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Riassunto - Introduzione all'Etruscologia di Gilda Bartoloni, Sintesi del corso di Storia Antica

Il riassunto è completo di capitoli e paragrafi per evitare di consultare l'intero manuale che ammonta ad oltre 400 pagine. Offre un'ampia prospettiva sulla civiltà etrusca, analizzando in modo completo reperti, usi e costumi dal fiorire allo spegnersi di questa popolazione.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto - Introduzione all'Etruscologia di Gilda Bartoloni e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! In INTRODUZIONE ALL’ETRUSCOLOGIA Riassunto 1 Introduzione Sin dall’antichità si ha degli Etruschi un concetto preciso e unitario, anzitutto espresso nel nome: i Greci li chiamavano Tirreni, i Romani Tusci (o Etrusci); mentre secondo Dionigi di Alicarnasso, retore e storico greco del I secolo a.C., il loro nome indigeno sarebbe Rasenna (attestato nei testi etruschi nella forma Rasna). Dionigi di Alicarnasso inoltre sostiene che questo popolo “assai antico” “sia per linguaggio che per modo di vivere non lo si ritrova affine ad alcun altro popolo”. L’Italia preromana è, infatti, caratterizzata da una notevole varietà etnico-culturale. Nel panorama dell’Italia preromana, nel periodo compreso fra l’inizio dell’età del ferro e tutto il V secolo, il comparto dell’Etruria si presenta come una realtà di grande coerenza e compattezza culturale. Si assiste a una più precoce definizione culturale nell’area dell’Italia meridionale e lungo le coste tirreniche rispetto a un più lento processo che sembra caratterizzare le altre popolazioni dell’Italia antica. Gli Etruschi, infatti, grazie al loro sottosuolo, ricco soprattutto di miniere, e alla loro posizione strategica sul mar Tirreno, sembrano aver sviluppato in anticipo una struttura socio-economica e, quindi, avviato il processo di formazione urbana. Pur mancando la testimonianza diretta di una tradizione letteraria originale, grazie all’abbondanza di documentazione archeologica, è stato possibile delineare in maniera coerente lo sviluppo della civiltà materiale e spirituale di questo popolo. Fin dalla fine del X e gli inizi del IX secolo a.C. l’Etruria si caratterizza per lo sviluppo del fenomeno urbano. L’origine delle città etrusche affonda le sue radici nel X secolo a. C., quando con un gran movimento di popolazione furono occupati i grandi pianori tufacei di Veio, Caere, Tarquinia e Vulci, nel meridione, o altopiani, dominanti laghi o spazi marini, come Vetulonia e Populonia, o, ancora, furono scelte alture che sorvegliano grandi itinerari di passaggio verso l’interno, come Volsinii (Orvieto) o Volterra. Gli Etruschi, venuti a contatto precocemente con il mondo greco coloniale, nel corso dell’VIII secolo a.C. modificano profondamente le proprie strutture attraverso un processo di acculturazione accelerato. La fase dell’VIII e VII sec. a.C. è caratterizzata dall’affermarsi della società gentilizia pronta a ricevere e ad accumulare quelle ricchezze che costituiscono l’effetto dello scambio. Attorno alla fine del VII sec. a.C. inizia un processo di accelerazione caratterizzato dal potenziamento e dall’organizzazione delle attività produttive, da una maggiore distribuzione della ricchezza, ben percepibile soprattutto nel mondo funerario dove le tombe, riservate a interi gruppi familiari, imitano nell’interno un’architettura domestica, in materiale non più deperibile. Tra la fine dell’VIII e l’inizio del VI secolo a.C. il bacino del mediterraneo viene trasformato in un ambiente culturalmente omogeneo, le cui radici affondavano nel mondo del vicino oriente. È la fase cosiddetta dell’”orientalizzante” e della sua diffusione verso ovest. Da questo ambito orientale sono importati per le corti occidentali oggetti di lusso – in oro, argento, bronzo, avorio, vetro e pietre preziose –, insieme a nuove soluzioni architettoniche e a simboli del rango principesco (scettri, flabelli ecc.). In una fase in cui il commercio non è ancora in mano a “professionisti” gli oggetti viaggiano carichi di un significato simbolico che va bene al di là del loro valore intrinseco, per quanto prezioso. Di grande aiuto nell’immaginare il modo di vivere delle aristocrazie del Mediterraneo sono i poemi omerici che, trascritti per la prima volta proprio alla fine dell’VIII secolo a.C., e ci consentono di comprendere sia il significato simbolico e il funzionamento ideologico degli oggetti di pregio. Se i calderoni bronzei richiamano la bollitura delle carni e gli spiedi alludono alla loro arrostitura, le coppe in oro e argento, spesso decorate con scene di caccia e di guerra, si riferiscono invece al consumo del vino, che evoca e sottolinea l’appartenenza a una medesima corporazione di famiglie di matrice aristocratica di 4 accosta la morfologia dei bassorilievi a quelli egizi dei piloni dei templi, e ancor più a Quintiliano, per cui la grande statuaria etrusca sarebbe stata persistentemente connotata di una “durezza” antinaturalistica confrontabile a quella propria dell’arte greca nelle sue manifestazioni più antiche. Concetti, che sarebbero stati ripresi da Winckelmann in poi, in tutta la discussione dei moderni. Infine, un vero incunabolo dell’etruscologia, intesa come scienza antiquaria globale della civiltà etrusca, può essere indicato nei venti libri (perduti) dei Tyrrhenica dell’imperatore Claudio. 1.2 Il Medioevo Manca tuttora uno studio monografico sulla fortuna degli Etruschi nel Medioevo. Se in Toscana e Lazio è documentato l’uso di urnette ellenistiche come reliquari, e si conoscono reimpieghi di cippi e frammenti di sarcofagi, non disponiamo di espliciti resoconti di rinvenimenti accidentali, né di ricerche mirate di monumenti etruschi. È interessante la segnalazione della scoperta di antiche ceramiche, sicuramente del tipo della terra sigillata, ma forse anche a figure nere e rosse, contenuta nel Libro della composizione del mondo e sue cagioni di Restoro d’Arezzo (1282). 1.3 La scoperta degli Etruschi È comprensibile che il tema degli antenati preromani trovasse spazio, nella riflessione del primo Umanesimo, entro l’ambito locale della Toscana e del Lazio. In Toscana è quasi subito evidente e inscindibile il nodo ideologico che intrecciava curiosità e nostalgia per le antichità locali all’ascesa economica e politica e alla famiglia dei Medici. Nel secolo XVI, tre rinvenimenti ravvicinati di grandi statue di bronzo – ad Arezzo, la Minerva nel 1541 e poi la Chimera nel 1553; nei pressi del lago Trasimeno, l’Arringatore (1566) – parvero dunque un impressionante concretamento di quell’utopia del passato. Poco importa che la Minerva non rivesta più ai nostri occhi alcun particolare carattere di esemplarità etrusca; o che l’Arringatore, datato nel II o nel I secolo a. C., sia rappresentativo di un mondo etrusco declinante e ormai romanizzato: quelle tre statue erano, in ogni caso, capolavori fino ad allora insospettati della cultura artistica di una Toscana più antica e non meno splendida di quella medicea. E poi c’era la Chimera, di questa Giorgio Vasari seppe cogliere con cultura di storico e sensibilità d’artista il carattere inequivocabilmente etrusco dell’opera per la stilizzazione attardata, subarcaica, della criniera. Il più rappresentativo prodotto storico-letterario di questa stagione medicea della primissima etruscologia è un’opera dal destino curioso: si tratta del De Etruria regali, in sette libri, composto agl’inizi del XVII secolo da Thomas Dempster, un giurista scozzese docente all’Università di Pisa – dalla quale peraltro dovette allontanarsi abbastanza precipitosamente nel 1619, per lo scandalo destato dalla moglie adultera; sicché il suo monumentale saggio di storia e civiltà etrusca, redatto in lingua latina e dedicato encomiasticamente al granduca Cosimo II, rimase del tutto inedito per circa un secolo. Il manoscritto, venuto in possesso di Thomas Coke, fu infatti da questo pubblicato, con supervisione determinante di Filippo Buonarroti, solo nel 1723-24. 1.4 Il Settecento, secolo degli Etruschi La ritardata pubblicazione del De Etruria regali fece sì che questo maturo prodotto dell’antiquaria rinascimentale avesse diffusione, di fatto, solo nel XVIII secolo, ponendo le premesse di una stagione di studi variegata e vivacissima, specie nel mondo letterario toscano. L’editore di Dempster, 5 Buonarroti, che discendeva dal grande Michelangelo ed era conoscitore e raccoglitore di antichità ed epigrafista, appartiene alla categoria degli studiosi seri. Un altro protagonista di buona caratura scientifica è il veronese Scipione Maffei, che al tema si accostò col suo “Ragionamento sopra gl’Itali primitivi” (1727) e incluse urne etrusche a rilievo nell’esemplare “Museo publico”, creato nella sua città. Ma l’interesse prevaricante per un’antichità radicata in territorio toscano delle numerose scoperte di materiali archeologici originò quel particolare filone dell’antiquaria settecentesca, avventuroso fino alla cosciente contraffazione del dato archeologico o epigrafico, che viene usualmente definito etruscheria o etruscomania. Ciò non fu di ostacolo all’acquisizione di nuovi documenti della civiltà etrusca, e anzi a modo loro la favorirono. Gli esiti migliori vanno indicati in raccolte di monumenti e trattazioni sistematiche, quali il “Museum Etruscum” del fiorentino Anton Francesco Gori (1737-43), le “Origini italiche” del volterrano monsignor Mario Guarnacci (1767-72) o le “Picturae Etruscorum in vasculis” di Giovanni Battista Passeri (1767-75). Fuori d’Italia la straordinaria esperienza di catalogazione di Anne-Claude-Philippe de Caylus che, nelle antiquités del suo Recueil (1752-67), inserì anche le etrusche, accanto a quelle egizie, greche, romane e celtiche. Per ciò che attiene alla storia dell’arte il primato spetta a Johann Joachim Winckelmann, all’arte etrusca sono del resto dedicate varie pagine significative di Winckelmann, dalla “Geschichte der Kunst der Alterthums” (1764) ai Monumenti antichi (1767), da cui si può desumere un modello di sviluppo tripartito confrontabile a quello proposto per l’arte greca. Delle tre fasi stilistiche apparve a Winckelmann più vicina alla qualità ellenica proprio quella finale, la terza, mentre il primo stile rimanderebbe al linguaggio egizio; e il secondo (“forzato e violento”) risulterebbe il più caratteristicamente etrusco. Il filologo Christian Gottlob Heyne, dalla fornitissima biblioteca universitaria di Göttingen, avendo disponibilità dei testi degli antiquari toscani, elaborò una diversa periodizzazione stilistica. Gli stili etruschi diventano cinque, perché l’egittizzante è preceduto dal primitivo indigeno e da quello chiamato “pelasgico”, e poi seguito da due fasi d’imitazione greca, una più arcaica e l’altra, cioè la quinta,più recente. Un terzo eminente studioso settecentesco dell’arte etrusca è l’abate Luigi Lanzi. Se ne dovranno almeno ricordare il “Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia” (1789, riedito postumo nel 1824) che, per correttezza di dottrina, serietà metodologica e ricchezza di spunti innovativi, è apparso testo fondativo di una nuova epoca degli studi etruschi; la “Storia pittorica dell’Italia” (1795-96, poi 1809), non meno apprezzata; e lo studio intitolato “De’ Vasi antichi dipinti volgarmente chiamati etruschi” (1806), che già coglieva con chiarezza la grecità di ceramiche figurate, a quel tempo erroneamente considerate etrusche. Punto di forza di Lanzi è il suo approccio da vero connaisseur che l’indusse a riproporre uno schema ternario, sì omologabile a quello winckelmanniano, con uno stile primitivo, quindi la fase più originalmente etrusca e, infine, una progressiva e irreversibile omogeneizzazione al linguaggio greco. 1.5 Il secolo delle scoperte archeologiche L’Ottocento è stato, come per la Grecia così per l’Etruria, il secolo delle scoperte archeologiche, in virtù di una frenetica attività di scavo, che alimentò un mercato antiquario vivacissimo sia in Italia sia all’estero e consentì la concentrazione dei reperti antichi in proprietà per lo più privata, sicché l’origine di quasi tutte le raccolte etrusche dei maggiori musei europei può essere ricondotta a nuclei collezionistici privati. Si privilegiò l’esplorazione delle tombe, molto più produttive dei resti 6 d’insediamenti abitativi, coi loro ricchi corredi di oreficerie e di ceramiche dipinte. Figure rappresentative di questa gran caccia al tesoro sono il principe Luciano Bonaparte, il marchese Giovanni Pietro Campana, spregiudicato banchiere e commerciante d’arte che scavò soprattutto a Cerveteri (Caere) e Vincenzo Campanari e i suoi figli, che si rifornivano prevalentemente a Vulci. Contemporaneamente l’Etruria d’Italia, in particolare il litorale maremmano e il Viterbese, entrano a far parte dell’itinerario archeologico del Grand Tour. Vere e proprie guide turistiche, pure destinate a lettori di lingua inglese sono il “Tour to the Sepulchres of Etruria” (1839) di Elizabeth Caroline Hamilton Gray e le “Cities and Cemeteries of Etruria” (1848) di George Dennis. I maggiori progressi dell’etruscologia ottocentesca si debbono alla scuola tedesca. Va menzionato Eduard Gerhard col suo “Rapporto intorno i vasi volcenti” (1831) che escluse in via definitiva l’etruscità della massima parte dei vasi figurati, in realtà greci, provenienti dalle necropoli di Vulci e il corpus degli specchi graffiti, pubblicato in più tomi, a partire dal 1840 (e infine completato da Adolf Klügmann e Gustav Körte nel 1897, quest’ultimo, in collaborazione con Heinrich Brunn, promosse un’altra fondamentale raccolta di monumenti, in lingua italiana, “I rilievi delle urne etrusche” (1870-1916). Il XIX secolo seppe produrre una sola trattazione d’insieme dell’arte etrusca, quella del francese Jules Martha (“L’art étrusque”, 1889), che non riesce ad andar oltre la riproposizione del pregiudizio winckelmanniano dell’inimitabilità dell’arte greca, cui quella etrusca si sarebbe imperfettamente conformata. Intorno alla metà del secolo s’era nel frattempo aperto per gli studi etruschi un nuovo orizzonte territoriale, quello della valle del Po, concretato in una serie di scoperte sensazionali a Villanova, a Marzabotto e nella stessa Bologna. Il dibattito sull’etruscità padana si tradusse nel dibattito medesimo sulle origini etrusche e italiche. Va ricordato fra i capostipiti di una linea ideologica filoitalica (perciò filoetrusca) e tendenzialmente antiromana, Giuseppe Micali (“L’Italia avanti il dominio dei Romani” 1810; “La Storia degli antichi popoli italiani” 1832; “I Monumenti inediti a illustrazione della storia degli antichi popoli italiani” 1844), che scorgeva nella diversificazione etnica della prima Italia una ricchezza di cultura e di libertà, poi mortificata dall’egemonia di Roma. Un capitolo molto importante della storia degli studi nel XIX seco lo è infine rappresentato dalla ricerca epigrafico-linguistica. I pochi maggiori problemi di lettura dei segni dell’alfabeto etrusco – che è un alfabeto greco occidentale, interessato da alcuni indispensabili adattamenti fonematici – erano stati affrontati e sostanzialmente risolti nella stagione pionieristica compresa fra Buonarroti e Lanzi; ma l’Ottocento segnò progressi di grande rilevanza, furono realizzate edizioni epigrafiche fondamentali – dal “Corpus Inscriptionum Italicarum” curato da Ariodante Fabretti (1867-78), coi relativi supplementi di Gian Francesco Gamurrini (1880); al “Corpus Inscriptionum Etruscarum”, promosso inizialmente da Carl Eugen Pauli (1893) e tuttora in corso di pubblicazione. In questo ambito, una straordinaria acquisizione del Museo di Zagabria per l’anno 1862 consiste nel Liber linteus zagabriensis: un calendario liturgico etrusco – il testo più lungo a noi pervenuto – trascritto su un telo di lino, da cui furono ritagliate le bende necessarie ad avvolgere una salma femminile, sepolta in Egitto secondo il costume funerario locale. 1.6 Il ritorno degli Etruschi (1919-42) Nei primi decenni del XX secolo la cultura italiana è luogo di una rinnovata stagione di entusiasmi etruschi. Il “ritorno” degli Etruschi è annunciato da un rinvenimento archeologico d’eccezione: si tratta delle statue fittili acroteriali del tempio del Portonaccio a Veio, riportate alla luce nel maggio 9 dell’intervento di scavo, perseguita in particolar modo da Carlo M. Lerici nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia. Un secondo momento significativo si registra a partire dallo scorcio degli anni Settanta, quando Andrea Carandini, Bruno d’Agostino e Daniele Manacorda si fanno promotori di un radicale rinnovamento nella tecnica dello scavo archeologico, come lo scavo cosiddetto “topografico”, che sterrava i muri superstiti, senza quasi considerazione dei rapporti fra gli strati, che ha avuto conseguenze di grande rilievo anche per l’etruscologia. Anche da ciò è derivata quella speciale attenzione all’evidenza dei siti urbani pluristratificati ai fini di un recupero integrale della storicità del paesaggio umano d’Etruria. 1.10 Novità epigrafiche Da tale accrescimento in via di acquisizione derivano novità importanti anche sul versante epigrafico e linguistico. Ne offrono esempio le tre laminette auree iscritte in etrusco e in fenicio, che furono rinvenute nel 1964 nella cosiddetta area C del santuario di Pyrgi (commemorative dell’edificazione e dedica di un tempio alla dea Ištar, da parte del re di Caere Thefarie Veliana). È più che probabile che da una stratificazione d’insediamento provenga anche l’ampio testo etrusco iscritto sulla bronzea Tavola di Cortona, appena pubblicata da Luigi Agostiniani e Francesco Nicosia (2000): documento notarile di età ellenistica inerente a proprietà fondiarie site nei pressi del lago Trasimeno, che costituisce fonte del più grande interesse per la ricostruzione del diritto etrusco, e ha arricchito in misura non trascurabile anche le nostre conoscenze lessicali. Nel frattempo, il progressivo affinamento degli strumenti repertoriali con apporto poi decisivo dell’informatizzazione, ha permesso sicuri passi avanti nell’interpretazione dei testi scritti (merito, del già citato Cristofani e di Giovanni Colonna, Carlo De Simone, Adriano Maggiani, Aldo L. Prosdocimi e, soprattutto, di Helmut Rix editore dell’antologia degli “Etruskische Texte”, 1991). 1.11 La storia dell’arte Gli ultimi anni Settanta e Ottanta sono risultati profondamente innovativi anche nell’ambito della storia dell’arte. Andava strutturandosi la nozione di un’arte “degli Etruschi” non organicamente “etrusca” – un’arte di tipo greco destinata a un pubblico non greco – e tendevano a radicalizzarsi i poli concettuali della produzione e del consumo. Veniva meno la critica d’arte, qual era stata intesa e praticata in pieno Novecento da studiosi di formazione neoidealistica convertendosi in una storia sociale dell’arte, dove esigenza primaria appariva definire lo status economico-sociale dei “produttori” e dei “consumatori” questi ultimi percepiti come coautori, a tutti gli effetti, del monumento antico. Emblematici di tale sensibilità e metodologicamente assai vicini oggi ci sembrano i bei saggi monografici di Cristofani (1978) e di Torelli (1985), accomunati anche dal titolo “L’arte degli Etruschi”. Fuori del dibattito italiano collochiamo l’approccio controcorrente di Otto J. Brendel, la cui trattazione della storia dell’arte etrusca (postuma: 1978) si concentrava soprattutto sui fenomeni del linguaggio formale. La particolare attenzione portata dagli studiosi italiani agli aspetti contenutistici dell’arte etrusca non poteva non confrontarsi con le proposte metodologiche dei seguaci di Aby Warburg († 1929). La scuola “iconologica”, nata e cresciuta presso la straordinaria biblioteca d’arte e l’istituto londinesi che da Warburg traggono nome e ispirazione, mette al centro dei suoi interessi il riconoscimento del significato essenziale e intrinseco dell’immagine. Nell’ambito dell’arte figurativa degli Etruschi, i primi esperimenti di esegesi si devono a Torelli per i dipinti 10 parietali delle tombe dell’Orco di Tarquinia, a Filippo Coarelli per la tomba François di Vulci, e a Françoise-Hélène Massa-Pairault per una pluralità di opere capitali dell’arte etrusca del periodo ellenistico. 1.12 L’etruscologo oggi L’etruscologo è una figura esclusiva della ricerca accademica italiana. Oggi la maggioranza degli etruscologi italiani viene da una formazione archeologica e classicistica; meno numerosi sono quelli di formazione protostorica o linguistica. Il modello, difeso e impersonato da Pallottino, dello studioso a tutto campo, archeologo, storico dell’arte e linguista, ha trovato rispondenza solo in alcuni dei suoi allievi (Colonna, Cristofani, Roncalli) o in eccellenti allievi dei suoi allievi (Maggiani), ma non è divenuto regola e prassi generalmente condivisa. 11 2 Origine degli Etruschi 2.1 Introduzione Vale forse la pena di chiarire subito cosa si intende per “origine”. Acquisendo la definizione del dizionario (Devoto Oli) si intende il costituirsi iniziale di un fenomeno che continua nel tempo e al quale può essere o meno associata o addirittura sostituita l’idea di “provenienza”. Nel caso degli Etruschi il termine “origini” aveva infatti assunto negli studi precedenti l’opera di M. Pallottino una connotazione di “provenienza” che, a seguito della presa di posizione dello studioso nel 1947, si sarebbe via via stemperata avvicinandosi maggiormente all’idea di “formazione”. Il tema delle origini verrà dunque trattato qui dal punto di vista del pensiero e degli studi di M. Pallottino centrato sul concetto di “formazione” e sulla difficoltà, a differenza di altri popoli antichi e moderni, di risalire ai tempi più remoti. Le scoperte archeologiche degli ultimi vent’anni confermano che nelle maggiori città etrusche è accertabile una continuità di vita a partire dall’ultima fase dell’età del bronzo (XI-X secolo a.C.). Verranno in seguito esaminati gli sviluppi dell’opera di M. Pallottino negli studi di approfondimento sulle tre tesi vigenti nell’erudizione antica (provenienza pelasgica, lidia e autoctona), principalmente a opera di D. Briquel. Infine, ne verranno esaminati i risvolti nella ricerca linguistica e archeologica, che costituiscono nel pensiero di M. Pallottino fonte primaria di documentazione. 2.2 Massimo Pallottino e l’origine degli Etruschi: pensiero e studi Nel trattare le fasi culturali dell’Etruria Massimo Pallottino introduce quel concetto di formazione del popolo etrusco che avrebbe rivoluzionato la consuetudine invalsa fino a quel tempo di rappresentarne la storia in termini di provenienza o discendenza. Dopo aver tentato di ridimensionare la portata della controversia sulle origini aderendo ad un concetto di formazione molteplice e complessa (nel suo primo lavoro di sintesi dedicato agli Etruschi e nel capitolo “Il problema delle origini etrusche” della prima edizione di “Etruscologia”, Milano 1942), M. Pallottino dedicò alla questione un intero volume L’origine degli Etruschi (Roma 1947), nel quale possono dirsi fissati definitivamente i due concetti chiave della materia delle origini: “1) la discussione sulle origini interessa un campo limitato ai primordi della civiltà etrusca e non ne investe tutta la sostanza e lo sviluppo; 2) ai concetti di provenienza o di discendenza va sostituito un concetto di formazione”. Particolarmente interessante è la suddivisione in fasi, dalle culture eneolitiche all’epoca arcaica, espressa in una tabella (vedi tab. pag.50) dove la questione dell’eneolitico di Rinaldone è uno dei punti cruciali nella dialettica sulle origini degli Etruschi. Parimenti anticipa l’intensa questione dei contatti con il mondo greco. Venivano in tal modo poste le basi della ricerca linguistica sull’etrusco, quale aspetto inscindibile dalla questione delle origini e parte del processo di formazione che ha portato all’emergenza dell’etruscità storica. 2.2.1 La questione della provenienza Per esporre le teorie formulate tra il XVIII e il XX secolo e commentate da M. Pallottino sembra opportuno servirsi di tabelle contenenti ognuna i profili più caratteristici del popolo etrusco - individuati dallo Studioso a partire dal 1947 nei dati letterari, archeologici, linguistici ed epigrafici – e osservarne le diverse combinazioni proposte per comporre le tre tesi: orientale, autoctonista e 14 una condivisione da parte di tutte le popolazioni greche. Su altro versante le consuetudini volevano che si facesse riferimento a un vincolo di parentela ogniqualvolta popoli differenti intessevano relazioni diplomatiche. La tesi dell’autoctonia, improntata a considerare gli Etruschi come dei barbari, ha probabilmente rivestito fin dall’inizio in ambito greco la valenza negativa che assumerà con Dionigi di Alicarnasso, potrebbe trattarsi di un’invenzione della storiografia siracusana nel momento in cui il tiranno Dionigi lottava contro gli Etruschi per il controllo dei mari che bagnavano l’Italia, dal Tirreno all’Adriatico. In tale frangente i “barbari” Etruschi potevano essere così fatti segno di attacco da parte dei Greci. Nell’ottica di un vincolo di parentela potrebbero essere inquadrate invece le tesi che attribuiscono agli Etruschi un’origine lidia o pelasgica. Nella tesi di Erodoto si tratta di un caso di parentela nato forse alla corte dei potenti sovrani lidi. Si è invece già detto di come la tesi pelasgica adombrasse la volontà di fornire una giustificazione mitica agli stretti rapporti che legavano i Greci e gli Etruschi nel porto padano di Spina. 2.3.2 La percezione romana Soprattutto in epoca tardo-repubblicana e alto-imperiale romana viene ripresa la questione delle origini per ragioni propagandistiche nel momento in cui la politica di Augusto deve tenere conto dei rapporti di forza fra le diverse componenti dell’Italia antica, nel quadro della loro unificazione sotto l’egida di Roma. La diversità del popolo etrusco era chiaramente percepita dagli intellettuali di questo periodo fra cui il greco Dionigi di Alicarnasso che visse a Roma ventidue anni e scrisse venti volumi sulla storia di Roma, la città più potente del mondo allora conosciuto. Dionigi di Alicarnasso, “fondatore della questione etrusca”, è l’unico acceso sostenitore dell’autoctonia degli Etruschi. L’impressione di obiettività che lo scrittore trasmette nell’esporre le diverse tesi e nel confutarle è in realtà offuscata dalla prospettiva generale della sua storiografia di propaganda, volta a dimostrare ai suoi connazionali Greci il primato di Roma come “città greca” attraverso l’affermazione delle sue origini greche. Di primaria importanza per l’autore era infatti sostituire l’idea di Roma come “città etrusca”, che era la più accreditata presso i suoi connazionali. I Romani dovevano apparire così immigrati greci, diversi rispetto ai popoli circostanti, tra cui primi gli Etruschi, da considerare autoctoni e privi di tali prestigiosi ascendenti. Oltre a Dionigi di Alicarnasso altri storici di questo periodo – quali Valerio Anziate, Licinio Macer e ancora Tito Livio – appaiono, così come anche Orazio nella sua poesia, piuttosto reticenti nei confronti degli Etruschi e favorevoli invece alla componente “italica”. Forse per le ragioni dovute alla sua provenienza dall’etrusca Mantova, Virgilio (70 a.C.-19 a.C.) si pone in maniera diversa: usa indifferentemente i termini lidi ed etruschi e concilia la tradizione della provenienza etrusca dall’Asia Minore e quella dell’autoctonia nella leggenda del cortonese Dardano. Appare dunque chiaro, anche dal confronto con la posizione di Virgilio, operante nel medesimo contesto politico, come nell’opera di Dionigi di Alicarnasso i concetti di provenienza appaiano subordinati a un altro valore, ovvero a quello della differenza fra “greco” e “non-greco”. Infatti, gli Etruschi si configurano quale popolo prettamente locale e privo di qualsiasi parentela con un’altra razza, sia per lingua, sia per costumi. Un altro storico dell’epoca augustea, Tito Livio parla invece di continue ondate di invasioni celtiche nella valle padana che avrebbero isolato una porzione di Etruschi nell’estremo settentrione del territorio padano, secondo le tesi di M. Pallottino e A. L. Prosdocimi. 2.3.3 La percezione etrusca 15 Sembrerebbero potersi riconoscere almeno due posizioni differenti di matrice etrusca che si sarebbero alternate a seconda dei diversi quadri politici susseguitisi nel tempo. Nei miti “locali” etruschi quali per esempio la profezia di Vegoia (Chiusi), che narra della nascita della terra Aetruria dalle acque, o la nascita di Tages (Tarquinia), da una zolla nei campi arati da Tarconte attorno alla città, non si percepiscono riferimenti diretti a rapporti con il mondo greco o a qualche genere di movimento migratorio. Diversamente la dottrina dei saecula – che dimostra che gli Etruschi avevano memoria della propria identità, segna un inizio per la loro storia e la scandisce – potrebbe conciliarsi invece con un’origine allogena (di altra origine). 2.4 La ricerca nelle fonti di documentazione linguistica Un saggio di M. Pallottino titolava Il problema delle origini etrusche e la preminente incidenza del fatto linguistico nella sua discussione (1977). Vi sono molteplici elementi dell’etrusco che M. Pallottino valutava ponendo l’accento sulla difficoltà di dare una dimensione cronologica e geografica a un processo di convergenza dinamica di elementi di varia origine, ripresi da antiche tradizioni linguistiche locali e da apporti esterni. Questi elementi sono: 1. assonanze con lingue indeuropee in generale; 2. corrispondenze di radici e forme usate nel mediterraneo, specialmente nella penisola; 3. affinità nel campo dell’onomastica con ambienti linguistici d’Asia Minore; 4. nucleo lessicale senza confronti e dunque appartenenti a stratificazioni linguistiche remote. Si evidenzia la presenza di uno “spezzone linguistico” nella definizione di M. Pallottino, affine all’etrusco nell’area di Lemno, definita dagli antichi “tirrenica”, ma prima ancora “pelasgica”. Nel caso della lingua pregreca di Lemno vi è infatti convergenza nell’affermare la parentela con l’etrusco. La stretta parentela fra le due lingue, lemnio ed etrusco, è dimostrata in primo luogo dal fatto che gli alfabeti usati rispondono all’esigenza di fissare sistemi fonologici coincidenti in alcuni punti essenziali così come dal fatto che la morfologia coincide nel caso dei numerali. Più problematico in campo fonologico è ammettere invece una totale coincidenza fra i due sistemi per ciò che attiene alle lettere o/u: se nelle iscrizioni etrusche non esiste una lettera o, nelle iscrizioni lemnie non esiste la u. Tali evidenze riguardano comunque una lingua strutturata e aprono il problema del suo manifestarsi in due aree geografiche differenti. Ciò deve essere comunque avvenuto a seguito di un avvenimento preciso, provocato però da almeno uno dei due fenomeni di seguito ipotizzati: 1. per separazione non prima della tarda età del bronzo; 2. per migrazione da oriente a occidente, da Lemno all’Italia, o viceversa dall’Italia a Lemno. L’altra indicazione di parentela indirizza all’opposto connessioni morfologiche, lessicali, con il retico alpino, documentato all’incirca a partire dalla fine del VI secolo a.C. Questi elementi sono: 1. forme “genitivali” in -s, -ale; 2. probabili forme verbali (come mvlvainice, trinace ecc.); 16 3. congiunzione enclitica -k. In proposito M. Pallottino si chiedeva in quale misura potessero aver influito interscambi storici su questi accostamenti fra retico ed etrusco, avvenuti a seguito della presenza degli Etruschi nell’Italia settentrionale sin da tempi remoti. Si può così vedere come il tema della lingua si connetta a quello delle origini quale elemento chiave nella questione della formazione della “nazione” etrusca. A conclusione di questi aspetti linguistici risulta evidente come i nostri limiti siano da ricercare anche in questo caso nella ridotta conoscenza che abbiamo della civiltà etrusca anteriormente alle sue manifestazioni storiche quando la lingua, documentata dalle iscrizioni, risulta ormai definitivamente strutturata. 2.5 La ricerca nelle fonti di documentazione archeologica M. Pallottino ha attribuito a più riprese agli Etruschi le manifestazioni della cultura villanoviana che contraddistinguono dalla fine del X a gran parte dell’VIII secolo a.C. alcune aree della Penisola: l’attuale Toscana, dal Tevere all’Arno, la pianura padana, il Salernitano e i nuclei a se stanti di Fermo nel Piceno e a Sala Consilina nell’Enotria. Tale peculiare diffusione delle forme di popolamento dell’epoca villanoviana costituirebbe secondo lo studioso elemento indiziario ulteriore per far risalire all’età del bronzo finale (XII-X secolo a.C.) la fase formativa del popolo etrusco, se non ancora prima. Perciò l’iniziale costituirsi della nazione etrusca sarà da ricercare nel contesto della cultura protovillanoviana. Indubbio dunque è il legame esistente fra il costituirsi della “nazione” etrusca e il fenomeno villanoviano fin dal suo inizio. Dal punto di vista del tema delle origini sembra opportuno riprendere qui la questione sollevata da M. Pallottino in merito alla concomitanza di due fenomeni che appaiono fra loro legati. Questi due fenomeni sono: 1. affermarsi fra le popolazioni dell’Italia antica di una coscienza della propria individualità nazionale; 2. passaggio da popolamento distribuito in una pluralità di villaggi a uno incentrato su più vasti agglomerati proto-urbani. Evidenze che l’archeologia può restituire in merito a tali istanze sono: continuità delle sedi, circolazione e contatti tra gli uomini, segni del sacro che mostrino l’incardinarsi della comunità attorno a manifestazioni religiose condivise, nonché il fatto che le zone interessate dalle manifestazioni della cultura villanoviana corrispondono a quelle dove l’archeologia ha portato a luce attestazioni epigrafiche della lingua etrusca. il periodo che va dal VI al III secolo a.C. è connotato dall’esaltazione dell’elemento greco. Figure greche come Calcante o come Tiresia mettono in scena contenuti della scienza divinatoria etrusca. Queste figure si dispongono però accanto ad altri esseri mitici delle origini di tale scienza, radicati invece nel passato etrusco, come Vegoia, come Tages. L’avvenimento soprannaturale della nascita di quest’ultimo dalla terra di Tarquinia. si connette significativamente alla nascita del nomen Etruscum proprio perché l’Etrusca disciplina ne è la manifestazione più autentica. La scoperta nel “complesso monumentale” di Tarquinia di un fanciullo epilettico risalente al IX secolo a.C., deposto accanto a una cavità naturale fulcro dell’intera area sacra, può costituire una testimonianza eccezionale dell’antichità della leggenda. M. Bonghi Jovino, scopritrice del “complesso monumentale” di Tarquinia ha definito modalità e significato del 19 una sorta di “tesoretto”. Purtroppo, non esistono per la Toscana indagini a tappeto come per l’intera Etruria meridionale. Più documentata l’area di Radicofani con ben 6 unità topografiche ascrivibili al periodo in esame. A un momento finale del periodo è stato riferito il sito di Poggio la Croce a Radda in Chianti. Questi siti si presentano, in perfetta analogia con quanto conosciamo per l’Etruria meridionale, a una discreta altezza e difesi naturalmente. In ogni caso il comprensorio continua a essere scarsamente abitato nella successiva prima età del ferro e nell’orientalizzante. La zona costiera soprattutto alla foce dell’Arno e nell’area delle Colline Metallifere sembrano perdurare fino all’inizio dell’età del ferro. La maggior parte di questi siti appare strettamente correlata a corsi d’acqua. Ancora più intenso appare il popolamento nell’area più meridionale, corrispondente in età storica al territorio di Vetulonia. L’unico villaggio oggetto di scavi sistematici è quello di Poggio del Molino, che nel momento finale dell’età del bronzo (X secolo a.C.), appare interessato da un incremento dell’impianto abitativo, confermato da un’ampia e diversificata produzione locale di ceramica. Per quanto riguarda il rituale funerario si inizia ad avere una documentazione sistematica a partire dal XII secolo a.C., quando comincia ad apparire e a prevalere, la cremazione dei morti. Questo rito, si diffonde dalle Alpi alla Sicilia soprattutto nella fase finale dell’età del bronzo, con le necropoli generalmente definite “protovillanoviane”. Testimonianza del passaggio dal costume funerario inumatorio a quello incineratorio sono state considerate le tombe a tumulo della necropoli di Crostoletto di Lamone con deposizioni sia a inumazione che a cremazione, e il cui impianto risalirebbe al bronzo recente. Le strutture, il cui diametro variava dai 5 ai 14 m e la cui altezza raggiungeva il metro e mezzo, appaiono decisamente diverse da quelle più modeste di altri sepolcreti, dove l’urna si presenta deposta o direttamente nel pozzetto scavato nella terra oppure protetta da custodie di tufo o ciste di pietra. Come cinerario viene utilizzato quasi sempre un vaso biconico, coperto in genere da una scodella rovesciata. Talvolta le sepolture sono bisome, cioè in uno stesso pozzetto (o custodia a due posti) vengono deposti, contemporaneamente, due ossuari. Il momento più antico dell’uso dell’incinerazione (XII secolo a.C.) è caratterizzato da sepolture quasi completamente prive di corredo (esemplificativa la necropoli di Ponte San Pietro Valle, nel distretto del Fiora, inquadrabile per lo più nel XII secolo a.C.). Con il consolidarsi del rito dell’incinerazione anche alcune sepolture si arricchiscono indicativa la tomba isolata della valle del Campaccio (Allumiere) con oggetti di ornamento personale (fibula) di dimensioni eccezionali. Nella necropoli di Poggio la Pozza (Allumiere), della quale conosciamo in assoluto il maggior numero di sepolture di questo periodo, circa sessanta i corredi sono spesso caratterizzati da un notevole numero di vasi miniaturizzati, secondo un costume attestato nel Lazio. Altra analogia con l’ambiente laziale è costituito dall’utilizzazione di un modellino di capanna come cinerario, che doveva essere prerogativa di pochi, uomini e donne, emergenti nel gruppo di appartenenza. Il numero esiguo di tombe inoltre rende verosimile l’attribuzione di un rituale funerario formalizzato solo ad alcuni personaggi della comunità. 3.3 La rivoluzione villanoviana: l’occupazione dei grandi pianori e lo spopolamento del territorio Dopo una generale uniformità culturale, nel corso del X secolo si cominciano a delineare nell’Italia antica delle differenziazioni in ambiti equivalenti a grandi regioni o comparti territoriali Veneti, Etruschi, Latini, Sabini. La cultura che interessa il territorio occupato dagli Etruschi viene definita villanoviana. Per “villanoviano” s’intende un sistema di consuetudini, un’espressione tipica di civiltà 20 della zona che sarà storicamente etrusca, cioè quella grande area che attraversa diagonalmente l’Italia, dal bacino orientale del Po al Tirreno centrale fino al Tevere, e che da lì si espanse verso la Campania. La denominazione deriva dalla scoperta casuale avvenuta nel 1853 a Villanova a opera di Giovanni Gozzadini di una serie di tombe a cremazione: il rito è caratterizzato dalla deposizione dei resti ossei in vasi d’impasto (cioè di argilla non depurata lavorata a mano e cotta a temperatura non troppo elevata) biconici, a causa della loro forma (quasi di due tronchi di cono sovrapposti), coperti per lo più da ciotole anch’esse d’impasto nero; dalla presenza di oggetti di ornamento (fibule, braccialetti, collane, armi, rasoi, utensili) e di ceramiche sempre d’impasto (brocche, ciotole, scodelle ecc.). Questa definizione fu poi estesa a esemplificare le analoghe manifestazioni funerarie di Bologna, Tarquinia, Bisenzio e di altri siti dell’Etruria tirrenica. Molti sono gli elementi di continuità che legano il villanoviano ai caratteri culturali del Bronzo finale: il rituale funerario dell’incinerazione, l’uso dell’ossuario biconico e la tipologia e la lavorazione degli oggetti metallici, pertinenti ai corredi funerari. Nel IX secolo a.C. il territorio appare diviso in grandi comprensori facenti capo a un grande villaggio. Rispetto al periodo precedente il tipo di aggregazione è caratterizzato da una maggior concentrazione della popolazione. Per esempio, a Vulci, si raggruppano le genti del distretto del Fiora e di quello dell’Albegna, mentre a Veio le comunità che abitavano dal lago di Bracciano al Tevere, comprese l’area falisca e capenate. Questi ampi pianori appaiono scelti, oltre che per l’estensione e l’accessibilità, per la possibilità di risorse esistenti nelle loro immediate vicinanze (colture, pascoli, metalli ecc.) e per la loro localizzazione in prossimità di approdi costieri (come Vulci, Tarquinia, Cerveteri), fluviali (come Orvieto e Veio), lacustri (come Bisenzio). Sono preferiti ambienti collinari dove si possono sfruttare terre arabili estese e asciutte, quindi distanti dal mare, dalle lagune costiere e dai fiumi almeno 4-5 km. Sulla linea di costa e sulla riva dei laghi appaiono ubicati nuclei di minor entità e in genere satelliti dei centri maggiori (come l’insediamento di Torre Valdaliga sopra Civitavecchia, da ritenere con molta probabilità un approdo riferibile al gruppo tarquiniese). Il grosso movimento di popolazione che caratterizza questo periodo è impensabile senza organismi politici capaci di imporre le loro decisioni alle singole comunità di villaggio. Le sedi delle future città-stato etrusche hanno tra loro collegamenti culturali testimoniati dalla produzione artigianale, tali da far presupporre l’afferenza a una medesima unità politica. Forti indizi del mutamento del rapporto con il territorio si ricavano nella tendenza a concentrare la popolazione in sedi di pianura, circondate da ampi territori coltivabili. Appare difficile pensare che lo sfruttamento delle risorse di alcune centinaia di chilometri quadrati si potesse attuare in una situazione nella quale la terra era ancora prevalentemente di proprietà comune: non sembra perciò del tutto arrischiato postulare per quest’epoca una parcellizzazione della proprietà. Illuminante è il caso di Tarquinia, dove all’insediamento del pianoro della Civita, sede della futura città storica, si affiancano su altopiani limitrofi l’abitato del Calvario quello dell’Infernaccio e Tarquinia moderna. A Veio, differentemente da Tarquinia e Vulci, il pianoro non sembra occupato prima dell’inizio dell’età del ferro (inizio IX secolo a.C.). Le ricognizioni e gli scavi stanno mostrando un’occupazione rada, a piccoli gruppi, ma dislocata su tutto il pianoro. L’unico complesso, per ora messo in luce, è quello di Piazza d’Armi. È possibile ricostruire per questo periodo un’articolazione del pianoro in diverse contrade o “quartieri”, autosufficienti, cioè costituiti ciascuno da strutture abitative, da strutture produttive e forse luoghi per il culto verosimilmente locale. Meglio degli abitati conosciamo le necropoli (a nord Quattro Fontanili, Grotta Gramiccia, a sud-ovest Valle la Fata, quest’ultima 21 caratterizzata da corredi ricchi di indicatori di status). Già all’inizio del IX secolo a.C., quindi, esistevano sul pianoro di Veio almeno due quartieri di cui quello settentrionale molto più denso demograficamente. Il modello insediativo è quello di un abitato ubicato su un pianoro di grandi dimensioni (Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci) o su una collina-acrocoro di media grandezza (Orvieto- Volsinii, Vetulonia, Volterra) e di due necropoli o due gruppi di necropoli poste generalmente a settentrione e a meridione, ma anche a oriente e occidente. Una di queste appare come la principale, l’altra, numericamente inferiore, presenta caratteri di eccellenza. Esemplificativa è Vetulonia dove, al numeroso gruppo di Poggio alla Guardia e di Poggio alle Birbe si contrappone quello di Colle Baroncio. Talvolta al nucleo abitativo principale se ne affianca uno minore, posto nelle immediate vicinanze, la cui vita è generalmente limitata alla fase iniziale. Sembrerebbero appartenere a questa tipologia le vicine necropoli di Poggio Calvello e Nomadelfia (stessa cosa per Volterra e Chiusi e probabilmente Fiesole). Completamente diverso appare lo sviluppo di Pisa facente capo a un territorio di tipo lagunare L’abitato, posto a nord dell’Arno e vicino alla vecchia confluenza dell’Auser nell’Arno, è stato riconosciuto nell’area Scheibler, a nord le necropoli, articolate per gruppi familiari. Il tipo di insediamento, decisamente in area di pianura strettamente legato a corsi d’acqua, può essere paragonato a quello di Bologna. L’ubicazione di Populonia appare eccezionale a differenza degli altri siti principali etruschi, infatti, ubicati su alture e distanti dal mare o da lagune costiere questa è l’unica città posta direttamente sul mare. L’area abitata sembra concentrata nell’area del promontorio soprastante del golfo di Baratti. 3.4 La diffusione della cultura villanoviana L’area nella quale si estende sin dal suo apparire la cultura villanoviana non si limita al territorio dell’Etruria propria. Oltre al villanoviano tosco-laziale si distinguono nel Nord un villanoviano emiliano, che comprende la regione a sud della pianura padana, facente capo a Bologna, e un villanoviano romagnolo con testimonianze soprattutto nel riminese, a Verucchio; nel centro della penisola è attestato un nucleo a Fermo (Ascoli Piceno), del tutto isolato, mentre nel Sud caratteri villanoviani si riconoscono a Capua e nel salernitano, con le necropoli di Pontecagnano, l’Arenosola e Capodifiume, presso Paestum, probabile testa di ponte, verso l’altro grande nucleo villanoviano meridionale, quello di Sala Consilina. Non solo si notano affinità nel costume funerario ma anche nella tipologia degli insediamenti e delle necropoli. A dare una certa verosimiglianza alla presenza di genti etrusche in queste propaggini “villanoviane”, vi sono le fonti storiche ed epigrafiche. Da una parte si hanno le notizie pervenuteci dagli autori antichi, quale quella di Plinio (che afferma che “il territorio lungo tremila passi che si stende dalla penisola sorrentina al fiume Sele appartenne agli Etruschi”); o quella di Verrio Flacco (che riteneva i Tarquiniesi, responsabili della fondazione delle dodici città dell’Etruria padana); dall’altra, di notevole interesse si presenta la testimonianza a Bologna dell’uso della scrittura etrusca a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C.. La constatazione che l’espansione villanoviana tocca le principali e più fertili zone del centro Italia ha indotto a considerare la ricerca di terre quale molla principale di tali movimenti. A Bologna sono attribuibili al pieno IX secolo a.C. le necropoli di Savena e San Vitale con tombe a buca rivestita talvolta di ciottoli o da lastre di arenaria che contenevano l’ossuario biconico e pochi oggetti di bronzo; grossi ciottoli fluviali segnalavano la tomba all’esterno. Dall’inizio dell’VIII secolo a.C. anche se prosegue l’uso dei sepolcreti di Savena e San Vitale, comincia l’uso delle necropoli occidentali fuori porta Sant’Isaia che 24 3.6 RAPPORTI E SCAMBI CON GENTI DI ALTRE CULTURE Dopo due/tre generazioni dall’avvento della cosiddetta rivoluzione villanoviana i corredi, in precedenza sobri, si arricchiscono di elementi accessori, di segni indicanti il prestigio, di oggetti attestanti un frequente scambio tra le comunità etrusche e altre comunità, specie quelle della Sardegna. Accanto all’incinerazione appare l’inumazione in fosse terragne (eccezionalmente a Populonia in tombe a camera con copertura a pseudo-volta). Il morto era disteso supino completamente abbigliato: con più ornamenti le donne, con le armi gli uomini e ambedue i sessi con corredo vascolare. Questo costituito per lo più da vasellame ceramico appare usuale in tutte le deposizioni sia a inumazione che a incinerazione. Le armi sono maggiormente attestate (e legate ad elementi come urne a capanna, bastoni da comando ecc.); più diffusi, tra le deposizioni maschili, sono i corredi con elmo e rasoio; eccezionali quelli con elmo (per lo più di bronzo), rasoio, spada e lancia. Si evidenzia quindi una generale trasformazione nel rituale funerario, per cui il corredo da rigorosamente “povero” diventa solitamente più articolato. Deposizioni maschili e femminili si distinguono: o per l’uso di tombe monumentali (a camera, a fossa o a pozzo con particolari coperture) o per presenza di oggetti preziosi, quali armi, vasellame, oggetti di ornamento in bronzo e in materiale più prezioso. Questi cambiamenti nell’ideologia funeraria, che indicano un processo di trasformazione sociale in atto, non trovano corrispettivi mutamenti nell’assetto territoriale. Dall’esame delle necropoli si deduce un forte incremento demografico dei singoli villaggi, nonostante la forte mortalità infantile e dalle analisi dei corredi emerge l’unitarietà materiale e ideologica dei gruppi gravitanti intorno all’altopiano. Dalla fine del IX secolo si assiste in Italia a scambi tra le varie comunità. Le relazioni con le altre comunità di cultura villanoviana (nell’area padana e nel Salernitano) sono evidenziate dalla presenza di manufatti bronzei. Prodotti bolognesi appaiono diffusi in Etruria (specie a Populonia e Vetulonia e a Veio), già dalla fine del IX e di più nell’VIII secolo a.C.: si tratta di rasoi e fibule, oggetti (molto diffusi in tutti i corredi villanoviani). La presenza nei corredi funerari di recipienti e armi da difesa (elmi e poi scudi), indica a partire dal IX secolo a.C. una produzione toreutica1, i cui modelli, fogge e tecniche appaiono legati ad un ambito transalpino e centro-settentrionale. Se i centri dell’Etruria mineraria risultano maggiormente interessate ai rapporti con le isole del Tirreno, quelli dell’Etruria meridionale costiera (Tarquinia e Vulci) sembrano controllare i traffici lungo la costa tirrenica. 1 = L’arte di lavorare il metallo in incavo e a rilievo. 25 La Sardegna nuragica2 con le sue risorse di metallo e la tradizione bronzistica miceneo-cipriota, era un’area di grandi attrattive per gli abitanti dei distretti metalliferi della Toscana e del Lazio settentrionale interessati alla metallurgia. Diffusissimi in Etruria e nel salernitano nei corredi funerari datati alla fine del IX secolo a.C., sono bronzetti sardi, quali le appliques-bottoni (piccoli oggetti troncoconici con coronamento plastico a protomi ornitomorfe o di altri animali), i pendenti o le faretrine votive. • Importanti sono tre bronzetti nuragici rinvenuti in una tomba femminile vulcente dello (IX secolo a.C.), attribuita a una donna sarda di alto rango venuta sposa in Etruria: una statuetta di un sacerdote-pugilatore, un cesto ed uno sgabello in miniatura. • A Populonia → materiali sardi (navicella e spada) sono attestati anche in un ambito non funerario (= deposito costituito da oggetti integri) il luogo di rinvenimento fa pensare ad un deposito rituale (rito di fondazione?). • A genti sarde trasferitesi in Etruria può essere attribuita la produzione di manufatti bronzei (tazze con anse a globetti) o ceramici (brocche a collo obliquo), rinvenuti nei contesti villanoviani. • Viceversa, oggetti di produzione etrusca (fibule, rasoi, spade) sono attestati in contesti nuragici. Questa documentazione archeologica richiama la tradizione riferita da Strabone, che ricorda come la Sardegna fosse sottoposta agli Etruschi prima della colonizzazione cartaginese. La moda nuragica che investe le coste della penisola con il movimento di oggetti e persone (alla fine della fase più antica del villanoviano) può essere collegata con la fase finale della produzione bronzistica nuragica. Non è da escludere, infatti, che l’impulso alle attività metallurgiche dell’Etruria mineraria sia dovuto alla presenza di artigiani metallurgici sardi, disturbati dal contatto con i fenici (non favorevole per i nuraghi) e quindi alla ricerca di nuovi committenti e spazi. Una serie di elementi testimonia, inoltre, contatti fra l’Etruria e l’area lucano-calabra (Enotria), dalla fine del IX secolo a.C. Alcuni vasi di ceramica di argilla depurata con decorazione a motivi geometrici caratteristici (angoli pieni o “a tenda”, meandri, gruppi di trattini verticali, triangoli radiali sull’orlo) sono importati a Tarquinia e a Vulci dal IX secolo a.C. da centri della costa ionica. Inoltre, vi sono altri oggetti di bronzo, rinvenuti in Etruria, o coltelli di bronzo di tipo “Spezzano-Calabro” diffuso esclusivamente in Calabria, ma attestato eccezionalmente anche a Tarquinia, o rasoi bitaglienti, tra cui il “tipo Cairano”. • Frutto di questi contatti non occasionali può considerarsi l’ossuario biconico dipinto in bruno dalla necropoli veiente di Valle la Fata; vaso di forma e decorazione locali, ma che testimonia il manifestarsi di nuove decorazioni derivate da influssi culturali meridionali. 2 = Civiltà nuragica sviluppatasi in Sardegna in età del Bronzo (1800 a.C. – II sec. d.C.) invece la zona della Barbagia (centro orientale) durò più a lungo (fino al VI sec. d.C.); deve il suo nome ai “nuraghi” = costruzioni megalitiche in pietra. 26 3.7 LA NASCITA DELL’ARISTOCRAZIA Era comune a tutte le organizzazioni politiche dell’antichità il formarsi di ristretti gruppi di persone che ricoprivano ruoli di governo più importanti rispetto al resto della popolazione; posizioni che presto divenne ereditaria (aristocrazia di sangue). Più ci si allontana dai primi decenni dell’VIII secolo a.C., è più evidente il processo di differenziazione economica sociale, palese nelle tombe, che contengono materiale sempre più numeroso e ricco, mostrando segni di dislivello sociale. Si delinea così un élite in cui la donna è privilegiata quanto l’uomo e riceve uguale profusione di beni. Generalmente la nascita dell’aristocrazia medio-tirrenica è fissata nel corso dell’VIII secolo a.C. Nelle comunità emergono alcuni corredi maschili (in genere di guerrieri) e femminili. Gli uomini sono connotati come guerrieri possessori di carro; elementi essenziali dell’armamento sono: lo scudo circolare di lamina di bronzo decorato a sbalzo con una maniglia interna, l’elmo crestato con tubicini orizzontali alla base, la spada di ferro con fodero in bronzo, lance di ferro e di bronzo; più rare le asce. • A Bologna → le armi non appaiono deposte nelle tombe (per un probabile divieto rituale), la figura del guerriero è raffigurato nell’askos del corredo in gran parte miniaturizzato (ossuario, carro). Il contatto con genti del Mediterraneo orientale, dai primi anni dell’VIII secolo a.C., risulta largamente attestato nei decenni centrali dello stesso secolo. L’impulso a questi scambi è attribuibile alle comunità dell’Etruria meridionale (Tarquinia soprattutto) dove il processo di urbanizzazione (quindi di differenziazione sociale) appare in anticipo rispetto alle altre zone dell’Italia anche tirrenica. I corredi funebri nelle varie comunità (a parte le norme funerarie connesse alla scelta del rito inumatorio o incineratorio) sembrano omogenei. Oltre agli oggetti di prestigio rinvenuti in tombe di ambo i sessi, le deposizioni maschili sono evidenziati dalle armi in varie combinazioni, quelle femminili dagli ornamenti pertinenti a ricche acconciature e da fuseruole e rocchetti di impasto accompagnati talvolta da fusi e conocchie in bronzo. I corredi mostrano un arricchimento importante con l’attestazione di manufatti di provenienza orientale e greca: sigilli, scarabei, pendagli (sembrano essere il materiale prediletto dalle nascenti aristocrazie locali) e anche mancano vasi, • come attesta il ritrovamento a Tarquinia di una brocchetta “fenicio-cipriota” di un tipo largamente diffuso in tutti gli stanziamenti fenici, da Cipro a Malaga, databile all’inizio dell’VIII secolo a.C. Nei sepolcreti le tombe sono raggruppate per piccoli gruppi famigliari: • L’esame della stratigrafia orizzontale dei sepolcreti di Veio, per es., evidenzia una articolazione delle tombe in gruppi consistenti, probabilmente pertinenti a gruppi famigliari allargati, riconoscibili in base alla loro disposizione sul terreno e per la concomitanza di caratteri peculiari del rituale e del corredo. 29 Le merci e gli artigiani indicavano frequenti movimenti, ma vi era anche una fervida attività aristocratica (legami matrimoniali, ricerca di ulteriore prestigio e potere, l’uso di doni fra personaggi eminenti, come armi o vasi decorati = una delle numerose forme di trasferimento dei beni). La gestione degli scambi appare prerogativa di alcune figure maschili connotate come guerrieri e riconoscibili per le ricche panoplie attestate nelle sepolture, poste al centro dalle tombe dei membri dello stesso clan familiare. I CENTO ANNI CHE VANNO DALLA METÀ DELL’VIII A QUELLA DEL VII SECOLO A.C. POSSONO ESSERE CONSIDERATI CRUCIALI PER LE INNOVAZIONI CHE PORTANO AL PASSAGGIO DAI GRANDI CENTRI PROTOURBANI ALLE POLEIS DI TIPO GRECO E DALLA LINGUA ORALE A QUELLA SCRITTA. 3.9 L’INCONTRO CON IL MONDO GRECO Notevole impulso all’accelerazione del processo di formazione urbana delle comunità dell’Italia tirrenica viene attribuito al contatto con le comunità greco-euboiche stanziatesi nel golfo di Napoli a partire dal 770 a.C. ca. Le comunità indigene stabiliscono con i primi immigrati greci e con i prospectores venuti in ricognizione, consistenti rapporti. La testimonianza materiale più rilevante di scambi tra comunità indigene e genti greche è la presenza nei corredi funerari di Tarquinia, Cerveteri e Veio, di coppe biansate, di produzione per lo più euboica, dipinte sulla vasca nella zona tra le anse con ornato a semicerchi pendenti nelle più antiche, a “chevrons”, o con metope a uccello nelle più recenti. Vengono assimilate inizialmente tecniche e modelli figurativi e poi modelli più propriamente culturali (con l’introduzione, per es., della scrittura, di un nuovo metodo di banchettare, di un’ideologia funeraria eroica = cioè un nuovo modo di vivere aristocratico), tali da mutare profondamente la fisionomia della società etrusca. La causa principale del sorgere di questi contatti deve essere ed è stata attribuita all’interesse dei Greci per lo sfruttamento delle colline metallifere etrusche. Le comunità con cui vengono in contatto i Greci appaiono ampiamente articolate, abituate a contatti con popolazioni sia di simile sia di diversa cultura, interessate agli scambi e pronte a ricevere stimoli dall’esterno. Ne è prova l’accoglimento delle nuove tecniche ceramiche e quindi di artigiani stranieri. Inizialmente vengono assimilate le nuove tecniche e schemi figurativi stranieri e poi i modelli culturali, quali l’uso cerimoniale del banchetto o l’ideologia funeraria eroica = cioè un nuovo modo di vivere aristocratico, tali da mutare la fisionomia della società tirrenica. È anche opinione che si debba ai Greci l’introduzione della viticoltura in Etruria e nel Lazio; in questo periodo però sia in Etruria sia nel Lazio si rileva una produzione massiccia di vasi connessi con il vino: crateri, olle, sostegni per olle e crateri, tazze a due manici (kantharoi), imitanti i modelli greci. Quello che viene introdotto sicuramente dai Greci quindi è il consumo cerimoniale del vino, che diviene elemento distintivo dei gruppi aristocratici. Strettamente legata al contatto con il mondo greco è anche la nuova produzione di vasi, dapprima in argilla depurata, poi anche in impasto sottile eseguito al tornio veloce e cotta in forni a temperatura elevata. Inoltre, nei corredi funerari dell’VIII 30 secolo a.C. l’aumento di oggetti di ferro, come armi, utensili e ornamenti, deve essere attribuito ad un incremento, della tecnologia relativa alla lavorazione di questo metallo, tecnologia fortemente sviluppata nel mondo egeo e la cui trasmissione facilitata dai contatti con le popolazioni orientali. È convinzione generale, infatti, che le sofisticate tecniche di lavorazione di molti generi di artigianato presuppongano un apprendistato ricevuto da artigiani greci e orientali, detentori di un sapere più avanzato, stanziati o itineranti nelle varie località. Un elemento significativo di questa fase è, dunque, la trasmissione di nuove tecnologie più che l’importazione di oggetti greci od orientali. Tale fenomeno apparve di notevole importanza anche agli autori antichi. Lo sviluppo delle tecniche ceramiche e metallurgiche porta alla definizione dell’artigiano a tempo pieno, che riesce a ricavare dalla propria attività i mezzi sufficienti per vivere. 3.10 LA NASCITA DI UN POTERE CENTRALE Gli aristocratici etruschi tendono a presentarsi come un rex all’interno del proprio nucleo, sia esso la familia più o meno allargata o la gens, la curia o il populus. • A Veio dagli anni centrali dell’VIII secolo a.C. per tutto il VII e la prima metà del VI si riconoscono figure di capi che presentano notevoli analogie con quelle dei sette re di Roma, quali ci riferisce la più antica storia di Roma. Le ricerche topografiche e gli scavi hanno messo in evidenza la forte ingerenza di Veio dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. nel territorio circostante, in particolare verso la foce del Tevere3. - Nella tomba 1036 della necropoli veiente di Casal del Fosso: il defunto è coperto da due scudi bilobati; il resto dell’armatura è costituito dall’elmo crestato, dalla corazza costituita da due dischi di lamina di bronzo, da due spade, da lance e dal currus individuato dai due morsi equini di bronzo. Corredano la deposizione uno scettro, una mazza e due vasi di bronzo d’importazione danubiana. L’armatura composta di corazza, di doppi scudi, di spada e di lancia appare usuale nelle tombe laziali di X sec. a.C. L’utilizzo di questo tipo di armatura appare, quindi, di carattere simbolico e rituale. Al sacerdozio dei Salii fondata da Numa (ma attestato anche in epoca più tarda sia in ambito latino sia etrusco) → è stato collegato il personaggio deposto nella tomba 3 Ciò trova riscontro nelle leggende relative alle guerre tra Roma e Veio sotto Romolo con la successiva pace dei cento anni. A una figura di guerriero dotato di tutti i poteri del comando, sepolto con lo speciale rito incineratorio e con le ceneri raccolte in un prezioso ossuario di bronzo coperto da elmo e protetto da uno scudo con evidente significato antropomorfo, la cui morte deve essere datata nei decenni posteriori alla metà dell’VIII secolo a.C., segue quella di un re fortemente connotato per il suo valore nelle istituzioni religiose, esattamente come la tradizione ci riferisce per il secondo re di Roma, Numa Pompilio. 31 veiente. Strettamente legata al culto dei Salii è anche la mazza da battere sugli ancilia, (= sugli scudi bilobati). - Sempre nella stessa necropoli la tomba 871 → (di un ventennio più tarda) presenta anch’essa caratteri di eccezionalità: un elmo con cresta altissima, un flabello trapezoidale, un’armatura completa, uno scettro e un poggiapiedi, simbolo indubbio del trono e forse un rython di bronzo di origine assira. Evidente appare il voluto riferimento a un monarca orientale. Gli scavi negli abitati evidenziano strutture emergenti rispetto alle comuni capanne d’abitazione. Queste grandi capanne di legno, articolate in più ambienti e corredate da portici e cortili, possono essere considerate residenze regali. Nelle “case del re”, veri centri politici e istituzionali della comunità, si svolgevano azioni comunitarie, con rituali collegati a banchetti. Presso queste grandi capanne sono stati rinvenuti deposizioni rituali di vasellame, legato a un’unica cerimonia collettiva. • A Populonia, sul Poggio del Telegrafo e del Mulino→ il rinvenimento di circa 100 tazze in un buco di palo ha fatto ipotizzare una cerimonia legata alla riedificazione della struttura, legata ad un personaggio eminente e quindi probabilmente a una nuova leadership. Queste tazze al centro della struttura fanno pensare a una cerimonia svoltasi nel vano centrale, adibito a riunioni per i rappresentanti dell’intera comunità. Per il numero delle tazze (= dei partecipanti) ovvio è il riferimento all’assemblea di 100 anziani, che ricorda gli scritti di Omero tra i numerosi riferimenti nell’Iliade e nell’Odissea ai banchetti e ai simposia consumati nelle assemblee di capi e anziani. Con una libagione di cento individui rappresentanti le diverse famiglie aristocratiche di Populonia, all’inizio della fase orientalizzante, si è voluto quindi testimoniare e ritualizzare la distruzione della casa del re e probabilmente celebrare l’assunzione al potere di una nuova leadership nel comparto di Populonia. 3.11 L’ETRURIA DEI PRINCIPI E IL MODELLO ORIENTALE E GRECO Tra l’VIII e l’inizio del VI sec. a.C. gli uomini che si spostarono per fondare colonie o per creare nuove cerchie artigianali, trasformarono il bacino del Mediterraneo in un ambiente culturalmente omogeneo e permeato di simili ideologie, modi di vivere, di abitare o di oziare, le cui radici affondavano nel mondo del vicino Oriente. Tutto ciò veniva controllato da grandi famiglie aristocratiche, unite da rapporti di familiarità o di ospitalità. Le figure di questi “capi clan”, che nella deposizione funeraria vengono presentate come eroici principi-guerrieri, appaiono attestate in tutta l’Etruria. Il termine “basileus” (in greco = monarca) ricorre al plurale sia nell’Odissea, sia nell’esiodeo Le opere e i giorni per indicare un certo numero di uomini anche della medesima comunità, peraltro di dimensioni talvolta modeste. L’orizzonte dell’uomo omerico, infatti, è quello di piccole comunità, entro le quali il gruppo a cui egli appartiene e la famiglia sono gli unici parametri che lo identificano e gli assegnano un ruolo. Le ricchezze dell’aristocrazia sono costituite dalle terre, dal bestiame, dai servi. 34 Nei poemi omerici viene descritto con sufficiente ampiezza il ruolo della padrona di casa5. • Una chiara illustrazione delle attività svolte all’interno della casa dalle donne è offerta dalle raffigurazioni sulle due facce del “tintinnabulo” = pendaglio sonoro di probabile significato religioso, della tomba degli Ori dell’Arsenale di Bologna → da un lato la scena della filatura con la raffigurazione donne intente ad avvolgere lana grezza sulle conocchie e a filare con conocchia e fuso; dall’altro lato la scena della tessitura con la raffigurazione della preparazione dei fili dell’ordito e di una dama intenta a tessere Gli uomini servivano le proprie famiglie e i loro possedimenti come guerrieri; le donne invece dovevano generare e allevare guerrieri futuri. Tutte le donne erano destinate al matrimonio. La donna risulta portatrice di ricchezze e di nobili ascendenze. Il matrimonio appare lo strumento privilegiato di alleanza tra comunità (o famiglie); è un vincolo di relazioni politiche tra famiglie aristocratiche, oltre che di beni (hédna) che sanciscono l’alleanza contratta tra due famiglie. Le alleanze matrimoniali istituiscono vincoli molto stretti tra le grandi famiglie aristocratiche. Il matrimonio di uno straniero con una donna della terra che lo accoglie è molto frequente: la fanciulla appare di così nobile origine che non può incontrare nella sua terra un pretendente alla sua altezza. Sposare uno sconosciuto è un sistema per non venire meno alla superiorità della famiglia ed una maniera per non allontanarsi dalla propria casa; l’esule non potrà che integrarsi nel gruppo familiare della moglie e i figli della nuova coppia perpetueranno la nobilissima famiglia materna. L’importanza data in Etruria anche alla famiglia della donna è indicata dalla presenza, a partire dal VII sec. a.C., del matronimico nell’onomastica, caratteristica che rivela come la discendenza femminile valeva ad assicurare, anche da sola, la cittadinanza. L’onomastica ci rivela dunque un rapporto particolare della donna etrusca con i genitori, con il marito, con i figli. Ciononostante, non si può ipotizzare per la società etrusca l’esistenza del matriarcato, dagli studi di antropologi e storici appare evidente che il matriarcato sia più una costruzione intellettuale che una realtà storica. Alcuni oggetti particolarmente eloquenti nell’esprimere i caratteri perspicui della regalità come scudi, troni, scettri o carri si sono rinvenuti in contesti attribuibili a donne: la moglie del principe sembra dunque assumerne alcune prerogative. 3.13 QUESTIONI CRONOLOGICHE La protostoria dell’Italia centrale tirrenica viene posta nei primi quattro secoli del I millennio a.C. e articolata in quattro fasi distinte: la prima relativa alla tarda età del bronzo; le altre due alla prima età del ferro e l’ultima alla seconda età del ferro. La cronologia delle 5 Per Omero, la pratica della tessitura e le competenze a essa inerenti rientrano tra le caratteristiche più illustri di una donna di nobili origini. 35 fasi dell’Etruria deriva dal confronto con la sequenza cumana e con le fasi riscontrate in Sicilia, area che mantenne sempre un certo contatto con il Mediterraneo orientale, tra la fine delle importazioni micenee e l’arrivo dei primi coloni greci. Il dibattito ruota intorno come riempire lo spazio di tempo fra la tarda età micenea (XIV-XII sec. a.C.) e l’inizio della colonizzazione greca in Italia (prima metà dell’VIII sec. a.C.). La fase orientalizzante è, in modo unanime, posta nel VII secolo a.C. e scavi successivi al 1959 hanno precisato queste datazioni. Negli ultimi anni vari studiosi hanno tentato di adattare i risultati delle analisi tecniche alle diverse cronologie relative dei complessi conosciuti; il risultato è un rialzamento generale della cronologia cosiddetta tradizionale (da 120 a 60 anni), con un relativo allungamento del periodo più recente, che difficilmente si concilia con le datazioni storiche dell’Egeo, che hanno costituito sino a ora il riferimento per tutte le seriazioni locali. Del resto, la storia degli studi sulla protostoria italiana è caratterizzata da alternanza tra cronologie “rialziste” e “ribassiste” e l’evidenza della colonizzazione greca pone grossi problemi alle datazioni proposte per il villanoviano evoluto, ricco di attestazioni di ceramica importata. La ceramica greca rinvenuta nei contesti indigeni è stata considerata fino a ora elemento fondamentale per la cronologia delle varie manifestazioni culturali nell’Italia protostorica. I vasi appartengono alla ceramica medio-geometrica (coppe a semicerchi penduli e a chevrons) o tardo-geometrica (coppe con metope a uccelli, kotylai). La cronologia assoluta della ceramica protocorinzia (= quella geometrica) è basata sulla più antica attestazione di ceramica greca a Siracusa e quindi sulla datazione di Tucidide per la fondazione di questa colonia. Infatti, la fase finale dell’arte geometrica in Grecia viene considerata, nella maggior parte dei casi, determinabile attraverso i ritrovamenti paralleli dalla fondazione delle colonie greche nell’Italia meridionale e in Sicilia. Così la ceramica d’imitazione verrebbe datata prima dei prototipi greci. In questa sede ci si attiene alla proposta cronologica elaborata da J. N. Coldstream per la ceramica geometrica basata sui dati forniti dalla documentazione archeologica “non greca”6 confrontati con le principali datazioni trasmesse dagli storici antichi7. Agli studi sull’età del ferro italiana sembra quindi quasi impossibile prescindere dai dati della tradizione, sia essa classica od orientale, a causa dei frequentissimi rapporti intercorsi tra le varie popolazioni del Mediterraneo antico. 6 per es., la presenza di materiali greci nella stratigrafia di siti palestinesi 7 Tucidide ed Eusebio 36 4.1 LA FASE ORIENTALIZZANTE: ALCUNI INDICATORI ARCHEOLOGICI Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. si attua, nei grandi centri protourbani, una profonda trasformazione degli assetti sociali, politici ed economici che, sotto l’aspetto materiale, manifesta il più grande sviluppo della cultura orientalizzante. Si tratta di un processo che deriva dalle dinamiche di sviluppo delle comunità villanoviane, nel livello avanzato raggiunto dalle forme produttive e una propensione alle aperture e agli scambi che conduce il mondo tirrenico a inserirsi nella rete di traffici marittimi nel Mediterraneo. L’aumento della produzione favorisce nelle comunità locali arricchimento e accentramento del controllo delle risorse e dei meccanismi di produzione, conducendo alla formazione di un’aristocrazia, di cui si possono delineare caratteri strutturali a partire dalle fonti archeologiche. L’elemento più rilevante è costituito dalla trasmissione ereditaria, essenziale per assicurare la difesa di un privilegio non più legato a un potere temporaneo di funzione. L’esistenza di una strategia volta a valorizzare la linea di parentela è documentata a livello epigrafico dallo sviluppo della formula onomastica bimembre8. La centralità assegnata alla famiglia è confermata, a livello funebre, dallo sviluppo del tipo monumentale della tomba a camera, inizialmente destinata ad accogliere la coppia coniugale e successivamente adibita a deposizioni plurime di consanguinei: essa è ricoperta da un tumulo che può essere utilizzato da altre sepolture dello stesso gruppo, a ribadire la sua continuità nel tempo. Un altro carattere associato all’emergere delle aristocrazie è costituito dall’esibizione della ricchezza e complessità del corredo: l’ostentazione in tomba contraddistingue un ristretto segmento di figure di eccezionale livello, poste al vertice dei gruppi familiari. 4.2 LA SOCIETÀ GENTILIZIA Dalla documentazione archeologica emerge l’immagine di un’aristocrazia ereditaria, controllata da una élite dominante: la gens. Il modello gentilizio è descritto nei testi con riferimento al mondo romano, ma il confronto è indispensabile perché mette a fuoco le forme di strutturazione del potere aristocratico e fornisce una interpretazione dei realia archeologici. Occorre però ricordare che i documenti storici e materiali riflettono solo frammenti di una realtà antica più complessa, filtrata attraverso la lente dell’ideologia. Qual è l’immagine della gens è tramandata dalle fonti? Si tratta di una struttura sociale ed economica di carattere esteso, basata sulla parentela, le relazioni di solidarietà privata e la clientela. Tale articolazione tripartita è riportata sia da Livio sia da Dionigi di Alicarnasso: 8 = Al nome individuale (il prenome), che costituisce il più antico livello di identificazione personale, si aggiunge quello della famiglia (gentilizio), che resta invariato ed è trasmesso su base ereditaria. Il nome gentilizio si connette all’organizzazione della familia. 39 di Odisseo. Attraverso la costruzione genealogica si istituisce una relazione di solidarietà tra il mondo greco e l’Occidente tirrenico e Odisseo, che nel corso dei suoi viaggi oltrepassa i confini del mondo ed entra in contatto con genti lontane, diviene il capostipite greco degli Etruschi. Altri due elementi che assumono una nuova e spiccata valenza ideologica nel rituale funebre sono: da un lato, la piena rappresentatività assegnata alla classe infantile, perno della successione ereditaria; dall’altro, l’“invenzione” del culto degli antenati, cui si connette la nascita della più antica statuaria monumentale in Etruria, documentata sia a livello funebre (nelle tombe a Ceri, a Cerveteri, a Casale Marittimo, a Vetulonia) sia nell’architettura palaziale (regia di Murlo). La stessa esigenza di istituire una connessione con il passato a livello della genealogia familiare, si manifesta nella sfera collettiva delle pratiche religiose, nei non rari casi in cui le nuove aree sacre dell’orientalizzante si impiantano in zone già adibite dalla comunità protourbane dell’età del ferro. Ciò sottolinea come la dinamica gentilizia sia parte del più ampio processo di consolidamento della comunità politica, di cui costituisce un fattore essenziale, anche se il tessuto delle gentes non integra rigidamente tutte le componenti della popolazione. 4.3 LA FORMAZIONE DELLA CITTÀ E IL CONSOLIDAMENTO DELLA COMUNITÀ L’organizzazione di formazioni coese crea le condizioni per il salto di qualità connesso allo sviluppo della città come formazione socio-economica unitaria. In tal senso la documentazione archeologica mostra (tra VIII e VII secolo a.C.) un generalizzato processo di aggregazione urbana e di riassetto territoriale, possibile solo in presenza di un’autorità politica in grado di imporre all’intera comunità strategie unitarie. • Un es. è rappresentato da Pontecagnano→ dove alla fine dell’VIII secolo le necropoli dell’età del ferro sono abbandonate in favore di nuove aree di sepoltura che si dispongono a ridosso dell’abitato. I sepolcreti occupano zone non sfruttate nel periodo precedente ed il loro recupero implicò un intervento di bonifica. La pianificazione di nuove aree di necropoli è un tratto strutturale che ricorre ugualmente in molti centri dell’Etruria, da Veio a Vetulonia e Volterra: • Il caso più rilevante è quello della necropoli urbana di Tarquinia (località Monterozzi), la quale conteneva un pianoro occupato durante l’età del ferro da un villaggio; allo stesso livello cronologico emergono negli abitati le più antiche strutture monumentali di carattere pubblico: si avvia una pianificazione del paesaggio sacro e politico, destinata a durare nel tempo, secondo una significativa continuità funzionale. • A Tarquinia, nell’area sacra di Pian di Civita (già attiva da età protostorica) è eretto nel I quarto del VII secolo l’Edificio Beta, costruito in pietra con una tecnica importata da maestranze orientali: alla sua fondazione è connessa la dedica di prestigiosi segni del potere come uno 40 scudo, un’ascia e una tromba-lituo di bronzo. L’edificio costituisce il fulcro di un più ampio complesso sacro che si sviluppa nel corso del tempo per essere, infine, integrato nella pianificazione del tessuto urbano di età arcaica. • Nello stesso tempo, a Roselle→ nell’area occupata in età romana dal Foro, si costruisce una casa in mattoni crudi circondata da capanne: essa è inclusa in un recinto che accoglie un grande telaio e un focolare, corredato da vasi da derrate, cucina e mensa. La struttura riveste un eminente carattere pubblico, evidenziato, come a Tarquinia, da una tecnica edilizia che ne assicura la durata, a differenza delle contemporanee abitazioni realizzate in materiale leggero: in essa si riconosce un edificio sacro o la residenza di un capo. L’aspetto più rilevante però è la continuità di funzione, poiché alla fine del VII sec. la casa in mattoni crudi è sostituita da un edificio a due vani, che ne eredita la destinazione d’uso e, nella II metà del VI, nelle vicinanze è eretto un tempio, in rapporto a uno spazio pubblico monumentalizzato in età romana dalla piazza del Foro. Sotto un’analoga prospettiva si colloca l’inizio della frequentazione di aree santuariali che con il tempo assumeranno una dimensione monumentale ma che già da questa fase sono destinate ad attività cultuali di carattere collettivo: tale fenomeno è, per es., documentato dal rinvenimento di materiali di età orientalizzante nel santuario dell’acropoli di Volterra o, nell’Etruria campana (nel complesso sacro di Fondo Patturelli a Capua). • A Pontecagnano → un santuario dedicato ad Apollo si imposta (VI sec.) su una più antica area di capanne e pozzi, connessa alla produzione e allo scambio. Quest’area si organizza intorno a un’ampia piazza che costituisce il più antico spazio pubblico dell’abitato, restando in funzione al momento della fondazione del santuario che continua a fondarsi su di essa. Un aspetto significativo del processo di formazione politica è costituito dall’occupazione stabile dei territori ricadenti (già nell’età del ferro) nell’orbita dei centri protourbani. Si costruisce il paesaggio agrario e contemporaneamente si sviluppa un tessuto insediativo “minore” volto a controllare gli itinerari e le risorse strategiche. Lo sfruttamento della campagna passa attraverso l’organizzazione di grandi proprietà gentilizie, segnalate a livello archeologico dai tumuli monumentali che possono marcare il territorio: l’esibizione del diritto di sepoltura serve a sancire la legittimità del possesso, trasmesso per via ereditaria, su una terra che diviene, di fatto, quella dei padri e degli antenati. Il fenomeno emerge prima nei centri dell’Etruria meridionale (come Cerveteri e Tarquinia) e è successivamente in misura più estesa: a Veio e Volterra nella II metà del VII secolo, a Chiusi e Cortona al passaggio tra VII e VI. • A Chiusi spicca il tumulo monumentale di Poggio Gaiella → costruito adattando una collina, in cui la tomba del capostipite è rivolta verso la città; • Importanti sono anche i complessi della Pania e Cortona→ in cui si elevano i tumuli di Camucia e del Sodo I e II. 41 Il sistema degli insediamenti minori dalla fine dell’VIII sec. vede un’espansione che coinvolge anche le fasce territoriali più distanti dai centri urbani, secondo preciso sistema: si acquisiscono gli spazi agrari lontani, si sviluppa più lo sfruttamento di aree ricche di risorse minerarie, si organizza la rete dei collegamenti a lunga distanza, si assicura il controllo e la protezione delle vie d’acqua e della fascia litoranea. Tale sistema veniva messo in atto per la formazione di centri autonomi, anche di ridotte dimensioni, dotati di un proprio territorio ed essi dipendono da formazioni aristocratiche. • Ancora più significativi sono i casi degli abitati della Castellina [sul litorale presso Civitavecchia, Acquarossa (l’antica Ferento) e Poggio Buco, rispettivamente nell’entroterra di Tarquinia e Vulci] che in età arcaica accolgono templi o residenze simili a regiae, espressione di un potere locale indipendente dalle gentes dei centri principali. Questi esempi evidenziano il ruolo propulsivo dei gruppi aristocratici che sfruttavano le opportunità politiche ed economiche offerte dall’appropriazione di un territorio ancora aperto, dando luogo ad un rapporto tra centro e periferia, tra insediamenti minori e formazioni urbane, che non era di mera subordinazione. Al tempo stesso, nelle dinamiche di popolamento emergono realtà insediative che vedono l’esistenza di componenti sociali non riconducibili ai gruppi dominanti. • In questa prospettiva un apporto rilevante viene dalla necropoli di Tolle (Chiusi) che ha restituito più di 700 tombe che arrivano fino alla metà del V secolo. Dai dati si ricava il funzionamento di una comunità estesa che vive in campagna e, a livello funerario, nell’architettura funebre e nella composizione dei corredi, non esprime gli stessi livelli che contraddistinguono i vertici aristocratici. Essa è, tuttavia, in grado di esibire in tomba segni di prestigio come le armi, forme vascolari come i canopi e, soprattutto, i rari kyathoi con iscrizioni di dono, su cui si tornerà in seguito, che dimostrano l’inserimento del gruppo in un circuito di relazioni privilegiate almeno intorno alla metà del VII secolo. • In questa rassegna delle strategie del popolamento occorre ricordare gli importanti contesti di Casalvecchio di Casale Marittimo, Castelnuovo Berardenga e Murlo, situati in Etruria settentrionale. Si tratta di residenze palaziali, con le relative necropoli, realizzate nella II metà del VII secolo in un paesaggio privo di insediamenti urbani: esse documentano l’esistenza di piccole dinastie locali che traggono forza dal possesso della terra e dal controllo dei percorsi di transito tra il mare e l’interno (tramite i fiumi). Il palazzo rappresenta il centro della vita del gruppo: il fulcro politico e cerimoniale ed il cuore delle sue attività economiche, dove confluisce la produzione agricola e si sviluppano sotto il controllo del signore le manifatture artigiane. Di queste molteplici competenze una testimonianza significativa è costituita da una serie di documenti epigrafici costituiti da kyathoi recanti formule di dono e da placchette d’avorio che fungevano da tesserae hospitales. 44 funzione di segnacoli funerari. Il cippo era pertinente a una donna e reca un’iscrizione divisa in due enunciati: il primo contiene il nome della defunta; il secondo quello di un personaggio che fu “zilath a Misala”. La carica si riferisce forse a un capo militare, la cui autorità scaturisce dalla designazione come magistrato, destinato a esercitare una funzione di controllo in una zona di confine. • Un documento chiave per approfondire la funzione dello zilacato e la sua evoluzione è il testo bilingue in etrusco e fenicio delle lamine d’oro di Pyrgi (fine del VI sec.)→ in cui si commemora la dedica del Tempio da parte di un personaggio definito nella versione in fenicio “re di Caere”, cui corrisponde in etrusco la carica detta zilac seleita, che riveste un carattere pluriennale: il titolo definisce dunque un potere supremo che, nel testo fenicio, può essere conguagliato a quello regale, ma la cui funzione è precisata e bilanciata dall’aggettivo seleita (= natura reiterabile della carica). Alla luce di ciò, si può riconoscere nello zilath seleita di Cerveteri un magistrato supremo = il praetor maximus di Roma: in Thefarie Velianas si è identificata una figura di stampo tirannico per il carattere dell’autorità rivestita. I documenti arcaici sullo zilacato documentano uno stadio di evoluzione in cui la suprema autorità politica è già connotata in senso magistratuale: l’immagine è coerente con la descrizione del potere regale fornita dalle fonti e, al tempo stesso, con il profilo tirannico. Le competenze dello zilath risultano molto più dettagliate nella documentazione successiva, pertinente quasi esclusivamente a Tarquinia, dove il titolo compare da solo, a indicare il più alto magistrato, o associato ai termini che designano la comunità nelle sue articolazioni istituzionali. Dalla fine del V secolo è attestata la carica, forse vitalizia, di uno zilath competente sul rasna = sull’intero popolo della città stato, mentre il magistrato annuale connesso al livello delle singole realtà cittadine probabilmente assume il titolo di “zilath spurana”, cioè, relativo allo spura. 4.5 IL PROCESSO DI URBANIZZAZIONE: LA “NON POLIS” DEGLI ETRUSCHI All’inizio del VI secolo a. C. si attua nel mondo etrusco una profonda trasformazione degli insediamenti. Questo salto di qualità consiste nell’urbanizzazione degli stessi: gli abitati sono interessati da un processo di pianificazione funzionale che comporta la definizione di spazi pubblici, soprattutto di carattere sacro, dove la comunità è rappresentata nel suo insieme, in una identità politica più ampia di quella gentilizia. La gestione del sacro assume una dimensione pubblica, separata dalla sfera dei culti familiari delle singole gentes aristocratiche. Tale processo non investe soltanto l’Etruria, ma anche il Lazio e Roma, in cui regna la dinastia etrusca dei Tarquini; la Campania e la Magna Grecia. L’urbanizzazione segna un progresso strutturale che si consolida attraverso l’interazione tra comunità dotate di strutture produttive e forme di organizzazione sociale simili, fondate sul controllo delle aristocrazie. Lo sviluppo della città suscita un sistema di consumo pubblico e privato, volto alla riproduzione sia di un tessuto urbanistico, abitativo e monumentale che richiede una continua manutenzione, sia di 45 una popolazione crescente, attirata dalle opportunità offerte da più avanzate condizioni di vita e lavoro. Il consolidamento del sistema urbano determina un’espansione della domanda e la conseguente accelerazione delle dinamiche produttive dove acquistano rilievo le attività artigianali e il commercio. Questo processo, a sua volta, mette in crisi il tradizionale assetto gentilizio, favorendo la formazione di nuove forze sociali: da un lato, una aristocrazia cittadina legata a una ricchezza di carattere mobile, in grado di controllare i mezzi di produzione e di scambio; dall’altro, uno strato subalterno = la forza lavoro, semplice manodopera e maestranze qualificate. L’affermazione di una comunità più ampia di quella gentilizia non comporta però la costruzione di una struttura politica come la città dei Greci e dei Romani, non si produce un ceto cittadino di uomini liberi e perdura l’opposizione tra una ristretta componente che gode dei pieni diritti politici, perpetuando le tradizionali forme di dominio, e un corpo sociale più esteso e articolato che ne resta escluso, pur essendo inserito nei rinnovati meccanismi produttivi: ciò determina un conflitto sociale, non dissimile da quello che a Roma si determina tra patrizi e plebei, che culminerà nella profonda crisi del V sec. a.C. Come si manifesta archeologicamente la città riformata? Non è possibile tracciare una sintesi completa a causa della documentazione non esaustiva sia perché la profonda frammentazione del mondo etrusco non consentono di delineare un quadro unitario. Si possono, tuttavia, isolare alcune tendenze comuni, come: la ristrutturazione del tessuto urbano e delle necropoli, l’organizzazione del paesaggio agrario e la dinamica degli scambi. Nel corso del VI secolo in numerosi centri si attua un processo di pianificazione del tessuto abitativo, che porta alla definizione di impianti fondati su una scansione regolare delle strade. • Oltre al caso del quartiere di Piazza d’Armi a Veio, esempi precoci sono quelli campani di Capua (quartiere del Siepone) e Pompei (costruzione è fissata nella I metà del VI sec.); • Ma il fenomeno si diffonde soprattutto alla fine dello stesso secolo, attraverso la ricezione del tipo dell’impianto per strigas, organizzato sul tessuto di assi viari ortogonali, elaborato dalla Magna Grecia. Esso è adottato su un ampio arco territoriale: in area padana, a Spina, Mantova-Forcello e Marzabotto; nell’Etruria interna a Prato-Gonfienti, sul versante tirrenico nei siti portuali di Pyrgi, Regisvilla; in Campania, a Fratte e Pontecagnano. La nuova pianificazione investe centri antichi e nuovi ed è concepita come un atto di fondazione, suggellato da un rituale religioso di carattere inauguratorio. - L’esempio più chiaro è quello di Marzabotto, con l’abitato sormontato dall’acropoli in cui ha sede l’auguraculum: la città riceve il nome di kainua = “città nuova”. Attraverso l’adozione di un impianto regolare, la comunità cittadina realizza un paesaggio urbano di tipo “isonomico” = sottopone a ugual misura gli spazi politici e i luoghi di culto. - All’inizio del V sec. i quartieri aristocratici di Piazza d’Armi a Veio e di Vigna Parrocchiale a Cerveteri cessano improvvisamente di vivere: a Veio l’area è abbandonata e non risulta più occupata fino a età romana; a Cerveteri il complesso residenziale di età arcaica è raso al 46 suolo e sopra di esso sono eretti un tempio tuscanico e una costruzione monumentale di forma ellittica14. Il modello di una comunità “isonomica” si manifesta anche in ambito funerario: ciò indica la natura politica di una strategia volta a esaltare la concordia e l’uguaglianza di un’élite pienamente integrata all’interno della comunità. All’inizio del VI sec. a.C. a Cerveteri e Orvieto si sviluppa il tipo della tomba “a dado”: costituita da una camera quadrangolare di dimensioni ridotte, destinata alla coppia familiare. Esso introduce una significativa discontinuità rispetto alla monumentalità dei grandi tumuli destinati a ospitare il gruppo gentilizio per più generazioni, traducendo l’esigenza di limitare l’ostentazione aristocratica del fasto in occasione del rituale funebre. La tomba “a dado” presenta un modulo standardizzato: è costruita sopra terra, coperta da una terrazza destinata a ricevere cippi ed è utilizzata per realizzare isolati funebri di camere uguali tra loro, allineati lungo strade che scandiscono il tessuto della necropoli. • L’esempio più noto è quello della necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo→ il cui impianto è scandito su assi viari ortogonali, definito per strigas. Le tombe recano sull’architrave della porta di ingresso i nomi dei proprietari con la formula bimembre, in cui il gentilizio ha assunto la funzione di marcare la condizione di uomo libero, dotato di pieni diritti politici. Lo studio dei nomi riflette un rimodellamento del corpo sociale che sancisce la nascita di nuove componenti. Le stesse dinamiche traspaiono, in scala più ampia, nel riassetto del sistema onomastico di VII e VI secolo, in cui si verificano due tendenze concomitanti: da un lato, compaiono nuovi gentilizi basati su nomi individuali, dall’altro, i tradizionali nomi gentilizi, fondati sull’aggettivo patronimico15. Ma il settore in cui con maggiormente si manifesta la trasformazione dell’istituto urbano è, quello del paesaggio agrario, investito in età arcaica da una forma di sfruttamento intensivo inteso come un vero processo di colonizzazione interna. Le cause sottese a questo fenomeno che marca in profondità l’organizzazione del territorio sono l’accresciuta attrazione dei centri urbani → concentrazione di popolazione e, di conseguenza, l’aumento del fabbisogno alimentare. • La disponibilità di terra coltivabile è alla base della fioritura dell’insediamento di Orvieto: la città rappresenta una fonte per Roma, durante le ripetute carestie che la affliggono nel corso del V secolo, fronteggiate grazie all’importazione del grano etrusco. 14 La discontinuità funzionale che si determina nell’area urbana sembra evocare una dinamica non dissimile dall’esproprio delle proprietà dei Tarquini che interviene a Roma con la cacciata dei re, portando alla definizione di Campo Marzio. 15 Sono declinati al genitivo, secondo un intervento che tende a marcare il patrimonio onomastico delle aristocrazie più consolidate. 49 È in questa dimensione che alla fine del VI sec. si sviluppa la più antica serie monetale etrusca coniata a Populonia: formata da nominali d’argento di piccolo taglio che si richiamano alle emissioni di Marsiglia e alle colonie greche della Provenza. Rispetto al commercio verso il territorio francese, la rete degli scambi con le isole e Cartagine appare, invece, gestita da mercanti fenici che si rivolgono al mondo etrusco principalmente per il rifornimento di beni alimentari e di materie prime: lo stagno ed il ferro (presente in Corsica, ma di cui è soprattutto ricca l’isola d’Elba). Nel corso del VI secolo l’isola e i suoi ricchi giacimenti sono sotto il controllo di Populonia che trasferisce la lavorazione del minerale sulla terraferma. La città organizza all’esterno delle mura, in prossimità del porto, un quartiere industriale dove sono realizzate tutte le fasi di lavorazione del minerale. Il quartiere siderurgico si impianta su una più antica necropoli di età orientalizzante (uno dei segni che segna l’affermarsi dell’istituzione urbana). La rete delle relazioni commerciali si appoggia su una fitta serie di porti e di scali minori che costella l’Etruria tirrenica fino al centro settentrionale di Pisa alla foce dell’Arno: gli approdi segnano le tappe di una rotta lungo la quale risalgono anche le navi e le merci greche dirette verso Marsiglia. Dall’inizio del VI secolo il mondo etrusco è inserito in un circuito commerciale a lungo raggio, alimentato soprattutto da vettori greco-orientali, che dalla Grecia tocca le coste settentrionali dell’Africa o, passando per lo Stretto di Messina, raggiunge le coste tirreniche, risalendo verso Marsiglia. Sul versante adriatico i porti principali sono quelli di Adria e di Spina (il primo frequentato dai Greci), essi costituiscono i punti di partenza e di arrivo di una rotta marittima che collega la Grecia all’Etruria padana e, al tempo stesso, rappresentano gli sbocchi di itinerari a lunga distanza da e verso l’Europa centrale. L’autorità urbana tende a regolamentare lo scambio, riservando luoghi preposti a tale funzione = veri empori situati all’esterno dei centri urbani, in corrispondenza dei porti. I luoghi dello scambio erano protetti da santuari che inquadrano il rapporto con lo straniero entro una cornice sancita dalla protezione divina. Il contesto che ha restituito il maggior numero di informazioni è quello dell’area sacra di Gravisca (= uno dei porti di Tarquinia) da cui proviene una serie di dediche in lingua greca che consente di identificare l’origine dei mercanti. Ma il documento più importante è un’ancora in pietra (fine del VI sec.) recante una dedica ad Apollo da parte di Sostrato, in cui si identifica un mercante celebrato da Erodoto per la ricchezza e l’abilità ineguagliabili. L’emissione delle più antiche serie monetali etrusche in argento, battute tra la fine del VI e la I metà del V secolo dai centri di Populonia e Vulci che in età arcaica assumono un ruolo di primo piano nella sfera della produzione e del commercio. Si tratta in entrambi i casi di emissioni numericamente ridotte, che però si differenziano per funzione: mentre le monete di Populonia sembrano finalizzate 50 a facilitare lo scambio, quelle di Vulci potrebbero essere ricondotte alla funzione di deposito del valore e di strumento per compensi. D’altra parte, l’emissione di moneta resta un fenomeno del tutto circoscritto e il mondo etrusco non svilupperà mai un’economia di carattere monetale: nel V sec. si afferma nelle transazioni economiche e nelle attività di pagamento l’uso del bronzo pesato. 4.6 LA CRISI L’analisi delle dinamiche politiche ed economiche ha delineato un processo in continua espansione, ma le ragioni del suo sviluppo finiscono per innescare elementi di contraddizione politica e sociale che alla fine conducono il sistema alla crisi. A fronte dei progressi nel consolidamento dell’istituzione urbana, non si realizzano nelle città etrusche quelle riforme della comunità politica che altrove conducono all’affermazione di un ceto autonomo di cittadini liberi, come avviene nel caso di Roma18. Per non assecondare la crescita di componenti sociali potenzialmente antagoniste, le classi dominanti imprimono una politica di rigida chiusura volta a deprimere le attività su cui si era sostenuta la crescita di un ceto produttivo intermedio. Ciò innesca una crisi profonda che si manifesta nel crollo della committenza pubblica e, al tempo stesso, al crollo del popolamento agrario, dove non si riesce a sviluppare un ceto di piccoli proprietari liberi, ma, al contrario, riprende vigore un sistema di popolamento imperniato sul controllo delle grandi famiglie aristocratiche. • Il caso più noto è quello del territorio di Tarquinia→ dove nel IV sec. si riorganizza una rete di siti minori, talora sul luogo degli insediamenti più antichi, connessi allo sfruttamento della campagna: la documentazione proveniente dalle necropoli restituisce l’immagine di un assetto sociale dove, intorno ai vertici aristocratici, vi era una componente più modesta, segnalata da tombe di piccole e medie dimensioni, talora affollate in uno spazio ristretto. È importante sottolineare come il conflitto per la terra non sia esclusivo della società etrusca, ma riguardi tutte le città oligarchiche dell’Italia antica19 . Ugualmente, in Magna Grecia, la caduta del regime pitagorico a Crotone è innescata dall’inesaudita richiesta da parte del demos di procedere alla distribuzione delle terre. Il mancato sviluppo di una nozione di città come costruzione politica interrompe il sistema di cooperazione su cui si era sostenuto lo sviluppo precedente, pregiudica la coesione interna e costituisce un elemento di debolezza che incide sulla capacità di resistenza contro gli avversari esterni: una tendenza che si acuisce nel tempo e risulta fatale al momento dello scontro con Roma. 18 Con la costituzione centuriata di Servio Tullio: troppo forte è il freno esercitato da un’aristocrazia ristretta che continua a detenere l’egemonia politica. 19 Es. Roma le durissime lotte tra patrizi e plebei che fanno vacillare l’unità della Repubblica con la secessione dell’Aventino, trovando soluzione solo con la distribuzione dell’ager di Veio dopo la conquista della città etrusca del 396 a.C. 51 La crisi si manifesta prima nell’Etruria meridionale tirrenica, nel Lazio e in Campania, all’inizio del V secolo, venendo aggravata dalla sconfitta contro i Siracusani nella battaglia navale di Cuma del 474 a.C., ma entro la fine del V sec. essa travolge complessivamente tutto il sistema che, a causa delle proprie contraddizioni, non è in grado di resistere alla pressione di popolazioni esterne. Quest’ultime, infatti, si impadroniscono delle pianure agrarie: all’inizio del V secolo i Volsci occupano la pianura pontina e nel 438 a.C. nella piana del Volturno si forma il popolo dei Campani che conquista Capua e Cuma; i Galli invadono la pianura padana, per poi dilagare fino a Roma (che verrà saccheggiata nel 390). La rigida chiusura della struttura sociale condanna alla fine un sistema politico che non sa liberarsi dei principes e continua a sostenersi sulla contrapposizione arcaica tra domini e servi. La parabola si consuma drammaticamente a Orvieto, nella rivolta servile che scuote la città nel 265-64 a.C. L’aristocrazia locale richiede l’intervento di Roma, che ha ormai esteso il proprio controllo militare nella regione e ha celebrato più volte il trionfo contro gli Etruschi. Ma la richiesta di intervento provoca un risultato devastante: la conquista militare da parte di Roma e la distruzione violenta della città e del santuario federale del Fanum Voltumnae segna la conclusione dell’autonomia politica del mondo etrusco. 54 una progettualità urbana che più tardi assumerà i connotati di vera e propria urbs, anche da un punto di vista urbanistico e architettonico. Poche sono le informazioni sulla topografia e sull’assetto interno della città di Bologna, specie in questa fase più antica (VIII-VI sec. a.C.). Ne conosciamo invece i limiti: il corso dell’Aposa a est e quello del Ravone a ovest, a nord dalla posizione delle sepolture, tutte all’esterno della grande area urbana; a sud l’abitato si spingeva fino alle prime propaggini collinari, non oltre Villa Cassarini. All’interno di questa vasta area, in linea con la superficie delle grandi metropoli etrusche di area tirrenica, vi erano consistenti gruppi di capanne (oltre 500) che, all’inizio, erano intervallati da ampi spazi liberi. L’abitato era costituito da abitazioni singole, o da piccoli gruppi di abitazioni, disposte in modo poco addensato, ma regolare e omogeneo, a coprire l’intera area. Attorno a queste piccole cellule insediative, che non raggiunsero mai l’autonomia di nuclei compatti, permasero ampi spazi liberi destinati soprattutto all’agricoltura e alle attività a essa collegate e la tutela del bestiame. La destinazione di lotti di terreno, limitrofi alle abitazioni, alla pratica agricola e alle altre attività a essa connesse, non deve mettere in discussione il carattere protourbano di questo agglomerato, già inteso come struttura unitaria e non come la somma di diversi villaggi o di gruppi di capanne. Dietro queste scelte insediamentali si intravedono un forte potere “politico” ed i presupposti per la costituzione di una vera città sotto il profilo urbanistico e monumentale. Oltre alle abitazioni è ben documentata, già in questa fase antica, una consistente attività metallurgica per la lavorazione del bronzo, che rivestiva un ruolo non secondario nell’economia della città, come prova il deposito di piazza San Francesco: si trattava del deposito di “materia prima” di una o più officine e la presenza di molti strumenti legati alla metallurgia, delinea la presenza di attività molta diversificate all’interno dell’officina dove era anche contemplata la possibilità di riparare utensili o di effettuare interventi di manutenzione su attrezzi da lavoro. Numerosi sono anche i lingotti di rame puro, forse provenienti dalle miniere dell’Etruria tirrenica (dall’Elba e dal distretto di Vetulonia). Solo una consolidata divisione del lavoro poteva portare a esiti di così accentuata specializzazione artigianale. Anche attività produttive come la filatura e tessitura, o quella dei ceramisti, aveva un peso rilevante nell’economia della città, ma la loro organizzazione non è nota per mancanza di dati relativi alle officine e ai luoghi dove si praticavano. Attorno all’area dell’abitato si disponevano a ventaglio tutti i sepolcreti, con oltre 4000 tombe per la fase villanoviana (IX-VIII sec. a.C.) e orientalizzante (dal VII alla metà del VI sec. a.C.) e un migliaio per la fase successiva denominata “fase felsinea” (dal VI al IV sec. a.C.). La loro disposizione segue una sequenza topografica che procede dalla città verso la campagna e che coincide con la sequenza cronologica delle stesse sepolture. Si cominciò quindi a seppellire nelle zone più prossime all’abitato e si procedette verso l’esterno senza continuità. In presenza di questa sequenza topografica e cronologica delle sepolture, risulta inconfutabile che in questo lungo periodo non ci furono mutamenti etnici e la storia della città si svolse secondo un percorso lineare del tutto privo di interruzione e di brusche alterazioni. 55 La ricchezza e la vastità dei sepolcreti sono una fonte preziosa di informazioni sulla Bologna etrusca. Questa documentazione archeologica permette di focalizzare gli aspetti salienti delle varie fasi culturali ed inoltre consente di puntualizzare i principali momenti della sua evoluzione economica e sociale. Dalla metà dell’VIII sec. a.C., nei corredi tombali comincia a comparire una disparità sempre più consistente di oggetti = conseguenza di radicali mutamenti strutturali per cui la trasformazione dell’assetto del popolamento fu un fatto topografico ed un evento strettamente connesso a modifiche di ordine economico e sociale. All’interno della comunità emergono ora individui che si configurano come appartenenti a un gruppo dominante, detentore di ricchezza economica, di potere politico, talora anche con attribuzioni militari e con funzione di classe dirigente. Questo nuovo ceto mostra gli stessi connotati delle aristocrazie dell’area tirrenica. Sintomatica a questo riguardo l’indicazione del possesso del cavallo attraverso la deposizione accanto al defunto, di morsi e di altri elementi della bardatura. Il cavallo era un indicatore di ricchezza e anche un mezzo di collegamento tra le città e i settori più lontani del territorio; e il suo possesso poteva inoltre assumere un’implicazione di carattere sociale e politico indicando, per es., l’appartenenza alla “classe di cavalieri”. La presenza di armi nelle tombe evoca invece funzioni militari, anche se ciò si verifica raramente a Bologna, dove il rito della sepoltura non prevedeva l’esibizione delle armi e la connotazione del defunto come guerriero, al contrario di quanto accadeva in area tirrenica. L’alto livello artistico raggiunto, testimoniato dalle ceramiche dipinte secondo innovazioni tecnologiche acquisite dal mondo greco e dalle ceramiche decorate a stampiglia (peculiarità di Bologna), unitamente alla monumentalità di alcune sculture funerarie forse realizzate da artigiani venuti dall’Oriente, indicano un forte sviluppo dell’economia e un’elevata cultura artistica, appannaggio di un ristretto gruppo aristocratico che fa della Bologna del VII sec. un centro di grande importanza. In questa fase le stele dette “protofelsinee” (= orientalizzanti) esibiscono motivi iconografici orientali finalizzati all’esibizione dei valori sociali e politici della classe al potere. In generale, la scultura in pietra italica rappresenta un capitolo importante e di fatto unico. Un altro evento culturalmente significativo, sempre legato a questo gruppo di àristoi, è la precoce acquisizione dell’alfabeto e la pratica della scrittura. Si può dire che già agli inizi del VII sec. a.C. gli Etruschi di Bologna conoscevano la serie alfabetica e praticavano la scrittura. Anche Bologna, quindi, è in grado di mostrare livelli molto alti nella pratica della scrittura: • Come dimostra l’iscrizione graffita su un’anforetta del sepolcreto Melenzani (fine del VII sec. a.C.), una delle più lunghe di tutta l’Etruria. Essa contiene il nome del vaso al diminutivo (“zavenuza” = anforetta); quello dell’individuo a cui è stato donata, indicato come possessore e forse quello della moglie; una serie di nomi, purtroppo incompleti e lacunosi, di coloro che lo hanno donato (turuke); altri nomi sono associati a un verbo (samake) di cui non si sa nulla; e infine la firma dell’artigiano che ha confezionato il vaso e redatto l’iscrizione. L’iscrizione 56 conferma definitivamente sul piano linguistico la continuità tra le fasi villanoviana e orientalizzante e la successiva “fase felsinea”, inoltre costituisce un documento dell’alto livello di cultura raggiunto da Bologna nel corso del VII sec. a.C. La conferma di una piena e generalizzata acquisizione della scrittura in tutta l’area controllata dagli Etruschi ci viene inoltre dai due cippi di Rubiera (nella valle del Secchia, tra Modena e Reggio Emilia). Sono due monumenti straordinari (fine VII e inizi VI sec. a.C.) con una ricca decorazione a bassorilievo orientalizzante e con due iscrizioni, una delle quali contiene la più antica attestazione del termine “zilath”, qui usato per indicare funzioni di carattere militare esercitate da un personaggio etrusco, individuato da prenome e gentilizio (Avile Amthura). 5.3 VERUCCHIO Mentre Bologna si era così impegnata nel controllo di un vasto territorio disseminato di piccoli insediamenti rurali che a lei fanno capo, in Romagna il centro villanoviano di Verucchio, arroccato su un’altura ben difesa e distante dal mare 15 km (come molte città dell’Etruria tirrenica), era meno dedito all’organizzazione e allo sfruttamento agricolo del territorio e molto più interessato agli scambi commerciali, sia attraverso il controllo della via che dalla costa adriatica: tramite il valico di Viamaggio che portava all’Etruria tiberina; sia attraverso lo scalo di Rimini che portava verso il mare Adriatico. Gli Etruschi, dunque, puntarono alla costa adriatica per catturare gli scambi e le merci del comparto nord-orientale ed europeo che interessavano pure l’area tirrenica. L’importanza e la precocità degli Etruschi in Adriatico, dove già agli inizi del VI sec. erano presenti Greci orientali come i Focei (oltre che dalla spedizione contro Cuma), è confermata anche dalla testimonianza di Tito Livio, relativa al dominio etrusco su entrambi i mari della penisola = il Tirreno e l’Adriatico. L’altura prescelta per l’abitato è costituita da un pianoro di circa 50 ettari, che emerge con un’altitudine sul livello del mare di +300 m (FIG. 5.3). Le pareti ripide e scoscese, di quasi 100 m, lo isolano dall’area circostante conferendogli l’aspetto tipico dell’Etruria tirrenica (rupe di Orvieto). E, come a Orvieto, ai piedi del colle e attorno a esso, si disponevano a ventaglio, le necropoli. Il colle di Verucchio dista dalla costa circa 15 km e dall’alto di esso sono ben visibili sia il litorale sia il mare. È molto probabile quindi che alla foce del Marecchia (= Rimini), Verucchio avesse il suo scalo. Per quanto riguarda l’abitato e la sua conformazione, si può osservare come a una fase con capanne a pianta circolare, segue una fase con fondazioni di muretti a secco e con acciottolati di abitazioni con tetto di tegole, simili per tecnica costruttiva a quelle di Bologna e Marzabotto del V sec. In entrambe le fasi sono pure ben documentati gli impianti produttivi come fornaci per la cottura di ceramiche e laterizi, e piccoli forni per la fusione del bronzo. Dalle tombe sono venuti alla luce materiali rilevanti: le ambre grezze e intagliate, provenienti dal Baltico, di cui Verucchio fu centro di 59 antico spura si organizza e coagula attorno a uno dei villaggi più elevati che ne diviene il “cilth” = l’arx, dando così luogo per la prima volta al “methlum” = un’entità topograficamente e urbanisticamente unitaria intesa come urbs; con la realizzazione del methlum si arriva alla costituzione di un “rasna” = un’entità socio-istituzionale che indica la parte dei cittadini atta alle armi (avvicinabile al termine latino di populus). Questa duplicità di aspetti: topografico-urbanistico e politico-istituzionale, consente di riconoscere nella Bologna del VI sec. a.C. una città vera e propria. I sepolcreti, in continuità con la fase precedente, si dispongono lungo i percorsi viari di accesso alla città. Nei due maggiori: quello dei Giardini Margherita a est e quello della Certosa a ovest, e particolarmente in quest’ultimo, sono documentati alcuni importanti interventi di carattere monumentale come la grande strada larga 15 m (un tracciato molto antico in prossimità del quale erano state collocate le tombe già in fase villanoviana e orientalizzante) che viene pavimentato in ciottoli e dotato di canali di scolo laterali, realizzando una vera strada che attraversava l’intero sepolcreto e che evocava le grandi vie extraurbane di ambito mediterraneo. Si tratta di una grande opera pubblica, commissionata dalla comunità cittadina per ragioni pratiche di funzionalità e per dare lustro alla città. E non è un caso che ai lati di questa strada si disponessero e si concentrassero le tombe più ricche e più importanti, indicate fuori terra da segnacoli monumentali e complessi come le stele figurate a ferro di cavallo, che costituiscono la peculiarità più marcata della Felsina del V sec. I corredi delle tombe contengono oggetti che, sia singolarmente sia riuniti in gruppi, si riallacciano al simposio = a quella parte del banchetto che prevedeva la preparazione e il consumo del vino ai quali allude una serie di vasi e utensili legati all’apprestamento di questa bevanda (crateri e stamnoi), al suo filtraggio (colini), alla sua mescita (mestoli e brocche), al suo consumo (coppe). • In una nota tomba del sepolcreto dei Giardini Margherita i sontuosi vasi del corredo erano raggruppati attorno e sopra uno sgabello pieghevole di avorio (= una sella curulis) appartenuta a un magistrato cittadino. La tomba lascia intuire in modo chiaro l’immagine di una società urbana nella quale non è più soltanto la ricchezza a indicare il rango sociale elevato, ma sono soprattutto le cariche magistratuali ricoperte in vita dal defunto o comunque la sua evidenza acquisita in politica a essere esibite al momento della morte (consuetudine ancora più evidente nei segnacoli in pietra del V sec.). Le stesse stele cosiddette “felsinee”, a forma di ferro di cavallo e decorate a bassorilievo, forniscono informazioni sull’organizzazione civica, infatti su di esse si trovano le raffigurazioni delle categorie sociali come l’oplita, il cavaliere, l’uomo adulto, la donna giovane ecc. Invece, sui segnacoli più monumentali, decorati a più registri, compaiono anche scene di cortei con personaggi muniti di insegne che rendono omaggio al defunto; o a cerimonie solenni, tra le quali lo svolgimento di giochi in onore del defunto, che rimandano a cariche magistratuali, riferendosi a defunti investiti di un ruolo di particolare spicco sul piano politico e 60 istituzionale. In alcuni casi eccezionali troviamo un richiamo esplicito, attraverso le iscrizioni, alla carica dello “zilatb” = la suprema magistratura cittadina (le cui funzioni si avvicinano a quelle del praetor latino). L’immaginario delle “stele felsinee” rivela inoltre i tratti salienti dell’ideologia funeraria che in questa fase è incentrata sul concetto del viaggio verso l’aldilà e sul cambiamento di status che la morte provoca. E in piena sintonia con l’universo ideologico greco, mutuato in area etrusco-padana attraverso i contatti commerciali, figure di demoni e lo stesso Caronte con remo accompagnano il transito del defunto verso l’aldilà. 5.5 MARZABOTTO Alla situazione di Felsina-Bologna, difettosa e lacunosa sul piano dei resti urbani, si contrappone una ricca conferma archeologica nel caso della città etrusca di Marzabotto. Dislocata sugli Appennini, lungo la valle del Reno che fin dalla fase villanoviana è sempre stata la principale via di comunicazione tra Etruria padana ed Etruria tirrenica, la città è nota soprattutto per il suo impianto urbano, perfettamente conservato, in cui sono visibili le tracce e le strutture di un rito di fondazione attribuito dalle fonti antiche proprio agli Etruschi. Tale rito di fondazione e la sua pianificazione urbana si sono messi in atto alla fine del VI sec. a.C. su un pianoro privo di strutture precedenti = si tratta di una città fondata ex novo, il cui nome antico emerge in un’iscrizione dove il termine “Kainua” (ricollegabile al greco kainon) potrebbe significare proprio la “[città] nuova” (come “Neapolis” in Magna Grecia). Ultimamente sono stati individuati elementi chiarificatori, sulle concrete modalità con cui fu attuato questo rito di fondazione riconoscendo in primo luogo i “monumenti” che vi si connettono. Prima di tutto l’auguraculum, dislocato nel punto più alto dell’acropoli, alle spalle degli altri edifici sacri; e poi il ciottolo infisso al centro della città che reca incisa alla sommità una crux orientata secondo i punti cardinali. Dall’auguraculum, posto sull’acropoli = in posizione dominante, l’augure, seduto sul tescum e rivolto verso est/sud-est, poteva eseguire la “spectio” = operazione alla base del rito e che consentiva la trasposizione degli assi del templum celeste sul terreno che avrebbe poi ospitato la città. In basso, al centro del templum (= dove cioè si incrociavano i due assi orientati e dove fu infisso nel terreno il ciottolo con la crux = nella sedes inaugurationis) stava l’auspicante con il compito di mettere in atto le disposizioni dell’augure. Sulle due diagonali, che collegavano questi punti e che si incrociavano sempre in corrispondenza del ciottolo con la crux, fu poi impostata la planimetria della città che aveva un unico asse nord-sud e tre assi est-ovest, questi ultimi corrispondenti ai punti di levata e tramonto del sole al solstizio d’inverno (quello più meridionale), al solstizio d’estate (quello più settentrionale) e ai due equinozi (quello centrale). Portati a termine tutti gli atti previsti dal rito di fondazione, si procedette alla realizzazione concreta sul terreno del piano urbanistico dell’intera città che, nata con un “rito etrusco”, poteva però accogliere soluzioni di ambito greco che aveva avuto grande fortuna tra la fine del VI e gli inizi del V sec. La città etrusca di Marzabotto viene così realizzata secondo rigorosi criteri urbanistici di 61 regolarità e pianificazione: una grande strada larga 15 m (plateia A) percorre l’abitato in senso nord- sud e è attraversata perpendicolarmente da altre tre strade sempre di 15 m (plateiai B, C e D). Su questa ossatura si impostano strade minori di 5 m (stenopòi) tutte orientate in senso nord-sud le quali, poste a distanza regolare, servivano soprattutto a delimitare i singoli isolati, all’interno dei quali vennero poste tutte le costruzioni della città: le case, le officine e le strutture produttive, il grande tempio urbano, ecc. Le case, caratterizzate da un’uniformità planimetrica, avevano robuste fondazioni di ciottoli, alzato di mattoni in argilla cruda seccata al sole o realizzati con il sistema del graticcio, tetto di tegole e coppi. Gli impianti produttivi erano adibiti in particolare a due attività artigianali: la metallurgia e la produzione di ceramiche e laterizi. La metallurgia, sia quella della fusione del bronzo che quella relativa alla lavorazione del ferro, era praticata in piccole officine domestiche (si parla di “case- officina”), o in grandi spazi, come la fonderia per la fusione del bronzo e per una preliminare lavorazione dei minerali che contenevano i metalli (Regio V-Insula 5). Anche la produzione di ceramiche e laterizi aveva grande importanza: le prime servivano per le diverse attività e per la vita quotidiana dei suoi cittadini; i secondi servivano per la costruzione delle case, attività particolarmente intensa in una città solo pianificata e tutta ancora da edificare. Tale produzione oltre che essere testimoniata da piccole fornaci sparse dovunque nell’area urbana, in alcuni casi è concentrata in impianti molto grandi e complessi (come la fornace della Regio II-Insula 1), dove sono presenti tutte le strutture necessarie per questo tipo di manifattura: le vasche per l’acqua e per impastare l’argilla, le tettoie per essiccare i manufatti prima della cottura e le fornaci per cuocerli. Non solo le case e le officine sono inserite nella planimetria urbana, ma anche il grande tempio cittadino di Tina (corrispondente allo Zeus greco) costruito agli inizi del V sec., è perfettamente inserito nel tessuto urbano, a nord dell’abitato dove monumentalizzava l’accesso settentrionale della via che proveniva da Bologna. L’area sacra attorno al tempio, un grande edificio periptero di m 35,50 x 21,75, costituiva anche un polo di aggregazione politica e sociale per i cittadini, analogamente all’agorà delle città greche. La città era inoltre fornita di infrastrutture che garantivano un’alta qualità di vita ai suoi cittadini: pozzi disseminati nell’area urbana e presenti all’interno di tutte le case; canali ai lati delle strade per garantire il regolare deflusso delle acque piovane ed evitare ristagni; un impianto idrico per depurare l’acqua di una sorgente naturale con vasche di decantazione e farla defluire pulita nella città sottostante. A nord e a est della città erano dislocate due necropoli, entrambe ai lati di due importanti vie di accesso alla città, quella che veniva da Bologna e quella che veniva dall’Etruria tirrenica. A nord-est sul piccolo pianoro era collocata l’acropoli con un complesso di edifici sacri (templi e relativi altari) collegati al rito di fondazione. Uno di questi in particolare, un podio-altare con scala di accesso e pozzo centrale, rinvenuto pieno di resti di sacrifici, ha tutte le caratteristiche del mundus riservato al culto delle divinità infere. 64 intersecano perpendicolarmente; per case costruite con materiale deperibile (legno e argilla); e per un’intensa attività produttiva e commerciale. È stato scoperto inoltre in diversi punti la presenza di un solido terrapieno artificiale munito di palizzata, che oltre a una funzione difensiva aveva anche quella di proteggere l’abitato dalle esondazioni del Mincio. Anche qui come a Spina, in una situazione ambientale tutt’altro che favorevole all’insediamento, gli Etruschi decisero di collocare e di costruire un abitato in funzione delle comunicazioni, soprattutto fluviali, da un lato verso l’Adriatico e il porto di Spina, e dall’altro verso l’interno, con un ruolo strategico nel sistema di scambi tra Mediterraneo ed Europa che gli stessi Etruschi avevano creato e controllavano saldamente. Per tutte queste città era vitale un unico grande approdo sull’Adriatico che garantisse rapporti commerciali efficienti e duraturi con il Mediterraneo e con la Grecia. Se Felsina contava su Marzabotto e su Mantova per mantenere attivi gli scambi con l’Etruria tirrenica e con l’area transalpina; tutti e tre i centri dovevano contare su Spina sia per acquisire quanto vi approdava dalla Grecia, sia per farvi confluire i prodotti dell’entroterra destinati allo scambio. Questa interconnessione portò a forme di stretto coordinamento e di forte integrazione sia sul piano economico sia su quello politico. E in questo quadro giocava un ruolo importante anche Adria, dislocata più a nord e sempre sull’Adriatico, a ridosso del territorio dei Veneti. 5.8 LA FINE DELL’ETRURIA PADANA Gli equilibri territoriali e politici fra Etruschi e Celti, raggiunti faticosamente dopo la battaglia del Ticino, vengono sconvolti agli inizi del IV sec. Popolazioni galliche provenienti dall’Europa e dalla Transpadana, calano nel territorio degli Etruschi e degli Umbri e poi si spingono fino a Roma, assediata e presa. La calata dei Galli ebbe effetti dirompenti, almeno in una fase iniziale, su tutto il sistema di città creato dagli Etruschi nella pianura padana. A cominciare da Marzabotto che perse la sua identità urbana, trasformandosi in una sorta di avamposto a controllo della valle del Reno, come testimoniano la radicale riduzione dell’area dell’abitato e l’utilizzo improprio delle strutture urbane. A Bologna si ebbero eventi meno traumatici, almeno in apparenza, ma non molto difformi. La città sembra infatti mantenere anche in questo nuovo contesto una posizione di rilievo e un primato politico all’interno del territorio controllato dai Galli, ma nel suo assetto urbano si registrano sensibili variazioni, oltre che un evidente impoverimento generale. Si tratta nel complesso di novità radicali che minarono alla base il modello urbano creato dagli Etruschi nella pianura padana con la conseguente frantumazione dell’organizzazione del territorio all’interno del quale cambiarono rapidamente sia gli itinerari che le caratteristiche e la distribuzione degli insediamenti. Secondo Tito Livio Bologna, oltre a essere qualificata come urbs, in omaggio al suo passato etrusco pienamente urbano, viene talora indicata anche come “oppidum”, in 65 conseguenza dello smantellamento dell’antica compagine urbana, dal punto di vista topografico e urbanistico e sotto il profilo istituzionale-politico. L’organizzazione del territorio non è più “per città”, come nella precedente fase etrusca, ma “per vici” = insediamenti di pianura legati alla produzione agricola, o “per castella” = insediamenti di altura con spiccate funzioni di presidio e di controllo, anche militare, del territorio e delle nuove vie di comunicazione. Con questa radicale trasformazione i Galli si proponevano di diventare i principali intermediari tra Mediterraneo e continente europeo subentrando agli Etruschi. È a questo scopo che vennero attivati e rafforzati nuovi itinerari commerciali collegati a nuovi transiti appenninici, più orientali e più proiettati verso la Romagna, dando grande vigore e importanza a nuovi insediamenti come l’abitato celtico di Monte Bibele (Monterenzio). Solo Mantova e Spina sembrano sopravvivere a questo sconvolgimento: la prima grazie ad una posizione strategicamente favorevole; la seconda grazie al fatto di essere circondata da paludi e dune, e di essere decentrata rispetto alle nuove direttrici appenniniche dei traffici che, privilegiando il settore orientale della regione, giungevano nel cuore della penisola attraverso la Romagna e non più attraverso la valle del Reno. Spina uscì indenne dalla calata del Galli e divenne un punto di raccolta per molti Etruschi padani fuggiti dall’interno in conseguenza della calata gallica, i quali, una volta sradicati dal loro ricco entroterra, per sopravvivere si dedicarono al commercio e alla pirateria sul mare Adriatico, con risultati soddisfacenti. Questa continuità della presenza etrusca sul mare non riguarda infatti solo Spina, ma un ampio arco della costa adriatica che va da Adria a Ravenna. Spina e Ravenna sono messe tra l’altro sullo stesso piano dalla tradizione storica che spesso le tratta unitariamente e sottolineandone le analogie e le somiglianze dal punto di vista geomorfologico, dato che entrambe erano caratterizzate da edifici costruiti in legno, verosimilmente su palafitte, e come tali sottoposti alle maree. Quest’ampia fascia costiera che va da Adria a Ravenna, oltre a essere densamente popolata da Etruschi, mostra di essere anche molto solida e molto attiva sul piano economico e produttivo, infatti qui si registra una massiccia importazione di ceramiche etrusche (da Volterra e da altri centri dell’Etruria settentrionale e interna). Si ha inoltre una consistente importazione di merci dalla Magna Grecia e dalla Sicilia. E infine si registra una consistente produzione locale sia di ceramiche acrome che di ceramiche figurate, come dimostrano le numerose fornaci. Tra queste ceramiche spicca quella alto-adriatica, una tipica produzione favorita anche dall’arrivo di artisti dall’Etruria interna e dall’Agro Falisco. La vivacità economica di questa fascia adriatica e soprattutto di Spina in questa fase tarda è provata anche dalla sua notevole capacità di attirare “stranieri”, testimoniata dalla documentazione epigrafica dato che a Spina troviamo Veneti, Italici, Falisci, Messapi e anche Galli. Di questa vivacità 66 economica sono responsabili gli Etruschi che sradicati dalle loro terre per l’arrivo dei Galli si dedicarono a commerci e pirateria. Si è così ipotizzato che il noto decreto ateniese del 325-324 a.C., con il progetto di una colonia da inviare nell’alto Adriatico per proteggere i traffici greci dalla pirateria tirrenica fosse determinato proprio dagli Etruschi padani che avevano trovato nella guerra da corsa un modo per sopravvivere allo scardinamento economico del loro entroterra provocato dall’arrivo dei Galli e si erano quindi assestati, oltre che a Spina, anche lungo la costa adriatica, almeno fino a Ravenna e forse anche a Rimini. Questa tarda fase etrusca adriatica sopravvive nel corso del III sec. e si salda fino ai primi episodi della romanizzazione della valle del Po. 69 La cultura materiale di Pontecagnano evidenzia stretti rapporti con l’Etruria meridionale. Il centro picentino (analogamente alle altre comunità villanoviane) dimostra una pianificazione insediamentale e territoriale di tipo “protourbano” che prevede una netta distinzione tra “società dei vivi, comunità dei morti”, indice di una marcata coesione politica e di un avanzato livello di organizzazione socioeconomico. Nella prima età del ferro oltre alle due necropoli a sud-est e nord- ovest dell’abitato e ad un nucleo meridionale, è noto un’ulteriore sepolcreto a 2 km a sud (località Pagliarone) riferibile ad un insediamento minore posto al controllo di un approdo lagunare. Quest’area corrisponde al porto di Pontecagnano, attivo fino all’insabbiamento avvenuto negli ultimi anni del VI sec. a.C. (successivamente venne trasformato un bacino perilacustre oggi noto come “lago Piccolo”). Durante la prima età del ferro Pontecagnano si assicura il controllo del territorio dislocando avamposti come Capodifiume, Arenosola e Poggiomarino, che successivamente perdono la loro funzione e vengono inglobati dalle comunità indigene circostanti. La prima età del ferro picentina viene divisa in due fasi: 1. fase I → dal IX fino ai primi anni dell’VIII sec. a.C. 2. fase II → dall’VIII sec. fino alla fondazione di Cuma (725 a.C.) Entrambe le fasi sono state divise in sottofasi ( I a-b; II a-b). Il rituale funerario più diffuso nel IX sec. è l’incinerazione (rito simile a quello usato nelle città etrusche meridionali costiere come Veio o Tarquinia) con deposizione all’interno di un ossuario biconico26 collocato in tombe a pozzetto o a “ricettacolo”. Nelle tombe maschili il coperchio dell’ossuario spesso imitava un elmo in bronzo, con estremità apicata o crestata, talvolta recante complesse decorazioni zoomorfe o antropomorfe; gli altri ossuari sono chiusi da uno scodellone capovolto. È proprio da Pontecagnano che proviene l’unico esemplare di urna a capanna della Campania antica: riproduce una capanna a pianta circolare con copertura poggiante su travi in legno. Il fenomeno dell’inumazione coesiste con quello dell’incinerazione (come è documentato in Etruria per Populonia e Caere): l’incinerazione viene usata per entrambi i sessi adulti nelle necropoli urbane; al contrario in città nella necropoli del Pagliarone sembra esserci una predilezione per l’inumazione delle spoglie femminili. Gli sudi spiegano che nelle necropoli urbane l’inumazione era adottata nelle categorie di non-adulti. Come per l’Etruria nel IX sec. sembra prevalere un’uniformità dei corredi e il divieto di porre armi reali all’interno delle tombe. Il tutto regolarizzato dalla presenza di un’autorità in grado di garantire il rispetto di norme collettive (limitando radicalmente le esigenze di autorappresentazione di gruppi familiari o di singoli). Nella maggior parte dei casi il costume funerario dipende dal genere del defunto: elementi di distinzione privilegiati sono le fibule maschili o femminili. Nella fase I a. il 26 L’ossuario biconico costituisce uno degli elementi più caratteristici della cultura Villanoviana, così chiamata dalla località presso Bologna dove vennero inizialmente scoperti nel 1853 i sepolcreti della prima Età del Ferro, in cui questi vasi fungevano da cinerari. L’urna destinata ad uso funerario era fornita già in partenza di una sola ansa; la seconda ansa, qualora ne fosse provvista, veniva intenzionalmente spezzata nel corso del rituale funerario. 70 corredo maschile, data l’assenza di armi, è caratterizzato da rasoi; quello femminile da accessori tessili. Solo nella fase I b si iniziano ad esibire lance e spade. Una testimonianza importante dell’integrazione con il contesto indigeno è il repertorio ceramico: i vasi cinerari hanno similitudini con i modelli delle tombe campane a fossa, soprattutto quelle dell’area cumana: anforette, brocche con ansa alla spalle, etc…. Uno dei più antichi corredi dove compaiono armi è quello della tomba 180 (tra I a e I b), dove troviamo una panoplia27 completa di spada in bronzo con fodero e schinieri28. Durante la seconda metà del IX sec. e al passaggio all’VIII sec. troviamo gruppi familiari allargati: emergono figure maschili armate di spada assieme a deposizioni femminili, dello stesso rango. Troviamo sepolture dal carattere monumentale: l’esempio più significativo è quello della tomba 2145. La complessità delle ideologie, dei rituali e delle forme religiose è testimoniata dal noto coperchio di ossuario recante come coronamento una coppia seduta di un personaggio femminile e uno maschile come indicano le differenze nella capigliatura e nell’abbigliamento. Il gruppo è stato interpretato come eroizzazione di un guerriero accompagnato nel suo destino ultraterreno cioè da una divinità femminile; non è da escludere tuttavia che a essere valorizzata possa essere la coppia coniugale che in questa fase acquista importanza anche nell’organizzazione dello spazio e nel costume funerario. Il centro picentino è inserito in un vasto circuito di relazioni che coinvolge l’Etruria, l’Italia meridionale, la Sicilia, la Sardegna (nel cui ambito un ruolo propulsore sembra svolto dai Fenici). Tra le più antiche importazioni figurano impasti con decorazione “piumata” dalla Sicilia, ceramiche dello stile “a tenda” dal Vallo di Diana o dalla Basilicata e una serie di bronzetti provenienti dalla Sardegna contemporaneamente attestati in contesti tombali etruschi: ricorrono esclusivamente in tombe femminili i bottoncini sormontati da figure zoomorfe e ornitomorfe mentre l’unico vasetto a cestello è attestato in un corredo maschile con spada (tomba 6107). Gli oggetti sardi venivano tramite navi fenicie; a testimonianza di ciò l’arrivo in Etruria di prodotti di lusso orientali. Un’altra ipotesi ( inerente l’Etruria e Pontecagnano) è la formazione di legami matrimoniali, data la prevalente presenza di bronzetti nelle deposizioni femminili. Durante la prima metà dell’VIII sec. (fase II a) si sviluppano interazioni sociali con il mondo greco. A testimonianza di ciò abbiamo le manifestazioni funerarie della comunità picentina, in cui alcuni appezzamenti, espressione di formazioni parentali allargate, dimostrano (tra le fasi I b e II a) forme avanzate di concentrazione e trasmissione ereditaria della ricchezza. Si tratta di gruppi che controllano gli scambi e le relazioni con i primi navigatori euboici-cicladici (i greci) e poi con Pithekoussai. Tra visitatori greci e membri delle élite locali si instaurano rapporti e scambi cerimoniali segnalati a Pontecagnano, Capua, Cuma indigena come nei principali centri dell’Etruria tirrenica (Veio, Tarquinia, Caere), in Sicilia, in Sardegna, dalla comparsa di vasi greci d’importazione. 27 Il complesso delle varie parti di un'armatura, o un insieme di armi assortite, disposte a trofeo per ornamento, o in quanto soggetto di raffigurazione plastica o pittorica a carattere decorativo. 28 Lo schiniere o gambiera è quella parte dell'armatura che protegge parte della gamba, dal malleolo al ginocchio (anticamente copriva anche quest'ultimo) e che serviva per proteggere la parte che rimaneva al di fuori dello scudo. 71 Si tratta soprattutto di coppe di tipo medio e tardo geometrico: il fascino dei cerimoniali connessi al consumo sociale del vino (segno distintivo delle aristocrazie greche) e il successo della relativa suppellettile da mensa, sembra abbiano favorito l’inizio delle relazioni tra naviganti greci e élite locali. Pontecagnano svolge fin dall’inizio un ruolo privilegiato come testimonia la concentrazione di ceramiche greche in alcuni gruppi funerari, in primo luogo le coppe “a semicerchi penduli”, le coppe con decorazione a chevrons, a meandro e rari vasi per versare di produzione cretese. Con l’insediamento di Pithekoussai, tra la metà e il terzo quarto dell’VIII secolo, e soprattutto con la fondazione di Cuma, i rapporti tra Greci e centri tirrenici cambiano profondamente: a Pontecagnano si intensificano le importazioni e si sviluppano produzioni locali gestite da artigiani greci. Un esempio è costituito da un’olla con figurazioni geometriche proveniente dalla tomba 3892, che pur utilizzando un impasto locale presenta una decorazione con motivi tardo-geometrici di tipo euboico (probabilmente una versione locale realizzata a Pontecagnano da un artigiano greco). 6.3.2. Il potere dei principi (periodo orientalizzante a Pontecagnano) Anche questo periodo è riscontrabile nella manifestazione funeraria: si tratta di aristocrazie a carattere ereditario, paragonabili alle potenti gentes del Lazio e dell’Etruria in cui si ha una struttura sociale piramidale al cui apice si trovano “principi” (che accentrano nella propria persona il potere politico, militare e religioso). Nuove forme di ideologia funeraria (che vogliono distaccarsi dalla prima età del ferro) portano all’abbandono dei sepolcreti più antichi (come per i principali centri etrusco-meridionali) e all’uso di nuovi simboli e comportamenti. Tali dinamiche ideologiche sembrano avere un ruolo decisivo nel processo di formazione urbana. Recenti ricerche sull’abitato di Pontecagnano e sulla topografia dei sepolcreti documentano come la ristrutturazione delle necropoli sia contemporanea ad una generale ridefinizione del sistema insediativo e dei limiti tra abitato e necropoli (segno di un’autorità politica in grado di gestire una riorganizzazione territoriale accompagnata da estesi interventi di bonifica). Viene costruita un’area pubblica dalle funzioni istituzionali e di mercato (comprendente di piazza e struttura absidata). In entrambe le principali necropoli di Pontecagnano, quella occidentale e orientale, le aree funerarie dell’orientalizzante non si sovrappongono mai a quelle della prima età del ferro: l’inumazione è ora il rito dominante, le tombe sono generalmente a fossa o a cassa di travertino; la cremazione o l’allusione a essa ritornano solo in rari casi, come le tombe “principesche” 926-928 e 4461. Si ha anche la presenza di tumuli gentilizi all’interno di aree di sepoltura privilegiate e riservate, mediante recinzione. Pontecagnano appare come una comunità “aperta”, che tende a integrare e rielaborare le diverse componenti. L’instaurazione di norme e divieti di tipo collettivo si manifesta in primo luogo nella selezione di un “corredo base” del tutto innovativo rispetto alla prima età del ferro: viene adottato per tutte le componenti di genere e classe d’età, uomini, donne, bambini, e mantenuto senza variazioni almeno fino alla seconda metà del VII secolo. Il corredo base (di tipo greco) è costituito 74 6.3.3. Capua tra la prima età del ferro e il periodo orientalizzante L’antico insediamento corrisponde all’attuale paesa di S. Maria Capua Vetere: sorse lungo la riva sinistra del Volturno (posizione che consentiva sia di avere il controllo fluviale che quello degli accessi appenninici verso l’area sannitica). Capua viene considerata come la capitale di una dodecapoli etrusca37 in Campania; era una città della straordinaria opulenza. Il suo benessere dipendeva dallo sfruttamento della fertile piana campana. Un noto passo di Velleio Patercolo propone due tradizioni circa la fondazione della città: la prima, condivisa dall’autore, che pone la fondazione intorno all’800 a.C. e la seconda, attribuita a Catone, che data l’evento circa 260 anni prima della conquista romana. Gli studi dimostrano che entrambe le date hanno una corrispondenza: la prima data è riferibile alla prima fondazione della città (presenza di necropoli villanoviane della prima età del ferro), mentre la seconda farebbe riferimento ad una rifondazione della città nel primo quarto del V sec. a.C. I caratteri villanoviani di Capua sembravano molto più attenuati rispetto all’area picentina sia per l’assenza di ossuari biconici sia dell’elmo-coperchio (sostituito da un’olla coperta con una scodella). Questi aspetti hanno suggerito l’ipotesi di un apporto falisco38-capenate39, sotto la direzione di Veio. Un altro aspetto il carattere della documentazione epigrafica rispetto a Pontecagnano, poiché Capua ha iscrizioni in etrusco solo dalla seconda metà del VI sec. Profonde modifiche a questa lettura sono apportate dai risultati dei recenti scavi in località Nuovo Mattatoio: la necropoli, situata a nord ha restituito un’ampia evidenza di tombe riguardante la fase più antica della prima età del ferro (I a), finora assente nelle necropoli capuane. La nuova documentazione attesta la presenza a Capua dell’ossuario biconico e dell’elmo-coperchio, spade e fibule di tipo villanoviano e un’ adesione ai caratteri funerari dell’Etruria tirrenica e Pontecagnano. La disposizione delle necropoli urbane (località Fornaci, Cappuccini, ecc.) dimostra un’organizzazione protourbana, tipica dei coevi centri dell’Etruria. Può vantare una variegata cultura materiale a partire dall’inizio della fase I e soprattutto durante fase II della prima età del ferro, a Capua suddivisa in tre sottofasi (IIa, b, c). I rapporti con l’Egeo sono documentati da un calderone con anse ad anello nel corredo di una eccezionale incinerazione maschile, dotata di spada e rasoio lunato, databile alla metà del IX secolo. Nel corso della seconda fase accanto alle forme dell’impasto locale sono attestate importazioni dal mondo greco e orientale come amuleti e ornamenti. Compaiono le prime ceramiche medio- geometriche greche, soprattutto coppe a chevrons o con motivo “losanga”, molto affine a quanto documentato a Cuma. Le necropoli indicano la progressiva concentrazione della ricchezza e articolazione sociale: il sepolcreto in località Cappuccini documenta criteri di pianificazione funeraria 37Composta da Nocera, Capua, Pontecagnano, Salerno, Nola e Acerra, e forse Suessola, Ercolano, Pompei, Sorrento. 38 I Falisci (in greco antico: Φαλίσκοι, Phalískoi), in senso stretto "abitanti di Falerii", corrispondente alla moderna Civita Castellana, è il nome con cui i Romani indicavano un antico popolo dell'Etruria meridionale.[1] 39 I Capenati erano un popolo dell'Italia antica della Valle del Tevere, nel Lazio centro-settentrionale; il loro territorio confinava a est con Curiti o Quirti di Cures Sabini, a nord con i Falisci di Faleri Veteres e il centro arcaico di Poggio Sommavilla a sud e ovest con gli Etruschi di Veio. 75 probabilmente riferibili a gruppi parentali allargati e la fondazione di culti ctoni40. Dalla metà dell’VIII secolo il repertorio ceramico è caratterizzato da importazioni corinzie e imitazioni di fabbrica pithecusana, soprattutto skyphoi di tipo “Thapsos con pannello” o kotylai “Aetos 666”. Si sviluppano fabbriche locali di ceramiche di tipo greco. L’emergere di aristocrazie ereditarie trova conferma nella presenza di corredi femminili di alto status: troviamo accessori tessili, coltelli in ferro e in acluni casi un set completo di strumenti sacrificali. Il repertorio degli ornamenti si arricchisce con la produzione locale, attestata anche nelle vicina comunità di Suessula41: si tratta di particolari fibule bronzee caratterizzate da appliques zoomorfe e/o antropomorfe, come l’esemplare della tomba 368 recante dieci spirali e una complessa decorazione costituita da file di uccelli, il motivo della “barca solare” con tre figurine umane, un’immagine di bovide in posizione centrale. Alla fine della prima età del ferro (fase II c) e nel terzo quarto dell’VIII secolo, si pone la tomba 722 della necropoli di Fornaci, straordinaria per quantità e qualità del corredo e dell’apparato ornamentale. Accanto ad un ampio repertorio in impasto locale il corredo esibisce un’urna d’argento con decorazione a scaglie, tipologia presente in alcune delle principali sepolture principesche del periodo orientalizzante antico e medio di Cuma, Praeneste, Caere. Come per Pontecagnano, si verifica un abbandono dei sepolcreti della prima età del ferro situati a una certa distanza all’insediamento e al potenziamento delle necropoli urbane situate a ovest (località Fornaci) e a sud dell’abitato di età storica (località Quattordici Ponti). Con l’inizio del VI secolo a.C. si sviluppa, in ambito funerario, un sistema di segni di tipo “principesco” paragonabili a quello delle più antiche élite di area tirrenica in Etruria e nella Campania greca ed etrusca (anche se oggetti come strumenti sacrificali erano già diffusi alla fine dell’VIII sec.). Nella prima metà del VI sec. l’aristocrazia capuana riprende la partica di tipo omerico di esibire la proprie ricchezze attraverso servizi da banchetto d’importazione. Come esempi abbiamo la tomba Dutuit, caratterizzata da un carro di provenienza etrusca, da un servizio da banchetto e da un’ingente quantità di vasi in bronzo di tipo laconico. Un altro esempio è la tomba scoperta nell’area dell’anfiteatro, dalla quale proviene un’ascia di tipo cerimoniale e sicuramente un corredo simile a quello della tomba Dutuit. Oltre a queste due tombe è stato trovato un altro nucleo di tombe principesche, tutt’oggi ancora inedito, nell’area dell’anfiteatro. 6.4. L’influenza culturale etrusca e il processo di urbanizzazione di età arcaica Il periodo arcaico è identificato come la seconda etruschizzazione della Campania. Il fenomeno è più una forma di omologazione culturale che di colonizzazione: si fa riferimento ad un rinnovato ruolo propulsore, svolto dagli etruschi, in una fase nevralgica della storia della regione. L’apporto etrusco in Campania permise l’affermazione di una “cultura meticcia” basata su un patrimonio culturale proveniente dalle aristocrazie greche, etrusche e indigene. L’influenza culturale etrusca si manifesta in tre aspetti principali: • un processo di inurbamento e aggregazione insediativa; 40 Sotterraneo; secondo la mitologia greca, appartenente all'abisso, alle profondità terrestri. 41 Suessula, conosciuta anche come Suessola, fu un'antica città della Campania di origine osca ed etrusca. 76 • inizio della produzione del bucchero42 campano e l’espansione su scala regionale; • diffusione della scrittura etrusca in aree di tradizione indigena. 6.4.1. Etruschizzazione e sviluppo Durante il periodo arcaico la Campania si trasforma in un paesaggio di città: la pianificazione urbana, sviluppata in varie fasi tra tardo-orientalizzante ed età tardo-arcaica, comporta un’articolazione funzionale degli spazi che resterà immutata fino alla conquista romana e una progressiva monumentalizzazione delle aree pubbliche, in primo luogo i santuari. Il tracciato urbano consiste in un reticolo regolare di strade che suddivide gli isolati abitati dalle aree a destinazione pubblica e dalle zone adibite alle attività artigianali. Il processo di urbanizzazione si manifesta in centri come Capua e Pontecagnano e determina la formazione di una nuova rete di insediamenti in aree precedentemente non urbanizzate: la penisola sorrentina (Sorrento, Vico Equense, Stabiae); l’agro nolano (Nola); la valle del Sarno. Nella Campania settentrionale l’urbanizzazione si estende alle vicine Suessula e Calatia. La diffusione del bucchero per tutta l’età arcaica fa sì che questi diventi anche il supporto privilegiato della documentazione epigrafica. L’espansione della scrittura etrusca su scala regionale è attestato dalla metà VI secolo da numerose iscrizioni vascolari graffite su vasi provenienti da corredi funerari: accanto ai nomi etruschi e alla presenza di nomi greci, infatti, si ha un’ampia documentazione di formule onomastiche indigene. La tabula capuana rappresenta uno dei più lunghi testi pubblici in lingua etrusca, databile tra fine VI e inizio V sec. , e ricopiato poi nel corso del V sec. La ceramica da mensa etrusca in bucchero compare a Pontecagnano, Capua e Cales tra il terzo e l’ultimo quarto del VII sec. a.C.: questo bucchero sottile venne importato dell’Etruria meridionale, ma già nei primi anni del VI sec. venne avviata una produzione su larga scala a partire da Pontecagnano e Capua e diffondendosi in tutta la regione, tramite officine autonome. Si esaurisce nel primo quarto del V sec. In questa fase vengono fondate Poseidonia e Velia, lungo la costa meridionale della regione, contribuendo al rafforzamento dei legami tra componenti etrusche e greche. Ma è soprattutto l’asse Capua-Cuma a rivestire un’importanza determinante nella storia della Campania arcaica: Capua nell’ultima parte del VI sec. (governata dal tiranno Aristodemo) va incontro ad un periodo di grande fioritura, caratterizzato dall’espansione e ristrutturazione di opere pubbliche e da un periodo di creatività artigianale. Il clima di apertura e omologazione tra mondo etrusco-campano, greco e indigeno è testimoniato dall’elaborazione di un “sistema campano” costituito da rivestimenti in terracotta policroma, con elevato in mattoni e colonne e trabeazioni lignee (destinato alle strutture templari). Questo sistema architettonico secondo gli studiosi nasce agli inizi del VI sec., periodo a cui risalgono le antefisse di tradizione dedalica, con teste a tutto tondo. L’elemento distintivo del sistema campano sono le antefisse a testa femminile (o palmetta), attestate già nella prima metà del VI sec. a Cuma, Capua e Pithekoussai; nella seconda metà del secolo la decorazione prevede lastre di rivestimento con cornici pendule(di palmette e fiori di loto) e antefisse a testa femminile o 42 Il bucchero è un tipo di ceramica nera e lucida, spesso fine e leggerissima, prodotta dagli etruschi per realizzare vasi. La integrale monocromia nera è la caratteristica più evidente di questa tipologia di ceramica e la colorazione veniva ottenuta mediante una cottura particolare. 79 Pompei è un chiaro esempio di sinergia tra componenti etrusche, greche e indigene unite all’influenza poseidoniate e cumana. Il centro urbano si sviluppa nei primi anni del VI sec. su una terrazza che controlla la zona costiera della foce del Sarno. Viene realizzata una prima cinta muraria. L’abitato più antico, limitato al settore sud-ovest (cosiddetto Altstadt) era dotato di una rete stradale fondata sull’incrocio di due assi principali (“via di Mercurio” nord/sud e “via Marina” est/ovest) ed era incentrato su una piazza (poi Foro di epoca romana) e sul santuario di Apollo. Intorno alla metà del VI secolo il santuario è monumentalizzato con un tempio di tipo etrusco, su alto podio in pietra ma dotato di colonne in legno e di un rivestimento architettonico in terracotta del tipo “campano”. L’edificio di culto del cosiddetto “Foro Triangolare” è un tempio periptero in pietra, con colonne di tipo dorico. Il sistema di rivestimento in terracotta rivela un influsso di Poseidonia (probabili maestranze provenienti dalla città achea), soprattutto nella seconda fase, caratterizzata da grandi gocciolatoi a testa leonina e datata alla fine del VI secolo a.C.; simili apporti poseidoniati nell’architettura monumentale sono attestati nella penisola sorrentina. Il tempio sorto in relazione al porto e a uno degli ingressi urbani era dedicato ad Atena ed Eracle, figura connessa per eccellenza alle pratiche di accoglienza, ospitalità e civilizzazione. 6.4.4. Capua È il centro etrusco della regione per tutta l’età arcaica; viene definita metropolis. Abbiamo un’eccellente documentazione della città già nella prima metà del VI sec., grazie all’area residenziale del margine orientale dell’abitato (località Siepone). Il quartiere è imperniato su un sistema di assi stradali non ortogonali con abitazioni dotate di fondazioni di tufo ed elevato in mattoni crudi. Un simile sviluppo urbano è documentato anche dagli scavi degli anni Ottanta in corrispondenza del Fondo Marotta. La pianificazione urbana in età arcaica implica una monumentalizzazione delle aree pubbliche, tra cui i santuari. Una testimonianza importante per la comprensione dei culti delle città etrusco-settentrionali è la Tabula campana, testo di carattere liturgico inciso su una lastra di terracotta, redatto in un alfabeto riconducibile a città etrusche come Veio. Vengono riportati numerosi riti, destinati alle divinità del pantheon etrusco celeste o ctonio; vi sono anche indicazioni sui luoghi di culto, come il santuario di Uni (corrispondente al Fondo Patturelli) e altri ancora. Il santuario suburbano di Fondo Patturelli, al margine est dell’abitato capuano, risale al periodo alto- arcaico. Il luogo è stato danneggiato da distruzioni antiche e scavi clandestini: le fasi del culto sono ricostruibili però grazie alle terrecotte architettoniche e la documentazione epigrafica. Il santuario sorgeva all’interno di un bosco sacro e includeva un tempio principale e numerosi sacelli ascrivibili all’arco cronologico tra gli ultimi anni del VII e il II secolo a.C. La divinità titolare è femminile, connessa alla protezione della fertilità e della procreazione. Nell’ambito della vasta produzione di terrecotte votive spicca il tipo della “madre campana” con la divinità in trono intenta ad allattare uno o più bambini avvolti in fasce. Si tratta di un culto popolare che persiste fino al II secolo a.C.; con testimonianze di devozione da parte di donne aristocratiche che dedicano statue in tufo di grande formato. I caratteri del culto e le indicazioni provenienti dalla Tabula capuana hanno suggerito che la divinità femminile potesse essere Uni (Hera, Giunone) oppure a divinità italiche come Fortuna o Mater Matuta. Anche due santuari posti a protezione confini erano dedicati a divinità femminili. Il primo si trovava a nord, sul monte Tifata, come documentano i resti di un edificio templare, inglobati nella chiesa benedettina di Sant’Angelo in Formis: il santuario era 80 dedicato a Diana e Artemis, identificata in documenti epigrafici in osco con l’italica Mefite. Non è stata ancora individuata con certezza la posizione dell’area sacra: il luogo di culto sopravvisse alla conquista campana di Capua nel 421 a.C., costituendo il santuario federale del popolo dei Campani. Secondo le informazioni fornite da Livio il santuario doveva essere localizzato verso sud, a circa tre miglia da Cuma, mentre le modalità del rito lasciano intravedere un culto di carattere ctonio. Nel 524 a.C. la prima “battaglia di Cuma” contrappone i cumani a una coalizione formata da Etruschi, Umbri e Dauni e segna l’ascesa di Aristodemo come condottiero e uomo politico. Aristodemo diventerà “tiranno” della città solo più tardi nell’ambito degli avvenimenti connessi alla cacciata di Tarquinio il Superbo (509 a.C.), l’ultimo sovrano etrusco di Roma, e all’affermazione della Repubblica seguita dalla guerra condotta contro la città da Porsenna, re di Chiusi: nella battaglia di Ariccia del 504 a.C. il condottiero cumano sconfigge Arrunte, figlio di Porsenna e al suo ritorno a Cuma riesce a prendere il potere. L’età di Aristodemo segna sia a Cuma che a Capua un periodo di sviluppo e grandiose opere pubbliche: la seconda metà del VI secolo, infatti, rappresenta per Capua un momento di straordinaria fioritura ed espansione produttiva stringendo un inscindibile rapporto con Cuma (testimoniato dall’adozione da parte delle élite delle medesime ideologie e di analoghe classi di lusso). A Capua, la fioritura artigianale tardo-arcaica trova espressione nell’elaborazione di una cifra stilistica unitaria che conferisce una certa uniformità a produzioni diversificate quali la bronzistica e la ceramica campana a figure nere, oltre che alla coroplastica49. Particolare importanza riveste la produzione di dinoi 50bronzo con coperchi sormontati da scene figurate animate da bronzetti a tutto tondo. L’esemplare più noto e impegnativo di questa classe è il cosiddetto “lebete Barone” datato alla fine del VI secolo. Il vaso si distingue per il complesso sistema decorativo: il coperchio è ornato da un sileno 51e una menade 52attorniati da arcieri a cavallo; questo esemplare è l’unico della serie a recare alla base della spalla fregi contenenti scene di caccia e episod i di carattere mitologico connessi alla figura di Eracle e probabilmente alla figura dell’eroe come fondatore dei giochi olimpici (Eracle e Caco, caccia al cervo, corsa di bighe, scene di palestra-lotta e pugilato). Dal punto di vista ideologico, è stato notato come l’adozione del dinos in metallo come vaso cinerario e la struttura “a cubo” del sepolcro, a Capua come a Cuma e in altri centri della regione (Suessula, Oplontis), intenda manifestare uno status al di sopra della norma rispetto alle coeve deposizioni di rango eminente entro vaso attico figurato. Per quanto riguarda le scene figurate dei lebeti, i temi esprimono i valori dell’etica aristocratica e del percorso iniziatico dei giovani verso di essi; il programma iconografico del “lebete Barone” che associa all’esaltazione degli ideali aristocratici, temi “politici” connessi alla propaganda sulle origini elleniche di Capua. 49 La tecnica della lavorazione della terracotta. 50 Il dinos (al plurale dinoi) era un vaso utilizzato in Grecia prevalentemente per mescolare l'acqua al vino. Il collo non è presente e l'imboccatura è ampia. Il fondo è arrotondato, privo di piede, e necessita di un supporto separato frequentemente dotato di elaborate modanature. Il corpo globulare del dinos essendo privo di anse consentiva una decorazione che si svolgeva intorno al vaso senza interruzioni. 51 Sileno (in greco antico: Σιληνός, Silēnós), oppure Seileno (in greco antico: Σειληνός, Seilēnós), è un personaggio della mitologia greca e corrisponde al vecchio dio rustico della vinificazione e dell'ubriachezza antecedente a Dioniso 52 Seguace del culto orgiastico di Dioniso; baccante. 81 La conclusione di questa fase di espansione artigianale corrisponde a una crisi nella storia della città e della Campania. 6.5. Dall’egemonia etrusca all’etnogenesi 53dei Campani La crisi segna la fine della talassocrazia54 etrusca e da inizio ad una affermazione di altre realtà del mondo italico. Infatti sebbene “l’età di Aristodemo” corrisponda ad un momento eccezionalmente florido per Cuma, Capua e l’intera Campania, è proprio in questa fase che giungono a maturazione latenti tensioni sociali che acquistano progressivamente la forma di rivendicazioni etniche. Con la prima battaglia di Cuma si è verificato un rafforzamento della componente sannitica nell’area nolana e nella valle del Sarno tra fine VI e inizio V sec. le vicende storiche che segnano la fine di una fase e l’inizio di un'altra sono la morte di Aristodemo (484 a.C.) e la seconda battaglia di Cuma (474 a.C.): la sconfitta etrusca mette fine al rapporto privilegiato tra Etruria e Campania. Si afferma il potere marino di Siracusa e la nuova fondazione di Neapolis, sostituisce il ruolo di Cuma nel controllo del golfo. Questi cambiamenti si riscontrano moltissimo (a livello archeologico) nei radicali interventi di ristrutturazione urbana, nuove fondazioni o ricostruzioni di fortificazioni. Nel caso di Capua Velleio Patercolo riporta la tradizione catoniana secondo cui la città sarebbe stata fondata nel 471 a.C. mentre Livio narra vicende di conquista sannite del centro etrusco Volturnum, il cui nome sarebbe stato poi convertito in Capua55. Il nome Volturnum trova conferma nella Tabula campana, dove il termine vultur indica l’avvoltoio legato agli auspici nel rito di inaugurazione. È possibile che Volturnum costituisca la nuova denominazione imposta dalle aristocrazie etrusche in un momento cruciale della storia della città per sottolineare una profonda cesura istituzionale accompagnata da un vero e proprio atto di rifondazione urbana. Le stesse dinamiche sull’impianto urbano sono documentate a Pontecagnano e a Fratte. Per quanto riguarda Pontecagnano recenti esplorazioni archeologiche lungo il lato settentrionale dell’insediamento hanno identificato parte di un impianto regolare che interessa un settore precedentemente non occupato dell’abitato e è basato su isolati di circa m 46 di larghezza formati da almeno otto assi NE/ SW che dovevano incrociare due assi ortogonali più ampi, il primo dei quali coincidente in età romana con il decumano massimo dell’insediamento che costituisce il tratto urbano della via Popilia. In questa fase la città si circonda di una fortificazione che segue i margini della terrazza dell’abitato. È probabile che una funzione sacrale sia da attribuire a un canale parallelo 53 L'etnogenesi (dal greco: ethnos (έθνος) - "popolo", e genesis (γένεσις) - "genesi"; letteralmente "genesi del popolo") è il processo di formazione di un gruppo etnico. 54 Dominio del mare, con particolare riferimento alle grandi potenze che lo esercitarono in epoca classica. 55 Mentre i reperti archeologici testimoniano la presenza etrusca già risalente alla fase villanoviana, quindi sul territorio della Capua antica già a partire dal IX secolo a.C., l'anno preciso della sua fondazione e il nome del suo fondatore sono stati nel corso dei secoli materia di discussione e ancora oggi la questione non vede d'accordo tutti gli storici. Tra gli autori più antichi, Catone nelle Origines vuole Capua fondata 260 anni prima della sua conquista da parte dei romani mentre Velleio Patercolo la vuole fondata nell'800 a.C.. Secondo l'Eneide di Virgilio, invece, la città sarebbe stata fondata da un troiano fuggito con Enea in Italia, di nome Capi, dopo la guerra coi Rutuli di Turno. 84 un accordo (358), che sarebbe durato solo un ventennio (fino alla guerra che portò allo scioglimento della Lega latina (338) ) ma che permise a Roma e ai Latini di rivolgere attenzione al fronte sud (Ernici e pianura Pontina). Questo fu il motivo per cui gli etruschi sottovalutarono il pericolo romano e le conseguenze della caduta di Veio e subito dopo di Capena. Fu solo nel 358 che l’altra grande città dell’Etruria meridionale, Tarquinia, tentò di recuperare il potere e l’influenza politica perduti, d’intesa prima con i Falisci e poco dopo (353) con i Ceretani, ma gli scontri con Roma di queste città furono inconcludenti e portarono a una tregua di quaranta anni a partire dal 351 per Tarquinia e Falerii. Dopo d’allora il fronte etrusco avrebbe taciuto a lungo e le forze romane sarebbero state impegnate a sud, contro Latini, Volsci e Sanniti. Le ostilità in Etruria ripresero con la guerra di Sutri: un esercito etrusco assediò la città nel 311 e solo al secondo anno di sforzi i Romani riuscirono a liberarla e a contrattaccare. L’attenzione romana a questo punto iniziò a rivolgersi all’Etruria interna, al di là della selva Cimina: vennero stipulate tregue con Perugia, Cortona e Arezzo. Anche gli Umbri si erano scontrati con i Romani a Mevania, ma con alcune città umbre i rapporti furono di natura assai più pacifica: venne sancito un trattato paritario (foedus aequus) tra Roma e Camerino e una amicitia con Otricoli. La presenza romana venne rafforzata in quest’area dalla fondazione della colonia di Narnia nel 299, in modo da assicurare una via verso nord attraverso le valli del Tevere e della Nera. Nel frattempo, sul fronte meridionale e costiero, la tregua quarantennale con Tarquinia appena scaduta fu rinnovata per un periodo uguale. A parte episodi minori non abbiamo campagne belliche impegnative fino al formarsi della coalizione che unì ben quattro popoli in funzione antiromana: Galli, Sanniti, Etruschi e Umbri. Le trattative tra Sanniti ed Etruschi iniziarono nel 296, ma si arrivò allo scontro con le forze romane solo l’anno successivo, quello della battaglia di Sentino (una disfatta del fronte antiromano). Qui è celebrata la cacciata dei Galli da Delfi, conflitti contro Chiusi e Perugia, mentre nel 294 venne devastato il territorio di Volsinii e si ebbe un ulteriore grande successo dell’esercito romano: la presa di Roselle. Fino ad allora, infatti, solo Veio era caduta in mano romana e gli Etruschi, chiudendosi nelle mura delle loro città, erano riusciti a sottrarsi in all’attacco romano, lasciando al nemico solo le campagne. Una tregua quarantennale fu invece stabilita con Volsinii, Arezzo e Perugia dietro pagamento di una multa di 500.000 assi per ciascuna città. Un’ulteriore invasione gallica nel 294 pose l’assedio ad Arezzo, ma esistevano suddivisioni interne anche allo schieramento etrusco e che dunque – assieme ai Galli – si trovassero anche contingenti etruschi di altre città che intendevano combattere Arezzo in quanto filoromana. L’intervento romano andò incontro dapprima a un grave insuccesso (morì nel primo scontro anche il console) ma la situazione fu riscattata da una successiva vittoria che portò alla fondazione della colonia romana di Sena Gallica. Ancora i Galli Boi chiesero aiuto agli Etruschi, ma vennero sconfitti definitivamente al lago Vadimone (283) da identificare con il lacus Statoniensis. I Fasti Trionfali ricordano ancora un trionfo sugli Etruschi nel 281 e un secondo sui Volsiniesi e i Vulcenti nel 280. Gli ultimi episodi della conquista furono: nel 274-273 una ribellione di Caere portò alla confisca di metà del suo territorio ,successivamente usato per la fondazione delle colonie romane marittime di Alsium (247), Fregenae (245) e verosimilmente Pyrgi e Castrum Novum (264?) e la ribellione di Volsinii (265) che terminò con una sconfitta e il sito originario (odierna Orvieto: da Urbs Vetus) 85 venne distrutto ricostruendo a valle la città sulle rive del lago di Bolsena56. La presa di Volsinii procurò ai vincitori un enorme bottino di 2000 statue di bronzo, che in buona parte provenivano dal santuario etrusco di Fanum Voltumnae, infliggendo così anche una ferita simbolica alla Lega etrusca. Alcuni di questi bronzetti furono dedicati dal generale vincitore, Marco Fulvio Flacco, in un donario ritrovato nell’area del santuario romano di Fortuna e Mater Matuta al Foro Boario. 7.3. L’Età delle alleanze Nel periodo che va dalla guerra di Sutri (310) al termine della conquista (264) venne fondata solo una colonia latina, quella di Cosa (273), nel territorio di Vulci in posizione dominante sulla costa toscana. Durante il secolo successivo venne completata la colonia marittima di Gravisca (181), già porto di Tarquinia, Saturnia (183) e la colonia di Heba, fondata verso la metà del II secolo su un precedente insediamento etrusco a poca distanza dall’attuale Magliano, nell’entroterra di Talamone. Il territorio vulcente subì una notevole riduzione in maniera analoga a quanto si era già verificato per quelli ceretano e tarquiniese. In un momento imprecisabile del II secolo si può aggiungere, infine, la praefectura di Statonia, da collocare presso l’odierna Bomarzo a est del lago di Bolsena e non lontano dal Tevere, in territorio tarquiniese – o forse volsiniese. Tra la seconda metà del III sec. e la prima metà del II sec. venne creata una reta di viabilità che attraversava l’Etruria: la via Aurelia, che corre parallela alla costa tirrenica verso i Liguri; la via Flaminia, che conduceva verso l’Adriatico (datata al 220); la via Clodia e la Cassia (entro la metà del II sec.). lungo queste strade vennero fondati i vari centri di servizio alle strade stesse, ossia Forum Cassii (territorio di Tarquinia), Forum Aurelii (nel territorio di Vulci) e Forum Clodii in quello di Caere. Questa nuova e importantissima rete viaria miravano più lontano: Aurelia e Flaminia miravano a teatri d’azione al di là della regione. Gli effetti economici e sociali indotti sul territorio da queste strade furono certamente reali, ma secondari rispetto alle loro finalità principali. Per raggiungere le loro mete nel minore tempo possibile inevitabilmente deviarono le correnti di traffico principali impoverendo in qualche modo le città tagliate fuori dal percorso a favore dei nuovi centri minori, che invece vi vennero costruiti a cavallo o che sorgevano nelle immediate vicinanze. La spiegazione del minore impatto delle colonizzazioni in Etruria va ricercata dunque in un diverso sistema di controllo dell’area: l’invasione gallica del 225, infatti, non causò più alcuna sollevazione tra gli Etruschi, che ormai avevano sperimentato l’inutilità di un’alleanza con queste popolazioni, anzi Etruschi (e Umbri) contribuirono notevolmente a respingere i Galli. La prova decisiva, però, si ebbe durante la seconda guerra punica (218-202). L’Etruria soffrì delle scorrerie di Annibale ma, nonostante le gravi e ripetute perdite degli eserciti romani, rimase fedele a Roma. Inoltre, tra le città che diedero contributi di guerra a Scipione l’Africano nel 205 , gli Etruschi figurano in prima linea: sono specificamente elencate Caere, Populonia, Tarquinia, Volterra, Arezzo, Perugia, Chiusi e Roselle. 7.4. Il sistema sociale 56 Come poco dopo a Falerii (Novi), nuova fondazione lungo la direttrice della Flaminia, dopo la distruzione della vecchia città (241), che sorgeva sul sito dell’odierna Civita Castellana. 86 Il sistema di controllo utilizzato dai Romani sfruttava la peculiare struttura sociale comune alle varie città etrusche ma differente da quella condivisa da Roma e dalle città del Lazio, rispetto alla quale presentava tratti più conservatori. Le fonti non sono molto loquaci a riguardo, ma alcune indicazioni sono sufficienti per riconoscere un paio di stratificazioni fondamentali della società etrusca. Innanzitutto Livio narra la “ribellione” degli Aretini, che portò all’intervento romano del 302, e identifica il bersaglio di questa rivolta interna nella famiglia dei Cilnii: tale gruppo gentilizio detiene una notevole potenza economica ed evidentemente era orientato in senso filoromano, cosicché il tentativo di espellerlo da Arezzo avrebbe costituito un danno per Roma. L’intervento romano contro i rivoltosi portò a una riconciliazione con i Cilniii di quella che viene definita “plebe”: importa notare che con questo nome Livio designa una classe popolare, ma non parla di schiavi. Pochi anni più tardi (293) il console Spurius Carvilius Maximus assalì una cittadina etrusca di nome Troilum e si accordò per lasciare uscire liberi, dietro pagamento di un cospicuo riscatto, 470 cittadini tra i più ricchi mentre gli altri perirono o furono venduti schiavi dopo l’espugnazione dell’abitato. Un ulteriore importante episodio è quello della rivolta finale di Volsinii (265- 264) descritta da numerosi autori. Il più dettagliato è il greco Zonara che riferisce come Volsinii godesse inizialmente di una situazione politica piuttosto stabile, ma che sarebbe decaduta dopo la conquista romana. I cittadini avrebbero così affidato l’amministrazione cittadina ai loro servi e condotto anche le loro campagne belliche fidando sulle forze di questi stessi schiavi. Alla fine i servi si sarebbero sentiti abbastanza forti e capaci da aspirare alla libertà, riuscendo finalmente a ottenerla secondo una procedura equiparata da Zonara alla liberazione degli schiavi romani, i quali acquistavano così lo statuto di liberti. Gli antichi padroni, però, preoccupati da questa evoluzione che si stava ritorcendo a loro danno, avrebbero chiesto aiuto ai Romani, che avrebbero ripristinato l’antico ordinamento subordinando nuovamente gli schiavi ai vecchi signori. Unico dettaglio, non previsto né gradito ai vecchi padroni, sarebbe stata la serietà e l’impegno con cui i Romani avrebbero assunto tale compito (accettato per ben altri fini e interessi) tanto da arrivare alla distruzione della vecchia Volsinii per rifondarla più a valle e in zona assai meno difendibile, sulle rive del lago di Bolsena. La terminologia di Zonara è importante: egli definisce sempre οίκέται servi, mentre i padroni sono chiamati sia δεσπόται che con altri termini. Le altre fonti definiscono gli οίκέται come servi, mentre i δεσπόται vengono chiamati domini, proprietari terrieri, o ingenui (cioè di nascita libera). Un’altra sollevazione di schiavi avvenne nel 196 a.C. in Etruria, prontamente domata dai Romani, che crocifissero una parte dei rivoltosi e restituirono il restante ai vecchi proprietari. L’ultima evidenza letteraria da esaminare ha una particolare importanza, in quanto si tratta di un frammento che deriva da fonte etrusca. Si tratta della cosiddetta profezia di Vegoia: Vegoia è il nome di una lasa etrusca, una divinità minore a cui sono attribuiti libri sull’interpretazione dei fulmini, e avrebbe scritto un’opera per Arruns Veltymnus. In ambiente romano viene subito alla mente come confronto l’attività di consigliera della ninfa Egeria a vantaggio del re Numa Pompilio. In questo brano Vegoia parla della divisione della terra in Etruria, di cui sarebbe stato autore lo stesso Giove, ma il passo fondamentale è quello che preannuncia una serie di sventure che sarebbero capitate se i servi 89 tentato colpo di stato di Catilina (62). È questo dunque il vero spartiacque della storia etrusca, in cui si perdono buona parte di quelle peculiarità culturali e sociali che avevano contraddistinto l’organizzazione di questo popolo per secoli, anche dopo la conquista romana: dal sistema sociale alla lingua. Negli anni successivi la guerra civile tra Cesare e Pompeo si svolge fuori dall’Italia, ma si riflette comunque sull’Etruria: si aggiungono nuove colonie cesariane o triumvirali, troviamo nuovi insediamenti a Volterra e ad Arezzo, che conosce addirittura una tripartizione del suo corpo cittadino, diviso tra Arretini Veteres, Fidentiores (sillani) e Iulienses (cesariani). Inoltre un certo numero di fondazioni coloniarie si collocano nell’Etruria meridionale tiberina: a Veio, a Capena, a Lucus Feroniae e a Castrum Novum. Ancora differente è il discorso relativo alla guerra civile seguita all’assassinio di Cesare e alla nuova sistemazione augustea. L’epicentro della guerra che contrappose gli eserciti senatorii ai sostenitori di Marco Antonio si ebbe nella guerra di Perugia, dove vinsero le forze senatorie, ma al prezzo della morte dei due consoli Irzio e Pansa. Dal punto di vista dei Perugini il risultato fu disastroso: la città bruciò con enormi perdite umane, lasciando in piedi solo il tempio di Vulcano. Ai veterani Augusto dovette trovare una sistemazione in Italia, per mantenere a portata di mano forze fedeli in una situazione ancora instabile: per quanto riguarda l’Etruria troviamo colonie a Sutri, Firenze, Pisa, Roselle e Siena, mentre Augusto trasformò in municipio la colonia cesariana di Veio. Questa geografia coloniale mostra come l’Etruria centro- settentrionale fosse risparmiata e le fonti ci confermano il supporto proveniente da quest’area per il giovane Ottaviano. 7.7. L’età della memoria Consolidato il suo potere, Augusto iniziò una politica che mirava alla valorizzazione dei municipi italici, mediante interventi diretti o legati a personaggi legati alla sua persona. Uno degli impegni più significativi e duraturi di Augusto e dei suoi successori fu lo sforzo di realizzare un’identità italica che fondesse e integrasse le storie delle popolazioni italiche, superando conflitti antichi e recenti. L’apporto etrusco (ossia di cultura unitaria e ben connotata) acquisì notevole importanza e fu identificato nella sfera religiosa e rituale : la Etrusca disciplina59. Anche l’imperatore Claudio, in un discorso che tenne al senato nel 47 d.C. definì quella etrusca come la disciplina più antica d’Italia e propose una riorganizzazione del vecchio ordine dei sessanta aruspici: un gruppo di esperti della disciplina a cui lo stato romano ricorreva ufficialmente in caso di crisi o portenti inspiegabili e potenzialmente pericolosi. Gli studiosi discutono sulla data di costituzione di questo apparato (se all’età augustea o tardo repubblicana), arrivando alla conclusione che sia stata un’evoluzione graduale: partendo prima da pochi membri all’epoca di Augusto. Viene recuperata un’altra antica istituzione, quella della Lega dei popoli etruschi (mantenendo solo aspetti religiosi e perdendo la funzione politica). Nell’epoca dell’indipendenza etrusca, tale lega era formata da dodici popoli che si riunivano presso il santuario federale del Fanum Voltumnae (si è ipotizzato fosse nei pressi di Orvieto). L’elenco di tali popoli non è fornito da nessuna fonte in maniera completa, sappiamo tuttavia almeno che Populonia fu aggiunta in un secondo momento. Si ritiene che originariamente comprendesse Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, 59 È nome usato dai testi antichi per indicare l'insieme della scienza sacra dei Tuschi-Etruschi. 90 Arezzo, Volterra, ma altri preferirebbero sostituire Roselle con Fiesole. In epoca imperiale la situazione era profondamente modificata e il vecchio numero di dodici città non era più sufficiente (tenendo conto dello status acquisto da altri centri) cosicché nella riforma giulio-claudia la lega fu portata a quindici membri, aggiungendo a quelle già elencate anche Populonia e Pisa. A testimonianza di ciò abbiamo un rilievo marmoreo rinvenuto a Caere assiema a ritratti imperiali ante quem 49 d.C. Il rilievo fu interpretato come trono della statua di Claudio, ma si tratta in realtà del fianco di un altare. La lastra, di cui resta circa metà della lunghezza, conserva tre immagini di statue, ciascuna sul suo basamento iscritto, disposte in maniera asimmetrica e quasi casuale a suggerire che si tratti di una replica in piccolo di un donario di maggiori dimensioni. Le figure rappresentano gli eroi fondatori di popoli della lega: i Vetulonenses, i Volcentani e i Tarquinenses. Un ulteriore frammento con una quarta figura maschile, forse bacchica, è purtroppo disperso e noto solo da un disegno. Il donario modello di cui il rilievo ci preserva parzialmente l’immagine (se questa ipotesi è giusta) si poteva trovare in un luogo di importanza riconosciuta da tutti i popoli: il Fanum Voltumnae o forse un santuario romano,visto il contesto di culto imperiale in cui la lastra è stata ritrovata. Il processo di romanizzazione è ormai concluso: Etruria è il nome della VII regio della suddivisione augustea, una delle undici in cui era suddivisa l’Italia, la sua popolazione originaria si è diluita attraverso l’immissione di coloni provenienti da altre regioni. La rimanenza delle élite si è integrata nel sistema romano riuscendo nei casi migliori a entrare in senato, mantenendo una nicchia economica e politica ma solamente a livello locale. La memoria della etruschicità di un personaggio o di un costume sono l’eccezione nel quadro di un’integrazione sostanzialmente completata: alcune sfumature linguistiche e culturali sopravviveranno nelle epoche successive, una volta che l’ossatura centralizzata dell’impero tenderà a sfaldarsi alla fine del mondo antico per un ritorno a un’economia più localista. 7.8. Casi esemplificativi Non si deve dimenticare che i processi storici attraverso i quali si svilupparono concretamente i rapporti delle singole entità civiche e territoriali etrusche con Roma variano da città a città. Si propone di seguito una scelta limitata a quattro città (due meridionali e due settentrionali): una città in cui l’elemento etrusco è stato precocemente cancellato (Veio) a una in cui esso si è conservato sfruttando al meglio le opportunità politiche e geografiche (Volterra); una città in cui memorie storiche sono state coltivate da una minoranza elitaria (Tarquinia), a una in cui il silenzio delle fonti letterarie ed epigrafiche viene in parte colmato da dati archeologici abbondanti, ma ancora non studiati a fondo (Roselle). 7.8.1. Veio Fu la prima a cadere in mano a Roma nel 396 a.C. : in seguito alla conquista l’area urbana fu ridimensionata. Alcuni luoghi di culto (Macchiagrande, Campetti e Comunità) diventano un punto di aggregazione sociale e economica per vecchi e nuovi cittadini. In queste aree si concentra la produzione ceramica e anche in centri vicini come Capena, Narce e Lucis Feronie. Questi centri di culto costituivano allo stesso tempo centri di scambio e di mercato di manufatti votivi e molto altro, con un produzione su scala regionale. Questa discreta floridezza decade nella metà del III sec., con 91 la chiusura dei centri di produzione ceramica. Le ragioni della crisi sono molte: la leva militare durante la seconda guerra punica (218-202), che attinse pesantemente sulla popolazione in un raggio di 50 miglia da Roma; il timore di Annibale, che portò all’ inurbamento; le campagne in Oriente e nella Cisalpina e la successiva colonizzazione, che attirò i piccoli proprietari con la promessa di assegnazioni di terra. La colonia cesariana e il municipio invertono solo momentaneamente la tendenza. La cittadina della prima età imperiale, tuttavia, poteva vantare strutture monumentali di un certo livello: conosciamo una Porticus Augusta, un teatro, un tempio di Marte, una schola cioè una sala per riunioni. Vecchi scavi ottocenteschi rinvennero un’importante serie di ritratti giulio-claudi: di grande importanza furono le ricognizioni della Scuola Britannica; più di recente l’Università di Roma “la Sapienza” ha intrapreso nuove ricognizioni del sito, realizzando una cartografia dedicata, sulla quale sono state riportate anche tutte le evidenze tratte dall’analisi delle foto aeree, infine ha praticato saggi mirati e identificato teatro, Foro e un impianto termale. Tra i maggiorenti 60 della città giulio-claudia troviamo numerose componenti: il patrono M. Herennius Picens, esponente della nobiltà municipale emergente, attivo nella produzione e commercializzazione del vino non solo in ambito italico; i liberti come C. Iulius Gelos che a Roma abitava sul Palatino nella Domus Gelotiana, della quale si serviva talvolta Caligola per assistere ai giochi nel sottostante Circo Massimo. La rinascita del centro voluta da Augusto non nasconde l’artificialità dell’operazione: i gentilizi attestati epigraficamente in età imperiale sono riconducibili a famiglie genericamente etrusche per meno del 10% e in questa percentuale si trovano anche personaggi che fanno certamente parte del gruppo di coloni augustei. La fioritura giulio-claudia non trova paragone nei secoli successivi, che vedono un progressivo declino. 7.8.2. Volterra Essendo una delle città più settentrionali dell’Etruria la sua romanizzazione fu più gradua, sia a livello politico che culturale. Infatti, nella cultura materiale non troviamo cesure direttamente riconducibili alla conquista romana. Nel III sec. troviamo caratteristiche produzioni ceramiche a vernice nera e successivamente a vernice rossa. Altrettanto tipica è la produzione di urnette funerarie, prima i tufo e poi in alabastro (le cave erano molto ricche). Questa fortuna continua nella prima parte del II sec., quando la fondazione di Lucca (180) e Luni (177) protegge i Volterrani dalle incursioni liguri. Ci sono famiglie che entreranno nel sento romani come i Ceicna-Caecina, i Velusna-Volasenna e gli Arunni- Arminii. Viene rinnovato il tempio vicino al teatro e i due posti sull’acropoli. Alla fine del secolo la città, sostenitrice di Mario, fu assediata personalmente da Silla: il dittatore punì la città riducendone i diritti civili e confiscando i territori, come per Arezzo. Cicerone si adoperò a favore della città, ma Cesare nel 45 a.C. ridistribuì nuovamente le terre volterrane. La città acquisì statuto coloniale durante il secondo triumvirato (testimoniato dal Liber coloniarum). Augusto le concesse il titolo onorifico di Colonia Augusta. 60 Persona che gode di un notevole prestigio economico o politico nell'ambito di una comunità organizzata. 94 95 8. L’ARCHITETTURA 8.1. Le capanne Fino alla seconda metà del VII sec. a.C. le strutture pubbliche e domestiche erano costituite da Capanne, in tutta Italia. Erano caratterizzata dalla assenza di fondamenta e l’uso di materiali deperibili. La presenza di tracce sul terreno indica che fossero disposte senza alcun ordine, distanziate tra loro da appezzamenti di terreno coltivati e aree per l’allevamento. Gli unici resti sono i fondi delle capanne e i buchi per pali e dallo strato antropico più o meno evidenziato sul terreno vergine. I buchi dei pali ci fanno capire la forma che la capanno poteva avere: rotonda, ovale, quadrata o rettangolare (senza però darci informazioni cronologiche). Determinate è stato invece il confronto con le coeve urna a capanna. Questi modellini funerari, già attestati nell’età del bronzo finale, ma in uso in Etruria soprattutto nel IX e nell’VIII secolo, costituiscono la documentazione fondamentale per la ricostruzione delle abitazioni protostoriche, specie per l’alzato. A Veio per esempio gli scavi hanno messo in luce l’uso prevalente di piccole capanne quasi circolari, mentre sulla terrazza di Portonaccio o a Campetti quello di grandi capanne ovali. A Torre Valdaliga e alla Mattonara, sulla costa tarquiniese, sono state rinvenute strutture a pianta circolare, ovale e rettangolare. In particolare a Torre Valdaliga una capanna ovale è sovrapposta a una rettangolare; a Tarquinia una capanna rettangolare è successiva stratigraficamente a una ovale. La coesistenza di capanne rettangolari e ovali è attestata anche a Roma, sul Palatino. Più complesso è il sito del Gran Carro, insediamento lungo il lago di Bolsena dove tra l’inizio del IX e l’VIII secolo a.C. sono state riconosciute tre fasi successive, l’ultima delle quali con abitazioni a pianta rettangolare costruite su impalcato aereo, cioè su palafitte. Si è ipotizzato che ciò sia stato reso necessario a causa del sollevamento delle acque del lago, in seguito al quale il villaggio, invece di essere abbandonato oppure arretrato e ricostruito all’asciutto, sia stato adattato alla nuova situazione ambientale. Anche la variazione di dimensione non sembra legata alla tipologia della pianta. Gli esempi più grandi di solito comunque sono a pianta ovale e rettangolare, magari articolati in due ambienti. Capanne più evolute (VII-VI secolo a.C.) sono organizzate in vestibolo quadrangolare e ambiente interno circolare (analogia con l’ambito funerario come le tombe a capanna di Cerveteri o le tholoi del territorio volterrano). Anche a Populonia (attestate già dalla fine del IX secolo a.C.) le tombe a camera a pianta circolare e ovale fanno riferimento al modello abitativo. I fondi sono in alcuni casi profondamente incassati nel terreno (per esempio, a Veio-Piazza d’Armi) e in questo caso non sono documentati né fori per i pali né canalette di fondazione. Questo tipo di abitazione seminterrata sembrerebbe riprodotto da alcune urne a capanna con l’apertura indicante l’ingresso notevolmente rialzato rispetto alla base. È stata avanzata l’ipotesi che il tetto poggiasse direttamente su un basso argine di terra e sassi, senza quindi l’alzato della parete (come le Grubenhaus di archeologia medievale). In altre capanne, invece, il piano interno è delimitato da una canaletta di fondazione che serviva da guida per le pareti e i fori per alloggiare i pali della struttura portante. I grossi fori circolari per l’inserzione dei pali di sostegno della copertura si trovano all’interno del perimetro della capanna, disposti per lo più su due file parallele o su un unico asse longitudinale. Abbiamo due diversi tipi di copertura: il tetto a quattro falde (“testudinato” o a padiglione, per pianta ellittica o rettangolare) sorretto da quattro o sei grossi pali, oppure il tetto a 96 doppio spiovente il cui trave di colmo sarebbe sostenuto dai pali allineati. Entrambi si ritrovano nei modellini funerari sin dal IX secolo, i primi più diffusamente e il secondo a Sala Consilina, nel Salernitano, in un modellino di capanna, rinvenuto in una tomba, ma non utilizzato come cinerario. Quest’ultimo tipo di copertura si diffonderà soprattutto a partire dal VII secolo. Fori esterni alla canaletta di fondazione, di solito molto più piccoli di quelli interni, indicano la presenza di puntelli a sostegno delle pareti; la una doppia canaletta ravvicinata indicava una serie di montanti di rinforzo impostati da terra al culmine del tetto, oppure una struttura anulare più bassa, posta attorno alla parete verticale e riempita di terra e sassi con funzione isolante. È difficile stabilire se due canalette più o meno distanziate siano coeve: talvolta il perimetro più esterno potrebbe indicare la presenza di un recinto, in altri casi invece il perimetro delle capanne è delimitato da muretti di pietrame a secco o da argini di sassi e fango. Altri fori generalmente piccoli, sparsi nelle aree di scavo, possono essere associati sia alle strutture sia ad altri elementi dell’interno o dell’esterno delle capanne: la porta riconoscibile per i fori degli stipiti è posta generalmente su un lato corto della capanna (rara è la presenza della porta sul lato lungo). All’interno un leggero incavo sul pavimento testimonia la presenza del focolare, di solito al centro del vano (più raramente decentrato) e lontano dalle pareti. In alcuni casi (per esempio, a Veio-Piazza d’Armi) sono documentati focolari esterni alla capanna. La maggior parte delle attività si svolgeva all’aperto. Per la ricostruzione dell’alzato si hanno meno elementi a disposizione (a causa della deperibilità del materiale utilizzato ad eccezione di tracce di intonaco o argilla. All’inizio, racconta Vitruvio “Gli uomini costruivano i rifugi con le fronde, o si scavavano caverne sotto i monti, altri si riparavano impastando argilla su una struttura di rami con la stessa tecnica usata dalle rondini per costruire il nido... In seguito hanno imparato a innalzare pareti intrecciando rami tra tronchi verticali biforcuti”. Si tratta di una tecnica ancora in uso in alcuni paesi mediterranei, tanto che oltre al confronto con i modellini funerari si è anche guardato alle capanne ancora in uso nella campagna tosco-laziale. In genere si è d’accordo sul fatto che le capanne delle prima età del ferro avessero pareti costituite da legname intrecciato ricoperto di argilla e due abbaini per l’uscita del fumo. Le finestre erano poste nei lati lunghi. Il tetto era costituito da pali adagiati sulle falde maggiori su cui poggiare il frascame, a mo’ di copertura. Sul tetto di un’urna, da Bisenzio, sopra la porta è applicata una figura umana sdraiata, probabile raffigurazione di un antenato posto a protezione della casa, secondo quanto riportato da Virgilio a proposito della reggia di Latino, dove il re viene rappresentato seduto nell’atrio tra le effigi degli antenati. Le tracce sul terreno possono appartenere sia ad abitazioni che a magazzini o fosse di scarico: la sicurezza nell’interpretazione di una struttura può essere data solo dall’analisi dei materiali rinvenuti negli stati archeologici; indicativa è infatti la presenza di fornelli o pentolame da cucina, di vasi da derrate o di resti faunistici ecc. Difficile è distinguere tra le capanne adibite al culto e quelle abitate, quando mancano oggetti indicatori della presenza di un culto: a Veio una struttura a pianta ovale, includente una tomba a fossa, è stata interpretata come cappella funeraria; a Campetti un elmo crestato, rinvenuto in area di abitato e considerato un’offerta votiva, è l’elemento che ha determinato l’ipotesi della funzione cultuale di una capanna a pianta ovale. Le fortificazioni erano lineari e lignee, intervallate da torri e con camminamento interno: un esempio è quella di Bologna, che presentava un camminamento con resti di battuto. La città etrusche già nel
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