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Riassunto Istituzioni di Diritto dell'Unione europea - Ugo Villani, Sintesi diritto dell'unione europea, Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

riassunto del manuale "istituzioni di diritto dell'unione europea" di ugo villani, completamente integrativo per lo studio del manuale e da me personalmente redatto.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 25/01/2020

GiuliaDiMeo
GiuliaDiMeo 🇮🇹

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Scarica Riassunto Istituzioni di Diritto dell'Unione europea - Ugo Villani, Sintesi diritto dell'unione europea e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! CAPITOLO 1 “ORIGINI, EVOLUZIONE E CARATTERI DELL’ INTEGRAZIONE EUROPEA” I primi movimenti europeisti. Il processo di integrazione europea muove da lontano e trova le sue radici in concezioni politiche e filosofiche di illustri pensatori, in progetti di movimenti di privati cittadini, in iniziative di statisti e di uomini di governo. Uno dei primi promotori del progetto di unire gli Stati europei fu il conte Richard Coundenhove-Kalergi, il quale fondò nel 1924 un’associazione denominata Unione paneuropea, avente lo scopo di preservare l’Europa dalla minaccia sovietica, da un lato, e dalla dominazione economica degli Stati Uniti, dall’altro. Fondamentalmente furono tre le concezioni che ispirarono tale progetto: 1) Visione di tipo confederale, avanzata da Aristide Briand, il cui progetto prevedeva la creazione di una organizzazione politica tra gli Stati partecipanti, senza mettere in discussione, peraltro, la loro sovranità. 2) Una diversa concezione, di carattere federalista, veniva ad esprimersi in un documento fondamentale nella storia dell’integrazione europea, il Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita”, del 1941, che accomunava, malgrado la loro differente formazione politica i tre autori: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, ed Eugenio Colorni. Secondo tale impostazione, per assicurare la pace tra i Paesi europei occorreva che questi rinunciassero alla propria sovranità e che si giungesse ad una nuova entità, la Federazione europea, dotata di un proprio esercito, di una propria moneta, di proprie istituzioni politiche nelle quali i cittadini fossero direttamente rappresentati, di una propria politica estera. 3) Accanto alla concezione, espressa nel manifesto di Ventotene, un’altra negli anni della seconda guerra mondiale venne a maturare per merito, principalmente dello statista ed industriale francese Jean Monnet, la cui opera fu storicamente determinante per l’avvio e lo sviluppo della costruzione europea. Mentre il progetto federalista prevedeva l’obiettivo immediato di una unione politica europea, quello sostenuto da Jean Monnet, pur mirando in prospettiva a questo risultato, si basava su un diverso metodo, funzionalista e graduale. Anch’esso muoveva dal convincimento che il permanere dei nazionalismi fra gli Stati europei avrebbe costituito una costante minaccia per la pace e che, pertanto, ci si dovesse porre l’obiettivo di una unione di carattere politico. Tuttavia non sarebbe stato realistico tentare d raggiungere immediatamente tale obiettivo: il metodo da seguire, al contrario, era quello di realizzare forme di coesione, di solidarietà in specifici settori, così da costruire progressivamente una situazione di fatto di integrazione tra i Paesi europei, che sarebbe sfociata, quasi naturalmente, in una unione politica. Le organizzazioni europee del secondo dopoguerra. Una delle prime organizzazioni europee fu l’OECE, Organizzazione europea di cooperazione economica, creata nel 1948 sotto la spinta di George Marshall, il quale nell’enunciare un piano di aiuti per la ricostruzione dell’Europa sconvolta dalla guerra, ne subordinava l’attuazione all’istituzione di uno strumento che ne favorisse un’utilizzazione congiunta e, più in generale, garantisse un’area di stabilità economica e politica. L’offerta statunitense respinta dall’Unione Sovietica e dai Paesi europei socialisti, fu accolta dai Paesi dell’Europa occidentale, i quali, con la Convenzione di Parigi del 1948, crearono un’apposita organizzazione, l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE). Questa ebbe, appunto, quale compito principale, di amministrare gli aiuti del piano Marshall e (una volta esaurito tale compito) si trasformò, nel 1960, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Quest’ultima, peraltro, è una tipica organizzazione internazionale di carattere intergovernativo, cioè destinata a operare mediante organi, anzitutto il Consiglio, composti dai rappresentanti dei governi degli Stati membri. Carattere intergovernativo ha anche l’altra organizzazione europea costituita nel 1949, il Consiglio d’Europa, nato originariamente tra i paesi dell’Europa occidentale, ma esteso ormai all’intera regione europea. La nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). La prima organizzazione, con la quale ha inizio quel processo d’integrazione europea, caratterizzato da un progressivo “trasferimento” di poteri sovrani da parte degli Stati membri a enti che, proprio in ragione della novità del fenomeno, vennero designati come “Comunità sopranazionali” (non più organizzazioni internazionali), è la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). All’origine della Ceca vi è la celebre dichiarazione del ministro degli esteri francese Robert Schuman, la quale contiene una proposta, rivolta anzitutto alla Germania, nonché agli altri Stati Europei che intendevano aderirvi, di mettere in comune, sotto un Alta Autorità, l’insieme della produzione di carbone e di acciaio, assicurando, nel contempo, la loro libera circolazione: le risorse che erano state tradizionale terreno di scontro e di conflitto tra i due Stati diventavano così strumento di incontro e di utilità condivisa, creando una solidarietà di fatto, che avrebbe reso materialmente reso impossibile una nuove guerra tra la Francia e la Germania. La proposta di Schuman fu accettata non solo dalla Germania, ma anche dall’Italia, e dall’Olanda, dal Belgio e dal Lussemburgo. Il Regno Unito, al contrario, rifiutò la proposta di Schuman, in considerazione, tra l’altro dei suoi legami nell’ambito del Commonwealth. I sei Stati giunsero così alla firma a Parigi, il 18 aprile del 1951, del trattato istitutivo della CECA, che entrato in vigore il 23 luglio del 1952, ha costituito il nucleo originario della costruzione oggi designata come Unione europea. Lo stesso trattato, conformemente alla dichiarazione Schuman, prevedeva la creazione di un mercato comune dei prodotti carbo-siderurgici, nell’osservanza di condizioni normali di concorrenza, con l’eliminazione e il divieto dei dazi e delle restrizione quantitative alla circolazione di tali prodotti tra i Paesi membri, degli aiuti e sovvenzioni statali (art. 4). Per il raggiungimento dei suoi obiettivi il Trattato di Parigi creava un articolato apparato organizzativo, formato dalle seguenti istituzioni: un’Alta autorità, organo collegiale composto da individui indipendenti, aventi poteri sia esecutivi che normativi nei confronti degli Stati membri e delle imprese; un’Assemblea comune, composta di “rappresentati dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”, con funzioni essenzialmente di controllo politico sull’Alta Autorità; un Consiglio speciale dei ministri, formato da un ministro di ciascuno Stato membro, competente ad emanare pareri; una Corte di giustizia, organo giudiziario, chiamata ad assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato e, a questo fine, fornita di una pluralità di competenze. Con la nascita della CEE e della CEEA l’Assemblea comune, corrispondente all’attuale Parlamento europeo, e la Corte di giustizia vennero unificate per le tre Comunità. L’Alta autorità e il Consiglio dei ministri furono unificati successivamente. Il Trattato di Parigi prevedeva, all’art. 97, un termine di durata di cinquant’anni dalla sua entrata in vigore. Esso, pertanto, ha perso efficacia dal 23 luglio 2002 e la CECA si è estinta. Ciò ha comportato che i settori precedentemente rientranti nell’ambito di applicazione del Trattato CECA e della normativa emanata in sua applicazione fossero assoggettati, in principio, alle regole e alle competenze derivanti dal Trattato istitutivo della Comunità europea. Il fallimento della Comunità europea di difesa (CED) e il rilancio del processo d’integrazione europea: la comunità economica europea (CEE) e la comunità europea dell’energia atomica (CEEA). Il successo della CECA impresse al processo d’integrazione europea una spinta forse eccessiva e prematura. Gli stessi Stati parti del Trattato CECA sottoscrissero a Parigi, nel 1952, un nuovo trattato, istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED), che comportava la creazione di un esercito europeo, di un apparato istituzionale e di un meccanismo di reazione a qualsiasi aggressione contro uno Stato membro. Il Trattato CED non entrò mai in vigore, poiché non fu ratificato dalla Francia, ostile all’iniziativa per sopraggiunte ragioni politiche sia interne che internazionali (come la sconfitta nella guerra in Indocina). Al di là dei problemi che il Trattato CED poneva alla Francia, il fallimento della CED fu dovuto, probabilmente, anche ad un mutamento di metodo nell’integrazione europea, abbandonando il metodo funzionalista e gradualista a favore di un approccio politico e militare, inadeguato ai tempi e alla stessa maturazione europeista delle forze politiche e delle società dei Paesi membri. Si trattava, in latri termini, di un progetto eccessivamente ambizioso e poco realistico. La vicenda della CED, determinò anche un nuovo impulso del metodo funzionalista, volto a creare un’integrazione di fatto, di carattere essenzialmente economico-sociale, che condusse alla firma, a Roma, nel marzo del 1957, del Trattato Istitutivo della Comunità economica europea (CEE), e di quello istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), i quali, avendo rapidamente ottenuto le necessarie ratifiche di tutti gli Stati membri, entrarono in vigore il 1 gennaio del 1958. Il trattato CEE, come quello CECA, ha un oggetto di natura essenzialmente economica e commerciale, ma a differenza di quest’ultima non ha un intervento settoriale, bensì generale. Esso è diretto a istituire una unione doganale, implicante l’eliminazione dei dazi doganali, delle restrizioni quantitative e ogni altro ostacolo agli scambi di merci tra i Paesi membri, e lo stabilimento di una tariffa doganale comune negli scambi con i Paesi terzi, accompagnata da una politica commerciale comune; prevede la progressiva creazione di un mercato comune caratterizzato dalla eliminazione degli ostacoli sulla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali tra gli Stati membri; comporta un regime inteso a garantire che la libera concorrenza non sia falsata nel mercato interno. Accanto a questi obiettivi, sin dalle origini la CEE ha contemplato una serie di “politiche”, volte e riequilibrare Le differenze che, da un punto di vista anzitutto economico, ma anche sociale e giuridico, sussistono tra i nuovi Stati membri e quelli preesistenti inducono a inserire negli atti di adesione delle “clausole di salvaguardia” le quali, a certe condizioni (e per un periodo solitamente transitorio), possono essere invocate per evitare di applicare date disposizioni nei confronti del nuovo Stato membro. Così pure, l’atto di adesione prevede solitamente delle norme delle deroghe temporanee o (più raramente) permanenti nell’applicazione delle norme relative alle varie materie del diritto dell’unione, per tenere conto, specialmente, degli oneri e delle difficoltà che i nuovi Stati membri incontrano per adeguarsi ai preesistenti standards normativi europei, ma anche, talvolta, per tutelare gli interessi degli stati già membri e non alterare il funzionamento del mercato interno o delle politiche europee. Gli sviluppi dell’integrazione europea: in particolare, l’Atto unico europeo del 1986. Da un punto di vista oggettivo numerosi sono stati i trattati mediante i quali l’originario assetto risultante dai trattati istitutivi delle comunità europee si è trasformato e sviluppato, sino a raggiungere il presente quadro normativo istituzionale dell’Unione europea. Merita di essere segnalato il trattato di Lussemburgo del 22 aprile 1970, il quale ampliava i poteri del parlamento europeo e che si poneva in stretta connessione con la decisione, adottata il giorno precedente dal consiglio, relativa alla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie della comunità. Peraltro, è essenzialmente dagli anni 80 che si mette in moto, progressivamente, il processo che conduce all’attuale Unione Europea. In questo quadro si inserisce anzitutto l’Atto unico europeo, sottoscritto a Lussemburgo il 17 febbraio e all’Aja il 28 febbraio 1986, entrato in vigore il 1 luglio 1987. Esso faceva seguito ad un progetto di trattato che istituisce l’Unione Europea, approvato dal parlamento europeo nel 1984 e noto come “Trattato spinelli”. Questo trattato, che non entrò mai in vigore non avendo ottenuto la ratifica di alcuni Stati membri, avrebbe notevolmente modificato le comunità. Esso stabiliva, infatti, che il Parlamento e il Consiglio dell’unione esercitassero congiuntamente il potere legislativo con la partecipazione attiva della commissione e che una legge fosse adottata solo a seguito di approvazione sia del Parlamento che del Consiglio. L’insuccesso del trattato spinelli determinò una profonda delusione ed una fase di crisi. Il rilancio avvenne appunto con l’adozione dell’atto unico europeo il quale, peraltro, rappresentava un ben modesto “surrogato” rispetto al suddetto Trattato Spinelli. In ogni caso l’atto unico, oltre a rimuovere la situazione di stallo, produsse anche qualche significativo risultato. Esso, anzitutto, contemplò l’instaurazione di una cooperazione europea in materia di politica estera, basata peraltro essenzialmente sull’informazione reciproca, sulla cooperazione e sul coordinamento tra gli Stati membri. Il trattato introduce, per alcune materie, un procedimento detto di cooperazione, che pur accrescendo il ruolo del parlamento nel processo decisionale, consentiva al Consiglio di adottare un atto anche contro la volontà dello stesso Parlamento. L’atto unico europeo, inoltre fissava una data precisa, il 31 dicembre del 1992, entro la quale la CEE avrebbe dovuto adottare le misure necessarie per il completamento del mercato interno. La realizzazione del mercato interno richiedeva, pertanto, la realizzazione delle quattro fondamentali libertà di circolazione: delle merci, delle persone, dei servizi, dei capitali. All’epoca erano stati già raggiunti importanti obiettivi relativi a tali libertà. Per esempio, fin dal 1 luglio 1968 era stata realizzata l’unione doganale (funzionale alla libera circolazione delle merci), mediante l’abolizione dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e delle tasse di effetto equivalente nella circolazione intracomunitaria delle merci e la fissazione di una tariffa doganale comune nei riguardi degli scambi commerciali con i paesi terzi. La fissazione del termine del 31 dicembre 1992, non solo fu coronata sostanzialmente dal successo; essa produsse anche un importante spinta psicologica, in particolare sugli operatori economici e commerciali, i quali si “attrezzarono” nella prospettiva del completamento del mercato interno, nonché sugli ambienti politici e sociali, dopo il fallimento del trattato spinelli. L’atto unico europeo istituì anche nuove politiche europee, quali la politica di coesione economica e sociale, volta, in particolare a ridurre il divario tra le diverse regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite, nel quadro di uno sviluppo armonioso dell’insieme della comunità; ora, ancora, la politica ambientale, tesa a salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente, a contribuire alla protezione della salute umana e a garantire un’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Il Trattato di Maastricht del 1992 e la nascita dell’Unione europea (UE). Una svolta e un impulso fondamentali al processo di integrazione europea furono impressi dal trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1 novembre 1993. Esso dà vita ad una nuova, più ampia organizzazione, cioè l’Unione Europea. Peraltro, questa non sostituisce ancora le tre originarie comunità europee (CECA, CEE e CECA), ma le ricomprende, instaurando, inoltre, delle forme di cooperazione tra gli Stati membri in due nuove materie: la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la giustizia e affari interni (GAI), regolate nello stesso trattato sull’Unione Europea. Così l’unione europea viene a fondarsi su tre pilastri, come si dice comunemente: il primo, rappresentato dalle comunità europee, il secondo, consistente nella politica estera e di sicurezza comune, il terzo, relativo alla giustizia e affari interni. Da un punto di vista formale, a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Maastricht coesistono ben quattro trattati: il trattato sull’Unione Europea, contenente, in particolare, la disciplina sulla politica estera e di sicurezza comune e quella sulla giustizia e affari interni; il trattato sulla Comunità economica europea, che viene ridenominata Comunità europea; il trattato sulla comunità europea dell’energia atomica; il trattato sulla comunità europea del carbone e dell’acciaio (estintosi nel 2002). Questa articolazione in tre pilastri comporta che, mentre nel primo operano pienamente le istituzioni, i procedimenti, il sistema di fonti e il carattere “sopranazionale” propri delle originarie Comunità europee, negli altri due prevale, invece, un metodo intergovernativo tradizionale, nel quale i protagonisti dei processi decisionali restano gli Stati membri, rappresentati dei rispettivi governi, mentre una posizione più modesta (nel terzo pilastro) o del tutto marginale (nel secondo) restano le istituzioni più genuinamente innovative, a cominciare dal parlamento europeo (o giudiziarie, come la Corte di giustizia). Il trattato di Maastricht reca ulteriori, fondamentali sviluppi. È tale trattato che stabilisce i ritmi e le condizioni per il passaggio a una moneta europea unica, l’euro. Ma tale trattato mostra anche un’accresciuta sensibilità per i diritti della persona. Sotto questo profilo va segnalato, da un lato, che il trattato di Maastricht riconosce espressamente, quali principi generali del diritto comunitario, i diritti umani fondamentali risultanti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; dall’altro, che esso istituisce una cittadinanza europea, consistente in uno status giuridico spettante ad ogni cittadino di uno Stato membro. Vi sono poi altre due innovazioni del trattato di Maastricht che devono essere ricordate. Anzitutto esso istituisce, sebbene solo in determinate ipotesi, una nuova procedura di adozione degli atti delle istituzioni europee, denominata nella prassi “codecisione”, la quale comporta che l’atto sia adottato solo se sul suo testo si registri la comune volontà sia del Consiglio che del Parlamento europeo. In secondo luogo il trattato di Maastricht, sulla scia di un dibattito che già da qualche anno si svolgeva in proposito, accetta definitivamente il modello di un’integrazione europea non necessariamente uniforme per tutti gli Stati membri, ma che può svilupparsi in maniera più o meno intensa e avanzata per l’uno o per l’altro Stato membro. È il modello chiamato di volta in volta, dall’Europa a integrazione differenziata, o flessibile, o infine “à la carte” (per esempio il Regno Unito ha scelto di rimanere fuori dall’accordo sulla politica sociale). Gli sviluppi successivi e il fallimento della “Costituzione europea”. I successivi trattati modificativi, sino a quello di Lisbona del 2007, forse non hanno inciso sulla struttura e sul quadro normativo dell’Unione Europea così profondamente come quello di Maastricht. Tuttavia innovazioni significative sono state apportate, anzitutto dal trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997. In esso si accentua la connotazione politico-sociale della costruzione europea, proclamando i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani, stato di diritto quali principi fondanti dell’unione e inserendo tra i suoi obiettivi quello di promuovere un elevato livello di occupazione. Oltre ad alcune modifiche nel secondo pilastro, il trattato di Amsterdam si segnala particolarmente per aver realizzato una parziale “comunitarizzazione” del terzo pilastro. Le materie, già appartenenti a tale pilastro, concernenti la circolazione delle persone, l’asilo, l’immigrazione e i visti vengono infatti sottratte al trattato sull’Unione Europea e passano nell’ambito del trattato sulla comunità europea. In tal modo esse sono sottoposte, di regola, ai procedimenti, alle competenze delle istituzioni, ai tipi di atti propri di tale trattato. Il terzo pilastro riduce il suo ambito di applicazione alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; d’altra parte, anche in questi settori il trattato di Amsterdam introduce modifiche rilevanti, come la possibilità di emanare atti obbligatori quali le decisioni quadro. Alquanto modesti sono le innovazioni apportate dal trattato di Nizza del 26 febbraio 2001, in vigore dal 1 febbraio 2003. Esso contiene novità di un certo rilievo relativamente all’organizzazione giudiziaria, che peraltro non vengono attuate dallo stesso trattato. Tra gli sviluppi più recenti ricordiamo l’iniziativa che ha condotto alla firma a Roma, il 29 ottobre 2004, del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, il quale, ove fosse entrata in vigore, avrebbe comportato una profonda trasformazione dell’assetto normativo e istituzionale. Va segnalato che il trattato era frutto non solo del negoziato tra i rappresentanti dei governi degli Stati membri. Il testo, infatti, è stato elaborato da una “Convenzione”, organo collegiale composto dai rappresentanti dei governi, della commissione, del parlamento europeo e dei parlamenti nazionali, determinando un processo partecipativo trasparente e aperto come mai era accaduto in passato. Peraltro l’ultima parola restava nelle mani dei governi, riuniti in conferenza intergovernativa. In questa sede non sono mancati contrasti, dissensi e modifiche rispetto al testo licenziato dalla convenzione, che, peraltro, non ne alterato i principi di base e la struttura complessiva. È noto, peraltro, che la costituzione europea, pur avendo ricevuto numerose ratifiche, non è entrata in vigore, occorrendo, a tal fine, la ratifica di tutti gli Stati membri. Il Trattato di Lisbona del 2007. A differenza della c.d. Costituzione europea (cioè il Trattato di Roma del 29 ottobre 2004, non entrato in vigore) che unificava in un solo trattato quello sull’Unione Europea e quello sulla Comunità europea, il trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 conserva la separazione in due distinti trattati; la sua denominazione ufficiale, infatti, è “Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea”. Essi, profondamente modificati nel loro contenuto, hanno lo stesso valore giuridico; peraltro il trattato sulla comunità europea è ridenominato “Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea” in conformità della unificazione dell’unione e della comunità europea nella sola unione europea, la quale, ai sensi del citato art. 1, 3 comma, TUE, sostituisce e succede alla comunità europea. I due trattati costituiscono i trattati sui quali si fonda l’unione. Va notato che la divisione in due trattati risponde solo in minima parte a una distribuzione razionale e sistematica delle materie disciplinate. Tale scelta ha, infatti, prodotto un quadro normativo spesso confuso e disordinato, in quanto la disciplina di talune materie è contenuta in parte nel trattato sull’Unione Europea, in parte in quello sul funzionamento dell’Unione Europea. È, invece, sicuramente apprezzabile l’unificazione dell’unione europea e della comunità europea nella sola Unione. E in sostituzione dell’art. 281 del trattato sulla Comunità europea, che riferiva alla Comunità europea la personalità giuridica, il vigente art. 47 TUE dichiara: “L’unione ha personalità giuridica”. Deve notarsi che l’unificazione tra gli enti europei non è, tuttavia piena. Sopravvive infatti, la comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), alla quale il trattato di Lisbona dedica un protocollo contenente modifiche al Trattato istitutivo della stessa, dirette a raccordarlo alle modifiche introdotte al trattato sull’Unione Europea e al trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Riguardo i contenuti del trattato di Lisbona, esso comporta, anzitutto, l’abolizione della struttura in tre pilastri, quello comunitario, la politica estera e di sicurezza comune e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, creata dal trattato di Maastricht del 1992 e modificata, rispetto al terzo pilastro, da quello di Amsterdam del 1997. Tuttavia tale fenomeno riguarda, in realtà, solo il terzo pilastro (la cooperazione di polizia e giudiziaria penale), al quale, in principio, vengono estese le regole, i procedimenti, gli atti, le competenze di carattere generale dell’unione europea. La politica estera e di sicurezza comune resta soggetta a proprie regole specifiche, che ne perpetuano il carattere marcatamente intergovernativo. Riguardo la struttura organizzativa dell’unione le novità forse più rilevanti consistono nella istituzione di un Presidente dell’Unione, eletto, per un mandato di due anni e mezzo, dal Consiglio europeo, e dall’Alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, avente il doppio incarico di presidente del consiglio “Affari esteri” e di vice presidente della commissione. Molto importante è l’aumento dei poteri del parlamento europeo sia in materia di bilancio che di adozione degli atti dell’unione, diventando la codecisione la procedura legislativa ordinaria. Sul piano dei diritti fondamentali viene garantito, il valore obbligatorio della carta di Nizza dei diritti fondamentali, tramite una norma del trattato sull’Unione Europea che rinviata essa; inoltre è inserita una base giuridica per l’adesione dell’unione alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Al di là delle specifiche disposizioni sulle materie di competenza dell’unione, una lettura del preambolo del trattato sull’Unione Europea mette in luce l’ormai definitivo superamento di un’ottica meramente economica e mercantile della costruzione europea e il tentativo di indirizzare tale costruzione verso obiettivi di più alto respiro, fondati su valori insiti nelle radici europee. CAPITOLO 2 “OBIETTIVI, VALORI E PRINCIPI DELL’UNIONE EUROPEA” del diritto, risultante dagli stessi trattati, dal diritto derivato e da ogni norma giuridica applicabile nell’ordinamento europeo. L’art. 2 TUE richiama, infine, il rispetto dei diritti umani. L’espressione, di per sé generica, implica un rinvio non solo agli ordinamenti degli Stati membri, ma anche ai principi affermatisi a livello internazionale, a cominciare dalla ricordata Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948. Il meccanismo sanzionatorio nel caso di violazione grave e persistente di tali valori. I valori contemplati dall’art. 2 TUE hanno una valenza sia “esterna”, nei riguardi degli stati che si candidano all’ammissione nell’unione, che “interna”, verso gli Stati membri. Sotto il primo profilo l’art. 49 dichiara: “ogni stato europeo che rispetti valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione”. L’osservanza e la promozione dei suddetti valori rappresentano così un requisito essenziale per l’ammissione all’Unione. Pertanto l’art. 7 TUE ha istituito un procedimento di controllo sulla condotta degli Stati membri, che può condurre all’accertamento di una grave e persistente violazione dei suddetti valori e, di conseguenza, a sanzioni sospensive di diritti inerenti alla qualità di membro dell’Unione. Tale disposizione non riguarda l’ipotesi di una sporadica violazione, per quanto grave, dei valori di cui all’art. 2: deve trattarsi di una violazione grave e persistente, cioè di una condotta, di una politica statale in contrasto con gli stessi, come nel ricordato esempio di un colpo di stato, o di una politica razzista, o di repressione dell’opposizione, di abituale ricorso alla tortura e così via. Alla gravità della situazione da accertare corrispondono le garanzie che circondano il procedimento in esame. Occorre, infatti, a seguito di proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione, la deliberazione unanime del Consiglio europeo e l’approvazione del Parlamento europeo, cioè una sua deliberazione che dichiari, negli stessi termini del Consiglio europeo, l’esistenza della grave e persistente violazione dei valori di cui all’art. 2. È anche garantito il principio del contraddittorio, con il diritto dello Stato in questione a esporre le proprie ragioni prima che il Consiglio europeo e il Parlamento europeo deliberino. Alla constatazione della grave e persistente violazione può seguire la decisione di sanzioni contro lo Stato membro, consistenti nella sospensione di alcuni dei diritti derivanti dai trattati, compreso il diritto di voto nel Consiglio, ferma restando, per tale Stato, la necessità di continuare a rispettare gli obblighi connessi alla sua qualità di membro. Le misure sanzionatorie possono essere successivamente modificate o revocate dal Consiglio, per rispondere ai cambiamenti della situazione che ha portato alla loro imposizione. La procedura regolata dall’art. 7 TUE, sicuramente garantista per quanto riguarda il ruolo degli organi politici, non è soggetta, invece, a un adeguato controllo giudiziario. Infatti l’unica competenza esercitabile in proposito dalla Corte di giustizia riguarda gli aspetti procedurali, non anche il merito, cioè l’esistenza della grave persistente e violazione, ed è attivabile solo dallo stato oggetto della costatazione. Solo per vizi procedurali, pertanto, lo Stato interessato può impugnare dinanzi alla Corte la constatazione concernente la propria violazione. Il Trattato di Lisbona ha poi introdotto una modifica al par. 1 dell’art. 7 TUE stabilendo una difesa più avanzata dei valori stabiliti dall’art. 2 TUE, mediante una procedura di preallarme volta a verificare l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e a prevenire la stessa commissione della violazione. I principi democratici. Il trattato di Lisbona introduce delle disposizioni specificamente relative ai principi democratici agli articoli 9-12 TUE. L’art. 10, paragrafo 1, afferma tali principi anzitutto nella forma della democrazia rappresentativa, dichiarando: “il funzionamento dell’unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”. Il concetto di democrazia rappresentativa, quale vigente nell’Unione europea, è sviluppato nel paragrafo 2, che recita: “i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’unione nel parlamento europeo. Gli Stati membri sono rappresentati nel consiglio europeo dei rispettivi capi di Stato o di governo e nel consiglio dei rispettivi governi, a loro volta democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini”. Tale disposizione, quindi, ribadisce in maniera esplicita quella duplice legittimità democratica, la quale consiste, da un lato, nella legittimità europea, che si manifesta nella rappresentanza diretta dei cittadini dell’Unione Europea nel Parlamento europeo, composto, appunto, dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione; dall’altro, nella legittimità nazionale, che si esprime nella rappresentanza indiretta dei popoli dei singoli Stati membri nell’ambito del Consiglio europeo e del Consiglio, attraverso i capi di Stato o di governo e, rispettivamente, attraverso i governi, a loro volta democraticamente responsabili verso i parlamenti nazionali. L’attuazione del principio della democrazia rappresentativa è perseguita, per quanto riguarda la rappresentanza diretta dei cittadini dell’Unione nel Parlamento europeo, mediante l’attribuzione di una pluralità di poteri a tale istituzione, che mostrano un rafforzamento del suo ruolo rispetto al quadro anteriore all’entrata in vigore del trattato di Lisbona. Esso, acquista un potere pari a quello del Consiglio nell’adozione degli atti legislativi a seguito della generalizzazione della “codecisione” quale procedura legislativa ordinaria. Il Parlamento europeo resta invece privo di un vero e proprio potere di iniziativa legislativa (di regola, appartenete in via esclusiva alla Commissione), così come resta sostanzialmente estraneo a qualsiasi potere decisionale nell’ambito della PESC. Il ruolo del Parlamento europeo, in ossequio ai principi democratici, si esplica anche nei rapporti con le altre istituzioni europee. Di particolare rilievo sono i poteri del Parlamento europeo nei riguardi della Commissione, potere che si estendono in maniera determinante dal momento della costituzione a quello delle eventuali dimissioni di quest’ultima. Tenui restano invece i poteri del Parlamento europeo verso le istituzioni formate dai rappresentanti dei governi degli Stati membri (Consiglio europeo e Consiglio). Ulteriori poteri del Parlamento europeo riguardano, importanti settori, come la revisione dei trattati, l’approvazione del bilancio, la conclusione di accordi da parte dell’unione con Stati terzi e organizzazioni internazionali. In tali settori trova conferma la tendenza a rafforzare i poteri del Parlamento europeo, che emerge dal trattato di Lisbona. Alla rappresentanza dei singoli popoli degli Stati membri è dedicata una specifica disposizione, l’art. 12 TUE, il quale da una notevole visibilità e peso politico ai parlamenti nazionali. Esso dichiara: “i parlamenti nazionali contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’unione”. I suddetti poteri mettono in luce un duplice ruolo rappresentativo dei parlamenti nazionali. Essi, da un lato, esercitano nell’Unione Europea una rappresentanza in via indiretta, controllando, stimolando e orientando l’azione dei rispettivi governi all’interno delle istituzioni; europee dall’altro, esprimono direttamente la propria rappresentatività popolare operando nei rapporti con le istituzioni europee, senza alcuna mediazione dei loro esecutivi. La Commissione invia direttamente ai parlamenti nazionali i propri documenti di consultazione all’atto della loro pubblicazione, nonché il programma legislativo annuale e gli altri strumenti di programmazione legislativa o di strategia politica. Ai parlamenti nazionali sono inviati, inoltre, i progetti di atti legislativi europei, intesi quali proposte della Commissione, oppure quali iniziative di un gruppo di Stati membri del Parlamento europeo. I parlamenti svolgono anche una partecipazione diretta alla formazione di decisioni europee, così dando vita ad una forma di rappresentanza dei rispettivi popoli in via indiretta, non mediata, cioè, dei propri governi. Un caso di tale partecipazione previsto dall’art. 48, paragrafo 7, TUE, il quale contempla dei procedimenti semplificati di revisione dei trattati, consistenti nel passaggio dalla procedura di deliberazione all’unanimità nel Consiglio alla deliberazione a maggioranza qualificata e nel passaggio da una procedura legislativa speciale a quella ordinaria. A parte altre disposizioni, il ruolo dei parlamenti nazionali, in veste di rappresentanza diretta dei rispettivi popoli nei rapporti con le istituzioni europee, risulta particolarmente accentuato per quanto riguarda il rispetto del principio di sussidiarietà. L’art. 5, paragrafo 3, TUE dichiara infatti, che i parlamenti nazionali vigilano sul rispetto di tale principio, secondo la procedura prevista nel protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Sempre nel contesto della democrazia rappresentativa l’art. 10, paragrafo 4, TUE riconosce anche il ruolo dei partiti politici: “i partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’unione”. Si tratta di un ruolo non solo rappresentativo, ma anche formativo di una conoscenza europea, cioè di un’appartenenza consapevole all’unione e di una posizione attiva nella costruzione europea. Il ruolo dei partiti politici emerge, in particolare, nella composizione del parlamento europeo, nel quale i gruppi politici si costituiscono non già su base nazionale, ma sul fondamento delle affinità politiche. Il paragrafo 3 della disposizione in esame si riferisce ai cittadini europei, stabilendo: “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”. Tale norma enuncia il principio di “prossimità”, richiedendo che le decisioni concernenti la vita dell’unione siano assunte a livello più vicino al cittadino, per consentire una sua più autentica partecipazione. Inoltre essa, pur inserita nell’art. 10, relativo alla democrazia rappresentativa, costituisce l’anello di congiunzione con un’altra forma di democrazia, anche se riconosciuta nel trattato: la democrazia partecipativa, oggetto dell’articolo 11. Quest’ultimo dispone: “1. le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti settori di azione dell’unione. 2. Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile. 3. Al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’unione, la commissione europea procede ad ampie consultazioni delle parti interessate. 4. Cittadini dell’unione, in numero di almeno 1 milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l’iniziativa di invitare la commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’unione ai fini dell’attuazione dei trattati”. Particolare rilevanza è il potere di iniziativa popolare previsto dal paragrafo 4. Il 16 febbraio 2011 è stato emanato il regolamento n. 211/2011 riguardante l’iniziativa dei cittadini. Esso stabilisce che l’iniziativa di chiedere alla commissione di presentare un’adeguata proposta, su un tema per il quale cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell’unione ai fini dell’attuazione dei trattati, se sostenuta da almeno 1 milione di cittadini firmatari, e che questi provengano da almeno un quarto degli Stati membri e che, in ciascuno di tali Stati, essi corrispondano almeno al numero dei deputati al Parlamento europeo eletti nello stato moltiplicato per 750. I procedimenti di revisione dei Trattati. I trattati sui quali si fonda l’Unione europea possono essere modificati attraverso una procedura di revisione ordinaria e mediante procedure di revisione semplificate, regolate dall’art. 48 TUE. L’iniziativa della procedura di revisione ordinaria spetta ad ogni Stato membro, al Parlamento europeo o alla Commissione; questi infatti “possono sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati. Tali progetti possono, tra l’altro, essere intesi ad accrescere o a ridurre le competenze attribuite all’unione nei trattati”. Come risulta dalla disposizione citata, i progetti di revisione possono essere diretti anche a ridurre le competenze dell’unione. Questa possibilità rappresenta un’assoluta novità, fino al trattato di Lisbona, infatti, i risultati del processo di integrazione erano stati considerati come un punto di non ritorno, rispetto al quale eventuali modifiche dei trattati potevano solo approfondire il processo, non certo determinare un regresso, quale si verificherebbe mediante la riduzione delle competenze dell’unione. Tale concezione era consacrata formalmente nell’art. 2 TUE, il quale assegnava all’Unione l’obiettivo seguente: “mantenere integralmente l’acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurata dal presente trattato allo scopo di garantire l’efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie”. L’obiettivo enunciato del previgente art. 2 TUE, di mantenere integralmente l’acquis comunitario, significava, quindi, che l’azione dell’Unione non poteva in alcun caso pregiudicare o rimettere in discussione quanto conseguito, ma doveva tendere costantemente all’approfondimento e al progresso delle realizzazioni dell’unione. La possibilità, oggi prevista dall’art. 48, paragrafo 2, TUE, di ridurre le competenze dell’unione segna, dunque, un’inversione rispetto a tale tendenza. Per quanto riguarda la procedura di revisione ordinaria, il Consiglio europeo, previa consultazione del parlamento europeo e della Commissione, nonché della Banca centrale europea, in caso di modifiche istituzionali nel settore monetario, può adottare, a maggioranza semplice, una decisione favorevole all’esame delle modifiche proposte. In questo caso, ai sensi del paragrafo 3, “il presidente del Consiglio europeo convoca una convenzione composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione”. Quest’ultima conferenza intergovernativa è convocata dal presidente del Consiglio allo scopo di stabilire di comune accordo le modifiche da apportare ai trattati. La “convenzione” prevista dal paragrafo 3 inserisce, a regime, un’esperienza già realizzatasi con analoghi organi, cioè la convenzione per la predisposizione della carta di Nizza dei diritti fondamentali del 2000 e, successivamente, la convenzione sul futuro dell’unione europea, decisa dal consiglio europeo, incaricata di preparare un testo di base per la conferenza intergovernativa, che avrebbe adottato la cosiddetta costituzione europea, sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004, ma non è entrata in vigore. La convenzione, assicurando una rappresentanza delle istituzioni europee e dei parlamenti nazionali, oltre che dei governi, garantisce un metodo che non è più solo intergovernativo, ma partecipato, democratico, articolato e trasparente. La convenzione, che delibera mediante consenso, quindi senza formale votazione, adotta una raccomandazione, mentre la decisione spetta alla conferenza formata dai soli rappresentanti dei governi degli Stati membri, che adotta per il fatto stesso che esercita un controllo esclusivo su una determinata comunità territoriale. I suoi poteri, al contrario, sono derivati, in quanto attribuiti dagli Stati membri volontariamente, attraverso gli accordi istitutivi dell’unione, e, in precedenza, delle comunità. Tale carattere dei poteri dell’unione conferma che essa non intende assurgere ad una sorta di super Stato, o Stato federale, ma si colloca, per questo profilo, nel solco delle organizzazioni internazionali, i cui poteri derivano dall’accordo istitutivo e in tale accordo trovano il proprio fondamento e i propri limiti. L’assenza di un intento federalistico, nell’attuale sistema europeo, è confermata dall’art. 4, paragrafo 2, TUE che dispone: “l’unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali regionali”. La norma prosegue facendo esplicito riferimento alla necessità che l’Unione rispetti le funzioni essenziali dello Stato relative all’integrità territoriale, all’ordine pubblico, alla sicurezza nazionale, dichiarata, in particolare, di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro. Il rispetto del principio di attribuzione è giuridicamente sanzionato. Ove, infatti, l’unione o le sue istituzioni agissero al di là delle competenze ad essi conferite, gli atti emanati sarebbero illegittimi, in quanto viziati da incompetenza e soggetti a dichiarazione di nullità da parte dei giudici dell’Unione. La corte di giustizia ha più volte ribadito che le competenze della comunità, oggi diventata Unione, sono soltanto quelle attribuite dalle disposizioni dei trattati e non possono spingersi oltre l’ambito da esse risultanti. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia il principio di attribuzione non esclude, peraltro, che a certe condizioni, gli Stati membri, con un accordo autonomo e distinto rispetto all’ordinamento dell’unione, possono attribuire alle istituzioni europee determinate funzioni. Le competenze sussidiarie. Il principio delle competenze di attribuzione appare ridimensionato dalla possibilità, espressamente prevista dall’art. 352 TFUE, di conferire nuovi poteri, detti “competenze sussidiarie”, all’Unione senza una formale modifica dei trattati. Tale articolo, contenente la cosiddetta clausola di flessibilità, dichiara il paragrafo 1: “se un’azione dell’unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate”. Il procedimento è alquanto rigoroso, essendo richiesti la proposta della Commissione, l’approvazione del Parlamento e, principalmente, il voto unanime del Consiglio. Poiché quest’ultimo è formato dai ministri degli Stati membri, la regola dell’unanimità implica che l’attribuzione di nuove competenze all’unione è subordinata al consenso di tutti gli Stati membri. La necessità di tale procedimento è ribadita, nella parte finale della disposizione citata, riguardo all’ipotesi di ricorso ad una procedura legislativa speciale. Sembra che il riferimento alle procedure legislative speciali vada inteso nel senso che, anche nelle materie nelle quali sono previste procedure del genere, l’attribuzione di poteri aggiuntivi all’unione richieda la proposta della commissione, l’approvazione del parlamento europeo e il voto unanime del consiglio. Se tale interpretazione è esatta, la portata pratica della norma in parola consiste nella necessità del voto unanime del Consiglio e, principalmente, nell’approvazione del Parlamento europeo, mentre nelle procedure legislative speciali talvolta il consiglio delibera maggioranza e, il più delle volte, il Parlamento ha solo un potere consultivo, non il potere decisionale insito nell’approvazione, in assenza della quale la disposizione non può essere adottata. L’art. 352 pone vari limiti alla sua applicazione. Anzitutto, ai sensi del paragrafo 3, le misure fondate su tale articolo non possono comportare una armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono. Inoltre il ricorso alla procedura dell’articolo in esame è del tutto escluso in materia di politica estera e di sicurezza comune, a conferma che, malgrado l’apparente eliminazione dei pilastri dell’unione, tale materia conserva una sua specificità che la sottrae alle regole generali, di origine comunitaria, operanti nell’ordinamento dell’unione. I c.d. poteri impliciti. Oltre alla disposizione dell’art. 352 TFUE, il principio delle competenze di attribuzione risulta limitato da una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, che si è sviluppata in controtendenza rispetto a tale principio. Ci riferiamo a quella giurisprudenza nella quale la Corte di giustizia fa applicazione della c.d. teoria dei poteri impliciti, elaborata in epoca ormai lontana dalla corte suprema statunitense, con l’obiettivo di rafforzare e ampliare le competenze dello Stato federale, e ripresa dalla Corte internazionale di Giustizia per estendere i poteri delle Nazioni Unite. Secondo tale teoria, l’Unione Europea (come in generale, un’organizzazione internazionale) deve ritenersi provvista non solo dei poteri ad essa conferiti espressamente dei trattati istitutivi (poteri espliciti), ma anche dei poteri (impliciti), pur non menzionati dai trattati, che siano funzionali ai poteri espliciti; che siano, cioè, necessari per garantire che i poteri suddetti siano esercitati nella maniera più efficace. In questa visione i cosiddetti poteri impliciti vengono ricavati da quelli espliciti, risultanti dai trattati. Ma esiste anche una versione più avanzata della teoria dei poteri impliciti, secondo la quale tali poteri possono essere ricavati direttamente dagli scopi dei trattati: l’unione, così, sarebbe fornita dei poteri occorrenti per raggiungere i predetti scopi. Se si rammenta quanto vasti e generici ci siano gli scopi dell’unione, risulta chiaro come questa versione della teoria dei poteri impliciti sia suscettibile di ampliare a dismisura le competenze e i poteri. Esemplare di tale giurisprudenza è la sentenza del 31 marzo 1971, con la quale la Corte affermò la competenza della comunità a concludere accordi internazionali in materia di trasporti. In proposito va ricordato che l’articolo 288 del trattato sulla comunità economica europea, che disciplinava il procedimento di conclusione degli accordi da parte della comunità, esordiva dichiarando che tale procedimento si applicava: “quando le disposizioni del presente trattato prevedano la conclusione di accordi tra la comunità e uno o più Stati ovvero un’organizzazione internazionale”. Sembrerebbe, pertanto, anche alla luce del principio delle competenze di attribuzione che la comunità avesse il potere di concludere accordi internazionali solo nei casi in cui ciò fosse espressamente previsto da specifiche norme del trattato. Al contrario, nella citata sentenza, la corte anzitutto, dedusse una competenza a stipulare della comunità dall’articolo 210, il quale stabiliva che la comunità ha personalità giuridica. Quindi la corte affermò che la competenza a stipulare “non deve essere in ogni caso espressamente prevista dal trattato ma può desumersi anche da altre disposizioni del trattato e da atti adottati, in forza di queste disposizioni, dalle istituzioni della comunità. In particolare, tutte le volte che la comunità ha adottato delle disposizioni contenenti, sotto qualsivoglia forma, norme comuni, gli Stati membri hanno più il potere di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano su dette norme”. Le categorie di competenze dell’Unione europea. Il principio di attribuzione non esaurisce la disciplina relativa alle competenze dell’Unione. Occorre, infatti, stabilire se il conferimento di tali competenze escluda una competenza degli Stati membri, o, al contrario, coesista con tale competenza e quali siano la natura e l’intensità dei poteri assegnati all’unione nelle materie rientranti nelle proprie competenze. Anteriormente al trattato di Lisbona mancava una disciplina organica della materia. Alcuni contributi importanti erano stati dati dalla giurisprudenza della corte di giustizia, ma l’assenza di una normativa rendeva problematica la definizione degli ambiti di competenza rispettiva delle istituzioni europee degli Stati membri. Il trattato di Lisbona ha colmato questa lacuna, distinguendo tre categorie di competenza dell’unione, alle quali sono dedicati gli articoli 2, 3, 4, e 6 TFUE. Esse sono le competenze esclusive, quelle concorrenti e quelle di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Tali categorie, peraltro non esauriscono la tipologia delle competenze dell’unione. Una posizione a sè occupa, infatti, la politica estera e di sicurezza comune, fondata essenzialmente su metodi e atti di carattere intergovernativo e nella quale, pertanto i principali protagonisti restano gli Stati membri. L’art. 2, paragrafo 1, TFUE definisce nei termini seguenti le competenze esclusive: “quando i trattati attribuiscono all’unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l’unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’unione oppure per dare attuazione agli atti dell’unione”. Pertanto, nelle materie di competenza esclusiva dell’unione solo questa può adottare atti obbligatori, salva autorizzazione data agli Stati membri e salva una competenza, legislativa e amministrativa, di tali Stati al fine di eseguire le disposizioni emanate dall’unione. Ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, TFUE le materie di competenza esclusiva sono: 1) l’unione doganale; 2) le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; 3) la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; 4) la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; 5) la politica commerciale comune. Si noti che tale ipotesi di competenza esclusiva vanno considerate di carattere tassativo, per cui ulteriori materie potrebbero essere stabilite solo modificando i trattati. Alla competenza concorrente è dedicato, in primo luogo, l’art. 2, paragrafo due, TFUE. Nei casi di competenza concorrente il potere di adottare atti giuridicamente obbligatori appartiene, di regola, sia alle istituzioni europee che agli Stati membri. Questi ultimi, peraltro, possono esercitare la propria competenza solo quando l’unione non abbia esercitato il potere, oppure quando abbia deciso di abrogare un proprio atto, per esempio, per assicurare il rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Le materie principali comprese tra le competenze concorrenti sono contemplate dall’art. 4, paragrafo due, TFUE, esse sono: a) mercato interno; b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel trattato sul funzionamento dell’Unione Europea; c) coesione economica, sociale territoriale; d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare; e) ambiente; f) protezione dei consumatori; g) trasporti; h) energia; i) spazio di libertà, sicurezza e giustizia; f) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica per quanto riguarda gli aspetti definiti nello stesso trattato. Va notato che tale elenco, a differenza di quello relativo alle materie di competenza esclusiva dell’unione, è esemplificativo, non esaustivo. La norma in esame, infatti, espressamente qualifica le materie sopra elencate come principali settori di competenza concorrente. Lo stesso art. 4 detta una disciplina differenziata, e più sbilanciata a favore degli Stati membri, nei settori, da una parte della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio e, dall’altra, della cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario. In queste categorie l’azione svolta dall’unione non preclude quella degli Stati membri, che può essere sempre esercitata. Infine l’art. 2, paragrafo cinque, TFUE, dichiara: “in taluni settori e alle condizioni previste dai trattati, l’unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori”. Questa terza categoria, delle competenze dell’unione di sostegno, coordinamento o completamento consiste in un’opera di assistenza all’azione degli Stati membri, opera il cui esercizio non impedisce l’esercizio delle competenze statali e che, come precisa secondo comma di detto paragrafo 5, non può comportare un’armonizzazione normativa degli Stati membri. I settori compresi in tali competenze, anch’essi enunciati in maniera tassativa, sono: a) tutela e miglioramento della salute umana; b) industria; c) cultura; d) turismo; e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport; f) protezione civile; g) cooperazione amministrativa. L’articolo in parola ha cura di precisare che tali competenze non riguardano in toto tali materie, ma solo nella loro finalità europea, cioè solo nella misura in cui esse concernono la dimensione europea, non quella meramente interna, dei suddetti settori. Il principio di sussidiarietà. I trattati sui quali si fonda l’unione provvedono non solo a delimitare le competenze dell’unione e quelle degli Stati membri, ma anche a stabilire i principi in base ai quali l’unione esercita le sue competenze. In proposito l’art. 5, par. 1. TUE, dichiara: “l’esercizio delle competenze dell’unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità”. Il primo principio è stato introdotto dal trattato di Maastricht del 1992, ed esso è previsto nell’art. 5, par. 3, TUE, il quale, al primo comma dichiara: “in virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”. Il principio di sussidiarietà non riguarda la ripartizione di competenze tra l’unione e gli Stati membri, ma il loro esercizio. Tale articolo distingue, infatti, le materie di competenza esclusiva dell’unione, nelle quali principio non opera proprio perché può intervenire solo l’unione, non gli Stati membri, e le altre, cioè le materie di competenza concorrente, nonché quelle concernenti le azioni di sostegno, coordinamento o completamento. Per queste il principio di sussidiarietà delimita l’esercizio delle competenze, rispettivamente, da parte dell’unione o degli Stati membri, nelle materie appartenenti alla competenza sia della prima che dei secondi. L’applicazione del principio di sussidiarietà va affermata anche in materia di PESC e nelle politiche economica e di occupazione, nelle quali i principali attori sono gli Stati membri e che, pertanto, non sono, evidentemente, di competenza esclusiva dell’unione. Il principio di sussidiarietà anche se non ancora così denominato, aveva fatto la sua apparizione, con l’atto unico europeo del 1986, nella materia della politica ambientale. Qui si prestava a favorire anche un’espansione dei poteri della comunità, ogni qual volta la sua azione apparisse più efficace di quella degli Stati membri. Mentre, per come o abbiano comunque già esercitato tali libertà; a persone che si spostino da uno Stato membro all’altro per offrire o un ricevere un servizio, o che, pur non spostandosi affatto, svolgono servizi diretti (anche) verso uno Stato membro diverso dal proprio; e altrettanto può dirsi per la circolazione di capitali. Se non vi sono spostamenti tra paesi dell’unione, nel senso ora accennato, gli Stati restano liberi in principio, di adottare e applicare la propria normativa relativamente, per esempio, alle modalità di vendita di merci, ai rapporti di lavoro, all’accesso a una professione e così via. La giurisprudenza della corte di giustizia dell’Unione Europea non è del tutto priva di qualche incertezza e, potremmo aggiungere, è ravvisabile in essa una certa tendenza ad ampliare le possibilità d’intervento dell’unione. Il principio di leale cooperazione. Nei rapporti tra l’unione europea e gli Stati membri un ruolo chiave svolge la disposizione già contenuta nell’art. 10 del trattato sulla comunità europea e oggi nell’art. 4, par. 3, TUE: “gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati ovvero conseguenti agli atti delle istituzioni dell’unione”. Gli Stati membri facilitano all’unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’unione”. La norma in esame sembrerebbe limitarsi a ribadire l’obbligo, connaturato alla stipulazione di ogni trattato internazionale, secondo il quale pacta sunt servanda, obbligo che, nell’art. 4, par. 3, TUE, viene esplicitato sotto il profilo positivo (con riguardo alle misure da adottare per assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto dell’unione) e negativo (rispetto alle misure che rischiano di compromettere gli obiettivi dell’unione). Ma la giurisprudenza della corte di giustizia, con riguardo all’art. 10 del trattato sulla comunità europea, ha rinvenuto in tale disposizione un principio generale di leale collaborazione, o cooperazione, degli Stati membri nei riguardi della comunità europea, dal quale, con delle pronunce particolarmente ardite e sebbene, solitamente, applicando tale articolo in combinazione con altre disposizioni del relativo trattato, ha ricavato una serie di specifici obblighi degli Stati. L’obbligo in questione, riferito a ciascuno Stato membro, si specifica con riguardo a tutti gli organi e le autorità pubbliche, siano essi legislativi, giudiziari o amministrativi e siano essi organi formalmente dello Stato oppure altri enti territoriali. La giurisprudenza in esame, in sostanza, applicato l’art. 10 del trattato sulla comunità europea alla luce del principio dell’effetto utile, in virtù del quale ogni disposizione va interpretata e applicata in maniera tale da ricavarne tutti gli effetti idonei a farle conseguire, nella maniera più completa ed efficace, il proprio obiettivo. La corte ha fatto applicazione dell’art. 10 già nella celebre sentenza del 15 luglio 1964, causa Costa c. ENEL, con la quale affermò il primato del diritto comunitario su quello nazionale e la conseguente impossibilità per gli stati membri di fare prevalere una legge interna successiva, in contrasto con l’ordinamento comunitario. La corte dichiarò, tra l’altro: se l’efficacia del diritto comunitario (oggi dell’Unione) variasse da uno stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del trattato contemplata nell’art. 5, secondo comma. La corte ha affermato poi che dall’articolo in esame deriva l’obbligo del giudice nazionale di garantire la tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli derivanti dal diritto comunitario direttamente applicabile. A questo fine il giudice è tenuto anche ad adottare provvedimenti provvisori a tutela dei singoli, persino nell’ipotesi in cui il diritto interno vieti l’emissione di tali provvedimenti. Sull’art. 10 del trattato sulla comunità europea è fondata la giurisprudenza sostanzialmente “creativa” della corte di giustizia, che afferma l’obbligo degli Stati membri (a certe condizioni) di risarcire i danni provocati ai singoli dalle proprie violazioni di obblighi derivanti dal diritto dell’unione. Un’ulteriore conseguenza che viene ricavata dal principio di leale cooperazione è l’obbligo del giudice interno di interpretare il proprio diritto in maniera conforme al diritto dell’unione. Esso rileva specialmente per le direttive, le quali impongono agli Stati membri di adottare le misure necessarie per raggiungere il risultato prescritto dalle stesse direttive. In mancanza di misure statali di esecuzione l’obbligo di interpretazione conforme tende a consentire, in pratica, l’applicazione della direttiva, sebbene non attuata, nell’ordinamento interno, “piegando” il diritto dello Stato a conformarsi in via interpretativa alla direttiva in questione. All’obbligo di leale cooperazione è riportato anche il c.d. principio di assimilazione, alla stregua del quale lo Stato membro deve sanzionare le violazioni del diritto dell’unione in termini analoghi rispetto a violazioni comparabili del diritto interno. Il principio di assimilazione, per quanto riguarda la lotta alla frode che lede gli interessi finanziari dell’unione, trova oggi riconoscimento normativo nell’art. 352, par. 2, TFUE. La corte ha dedotto dall’obbligo di cooperazione anche l’obbligo, per uno Stato membro, di adottare i provvedimenti necessari per fronteggiare atti di privati che impediscano l’esercizio delle libertà garantite dal diritto dell’unione. Obblighi degli Stati membri concernenti comportamenti di privati sono stati più volte enunciati anche in riferimento al rispetto delle regole sulla concorrenza applicabili alle imprese. L’integrazione differenziata (o flessibile). I rapporti tra l’unione europea e gli Stati membri non sempre hanno il medesimo contenuto e la medesima portata. L’applicazione del diritto dell’unione avviene spesso in maniera differenziata nei diversi Stati membri, nel senso, cioè, che tali Stati non sempre sono integralmente soggetti a tutta la normativa europea. Sino al trattato di Amsterdam del 1997 la possibilità di un’applicazione differenziata non era oggetto di uno specifico meccanismo; ma, in concreto, essa già operava in materie di notevole importanza, dando luogo a quel fenomeno denominato, di volta in volta, integrazione flessibile o Europa “à la carte”. Oltre all’art. 8, del trattato sulla comunità economica europea, inserito dall’art. 15 dell’atto unico europeo del 1986, il quale consentiva a talune economie, caratterizzate da differenze di sviluppo, deroghe temporanee, in considerazione dell’ampiezza dello sforzo richiesto, per l’instaurazione del mercato interno, era stato il trattato di Maastricht del 1992 che aveva ampiamente impiegato il metodo dell’applicazione differenziata. Ciò era avvenuto per il protocollo contenente l’Accordo sulla politica sociale, non applicabile regno unito. Ma più importante è il meccanismo adottato dal trattato di Maastricht relativamente all’unione economica e monetaria. Questo non solo ha consentito al Regno unito e alla Danimarca di restare estranei, su loro scelta, alla terza fase di tale unione, che ha condotto all’introduzione dell’euro, quale moneta unica; ma ha previsto, quale condizione per il passaggio a tale terza fase, il rispetto di stringenti “criteri di convergenza”, attribuendo, in mancanza, lo status di Stati membri con deroga agli Stati in questione, cioè l’impossibilità di adottare l’euro. La distinzione fra gli Stati la cui moneta è l’euro e gli altri Stati membri risulta ancor più marcata nel trattato di Lisbona, il quale, nel protocollo n.14, ha formalizzato la prassi dell’Eurogruppo, formato dai ministri delle finanze degli Stati della c.d. zona euro, che si riuniscono in via informale per discutere questioni attinenti alla materia della moneta, con la partecipazione della commissione. Il trattato di Amsterdam ha inserito altri casi di applicazione differenziata, che sono ulteriormente aumentati con il trattato di Lisbona, nel quale sono solitamente contemplati in protocolli. Ad esempio limitazioni dell’efficacia giuridica della carta dei diritti fondamentali nei confronti della Polonia e del regno unito ai sensi del protocollo n. 30. Importante è anche il protocollo n. 22, il quale, oltre a concedere alla Danimarca una posizione analoga a quella del regno unito e dell’Irlanda, prevede altresì deroghe, per esempio per le decisioni dell’unione aventi implicazioni in materia di difesa. Un ulteriore caso di integrazione differenziata può determinarsi in materia di politica estera e di sicurezza comune. In tale materia la regola generale di votazione nel consiglio è l’unanimità (art. 31, par. 1, TUE); il secondo comma di questo paragrafo prevede, infatti, la c.d. astensione costruttiva: “in caso di astensione dal voto, ciascun membro del consiglio può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale a norma del presente comma. In tal caso esso non è obbligato ad applicare la decisione, ma accetta che essa impegni l’unione. In uno spirito di mutua solidarietà, lo Stato membro interessato si astiene da azioni che possono contrastare o impedire l’azione dell’unione basata su tale decisione, e gli altri Stati membri rispettano la sua posizione”. Lo Stato che motiva la sua astensione con una dichiarazione formale può quindi sottrarsi agli obblighi derivanti dalla decisione del consiglio, senza impedire che essa impegni l’unione. Peraltro lo Stato in questione deve astenersi dall’operare in maniera pregiudizievole per l’attuarsi della decisione. Si istituisce, così, un meccanismo di “Europa a più velocità”, o di integrazione flessibile o differenziata. Le cooperazioni rafforzate. Il trattato di Amsterdam del 1997 ha introdotto un meccanismo specifico per consentire forme di sviluppo flessibile o differenziato tra alcuni Stati membri all’interno dell’Unione Europea, cioè consentendo di assumere obblighi più incisivi, per quanto concerne la migliore realizzazione degli obiettivi europei, utilizzando le istituzioni, le procedure, gli atti dell’unione. Si tratta della c.d. cooperazione rafforzata, termine con il quale si pone in primo piano l’aspetto positivo e costruttivo, consistente in un approfondimento dello sviluppo dell’integrazione, e si cerca di edulcorare l’aspetto negativo del fenomeno: il fatto, cioè, che alcuni Stati membri restino estranei a tale sviluppo, vuoi perché non siamo disposti ad accelerare il passo, vuoi perché non siano nelle condizioni per assumere più impegnative responsabilità, e che, di conseguenza, si rinunci ufficialmente a mantenere l’unità e l’uniformità del sistema europeo. Tale rinuncia, d’altra parte, sembra inevitabile in considerazione dell’esteso allargamento dell’Unione Europea a nuovi membri, con una sempre più marcata differenziazione nei caratteri della società europea. Le cooperazioni rafforzate sono regolate dall’art. 20 TUE e dagli articoli 326-334 TFUE. Tali norme contengono la disciplina generale, applicabile, cioè, nell’intera gamma delle materie rientranti nelle competenze dell’unione; ma talune varianti sono stabilite per la politica estera e di sicurezza comune. Il significato essenziale delle cooperazioni rafforzate, che consiste nel promuovere l’inserimento all’interno del sistema dell’unione europea di forme di più intenso sviluppo concernenti un limitato numero di Stati membri, è ben reso dall’art. 20, par. 1, TUE, il quale stabilisce: “gli Stati membri che intendono instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel quadro delle competenze non esclusive dell’unione possono far ricorso alle sue istituzioni ed esercitare tali competenze applicando le pertinenti disposizioni dei trattati”. L’obiettivo delle cooperazioni rafforzate, consistente nel consentire a un gruppo più avanzato di Stati membri di impiegare le istituzioni e le procedure dell’unione per far progredire l’integrazione europea, risulta chiaramente dal secondo comma della disposizione in esame: “le cooperazioni rafforzate sono intese a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell’unione, a proteggere i suoi interessi e a rafforzare il suo processo di integrazione”. L’istituzione di una cooperazione rafforzata ha per conseguenza che, sebbene tutti gli Stati membri possano partecipare alle deliberazioni del consiglio nella materia oggetto di tale cooperazione, solo quelli che partecipano alla cooperazione rafforzata possono votare sulle relative decisioni. Le regole di votazione, pertanto, sono adottate in corrispondenza al numero degli Stati membri partecipanti e, in particolare, l’unanimità è data dai soli membri del consiglio partecipanti alla cooperazione rafforzata. Corrispondentemente, le decisioni in materia sono obbligatorie per i soli Stati partecipanti alla cooperazione rafforzata e non sono considerate un acquis che deve essere accettato dagli Stati candidati all’adesione. Tuttavia gli Stati membri non partecipanti alla cooperazione rafforzata hanno, quantomeno, un obbligo negativo: quello di non ostacolarne l’attuazione da parte degli Stati membri che vi partecipano. Le pertinenti norme dei trattati stabiliscono varie condizioni per l’instaurazione di una cooperazione rafforzata, la quale richiede un’apposita delibera di autorizzazione da parte delle competenti istituzioni europee. In particolare, la proposta è presentata dalla commissione al consiglio su richiesta degli Stati membri interessati; ma la commissione può rifiutare tale richiesta dandone una motivazione a detti Stati. Sulla proposta della commissione delibera il consiglio, a maggioranza qualificata, previa approvazione del parlamento europeo. Tra le condizioni prescritte va particolarmente segnalata la necessità che essa sia diretta a promuovere gli obiettivi dell’unione, a proteggere i suoi interessi e a rafforzare il processo di integrazione e che sia aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri. CAPITOLO 4 “LA CITTADINANZA EUROPEA” L’attribuzione della cittadinanza europea. Tra le più significative novità del trattato di Maastricht del 1992 vi fu l’istituzione della cittadinanza dell’unione europea, consistente in un nuovo status giuridico del è quale titolare chiunque abbia la cittadinanza di un paese membro dell’unione. Tale status, enunciato nell’art.9 TUE, è disciplinato negli articoli 20-25 TFUE. I diritti dei cittadini trovano un ulteriore riconoscimento nella carta di Nizza dei diritti fondamentali, avente lo stesso valore dei trattati. Riguardo all’attribuzione della cittadinanza europea, essa consegue automaticamente alla cittadinanza di uno Stato membro. Essa rappresenta un arricchimento della cittadinanza nazionale, che, senza in alcun modo sostituire quest’ultima, la potenzia mediante una serie di diritti. Non esistendo criteri di acquisto o di perdita di tale cittadinanza definiti autonomamente dall’unione, sono gli Stati membri che mantengono il potere di disciplinare come credono l’attribuzione e la perdita della propria cittadinanza, così determinando, in definitiva, la nascita o la perdita anche della cittadinanza europea. La libertà di ciascuno Stato membro, per quanto riguarda la propria cittadinanza, non può essere rimessa in discussione né dalle istituzioni europee, né da alcuno Stato membro. In questo senso è estremamente chiara la dichiarazione n. 2 sulla cittadinanza di uno Stato membro, allegata al trattato di Maastricht, secondo la quale: ogni qual volta nel trattato che istituisce la comunità europea si fa riferimento ai cittadini degli Stati membri, la questione Il mediatore è un organo individuale, istituito dal trattato di Maastricht del 1992, con il compito di promuovere la buona amministrazione nell’unione intervenendo per riparare i casi di cattiva amministrazione. Egli è nominato dal parlamento europeo dopo ogni elezione dello stesso parlamento per la durata della legislatura e il suo mandato è rinnovabile. Lo statuto e le condizioni generali per l’esercizio delle funzioni del mediatore sono fissati dal parlamento europeo, previo parere della commissione e con l’approvazione del consiglio. Malgrado gli stretti rapporti tra il mediatore e il parlamento europeo, il mediatore non può essere considerato un suo organo. L’art. 228, par. 3, dichiara infatti: “il mediatore esercita le sue funzioni in piena indipendenza. Nell’adempimento dei suoi doveri, egli non sollecita ne accetta istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo. Per tutta la durata del suo mandato, il mediatore non può esercitare alcun altra attività professionale, remunerata o meno”. L’indipendenza del mediatore, anche nei riguardi del parlamento europeo, è confermata dall’osservazione che lo stesso parlamento non può revocare la nomina del mediatore, ma solo chiedere alla corte di giustizia di dichiararlo dismissionario (provocandone così la cessazione delle funzioni) qualora non risponda più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni o abbia commesso una colpa grave. Le funzioni del mediatore risultano dall’art. 228, par. 1, nonché dal suo statuto. Il citato articolo 228, par. 1, dichiara: “un mediatore europeo, eletto dal parlamento europeo, è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, e riguardanti casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell’unione, salvo la corte di giustizia dell’unione nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. Egli istruisce tali denunce e riferisce al riguardo”. Va osservato, in primo luogo, che anche il diritto di sporgere una denuncia al mediatore, pur ricompreso nella cittadinanza dell’unione non è prerogativa esclusiva del cittadino, ma di ogni persona residente o aventi la sede sociale in uno Stato membro; come il diritto di petizione anch’esso si pone quindi nella prospettiva dei diritti umani fondamentali. Il mediatore, peraltro, può attivarsi anche d’ufficio o su denuncia presentata da un membro del parlamento europeo. Inoltre non si richiede nel denunciante un interesse ad agire. Oggetto della denuncia è un caso di cattiva amministrazione nell’azione dell’unione, con esclusione, quindi, di comportamenti imputabili a Stati membri. È esclusa, inoltre, ogni possibilità di indagine sull’attività giudiziaria europea. Dal secondo comma si desume che l’attività del mediatore è preclusa anche quando sia in atto o, si sia svolta, una procedura giudiziaria all’interno di uno Stato in merito ai fatti oggetto della denuncia. Il trattato non definisce i casi di cattiva amministrazione nell’azione dell’unione. Il compito del mediatore consiste nel cercare, da un lato, di riparare l’eventuale torto subito dal denunziante, dall’altro di risolvere il problema generale sollevato dalla denuncia. Di conseguenza il mediatore, oltre a condurre un’indagine, con la collaborazione dell’istituzione, dell’organo o dell’organismo interessati e del denunciante, svolge un’attività conciliativa con l’istituzione, l’organo o l’organismo in questione al fine di eliminare il caso di cattiva amministrazione e di soddisfare il denunciante. Se ciò non risulta possibile il mediatore chiude il caso con una valutazione critica relativa all’istituzione, all’organo o all’organismo interessati, oppure elabora una relazione con progetti di raccomandazioni e l’invia all’istituzione, all’organo o all’organismo interessati e al denunciante. Come si vede, l’azione del mediatore non si esprime mai con atti giuridicamente obbligatori. Tuttavia il suo contributo alla soluzione sia di casi specifici, che di problemi generali è solitamente molto efficace. Ulteriori diritti del cittadino europeo consistono nella facoltà di scrivere alle istituzioni, agli organi o agli organismi europei, nonché al mediatore europeo, in una delle lingue ufficiali e di ricevere una risposta nella stessa lingua, nonché nel diritto di accesso ai documenti delle istituzioni, organi o organismi dell’unione, secondo i principi generali e alle condizioni stabilite mediante regolamenti dal parlamento e dal consiglio, nonché nei regolamenti interni delle istituzioni, organi e organismi europei. La tutela diplomatica e consolare all’estero. L’art. 23 TFUE attribuisce, infine, una proiezione esterna alla cittadinanza dell’unione, dichiarando, al primo comma, quanto segue: “ogni cittadino dell’unione gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta tutela”. In realtà esso non prevede un ruolo dell’unione, ma solo una protezione da parte degli Stati membri in via sussidiaria, rispetto allo stato di cittadinanza dell’interessato, e subordinatamente alla condizione che quest’ultimo Stato non sia rappresentato nel territorio dello Stato terzo. Esso, quindi, si limita a riconoscere la prassi fondata sull’istituto della rappresentanza internazionale in base al quale uno Stato può assistere i cittadini di un altro Stato in nome di quest’ultimo. Si aggiunga che l’art. 23 non riguarda il diritto di protezione diplomatica, ma più modestamente, l’assistenza che le autorità diplomatiche e consolari forniscono ai propri cittadini per facilitarne il soggiorno in un altro Stato. La norma in esame prevede l’adozione, da parte degli Stati membri, delle disposizioni necessarie. Inoltre, in virtù del secondo comma, il consiglio, previa consultazione del parlamento europeo, può adottare direttive che stabiliscono le misure di coordinamento e cooperazione per facilitare la tutela dei cittadini nei paesi terzi. La tutela presso qualsiasi rappresentanza diplomatica o consolare di uno Stato membro è concessa se il cittadino dell’unione si trovi in uno Stato terzo nel quale non vi è né rappresentanza permanente accessibile, né console onorario accessibile e competente del suo stato. I casi di tutela comprendono il decesso, l’incidente o la malattia grave, l’arresto o la detenzione, l’essere vittima di atti di violenza, l’aiuto e il rimpatrio in situazioni di difficoltà. Inoltre, l’art. 6 dispone: 1. Salvo in caso di estrema urgenza, non può essere concesso alcun anticipo o aiuto pecuniario né può essere sostenuta alcuna spesa a favore di un cittadino dell’unione senza l’autorizzazione delle autorità competenti dello Stato membro di cui ha la cittadinanza. 2. Salvo esplicita rinuncia delle autorità dello Stato membro di cui richiedente ha la cittadinanza, questi deve impegnarsi a rimborsare l’intero anticipo o aiuto pecuniario nonché le spese sostenute. 4. Il governo dello Stato membro di cui il richiedente ha la cittadinanza rimborsa tutte le spese su richiesta del governo dello Stato membro che fornisce l’assistenza. Le condizioni di una preventiva autorizzazione alla spesa da parte dello Stato di cittadinanza e di un impegno al rimborso dell’interessato contribuiscono a mettere in luce la modestia dell’istituto in esame e a riconoscere a esso un significato essenzialmente simbolico. CAPITOLO 5 “LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE EUROPEA” Quadro generale delle istituzioni e degli organi. L’Unione Europea dispone di un’ampia e articolata struttura organizzativa la cui azione è diretta a perseguire i suoi obiettivi. Più precisamente, come dichiara l’art. 13, par. 1, TUE, il quadro istituzionale dell’unione mira “a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri”. La regolamentazione relativa alla composizione, al funzionamento, alle competenze e ai poteri dei diversi organi è ripartita tra il trattato sull’unione europea e quello sul funzionamento dell’Unione Europea. Alcuni organi che la compongono sono definiti istituzioni, ed essi sono, attualmente, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la Banca centrale europea, la Corte dei conti. Tale qualifica non ha solo un valore di prestigio, ma determina anche alcune conseguenze giuridiche, poiché talune disposizioni dei trattati si riferiscono espressamente alle istituzioni e non agli altri organi. Per esempio, l’art. 265 TFUE, attribuisce la legittimazione a proporre ricorsi in “carenza” dinanzi alla corte di giustizia alle “istituzioni dell’unione”; analogamente, l’art. 340, secondo comma, TFUE, stabilisce l’obbligo dell’unione di risarcire i danni cagionati dalle sue istituzioni. Tali norme sono applicabili solo nei riguardi delle suddette istituzioni designate dall’art. 13 TUE, mentre, in principio, ne restano esclusi gli altri organi. Notiamo che, con il trattato di Lisbona, il consiglio europeo, formato dai massimi vertici degli Stati membri, i capi di Stato o di governo, è inserito per la prima volta tra le istituzioni dell’unione. Malgrado ciò esso resta in una posizione a sé, in qualche misura al di sopra, sul piano politico, rispetto alle altre istituzioni, poiché esso assume le decisioni fondamentali concernenti lo sviluppo dell’azione europea e dello stesso processo d’integrazione europea. Il consiglio europeo adotta anche atti formali, sul piano giuridico, non solo orientamenti o deliberazioni di natura politica. Le sue funzioni, particolarmente significative nella PESC, sono prevalentemente disciplinate nel trattato sull’Unione Europea. Le successive tre istituzioni, il parlamento europeo, il consiglio, la commissione, sono rappresentative, rispettivamente, dei cittadini dell’unione, dei governi degli Stati membri, dell’interesse unitario dell’unione. Si tratta, quindi, di istituzioni lato sensu politiche destinate, in base ai trattati, a collaborare e a interagire nel quadro delle più importanti funzioni, quali la funzione normativa, l’approvazione del bilancio, la conclusione di accordi internazionali. I loro rapporti, per un verso, devono corrispondere a quel principio di leale collaborazione che, stabilito originariamente nelle relazioni tra gli Stati membri e la comunità, è stato esteso dalla corte di giustizia anche ai rapporti tra le istituzioni; per altro verso, devono conformarsi al riparto di competenze tra le stesse istituzioni stabilito dalle disposizioni dei trattati, riparto dal quale emerge un principio di equilibrio istituzionale. Il rispetto di tale principio è essenziale nello svolgimento dei rispettivi ruoli delle tre istituzioni politiche ed è sottoposto al controllo della Corte di giustizia. Le altre istituzioni si caratterizzano per la piena indipendenza, trattandosi di istituzioni giudiziarie, la corte di giustizia, dell’autorità monetaria, la Banca centrale europea, e di controllo dei conti, la corte dei conti. L’apparato dell’Unione Europea comprende, inoltre, il sistema europeo di banche centrali (SEBC), costituito dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali, nonché da altri organi bancari, quale la banca europea per gli investimenti, la quale, peraltro, ha una spiccata autonomia ed è dotata di una propria personalità giuridica e di una propria struttura organizzativa. I trattati istituiscono anche degli organi ausiliari. L’art. 13, par. 4, TUE, dichiara, infatti: “il parlamento europeo, il consiglio e la commissione sono assistiti da un comitato economico e sociale e da un comitato delle regioni, che esercitano funzioni consultive”. Analoghi organi, con funzioni consultive in specifiche materie, sono previsti da varie disposizioni dei trattati, come il comitato in materia di trasporti e il comitato per l’occupazione, nonché il comitato economico e finanziario. Altro organo, caratterizzato da piena indipendenza è il mediatore europeo. Nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC), comprese le operazioni, anche militari, di gestione delle crisi, va ricordato il comitato politico e di sicurezza previsto dall’art. 38, TUE, il quale svolge funzioni di controllo della situazione internazionale, funzioni consultive nei riguardi del Consiglio e dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché funzioni di controllo sull’attuazione delle politiche in materia. Il Parlamento europeo. Il parlamento europeo è l’istituzione rappresentativa dei cittadini dell’Unione Europea, l’organo democratico per eccellenza. L’art. 14, paragrafo due, TUE, dichiara infatti: “il parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell’unione”. Tale istituzione esisteva già al momento della nascita della CECA come assemblea. La stessa assemblea, con una risoluzione del 20 marzo 1958, si autodefinisce “assemblea parlamentare europea” e, con una nuova risoluzione del 30 marzo 1962, “Parlamento europeo”, denominazione ufficializzata nell’atto unico europeo del 1986. Il numero dei parlamentari europei è variato molte volte, in corrispondenza ai successivi ampliamenti degli Stati membri, dai sei originari agli attuali 28, i quali hanno comportato un aumento anche dei parlamentari. L’art. 14, paragrafo due, TUE, non stabilisce un numero fisso per ciascun paese, ma solo un numero massimo dell’intero parlamento, consistente in 750 più il presidente, in sostanza 751. Inoltre esso, per ogni Stato membro, garantisce una soglia minima di sei parlamentari e fissa un numero massimo di 96. Peraltro, limitatamente al periodo restante della legislatura 2009-2014, il numero complessivo dei componenti del parlamento europeo e quello massimo degli Stati membri erano stati aumentati in via provvisoria. Il numero dei componenti del parlamento europeo e la loro assegnazione a ciascuno Stato membro sono stabiliti dal consiglio europeo con una decisione votata all’unanimità, su iniziativa del parlamento europeo e con la sua approvazione. L’unanimità nel consiglio europeo, dove siedono i capi di Stato o di governo degli Stati membri, significa, in sostanza, che la materia richiede un accordo fra tutti tali Stati. Per altro verso, l’approvazione del parlamento europeo implica la necessità del suo consenso, com’è naturale in un settore che riguarda la sua stessa costituzione. Il citato art. 14, paragrafo due, TUE, pur non disponendo il numero dei membri del parlamento assegnato a ciascuno Stato, pone un criterio generale e dei limiti a tale numero: la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri per Stato membro. A nessuno Stato membro sono assegnati più di 96 seggi. In origine i componenti del parlamento europeo erano eletti dai parlamenti nazionali tra i propri componenti. I parlamenti europei, in altri termini, erano designati mediante un’elezione di secondo grado. Questo sistema presentava vari inconvenienti. Si tratta di procedimenti che, proprio perché coinvolgono le tre istituzioni politiche dell’unione europea (parlamento, consiglio, commissione), sono denominati interistituzionali. Con riferimento ai procedimenti di adozione di atti dell’unione, un’ulteriore carenza di democrazia emerge dall’inesistenza di un potere di iniziativa, né del parlamento europeo, né tantomeno dei singoli deputati. Il potere di iniziativa, rappresenta una prerogativa pressoché esclusiva della commissione. Il trattato di Maastricht del 1992 ha riconosciuto, peraltro, al parlamento un potere di impulso, detto anche di “preiniziativa”, nei confronti della commissione, oggi consacrato dall’articolo 225 TFUE. La richiesta del parlamento è subordinata a una maggioranza particolarmente elevata, essendo calcolata sull’intera composizione dello stesso (non sui votanti). Ciò, da un lato, può rendere non agevole la formulazione della richiesta, ma, d’altro lato, ove questa sia formulata, l’ampia maggioranza ne accresce il peso politico. Non riteniamo che, giuridicamente, la commissione abbia il dovere di dare seguito alla richiesta del parlamento, ma solo di motivare un eventuale rifiuto. Oltre a questo specifico potere deve ritenersi che il parlamento europeo abbia un potere generale di deliberare e di adottare risoluzioni su qualsiasi questione che concerna l’unione. Significativi sono i poteri di controllo del parlamento nei riguardi delle altre istituzioni europee. Essi, originariamente, concernevano esclusivamente la commissione, ma si sono estesi, dapprima nella prassi, poi anche nei trattati, al consiglio e, con il trattato di Lisbona in qualche misura anche al consiglio europeo. Nei rapporti con la commissione, la quale è responsabile collettivamente dinanzi al parlamento europeo, va ricordato, anzitutto, l’esame che il parlamento europeo, in seduta pubblica, effettua sulla relazione generale annuale sull’attività dell’unione che, la commissione è tenuta a pubblicare ogni anno, almeno un mese prima dell’apertura della sessione del parlamento (in ogni caso, l’esame del parlamento avviene a posteriori). Nella prassi, inoltre, la commissione presenta, assieme alla relazione generale, un programma d’azione relativo all’anno successivo, sul quale il parlamento può esprimere proprie valutazioni, orientamenti e indirizzi. Oltre alla relazione generale annuale, la commissione è tenuta a presentare al parlamento europeo varie relazioni su determinate materie, come la cittadinanza dell’unione, la coesione economica e sociale, la ricerca e sviluppo tecnologico. Uno strumento penetrante di controllo politico sulla commissione è rappresentato dalle interrogazioni che possono essere presentate dal parlamento europeo o da singoli deputati europei alle quali la commissione è tenuta a rispondere oralmente o per iscritto. Il mezzo più incisivo di controllo del parlamento europeo sulla commissione è costituito dalla mozione di censura, con la quale il parlamento ha il potere di provocare le dimissioni della commissione. Tale potere esprime un vero e proprio rapporto di fiducia politica tra le due istituzioni, poiché la permanenza in carica della commissione presuppone la sussistenza della fiducia del parlamento: venuta meno quest’ultima la commissione deve cessare dalle sue funzioni. L’adozione della mozione di censura è circondata da molteplici garanzie, dato l’effetto traumatico che può produrre nella vita dell’unione. Occorre, quindi, che la decisione sia sostenuta da un’ampia maggioranza, i due terzi dei voti espressi che corrispondano alla maggioranza dei componenti del parlamento; che essa sia discussa dopo ponderato esame e riflessione, quindi non prima di tre giorni dal suo deposito; infine, che la discussione e la votazione avvengano con la massima trasparenza, quindi con la votazione pubblica. Ulteriori garanzie sono poste dal regolamento, il quale, tra l’altro, richiede che la mozione di censura sia presentata da almeno un decimo dei deputati che compongono il parlamento e che sia motivata. L’approvazione della mozione di censura comporta le dimissioni collettive dei membri della commissione. Non è ammessa la censura contro singoli commissari, per cui essa, anche se motivata dalla condotta di taluni commissari, si ripercuote sull’intera commissione. La caduta della commissione implica la nomina di una nuova commissione, il cui mandato è limitato alla restante durata del mandato di quella censurata. Quest’ultima resta in carica fino alla nomina della nuova commissione, ma solo per la cura degli affari di ordinaria amministrazione. La mozione di censura, sebbene talvolta presentata, non è mai stata approvata, forse perché i deputati sono consapevoli del suo carattere traumatico. Il ruolo della commissione di naturale interlocutore del parlamento europeo è confermato dalla norma che consente alla stessa commissione di assistere a tutte le sedute del parlamento e di essere ascoltata a sua richiesta. In origine il parlamento non aveva rapporti con il consiglio, ma dapprima nella prassi, poi negli stessi trattati, è stato riconosciuto un diritto di interrogazione del parlamento e dei deputati anche nei suoi confronti. Infatti, ai sensi dell’art. 230, TFUE, il consiglio è ascoltato dal parlamento europeo secondo le modalità previste nel regolamento interno del consiglio. Anche con il consiglio europeo originariamente non esisteva alcun rapporto, ma l’art. 15, paragrafo sei, TUE, prevede la presentazione al parlamento europeo di una relazione dopo ogni riunione del consiglio europeo da parte del presidente di tale consiglio. Inoltre il citato art. 230, terzo comma, estende ora al consiglio europeo la possibilità di essere ascoltato dal parlamento europeo, secondo le modalità previste dal regolamento interno del consiglio europeo. Si creano, in definitiva, vari canali di comunicazione tra il vertice politico dell’unione (il Consiglio europeo) e l’istituzione rappresentativa dei cittadini europei (il Parlamento) e ciò non può che giovare a un corretto funzionamento dell’unione e ad un suo sviluppo democratico. Scarsi sono i rapporti del parlamento europeo con la Banca centrale europea, la quale corrisponde a un modello di piena indipendenza rispetto a organi politici. Tuttavia l’art. 284, paragrafo tre, TFUE, dispone che il presidente della BCE presenti al parlamento europeo una relazione annuale sull’attività del sistema europeo di banche centrali (SEBC) e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso. Il parlamento partecipa, a vario titolo, alla formazione di altre istituzioni o organi, come la corte dei conti e il comitato esecutivo della BCE; mentre il mediatore europeo è nominato in via esclusiva dal parlamento. Malgrado i progressi relativi al ruolo del parlamento europeo, realizzati con il trattato di Lisbona del 2007, la sua posizione resta ancora del tutto marginale nel settore della politica estera e di sicurezza comune (PESC), comprensivo della materia della politica di sicurezza e di difesa comune. In questo settore, nel quale sono esclusi gli atti legislativi, i poteri si concentrano negli organi intergovernativi, cioè il consiglio europeo e il consiglio (il parlamento europeo ha modeste funzioni). Il Consiglio europeo: composizione e funzionamento. Il consiglio europeo è nato nella prassi della diplomazia intergovernativa dei c.d. vertici, a partire dal 1961, al fine di affrontare i problemi e di assumere importanti decisioni politiche sul cammino dell’integrazione europea. Tale prassi fu formalizzata con il vertice di Parigi del 9 dicembre 1974, nel quale i capi di Stato o di governo, in un comunicato finale, espressero la loro decisione di riunirsi, accompagnati dai ministri degli esteri, tre volte all’anno e ogni volta che fosse necessario come consiglio delle comunità e a titolo di cooperazione politica, in modo da assicurare lo sviluppo e la coesione generale delle attività delle comunità e dei lavori relativi alla cooperazione politica. Sino all’atto unico europeo del 1986 il consiglio europeo restò estraneo al sistema organizzativo e normativo delle comunità europee, operando essenzialmente quale conferenza intergovernativa di carattere periodico. L’art. 2 dell’atto unico europeo diede a tale struttura un formale riconoscimento, stabilendone la composizione e prescrivendo che si riunisse due volte all’anno, ma senza precisarne le funzioni e lasciando aperti i dubbi sulla sua natura giuridica e circa la sua appartenenza o meno all’ordinamento comunitario. Con il trattato di Maastricht del 1992 il consiglio europeo è stato formalmente inserito nell’Unione Europea e, con il trattato di Lisbona del 2007, esso ha ricevuto la qualifica di istituzione. Il consiglio europeo, sotto un profilo politico, si colloca al vertice della struttura istituzionale dell’unione, in quanto le grandi decisioni relative agli sviluppi dell’integrazione europea sono assunte a livello di tale consiglio e sono poi attuate dalle altre istituzioni, secondo le competenze e le procedure regolate dai trattati. La composizione del consiglio europeo è definita dall’art. 15, paragrafo due, TUE: “il consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente e dal presidente della commissione. L’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori”. Una tra le novità più significative del trattato di Lisbona consiste nell’istituzione della figura del presidente del consiglio europeo. Si tratta di un organo individuale, che non può esercitare alcun mandato nazionale, eletto dal consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta. Con la stessa procedura il consiglio europeo può porre fine al mandato del presidente in caso di impedimento o di colpa grave. I compiti del presidente del consiglio europeo sono indicati dall’art. 15, paragrafo sei, TUE: 1. presiede e anima i lavori del consiglio europeo; 2. assicura la partecipazione e la continuità dei lavori del consiglio europeo, in cooperazione con il presidente della commissione e in base ai lavori del consiglio “affari generali”; 3. si adopera per facilitare la coesione e il consenso in seno al consiglio europeo; 4. presenta al parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle riunioni del consiglio europeo. Come può constatarsi, il presidente svolge quindi, un ruolo di coordinamento, di preparazione e di mediazione all’interno del consiglio europeo. Il citato paragrafo sei gli conferisce, inoltre, una funzione di rappresentanza esterna: “il presidente del consiglio europeo assicura, al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell’unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell’altro rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”. L’art. 15, TUE, dispone che il consiglio europeo si riunisca due volte a semestre, su convocazione del presidente: quest’ultimo, se la situazione lo richiede, convoca una riunione straordinaria. In passato nessuna disposizione regolava il sistema di votazione del consiglio europeo, perché realtà in esso le decisioni venivano prese di comune accordo, mediante la pratica del consensus, che permette di riprodurre in un testo l’intesa raggiunta dai partecipanti. Si tratta di un modo di procedere che evidenzia in pieno il carattere diplomatico e intergovernativo di tale istituzione. Il trattato di Lisbona ha formalizzato tale pratica, ma ha previsto anche numerosi casi nei quali il consiglio europeo vota formalmente. Dichiara al riguardo l’art. 15, paragrafo quattro, TUE: “il consiglio europeo si pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui trattati dispongano diversamente”. Notiamo, anzitutto, che in questi ultimi casi votano soltanto gli Stati membri, tramite i rispettivi capi di Stato o di governo, mentre il presidente del consiglio europeo e il presidente della commissione non partecipano al voto. Ciò conferma che, malgrado la presenza di tali organi individuali, il consiglio resta un’istituzione essenzialmente intergovernativa. Nei trattati sono contemplate diverse regole di votazione a seconda dei casi. Rara è l’ipotesi in cui sia prevista la maggioranza semplice. Le funzioni del Consiglio europeo. Le funzioni del consiglio europeo sono disciplinate, dall’art. 15, paragrafo uno, TUE, il quale dichiara: “il consiglio europeo dà all’unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative”. La formulazione della norma, mette in luce la natura eminentemente politica del ruolo del consiglio europeo, natura che si riflette anche sugli atti che esso emana e che non possono avere natura legislativa. Al termine delle sue riunioni, infatti, la presidenza del consiglio europeo esprime delle conclusioni, alle quali possono aggiungersi comunicati e dichiarazioni, frutto dell’intesa, in principio unanime, raggiunta nel consiglio stesso. Atti del genere, in principio, non hanno efficacia giuridica. Sul piano politico, peraltro, possono avere notevole rilevanza; essi, inoltre, possono contenere direttive o orientamenti rivolti alla commissione e al consiglio e intesi a promuovere loro iniziative formali, in vista dell’adozione di atti o dello sviluppo di politiche dell’unione. Non può escludersi, inoltre, che in seno al consiglio europeo possono realizzarsi degli accordi tra gli Stati membri, sia pure in maniera implicita ed in forma semplificata. Il consiglio europeo svolge un ruolo di primo piano nell’azione esterna dell’unione e, in particolare, nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune, che ne costituisce parte integrante e che assicura che l’unione disponga di una capacità operativa con mezzi civili e militari. In questo contesto il consiglio europeo adotta anche atti formali, provvisti di effetti giuridici obbligatori. Così l’art. 22, par. 1. TUE, posto tra le disposizioni generali sull’azione esterna dell’unione, dispone: “il consiglio europeo individua gli interessi e obiettivi strategici dell’unione sulla base dei principi e degli obiettivi enunciati dall’articolo 21. Le decisioni del consiglio europeo sugli interessi e gli obiettivi strategici dell’unione riguardano la politica estera e di sicurezza comune e altri settori dell’azione esterna dell’unione”. Con particolare riguardo alla politica estera e di sicurezza comune l’art. 26, paragrafo uno, TUE investe il consiglio europeo del compito di individuare gli interessi strategici dell’unione, di fissare gli obiettivi e definire gli orientamenti generali di tale politica, comprese le questioni aventi implicazioni in materia di difesa, e di adottare le necessarie decisioni. Anche queste determinazioni del consiglio europeo appaiono giuridicamente obbligatorie, almeno nei confronti del consiglio, poiché, ai sensi del paragrafo due della disposizione in esame: “il consiglio elabora la politica estera e di sicurezza comune e prende le decisioni necessarie per la definizione e l’attuazione di tale politica in base agli orientamenti generali e alle linee strategiche definite dal consiglio europeo”. Al consiglio europeo l’art. 42, paragrafo due, TUE assegna il potere di “decidere” in merito alla definizione di una difesa comune dell’unione: la politica di sicurezza e di difesa comune comprende la graduale definizione di una politica di difesa comune dell’unione. Questa condurrà a una difesa comune quando il consiglio europeo, per raggiungere tale maggioranza, ma anche per formare quella minoranza sufficiente a impedire l’adozione dell’atto (c.d. minoranza di blocco). La soluzione del citato art. 3, consiste nel prescrivere una duplice maggioranza, una fondata sulla ponderazione del voto, l’altra sul numero degli Stati votanti, posti sullo stesso piano; a questi due elementi se ne può aggiungere un terzo, basato sulla popolazione europea. La prima maggioranza (quella ponderata) è formata da 260 voti; affinché la deliberazione sia approvata occorre che, in aggiunta a questa, se ne determini una seconda, consistente nella maggioranza degli Stati membri. In conclusione, solo se il voto favorevole della deliberazione esprima, almeno, sia 260 voti, sia i voti di 15 Stati membri, essa è adottata. La norma in esame prevede un ulteriore condizione di adozione della delibera, peraltro solo su richiesta di uno Stato membro. Si tratta della cosiddetta clausola della verifica demografica, In base alla quale ogni Stato membro può chiedere che si verifichi che la suddetta maggioranza qualificata esprima anche la maggioranza del 62% della popolazione totale dell’unione; in altri termini, che le popolazioni degli stati che hanno votato favorevolmente, sommate tra di loro, rappresentino appunto tale 62%. Oltre alla maggioranza qualificata vigono, in taluni settori, la maggioranza semplice e l’unanimità. La prima, per esempio, è prevista in merito alle questioni procedurali e per l’adozione del regolamento interno del consiglio, per la definizione, previa consultazione della commissione, ecc. La votazione all’unanimità, come si è visto, nel passato si era generalizzata, ma il suo ambito di applicazione è stato ridotto in occasione di ogni modifica dei trattati. Permangono, tuttavia, molteplici disposizioni che prescrivono tuttora l’unanimità. Una materia nella quale l’unanimità del consiglio è applicata in maniera particolarmente ampia, così da costituire la regola generale, è la politica estera e di sicurezza comune, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune. Tale regola conferma quanto sensibile resti per gli Stati membri la materia della politica estera e di sicurezza comune e come ciò comporti il mantenimento di un metodo decisionale di carattere sostanzialmente intergovernativo. Oltre ai sistemi di voto risultanti dall’art. 16 e dall’art. 238 TFUE specifiche disposizioni dei trattati prevedono, talvolta, maggioranze diverse. Per esempio, l’art. 126, paragrafo 13, TFUE, per talune decisioni nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi, stabilisce che il consiglio deliberi a maggioranza qualificata, escludendo il voto dello Stato nel quale esiste il disavanzo. Le funzioni del Consiglio. Le funzioni del consiglio sono indicate dall’art. 16, paragrafo uno, TUE: “il consiglio esercita, congiuntamente al parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati”. Tale norma esprime in modo sintetico i compiti e i poteri del consiglio e non rende adeguatamente quella posizione centrale e decisiva che esso, come risulta dalle specifiche disposizioni dei trattati, detiene nell’Unione Europea. La prima parte della disposizione in esame appare speculare rispetto alle funzioni assegnate al parlamento europeo dall’art. 14, paragrafo uno, TUE. Emerge, così, un ruolo che tende a porsi come paritario tra il consiglio e il parlamento e che ne disegna una posizione condivisa di autorità legislativa e di bilancio. Per il resto l’art. 16, paragrafo uno, TUE, fa riferimento alle funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento. L’espressione è alquanto generica e può specificarsi solo in rapporto alle singole disposizioni dei trattati. Sul piano generale può dirsi che, nell’esercizio di tali funzioni, il consiglio non emana solo atti legislativi, ma atti di indirizzo, di assistenza, di consulenza, in definitiva, atti giuridicamente non vincolanti. E invero l’art. 292 TFUE dichiara, in termini generali, che il consiglio adotta raccomandazioni. Con riguardo a settori specifici gli atti del consiglio, peraltro, possono acquistare una maggiore efficacia giuridica. Poteri più specifici e più incisivi risultano dalle disposizioni concernenti la politica economica, come l’adozione di una raccomandazione contenente gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’unione, un compito di sorveglianza, di assistenza finanziaria, poteri sanzionatori, poteri normativi. Il consiglio detiene un potere decisionale nella politica estera e di sicurezza comune, anche se non si tratta di un potere legislativo perché, in tale materia, è radicalmente esclusa l’adozione di atti legislativi. Spetta al consiglio, inoltre, su proposta dell’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno Stato membro, adottare le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all’avvio di una missione operativa avente anche implicazioni militari. Nei rapporti con la commissione merita di essere ricordato che, al pari del consiglio europeo, può chiedere alla commissione di procedere a tutti gli studi che esso ritiene opportuni ai fini del raggiungimento degli obiettivi comuni e di sottoporgli tutte le proposte del caso. Se la commissione non ritenga di presentare una proposta deve quantomeno comunicare al consiglio le proprie motivazioni. Il consiglio, inoltre, interviene con varie modalità nella nomina di altre istituzioni o organi, come la stessa commissione, il comitato esecutivo della Banca centrale europea, la corte dei conti, il comitato economico e sociale, il comitato delle regioni. Esso fissa anche gli stipendi, le indennità e le pensioni di coloro che rivestono le cariche principali nelle istituzioni europee. Quando siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’unione, di regola tali atti conferiscono alla commissione la relativa competenza. Tuttavia lo stesso art. 291, paragrafo due, prevede una sia pur eccezionale competenza di esecuzione del consiglio: gli atti giuridicamente vincolanti dell’unione conferiscono competenze di esecuzione, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli articoli 24 e 26 del trattato sull’Unione Europea, al consiglio. La possibilità che il consiglio riceva un potere di esecuzione riguarda non solo gli atti legislativi, ma qualsiasi atto obbligatorio dell’unione. Dalla formulazione della norma in esame si ricava che l’attribuzione di una competenza di esecuzione al consiglio è subordinata non solo alla necessità di condizioni uniformi di attuazione di un atto, ma anche all’esistenza di ragioni specifiche che inducono a preferire l’intervento del consiglio il luogo della generale competenza della commissione. La commissione. L’ultima istituzione politica da considerare è la commissione, organo tipicamente sopranazionale tenuto ad operare nell’esclusivo interesse dell’unione, in posizione di piena indipendenza rispetto sia agli Stati membri che a qualsiasi ente o potere. Essa, che rappresenta, dunque, l’interesse generale e unitario dell’unione, è formata da individui indipendenti, i quali si caratterizzano anche per la loro competenza. Il numero dei commissari era fissato, originariamente, in nove, in maniera tale da consentire ai paesi membri più importanti di avere due commissari di propria cittadinanza, mentre gli altri ne avevano una testa. Successivamente a causa di continui allargamenti della commissione stessa, il numero dei commissari non era più definito, ma l’art. 213, paragrafo uno, del trattato sulla comunità europea stabiliva che la commissione comprendesse un cittadino di ciascuno Stato membro. Tale composizione sarebbe cambiata dal 1 novembre 2014 (il trattato di Lisbona prevedeva una riduzione della composizione della Commissione), con una sostanziale riduzione dei suoi membri. L’art. 17, paragrafo cinque, TUE dispone: “a decorrere dal 1 novembre 2014, la commissione composta da un numero di membri, compreso il presidente e l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, corrispondente ai due terzi del numero degli Stati membri, a meno che il consiglio europeo, deliberando all’unanimità, non decida di modificare tale numero. I membri della commissione sono scelti tra i cittadini degli Stati membri in base ad un sistema di rotazione assolutamente paritaria tra gli Stati membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri”. Pertanto il numero dei componenti della commissione sarebbe sceso a 19, due terzi degli attuali 28 Stati membri. In realtà però la riduzione del numero dei commissari desta delle preoccupazioni per gli Stati membri emarginati dalla Commissione, per questo il Consiglio europeo ha convenuto affinché la commissione continuasse a comprendere un cittadino di ciascuno Stato membro, quindi la novità introdotta dal Trattato di Lisbona sembra destinata a scomparire con l’entrata in vigore dello stesso Trattato. Indipendenza e competenza sono gli elementi che caratterizzano i membri della commissione e quest’ultima nel suo insieme. A tali requisiti è stato ora aggiunto l’impegno europeo. L’art. 17, paragrafo tre, secondo comma, TUE, dichiara infatti: “i membri della commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”. Se la competenza e l’impegno europeo sono oggetto di una valutazione inevitabilmente discrezionale da parte di soggetti che, a vario titolo, intervengono nella loro nomina, l’indipendenza dei commissari è regolata scrupolosamente dallo stesso art. 17 TUE, nonché dall’art. 245 TFUE, ed è garantita da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione. Dichiara infatti l’art. 17, paragrafo tre, TUE: “la commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. Fatto salvo l’art. 18, paragrafo due (relativo all’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza), i membri della commissione non sollecitano ne accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo. Essi si astengono da ogni atto incompatibile con le loro funzioni o con l’esecuzione dei loro compiti”. L’art. 245 TFUE aggiunge: “i membri della commissione si astengono da ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni. Gli Stati membri rispettano la loro indipendenza e non cercano di influenzarli nell’adempimento dei loro compiti”. Come si vede, l’indipendenza si concretizza in vari obblighi dei membri della commissione. Essi, anzitutto, non possono ricevere né tantomeno richiedere istruzioni da alcun governo, né da alcun organo o ente pubblico o privato, quale partito politico, associazione, gruppo di interesse economico. Un ulteriore dovere nel quale si articola l’indipendenza dei commissari consiste nell’astensione da ogni atto incompatibile con il proprio carattere indipendente e nel divieto di esercitare qualsiasi altra attività professionale, anche se non remunerata. Va notato che gli obblighi dei membri della commissione possono sopravvivere anche alla cessazione delle proprie funzioni; ciò in particolare, per i doveri di onestà e delicatezza nell’assunzione di determinate funzioni o vantaggi. Gli obblighi dei commissari sono passibili di un controllo giudiziario e di sanzioni in caso di violazioni. Come dichiara lo stesso art. 245, secondo comma, TFUE, sia il consiglio che la commissione possono chiedere alla corte di giustizia, qualora un commissario violi i propri obblighi, di pronunciare le dimissioni d’ufficio o, se il commissario abbia cessato le sue funzioni, la decadenza del diritto a pensione o da altri vantaggi sostitutivi. Sentenza dell’11 luglio 2006 (commissione c. Cresson): i membri della commissione devono far prevalere in ogni momento l’interesse generale della comunità non solo sugli interessi nazionali, ma anche sugli interessi personali. È necessario comunque che sia stata commessa una violazione di una certa gravità. La nomina, la cessazione e l’organizzazione della Commissione. La disciplina della nomina della commissione ha conosciuto una lunga e significativa evoluzione, sfociata nelle ultime modifiche del trattato di Lisbona del 2007. Originariamente i suoi membri erano nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri, quindi all’unanimità e al di fuori del quadro istituzionale europeo. Le successive revisioni hanno eliminato l’unanimità, hanno assegnato un potere decisionale al parlamento europeo e un ruolo di partecipazione al presidente della commissione. L’art. 17, paragrafo tre, TUE, dichiara anzitutto che il mandato della commissione è di cinque anni. Il paragrafo sette stabilisce il procedimento di nomina: il consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della commissione. Tale candidato è eletto dal parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal parlamento europeo secondo la stessa procedura. Il consiglio, di comune accordo con il presidente eletto, adotta l’elenco delle altre personalità che propone di nominare membri della commissione, in base alle proposte presentate dagli stati membri. Il presidente, l’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del parlamento europeo. In seguito a tale approvazione la commissione è nominata dal consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata. Una prima fase riguarda, dunque, la nomina del presidente. Un’innovazione apportata dal trattato di Lisbona è rappresentata dal riferimento ai risultati elettorali del parlamento europeo, con il quale si apre la nomina in esame. Tale riferimento induce a prefigurare il candidato presidente della commissione come politicamente coerente con la maggioranza parlamentare, subordinando sempre di più l’individuazione del presidente (e, indirettamente dell’intera commissione) all’orientamento politico del parlamento. Come può constatarsi, oggigiorno il parlamento europeo ha il potere di condizionare l’investitura della commissione. Quel rapporto di fiducia politica tra il parlamento e la commissione, che in passato riguardava la fase della censura e della conseguente caduta della commissione, si estende alla nomina e diventa, così, un rapporto fiduciario di carattere permanente. La cessazione anticipata dalla carica di commissario può avvenire, oltre che per decesso, per dimissioni volontarie o d’ufficio. Le dimissioni d’ufficio sono pronunciate dalla corte qualora il commissario abbia commesso una colpa grave. L’art. 246, sesto comma, TFUE, introdotto dal trattato di Lisbona, regola l’ipotesi delle dimissioni volontarie dell’intera commissione. In questo caso i membri della commissione restano in carica, curando gli affari di ordinaria proposte di atti legislativi (e, più in generale di atti dell’Unione), senza le quali non è possibile avviare i procedimenti legislativi, anche se le proposte possono essere sollecitate dal parlamento europeo, dal consiglio o da cittadini dell’unione. Rispetto a questo potere di iniziativa, che fa della commissione il “motore” dell’attività dell’unione, estremamente rari sono i casi nei quali trattati consentono l’adozione di atti senza la sua proposta. Come di consueto, a parte si colloca la politica estera e di sicurezza comune, nella quale il ruolo della commissione è alquanto modesto e, in particolare, viene attenuato il suo potere di iniziativa. Il potere di iniziativa, comprensivo del potere di sottoporre proposte al consiglio, è conferito a ciascuno Stato membro e, autonomamente, all’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, salva la possibilità di un appoggio della commissione, che non costituisce, però, una condizione necessaria per le iniziative dell’alto rappresentante Prescindendo dalla politica estera e di sicurezza comune, ci sembra che rientrino nel potere di proposta della commissione anche i numerosi atti atipici, non vincolanti, che essa è solita emettere nella prassi, come comunicazioni, dichiarazioni, programmi. Sebbene, a differenza dell’abrogato art. 211 del trattato sulla comunità europea, l’art. 17 TUE non menzioni un potere di decisione, talune disposizioni dei trattati attribuiscono alla commissione tale potere. Talvolta esso è contemplato nel quadro dei poteri di vigilanza della commissione; in questa ipotesi la decisione diventa uno strumento di controllo sulla condotta degli Stati membri. Ma non mancano disposizioni che conferiscono alla commissione un vero e proprio potere normativo. Sia pure in via eccezionale, quindi, la commissione, oltre a un potere normativo di carattere delegato e a un potere esecutivo, può avere un potere normativo primario, derivante cioè, direttamente dai trattati. La commissione dispone anche di un potere di raccomandazione di carattere generale, esercitabile, a nostro parere, ogni qual volta lo ritenga necessario, con il solo limite che riguardi materie rientranti nell’ambito dei trattati. Tali atti possono rivolgersi ad altre istituzioni o organi, come a Stati membri e a soggetti privati o pubblici e possono avere destinatari generali o particolari. In ogni caso, le raccomandazioni non sono obbligatorie, anche se possono produrre taluni effetti giuridici. In qualche caso è previsto anche che la commissione, quando non abbia un potere esclusivo di proposta, emani pareri. Un particolare valore giuridico ha il potere motivato che la commissione emette nel quadro della procedura di infrazione nei confronti di uno Stato membro che essa reputi abbia violato propri obblighi derivanti dal diritto dell’unione. Resta da ricordare l’art. 249, paragrafo due, TFUE: “la commissione pubblica ogni anno, almeno un mese prima dell’apertura della sessione del parlamento europeo, una relazione generale sull’attività dell’unione”. L’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. L’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza costituisce un organo in qualche misura “ibrido”, perché oltre alla posizione di presidente del consiglio “Affari esteri”, riveste lo status di componente della commissione, della quale è uno dei vicepresidenti. Questa duplice condizione dell’alto rappresentante si riflette, tra l’altro, nella duplicità di rapporti che si determinano, da un lato, con le istituzioni governative dell’unione (consiglio europeo e consiglio), dall’altro, con l’istituzione “sopranazionale” (la commissione), formata da individui indipendenti da qualsiasi Stato. Per quanto concerne il primo tipo di rapporti va sottolineato che il consiglio europeo non solo decide sulla sua nomina, ma ha anche il potere di determinare, con la medesima procedura, la fine del suo mandato. Egli, inoltre, è qualificato come mandatario del consiglio, soggetto, quindi alle sue determinazioni. L’art. 18, paragrafo due, TUE; ne stabilisce le funzioni: “l’alto rappresentante guida la politica estera e di sicurezza comune dell’unione, contribuisce con le sue proposte all’elaborazione di detta politica e la attua in qualità di mandatario del consiglio. Egli agisce allo stesso modo per quanto riguarda la politica di sicurezza e di difesa comune”. L’alto rappresentante fa parte anche della commissione e ne è vicepresidente. Tale partecipazione spiega, anzitutto, perché la sua nomina debba essere deliberata dal consiglio europeo d’accordo con il presidente della commissione. Deve aggiungersi che la sua nomina è subordinata all’approvazione del parlamento europeo, il quale, nel contesto del rapporto di fiducia che intercorre con la commissione, ha dunque il potere di impedire la nomina di un candidato ad alto rappresentante. Egli, inoltre, resta soggetto alla eventualità di una mozione di censura da parte del parlamento europeo che determina le dimissioni collettive dei membri della commissione. Sempre con riguardo alla posizione dell’alto rappresentante quale membro e vicepresidente della commissione, va notato che le sue funzioni sono delineate dall’art. 18, paragrafo quattro, TUE nei termini seguenti: “vigila sulla coerenza dell’azione esterna dell’unione. In seno alla commissione, è incaricato delle responsabilità che incombono a tale istituzione nel settore delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna dell’unione”. A differenza degli altri membri della commissione, l’alto rappresentante è sottratto al divieto generale, secondo il quale tali membri non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo, nella misura in cui opera quale mandatario del consiglio e attua la politica estera e di sicurezza comune. Sul piano generale l’art. 21, paragrafo tre, TUE dichiara che l’alto rappresentante assiste il consiglio e la commissione nel loro compito di garantire la coerenza tra vari settori dell’azione esterna e tra questi e le altre politiche dell’unione. Molto più dettagliate e specifiche sono le disposizioni in materia di politica estera e di sicurezza comune, compreso il settore della politica di sicurezza e di difesa comune. Può dirsi, in maniera sintetica, che l’alto rappresentante svolge una funzione di proposta nei confronti del consiglio, di attuazione delle decisioni dello stesso consiglio, così come del consiglio europeo, di rappresentanza dell’unione nei rapporti con i terzi, di consultazione. Di particolare importanza appaiono le funzioni dell’alto rappresentante, anche sul piano europeo operativo, nell’attuazione delle missioni, implicanti l’impiego di mezzi civili e militari, previste dall’art. 43 TUE nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune. Tali missioni sono decise dal consiglio e spetta all’alto rappresentante, sotto l’autorità del consiglio e in stretto contatto con il comitato politico e di sicurezza di cui all’art. 38 TUE, provvedere a coordinare gli aspetti civili e militari delle stesse missioni. Una significativa novità introdotta dal trattato di Lisbona consiste nell’istituzione di un servizio europeo per l’azione esterna, configurabile come un servizio europeo di diplomazia posto sotto la direzione dell’alto rappresentante. L’art. 27, paragrafo tre, TUE, dichiara, infatti: “nella esecuzione delle sue funzioni, l’altro rappresentante sia avvale di un servizio europeo per l’azione esterna”. Il servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) è configurato come un organo dell’unione che opera in autonomia funzionale, sotto la responsabilità dell’alto rappresentante, e provvisto della capacità giuridica necessaria all’adempimento dei suoi compiti; ha sede a Bruxelles, ma si articola in un’amministrazione centrale e nelle delegazioni dell’unione nei paesi terzi e presso le organizzazioni internazionali. La Corte di Giustizia dell’Unione europea. In base all’art. 19 TUE la corte di giustizia dell’Unione Europea comprende la corte di giustizia, il tribunale e i tribunali specializzati. Essa, in sostanza, si identifica con l’intero ordinamento giudiziario dell’unione, al quale compete di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati. La corte di giustizia era, originariamente, l’unica istituzione giudiziaria dell’Unione Europea, fornita di una pluralità di competenze e deputata ad assicurare il rispetto del diritto dell’unione. Successivamente, con una decisione del consiglio del 24 ottobre 1988, fu istituito un secondo organo giudiziario, il tribunale di primo grado, con alcune limitate competenze, che peraltro sono progressivamente aumentate. Esso è stato formalmente inserito nei trattati con il trattato di Maastricht del 1992. Con il trattato di Lisbona ha assunto la denominazione di tribunale. Tuttora le competenze del tribunale sono più limitate rispetto a quelle della corte di giustizia. La creazione del tribunale rispondeva principalmente a due esigenze: anzitutto, decongestionare la corte di giustizia rispetto a una massa smisurata di ricorsi che rischiava di minarne l’efficienza e la funzionalità; la seconda ragione della istituzione del tribunale risiede nella opportunità di garantire un doppio grado di giurisdizione, con il diritto di impugnare le sentenze del tribunale dinanzi alla corte di giustizia. Il doppio grado di giurisdizione non è, tuttavia, di generale applicazione, poiché vi sono tuttora importanti competenze riservate alla sola corte, nell’ambito delle quali, dunque, essa è giudice unico. Riguardo la prima esigenza la creazione del tribunale si è rilevata misura insufficiente. I ricorsi, infatti, sono progressivamente aumentati, anzitutto per il successo della corte, cioè per la conoscenza e la fiducia che hanno non solo gli Stati membri e le istituzioni europee, ma sempre di più gli operatori giuridici nazionali (giudici e avvocati). Al fine di alleggerire il peso del contenzioso della corte non solo sono state, di volta in volta, aumentate le competenze del tribunale, ma il trattato di Nizza del 2001 ha previsto, con una clausola abilitante, la possibilità di affiancare al tribunale dei tribunali specializzati. Sulla base di tale disposizione del trattato di Nizza è stato creato un tribunale specializzato, ovvero il tribunale della funzione pubblica dell’unione europea, competente a pronunciarsi in primo grado sulle controversie tra l’unione e i suoi agenti. Contro le sue decisioni può essere proposta impugnazione, solo per motivi di diritto, al tribunale, che, nella materia in esame, diventa così giudice di secondo grado. Le decisioni del tribunale, emanate a seguito di impugnazione di una decisione del tribunale della funzione pubblica, possono essere eccezionalmente oggetto di riesame da parte della corte di giustizia, ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto dell’unione siano compromesse. La disciplina delle istituzioni giudiziarie si trova non solo nei trattati, ma anche nello statuto della corte di giustizia e nei regolamenti di procedura delle diverse giurisdizioni dell’Unione Europea. Lo statuto è stabilito con un protocollo separato, il quale, ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Quanto ai regolamenti di procedura, essi sono stabiliti, rispettivamente, da ciascun tribunale, ma sono soggetti all’approvazione del consiglio, che delibera a maggioranza qualificata. La corte di giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro. I giudici sono nominati dagli Stati membri di comune accordo per sei anni e il loro mandato è rinnovabile; i requisiti richiesti per la nomina sono indicati dall’art. 253, primo comma, TFUE, in base al quale i giudici devono essere scelti: tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali. La nomina dei giudici è preceduta da un parere sulla loro adeguatezza fornito da un comitato di sette personalità scelte tra ex membri della corte e del tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, uno dei quali proposti dal parlamento europeo. I giudici designano, tra di loro, il presidente per tre anni; la corte nomina il cancelliere, fissandone lo statuto. La corte di giustizia era assistita da otto avvocati generali, il cui numero poteva essere aumentato dal consiglio, all’unanimità, su richiesta della corte. Successivamente si è levato tale numero a nove, a decorrere dal 1 luglio 2013, e a 11, dal 7 ottobre 2015. L’art. 252, secondo comma, TFUE, descrive il ruolo dell’avvocato generale: “l’avvocato generale ha l’ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo statuto della corte di giustizia dell’Unione Europea, richiedono il suo intervento”. L’avvocato generale è quindi, una sorta di amicus curiae, con il compito non già di rappresentare l’unione, ma, in maniera imparziale, l’interesse al rispetto del diritto. In passato l’avvocato generale presentava sempre le sue conclusioni. Oggi anche per snellire il procedimento, lo statuto della corte può stabilire in quali casi egli deve presentarle e dispone che, ove ritenga che la causa non sollevi nuove questioni, la corte può omettere le conclusioni dell’Avvocato generale. I giudici godono dell’immunità dalla giurisdizione, la quale si estende oltre la cessazione delle funzioni per quanto concerne gli atti compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole e i loro scritti; l’immunità può essere tolta solo dalla corte di giustizia, riunita in seduta plenaria. La corte ha sede a Lussemburgo. Essa si riunisce in sezioni, composte da tre o cinque giudici, o in grande sezione, costituita da 15 giudici e presieduta dal presidente della corte; eccezionalmente può riunirsi in seduta plenaria, cioè nella composizione di tutti i suoi giudici. Il tribunale, anch’esso avente sede a Lussemburgo, è formato da almeno un giudice per Stato membro con un meccanismo di nomina eguale ai giudici della corte. Il loro numero era fissato in 28 dall’art. 48 dello statuto della corte. In considerazione dell’elevato carico di lavoro del tribunale, si è modificato il suddetto articolo 48 stabilendo che esso sia composto da due giudici per Stato membro a decorrere dal 1 settembre 2019. I requisiti per la loro nomina sono analoghi a quelli prescritti per i giudici della corte. La corte dei conti. L’ultima istituzione da considerare è la corte dei conti. Essa fu istituita con il trattato di Bruxelles del 1975 per rispondere all’esigenza di assicurare un controllo finanziario esterno alle singole istituzioni, esigenza tanto più avvertita in quanto le comunità venivano a dotarsi di un sistema di finanziamento autonomo, in luogo dei contributi da parte degli Stati membri. L’art. 317, TFUE, infine, enuncia il principio della buona gestione finanziaria al quale devono attenersi sia la commissione, che cura l’esecuzione del bilancio, sia gli Stati membri, nel cooperare con la commissione. Il principio pone le cosiddette tre “e”, cioè i principi di economia, efficienza ed efficacia. Secondo il principio dell’economia, le risorse impiegate dall’istituzione nella realizzazione delle proprie attività sono messe a disposizione in tempo utile, nella quantità e qualità appropriate e al prezzo migliore. Secondo il principio dell’efficienza, deve essere ricercato il miglior rapporto tra i mezzi impiegati e i risultati conseguiti. Secondo il principio dell’efficacia, gli obiettivi specifici fissati devono essere raggiunti e devono essere conseguiti i risultati attesi. Vale la pena di sottolineare che ogni spesa comunitaria ha bisogno di un duplice fondamento giuridico, cioè la sua iscrizione a bilancio e, di norma, la previa adozione di un atto di diritto derivato che autorizzi la spesa in questione. La necessità di un atto normativo quale base per effettuare la spesa è stata affermata dalla corte di giustizia, fatte salve le azioni non significative. L’art. 310, paragrafo tre, TFUE, recependo tale indirizzo, prescrive espressamente che l’esecuzione di una spesa sia preceduta dall’adozione di un corrispondente atto obbligatorio. L’approvazione e l’esecuzione del bilancio. L’approvazione del bilancio è disciplinata dall’art. 314, TFUE, il quale, a seguito di una serie di modifiche rispetto al testo originario dei trattati, consacra il parlamento europeo e il consiglio come i due rami dell’autorità di bilancio. Il trattato di Lisbona ha modificato sensibilmente la disciplina del bilancio, la quale, in precedenza, ruotava intorno alla distinzione tra spese obbligatorie e spese non obbligatorie: per le prime l’ultima parola spettava al consiglio, per le seconde al parlamento europeo. Il trattato di Lisbona ha eliminato la distinzione, ponendo così sullo stesso piano le due autorità di bilancio, e ha semplificato la disciplina relativa all’approvazione del bilancio. A seguito delle riforme effettuate dal trattato di Lisbona l’art. 312 TFUE prescrive formalmente l’adozione del quadro finanziario pluriennale: “il quadro finanziario pluriennale mira ad assicurare l’ordinato andamento delle spese dell’unione entro i limiti delle sue risorse proprie. È stabilito per un periodo di almeno cinque anni. Il bilancio annuale dell’unione è stabilito nel rispetto del quadro finanziario pluriennale (diventa la sede realmente decisiva delle scelte politiche finanziarie). L’approvazione del bilancio annuale, che avviene ad opera del parlamento europeo e del consiglio secondo una procedura legislativa speciale, si svolge secondo il seguente procedimento. - entro il 1° luglio di ogni anno ciascuna istituzione elabora uno stato di previsione delle spese per il successivo anno finanziario - la Commissione raggruppa tali previsioni in un progetto di bilancio, comprendente una previsione delle entrate e delle spese nel quale può fare anche previsioni divergenti rispetto a quelle elaborate dalle varie istituzioni - tale progetto è proposto entro il 1° settembre al Parlamento e al Consiglio da parte della Commissione che può modificarlo fino all’eventuale convocazione di un comitato di conciliazione - il primo esame è fatto dal Consiglio che entro il 1° ottobre comunica al Parlamento la sua posizione motivandola - entro i successivi 42gg il Parlamento si manifesta con l’adozione di emendamenti rispetto al progetto inviatogli - in questo caso in progetto inviatogli è trasmesso al Parlamento altrimenti si apre una fase davanti al comitato di conciliazione (formato da rappresentanti del Consiglio e del Parlamento con la partecipazione della Commissione) che prende ogni iniziativa necessaria al riavvicinamento delle posizioni di Parlamento e Consiglio - il comitato entro 21gg deve giungere ad un accordo su un progetto comune altrimenti il progetto va considerato respinto e la Commissione deve sottoporre un nuovo progetto di bilancio - se in seno al Comitato si raggiunge un accordo Parlamento e Consiglio entro 14gg approvano il progetto comune - nel caso in cui il Parlamento approvi il progetto e ma il Consiglio lo respinga, c’è uno sbilanciamento a favore del Parlamento, che entro 14gg dal rigetto del Consiglio, deliberando a maggioranza dei 3/5 dei voti espressi può confermare gli emendamenti e approvare definitivamente il bilancio cioè nel testo della posizione del Consiglio come emendato dal Parlamento oppure nel testo risultante dal Comitato di conciliazione come emendato dal Parlamento - Se invece il bilancio non viene adottato entro il 1°gennaio, le spese vengono erogate secondo il regime dei dodicesimi, in base al quale le spese effettuate mensilmente non possono superare un dodicesimo dei crediti aperti nel bilancio dell’esercizio precedente, né un dodicesimo di quelli previsti nel progetto di bilancio in preparazione - una volta che il bilancio sia stato adottato l’erogazione delle spese spetta alla Commissione coadiuvata dagli Stati membri ai quali è delegata in buona parte l’esecuzione del bilancio - la Commissione esegue il bilancio sotto il controllo finanziario della Corte dei conti, questa poi invia a Parlamento e Consiglio una dichiarazione di affidabilità dei conti e della legittimità e regolarità delle relative operazioni - la Corte dei conti redige anche una relazione annuale accompagnata dalle risposte delle istituzioni alle osservazioni della Corte - il controllo “politico” sull’attività amministrativa della Commissione spetta invece al Parlamento sulla base delle osservazioni della Corte dei conti e tale delibera è chiamata decisione di scarico che esprime l’approvazione sull’operato della Commissione. L’adozione degli atti dell’Unione. Il secondo procedimento interistituzionale è quello relativo all’adozione degli atti dell’unione. Si deve precisare che i trattati, in specie il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, prevedono una pluralità di procedimenti decisionali, in ciascuno dei quali può variare il ruolo delle istituzioni, in particolare quello del parlamento e del consiglio; possono altresì variare le regole di votazione. Inoltre può essere prescritta la consultazione di organi ausiliari, quali il comitato economico e sociale o il comitato delle regioni. Il ricorso all’uno o all’altro procedimento dipende dalla prescrizione della specifica disposizione sulla base della quale l’atto in questione deve essere adottato. È, quindi, il singolo articolo, il quale attribuisce alle istituzioni la competenza ad adottare l’atto in questione, che, di volta in volta, stabilisce che per esempio il consiglio deliberi su proposta della commissione e previa consultazione del parlamento europeo, oppure che il consiglio deliberi in codecisione con il parlamento europeo, o che sia consultato il comitato delle regioni è così via. Va sottolineato, inoltre, che la procedura prevista dalle singole disposizioni del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea va obbligatoriamente applicata solo agli atti che contengono gli elementi essenziali della disciplina da emanare in forza delle stesse disposizioni. È ben possibile che tali atti, detti atti di base, prevedano l’adozione di una ulteriore normativa integrativa, o persino modificativa di elementi non essenziali, da parte della commissione, oppure l’emanazione di atti di esecuzione della commissione o, eccezionalmente, del consiglio. Sebbene sussistano, numerose varianti nei procedimenti di adozione degli atti dell’unione, il trattato di Lisbona ha cercato di stabilire delle tipologie generali di tali procedimenti, collegandovi, inoltre, la individuazione di atti legislativi dell’unione. Già nel trattato sull’Unione Europea emergono le istituzioni che possono considerarsi le autorità legislative, cioè il parlamento europeo e il consiglio: l’art. 14, paragrafo uno, dichiara infatti: “il parlamento europeo esercita, congiuntamente al consiglio, la funzione legislativa”. Peraltro l’esercizio della funzione legislativa è subordinato a una proposta formalmente presentata dalla commissione, che quindi partecipa anch’essa a tale funzione legislativa. Il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea stabilisce una procedura legislativa ordinaria. Ai sensi dell’art. 289, paragrafo uno: la procedura legislativa ordinaria consiste nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del parlamento europeo e del consiglio su proposta della commissione. Accanto a questa procedura, comunemente denominata “codecisione” e che oggi può considerarsi di applicazione generale, esistono delle procedure legislative speciali, nelle quali viene meno quella perfetta simmetria di poteri tra parlamento europeo e consiglio che si realizza nella procedura ordinaria di codecisione. Nella maggior parte dei casi in queste procedure speciali, infatti, il consiglio riprende una posizione prioritaria sul parlamento europeo, il quale partecipa all’adozione dell’atto del consiglio con il suo parere o con una approvazione. La procedura legislativa vale a qualificare un atto dell’unione come legislativo. In proposito l’art. 289, paragrafo tre, TFUE, dichiara infatti: gli atti giuridici adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi. A parte le ipotesi, appena ricordate, di atti delegati e di atti di esecuzione, esistono numerosi altri casi nei quali le procedure legislative, ordinaria come speciali, non trovano applicazione. Anzitutto per alcune istituzioni, o in talune materie, è esclusa radicalmente la possibilità di adottare atti legislativi e, quindi, l’applicazione delle procedure legislative. È il caso, riguardo alle istituzioni, del consiglio europeo, per il quale si dispone espressamente che non esercita funzioni legislative. Per quanto concerne le materie basti ricordare la politica estera e di sicurezza comune, nella quale è esclusa l’adozione di atti legislativi. E invero, in tale materia, il potere di decisione è concentrato nel consiglio europeo e nel consiglio, mentre marginale è la posizione della commissione, dato che le proposte sono avanzate dagli Stati membri o dall’altro rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e altrettanto può dirsi per il parlamento europeo, il quale non è neppure consultato in merito all’adozione degli atti dell’unione. Esistono, poi, specifiche disposizioni del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (benché molto rare), che non prevedono alcuna forma di partecipazione del parlamento europeo all’adozione di un atto da parte del consiglio. Ciò accade nell’ambito di materie come l’attuazione del mercato interno o ancora la definizione della tariffa doganale comune. In tali ipotesi è ben possibile che il consiglio chieda comunque il parere del parlamento. Si tratterà di un potere facoltativo, nel senso che il consiglio non solo non è tenuto a conformarvisi, ma neppure a richiederlo. La mancata consultazione del parlamento, pertanto, non influisce in alcun modo sulla legittimità dell’atto. In alcuni casi, inoltre, l’atto, pur corrispondendo ad atti tipici dell’unione, quali definiti dall’art. 288 TFUE, è adottato da istituzioni, e secondo procedure, del tutto particolari. La proposta della Commissione. La procedura legislativa ordinaria di codecisione ha inizio, di regola, con la proposta della commissione. L’art. 17, paragrafo due, TUE, prescrive: “un atto legislativo dell’unione può essere adottato solo su proposta della commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della commissione se i trattati lo prevedono”. Di fatto sono molti rari i casi in cui un atto dell’unione può essere adottato senza una proposta della commissione. A tali ipotesi fa riferimento l’art. 289, paragrafo quattro, TFUE: “nei casi specifici previsti dai trattati, gli atti legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri o del parlamento europeo, su raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta della corte di giustizia o della banca europea per gli investimenti”. Talvolta la proposta di soggetti diversi dalla commissione, peraltro, è prevista in via alternativa rispetto alla proposta della commissione, che resta possibile (per esempio in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia). La commissione è priva del potere di iniziativa nella materia della politica estera e di sicurezza comune, nonché riguardo agli atti, anche obbligatori, adottati dalla Banca centrale europea. Il potere di iniziativa della commissione può essere sollecitato dal parlamento europeo, del consiglio, da 1 milione di cittadini e lo stesso consiglio europeo può indicare alla commissione temi sui quali formulare proposte e criteri e principi ai quali attenersi. Eccezionalmente la proposta della commissione può essere sollecitata da uno Stato membro. La proposta della commissione viene preparata non solo a seguito delle riflessioni della stessa commissione e in base alle competenze tecniche dei commissari e dei propri uffici. La commissione si consulta anche con esperti degli Stati membri e tiene conto delle sollecitazioni, delle segnalazioni, del dialogo con gli ambienti sociali e i gruppi di interesse. Tale dialogo comporta che le proposte della commissione possano tenere conto delle reali esigenze, delle aspettative degli ambienti sociali nei quali gli atti dell’unione sono destinati a produrre i propri effetti; ciò può rafforzare le stesse proposte della commissione, in quanto giustificate sul terreno sociale. Il potere esclusivo di proposta della commissione è rafforzato dalla disposizione dell’art. 293, paragrafo uno, TFUE: ai sensi di questa norma, il consiglio ben può respingere una proposta della commissione, a tal fine essendo sufficiente che non si formi, nello stesso consiglio, la maggioranza richiesta per l’adozione dell’atto. Ma ove il consiglio voglia modificare il testo proposto dalla commissione può farlo solo all’unanimità. Il ruolo determinante della commissione nella fase della proposta è ulteriormente confermato dall’art. 293, paragrafo due, TFUE: “fin quando il consiglio non ha deliberato, la commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all’adozione di un atto dell’unione”. Il potere della commissione di modificare l’originaria proposta può essere esercitato, ovviamente, per tenere conto delle possibilità di consenso delle altre due istituzioni, il parlamento e il consiglio, competenti nel procedimento decisionale; la commissione, cioè, può decidere una modifica per rendere più accettabile la proposta da tali istituzioni. Tuttavia non può escludersi che la commissione usi tale potere per contrapporsi al consiglio, cioè per impedire l’adozione di un emendamento, non gradito alla stessa commissione, sul quale si profili il raggiungimento della unanimità del consiglio. Sentenza Fediol: la commissione può ritirare o modificare la sua proposta, finché il consiglio non si sia pronunciato, qualora in seguito ad una nuova valutazione degli interessi della comunità ritenga superflua l’adozione di provvedimenti. La procedura legislativa ordinaria. La procedura legislativa ordinaria, consistente nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del parlamento europeo e del consiglio su proposta della commissione, è regolata dall’art. 294 TFUE. Tale procedura è comunemente denominata procedura di codecisione. comunità aveva la competenza a stipulare accordi in ogni materia nella quale avesse la competenza a emanare atti normativi al proprio interno. Un presupposto della competenza della comunità a concludere accordi occorrenti per il perseguimento di una politica comune era quindi costituito, nella sentenza in esame, dalla circostanza che la stessa comunità avesse adottato una normativa interna. Veniva così enunciato il suddetto principio del parallelismo delle competenze, in virtù del quale, ogni qual volta la comunità avesse il potere di adottare una normativa al proprio interno, essa era provvista anche del potere di concludere accordi sul piano esterno. Successivamente la corte, ribadendo il parallelismo delle competenze, ha mostrato di non ritenere più necessaria, ai fini della competenza a concludere accordi, la previa emanazione di una normativa interna. Peraltro, come la corte ha precisato, la possibilità di concludere accordi ancor prima di emanare norme interne è ammissibile solo nell’ipotesi “in cui la competenza interna può essere esercitata utilmente soltanto contemporaneamente alla competenza esterna, quando cioè è necessaria la conclusione di un accordo internazionale per realizzare determinati obiettivi del trattato che non possono essere raggiunti mediante l’instaurazione di norme autonome”. Come si è accennato, il trattato Lisbona ha sostanzialmente recepito tale giurisprudenza. L’art. 216, par. 1, TFUE, dichiara infatti: “l’unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i trattati lo prevedano o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’unione, uno degli obiettivi fissati dei trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata”. La competenza esclusiva o concorrente dell’Unione Europea. Alla competenza dell’unione a concludere accordi internazionali fa riferimento anche l’art. 3, par. 2, TFUE, relativo, alle competenze esclusive dell’unione, in contrapposizione alle competenze concorrenti e a quelle di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Esso dichiara: “l’unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”. Tale articolo, non implica che la competenza dell’unione a concludere accordi sia sempre esclusiva, con definitiva perdita di tale competenza degli Stati membri. In realtà spesso le norme del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nel prevedere la possibilità di concludere accordi, dichiarano espressamente che la competenza dell’unione non esclude quella degli Stati membri. È evidente che in questi casi previsti dai trattati la competenza concludere accordi non appartiene in via esclusiva all’unione, ma ha natura concorrente con quella degli Stati membri. Alla luce di tale giurisprudenza e, in particolare, del principio del parallelismo delle competenze, deve ritenersi che il predetto principio operi non solo quale fondamento della competenza dell’unione a concludere accordi, ma anche per stabilire se tale competenza sia esclusiva o meno. In altri termini dove la competenza interna dell’unione sia esclusiva altrettanto sarà esclusiva la competenza a concludere accordi internazionali, salva la possibilità che la stessa unione autorizzi gli Stati membri a concludere accordi. Nelle altre materie di competenza concorrente, il potere dell’unione di concludere accordi internazionali coesiste con quello degli Stati membri. È vero, peraltro che anche nelle materie di competenza concorrente gli Stati membri devono esercitare i propri poteri in modo da non compromettere i fini dell’unione, in omaggio al principio della leale cooperazione. Inoltre i poteri degli Stati membri vengono progressivamente a ridursi mano a mano che l’unione emana norme interne nelle varie materie; gli Stati membri, infatti non possono assumere obblighi internazionali che incidano su tali norme. Pertanto, sebbene gli articoli dei trattati prevedano una competenza a stipulare concorrente dell’unione e degli Stati membri, l’emanazione di disposizioni interne da parte dell’unione trasforma progressivamente tale competenza in esclusiva. La corte ha dichiarato che l’esistenza di una competenza di natura esclusiva deve basarsi su conclusioni derivanti da un’analisi concreta del rapporto esistente tra l’accordo previsto e il diritto comunitario in vigore e da cui risulti che la conclusione di un tale accordo può incidere sulle norme comunitarie. Va ricordata, infine, l’ipotesi di competenza esclusiva dell’Unione quando la conclusione dell’accordo “è prevista da un atto legislativo”. In proposito non ci sembra, peraltro, che ogni qual volta un atto legislativo preveda la competenza dell’unione a concludere un accordo tale competenza debba ritenersi esclusiva; riteniamo che al contrario, la norma vada interpretata nel senso che la competenza dell’unione a concludere accordi internazionali sia esclusiva solo quando l’atto che la prevede la configuri come tale. Gli accordi misti. Il contenuto di un accordo può riguardare materie differenti, l’una, per ipotesi, appartenente alla competenza esclusiva dell’unione, l’altra a quella concorrente; o, addirittura, materie comprese solo parzialmente nella competenza dell’unione, per il resto essendo invece completamente estranee a tale competenza e rientrando, pertanto, in quella a stipulare dei soli stati membri. In casi del genere è da tempo invalsa la prassi di stipulare degli accordi “misti“, i quali sono negoziati e sottoscritti sia dall’unione che dagli Stati membri e richiedono non solo una decisione dell’Unione, ma anche la ratifica degli Stati membri. Questa pratica consente di eliminare in radice il problema di determinare in quale misura l’accordo rientri nella competenza dell’unione o degli Stati membri. La prassi degli accordi misti è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza della corte di giustizia. Questa, a riguardo, ha più volte sottolineato che, qualora risulti che la materia disciplinata da un accordo o da una convenzione rientra in parte nella competenza della comunità e in parte in quella degli Stati membri, occorre garantire una stretta collaborazione tra questi ultimi e le istituzioni comunitarie tanto nel processo di negoziazione e di stipulazione quanto nell’adempimento degli impegni assunti. Di fatto la maggior parte degli accordi multilaterali dell’unione è costituita da accordi misti; si pensi agli accordi di associazione, a molti accordi sulle materie prime, agli accordi con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. L’unione è entrata a far parte, accanto agli Stati membri, anche di organizzazioni internazionali, quali la FAO e la OMC. Va rilevato, infine, che, sebbene la materia oggetto dell’accordo rientri nella competenza, persino esclusiva, del unione, la partecipazione di quest’ultima può essere preclusa dal fatto che l’accordo sia aperto solo a Stati, non anche ad organizzazioni. Ciò accade, per esempio, per accordi adottati nell’ambito di organizzazioni internazionali, quale l’OIL (organizzazione internazionale del lavoro). In questi casi è necessario che un accordo sia ratificato solo dagli Stati membri, data l’impossibilità giuridica che vi partecipi l’unione. La corte ha affermato che in tali ipotesi la competenza a stipulare, appartenente all’unione, sia esercitata dagli stati membri nell’interesse dell’unione. Nella prassi è frequente che il consiglio, con una propria decisione, autorizzi gli Stati membri a firmare o a ratificare, nell’interesse dell’unione, convenzioni rientranti nella competenza della stessa, ma alle quali non può partecipare, perché aperti solo a Stati. In questi casi, peraltro, gli effetti giuridici dell’accordo restano formalmente a carico degli Stati membri, non dell’unione. La procedura di stipulazione degli accordi dell’Unione europea e i loro effetti giuridici. Per quanto riguarda la conclusione degli accordi internazionali dell’unione europea l’art. 218 TFUE prevede il procedimento generale, mentre varianti sono contemplate riguardo a specifiche categorie di accordi, come quelli commerciali o quelli in materia di scambi e di regime monetario o valutario; regole specifiche, poste peraltro nello stesso articolo 218, riguardano anche la conclusione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza comune. Il procedimento generale inizia con una raccomandazione della commissione, o dell’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, se l’accordo previsto riguarda esclusivamente o principalmente tale materia, rivolta al consiglio affinché autorizzi l’avvio di negoziati. Il consiglio, che detiene i principali poteri nella stipulazione degli accordi, in quanto autorizza l’avvio di negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi, se accoglie la raccomandazione, adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato. Il negoziatore peraltro, agisce sotto il controllo dello stesso consiglio, il quale può impartirgli le direttive. Originariamente, in questa fase non era prevista alcuna partecipazione del parlamento europeo. Ora l’art. 218 paragrafo 10, TFUE, dispone che esso è immediatamente e pienamente informato in tutte le fasi della procedura di stipulazione. La decisione di concludere l’accordo spetta al consiglio nel quale, quindi, si concentra la competenza a stipulare in nome dell’unione. Peraltro sia la firma che la decisione di concludere l’accordo sono adottati su proposta del negoziatore. La conclusione può avvenire in forma semplificata, mediante la semplice firma da parte della persona delegata dal consiglio, o in forma solenne, con una decisione o un regolamento del consiglio. Per quanto riguarda il sistema di votazione del consiglio, questo delibera di regola con la maggioranza qualificata; delibera invece all’unanimità quando l’accordo riguarda un settore per il quale è richiesta l’unanimità per l’emanazione di atti sul piano interno dell’unione, ad esempio per gli accordi di associazione. Nel procedimento di conclusione degli accordi internazionali il ruolo del parlamento si esprime, a seconda dei casi, con la sua preventiva approvazione o consultazione. Esso resta invece sostanzialmente estraneo al procedimento quando l’accordo riguarda esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune. Per quanto concerne la categoria degli accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l’unione, la corte di giustizia, nella sentenza dell’8 luglio 1999, ha apportato qualche precisazione alla loro definizione. La corte, affermato che, per accertare l’esistenza di tali ripercussioni finanziarie considerevoli, è rilevante il carattere pluriennale delle spese che derivano dall’accordo: infatti, spese annue relativamente modeste, se cumulate su più anni, possono rappresentare un impegno finanziario rilevante. Negli altri casi l’art. 218, paragrafo sei, stabilisce che la decisione del consiglio di concludere l’accordo sia subordinata alla consultazione obbligatoria del parlamento europeo. Peraltro quest’ultimo deve formulare il suo parere entro il termine fissato dal consiglio in funzione dell’urgenza, trascorso il quale lo stesso consiglio può deliberare anche in assenza del parere. Come si è accennato, quando l’accordo riguarda esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune, non è prescritta ne l’approvazione, né la consultazione del parlamento europeo. L’articolo 218 prevede che il consiglio possa attribuire una sia pur limitata competenza a stipulare al negoziatore. Per quanto riguarda l’eventuale sospensione di un accordo, così come per le posizioni da adottare a nome dell’unione in un organo istituito da un accordo, la decisione spetta al consiglio, su proposta della commissione o dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, mentre non è previsto alcun intervento del parlamento europeo. Una parziale competenza a stipulare accordi a nome dell’unione può riconoscersi anche alla commissione e all’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Si noti, ancora, che gli accordi internazionali dell’unione sono subordinati al rispetto delle disposizioni dei trattati, disposizioni che essi non possono modificare né abrogare. Tale subordinazione risulta con chiarezza dall’articolo 218, paragrafo 11, il quale dichiara: uno Stato membro, il parlamento europeo, il consiglio o la commissione possono domandare il parere della corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati. Il parere richiesto alla corte di giustizia riguarda la compatibilità tra il contenuto dell’accordo e quello dei trattati. Peraltro, il parere può riguardare tanto la compatibilità con le disposizioni dei trattati di un accordo progettato quanto la competenza dell’unione o delle sue istituzioni a concludere tale accordo. L’accordo dell’unione, dunque, da un lato, non può essere stipulato se incompatibile con i trattati, dall’altro, non ha la forza giuridica di modificare i trattati stessi; l’alternativa posta, infatti, è modificare l’accordo previsto, per renderlo conciliabile con i trattati, oppure modificare i trattati. Sebbene la competenza della corte si esprima con un parere, esso vincola le istituzioni. Infatti, ove la corte accerti l’incompatibilità dell’accordo con i trattati, esso può essere concluso solo dopo averlo modificato, o dopo avere modificato gli stessi trattati. Infine, per quanto riguarda gli effetti giuridici degli accordi internazionali dell’unione, l’articolo 216, paragrafo due, TFUE, dispone: “gli accordi conclusi dall’unione vincolano le istituzioni dell’unione e gli Stati membri”. Ciò implica, anzitutto, che tali accordi entrano a far parte dell’ordinamento dell’unione, vincolando le istituzioni a rispettarle nello svolgimento delle proprie funzioni. L’efficacia di tali accordi nell’ordinamento dell’unione non richiede alcun atto da parte dell’unione di adattamento o di esecuzione, ma avviene in maniera immediata e automatica, non appena l’accordo entra in vigore sul piano internazionale. Come la corte ha costantemente affermato, le disposizioni di un tale accordo “formano, dal momento della sua entrata in vigore, parte integrante dell’ordinamento comunitario”. L’obbligatorietà degli accordi conclusi dall’unione anche per gli Stati membri determina una efficacia degli stessi per tali Stati, senza bisogno di alcun atto statale di firma o di ratifica, né di atti statali di adattamento o di esecuzione al proprio interno. Anche se in dottrina si dubita che la conclusione di accordi dell’unione implichi la nascita di obblighi più volte chiarito che il fatto che una disposizione si diriga formalmente agli Stati membri, imponendo loro un obbligo, non esclude affatto che essa attribuisca un corrispondente diritto ai singoli. L’efficacia diretta che, alle condizioni di un contenuto chiaro, preciso e incondizionato, va riconosciuta alle disposizioni dei trattati merita di essere tenuta distinta da un altro concetto giuridico proprio del diritto dell’unione: quello di applicabilità diretta. Quest’ultima esprime il carattere, proprio di numerose disposizioni dei trattati, di essere applicabili all’interno degli Stati membri senza bisogno di alcun atto statale di esecuzione o di adattamento. Anche essa dipende dal contenuto “autosufficiente“ della disposizione, dalla circostanza, cioè, che essa abbia un contenuto chiaro, preciso e incondizionato, ma tende a mettere in luce una qualità della norma, la non necessità, cioè, di un provvedimento statale di attuazione. L’efficacia diretta, invece, pone in evidenza il profilo soggettivo, concernente il diritto dei singoli nascente da una norma siffatta e la sua azionabilità immediata dinanzi ai giudici nazionali. L’efficacia diretta di una disposizione dei trattati opera anzitutto nei rapporti tra i singoli e gli Stati membri, o altri enti pubblici. Si parla, in questo caso, di effetti diretti “verticali“, termine che evoca la posizione di soggezione del singolo rispetto alla pubblica autorità. Le disposizioni dei trattati sono invocabili anche nei rapporti tra privati; sotto questo profilo esse sono produttive di effetti diretti “orizzontali“. Nella giurisprudenza della corte di giustizia tale efficacia diretta orizzontale è stata più volte riconosciuta in alcune sentenze, nelle quali la corte ha affermato la diretta invocabilità del diritto a non subire discriminazioni in materia di libera circolazione dei lavoratori. Il riconoscimento di effetti diretti orizzontali comporta che le disposizioni in questione conferiscono non solo diritti ai singoli, ma anche obblighi. Così, come il lavoratore di uno Stato membro può esercitare, anche in via giudiziaria, il proprio diritto a non subire discriminazioni per ragioni di nazionalità o di sesso, al datore di lavoro le disposizioni in questione attribuiscono il corrispondente obbligo giuridico di non operare alcuna distinzione di nazionalità sin dal momento dell’assunzione del lavoratore, o di garantire il medesimo trattamento ai lavoratori e alle lavoratrici. I principi generali del diritto dell’Unione europea. Frutto della giurisprudenza della corte di giustizia è un’altra categoria di fonti del diritto dell’unione costituita dai principi generali. I principi generali del diritto dell’unione hanno un’origine “pretoria“, poiché, non derivano da specifiche disposizioni, ma da una giurisprudenza sostanzialmente creativa della corte di giustizia. Si tratta, quindi, di principi non scritti, anche alquanto eterogenei nella loro natura, la cui presenza nell’ordinamento dell’unione di solito è affermata dalla corte senza una particolare preoccupazione di giustificarne l’origine o il fondamento e senza neppure motivare il proprio modo di procedere. Essi sono il risultato di varie metodologie da essa utilizzate. Può dirsi, invero, che anzitutto taluni principi siano dichiarati dalla corte sulla base di una riflessione che essa compie in merito ai caratteri propri dell’ordinamento dell’unione. Esemplare è la più volte ricordata sentenza Van Gend en Loos, nella quale la corte, dopo avere analizzato e messo in luce le peculiarità di tale ordinamento quale “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale“, ne deduce il principio dell’effetto diretto. Altro fondamentale principio legato ai caratteri propri dell’ordinamento dell’unione è quello del primato del diritto dell’unione rispetto quello interno degli Stati membri. Sempre muovendosi nella trama dell’ordinamento dell’unione, certi principi sono stati programmati dalla corte partendo da specifiche disposizioni dei trattati, viste, peraltro, quali espressione di principi di più vasta portata. Un esempio può rinvenirsi nel principio di leale cooperazione. Altre volte la corte giunge ad affermare dei principi generali a seguito di un raffronto tra gli ordinamenti degli Stati membri. È questo il caso dei diritti fondamentali, i quali, sono entrati a far parte del diritto dell’unione, grazie alla giurisprudenza, in quanto tutelati dai principi generali di tale diritto. Non è agevole individuare la precisa collocazione e il rango dei principi generali nell’ordinamento dell’Unione Europea, anche perché la corte non sembra si sia preoccupata di tale questione. Ci sembra, peraltro, che essi tendano a porsi sullo stesso piano dei trattati, a livello, quindi, del diritto primario dell’unione. I principi generali si pongono quali fonti non scritte di diritto dell’unione e, come tali, integrano il sistema giuridico dell’unione, completandolo e colmandone eventuali lacune. Essi, pertanto, operano anzitutto nei confronti delle istituzioni europee, le quali sono tenute a rispettarli nello svolgimento della loro attività; di conseguenza un atto dell’unione che sia in contrasto con un principio generale deve considerarsi invalido e suscettibile di annullamento da parte della corte di giustizia. I principi generali operano, anche nei confronti degli Stati membri; nell’ipotesi in cui questi violino i suddetti principi sarà esperibile nei loro riguardi la procedura di infrazione. Si pensi, per esempio, al principio di proporzionalità, per quanto riguarda l’azione dell’unione, trae origine dalla giurisprudenza della corte ed è applicabile anche agli Stati membri, particolarmente per quanto riguarda la possibilità di adottare misure restrittive a tutela di interessi essenziali nei settori della libera circolazione delle merci, persone, servizi e capitali. Ma i principi generali svolgono anche un’importante funzione interpretativa rispetto alle altre norme dell’unione. Un principio che opera essenzialmente ai fini dell’interpretazione di altre norme di diritto dell’unione è il principio dell’effetto utile, secondo il quale ogni norma deve essere interpretata in modo che possa raggiungere nella maniera più efficace il proprio obiettivo. La corte ne ha fatto applicazione in varie direzioni, per esempio a sostegno dello stesso primato del diritto dell’unione sul diritto degli Stati membri. Dalle norme del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che vietano le discriminazioni per determinati motivi o in specifici settori la corte ha desunto il suddetto principio generale di eguaglianza. Si noti che il principio di uguaglianza va al di là delle norme che vietano date discriminazioni: esso, infatti, non solo vieta differenze di trattamento per situazione analoghe, ma impone anche un trattamento differenziato se differenti sono le situazioni da regolare. Un altro principio frequentemente richiamato, che può considerarsi un principio universale di giustizia sostanziale, è quello della certezza del diritto. Esso non è chiaramente definito nella giurisprudenza, ma varie e numerose sono le sue applicazioni. È molto frequente, inoltre, il riferimento a ragioni di certezza del diritto per limitare nel tempo l’efficacia delle sentenze della corte, escludendo tale efficacia per le situazioni esaurite anteriormente all’emanazione della sentenza. Connesso a tale principio è quello del legittimo affidamento, che implica la tutela delle aspettative che gli interessati nutrano ragionevolmente, in quanto suscitate dal comportamento delle stesse istituzioni europee. Numerosi altri principi generali sono individuabili nella giurisprudenza europea, come il principio di democrazia, il rispetto dei diritti quesiti, il principio di buona fede, il principio di solidarietà degli Stati membri, quello della forza maggiore, l’equilibrio istituzionale, e così via. Va poi menzionata l’intera categoria dei diritti fondamentali, oggetto di principi generali di diritto dell’unione, informati alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e corrispondenti alle principali convenzioni internazionali di protezione dei diritti umani. Gli accordi internazionali dell’Unione europea. In una posizione intermedia fra i trattati e gli atti di diritto derivato si collocano gli accordi internazionali conclusi dall’unione, i quali costituiscono parte integrante dell’ordinamento dell’unione sin dal momento della loro entrata in vigore. Anzitutto tali accordi sono subordinati ai trattati. Va ricordato, infatti, che quando l’accordo previsto risulti incompatibile con i trattati può entrare in vigore solo se gli stessi trattati siano sottoposti a revisione, in conformità dell’articolo 48 TUE. Da tale disposizione si deduce chiaramente che gli accordi internazionali dell’unione europea, di per sé, non hanno la forza giuridica necessaria per modificare i trattati: essi possono essere stipulati solo se e quando sia stata assicurata la loro compatibilità con gli stessi trattati mediante la loro formale revisione. È quindi evidente che gli accordi conclusi dall’Unione Europea si trovano ad un livello gerarchicamente inferiore ai trattati. La loro eventuale contrarietà ai suddetti trattati determina la loro illegittimità, dal punto di vista del diritto dell’unione, suscettibile di sindacato giurisdizionale da parte della corte di giustizia, sindacato formalmente rivolto non già all’accordo (che non può essere annullato dalla corte sul piano internazionale), ma all’atto dell’unione con il quale le istituzioni europee abbiano concluso l’accordo. Per quanto riguarda i rapporti tra gli accordi internazionali conclusi dall’Unione Europea e il diritto derivato, cioè gli atti emanati dalla stessa unione, si ritiene che questi ultimi siano subordinati agli accordi in parola. Se, infatti, tali accordi “vincolano le istituzioni dell’unione“, sembra logico dedurre che le istituzioni, per rispettare tale vincolo, debbano astenersi dall’adottare atti che siano in contrasto con i suddetti accordi. Anche la corte di giustizia ha dichiarato che gli accordi dell’unione prevalgono sugli atti emanati dalle sue istituzioni, deducendone un obbligo di interpretare questi ultimi in conformità dei primi. L’ulteriore conseguenza della subordinazione degli atti dell’unione a detti accordi risiede nella invalidità di atti posti in violazione degli accordi dell’unione e nella loro annullabilità da parte della corte di giustizia. Gli accordi stipulati dall’unione, entrando automaticamente a far parte dell’ordinamento dell’Unione Europea, sono suscettibili di produrre effetti diretti per i singoli, cioè di creare diritti che i singoli possono direttamente esercitare, eventualmente anche in via giudiziaria dinanzi ai giudici degli Stati membri. Tale efficacia diretta è riconoscibile, come di consueto, solo se le norme dell’accordo abbiano un contenuto chiaro, incondizionato e preciso, che non richieda, per la sua applicazione, l’emanazione di alcun atto ulteriore. Gli accordi conclusi tra gli Stati membri. Rispetto agli accordi tra Stati membri va osservato, anzitutto, che quelli preesistenti alla loro partecipazione, dapprima alla comunità, poi all’unione europea, se incompatibili con gli obblighi derivanti dai rispettivi trattati istitutivi, sono destinati ad essere abrogati dalle norme di questi ultimi, alla stregua delle regole di diritto internazionale generale concernenti la successione nel tempo fra trattati aventi contenuto incompatibile. Per quanto riguarda gli accordi tra Stati membri conclusi successivamente alla loro partecipazione alla comunità e all’unione anche su di essi è destinato a prevalere il diritto dell’unione. La stipulazione di accordi in contrasto con gli obblighi derivanti da tale diritto, infatti, comporterebbe la violazione del principio di leale cooperazione, in base al quale gli Stati membri devono astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’unione, e potrebbe dare luogo all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti di tali Stati. Peraltro, ove un contrasto non sussista, gli stati membri restano liberi di concludere accordi anche in materie di competenza dell’unione, a condizione che tale competenza non sia esclusiva. In quest’ultimo caso, infatti, gli Stati, in principio, non potrebbero più adottare propri atti, nè singolarmente, né mediante un accordo. Quando, alle condizioni suddette, gli Stati membri possono concludere accordi, nulla vieta che l’accordo sia stipulato anche in seno al consiglio. È ben possibile, infatti, che gli Stati membri adottino atti denominati “atti degli Stati membri riuniti in sede di consiglio“, i quali non hanno la natura giuridica di atti dell’unione, imputabili al consiglio, ma restano imputabili collettivamente agli Stati membri e, se del caso, rappresentano degli accordi fra tali stati conclusi in forma semplificata. La possibilità di adottare atti del genere è stata riconosciuta dalla corte di giustizia. Questa ha negato, inoltre, che tali atti siano “comunitari” (cioè, oggi dell’Unione), escludendo, di conseguenza, anche la propria competenza a sindacare la legittimità. Gli accordi tra Stati membri e Stati terzi. Agli accordi conclusi da Stati membri con Stati terzi anteriormente alla conclusione del trattato sulla comunità economica europea, o all’adesione degli Stati membri alla comunità e all’unione europea, si riferisce l’art. 351, TFUE il quale, (contenente una “clausola di salvaguardia”), fa salvi tali accordi, i cui obblighi e diritti, non sono pregiudicati dalle disposizioni dei trattati. Le convenzioni in parola, pertanto, in conformità, del resto, con le regole del diritto internazionale generale concernente gli effetti dei trattati verso i terzi, continuano ad applicarsi. Come la corte di giustizia ha ricordato l’articolo in esame “è diretto a precisare, conformemente ai principi di diritto internazionale che l’applicazione del trattato non pregiudica l’impegno dello Stato membro interessato di rispettare i diritti degli Stati terzi derivanti da una convenzione anteriore e di adempiere gli obblighi corrispondenti”. Uno Stato membro, quindi, può sottrarsi agli obblighi derivanti dai trattati relativi all’unione europea nella misura in cui ciò sia necessario per adempiere gli obblighi prescritti da una convenzione conclusa anteriormente con uno Stato terzo. Il diritto internazionale generale. Anche il diritto internazionale generale, consistente nelle norme di natura consuetudinaria, deve essere ricompreso nell’ambito dell’ordinamento dell’unione. Esso, anzitutto, viene in rilievo nei rapporti tra l’unione europea e gli Stati terzi e le altre organizzazioni internazionali. L’unione, essendo un soggetto di diritto internazionale, è tenuta a rispettare gli obblighi e può esercitare i diritti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario. La corte di giustizia non ha mancato di riferirsi alle norme di diritto internazionale generale quali norme giuridiche da essa applicabili, sempre che, ovviamente, riguardino situazioni di competenza dell’Unione. Con particolare riguardo alle norme internazionali consuetudinarie sul trattamento dei capi di Stato stranieri la corte ha confermato che “il diritto dell’unione deve essere interpretato alla luce delle norme pertinenti di diritto legislativi consistenti in regolamenti, direttive rivolte a tutti gli Stati membri e decisioni che non designano i destinatari. Solo per serie ragioni un atto può entrare in vigore lo stesso giorno della pubblicazione; mentre, in principio, non è ammissibile una sua efficacia retroattiva, anteriore, cioè, alla stessa pubblicazione in quanto in contrasto con il principio della certezza del diritto. Le altre direttive, cioè quelle rivolte solo a taluni Stati membri, e le decisioni che hanno un destinatario specifico, sempre che non siano state adottate con una procedura legislativa, sono notificate ai loro destinatari ed entrano in vigore in virtù di tale notificazione. Infine va ricordato che gli atti obbligatori possono contenere sanzioni pecuniarie nei confronti di persone fisiche o giuridiche. In queste ipotesi essi hanno efficacia di titolo esecutivo. L’esecuzione forzata è regolata dalle norme di procedura civile vigenti nello Stato nel cui territorio è effettuata; peraltro tale esecuzione forzata può essere sospesa solo dalla corte di giustizia dell’unione. I regolamenti. Il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti suoi elementi ed è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Emergono così i tre caratteri distintivi di tale atto, la generalità, l’integrale obbligatorietà e la diretta applicabilità, che ne mettono in luce la natura normativa. L’analogia con la legge statale, che si desume già dalla generalità, intesa come astrattezza della norma, e dalla piena obbligatorietà, è confermata, dalla forma di pubblicità richiesta per la sua entrata in vigore. La portata generale del regolamento implica che esso si applichi a una fattispecie definita in termini generali e astratti e si rivolga, pertanto, a una serie indeterminata di destinatari, conferendo a essi diritti o obblighi giuridici. Tale carattere differenzia il regolamento dalla decisione almeno nella sua originaria connotazione, quando, cioè, è rivolta verso specifici destinatari predeterminati. Il giudice europeo, ha affermato : “Il regolamento ha portata generale ed è direttamente applicabile in ciascuno Stato membro, mentre la decisione è obbligatoria solo per i destinatari in essa indicati; il criterio distintivo va quindi ricercato nella portata, generale ovvero individuale, dell’atto di cui trattasi. La caratteristica essenziale della decisione consiste nella limitatezza dei destinatari ai quali è diretta, mentre il regolamento è applicabile non già a un numero limitato di destinatari, bensì ad una o più categorie di destinatari determinati astrattamente e nel loro complesso“. La corte di giustizia, peraltro, ha riconosciuto che un atto rappresenta un regolamento, sebbene sia possibile determinare il numero o l’identità dei destinatari, purché ciò avvenga in base a elementi obiettivi e non individuali, concernenti gli interessati. Per la qualificazione di un atto quale regolamento risulta quindi decisivo che i suoi destinatari vengano individuati sulla base di elementi oggettivi e non, al contrario, sulla base di qualità personali. Va notato che, ormai frequentemente, l’Unione Europea emana regolamenti volti a stabilire misure contro specifiche persone fisiche o giuridiche; un esempio significativo è rappresentato dal congelamento di capitali e di altre risorse finanziarie o di persone sospettate di terrorismo. In questo caso, pur pregiudicando in maniera specifica e individuale i soggetti colpiti da tale misura, il regolamento non perde la sua natura giuridica di atto di portata generale. Come ha chiarito il tribunale di primo grado, regolamenti siffatti, pur avendo uno specifico oggetto, cioè le misure contro determinate persone, si rivolgono a una generalità indeterminata di destinatari, in quanto vietano a chiunque di mettere a disposizione delle suddette persone capitali e risorse finanziarie, e restano, pertanto, atti di portata generale. La generalità del regolamento non va intesa, poi, come implicante necessariamente la sua applicazione in tutti gli Stati membri. È possibile, infatti, che un regolamento sia emanato con riguardo ad un solo Stato o che, comunque, abbia una sfera territoriale limitata di applicazione. La seconda caratteristica del regolamento risiede nella sua obbligatorietà integrale; essa differenzia tale atto dalla direttiva, la quale ha una obbligatorietà limitata al risultato da raggiungere. La terza caratteristica del regolamento è data dalla sua applicabilità diretta negli Stati membri. Si manifesta, in tale diretta applicabilità, un aspetto essenziale della sopranazionalità, che caratterizza, dal punto di vista giuridico, l’intero fenomeno dell’integrazione europea. I regolamenti, infatti, esprimono la capacità dell’Unione Europea di produrre una normativa che, raggiunge direttamente i consociati, creando per essi diritti e obblighi giuridici, e s’impone a qualsiasi autorità, giudiziaria o amministrativa, che sia chiamata ad applicarla. Per tale via il diritto dell’unione viene ad integrarsi in quello degli Stati membri. L’applicabilità diretta comporta che i regolamenti acquistano efficacia giuridica all’interno degli Stati membri al momento stesso in cui, della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, essi entrano in vigore ai sensi dell’ordinamento dell’unione, senza che detti Stati nulla debbano fare per dare attuazione agli stessi, e nulla possano fare per impedire tale efficacia. Il carattere in esame dei regolamenti, infatti, esclude la necessità di qualsiasi atto statale di adattamento, recezione o attuazione. Anzi, atti statali che fossero pur solo riproduttivi dei regolamenti, sarebbero vietati. In passato alcuni Stati come l’Italia usavano la prassi di attuare i regolamenti attraverso atti interni che ne riproducevano il contenuto. Tale prassi è stata dichiarata illegittima dalla Corte sia perché contrasta con la diretta applicabilità, sia perché pregiudica la simultanea entrata in vigore del regolamento rinviandola all’entrata in vigore dell’atto statale. Tale prassi pregiudicava anche la competenza della stessa Corte a pronunciarsi in via pregiudiziale poiché il suo intervento non è ammesso per quanto riguarda un atto statale. Il carattere direttamente applicabile dei regolamenti non esclude che possano essere necessari, o, quantomeno, opportuni ulteriori atti di esecuzione dell’Unione. Rispetto ad un regolamento diretto a disciplinare una data materia è anzi frequente che seguano regolamenti di esecuzione, adottati dal consiglio, o più spesso dalla commissione. Il regolamento di esecuzione, peraltro, è subordinato gerarchicamente a quello, cosiddetto di base, che è diretto ad attuare. In via eccezionale il regolamento può richiedere perfino un’attività statale di esecuzione. Ciò accade quando il regolamento non sia pienamente self-executing, non contenta, cioè, una disciplina del tutto esaustiva e richieda la determinazione di taluni elementi, necessari per la sua pratica applicazione. In questi casi lo stesso regolamento può prevedere le misure che gli Stati membri devono adottare; ma, anche in mancanza, l’obbligo di emanare tali misure deriva dal generale obbligo di leale cooperazione posto dall’art. 4, paragrafo tre, TUE. All’esigenza che gli Stati membri o la commissione adottino misure di esecuzione, indispensabili ai fini di un’effettiva applicazione del regolamento, si collega l’ipotesi di regolamenti che prevedono una certa data per la loro entrata in vigore e una data differente per la loro applicazione. L’applicabilità diretta dei regolamenti non significa soltanto che essi penetrano negli ordinamenti degli Stati membri senza bisogno di alcun atto di adattamento, ma anche che essi sono idonei a creare diritti a favore dei singoli e obblighi a loro carico. In altri termini, essi sono produttivi di effetti diretti, sia nei rapporti “orizzontali“, cioè tra privati, sia nei rapporti “verticali“, tra i singoli e lo Stato. Tale efficacia diretta, più precisamente, comporta che il titolare del diritto nascente da un regolamento può esercitarlo nei confronti della controparte, tenuta, all’obbligo corrispondente; e che, ove il diritto non venga spontaneamente soddisfatto, il titolare può chiederne la tutela giudiziaria dinanzi al giudice nazionale. Le direttive. La direttiva, come risulta dalla stessa definizione che ne dà l’articolo 288 TFUE, può essere destinata a tutti o taluni Stati membri, ma è sempre rivolta a stati, non ai singoli. Essa ha un’efficacia parzialmente obbligatoria, poiché vincola gli Stati destinatari solo per i risultati da raggiungere, mentre riconosce una sfera di libertà di tali Stati in merito alla scelta dei mezzi e delle forme necessarie per conseguire il risultato prescritto. La direttiva non unifica integralmente (come fanno i regolamenti) il diritto degli Stati membri, ma si limita a riavvicinare, ad armonizzare tali diritti. La direttiva, sotto questo profilo, appare atto meno intrusivo nella realtà giuridica degli Stati membri e, pertanto, più conforme al principio di sussidiarietà, in quanto implica un intervento dell’unione solo nella misura nella quale gli scopi dei trattati non siano raggiungibili dai singoli Stati, sia a quello di proporzionalità, poiché si limita a porre un obbligo che non va al di là di quanto le istituzioni europee ritengono necessario per il raggiungimento degli obiettivi dei trattati. A differenza del regolamento, la direttiva non è direttamente applicabile, ma acquista efficacia all’interno degli Stati destinatari in via mediata, grazie ad atti statali che provvedono a dare attuazione alla direttiva e ad integrare il suo contenuto normativo, dato che, di regola, questo è “incompleto“, limitandosi la direttiva a prescrivere l’obiettivo, non anche la forma e i mezzi. Nella prassi, peraltro, non sono mancati esempi di direttive che forniscono una disciplina esaustiva e completa della materia, finendo per sottrarre agli Stati destinatari ogni sfera di libertà sui mezzi di attuazione. Tali direttive sono denominate direttive dettagliate (o particolareggiate) e, invero, non corrispondono alla definizione che delle direttive fornisce l’art. 288, terzo comma, TFUE; a ragione, pertanto, un autorevole dottrina ha dubitato della loro legittimità. Deve riconoscersi, peraltro, che non risulta che la corte di giustizia abbia mai annullato direttive dettagliate, né che singoli Stati ne abbiano formalmente contestato la legittimità. Le direttive stabiliscono il termine entro il quale gli Stati debbono darvi attuazione. Tale termine può variare da pochi mesi ad alcuni anni, in rapporto a diversi fattori, valutati dalle istituzioni europee. Non può escludersi che la direttiva stabilisca un termine differente di attuazione per i diversi Stati membri. Prima della scadenza del termine, peraltro, non deve credersi che la direttiva sia priva di effetti giuridici; essa, invero, è già in vigore e determina un obbligo a carico degli Stati destinatari, anche se, ovviamente questi non possono considerarsi inadempienti ove non abbiano ancora emanato le misure di attuazione della direttiva. L’obbligo in questione, denominato di stand still, consiste nel divieto di adottare misure che abbiano il risultato di rendere più difficile l’attuazione della direttiva, in quanto modifichino l’ordinamento interno in modo da renderlo più difforme dagli obiettivi della direttiva e pregiudichino, così, il risultato da essa prescritto. Tale obbligo è desunto dalla corte di giustizia da quello di leale cooperazione e, per altro verso, dalla stessa obbligatorietà della direttiva, la quale è produttiva di effetti giuridici sin dalla sua entrata in vigore. Entro il termine prescritto nella direttiva gli Stati destinatari hanno l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla direttiva nel proprio ordinamento; eventuali difficoltà che uno Stato incontrasse non lo esimono dall’adempimento di tale obbligo, ma gli consentono, al massimo, di chiedere una proroga. Eccezionalmente tale obbligo non sussiste qualora il diritto di uno Stato sia già pienamente conforme all’obiettivo stabilito dalla direttiva. Le misure adottate dagli Stati destinatari in esecuzione della direttiva vanno comunicate alla commissione. L’art. 260, paragrafo tre, TFUE, prevede, infatti, che la commissione possa aprire una procedura di infrazione contro lo Stato membro che non abbia adempiuto l’obbligo di comunicare le misure di attuazione di una direttiva del genere, chiedendo alla corte di giustizia anche di comminare a tale stato il pagamento di una sanzione pecuniaria. In conformità dell’art. 288, terzo comma, TFUE, la scelta della forma delle misure rientra nella competenza degli Stati. Questi, peraltro, non hanno al riguardo una libertà assoluta: esigenze di certezza del diritto impongono, infatti, agli stati di emanare atti normativi che siano idonei, nel quadro del diritto statale, a garantire pienamente il risultato prescritto dalla direttiva e, in particolare, l’esercizio dei diritti da essa eventualmente previsti. Pertanto sono necessari provvedimenti idonei a modificare l’eventuale legislazione esistente nello Stato per adeguarla all’obiettivo posto dalla direttiva. Una volta che il termine sia scaduto senza che lo Stato abbia attuato correttamente la direttiva, esso è responsabile della violazione dell’articolo 288. Nei suoi confronti, pertanto, può essere esperita una procedura di infrazione; inoltre, a certe condizioni, è possibile richiedere il risarcimento dei danni che i singoli abbiano subito a seguito di tale inadempimento. Sebbene la direttiva abbia, per sua natura, efficacia “immediata“ negli Stati membri, richiedendo un atto statale di recezione, la giurisprudenza della corte di giustizia, ha da tempo affermato che, a date condizioni ed entro certi limiti, essa, pur non attuata dallo Stato membro destinatario, può produrre effetti diretti per i singoli all’interno di tale Stato. Secondo tale giurisprudenza, qualora una direttiva abbia un contenuto sufficientemente chiaro e preciso, preveda per gli Stati destinatari un obbligo incondizionato e sia diretta a conferire ai singoli un diritto, essa ha una diretta efficacia, cioè è suscettibile di creare in capo ai singoli diritti da essa esercitabili ed eventualmente invocabili in giudizio dinanzi ai giudici nazionali. Tale efficacia diretta può riguardare l’intera direttiva o anche sue singole disposizioni, le quali presentino i predetti caratteri. Occorre sottolineare, peraltro, che l’efficacia diretta costituisce pur sempre l’eccezione per le direttive, che ne sono normalmente prive, e che essa può riconoscersi solo in presenza delle condizioni dianzi ricordate. Come si è osservato, l’efficacia diretta richiede, anzitutto, che la direttiva sia sostanzialmente self-executing, abbia un contenuto autosufficiente, completo, tale, cioè da essere praticamente applicabile dal giudice nazionale anche in assenza di una legge statale di attuazione. Va osservato che, malgrado l’assenza di obbligatorietà dei pareri, talora specifiche disposizioni dei trattati prevedono conseguenze giuridiche in caso di inosservanza. Va ricordato, in proposito, il parere motivato che la commissione può emettere sulla violazione di un obbligo derivante dai trattati da parte di uno Stato membro, la cui inosservanza può comportare il deferimento dello Stato alla corte di giustizia. Gli atti atipici. L’art. 288 TFUE non esaurisce la gamma degli atti adottabili dall’unione europea. Gli atti diversi da quelli contemplati dalla citata disposizione sono denominati, nel loro complesso, come atipici. Essi comprendono un’estrema varietà di figure, non sempre provviste di effetti giuridici, e rappresentano un elemento di incertezza giuridica, che può anche pregiudicare un’adeguata tutela giudiziaria dei singoli, sovente ignari della loro natura e dei loro effetti giuridici. Dato il carattere vario ed estremamente eterogeneo degli atti atipici, una loro classificazione sistematica non appare possibile. Ci limitiamo, pertanto, a raggrupparli in tre categorie: atti, espressamente previsti da disposizioni dei trattati, che hanno la medesima denominazione di uno di quelli tipici contemplati dall’articolo 288, ma caratteri giuridici differenti; atti espressamente previsti da disposizioni dei trattati e aventi denominazioni diversi da quelli tipici; atti, infine, non contemplati da alcuna disposizione dei trattati e nati nella prassi. Riguardo alla prima categoria di atti si possono ricordare, per esempio, i regolamenti interni delle varie istituzioni e organi. Essi, evidentemente, non hanno nulla in comune con i regolamenti previsti dall’articolo 288, e in principio, hanno una rilevanza meramente interna all’organo che li adotta. Diversi, peraltro, possono essere i procedimenti di adozione degli stessi. A proposito poi delle direttive, è evidente che sfuggono completamente alla definizione fornita dall’articolo 288 le direttive che il consiglio può impartire al negoziatore, in vista della conclusione di accordi internazionali. La seconda categoria di atti atipici è costituita, da atti previsti nominativamente da disposizioni dei trattati, ma non inquadrabili tra quelli definiti nell’articolo 288. La materia dell’unione monetaria offre esempi di atti del consiglio, volti ad accertare se gli Stati membri soddisfino le condizioni per il passaggio all’adozione della moneta unica. Altro atto atipico del genere può considerarsi quello del presidente del parlamento europeo con il quale constata che il bilancio è definitivamente adottato. Vanno poi ricordati i programmi di azione in materia ambientale, con le connesse misure di attuazione, i programmi pluriennali di cooperazione allo sviluppo, le misure di incentivazione nei riguardi degli Stati membri nel settore dell’occupazione, e così via. Gli atti che stabiliscono tali misure possono qualificarsi come risoluzioni operative, in quanto le istituzioni, adottandoli, regolano la propria attività nei vari settori. Merita, peraltro una specifica notazione la previsione di accordi interistituzionali tra il parlamento europeo, il consiglio e la commissione. La prassi offre un vasto quadro di accordi interistituzionali conclusi tra il parlamento europeo, il consiglio e la commissione, spesso, peraltro, designati con denominazioni ulteriori, quali dichiarazioni comuni, scambi di lettere, codici di condotta e così via. Essi si rinvengono, tra l’altro, in tema di procedimenti normativi, di bilancio, di diritti fondamentali, di principi democratici e di sussidiarietà. Esiste poi una gamma, ampia ed eterogenea, di atti nati nella prassi, ma privi di uno specifico fondamento nei trattati. Per quanto riguarda gli atti a rilevanza esterna, diretti, cioè a soggetti diversi dalle istituzioni europee, possono considerarsi, per esempio, le numerose risoluzioni che tali istituzioni sono solite emanare in varie materie e che, di regola, hanno un valore solo politico, così come le conclusioni sovente adottate dal consiglio. Non è da escludere, tuttavia che, in certi casi, atti del genere possano produrre effetti giuridici. Sicuramente provviste di effetti giuridici sono le decisioni con le quali il consiglio autorizza gli Stati membri a ratificare nell’interesse dell’unione convenzioni internazionali, aperte alla ratifica dei soli Stati, ma rientranti nella competenza dell’unione. Vari e numerosi sono gli atti a rilevanza esterna della commissione, quali libri verdi, libri bianchi, conclusioni, lettere comunicazioni e così via. Va osservato, in conclusione, che la precisa definizione degli eventuali effetti giuridici degli atti atipici risultanti dalla prassi è, in definitiva, fatta dal giudice europeo, il quale a questo fine, tiene conto della volontà dell’istituzione che emana l’atto, ma anche del potere del quale è espressione e dei principi giuridici sui quali si fonda. La giurisprudenza mostra che la corte, in ogni caso, attribuisce valore preminente, per l’identificazione degli effetti dell’atto, ai suoi caratteri sostanziali, a prescindere dalla sua denominazione, talora vaga e generica. Gli atti in materia di PESC. L’eliminazione della struttura in pilastri dell’Unione Europea, effettuata dal trattato di Lisbona, non ha fatto venire meno la peculiarità dell’azione dell’unione in materia di politica estera e di sicurezza comune, che si riflettono anche sui tipi di atti che le istituzioni possono adottare. Anzitutto essi non possono avere carattere di atti legislativi; va esclusa anche la possibilità di una loro efficacia diretta verso i singoli, tipica del fenomeno dell’integrazione europea, ma non l’obbligatorietà di tali atti, nei confronti degli Stati membri o delle istituzioni. Al vertice degli atti dell’unione nella materia in esame si pongono le determinazioni del consiglio europeo, il quale individua gli interessi strategici dell’unione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti generali della politica estera e di sicurezza comune, ivi ricomprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa. Inoltre, il consiglio europeo definisce le linee strategiche della politica dell’unione dinanzi ai eventuali sviluppi internazionali. Gli atti del genere del consiglio europeo possono avere valore politico, come, di solito, le conclusioni manate a seguito delle sue riunioni. Essi, però, possono produrre anche effetti obbligatori; dichiara, infatti, l’articolo 22 che le decisioni del consiglio europeo sugli interessi e gli obiettivi strategici dell’unione fissano la rispettiva durata e i mezzi che l’unione e gli Stati membri devono mettere a disposizione. L’obbligo di mettere a disposizione i mezzi necessari incombe, quindi, sia sulle istituzioni, organi o organismi dell’unione che sugli Stati membri. Inoltre il consiglio prende le decisioni per la definizione e l’attuazione della politica estera e di sicurezza comune in base agli elementi generali e alle linee strategiche definite dal consiglio europeo. Alle determinazioni del consiglio europeo appaiono così subordinate le decisioni del consiglio. Altrettanto può dirsi per le altre decisioni del consiglio, previste dall’articolo 25 e specificate ulteriormente in altri articoli relativi alla PESC. Vengono in rilievo, anzitutto, le decisioni che definiscono le azioni che l’unione deve prendere e che, ai sensi dell’articolo 28, paragrafo uno, hanno un carattere spiccatamente specifico e operativo. Per quanto riguarda le decisioni di carattere operativo, in generale, decisioni di azioni sono quelle adottate nell’ambito delle operazioni di disarmo, umanitarie e di soccorso, di prevenzione dei conflitti, di mantenimento e di ristabilimento della pace, le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, nonché di lotta al terrorismo, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune. Le decisioni di azioni operative sono obbligatorie per gli Stati membri. CAPITOLO 9 “I RAPPORTI TRA L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE E QUELLO ITALIANO” Il fondamento costituzionale del trasferimento di poteri sovrani all’Unione Europea. Il tema dei rapporti fra l’ordinamento dell’unione europea e quello italiano ha sollevato numerosi e delicati problemi, che hanno visto un originario vivace contrasto tra l’atteggiamento della corte costituzionale italiana e quello della corte di giustizia dell’Unione Europea; contrasto, peraltro, appianatosi nel corso degli anni. Il primo problema nasceva dal fatto che i trattati istitutivi delle comunità europee, come quelli ora vigenti a seguito delle modifiche apportate dal trattato di Lisbona, comportano una sia pur parziale trasferimento di poteri sovrani, in particolare di competenze legislative e giudiziarie, dagli Stati membri alle istituzioni europee. Ora, proprio la consapevolezza della profonda incidenza dei trattati in parola sugli ordinamenti statali, a causa del suddetto trasferimento di poteri sovrani, ha indotto numerosi Stati, membri originari o successivi dell’Unione europea, a dare esecuzione a tali trattati con legge costituzionale o a emanare norme costituzionali, per rendere compatibile con la propria costituzione il suddetto trasferimento di poteri, fornendo a esso un fondamento e una giustificazione costituzionale. In Italia, invece, l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione dei trattati istitutivi delle comunità europee sono stati dati con legge ordinaria, non costituzionale, essendo improbabile l’adozione di quest’ultima a causa di una forte opposizione ostile, all’epoca, all’integrazione europea. Di conseguenza si è posta ben presto, dinanzi alla corte costituzionale italiana, la questione della legittimità costituzionale di tali leggi. La corte, sin dalla sentenza del 7 marzo 1964 (Costa c. ENEL) ha dichiarato che le leggi di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei trattati comunitari trovano un fondamento nell’articolo 11 della costituzione nella parte in cui dichiara: “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace la giustizia fra le nazioni”. Benché nata, principalmente, per favorire la partecipazione dell’Italia all’organizzazione delle Nazioni Unite, tale disposizione è stata considerata idonea a consentire limitazioni di sovranità e, quindi, a permettere al legislatore ordinario di effettuare tali limitazioni. Il primato del diritto dell’Unione europea. Si poneva, peraltro, un’ulteriore problema concernente la prevalenza del diritto comunitario o, viceversa, di quello interno, nell’ipotesi di contrasto tra le norme dei due ordinamenti. Il problema riguardava le norme europee direttamente applicabili, poiché solo per esse, praticamente, può porsi la questione se il giudice nazionale debba applicare la norma europea o quella nazionale, qualora abbiano un contenuto incompatibile. In proposito la posizione originaria della corte costituzionale, espressa nella sentenza Costa c. ENEL del 7 marzo 1964, era nel senso che, essendo stati resi esecutivi i trattati europei con legge ordinaria, le disposizioni del diritto comunitario non avevano un’efficacia superiore a quella propria della legge ordinaria; avendo, pertanto, le norme comunitarie e le leggi italiane pari efficacia giuridica, le ipotesi di contrasto andavano risolte in base principi della successione delle leggi nel tempo, con la conseguenza che una legge italiana successiva conservava la piena efficacia e ben poteva modificare abrogare le disposizioni comunitarie contrastanti. Tale tesi incontrò una immediata reazione della corte di giustizia, la quale, pronunciandosi in via pregiudiziale con riguardo alla medesima vicenda Costa c. ENEL, afferma il primato del diritto comunitario sulle norme interne contrastanti e l’invalidità di tali norme. Secondo la corte di giustizia, infatti, a seguito dell’originario trasferimento di sovranità da parte degli Stati membri, il diritto comunitario si integra negli ordinamenti degli Stati membri in una posizione gerarchicamente sovraordinata. Il dissidio tra le corti non poteva essere più netto: pare efficacia delle disposizioni comunitarie e di quelle interne, con conseguente applicazione della legge interna successiva, in caso di incompatibilità, secondo la corte costituzionale; inefficacia della legge interna posteriore e primato del diritto comunitario, con applicazione di quest’ultimo, secondo la corte di giustizia. Negli anni successivi la nostra corte ha compiuto una marcia di avvicinamento che ha condotto infine a una composizione di tale dissidio. Un primo passo è stato compiuto con la sentenza del 30 ottobre 1975, società industrie chimiche dell’Italia centrale. In essa la corte costituzionale affermava che l’emanazione di leggi successive incompatibili, o anche solo riproduttive, rispetto ai regolamenti comunitari, violando gli articoli 189 e 177 del trattato, comporta violazione dell’articolo 11 della nostra costituzione, in base al quale l’Italia ha aderito alla comunità consentendo, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità richieste per la sua istituzione e per il conseguimento dei suoi fini di integrazione. Di conseguenza il giudice, di fronte a leggi incompatibili con regolamenti, è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale; spetta, quindi, alla stessa corte costituzionale pronunciarsi sulla questione, dichiarando l’incostituzionalità di siffatte leggi. La corte di giustizia, peraltro, non approvò la posizione della corte costituzionale, poiché essa implicava la necessità di una pronuncia di quest’ultima affinché fosse eliminata la legge interna incompatibile e ciò pregiudicava sia l’efficacia diretta del regolamento, sia la sua entrata in vigore simultanea in tutti gli Stati membri. Nella sentenza del 9 marzo 1978, causa Simmenthal, la corte di giustizia affermò precisamente: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, all’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attenderne la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Tale soluzione, secondo la corte di giustizia, discende dallo stesso concetto di applicabilità diretta. La corte di giustizia ha costantemente ribadito che il giudice nazionale, nell’ipotesi di contrasto della propria legislazione con il diritto comunitario deve disapplicare di prova iniziativa la suddetta legislazione, senza attendere una rimozione della stessa mediante una pronuncia di un tribunale costituzionale. La nostra corte costituzionale ha compiuto un ulteriore, e decisiva, svolta con la celebre sentenza dell’8 giugno 1984, Granital. In essa la corte ribadisce una costruzione dualista dell’ordinamento comunitario e di quello nazionale, visti come ordinamenti autonomi e distinti, sebbene coordinati. Peraltro, nella sentenza in esame, la corte costituzionale dichiara che l’articolo 11 della costituzione implica non già l’invalidità della legge statale successiva in contrasto con norme comunitarie direttamente applicabili, ma la sua disapplicazione da parte del giudice comune. Questi, pertanto, non deve più sollevare una questione di legittimità costituzionale, ma deve provvedere ad assicurare l’applicazione del diritto comunitario il luogo di quello italiano incompatibile. Per tale via, pur rifiutando la tesi di una preminenza gerarchica del diritto comunitario su quello nazionale, la corte costituzionale giunge praticamente al L’adeguamento del diritto italiano agli obblighi nascenti dal diritto dell’unione richiede, com’è evidente, anche un intervento ad opera del legislatore. Tale intervento è necessario anzitutto per dare attuazione alle norme e agli atti europei non direttamente applicabili, quali sono tipicamente le direttive, ma esso è richiesto anche per abrogare o modificare le norme incompatibili con obblighi, contenuti in atti direttamente applicabili, quali regolamenti, nonché per dare esecuzione alle sentenze della corte di giustizia, che abbiano constatato la presenza di norme italiane in violazione di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea. La prassi originariamente seguita dal nostro Stato per dare esecuzione agli atti europei è consistita, principalmente, nell’adozione di leggi che delegavano il governo ad emanare una serie di decreti legislativi volti a dare attuazione a un pacchetto di direttive indicate nella legge di delega. Il ricorso allo strumento della delega al governo veniva, di solito, sotto l’urgenza di eseguire direttive il cui termine di attuazione era già scaduto o per porre rimedio alle sentenze della corte di giustizia pronunciate nel quadro della procedura di infrazione. Il sistema era giustamente criticato. Anzitutto esso non appariva pienamente conforme al dettato costituzionale dell’articolo 76, il quale dichiara: l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. In realtà gli oggetti della delega erano estremamente diversificati, in rapporto all’oggetto delle direttive da attuare, né emergevano propriamente dei criteri direttivi; sicché il parlamento finiva per risultare sostanzialmente espropriato dei suoi poteri. Sempre più si avvertiva l’esigenza di un sistema che, abbandonando gli interventi episodici e confusi della legge delega, assicurasse a regime una corretta e tempestiva attuazione delle direttive e degli altri obblighi scaturenti dall’appartenenza alle comunità europee, garantendo, nel contempo, pieno rispetto della costituzione. Dopo una prima iniziativa in questa direzione, con la legge c.d. Fabbri, una disciplina organica della materia è stata data dalla legge 9 marzo 1989, c.d. legge La Pergola. Tale legge, più volte modificata e infine sostituita da una nuova legge, aveva un duplice oggetto: da un lato, regolare le forme di partecipazione del parlamento e delle regioni alla formazione degli atti comunitari (c.d. fase ascendente), dall’altro garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle comunità europee. Strumento centrale per garantire tale adempimento era la legge comunitaria; essa, da emanarsi annualmente, facendo ricorso anche alla delega al governo e all’attuazione in via regolamentare conteneva disposizioni “per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla comunità europea, con l’indicazione dell’anno di riferimento”. La legge Pergola, è stata successivamente sostituita dalla legge c.d. Buttiglione. Quest’ultima, rispettando lo schema generale, i principi ispiratori e gli strumenti di attuazione della legge la Pergola, ne costituiva un opportuno e apprezzabile ammodernamento. Essa, peraltro, dopo avere già subito modifiche e integrazioni ad opera delle leggi comunitarie succedutesi nel tempo, è stata abrogata e sostituita dalla legge 24 dicembre 2012, contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’unione europea. La tempestiva attuazione delle direttive e degli altri obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea è assicurata non più da una legge comunitaria annuale, ma due distinte leggi: la legge di delegazione europea e la legge europea, le quali assicurano il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento dell’Unione Europea. Per quanto riguarda il contenuto della legge di delegazione europea, questa reca disposizioni per il conferimento al governo di delega legislativa volta all’attuazione delle direttive, nonché per la modifica o l’abrogazione di disposizioni statali al fine di eseguire i pareri motivati della commissione o le sentenze di inadempimento della corte di giustizia, emanate nel quadro della procedura di infrazione; disposizioni che autorizzano il governo a recepire in via regolamentare le direttive, e così via. L’altra legge annuale, la legge europea, contiene disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi derivanti dall’unione europea; disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali oggetto di procedure di infrazione avviate dalla commissione contro l’Italia o di sentenze della corte di giustizia, e così via. Prescindendo da queste disposizioni, i contenuti della legge di delegazione europea e della legge europea non risultano nettamente distinti, ma, al contrario, appaiono in parte sovrapponibili: si considerino, in particolare, le disposizioni presenti in entrambe, collegate ai procedimenti di infrazione intrapresi dalla commissione e alle sentenze della corte di giustizia. Nella misura in cui determinate disposizioni siano adottabili sia con legge di delegazione europea che con la legge europea, la scelta tra le due opzioni, cioè, in sostanza tra la delega legislativa al governo, da una parte, e l’emanazione delle necessarie disposizioni direttamente dal parlamento con propria legge, dall’altra, spetta in definitiva al parlamento, alla luce delle proprie valutazioni politiche tecniche. L’elaborazione della legge di delegazione europea e della legge europea prende l’avvio con la verifica, da parte del presidente del consiglio o del Ministro per gli affari europei, dello stato di conformità dell’ordinamento interno e degli indirizzi di politica del governo in relazione agli atti normativi e di indirizzo emanati dall’Unione Europea. All’esito di tale verifica il presidente del consiglio o il ministro per gli affari europei, di concerto con il Ministro per gli affari esteri e con gli altri ministri interessati, entro il 28 febbraio di ogni anno presenta al parlamento un disegno di legge recante il titolo: “delega al governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione degli altri atti dell’unione europea”, completato dall’indicazione legge di delegazione europea seguita dall’anno di riferimento. Se la legge di delegazione europea e la legge europea rappresentano lo strumento ordinario per assicurare il periodico adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europea, ciò non esclude la possibilità di adottare al di fuori di tale legge le norme di attuazione di obblighi conseguenti a singoli atti dell’unione, come sentenze di condanna della corte di giustizia, o norme dirette a fare cessare procedure di infrazione aperte dalla commissione contro l’Italia. La scelta di ricorrere a leggi specifiche può derivare dalla complessità della materia oggetto di un atto. Ma tale scelta può essere motivata, come spesso accade, dall’urgenza di eseguire sentenze della corte di giustizia o richieste formulate dalla commissione nell’ambito di procedure di infrazione. In questo caso lo strumento opportunamente utilizzato è il decreto-legge. Il ruolo delle Regioni nell’attuazione del diritto dell’Unione europea. L’attuazione del diritto dell’unione europea comporta anche un delicato problema di riparto di competenze tra lo Stato e le regioni. Frequentemente, infatti, le materie oggetto di atti dell’unione ricadono, a livello interno, nella competenza legislativa delle regioni; e tale fenomeno si è ovviamente intensificato con la riforma del titolo V della parte seconda della costituzione. Occorre, pertanto, stabilire se, e in quale misura, alle regioni spetti anche la competenza, nelle suddette materie, a dare esecuzione agli obblighi europei ed, eventualmente, in quale modo le competenze delle regioni vadano coordinate con quelle dello Stato. In proposito sia la giurisprudenza costituzionale che la legislazione hanno compiuto un lungo cammino, che ha condotto da un originario assetto “statalista” e “centralista” del riparto di competenze tra Stato e regioni a un rapporto più di equilibrato e rispettoso del ruolo che la costituzione riconosce alle regioni. In questa materia, invero, vanno conciliati due principi fondamentali: da un lato, il rispetto delle competenze delle regioni; dall’altro, la responsabilità dello Stato per l’attuazione degli obblighi derivanti dall’unione europea, essendo lo stato l’unico interlocutore dell’unione ed essendo, quindi, responsabile anche per le inadempienze dovuti all’inerzia, o ritardi, delle regioni. In una prima fase questo secondo principio aveva fortemente compromesso le competenze regionali, in quanto la preoccupazione di evitare una responsabilità dello Stato per il comportamento delle regioni aveva condotto a concentrare nello Stato la competenza a dare attuazione agli obblighi comunitari. Successivamente era stato riconosciuto un certo margine di competenza delle regioni in materia, ma prevedendo dei meccanismi di intervento sostitutivo dello Stato nell’ipotesi di inadempimento delle regioni. Dopo alcune modifiche alla legge la Pergola, in senso più favorevole alle regioni, è intervenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001. Con tale legge è così riconosciuta a livello costituzionale la competenza delle regioni a dare attuazione, nella fase discendente, a tali atti; peraltro anche il potere sostitutivo dello Stato è garantito a livello costituzionale, al fine di evitare che dall’eventuale inerzia delle regioni derivi la responsabilità dello Stato nei confronti dell’Unione Europea. Peraltro, mentre in materie di competenza esclusiva delle regioni queste sono sottoposte al solo potere sostitutivo dello Stato in caso di loro inadempienza, in quelle di legislazione concorrente sussiste il limite dei principi fondamentali contenuti nella legge statale. Inoltre, il governo può sostituirsi a organi delle regioni nel caso, tra l’altro, di mancato rispetto della normativa europea. La materia trova oggi compiuta disciplina nella legge 24 dicembre 2012. La quale anzitutto riafferma che le regioni e le province autonome, nelle materie di propria competenza, provvedono al recepimento delle direttive dell’unione. Sebbene tale norma menzioni espressamente le sole direttive, deve riconoscersi la competenza delle regioni e delle province autonome a dare attuazione a qualsiasi atto europeo che richieda disposizioni di recepimento o di applicazione. Per quanto riguarda il potere sostitutivo dello Stato nel caso d’inerzia delle regioni e delle province autonome, il potere sostitutivo dello Stato comporta che questo emani disposizioni nelle materie di competenza regionale. Ma tali disposizioni si applicano solo dal momento di scadenza del termine stabilito per l’attuazione della normativa europea in questione, poiché solo da questo momento l’inerzia di una regione può dare luogo a una inadempienza e, pertanto, alla responsabilità dello Stato di fronte all’unione europea. Inoltre tali disposizioni si applicano solo nel territorio delle regioni che non abbiano ancora emanato la propria normativa di attuazione, poiché solo in tali regioni si determina un’inadempienza alla quale lo Stato deve porre rimedio. Infine, anche nei riguardi delle regioni inadempienti, le disposizioni statali perdono efficacia dal momento in cui le stesse regioni hanno provveduto a dare attuazione alla normativa dell’unione.
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