare le notizie sulle opere d'arte tratte dalle fonti letterarie, anche di autori che all’arte fanno solo riferimenti casuali. Ma l'elemento più nuovo ed importante nella ricerca di Winckelmann fu questo principio: quello che deve importare allo studioso è l'intima essenza (“Das Wesen”) dell'opera d'arte. Egli poneva alla storia dell'arte non solo un fondamentale criterio estetico di selezione, ma addirittura il fine della acquisizione di un’estetica. Il gusto neoclassico ha come uno dei fondamentali punti di partenza l'opera del Winckelmann, la quale univa la teoria alla pratica e sembrò risolvere il mistero della bellezza antica. Il criterio estetico che gli aveva dato la possibilità di allontanarsi dagli studi di antiquaria si è poi rivelato il suo stesso limite: mutato il criterio estetico, muta tutta l’impostazione e la valutazione dell’opera d’arte. Questo mutamento nell’archeologia è avvenuto molto lentamente e gli archeologi son rimasti sempre un pochino “antiquari”. -Con l’inizio dell’Ottocento si hanno le prime campagne di scavo, che in circa 70 anni portarono alla luce tantissime opere greche originali. Nel frattempo, l’archeologia attraversava la sua fase “filologica”. Nessuno si preoccupò di rivedere il criterio estetico di W.; l’unico pensiero era “raccogliere materiale da costruzione” per un futuro edificio storico. - Si può dire perciò che lo spirito informatore della storia dell’arte greca e romana rimase immutato fino al 1900: questo perché il giudizio estetico del W. Coincideva con i giudizi trasmessi dalle fonti letterarie antiche. Le fonti classiche (Plinio e Pausania), però, si riconnettono a scritti retorici del tardo ellenismo quando, nella Grecia in declino economico, si era formato un ceto medio e una media cultura conservatrice e rivolta al passato. Il dominio romano su Grecia e Macedonia diede a questa visione retrospettiva un significato di riscatto morale: persa la libertà, l’arte del passato si riconnette anche con l’antica indipendenza, e il periodo da rievocare è quello antecedente alle conquiste di Filippo di Macedonia e Alessandro (ossia V-IV sec a.C.). Sorge così un corrente culturale che possiamo dire neoclassica (neoattica), per la quale di tutta la scultura dell’ellenismo non si teneva conto, intendendo per “ellenismo” il periodo apertosi dopo la morte di Alessandro. -Ciò ha contribuito al perdurare del concetto di W. secondo il quale la storia dell’arte antica avesse avuto uno svolgimento parabolico, con il culmine nel periodo aureo con Fidia, del quale in realtà non si sa niente. C’è voluto il lavorio critico dei primi decenni del 1900 per mettere in luce che tale giudizio non poteva avere né un valore storico né assoluto, ma solo quello di un giudizio relativo all’età nella quale venne a formarsi. Il persistere di questa concezione ha dato vita a molti equivoci. Tra questi fondamentale è quello che ritiene che l’arte greca sia un’arte essenzialmente volta all’idealizzazione del vero, quando a ben vedere sembra rivolta al realismo più di ogni altra arte del mondo antico: essa, infatti, abbandona la ripetizione di schemi fissi e simbolici, inventa lo scorcio e la prospettiva; si pone sulla via del naturalismo per poi realizzarlo pienamente nell’età ellenistica (! Naturalismo≠verismo). -A questo schema si oppose l’affiorante coscienza storicistica. -Pur riconoscendo i grandi meriti di W., l’errore di quella costruzione parabolica fu avvertito presto, anche se non dagli archeologi. Il primo ad avvertirlo fu Federico Schlegel, uno degli iniziatori del movimento di idee che porterà allo storicismo. Egli scrisse infatti che W. ha visto l’arte greca attraverso un processo di idealizzazione, con dei “modelli” di astratta perfezione, qualcosa di analogo al mondo delle idee di Platone. -Dall’impostazione “mistica” di Platone, ripresa poi da San Paolo e dai neoplatonici, discendeva l’idea che solo le opere che rispecchiano quell’ideale di bellezza assoluta siano da considerare vere opere d’arte greca. Tutte le altre sono considerate o una preparazione per arrivare a quell’ideale o una decadenza. Restava chiaramente preclusa la via ad una valutazione non relativa, ma assoluta. Schlegel fece anche un’altra considerazione: quella appena citata è stata l’unica idea di W. largamente seguita, mentre fu trascurata la sua esigenza che la storia dell’arte dovesse approfondire il concetto essenziale dell’arte stessa. -Le conseguenze culturali di quella formula che W. aveva teorizzato per l’arte greca furono molto tipiche. Si pensi a Lord Elgin il quale, staccati i marmi di Fidia dal Partenone, li portò in Inghilterra, dove gli archeologi pensarono fossero copie romane, del periodo ritenuto da W. come la peggiore decadenza. Fu poi Canova che capì di trovarsi di fronte a capolavori degni del nome di Fidia. Similmente quando il governo tedesco fece condurre i grandi scavi del santuario di Olimpia, venne alla luce il più importante complesso di strutture dopo quelle del Partenone. Gli archeologi, delusi, giudicarono i marmi come opere d’arte provinciale, di una scuola secondaria. -Questi due episodi dimostrano che l’immagine che la critica archeologica si era fatta dell’arte greca non corrispondeva affatto alla realtà. Ciò nonostante, restano innegabili i meriti di W., che giustamente può considerarsi il padre dell'archeologia intesa come storia dell'arte. Figlio di un ciabattino in un villaggio del nord, W. lavora come bibliotecario di un nobile tedesco e qui si innamora del mondo della lotta della civiltà e della ragione contro la hybris, la violenza cieca e la barbarie. Fra le statuette conservate in copie di età romana sono riconoscibili due Giganti, una Amazzone, tre Persiani, quattro Galati. Questa attribuzione rappresentò un altro contributo stabile alla documentazione dell'arte ellenistica. -In altri casi talune attribuzioni, faticosamente raggiunte e per qualche tempo assicurate, son tornate a esser messe in discussione, contribuendo a far scadere la fiducia in quella ricerca combinatoria. -Uno di questi casi è diffusamente descritto da Andreas Rumpf, uno degli ultimi rappresentanti di storici dell'arte nell'archeologia germanica: è la vicenda della cosiddetta “Eirene e Ploutos” di Kephisodotos. Questa statua, raffigurante una donna che tiene un bambino appoggiato al suo braccio sinistro, pervenuta attorno al 1760 nella raccolta della Villa Albani a Roma, fu da Winckelmann interpretata come Giunone Lucina, ma dallo stesso più tardi detta Ino-Leucotea col piccolo Bacco. Lo scultore Cavaceppi, che restaurò e imitò con grande abilità moltissime statue antiche in quel tempo, pose perciò una brocchetta in mano al fanciullo e rifece alcune parti della statua. Ennio Quirino Visconti respinse l'attribuzione del Winckelmann; la statua fu portata a Parigi da Napoleone e poi acquistata dal principe ereditario di Baviera. Successivamente fu ritenuta un originale greco dell'età di Fidia, poi attribuita da Friederichs al IV secolo e interpretata come Gea. In base ad una moneta ateniese di età imperiale romana egli poneva uno scettro nella destra della donna. Due altri studiosi (L. Stephani e B. Stark) ritennero di collegare sia la moneta che la statua a due passi di Pausania dove viene menzionata una statua ad Atene raffigurante Eirene (la Pace) con il fanciullo Ploutos (ricchezza) sul braccio, opera di Kephisodotos. Anche qui intervenne Brunn (1867). dimostrando per prima cosa che si trattava di una copia di età romana e che il suo stile la collocava nel trapasso tra il V e il IV secolo a.C. (al V si legava il panneggio della figura femminile, ancora severo; al IV la testa). Egli ritenne anche, confermando l’attribuzione a Kephisodotos in base ai passi di Pausania, di poter determinare l'occasione nella quale la statua sarebbe stata creata, e cioè la pace con Sparta del 375. Nel porto del Pireo fu scoperta una replica (in marmo italico) frammentaria del fanciullo che reggeva una cornucopia e in tal modo riceveva conferma la ricostruzione proposta da Brunn. Ma Plinio menzionava due artisti di nome Kephisodotos, ponendo il primo nella CII olimpiade (372 a.C.), il secondo, insieme allo scultore Timarchos, nella CXXI (296 a.C.). E poiché documenti epigrafici ci hanno conservato i nomi di due scultori, Timarchos e Kephisodotos figli del grande Prassitele, Brunn propose di riconoscere in Kephisodotos il Vecchio un membro della stessa famiglia, probabilmente il padre di Prassitele. Con questa attribuzione il gruppo entrò da allora nella manualistica come un punto fermo della storia dell'arte greca. Anche i manuali di Picard e Lippold confermano l’attribuzione. -A parte qualche isolata opinione che proponeva di spostare la data della statua alla pace del 403 a.C., e alla proposta del Furtwängler che Kephisodotos sia da ritenersi piuttosto fratello maggiore che non padre di Prassitele, vi sono alcune osservazioni che rendono assai difficile il collocare quest'opera entro i caratteri stilistici degli anni attorno al 375 a.C.. Una più stretta somiglianza viene notata tra la Eirene e i rilievi delle basi delle colonne del secondo Artemision di Efeso. La ricostruzione del famoso tempio, dopo l'incendio, cade nell'età di Alessandro Magno e cioè attorno al 340-330 a. C. E tale cronologia viene difesa con ampio confronto con opere originali, che confermerebbero anche che l'originale della Eirene doveva essere non in bronzo, ma in marmo. Una tale cronologia esclude sia Kephisodotos I che Kephisodotos II e quindi anche l'identificazione della statua, la cui simbologia si adatta a varie altre interpretazioni. In conclusione, il Rumpf propone di interpretare la figura come Tyche e di attribuire l'originale a Prassitele stesso, del quale alle fonti sono note tre immagini di Tyche, una trasportata a Roma della quale si sa che era accompagnata dalla immagine infantile di Bonus Eventus (corrispondente al greco Agathodaimon, che ha come attributo appunto una cornucopia, solito attributo della Tyche). Vediamo così come una ricostruzione storico-artistica basata sull'analisi stilistica possa scuotere i fondamenti anche di attribuzioni puramente filologiche che sembravano costituire una certezza. -Con ciò non si vuole sminuire la ricerca filologica: costituì una prima base di chiarimento e di ordinamento del materiale monumentale superstite; ma scadde quando procedette in modo privo di comprensione per i valori formali, cioè per il linguaggio artistico vero e proprio. -Per esempio, se prendiamo la ricostruzione del Doriforo di Policleto fatta da Friederichs, egli dimostrò che si trattava di una copia del “canone” di Policleto. Si raggiunse, per lo meno, una rappresentazione concreta, anche se esteriore, dell'aspetto che aveva avuto la statuaria policletea, e ciò permise la classificazione di molte altre statue che a quel modulo si erano ispirate. Ma gli studiosi della sua scuola non si chiesero quanto le opere conservassero dell'arte oltre che dell'iconografia statuaria di Policleto. Attraverso questa ricerca e lo studio delle varie copie romane si può infatti stabilire l’iconografia, cioè l'aspetto esteriore dell'originale greco; ma ciò non serve per studiare il linguaggio formale dei singoli artisti. -Anche per la pittura antica si cadde nello stesso equivoco, quando, ad un certo momento, si pretese di ricostruire la pittura classica andata perduta per mezzo della pittura di età romana solitamente detta “pompeiana”. -La scuola filologica, dunque, riconobbe giustamente in una serie di quadri, inseriti come pitture decorative nelle pareti delle case di Pompei, delle riproduzioni, più o meno fedeli, di pitture originali greche, che in parte corrispondevano a quelle descritte dalle fonti. Ma si trascurò il fatto che quelle pitture davano innanzi tutto testimonianza dell'arte del tempo nel quale furono eseguite, e che si potevano, risalendo da esse, ricostruire non tanto le singole pitture perdute, raramente copiate con fedeltà, quanto i problemi formali che erano stati affrontati dalla grande pittura greca, a patto di saper interpretare intelligentemente e criticamente le fonti. Quando fu fatto questo lavoro di esegesi artistica per la pittura antica, ci si basò su alcuni criteri, che, poi, sono apparsi fallaci. Per esempio, si parti dal concetto che nella pittura greca non potessero esserci sfondi paesaggistici, perché si considerava che essa seguisse gli stessi criteri formali, accademici di chiarezza ed equilibrio che l'estetica winckelmanniana aveva attribuito (erroneamente) alla scultura, considerata l'arte maggiore della civiltà greca. (oggi ci siamo persuasi che l'arte-guida fu, nella Grecia antica fino alla crisi classicistica del II secolo a.C., la pittura). Seguendo questo concetto, là dove nelle pitture pompeiane si apriva uno stondo, si affermava che si trattava di una interpolazione romana. La pittura di paesaggio risulta ormai chiaramente essere una conquista ellenistica. -Quando si legge Plinio, che si appella a criteri di scelta della cultura classicistica del tardo ellenismo, non si trova nominato alcun artista posteriore al IV secolo se non sia in qualche modo venuto in contatto con l'ambiente romano. Queste fonti, perciò, hanno trasmesso una immagine dell'arte greca fissata su canoni estetici che sono veri soltanto in parte, perché ci danno conoscenza di un periodo limitato e di un punto di vista determinato. Come reazione a questo errore di impostazione critica si manifestò, nel secondo quarto del secolo XX, la tendenza a trascurare la tradizione delle fonti antiche e a guardare alla pittura pompeiana direttamente, con lo stesso occhio con il quale si considererebbe una pittura a noi contemporanea, e a considerarla unicamente come “pittura romana”. -Tra i fondatori della scuola filologica dell'archeologia, va posto in particolare evidenza Brunn, che pur basando le proprie indagini sulle fonti letterarie e la ricostruzione degli originali attraverso le copie, seppe formulare giudizi più adeguati di quelli dei contemporanei e anche di molti studiosi successivi. Va anche posto in evidenza che egli intitolò la sua opera principale Storia degli artisti greci, e ciò perché si proponeva di raccogliere e coordinare notizie e opere artista per artista e solo dal complesso di questa raccolta sarebbe risultata la base sulla quale far sorgere una storia dell'arte; ma anche perché intendeva così di accentuare l'apporto delle singole personalità artistiche nella loro originalità creativa. Iniziò poi anche una Storia dell’arte greca, che non terminò. -Fu il Furtwängler colui che portò al massimo successo questo metodo di ricostruzione degli originali attraverso le copie e di inquadramento delle opere in una determinata scuola artistica. Oltre alle copie vere e proprie c'era da tenere conto di una varietà infinita di imitazioni con varianti. Diventa quindi una vera impresa classificare tutte le varianti e le derivazioni per ricostruire gli originali dell’arte greca del V e del IV secolo. Non ci si curò, invece, di usare queste copie e varianti per studiare il gusto di età romana, età alla quale queste copie appartengono; si ebbe, però, come unico scopo il ricostruire l'arte greca, la sola che appariva culturalmente feconda ed educativa. -Furtwängler ha riunito le principali indagini e ricerche nella sua opera principale Meisterwerke der griechischen Plastik, la cui fu a lungo fu considerata l’ultima parola sull'arte greca e una storia definitiva della scultura greca rappresentata dai suoi più celebrati capolavori. Singolare è il fatto che questa storia della scultura greca non tratti che di copie di età romana, e che i “capolavori” siano quelli che erano stati considerati tali dai retori del tardo ellenismo di tendenza classicistica. -In realtà Furtwängler ha dato il meglio di sé nel testo dei tre volumi che costituiscono un trattato sulle gemme intagliate, Die antiken Gemmen : non è solo un trattato di glittica ancor oggi insostituito ma, a contatto con opere originali, sebbene di artigianato specializzato, F. ha tracciato una storia dello svolgimento stilistico assai più interessante di quello dei suoi celebrati Meisterwerke. F. ha lasciato anche traccia durevole negli studi sulla ceramica greca: con un disegnatore assai abile pubblicò una raccolta di grandi tavole con il disegno dei vasi dipinti più belli, riprodotti a grandezza originale, accompagnata da studi monografici vaso per vaso. Quest'opera sta a fondamento degli studi sulla ceramica greca, particolarmente di quella attica dei secoli VI e V, la quale, oltre a suo valore intrinseco, è documento basilare per ricostruire lo svolgimento stilistico dell'arte greca dello stesso tempo. Ma quest’opera ha prodotto anche un equivoco, in quanto nonostante l’abilità del disegnatore Reichhold, i disegni hanno la freddezza delle copie. Dato che affrontare riproduzioni fotografiche della superficie curva e lucida del vaso risultava difficile, si è a lungo preferito riprodurre i vasi dai disegni del Furtwängler-Reichhold piuttosto che dall'originale, con il risultato che si diffuse un’immagine accademica della ceramica greca, sostanzialmente lontana da quella degli originali. -Gli studi esclusivamente rivolti alle copie romane e alle copie moderne della pittura vascolare contribuirono ad allontanare dalla nostra sensibilità moderna la conoscenza dell'arte greca nei suoi valori essenziali. Winckelmann ed i suoi contemporanei avevano instaurato una relazione precisa e determinata con l'arte greca, che era per loro il culmine della perfezione. Noi, invece, non abbiamo più una relazione viva con l'arte greca: siano disposti a riconoscere alcune sue opere come sommi capolavori, ma per sentito dire, non perché siamo in grado di rivivere il problema artistico che presiedette alla creazione di quelle opere. -Deve essere possibile creare tra noi e l'arte greca una relazione viva, talora anche negativa, ma che sarà sempre meglio che un ossequio formale. Già la diffusione delle fotografie di sculture greche originali e il progressivo storicizzarsi degli studi archeologici hanno avviato un nuovo rapporto fra la cultura odierna e l'arte della Grecia antica. -Numerosi scritti di artisti e di critici moderni compresi nei movimenti della cosiddetta prima avanguardia nel primo trentennio del ‘900 hanno effettivamente negato e vituperato l'arte greca, ma la polemica contro l'arte greca fu contro l'immagine che di essa avevano diffuso gli archeologi dell'Ottocento, immagine formatasi a contatto con le copie romane. È avvenuto poi che critici o artisti che erano a capo del movimento che rifiutava l'arte greca, posti a contatto con i veri originali greci, da detrattori ne siano divenuti gli esaltatori (basti pensare a quanti elementi dell’arte greca si ritrovino in Picasso). -Una delle conseguenze dell'equivoco winckelmanniano fu quella di considerare l'arte greca come un'arte idealistica, che rifugge della realtà. Invece la caratteristica essenziale dell'arte greca è proprio quella di essersi messa sulla via della comprensione della realtà e dell'espressione dell'energia vitale concentrata nella forma della natura. In tutte le arti dell'antico Oriente mediterraneo e presso le popolazioni primitive troviamo una tendenza all'astrazione e certe tendenze contemporanee hanno esaltato i fenomeni artistici primitivi, per esempio dell'Africa o dell'Oceania in quanto nell’astrattismo vi è una espressione immediata, essenziale, che colpisce più direttamente e più facilmente. Questa stessa tendenza alle forme essenziali ed astratte, si trova nell'arte egiziana, della Mesopotamia, assira. Invece l'arte greca affronta la realtà e in conseguenza di questa sua posizione realistica, unica nel mondo antico, scopre alcune norme che saranno poi fondamentali per l'arte europea: scorcio, prospettiva, color locale ed effetto luministico in pittura. L'architettura, la scultura e anche la pittura greche furono fondamentali per la civiltà europee. IV. LE FONTI LETTERARIE -La scuola filologica fece fare progressi decisivi, nella parte documentaria, agli studi di archeologia intesa questa come storia dell'arte antica, ma fece perdere alla nostra cultura il contatto col problema, così vivo per il Winckelmann ed i suoi contemporanei, di intendere ciò che l'arte greca significa per noi. -La scuola filologica prese come punto di partenza le fonti letterarie, ricercando nel patrimonio monumentale soprattutto la conferma alle notizie e alle valutazioni critiche date dalle fonti letterarie antiche, ma non si pose il problema sul valore critico di tali fonti, generalmente tarde e partecipanti di una cultura ben lontana da quella che aveva presieduto alla creazione delle opere più alte dell'arte greca. Inoltre, le grandi campagne di scavo dell'Ottocento imponevano la necessità di una buona conoscenza e di un continuo controllo delle fonti letterarie. -Le fonti sono molteplici, dirette ed indirette. Le fonti dirette sono costituite dagli scrittori che ex-professo si sono occupati di cose d'arte; quelle indirette, dalle opere letterarie nelle quali incidentalmente è contenuta la menzione di un'opera o le notizie su un artista, o sono espressi giudizi critici. -Le fonti più importanti perché più ampie sono la Naturalis Historia di Plinio e la Periegesi della Grecia di Pausania. Quanto alle altre fonti esse sono state raccolte da Overbeck nel 1868 e pubblicate in un volume intitolato Le fonti letterarie antiche per la storia dell'arte greca e romana. La usiamo ancora continuamente in quanto si tratta di una raccolta quasi completa dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali si trova un accenno ad un'opera d'arte. Bisogna usarla, tuttavia, con cautela, considerandolo piuttosto come un indice che come un testo, perché le fonti citate dall'Overbeck si riducono a degli excerpta con la sola citazione dell'opera, mentre spesso nel contesto originario il passo acquista un significato ed un valore ben più preciso. Occorre quindi sempre risalire dall'Overbeck alla lettura del testo integrale. Nell'opera di Overbeck manca, inoltre, uno spoglio sistematico degli scrittori della Patristica cristiana. ֎Plinio -Plinio il Vecchio con la sua Naturalis Historia rimane la nostra fonte più completa e preziosa, nonostante tutti i suoi limiti. -In una lettera di presentazione della sua opera all'imperatore Vespasiano (69-70 d.C.), Plinio parla del carattere del suo lavoro e mette in risalto la novità della sua opera, che raccoglie, dati di fatto relativi a tutto il mondo della natura: « [...] Ma è tempo di avvicinarci a quelle cose che i Greci chiamano “l'Enciclopedia” e tuttavia sono ignote o fatte incerte per colpa degli ingegni stessi che le hanno trattate; ed altre poi invece così divulgate tra le folle da venire a fastidio ». Proseguendo aggiunge che nella sua opera vi sono ben 20.000 notizie degne di memoria tratte dalla lettura di circa 2.000 volumi, pochi dei quali anche gli studiosi leggono per l'astrusità della materia: «Senza dubbio molte cose mi saranno sfuggite. [...] Attendo a questi studi nei ritagli di tempo, cioè di notte. [...] Il giorno è dedicato a Voi, dormo quanto basta a mantenere la salute [...] mi perdo dietro queste cose, vivo più ore; certamente, infatti, la vita è una veglia.» -È una posizione che sta tra una mentalità scientifica, in quanto vuol rendere preciso conto delle sue letture, ed una impostazione dilettantistica, in quanto riconosce egli stesso di non essere uno studioso di professione. Come procedesse nel suo lavoro ce lo dice suo nipote Plinio il Giovane nella epistola III, 5 a Bebio Macrone, relativa alle opere dello zio: lo descrive come un uomo molto intelligente e studioso, che leggeva continuamente e faceva notare al suo segretario tutto ciò che leggeva. Si vede così come è nata questa opera: è un'opera nata da un grande schedario di notizie, poi messe insieme: (tradotto dal latino) «Ma era di intelligenza vigorosa, di incredibile applicazione, di grande resistenza alla veglia. [...] Era del resto prontissimo a prender sonno, sovente riuscendo a lasciarlo o riprenderlo durante il proprio lavoro. Prima dell'alba si recava dall'imperatore Vespasiano [...]. Rientrato a casa, il tempo che gli restava dedicava di nuovo allo studio. [...] Nulla egli leggeva, da cui non traesse estratti: soleva infatti dire che non vi era libro tanto da poco, che non riuscisse in qualche parte utile. [...] Durante questa (la cena) gli leggevano un libro, si prendevano note, il tutto rapidamente. Mi ricordo che uno dei suoi amici, avendo il lettore commesso un errore, l'aveva fermato e invitato a ripetere; ma mio zio gli disse: «Avevi ben compreso?» e poiché quegli assentiva, soggiunse: «E perché allora l'hai interrotto? abbiamo perso più di dieci opere di restauro). La datazione proposta era intorno al 340. Ma l'aspetto eccessivamente morbido e “saponoso” del modellato provocò sempre maggiore insoddisfazione. Carl Blümel, direttore nei Musei di Berlino nel 1927, nel corso di un'indagine sulla tecnica della scultura antica, osservò che sul dorso dello Hermes, lasciato non finito (cosa già assai insolita in età classica) si poteva riconoscere l'uso di ferri (soprattutto di uno scalpello a tre punte) mai usati prima del tardo ellenismo e dell'età romana. Accertato che la base della statua fosse di età romana, si concludeva per negare che essa potesse essere un originale di Prassitele. Si ritenne allora di avere almeno una copia di straordinaria finezza. Ma anche questa soluzione non soddisfaceva chi dell'arte di Prassitele aveva una concezione diversa. Ancora una volta Blümel, nel 1944, propose una soluzione: poiché le fonti conoscono quattro artisti di nome Prassitele, e poiché sono riscontrabili nella statua (in particolare nel panneggio) modi caratteristici per l'ellenismo, proponeva di attribuire Hermes a un Prassitele della fine del II secolo a.C. Questa soluzione parve a molti soddisfacente. Ma negli ultimi anni (dopo il 1955) si è tornati a proporre lo Hermes come originale prassitelico, cioè del grande Prassitele del IV secolo, senza riprendere in esame e discutere le molte osservazioni avanzate da Blümel e da altri e senza che, in questi anni, si possa dire che sia stato compiuto negli studi di storia dell'arte antica un approfondimento della nostra conoscenza critica della scultura del IV secolo. Il problema rimane tuttora aperto. -Tornando ora a Pausania, altri casi ci offrono esempio della sua non sempre esatta informazione storico-artistica e della possibilità -Ad Olimpia, Pausania descrive i due frontoni del tempio di Zeus nelle singole figure, che, ritrovate negli scavi, sono state ricomposte seguendo le sue indicazioni e descrizioni, solo con qualche incertezza per l'inesattezza dell'espressione “a destra, a sinistra” di Zeus, perché non sappiamo se Pausania intenda dire rispetto a chi guarda o rispetto alla statua del dio. Ma, tolta questa incertezza (del resto risolta da studi recenti), ben più grave rimane la questione dell'attribuzione, poiché Pausania attribuisce il frontone principale (est) a Paionios e l'altro ad Alkamenes, scolaro o collaboratore di Fidia. La critica moderna ha potuto appurare stilisticamente che i due frontoni debbono essere del medesimo autore (“Maestro di. Olimpia”), ma anche che sono da escludere del tutto Paionios e sostanzialmente anche Alkamenes. Nel caso di Paionios si può documentare come sia nato l'errore di Pausania: davanti al tempio, infatti, è stata trovata una Nike, opera di Paionios (iscrizione conservata sulla base sulla quale la statua era posta), il cui stile è lontanissimo dall' arte dei frontoni (le cui sculture sono da datarsi con certezza tra il 470 e il 460 a.C.). Inoltre, l'iscrizione contiene anche elementi per la datazione: è scritto che gli abitanti di Messene e di Naupaktos dedicano la statua come decima del bottino di guerra. Di quale guerra si tratti e chi sia la parte vinta non v’è detto, ma, tutto considerato, è da ritenersi quella contro Sfacteria, del 425. Poi, sotto l'iscrizione dedicatoria si legge, in caratteri più piccoli (tradotto dal greco): «Paionios di Mende (città ionica presso Ainos) fece, il quale anche vinse facendo gli acroteri sul tempio». L'errore di P. e del suo informatore deve esser nato proprio dalla lettura stessa dell'iscrizione, poiché nell'ellenismo il termine “acroterio” (prima solo le decorazioni che sormontano il frontone del tempio, al centro e agli angoli) si era esteso a tutto il frontone. Effettivamente gli acroteri che si sono trovati si accordano perfettamente con lo stile di Paionios. -Se noi abbiamo potuto scoprire la fonte dell'errore di P. nell'attribuzione del frontone est a Paionios, non abbiamo a disposizione se non ipotesi per spiegare l'attribuzione del frontone ovest ad Alkamenes. La più convincente riposa sull'osservazione che alcune statue appartenenti agli angoli terminali inferiori sono in marmo diverso e di diversa fattura rispetto alle altre. Erano state ritenute pezzi di restauro di età romana, ma questa ipotesi è da abbandonarsi. È da accogliere piuttosto quella (suffragata da qualche confronto, con sculture attribuibili con sufficiente certezza ad Alkamenes) che queste figure siano state affidate ad Alkamenes, essendo rimasta incompiuta la decorazione. Nella cronologia Alkamenes risulterebbe, per altre considerazioni, piuttosto che “scolaro” di Fidia, suo anziano collaboratore alla decorazione del Partenone. -P. si affida spesso manifestamente a quello che dicevano i custodi dei santuari. Dal punto di vista critico non offre nessun elemento personale; egli riferisce gli apprezzamenti correnti del suo tempo, che sono all'incirca gli stessi di quelli di Plinio. Evidentemente, dopo gli scritti retorici del tardo ellenismo, non c'era più stato nessun ripensamento dei valori dell'arte greca, sulle opere principali della quale ormai correvano giudizi stereotipati. ֎Luciano -Di tutt'altro carattere come fonte per la storia dell'arte sono gli scritti di Luciano di Samosata, vissuto al tempo degli Antonini, unico e ultimo fra i tardi scrittori del mondo greco che dimostra di avere gusto e sensibilità artistica. -L. è uno scrittore fornito di cultura e di un discernimento personale, che parla di opere d'arte che egli ha veduto e che egli descrive esprimendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio. Così, quando menziona il quadro dipinto da Aetion, Le nozze di Rossane e Alessandro, si fa premura di dire: «il quadro si trova adesso in Italia, e io l'ho veduto ». Queste precisazioni attestano che la sua documentazione è degna di fede. Ma per il resto, anche Luciano partecipa al culto per l'età lontana della grande civiltà artistica della Grecia e non menziona se non opere di artisti famosi dell'età classica. ֎Ateneo -Un'altra fonte da menzionare è Ateneo. Grammatico e sofista nato in Egitto, poi vissuto ad Alessandria e a Roma verso la metà del III secolo d.C., compose un'opera erudita intitolata Deipnosophistai (I dotti a convito), dove i convitati intrecciano colloqui che danno modo all'autore di raccogliere un'ampia massa di notizie, di carattere enciclopedico: tra queste due lunghe descrizioni, oltre a notizie minori, del padiglione regale e del corteo festivo di Tolomeo II Philadelphos e della processione trionfale di Antioco IV Epiphanes, documenti di grande interesse per conoscere lo splendore delle corti ellenistiche e la profusione di suppellettili in metalli preziosi lavorati. La pompè di Tolomeo è probabilmente databile al 279 e quella di Antioco fra il 168 e il 163. Ateneo ci dà anche la descrizione di una nave costruita per Ierone II di Siracusa, che aveva un pavimento di mosaici fissati su tavole raffiguranti episodi dell'Iliade, testimonianza preziosa per la storia del mosaico figurato. ֎Altre fonti -Numerose sono le fonti di età bizantina (i Filostrati del II e III secolo; Giovanni di Gaza del VI secolo; Giorgio Kodinos probabilmente del X secolo). Esse ci danno informazioni talora assai utili, ma nulla che possa contribuire alla valutazione dell'arte greca. -Dal punto di vista documentario dobbiamo ricordare anche le iscrizioni, che conservano firme di artisti, o documenti (come i conteggi delle spese per la costruzione del Partenone), o decreti. Queste, oltre che nel Corpus Inscriptionum Graccarum (C.I.G.) e nel Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L.) sono raccolte, fino al 1885 e per quello che riguarda le firme di scultori, nell'opera già citata di Loewy, Inschriften griechischer Bildhauer (I.G.B.), e adesso nell'aggiornata raccolta di Jean Marcadé. V. LE SCOPERTE E LE GRANDI IMPRESE DI SCAVO -Riprendiamo ora una questione già accennata: lo studio dell'arte antica è infatti un tessuto composto di tre stili diversi, ossia la conoscenza delle fonti scritte, la conoscenza dei materiali reperiti dallo scavo, il criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche. -Winckelmann, inizialmente, si trovava di fronte ad un vero caos di opere d'arte, uscite in gran parte dal suolo di Roma e non ancora classificate, alle quali egli tentò di trovare un criterio di ordinamento. Scrisse la storia dell'arte greca, senza aver mai veduto opere originali. La scoperta della Grecia e delle opere originali si andò sempre più sviluppando. Dobbiamo ora vedere come la nostra conoscenza dell'arte greca abbia fatto progressi notevoli nell’Ottocento. -Nel Settecento era sorto a Londra un gruppo di uomini di diversa provenienza e preparazione, i quali fondarono nel 1733 la “Società dei dilettanti” (dilettanti come amatori d'arte). Si accodarono a spedizioni fatte dal governo inglese, specialmente nell’Asia Minore, con intenti colonialistici. Clarke, Dodwell e Cockerell sono connessi alle prime ricerche ed alle prime spedizioni in Grecia, con Pausania alla mano, e in Asia Minore. Non era ancora un'attività di scavo, ma di scoperta, e spesso riuscivano a comprare dal governo turco pezzi di notevole bellezza che ora si trovano al British Museum di Londra. -Dal 1738 al 1766 erano stati intrapresi in Italia gli scavi di Ercolano, e dal 1748 quelli di Pompei, che portarono alla luce inattesi tesori di pittura, e misero di moda uno «stile pompeiano». Gli scavi di Ercolano furono presto abbandonati per le gravi difficoltà che essi presentavano (Ercolano era investita da una colata di fango caldo che poi si era indurito); i lavori furono ripresi dopo l'unificazione. -Una delle prime e più grandiose acquisizioni di sculture greche nell'occidente europeo sono i marmi del Partenone e del tempio di Nike Apteros, legati dalla tradizione al nome di Fidia e dalla storia della cultura al nome di Lord Elgin. Questi fu inviato nel 1799 come ambasciatore a Costantinopoli e qui iniziarono le sue disgrazie; si mise presto in urto con il potente incaricato della Compagnia del Levante, che si considerava l'ambasciatore di Londra ed aveva un fratello che faceva parte del governo inglese. Questi pose Elgin in una spiacevole posizione diplomatica nei rapporti con la Francia, che gli valse il risentimento personale di Napoleone. Altre inimicizie gli vennero dall' ambiente ecclesiastico inglese e, accettata la missione a Costantinopoli per curare la propria salute, vi contrasse una malattia della pelle, un erpete, che gli erose metà del naso. Dopo la pace di Amiens (1803), Elgin lascia Costantinopoli per tornare a Londra e incautamente passa attraverso la Francia. Napoleone lo fa arrestare come prigioniero di guerra insieme alla moglie e a uno scozzese che viaggiava con loro. Finalmente liberato, Elgin arriva a Londra e trova che la moglie (liberata prima) era divenuta l'amante dello scozzese. Ne seguì un processo di divorzio, che lo escluse definitivamente da ogni carriera politica. Ma forse il dramma maggiore fu proprio quello dei marmi del Partenone. Sembra che Elgin avesse intenzione di far eseguire disegni e calchi per insegnamento e che fu il cappellano dell'ambasciata Philip Hunt a trasformare la spedizione in una spoliazione, distorcendo il permesso ottenuto dal governo di Costantinopoli (la Grecia era allora occupata dai Turchi). Non tutti i marmi furono distaccati dal monumento. Mentre Elgin era ancora prigioniero, il suo agente cominciò a spedire i marmi, in 200 ceste: 12 naufragarono al Capo Malea e le sculture furono poi recuperate, nel corso di tre anni, dai palombari. I marmi ancora rimasti ad Atene furono nel 1807 sequestrati dai Francesi ma poi inclusi negli accordi di pace, insieme a parte delle sculture raccolte dai Francesi nella spedizione d'Egitto. Le ultime 80 ceste giunsero a Londra nel 1812. Intanto alcuni studiosi “antiquari”, pervasi di teorie winckelmanniane, rifiutavano di riconoscere in quei marmi l'arte fidiaca e ipotizzarono l’attribuzione di quelle sculture a una epoca di decadente imitazione (le credevano copie romane). Per fortuna, una speciale commissione del Parlamento accettò il fervido appello degli artisti e i marmi furono finalmente acquistati. Ma Elgin non ne ricavò che la metà delle spese sostenute. -Le discussioni sull'operato di Lord Elgin non sono chiuse e anche recentemente furono avanzate da parte del governo greco richieste di restituzione. Se è vero che l'asportazione di opere d'arte dal loro luogo di origine è sempre un atto lesivo di un contesto storico, dobbiamo anche ammettere che senza questi trasferimenti la cultura del nostro tempo non si sarebbe arricchita di tante essenziali conoscenze e sarebbe stata diversa: sono stati tutti contributi essenziali, e lo stesso dicasi per la conoscenza e l'influenza che hanno avuto sulla nostra cultura le arti dell'Estremo Oriente, delle civiltà sudamericane e africane. -Le sculture del Partenone, comunque, già manomesse per la trasformazione del tempio in chiesa cristiana e poi in moschea, schiantata da un bombardamento nel 1678, dovevano apparire, al tempo di Elgin, abbandonate ed esposte ad ogni pericolo: la guarnigione turca dell'acropoli usava i marmi per farne calce per imbiancare le pareti; senza contare l'ulteriore deperimento che il marmo già intaccato dagli agenti atmosferici avrebbe subito. -In mezzo alle discussioni pro e contro gli Elgin Marbles, dobbiamo riconoscere l'intelligenza e il buon senso del Canova (che oggi appare un freddo neoclassico, ma era allora il più celebrato scultore del suo tempo), il quale si rifiutò di restaurarli. E dobbiamo riconoscere il merito a Ennio Quirino Visconti di essere stato, tra gli archeologi, il primo a dichiarare quei marmi effettivamente degni del nome di Fidia. -Dopo l'immissione di questi marmi stupendi nel British Museum, si accentuò l'interesse per l'arte greca: nel 1812 furono portati a Londra i rilievi del tempio di Apollo a Bassae (Phigaleia), rappresentanti una centauromachia. Ad essi fu dedicato un saggio di Goethe. Sono molto più vivaci e liberi, formalmente, di quelli del Partenone, pur essendo contemporanei, e corrispondevano poco a quella falsa concezione che si era formata intorno all'arte classica. -Nel 1811 era stata condotta una spedizione all'isola di Egina, dove furono scoperti i resti di un tempio. La scoperta fu molto importante, essendo questi i primi marmi che si conobbero del periodo arcaico e questa nuova esperienza aiutò la cultura del tempo a distaccarsi dal gusto neoclassico. Fiorirà infatti, di lì a poco, la tendenza romantica verso i “primitivi”, i “preraffaelliti” e gli “arcaici”: un filone di cultura che continua sostanzialmente per tutta la prima metà del secolo XX. I marmi di Egina furono restaurati da Thorwaldsen, che purtroppo non usò alcun rispetto per il documento ed accomodò le statue come più ritenne opportuno. -Nel 1967 i restauri sono stati tolti con una risoluzione che segue giusti criteri teorici, ma incauta applicazione pratica. Il restauro del Thorwaldsen rappresentava ormai un documento di storia della cultura; e i moncherini che presentano oggi le statue sono più offensivi dei restauri che un occhio esperto poteva eliminare mentalmente e a quello inesperto non davano disturbo. -Quasi contemporaneamente a queste scoperte furono intrapresi gli scavi di Selinunte (iniziati da Harrise Angell; poi ripresi dal duca Serradifalco) che misero in luce i resti dei templi ed alcune delle metope che sono tra le più antiche che si conoscano. -Ripresi dopo il 1860, gli scavi a Pompei per opera Fiorelli hanno dato una documentazione e notizie sempre più sicure sulla vita ed i costumi del mondo romano e conoscenza della pittura antica. Tra il 1894 e il 1896 fu scoperta la casa dei Vettii, la più ricca di dipinti, e la villa di Boscoreale con il meraviglioso tesoro di argenteria che fu venduto all'estero (in parte a Parigi). Piu recentemente si è cercato di far lo scavo degli strati più antichi, preromani, di Pompei e si è trovato uno strato osco ed anche etrusco. -A Pompei sono venuti in luce molti monumenti di scultura, la maggior parte dei quali sono copie di originali greci. Di originali ellenistici si hanno solo alcuni mosaici. Molto importante è la pittura, poiché Pompei ed Ercolano sono tra i pochissimi centri che ci danno resti di pittura antica originale. Si è già fatto cenno degli studi sulla pittura di Pompei, i quali in parte sono stati riveduti, perché le teorie del Wickhoff non reggono più alla critica moderna. Per il Wickhoff tutto quanto nella pittura pompeiana mostrava uno sfondo paesistico era detto interpolazione dell'artista romano. Oggi si è visto che gli sfondi prospettici già esistevano nella tradizione ellenistica, anche se di questa ci rimane ben poco. Della grande fioritura artistica di Alessandria abbiamo pochissimi resti, tanto che alcuni studiosi la misero in dubbio, nonostante le testimonianze storiche, soprattutto come reazione a una sopravalutazione che aveva addirittura esteso a tutto l'ellenismo il termine “alessandrino”. Tuttavia, recenti scavi nella necropoli di Alessandria in tombe del III secolo a.C. ci dimostrano che abbiamo diretti precedenti della pittura illusionistica di Pompei. -La penetrazione di una mentalità storicistica nell’archeologia è stata molto lenta. Maiuri, il maggior competente delle antichità di Pompei, scriveva che la pittura del IV stile pompeiano di carattere impressionistico era una conseguenza locale del gran daffare delle maestranze in seguito al terremoto del 62, ma la stessa pittura si trova in esempi molto più belli a Roma, in Gallia, nell’Africa ecc.; essa è un fenomeno che investe tutto il mondo ellenistico-romano, e va affrontata come un problema di forma e di linguaggio artistico. -Nel 1809 furono eseguiti i primi scavi nel Foro Romano; qui sono stati rinvenuti elementi importanti per la storia di Roma più che monumenti artistici. Purtroppo, l'opera genialoide di Giacomo Boni ha sottratto alla conoscenza scientifica tanto materiale da lui scavato e mai pubblicato. -Per comprendere l'influenza che ha avuto sulla nostra cultura la presa di contatto con le opere di quest'arte greca, prima conosciuta solo attraverso le copie, acquistano importanza le scoperte fatte in Grecia. Un ulteriore ampliamento dell'orizzonte storico relativo al bacino del Mediterraneo è stato compiuto dopo la Seconda guerra mondiale, soprattutto attraverso la messa in luce delle più antiche documentazioni preistoriche dell'Anatolia. -Nella seconda metà dell'Ottocento si organizzarono le prime grandi spedizioni di scavo da parte di Inglesi, Tedeschi e Francesi. I primi sono gli scavi in Samotracia (1863), spedizione a carattere internazionale e la famosa Nike andò al Louvre. Al tempo stesso iniziarono gli scavi ad Atene (Dipylon), dove apparvero per la prima volta i vasi di stile geometrico. Questa scoperta ha avuto una grande influenza sugli studi: non si può capire la formazione e lo sviluppo della statuaria del VI secolo, senza tener conto della lunga tradizione dello stile geometrico. Questo stile si ricollega al primitivo geometrismo che si trova nel vasellame preistorico della regione danubiana; ma le popolazioni greche ne fanno una creazione artistica, un vero stile coscientemente sottoposto a regole. -Accanto a questi capitoli nuovi, mentre si stava compiendo l'unità nazionale turca (fine Ottocento), si andava approfondendo la conoscenza delle città greche, particolarmente dell'Acropoli di Atene. -I Propilei erano stati inclusi entro torri di fortificazione, nella cui demolizione venne alla luce tanto materiale da poter ricostruire non solo i Propilei, ma anche il tempietto, quasi completo, di Athena Nike: è piccolo edificio molto elegante con un parapetto adorno di figure di Vittorie, che sono tra le testimonianze più belle della generazione successiva a Fidia, intorno al 420 a.C.. Si ripresero ancora gli scavi nel cimitero del Dipylon (“Le due porte”) per approfondire la conoscenza del geometrico più antico e si scoprirono tombe che vanno dal IX secolo alla fine dell'VIII a.C.. Precedentemente, il cimitero aveva anche dato la serie bellissima delle stele funebri del V e IV secolo, una delle manifestazioni più caratteristiche del gusto dei Greci di età classica. -Quando nel 480 a.C. i Persiani distrussero l'Acropoli, devastarono tutti i monumenti esistenti, la tomba del mitico Cecrope, il tempio che sorgeva al posto del Partenone (Hekatompedon, tempio “di cento piedi”) e i resti di altri edifici precedenti. Dopo la vittoria sui Persiani, la nuova generazione si ricostruì l'Acropoli (quella di Pericle): allargarono l'area utilizzabile alla sommità dell'Acropoli mediante un muro; nello spazio intermedio tra il muro e la roccia furono deposti tutti i resti degli ex-voto danneggiati (consacrati, non potevano esser distrutti). Questo riempimento è noto col nome di “colmata persiana” e i pezzi in esso rinvenuti sono datati al periodo precedente al 480 a.C., data importante in quanto segna una profonda svolta, ossia ad una società aristocratica ne succede una democratica, che crea un tipo di stato nuovo nel mondo, uno stato di diritto fondato su un concetto di giustizia e nel quale sorge il principio della “isonomia”, (eguaglianza dei diritti e delle libertà civili). E di tale società è diversa l’espressione artistica, tanto che questa data segna il limite del periodo arcaico e l'inizio dello “stile severo”. Fu un trentennio, dal 480 al 450, di intensissima trasformazione: si passa dalla rigida statua arcaica, tutta dominata dalla linea di contorno, all’ inaudita ricchezza plastica di Fidia. L'arte della Grecia arcaica appartiene, in fondo, allo stesso mondo al quale appartennero dall'inizio alla fine le civiltà artistiche dell'Oriente mediterraneo, quella egiziana e quelle mesopotamiche, che si esprimevano attraverso forme nelle quali le varie realtà venivano ristrette in un numero limitato di schemi fissi. -La nuova arte greca, invece, non conosce più limiti alla ricerca individuale dell'artista, che affronta tutta la realtà ponendosi sopra la via del naturalismo. Poiché il naturalismo ellenistico è stato poi il fondamento della civiltà artistica europea dal Rinascimento occorre un certo sforzo per valutare storicamente quanto unica fosse la via del naturalismo affrontata dall'arte greca. Più facile è riconoscere come la soluzione ellenistica del problema della forma artistica uscisse poi per secoli vittoriosa contro tutte le altre civiltà con le quali venne in contatto. -I frammenti dell’Acropoli furono catalogati e pubblicati. Fondamentale furono la pubblicazione di Payne delle sculture arcaiche dell'Acropoli (1936), prima opera con buone fotografie, e il grande catalogo di Schrader e Langlotz (1939). -Payne, dotato di intelligenza dell'arte, fece alcune scoperte molto importanti: scoprì che un torso di kore proveniente dalla Francia meridionale combinava con la parte inferiore di una statua frammentaria, trovata nella colmata persiana: quindi la kore di Lione (o Afrodite di Marsiglia) proveniva dall'Acropoli (era ritenuta ionica). C'è stato negli studi un periodo di “panionismo”: si ritenne di arte o almeno di influenza ionica tutta la scultura di età arcaica trovata ad Atene. Il progresso degli studi ha posto in evidenza che la scuola attica rappresenta non solo una produzione di costante qualità altissima, ma il centro promotore di nuove invenzioni formali e di nuove problematiche artistiche. Contribuì anche la “scoperta” della “testa Rampin ”, sempre citata come esempio tipico di arte ionica, che Payne invece poté combinare con un torso di cavaliere dell'Acropoli, restituendoci la più antica statua equestre della Grecia. -Con Furtwängler si aveva ancora l'ultima espressione tipica dell'archeologia filologica, che ricostruiva la storia dell'arte soprattutto attraverso le fonti e le copie delle opere d'arte. Poi gli archeologi si sono trovati di fronte al problema e di sistemare la storia dell'arte in base ai nuovi ritrovamenti ed agli originali rinvenuti. Diverso è il problema tra l'Ottocento e il primo Novecento: prima si cercò di individuare i grandi artisti dei quali ci parlano le fonti, di cui però si avevano pochissimi originali. Moltissime, invece, erano le opere originali poste in luce dallo scavo archeologico delle quali non si aveva notizia nelle fonti. Anche le stesse opere che decoravano il Partenone potevano dirsi anonime; Fidia nelle fonti era attestato solo come episkopos (sovrastante). Passo quindi in primo piano la ricerca delle grandi linee di svolgimento dell'arte greca e l'individuazione delle singole “scuole” formatesi nei vari centri dove la produzione artistica era più viva. Nel periodo classico e in quello ellenistico le scuole si distinguono non per particolarità tecniche, ma per veri e propri diversi indirizzi stilistici. -Non conosciamo direttamente nessuna delle personalità maggiori dell'arte greca, ma conosciamo largamente la produzione corrente delle maestranze artigiane direttamente influenzate dalle grandi personalità artistiche di un tempo, e dalle quali le grandi personalità del tempo successivo traevano origine; si può quindi arrivare a studiare e capire la civiltà artistica greca, che ebbe sempre essenzialmente un carattere di altissimo artigianato. Anche per i complesso di Olimpia (uno dei più completi, due frontoni e tutte le metope) si parla di un Maestro di Olimpia, cui non sappiamo dare un nome, pur attribuendogli tutto il complesso delle sculture in base ad osservazioni stilistiche; si riconoscono, però, cinque o sei mani diverse nell'esecuzione delle varie sculture, il cui progetto e la cui idea devono essere stati dati, tuttavia, da un'unica personalità. Qualcosa di analogo è stato fatto per il Partenone: un maestro unico ha ideato e dato disposizione delle singole sculture, mentre l'esecuzione rivela personalità diverse, alcune già giunte a maturità artistica, altre ancora in formazione. -Questa continuità in tutto il complesso della decorazione del Partenone fu posta in luce in tre saggi da Bernhard Schweitzer. Le sue conclusioni, che parvero urtare contro la tradizione cronologica attribuita all'attività di Fidia, hanno trovato piena conferma nei risultati degli scavi di Olimpia ripresi subito dopo la Seconda guerra mondiale, nei resti dell'officina di Fidia poi trasformata in chiesetta bizantina. I frammenti di lavorazione e i resti di ceramiche di uso comune hanno accertato che lo Zeus di Olimpia era stato eseguito da Fidia. Ne consegue un abbassamento nella cronologia dell'attività di Fidia e la conferma che nel corso dei sedici anni (448-432), durante i quali furono eseguite le opere del Partenone, l'arte del Maestro poté subire quel ricco sviluppo che appariva impossibile a chi poneva la direzione dei lavori dell'Acropoli nella vecchiaia dell'artista. -Dopo la Prima guerra mondiale lo studio della storia dell'arte antica entrò in una nuova fase e le motivazioni furono diverse: l’interruzione delle opere di scavo fece concentrare gli studiosi sulle opere già trovate; le correnti di pensiero che avevano promosso lo storicismo raggiunsero anche gli archeologi; la crisi generale della cultura fece intendere anche agli “umanisti” la necessità di ricercare, nel campo dei propri studi, i valori culturali effettivi. -La prima metà del Novecento ha visto un continuo tentativo di intendere l'opera d'arte nei suoi valori intrinseci, anche se ciò non significa che tale intento sia stato sempre seguito con una retta metodologia storica. Nella seconda metà del secolo è fortemente cresciuto l'interesse per la problematica storica che, come si sa, è legata indissolubilmente con l’attività artistica. VI. RICERCHE TEORICHE E STORICISMO AGLI ALBORI DEL NOVECENTO -Alla fine del periodo filologico, fra Ottocento e Novecento, si trova uno studioso: Emanuel Loewy, austriaco, il quale fu il primo a coprire una cattedra di archeologia classica all'Università di Roma. La sua opera è importante, perché è forse il primo archeologo che cerca di riprendere uno degli aspetti di Winckelmann, cioè la ricerca attorno all'essenza stessa dell'arte. Egli cerca di porre lo studio dell'arte antica sopra un fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi fondamentali: Die Naturwiedergabe in der älteren griechischen Kunst (La natura nel l'arte greca più antica), e l'altro un articolo di carattere iconografico, Typenwanderungen (Migrazioni tipologiche). Questi due studi sono importanti, perché trattano questi due temi: l'arte greca e il vero di natura e quello della persistenza iconografica. -L'iconografia è un fattore molto importante. Non ci troviamo di fronte alla personalità isolata dell'artista, capace di produrre da sé un'opera d'arte distaccata dalla società in cui vive. Nell'antichità l'artista è un artigiano e come in tutti gli artigianati, si formò un patrimonio di tradizioni tecniche e iconografiche, che rendeva possibile all'artigiano di raggiungere una qualità elevata. Si lavora come si è imparato nella bottega, ma ogni artigiano di talento aggiungerà piccole varianti, espressione della sua personale genialità e che verranno riprese dai suoi successori. Col tempo si giunge in tal modo a innovazioni anche profonde. Così, nell'arte arcaica il tipo del kouros continua dalla metà del VII secolo alla fine del VI secolo; eppure, nella sua uniformità tipologica, non c'è un kouros uguale all'altro, e il problema statuario matura nel corso di due secoli fino alla crisi che si rende manifesta nello, scultore attico Kritios, col quale si apre la fase dello “stile severo” (480-460), e si avvia verso la soluzione policletea (attorno al 450/440). -Finché esiste nell'arte una forte tradizione artigiana, la persistenza degli schemi iconografici è fortissima. Quando si studia una determinata rappresentazione bisogna esaminare da dove proviene lo schema iconografico e cercarne i precedenti: solo dopo si può stabilire la posizione storica dell'opera e valutare il contributo personale dell'artista. Questo fu l'argomento dello studio di Loewy, che per il primo mise in evidenza la persistenza degli schemi figurativi, mostrando altresì come numerosissimi motivi dell'arte greca arcaica sono connessi con l'arte del Medio Oriente. I due elementi vanno valutati separatamente. -L'altro punto fondamentale esaminato da Loewe è il modo nel quale l'immagine naturale, il vero, viene trasformata in immagine artistica. Winckelmann aveva creduto di poter definire l'essenza dell'arte greca, formulando il concetto di selezione del più bello. A fatica si è fatto strada il riconoscimento dell'arte greca come la più naturalistica delle civiltà artistiche antiche. Tuttavia, anche questo riconoscimento non annulla il valore della ricerca indirizzata a indagare in qual modo si concretasse, volta a volta, la creazione di schemi figurativi, costituenti un linguaggio di fondo che tutti, in un determinato tempo e luogo, intendono. -Alla fine dell'Ottocento la formula winckelmanniana subì una prima revisione, in base alle tendenze positivistiche che si diffusero. Prima fu il danese Julius Lange, che si occupò del problema del rapporto fra l’arte greca e la forma di natura, poi il tema fu ripreso da Alessandro Della Seta (Genesi dello scorcio nell'arte greca), scolaro di Loewy. Lange era stato il primo a osservare e definire alcune delle “leggi” della concezione artistica del periodo più arcaico dell'arte greca: la prima è, per importanza, quella della frontalità, che si manifesta nel fatto che qualsiasi immagine riprodotta dall' artista subisce una specie di schiacciamento; perde volume, evita qualsiasi scorcio; la figura non ha profondità, si muove come tra due lastre di vetro, una piano di fondo e l'altra piano parallelo al primo, col quale vengono in contatto tutte le parti più sporgenti della figura. È una visione lineare e simmetrica, per cui una linea che tagli verticalmente in due la figura, passando tra testa e ombelico, separa il corpo in due parti eguali e simmetriche. -Da queste “leggi” Lange desumeva le conseguenze che caratterizzano quello che si dice stile arcaico. Una figura è vista di profilo nelle gambe e di fronte nel torso: questa torsione del busto forma uno schema figurativo che ha la sua armonia, anche se è lontanissimo dalla realtà. Per lo stesso motivo in un viso di profilo l'occhio è di prospetto. Queste convenzioni sono particolarmente evidenti nell'arte egiziana e i Greci le assunsero inizialmente, ma ciò creò l'equivoco di definire “stile egiziano” lo stile arcaico, specialmente rispetto all'arte etrusca. Lange notò che questa “legge della frontalità” domina qualsiasi arte primitiva e si ritrova in tutte le civiltà antiche; l'arte greca fu l'unica a superarla scoprendo le regole dello scorcio. Lange ritenne la frontalità diretta conseguenza della “incapacità” di esprimere tutte le varietà che il vero comporta: di qui la necessita di tipizzare la varietà, in modo che l'artista abbia una guida e l'artigiano possa formarsi un repertorio che lo aiuti. Tale formulazione di Lange era strettamente legata alla tendenza positivistica empirica della seconda metà dell'Ottocento: l'arte era vista come qualcosa di completamente distaccato dalla personalità dell'artista, il che era non meno erroneo del far consistere tutto e unicamente nella personalità. Lange non si accorse soprattutto di un fatto: questa frontalità e questa simmetria nell'arte greca erano divenute, in mano a sensibili artisti, un altissimo stile cosciente e coerente. Giudicando la frontalità come un elemento puramente primitivo, di incapacità, si ribadiva concetto di “provvisorietà” dell'arte arcaica, “preparazione” all'arte classica. Occorreva superare questo concetto evoluzionistico. Loewy fece un passo notevole a tal proposito: nel Naturwiedergabe capì che la frontalità arcaica non era dovuta ad incapacità, ma ad un determinato processo di concezione dell'atto artistico e dimostrò che l'artista primitivo crea seguendo un ricordo, un’immagine mentale, che gli presenta l'oggetto sotto l'aspetto più semplice, più chiaramente leggibile. Perciò l'artista primitivo farà un occhio lo sempre come visto di faccia, forma più chiara che quella di profilo e, se vorrà disegnare una foglia di vite, lo farà a memoria, e il risultato sarà una foglia che avrà le caratteristiche più riconoscibili della sua specie. La concezione dell'arte arcaica era, dunque, legata ad un determinato mondo e ad un determinato tempo e che poteva cambiare solo se ne fossero cambiate le premesse. Ognuno di questi artisti arcaici va valutato invece di per se stesso per quello che è, e rispetto al proprio tempo. -Della Seta si occupò del problema del superamento della legge della frontalità nell'arte greca, che noi designiamo col passaggio all'arte classica. Egli, invece, la pensava superata grazie ad una maggiore conoscenza dell'anatomia ed impostò sulla conoscenza dell'anatomia tutto lo sviluppo dell'arte greca, cadendo nell'errore di vedere la più dettagliata osservazione anatomica come fine e non come mezzo dell'espressione artistica. L'osservazione anatomica serviva a differenziare i piani nel chiaroscuro; ed è con l'inserire nella plastica elementi chiaroscurali, che si rompe la frontalità del mondo arcaico e si cerca di raggiungere la piena corposità di una figura che si muova in uno spazio non delimitato. -Della Seta concentrò la sua attività ne Il nudo nell'arte, dove passa in rivista tutta la scultura della Grecia, studiandola dal punto di vista della ricerca anatomica. Egli mostra una fine sensibilità intuitiva nella comprensione dell'opera d'arte, ma negli ultimi anni della sua vita forse dubitò della verità della sua tesi e non portò mai a compimento la sua opera. -Con questi tre studiosi (Lange, Loewy e Della Seta) siamo in un ambiente che ha tuttavia superato in parte il più stretto filologismo tedesco; si nota in essi un orientarsi al criterio di indirizzare l'archeologia verso problemi di interpretazione del fatto artistico. -Effettivamente Winckelmann era appartenuto, anche se non esplicitamente, all'Illuminismo. Per questo lato il filologismo aveva segnato un passo indietro rispetto a Winckelmann, aveva rinunciato a porre come esigenza il trovare un contratto vivo col mondo greco. È stata questa mentalità a rendersi in gran parte responsabile dell'isterilimento della cultura europea e questo ebbe poi per conseguenza l'evasione di quella stessa cultura verso forme diverse di irrazionalismo. -Ma c'è anche, rispetto a Goethe, Schiller, Hölderlin e a quello che più tardi sarà il migliore Nietzsche, una specie di cautela e di timore verso quegli elementi di fondo del pensiero greco e della cultura greca che contengono così forti impulsi di razionalismo, libertà e giustizia. La filologia classica fu pervasa di spirito conservatore e divenne una mera tecnica: il dibattito non si conduceva sulla sostanza delle cose, ma solo sui problemi posti dalla discussione accademica. -Agli inizi del Novecento si entra in una nuova fase degli studi di archeologia. Furono interrotti gli scavi e chiusi i musei e ciò indusse a riflettere sul materiale già esistente. Se la storia di Winckelmann era stata concepita in base alla conoscenza di sole copie, si arriva ora a studi che prendono in considerazione solo gli originali, piuttosto per porsi determinati problemi formali, che con l'intento di compilare la storia di tutta l’arte greca. Tipica in questo senso fu Frühgriechische Bildhauerschulen (Scuole di scultura della prima età greca, 1927) di Ernst Langlotz, nella quale ci si basava su piccoli bronzi, opere originali minori, col fine di ricostruire non già le grandi personalità, ma le varie scuole e “officine” artigiane dalle quali i maestri erano scaturiti e che dai Maestri vengono influenzate. Un lavoro di fine analisi formale portò a stabilire per l'età arcaica una cronologia a date ravvicinatissime (da 5 a 10 anni di oscillazione) confrontando sculture e disegno sulle ceramiche e partendo da alcune date fisse (“colmata persiana” 480 a.C.; iscrizioni su pitture ceramiche che elogiano determinati personaggi storici...) -Ma dalla fine dell'Ottocento prende inizio anche tutta una nuova fase di ricerche teoriche intorno alle arti figurative. In genere queste teorie non ebbero, per un certo periodo, influenza alcuna sulla storia dell'arte antica -Un'influenza diretta sugli studi di archeologia ebbero le teorie formulate dalla scuola viennese. Attorno al 1895 a Vienna furono particolarmente in evidenza due studiosi, entrambi storici dell'arte medievale e moderna: Wickhoff, più sensibile al fenomeno artistico, e Riegl, più fondato teoricamente. Entrambi si sono occupati di storia dell'arte antica per risolvere problemi di arte Wölfflin, dette in mano allo studioso un mezzo di intendersi con gli altri studiosi. Ma c'è il pericolo di dare a queste categorie un valore di sistematicità troppo rigida, di arrivare a far consistere la storia dell'arte in niente altro che nell'incasellamento delle opere entro una determinata categoria. Il linguaggio tecnico della critica d’arte, inoltre, inizia a complicarsi, isolando la critica nel cerchio dei competenti, a detrimento della sua efficacia culturale. Quando arrivati alla Geistgescbichte (concepire la storia dell'arte come “storia dello spirito”), si è ripetuto lo stesso errore che si era avuto prima con gli studiosi del metodo filologico: se prima l'ideale dello studioso era catalogare e inquadrare in caselle, senza vedere la connessione storica delle opere d'arte, così ora lo storico dell'arte credette di poter limitare la propria attività a definire le categorie artistiche. La classificazione è indispensabile ma la si deve considerare solo come lavoro preliminare e preparatorio. -Tuttavia, l'influenza della scuola di Vienna fu un avvicinarsi alle esigenze che lo storicismo aveva introdotto nella cultura europea e un ampliarsi dell’orizzonte, prima esclusivamente classicistico, degli archeologi in quanto storici dell'arte antica. -Il vero problema storico e critico comincia al di là della casistica delle categorie. Bisogna aver chiaro che cosa si vuol raggiungere: o una vera storia dell'arte, cioè della forma artistica nel suo costituirsi e variare, o una storia della produzione di opere d'arte come contributo alla storia della società di un tempo espressa nelle sue idee, nelle sue possibilità economiche, nei suoi rapporti sociali. Sono due problemi differenti, che non vanno confusi. VII. PROBLEMI DI METODO (LA STORIA DELL'ARTE COME INTERPRETAZIONE STORICA DELLA FORMA) -Si è iniziato parlando di Winckelmann e tracciando la sua figura come quella dell'iniziatore della storia dell'arte entro l'ambiente culturale dell'illuminismo antifeudale. I suoi limiti consistono nell'aver stabilito un periodo particolare, quello dell'arte classica del V e IV secolo, come un valore assoluto, facendone una specie di mito. Questa visione mitica e non storica ha però continuato a sussistere anche durante il periodo filologico dell'archeologia dell'Ottocento, quando gli archeologi hanno voluto porre un rigoroso e impersonale metodo di indagine alla base delle loro conclusioni. In quel periodo, l'archeologia ha studiato filologicamente fonti e monumento, studiando le varie copie di età romana per risalire all' originale. AI tempo stesso si riscopre materialmente il mondo greco mediante grandi imprese di scavo. Questo periodo si chiude con Furtwängler. E la fase di ricerca a cui siamo debitori per l'ampliamento e la sistematicità della conoscenza dei documenti per la storia dell'arte antica. Winckelmann non sapeva che quasi tutte le statue da lui studiate erano copie di età romana e oggi si è, invece, riusciti a datare, in base al solo stile, la serie delle sculture arcaiche di quinquennio in quinquennio. L'indagine stilistica si è affinata in conseguenza dell'impostazione teorica del fatto artistico, iniziata da Riegl e Wickhoff e proseguita da Wölfflin. Questa indagine faceva in partenza astrazione dalla posizione cronologica o storica dell'opera d'arte; essa esamina l'opera d'arte nella sua qualità artistica e fissa di essa le caratteristiche formali. In una serie di opere affini, prive di documentazione, è sempre possibile stabilire quali vengono a collocarsi prima e quali dopo. -In ogni artista si può scoprire un processo di svolgimento, che possiamo studiare nelle sue varie opere, ed esiste uno svolgimento da una generazione all'altra. Nello svolgimento della forma artistica c'è una logica interna e non si possono fare salti. -Così avviene che l'opera di una personalità artistica ponga certi problemi e che altri se ne aprano. Nell'arte greca non si è in grado di delineare l'evoluzione formale dei singoli artisti, nemmeno per le personalità maggiori, ma siamo in grado di determinare il processo di sviluppo formale di un particolare periodo. Si può, perciò, arrivare, anche attraverso le sole fonti letterarie intese con aderenza al fenomeno della creazione artistica e confrontate coi pochi dati monumentali superstiti, a stabilire quali problemi si sia posta la pittura antica. Il che è stato più importante che non tentare la ricostruzione iconografica delle opere perdute. -L'estetica e la metodologia critica crociana ha avuto un ruolo in tutto ciò, anche senza aver avuto grande influenza nell'archeologia. Nell'archeologia tedesca, inglese e francese è penetrata l'indagine delle categorie artistiche di Wölfflin, che non contraddice l'estetica crociana, anche se questa ha definito i limiti di tale indagine. Tuttavia, nel quadro della cultura europea della prima metà del secolo XX, l’Italia ha dato un suo contributo proprio in rapporto all'estetica crociana. Altre nazioni hanno contribuito attraverso altre tendenze facenti capo all'idealismo di derivazione hegeliana. -Ritengo di dover ora far cenno della mia personale posizione. Nell'appendice 1938-1948 dell'Enciclopedia Italiana la mia attività è stata così descritta: «Movendo dal pensiero crociano, ha [...] sviluppato una sua concezione teoretica [...], segnando un profondo rinnovamento [...]». -Non credo che i miei studi abbiano avuto un'influenza così rinnovatrice e li considero una tappa di passaggio ad una migliore metodologia, che ho cercato di raggiungere sperimentalmente con l'affrontare concreti problemi di storia dell'arte. Il mio contributo a quella prima fase si può compendiare in una serie di lavori (1930-1942) raccolti nel volume Storicità dell'arte classica. In Italia l'archeologia era rimasta alla fase filologica (da citare Pericle Ducati, Giulio Emanuele Rizzo, Biagio Pace). Io mi ero posto il problema di aggiornare la posizione teorica degli studi di storia dell'arte antica, inserendola nella corrente storiografica del Croce, cercando di arrivare a comprendere la storia dell'arte nella sua concretezza e nelle personalità che la costituiscono. La definizione di una personalità artistica era stata particolarmente trascurata (concezione di evoluzione di tipo biologico): si parlava sempre di “arte” e non di “artisti” e bisognava, perciò, compiere una ricerca della personalità, ponendo in risalto il carattere autonomo di alcuni aspetti del fatto artistico. -Se studiamo per esempio Giotto cerchiamo di giungere ad un giudizio critico nostro e non ripetiamo il giudizio di Vasari. Invece per la storia dell'arte antica, si ripetevano i giudizi di Winckelmann, che a loro volta erano quelli di Plinio. Ho cercato di dimostrare che si dovesse fare una storia dell'arte antica in base a giudizi nostri che, pur mutabili e caduchi, sono i soli che possono aver valore per la nostra cultura. La divulgazione, condotta sulla base di un'approfondita conoscenza scientifica, mi è sempre sembrata un punto di arrivo nel campo delle discipline umanistiche, anche per assicurare ad esse una continuità. Duplice lo scopo ed il vantaggio: fare una storia dell'arte antica fondata su elementi critici che siano in armonia con il movimento storicistico della cultura moderna con il nostro giudizio critico, in modo da ritrovare il contatto con l'arte greca. L'aver tentato di inserire la storia dell'arte antica nella metodologia e nell'estetica crociana è stata una tappa indispensabile. La cultura italiana fra le due guerre mondiali è stata sottoposta a due dittature, non paragonabili, ma limitative verso l'orizzonte europeo: la dittatura del fascismo e a quella del crocianesimo, e la seconda trovò motivi di rafforzamento proprio in ragione della sua opposizione alla prima. Ma un ulteriore passo presupponeva di sapersi liberare di entrambe. Personalmente mi avvidi ben presto che la via di Croce non poteva esser seguita fino in fondo. L'identità tra il giudizio critico e il fare storia, proclamata dal crocianesimo, appare subito insostenibile difronte alla produzione artistica dell'antichità, dove anche il Maestro si trova inserito in un tessuto culturale di carattere artigiano. Il far consistere il fine della nostra ricerca nel determinare il grado di “poeticità” di un'opera attraverso l'analisi del suo contenuto-forma si dimostra presto insufficiente di fronte al legame strettissimo che nell'arte antica appare fra l'opera d'arte e le premesse politiche e sociali. La parola più appropriata è “produzione”, anziché “creazione”, mentre la concezione crociana sembra presupporre una creazione artistica che non conosca limiti alla propria intuizione poetica. -Dall'indagine critica, che ha caratterizzato lo studio dell'arte antica negli ultimi trent'anni (il libro è del ’76), è sorto un innegabile affinamento delle nostre capacità di intendere, ma sono anche nate nuove possibilità di errore. Ritengo tuttavia che la metodologia storica crociana sia stata la meno dannosa, perché ci ha insegnato a superare tali pregiudizi e ad evitare di cadere in certe interpretazioni “mitologiche” e antistoriche. Vorrei accennare quello che è avvenuto nell'archeologia tedesca: nel secolo scorso era metodologicamente all'avanguardia, ma dopo quel periodo brillante, durante il fiorire della scuola filologica, l'archeologia tedesca, nel passare dalla raccolta e dalla catalogazione, non è stata più sorretta da una metodologia che le permettesse di approfondire meglio il fatto storico. È, perciò, avvenuta una fuga verso l'irrazionale. -Ciò fu già rilevato in un mio articolo proposito dell'opera di Ernst Buschor, Vom Sinn der griechischen Standbilder (Del senso delle statue greche). Buschor è stato uno degli studiosi più in vista per preparazione specialistica e per sensibilità verso la forma artistica e in quel testo presentava il cammino dell'arte diviso in sei cicli, chiusi ciascuno in sé; comprendere storicamente l'opera d'arte significa, in questo caso, incasellarla nel ciclo ad essa pertinente, da cui le derivano forma e contenuto. -Le sei categorie, con la cronologia relativa al mondo classico, sono le seguenti: 1. Mondo della prescienza (Ahnungswelt): fino a tutto il secolo VIII a.C. 2. Mondo della realtà esistente (Wirklickeitswelt): secoli VI-VI a.C. 3. Mondo della eccelsa determinatezza (Hobe Schicksalswelt): secoli V-IV a.C., fino ad Alessandro. 4. Mondo dell'immagine e dell'apparenza (Bild-und Scheiwelt): fine secolo IV-I secolo a.C. 5. Mondo dell'artifizio (Kunstwelt): secoli I a.C. III d.C. 6. Mondo dei segni o simboli (Zeichenwelt): secoli III-V d.C. -Secondo questa costruzione pseudo-storica, ogni civiltà passa necessariamente attraverso questi sei cicli ed in uno di essi trova la sua più compiuta espressione. Dopo il sesto stadio il ciclo ricomincia e come nel primo ciclo la più compiuta espressione viene raggiunta al primo stadio, nel secondo è la seconda categoria che prevale, e così di seguito. Questo irrazionalismo retto da una razionalità logica appartiene a una delle tante costruzioni fatalistiche della storia. Questo tentativo del Buschor rientra nell'indirizzo della scuola “morfologico-culturale”, secondo la quale ogni civiltà esprime un determinato aspetto del mondo, e l’uomo viene “afferrato” da determinati aspetti dell’esistenza ai quali egli allora dà forma. Questo fatalismo storico fu applicato particolarmente negli studi di etnologia da L. Frobenius, e il più deleterio esponente fu Oswald Spengler. -Tuttavia, non mancano nello scritto di Buschor singole osservazioni interessanti, degne di un profondo conoscitore dell'arte greca, che fanno risaltare la manchevolezza della sua preparazione storicistica. Così, alle opere d'arte del primo gruppo viene giustamente riconosciuta una particolare forza di spontanea intuizione artistica e non un deliberato proposito di fare arte, anche se alta e nobile ne è l’esecuzione tecnica. Per la fase della “realtà esistente”, Buschor ammette una parziale consapevolezza intellettualistica dell'artista, perché le opere non sono più anonime e l'artista acquista una concezione religiosa dell’arte. Buschor riconosce che nel terzo periodo si formano le premesse per il ritratto, e per il quarto periodo nota come caratteristico il fatto che i ritratti più caratterizzati sono quelli creati dall'immaginazione, senza il modello (“ritratti di ricostruzione”). Vengono poi individuate alcune delle cause per cui soltanto in periodo ellenistico si giunge alla rappresentazione di figure non intere: la statua non è più sentita come cosa viva, ma come “oggetto d'arte”. È anche individuato il contenuto delle statue della tarda antichità, che, come dice B., non esprimono più né la vita esteriore né la molteplice vita dello spirito, ma solo la situazione sociale e la dignità di chi domina. Particolarmente interessante questa osservazione: ad un certo momento l'arte greca, soprattutto quando al servizio della corte dei vari regni ellenistici, cessando la sua concezione religiosa, diventa un'arte cosciente del proprio artifizio; si produce allora l'opera d'arte che serve a ornare. L'arte diviene allora frutto di riflessione, non è più spontanea e sorge anche un'altra diversità: mentre nell'arte arcaica non c'è nessuna differenza di qualità fra grandi complessi artistici e opere di artigianato, nel periodo ellenistico si ha una produzione artigiana che si differenzia dalla grande arte, della quale, in forma stanca, si ripetono i motivi. Questa osservazione è in sé giusta, ma le motivazioni sono ragioni sociali ed economiche strettamente legate ai caratteri che differenziarono la società dei regni ellenistici da quella delle poleis greche. -Tutte le osservazioni di B. sono rese storicamente inefficaci quando, come loro presupposto e loro causa, si prende il fatto di appartenere a quel determinato ciclo. Non si sa poi che cosa debba succedere quando si saranno trascorsi tutti e sei cicli: forse la fine del mondo, oppure un eterno ricominciare da capo. -Questo esempio è caratteristico e mostra come uno studioso di non comuni qualità, ma privo di un chiaro concetto della metodologia storiografica possa perdersi in mitologemi di tipo addirittura pre-vichiano. -Il merito maggiore che rimane all'archeologia germanica, oltre ai grandi scavi sistematici, è quello di aver dato ordine sistematico ai materiali sui quali si basano i nostri studi. In Italia, fra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento, si erano pubblicate le prime raccolte di materiali, alcune delle quali, insuperate per vastità (come Antichità cristiane di Garrucci); ma purtroppo esse erano accompagnate da testi nei quali permanevano i residui della “antiquaria” accademica. -Dopo il glorioso periodo della scuola filologica, anche in Germania si cercò di superare i limiti di tale metodo. Il difetto fondamentale di tali studi è stato quello di volere incasellare i fatti fondamentali della storia entro sistemi rigidi e svolgimenti preordinati e di accusare in conseguenza di “asistematicità” tutti coloro che non hanno accettato tali schemi. È vero che in Italia è mancata una ricerca sistematica entro un piano organizzato di studi, ma si è andata formando tra noi la base di un pensiero critico e storiografico abbastanza unitario e maturo. In Germania il pensiero del Croce ebbe scarsa influenza perché è apparso “poco sistematico”. Ne fu influenzato Sedlmayer, che deriva dalla scuola storico-artistica viennese, nella quale Schlosser aveva introdotto una influenza crociana. Nel suo saggio, Zu einer strengen Kunstwissenschaft (Per una rigorosa scienza dell'arte), Sedlmayer risaliva al concetto di “struttura”, ossia cercava di ritrovare, attraverso la molteplicità delle opere d'arte, l'elemento che le lega ed è comune a tutte: scompare ai nostri occhi la molteplicità della storia, e si cade in un determinismo etnico e geografico o in costruzioni metafisiche. -Queste “ricerche di struttura” sono state perseguite, nel campo dell'arte antica, soprattutto da G. von Kaschnitz Weinberg che si cercò di definire la “struttura” dell'arte egiziana, dell'arte etrusca, dell'arte mediterranea in genere. Teoricamente questo indirizzo viene anche enunciato nell'introduzione alla Geschichte der griechischen Kunst di Matz. È questa un'ottima e aggiornatissima presentazione del materiale, ma la ricerca di “struttura” rimane pura enunciazione. -La storia dell'arte, invece, consiste nel definire le singole opere nella loro storicità individuale e nel legarle con la storia della cultura definendo il rapporto dell'opera d'arte con il suo determinato “ambiente”. In ogni opera d'arte dell'antichità, riconosciuto il forte legame delle tradizioni artigiane delle singole officine o scuole, la ricerca da condurre è duplice: da quali preesistenti schemi iconografici discende una data opera d'arte e in che cosa tali schemi vengono (o non vengono) innovati; da quali premesse ideologiche, programmatiche o non, ne viene determinato il contenuto. Per rispondere a questo secondo quesito occorre allargare la nostra conoscenza alle situazioni culturali in senso lato (correnti di pensiero; istituti giuridici; condizioni sociali ed economiche determinanti). Per definire le personalità artistiche occorre giungere ad un giudizio qualitativo di valore universale, che è possibile solo attraverso l'analisi dell'opera d'arte in relazione alle categorie dell'estetica. Ma poi occorre storicizzare questo giudizio, inserendolo nella serie delle altre opere coeve. Per giungere ad un valido giudizio qualitativo è necessaria la capacità di analisi critica che sa intendere il significato espressivo delle forme dell’opera. Tali qualità diagnostiche sono in parte innate ma lo studio, guidato da una retta metodologia, può affinarle. Va tuttavia considerata illusoria, in questo campo, la ricerca di un metodo “scientifico” applicabile da chiunque. -In Germania le categorie e gli schemi di Wölfflin furono esaminati da Rodenwaldt non per discuterne la validità, ma per esaminare la loro applicabilità all'arte antica: egli concludeva che esisteva una perfetta identità tra il periodo “classico” moderno e quello antico, mentre vi è una differenza sostanziale per il periodo “barocco”; si cadeva, anche qui, in uno schematismo di “categorie”. -H. Rose nell'opera Klassik als künstlerische Denkform des Abendlandes (La classicità come estrinsecazione del pensiero artistico occidentale) concludeva che non si possono trovare identità assolute di linguaggio fra l'antico e il moderno, ma posizioni omologhe nel corso dello svolgimento storico, sempre accettando a priori le categorie di Wölfflin. Per i periodi più storicamente noti è facile identificare le singole personalità artistiche: man mano che si è affinata la nostra conoscenza di un determinato periodo si sono potute attribuire a scolari e seguaci opere che un tempo si ritenevano di un solo Maestro, e si sono potute ricostruire le fasi iniziali di un Maestro riconoscendo come sue opere che non gli venivano attribuite. Al contrario, per tutto il periodo arcaico della scultura, greca, si era trascurata la ricerca della personalità artistica, limitandosi alla suddivisione in tre scuole: dorica, ionica e attica. Si è visto poi come questi schemi fossero largamente ingannevoli: pezzi come la Kore di Lione, definita ionica per il tipico modo di vestire e per il luogo di ritrovamento, sono stati riconosciuti attici mediante l'analisi stilistica. Payne fu veramente uno dei pochissimi archeologi che abbiano fatto fare un passo avanti alla storia dell'arte antica. -Tale suddivisione in grandi gruppi si è, dunque, dimostrata non esatta e si cominciò a ricercare le singole individualità artistiche. Infatti l'impersonalità dell'opera d'arte “classica” non sussiste; siamo noi ancora incapaci di distinguere il molteplice nella unità.
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