Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto "L'Arte del Primo Novecento", Federica Rovati, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

! ! L E G G E R E ! ! Riassunto dettagliato e schematico del libro "L'Arte del Primo Nevecento" di Federica Rovati, SENZA le schede delle opere di una pagina ciascuna che si trovano alla fine del libro (il libro è suddiviso in due parti: vari capitoli che illustrano il periodo storico-artistico e cinquanta schede di opere nella parte finale), poiché sono già schematiche di per sé. Preparato per l'esame di Storia dell'Arte Contemporanea del Prof. Giorgio Bacci.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 27/12/2019

GinyV.
GinyV. 🇮🇹

4.5

(460)

60 documenti

1 / 31

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "L'Arte del Primo Novecento", Federica Rovati e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! 1 Riassunto “L’Arte del primo Novecento” di F. Rovati Capitolo I – Avanguardia e tradizione: “Les Damoiselles d’Avignon”: Prime esperienze – Nel 1930 il Moma di New York allestì un’imponente retrospettiva su Picasso in cui “Les damoiselles d’Avignon” figurava tra le opere principali. Il dipinto era stato respinto con disagio dai pittori ai quali era stato mostrato nel 1907, appena terminato, e pubblicamente nel 1916 a Parigi, quando venne presentato con il titolo attuale. Il riscatto al MoMA – Successivamente passò alla galleria Seligmann e, nel dicembre del 1937, arrivò al MoMA, dove venne considerato da alcuni membri del comitato come il dipinto più importante del ventesimo secolo ed il primo dipinto cubista. Il MoMA aveva puntato su questa lettura già dal 1936 quando era stata organizzata la mostra “Cubism and Abstract Art”, per l’occasione tuttavia il museo aveva dovuto accontentarsi di una riproduzione in catalogo con il titolo “The young ladies of Avignon”. La versione inglese spegneva tuttavia la scabrosità del soggetto e cinque prostitute diventavano giovani signore. La metà del secolo – A mezzo secolo dalla realizzazione del dipinto, quando l’astrattismo era ormai storicizzato si è cominciato a ripensare l’opera dentro il percorso storico dell’arte contemporanea, non come anticipazione di evoluzioni successive, ma come esito di esperienze precedenti di cui il pittore sarebbe variamente nutrito. Ci si è quindi interrogati sulle fonti picassiane dal passato recente con impressionismo e postimpressionismo, a quello ottocentesco del “Bagno turco” di Ingres, da quello più antico come Michelangelo o El Greco, fino ai reperti dell’Art Nègre.  Nel momento in cui si è ammessa nel dipinto più dirompente del Novecento la persistenza di un sedimento antico, l’intera esperienza dell’arte d’avanguardia ha potuto essere ripensata fuori dagli schemi abituali della dissacrazione impertinente e della contestazione radicale, per essere apprezzata nella sua vocazione metalinguistica, come riflessione su tutta l’arte. Gli anni ’70 – Un nuovo mutamento critico è avvenuto all’inizio degli anni ’70, quando ci si è interrogati su “Les damoiselles d’Avignon” dal punto di vista contenutistico: non bastava riconoscere la discendenza del soggetto dei temi postribolari già affrontati da Degas a da Toulouse-Lautrec, adesso si potevano mettere le mani sull’opera documentata dai taccuini di studio di Picasso, finalmente disponibili. Si giunse così alla consapevolezza che l’opera finale era un risultato consapevolmente cercato. Ulteriori approfondimenti – Da questo punto di partenza sono poi stati sviluppati ulteriori approfondimenti, ad esempio per quanto riguarda l’interpretazione dei volti delle donne: essi sono privi di riferimenti concreti all’arte tribale africana, ma rispecchierebbero le deformazioni fisiognomiche provocate dalle malattie veneree, plausibili in quel contesto tematico, pertanto l’opera rappresenterebbe il drammatico conflitto tra attrattiva erotica e terrore mortale vissuto in prima persona del pittore. Picasso avrebbe colto lo spessore magico dei feticci, facendo del dipinto una sorta di esorcismo contro le proprie ossessioni. Indagini più recenti hanno preferito legare l’opera al contesto storico del colonialismo francese, come una scomoda polemica verso pregiudizi razziali e violenze perpetrate dai coloni europei. L’Avanguardia: Il Salon d’Automne – “Il bagno turco” di Ingres fu presentato per la prima volta in pubblico al Salon d’Automne – esposizione d’arte che si tiene ogni anno a Parigi dal 1903, anno della sua fondazione 2 per iniziativa del belga Frantz Jourdain, e che si pose sin dalle origini come manifestazione di rottura nei riguardi delle esposizioni più ufficiali, compreso il Salon des Indépendants – del 1905, all’interno di una retrospettiva che contribuì a inserire la lezione del pittore ottocentesco nel solco dell’avanguardia. La retrospettiva su Ingres si inseriva in una verifica delle radici dell’arte contemporanea che il Salon d’Automne aveva avviato fin dalla fondazione nel 1903, con retrospettive su Gauguin, Cézanne, Puvis de Chavannes, Manet ecc. Ciò che interessava nel lavoro dei postimpressionisti era la riconosciuta autonomia della pittura rispetto alla realtà visibile: da questo concetto i pittori dell’avanguardia spingevano più forte sul pedale dell’astrazione, impedendo sempre più la riconoscibilità immediata delle figure e provocando l’inevitabile diffidenza del pubblico. Lo studio dell’antico – La mostra sui primitivi francesi, allestita al Louvre nel 1904, contribuì a far acquisire al vocabolario critico la gaucherie, cioè la presunta goffaggine degli artisti medievali, come termine però positivo. Nella nuova pittura infatti l’evidenza della pennellata, il non finito e gli equilibri precari non erano lo sbocco di un’ingenuità maldestra, ma il frutto di una riflessione consapevole. Ciò che disturbava nell’avanguardia era però l’eccesso intellettualistico: la pittura si era sempre nutrita di pittura, ma lasciar trasparire ostentatamente il riferimento colto era un vizio dei nuovi pittori. Esempi di ciò furono “L’età dell’oro” di Ingres o “La danza” di Derain, che rileggeva le sculture delle cattedrali di Autun e Souillac attraverso il filtro di Gauguin, e soprattutto “La gioia di vivere” di Matisse, i cui colori dissonanti sembravano una dissacrazione del tema pastorale e della sua caratteristica armonia. Crollava in realtà tutta la retorica imbastita sull’arte antica, assieme alla convinzione che lo studio del passato dovesse esaurirsi nell’imitazione. La critica tradizionalista stentava a comprendere le ragioni del crescente interesse per i dipinti di Cézanne, ma anche lui aveva studiato i maestri del Louvre. La famosa frase dell’artista secondo cui tutto nella natura si modella su sfera, cono e cilindro, significava che dapprima bisognava imparare a dipingere su queste figure semplici e poi si poteva fare ciò che si voleva. La riflessione sul passato impressionista – Da una posizione appartata De Chirico, appena trasferitosi a Parigi, notò che l’impressionismo secondo lui sembrava soltanto giustificare i difetti di chi, non sapendo dipingere, improvvisava qualche fregio su tela. Da parte loro i cubisti si proclamavano eredi della genuina tradizione francese. Furono i futuristi a rimettere in gioco l’eredità impressionista, di cui proseguirono la scelta di temi di vita contemporanea, nei loro tipici soggetti urbani ed nell’esasperazione del fondamento cromatico. Apollinaire cominciò a ripensare con diversa generosità all’Impressionismo nel momento in cui avvertì l’esigenza di fare causa comune contro le offese reazionarie: l’Impressionismo aveva scardinato secoli di pittura fondati su una visione prospettica italiana. Per i futuristi non si doveva retrocedere oltre l’Impressionismo, tant’è che Boccioni asserì: “Noi italiani moderni siamo senza passato”. Non soltanto quindi il futuro, ma anche il passato poteva essere inventato scegliendo con libertà i propri riferimenti. Le denominazioni:  Fauves – Si deve al critico Louis Vauxcelles l’uso del termine “Fauves” letteralmente “belve” per definire Matisse, Derain e altri pittori che si presentarono al Salon d’Automne del 1905, esprimendo in modo icastico l’inaudita violenza dei dipinti. Vauxcelles riconobbe dapprima un’attitudine feroce nell’inevitabile ostilità del pubblico, e soltanto in seconda battuta formulò il paragone più noto, attribuendo questa volta ai pittori e non al pubblico l’atteggiamento aggressivo. Il pubblico era esposto all’oltraggio delle opere, mentre gli artisti erano esposti all’oltraggio del pubblico. Si riproduceva il meccanismo che aveva 5 Il Primitivismo: Origine – Sembra che sia stato il pittore francese Maurice de Vlaminck ad acquistare il primo alcuni esemplari di Art Nègre: tre statuette yoruba comprate per pochi soldi in un bistrot di Argenteuil e una maschera Fang furono i primi oggetti tribali a entrare nello studio di un artista nell’autunno del 1906. Di essi non interessava l’antichità, la distinzione fra prototipi originali e repliche commerciali e neanche la provenienza, bensì la logica formale di quegli oggetti, in cui le proporzioni del corpo umano risultavano alterate eppure convincenti. Era l’estraneità alla tradizione occidentale ad attrarre lo sguardo degli artisti già impegnati nella revisione dei linguaggi figurativi.  Erano state le politiche coloniali a divulgare gli stereotipi negativi sul popolo africano per giustificare i crimini commessi dai governi europei, che avevano insistito nel raccontare pratiche di cannibalismo e di stregoneria in uso presso gli indigeni, sui quali si doveva dunque esercitare un intervento civilizzatore. Tuttavia le nuove generazioni erano attratte dalla dimensione istintuale della società tribale:  Die Brücke – Per i giovani del Die Brücke, l’arte tribale era espressione di un mondo selvaggio e quindi genuino, in un tempo in cui si avvertiva la perdita di valori spirituali.  Matisse – Nell’avanguardia parigina invece nessuno si immaginava di ripetere l’avventura gauguiniana. L’improvvisa insistenza di Matisse sulle emergenze globose del “Nudo blu” provocò a livello unanime la riprovazione al Salon des Independants del 1907: quell’immagine muliebre non era soltanto brutta ma era anche oscena.  Picasso – Fu Picasso a cogliere il valore di quella provocazione estetica e morale, insistendo sulla componente più scomoda dell’Art Nègre, ossia lo spessore rituale che la retorica colonialista aveva stigmatizzato come espressione superstiziosa. Picasso avrebbe poi ricordato la visita al museo etnografico del Trocadero nel giugno 1907 – mentre “Les damoiselles d’Avignon” era in lavorazione – nel quale la suggestione degli oggetti accumulati in modo disordinato senza teche protettive e sotto strati di polvere era ripugnante, sembrava un mercato delle pulci e anche l’odore era sgradevole, tuttavia la rivelazione sconvolgente di quegli oggetti risiedeva nelle funzioni rituali: le maschere non erano sculture come le altre, ma cose magiche, delle armi, che lo aiutarono a dare forma alla disputa senza fine fra erotismo e morte.  Futuristi – I futuristi dal canto loro utilizzarono come perno il concetto di “primitivo” per dire che essi erano i soli primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata, e c’era un che di barbarico nella vita moderna che li ispirava. Altri “primitivi” – Nel dopoguerra l’attenzione degli artisti si allontanò gradualmente dall’arte africana, la cui diffusione aveva ormai costituito una moda troppo facile, per cui si comprende come Picasso volesse prenderne le distanze. L’attenzione si spostò verso altre latitudini, mentre l’Art Decò declinava nell’oggettistica e nell’arredamento le squadrature dei feticci africani, l’arte oceanica colpiva per la propria disarmante leggerezza e i manufatti imunu e maori destarono l’interesse soprattutto dei surrealisti. Gli artisti cercarono le tracce di tradizioni autoctone che correvano in parallelo all’eredità accolta dell’arte occidentale: ogni luogo ne era segnato. Kandinsky guardò ai lubki i russi, alle pitture su vetro e agli ex voto bavaresi, Carrà ragionò sulla sintassi slegata degli almanacchi popolari, Hartley individuò nel popolo pellerossa la radice dell’arte statunitense da far rivivere nella serie “Amerika”. 6 Dal primitivismo all’Art Naïf – Quando “Antilope assalita da un leone” di Henri Rousseau fu esposto al Salon d’Automne del 1905, i critici chiamarono in causa referenti disparati per giustificarne la semplificata sintesi formale: stampe giapponesi, miniature persiane, mosaici bizantini, l’arazzo di Bayeux. Tuttavia, nelle intenzioni di Rousseau, quella che i contemporanei riconoscevano come espressione dell’ingenuità irrimediabile di un artista non professionista era invece frutto di un’applicazione tenace che vantava a proprio sostegno il parere di illustri accademici. La semplicità non era una premessa all’esercizio artistico, ne era invece l’approdo. Nel 1908 l’acquisto da parte di Picasso del “Portrait de Femme” di Rousseau sancì per l’autore un riconoscimento di valore nell’ambito dell’avanguardia francese destinata al prolungarsi nei decenni successivi. La leggibilità immediata delle immagini, il loro nitore, la perspicuità dei dettagli erano doti accademiche ma producevano un effetto straniante nei suoi dipinti, poiché saltavano le proporzioni tra figure e fondo, gli oggetti si allineavano come nelle insegne delle osterie e la scatola prospettica era negata.  L’Art Naïf è stata un tipo di arte caratterizzata da una semplificazione concettuale e da una certa modestia tecnica ed esecutiva, sia nel disegno che nella stesura del colore e nell’impianto prospettico e compositivo d’insieme; di tali caratteristiche possedeva comunque una consapevolezza, distinguendosi in ciò dall’arte propriamente primitiva, anche se essa è talvolta indicata come “arte neo-primitiva”. Tracce di Art Naïf Anche in Matisse: nelle figure si producevano le caratteristiche inversioni nella definizione della figura umana come nelle figure centrali de “Les damoiselles d’Avignon” di Picasso o nel ritratto della figlia Marguerite firmato da Matisse nel 1907, in cui l’intera definizione di Marguerite adotta la scorciatoia del linguaggio infantile, persino nel nome scritto in alto con una grafia incerta. Ma ciò che soprattutto tra gli artisti era la forza incisiva dei disegni infantili che imponevano una personale visione del mondo fatta di linee sbilenche ed equilibri precari. Dall’Art Naïf al Surrealismo – Per i critici conservatori, la fortuna crescente di Rousseau confermava l’imbarbarimento dell’arte contemporanea, tutta rivolta verso l’arte africana, ma per gli artisti c’erano anche altri territori contigui da esplorare come l’arte popolare, i disegni infantili, le creazioni degli alienati mentali.  Ciò che accomunava i vari linguaggi era la capacità di tradurre la realtà secondo una logica non visiva che per gli uni arriva in modo istintivo, mentre per gli artisti dell’avanguardia scaturiva da una riflessione intellettuale. Mentre i disegni infantili attraevano gli artisti come espressioni autentiche dell’istinto artistico, proprie di uno stadio prerazionale, i lavori dei malati di mente aprivano lo sguardo su una condizione estrema, dove la ragione aveva deragliato dalla logica comune. Il pazzo poteva essere assunto dall’artista moderno quale alter ego di se stesso, tant’è che, per Duchamp, Rrose Sélavy non era soltanto uno pseudonimo, ma un altro personaggio da interpretare sulla scena dell’arte. I surrealisti preferirono lavorare sul confine instabile in cui ragione e follia si scambiavano, far emergere quei contenuti scomodi che i pazzi lasciano fluire senza controllo e gli uomini comuni sfogano invece nei sogni. Nelle tecniche del frottage, del grattage e del dripping, messe a punto dal surrealista Max Ernst, l’intervento conscio avveniva soltanto alla fine del processo creativo per estrarre un possibile significato da un groviglio insensato disegni, così come la psicoanalisi offriva una chiave interpretativa all’irrazionalità dell’esistenza. Per Dalì l’arte stessa era una manifestazione 7 psicotica ed il suo cosiddetto “metodo paranoico-critico” si basava su un meccanismo di associazioni fra cose reali e ossessioni personali che emergevano dai ricordi d’infanzia. Il “ritorno all’ordine”: Picasso – I termini del confronto fra avanguardie e tradizione si fecero più aspri con lo scoppio della guerra. Fu soprattutto il cubismo a cadere in giudizio poiché si era appoggiato, in ambito parigino, a mercanti tedeschi, pertanto esso apparve come un fenomeno da combattere con forza. Il distacco da Braque, partito per il fronte, i lutti, la solitudine parigina e le nuove alleanze mercantili dovettero convincere Picasso che una stagione di lavoro si era ormai conclusa. L’esperienza dell’avanguardia non era però archiviata, semplicemente non aveva più valore esclusivo perché era venuta meno la convinzione – propria dell’ottimismo prebellico – che essa fosse l’approdo irrevocabile del percorso storico dell’arte. Picasso dunque non solo ricominciò a dipingere opere figurative, ma si affidò anche alla lezione di Ingres. Ciò era un modo per rilanciare, non sconfessare, le proprie convinzioni: il tirocinio dell’avanguardia aveva fatto maturare un’intelligenza della forma nel pittore che l’apprendistato accademico non avrebbe mai potuto insegnare. Picasso continuò a scommettere sulla lezione di Ingres come garanzia di non ovvietà per il proprio lavoro, ma ciò che distingueva i lavori picassiani era la tensione che premeva sotto la tenuta impeccabile del segno grafico, come se questo dovesse reprimere un’energia sul punto di traboccare. Nacquero disegni stupefacenti per economia di mezzi e intensità di risultati, affidati al nitore esclusivo della linea nera sul foglio bianco, ai suoi spessori variati, alle improvvise impuntature nervose. Cosa significa “ritorno all’ordine”? – La formula del “ritorno all’ordine” siglò in modo persuasivo il generale processo di conversione dei linguaggi artistici nel dopoguerra. La formula del ritorno all’ordine fece subito presa ma si caricò di significati diversi nel corso degli anni, fino a capovolgerne l’accezione originaria per esprimere la preminenza dei linguaggi figurativi su quelli di matrice cubista, ovvero la rinuncia allo spirito provocatorio dell’avanguardia e sinonimo di tradizione, classicità, Accademia. Nella percezione generale, “Avanguardia” significava infatti disordine formale e anarchia sociale, quindi l’ordine poteva essere ricostruito soltanto in alternativa ad essa. I tradizionalisti più stanchi trovarono una rivincita nel nuovo clima artistico, ma si poteva percepire il pessimismo sotteso alle rinate ricerche figurative. L’ultimo impressionista – Nonostante l’occasione ufficiale il padiglione delle Ninfee di Monet all’Orangerie non attrasse il pubblico parigino il giorno dell’inaugurazione nel 1927, né ebbe maggiore fortuna negli anni seguenti. Quelle opere furono considerate con la condiscendenza che si doveva ad un maestro della vecchia generazione, scomparso da pochi mesi, all’età di 86 anni. Le ninfee sembravano rivelare tutte le difficoltà dell’età avanzata del maestro: dall’estraneità al proprio tempo, alla nostalgia di atmosfere decadenti, dal rifugio in un mondo privato al disimpegno tematico. Eppure, quel ciclo era stato concepito come un omaggio alla nazione francese all’indomani della vittoria, infatti i fiori sospesi sul fondo malato dell’acqua erano segno di una rinascita dai dolori della guerra e, in particolare, significavano anche l’elaborazione di lutti personali del pittore: la morte della moglie e di un figlio. Ma ciò che lasciava perplessi di quell’opera era proprio la sua inadeguatezza in quanto opera murale. Il padiglione allora era stato appositamente allestito per ospitarle, ma le ninfee ignoravano quei valori di stabilità e di disciplina formale che la pittura murale doveva desumere dai modelli rinascimentale: la superficie dell’acqua invadeva tutto lo spazio della tela e non c’era orizzonte né ordine. Inoltre, le ninfee incollate sulle pareti concave di due sale ellittiche e disuguali circondavano l’osservatore 10 di valore metaforico, ma anche tragiche realtà umane: nei dipinti di Dix erano i reduci con arti ridotti a moncherini e protesi di fortuna che avevano invaso le città tedesche alla fine della guerra. Il recupero degli ambienti chiusi – L’elezione tematica dell’atelier – come abbiamo visto in precedenza nel contesto novecentesco – e degli interni domestici segnò in modo significativo la pittura italiana degli anni ’20, in alternativa vistosa al decennio precedente: se i manifesti futuristi avevano proclamato la necessità di una compenetrazione tra persone, cose e luoghi, esplorata attraverso una pittura ed una scultura che spalancassero la figura e racchiudessero in essa l’ambiente, adesso, all’opposto, si ammettevano la volontaria segregazione del pittore in una dimensione privata e la sua concentrazione esclusiva sul mestiere senza interferenze esterne. Tradizione, pensiero e realtà – La pittura metafisica ne fornì l’esempio più convincente: ponendo l’arte come fatto separato dalla vita, essa consentiva un rinnovato dialogo con la tradizione antica. Spazio oggettivo e spazio mentale si sovrapponevano e sempre più spesso le scene di interni divennero metafore della dimensione intellettuale dell’artista, secondo la trasfigurazione in chiave immaginifica di un ambiente privato, propria della Metafisica. L’importanza della tecnica in De Chirico – Dall’alto di una sapienza tecnica sempre più esperta, che aveva acquisito attraverso: - L’osservazione dei dipinti nei musei; - Un tirocinio sperimentale con tempera e diluenti; - La lettura di trattati medievali e rinascimentali, De Chirico si pose in un’alternativa orgogliosa alla pratica sbrigativa degli artisti moderni, con tele e colori di produzione industriale; egli continuò a denunciare la sciatteria dei pittori contemporanei, compresi Cézanne, Van Gogh e Gauguin. Felice Casorati – I dipinti di Felice Casorati rientrano all’interno di questa revisione pittorica, senza essere iscritti tuttavia all’interno del recinto metafisico. Le sue opere infatti, caratterizzate dal filtro formale e dalla dimensione del sogno della pittura quattrocentesca, sono state avvicinate dai critici al cosiddetto “realismo magico”, una corrente pittorica della prima metà del Novecento che si identifica per una visione lucidamente attonita del reale. Ad uno sguardo attento, alcune presenze nelle opere di Casorati svelavano l’inganno di matrice metafisica, con vedute urbane incongrue ai luoghi della vita e del lavoro del pittore (la casa, lo studio, la scuola di pittura ecc.) e giochi di volumi e di ombre impossibili. Anche i titoli delle opere erano fuorvianti: “Maria Anna de Lisi”, “Silvana Cenni” non erano ritratti, poiché i nomi erano fittizi, così come “Lo studio” non era l’atelier del pittore, ma la proiezione di un discorso personale sul senso e sugli strumenti della pittura. Le sue opere mostravano la persistenza di una disciplina antica nell’esercizio quotidiano della pittura ma – ancora una finzione – il pittore non aveva avuto una formazione accademica ed il suo studio era tutt’altro che ordinato. L’Avanguardia Sovietica e Tedesca: La didattica nell’Avanguardia – Era nella logica dell’Avanguardia resistere ad ogni irrigidimento normativo, tuttavia negli anni ’20, nei contesti politici più tesi, cioè quello tedesco e quello sovietico, si credette alla possibilità di rifondare l’intero sistema dell’arte a partire da strumenti didattici inediti. L’ingresso di Malevič presso l’Istituto d’Arte a Vitebsk portò alle dimissioni di Chagall che ne era il direttore. Nel frattempo, all’istituto di cultura artistica di Mosca, le scelte di Kandinskij provocarono l’ostilità di quanti premevano per un rinnovamento radicale della didattica su fondamenti oggettivi, 11 non inquinati da soggettivismo e psicologismo. Malevič si trovava sempre più isolato, perché non si conciliava con le finalità pratiche del governo sovietico, pertanto si trasferì a San Pietroburgo. Nello stesso anno Kandinskij tornò in Germania su invito di Gropius per insegnare al Bauhaus, dove Klee era appena arrivato, Schlemmer lavorava da un paio di anni, Itten dirigeva fin dalla fondazione il corso propedeutico. Il Bauhaus e i suoi maestri – Nel programma del Bauhaus – una scuola di architettura, arte e design che operò in Germania dal 1919 al 1933, nel contesto storico-culturale della Repubblica di Weimar, erede delle avanguardie anteguerra, che rappresentò anche il punto di riferimento fondamentale per tutti i movimenti d’innovazione facenti parte del cosiddetto movimento moderno – nel 1919, si precisava in realtà che non l’arte, ma soltanto l’artigianato, ossia l’esercizio del mestiere, poteva essere insegnato. La didattica dei vari insegnanti era diversa:  Itten – La didattica di Itten intendeva sviluppare le capacità individuali attraverso esercizi liberatori e rivelatori della creatività innata degli studenti: non c’erano modelli da imitare, come prevedeva la didattica tradizionale;  Rodčenko – Il programma di Rodčenko reimpostò la didattica nei termini dell’arte costruttivista, i cui vocaboli essenziali erano di natura geometrica e la loro identità astratta insegnava a ragionare in termini di spazio e di volume, senza interferenze soggettive;  Kandinskij – Egli aveva inizialmente negato la possibilità di articolare una teoria dell’arte e quindi una didattica, perché la nuova pittura scaturiva da un’incoercibile necessità interiore. Quando Kandinskij approdò al Bauhaus, Itten si era già dimesso e il suo metodo insegnamento era accusato di anacronismo. Successivamente però Kandinskij riorganizzò i suoi corsi sugli elementi primi del linguaggio artistico (punto, linea e superficie). Le griglie ortogonali del neoplasticismo gli apparivano come una mortificazione delle enormi possibilità creative dei linguaggi aniconici: ogni segno esprimeva una condizione spirituale e le reciproche interrelazioni fra i segni producevano il significato lirico o drammatico dell’opera. Era essenziale definire quindi un vocabolario di segni, suscettibile di integrazioni e variazioni per giungere in futuro da una grammatica dell’arte che varcasse i limiti delle singole discipline;  Moholy-Nagy – L’attività di Moholy-Nagy contribuì ad agganciare la didattica del Bauhaus alle esigenze della produzione industriale, senza tuttavia obbligare l’attività artistica a esclusivi scopi funzionali, come pretendevano i sovietici, ma ammettendo anche la possibilità di ideare oggetti privi di utilità pratica. Moholy-Nagy approntò insieme a Gropius un programma editoriale per la scuola del Bauhaus, soltanto in parte realizzato, che esprimeva la vocazione interdisciplinare dell’istituzione e prevedeva volumi di politica e scienze sociali, assieme a testi di Klee e Kandinskij sulla teoria della forma, di Malevič suprematismo, di Gleizes sul cubismo, di Gropius e di Oud sull’architettura, dello stesso Moholy-Nagy, Schlemmer e Molnár sul teatro;  Malevič – Nell’“Introduzione alla teoria dell’elemento aggiunto in pittura” redatta nel 1926, Malevič riassunse la propria esperienza didattica, svolta fra Vitebsk e San Pietroburgo. Egli aveva individuato nei vari linguaggi artistici la presenza di un dato linguistico peculiare: nella pittura di Cezanne era la curva fibriforme, nel cubismo la curva falciforme, nel suprematismo la linea retta; Lo studente era dunque chiamato a confrontarsi con la grammatica di questi diversi linguaggi per misurare la propria vocazione, nella convinzione che l’errore peggiore fosse l’eclettismo, ovvero mischiarli tutti. Il suprematismo era imposto come una conquista da guadagnare attraverso passaggi successivi che non tutti gli studenti riuscivano però a raggiungere. 12 La fine del Bauhaus – Davanti ai condizionamenti sempre più gravi della politica Sovietica, Malevič era ormai consapevole dell’inutilità di ogni sforzo, di fronte agli imperativi dell’utilità e della necessità imposti dallo Stato. Nel 1927 la partenza di Moholy-Nagy dal Bauhaus segnò la fine del progetto didattico della scuola. Il Bauhaus abbandonò l’originaria vocazione interdisciplinare per perseguire obiettivi commisurati alle esigenze pratiche della società contemporanea, per formare specialisti della produzione industriale, non artisti. Klee e Kandinskij furono estromessi dai corsi principali. Critica d’arte d’Avanguardia – Nel primo Novecento furono molti gli artisti che impugnano la penna per scrivere articoli, libri o manifesti, per urgenza polemica, ambizione teoretica o necessità economica. Scrivere per gli artisti era inoltre un modo di difendersi dagli attacchi pregiudiziali del pubblico e della critica (“La critica d’arte è la peggiore nemica dell’arte!” accusava ad esempio Kandinskij), spiegare le proprie scelte, mostrare quanta la ragionevolezza vi fosse sotto le bizzarrie e le assurdità apparenti. Secondo Boccioni, soltanto il giovane Longhi aveva risolto il problema di come intendersi pittoricamente parlando, per il resto egli aveva classificato gli “Otto tipi di critica imbecille”. Nella New York del 1917 l’editoriale della rivista “The Blind Man” pose direttamente la questione di imparare a vedere l'arte moderna così come si impara una nuova lingua; la testata mostrava un critico cieco guidato a un’esposizione di arte contemporanea da un cane. Le riviste dell’Avanguardia – In alcuni casi l’Avanguardia entrava in una rivista già impostata come accadde con l’innesto futurista nella fiorentina “Lacerba”. In altri casi essa riusciva a fondare una propria rivista, come il Dadaismo zurighese con “Dada”. Per gli artisti che lavoravano lontani dai centri principali la circolazione delle riviste offriva uno strumento essenziale di aggiornamento e nei casi più fortunati una rivista poteva dare corpo a nuove tendenze artistiche: fu il caso di De Chirico, Carrà, Morandi, e Martini, i cui valori plastici furono diffusi a livello internazionale con esiti decisivi sull’arte tedesca negli anni ’20. Mentre le testate che si facevano portavoce dei vari “ritorni all’ordine” difendevano le identità nazionali, le riviste d’Avanguardia promuovevano all’opposto aperture internazionali nella convinzione che i nuovi linguaggi avrebbero finalmente potuto imporsi dopo la tabula rasa della guerra. Infine, la lettura delle riviste offrì una serie di intersezioni e collaborazioni per l’arte nel primo Novecento, ad esempio “De Stijl” era portavoce del neoplasticismo, ma entrò in dialogo con Severini, Carrà, Archipenko e soprattutto con i dadaisti, con i quali il rigore di un Mondrian non sembrerebbe avere possibilità di dialogo. L’Avanguardia e il teatro – Lo spazio teatrale apparve come un luogo congeniale alla verifica di queste interferenze, obbligando gli artisti a uscire dalla dimensione privata dello studio per affrontare direttamente il pubblico. Le serate futuriste prevedevano che le declamazioni liriche e la lettura dei manifesti si concludessero con diverbi e colluttazioni con gli spettatori. Il teatro futurista si appropriò dei meccanismi parodistici e del ritmo svelto del teatro di varietà, nella caratteristica contaminazione fra registri culturali alti e bassi, tutto era sottoposto ad una satira mordace. Ne fu un esempio:  “Parade” di Cocteau e Picasso – Lo spettacolo “Parade”, allestito al Théâtre du Châtelet parigino, nel maggio 1917, sotto la direzione di Cocteau, con le scenografie di Picasso, mostrò – per cui è inutile dire che la prima fu un fiasco – le caratteristiche del teatro d’Avanguardia: un sipario figurativo si apriva su una sfera cubista, lo spettacolo vero e proprio era composto da giochi di saltimbanchi, inganni di prestigiatori e travestimenti di attori. “Parade” era una metafora del rapporto fra artisti e pubblico. L’armatura di cartone dei manager picassiani richiamava le vecchie figure degli ambulanti e allo stesso tempo rielaborava l’attrezzatura degli uomini-sandwich che portavano sulle spalle e gli annunci pubblicitari, fornendo un’altra 15 colore in funzione astrattiva: il colore consentiva loro infatti di allargare la distanza fra pittura e realtà. Quando coniò il termine “Orfismo”, Apollinaire volle significare questa aspirazione. Il colore in Delaunay – Delaunay, esponente di quello che è stato definito “cubismo orfico”, continuava ad interrogarsi sulla possibilità di liberare la luce e il colore dagli oggetti rappresentati, per conferire al quadro una struttura autonoma fatta di luce e colore: quest’ultimo non era un attributo della pittura, ma era la pittura stessa. Egli proseguì le indagini scientifiche di Seurat, per cui il colore costruiva l’ossatura dei dipinti, produceva le varie forme che articolavano la superficie pittorica, come ad esempio ne “Les Fenêtres” del 1912. Il colore in Kandinskij – Le improvvisazioni di Kandinskij confortarono la convinzione dell’autonomia linguistica del colore, ma non condizionarono la ricerca di Delaunay, poiché egli era affascinato dal dato fisico, non psichico. Il colore nel De Stijl – Gli esponenti di De Stijl elessero tre colori primari: giallo, rosso e blu, come unici colori possibili. Mondrian si impegnò in un’analisi serrata dei dipinti propri e altrui, allo scopo di liberare la pittura dagli ultimi residui naturalistici. Quando egli vide i propri dipinti riprodotti in bianco e nero sulle pagine di “De Stijl” egli avvertì la monotonia prodotta dall’uso di colori contigui sulla scala tonale e la concentrazione sui colori primari apparve quindi inevitabile per tenere in tensione la composizione. In seguito furono aboliti i grigi, per privilegiare gli estremi del bianco e del nero. Poi gli spazi bianchi iniziarono a dilatarsi fino a confinare il colore ai margini della tela. Il colore nel Suprematismo – Nelle tele suprematiste il colore non costituiva un aggettivo della forma, erano piuttosto le figure geometriche ad offrirsi, per la loro neutralità, come concrezioni oggettive del colore.  Malevič – “Quadrato nero” fu per Malevič l’esito estremo del processo di riduzione della pittura ai suoi elementi costitutivi e, insieme, il primo vocabolo di una lingua nuova. Mentre il “Quadrato rosso” evocava un sottotitolo esplicativo del soggetto sottinteso, ossia una contadina, il “Quadrato nero” viveva in una dimensione assoluta: il nero non era una negazione del colore, ma la somma di tutti i colori possibili. Malevič avvertì l’esaurimento delle possibilità pittoriche soltanto in seguito a questa felice stagione creativa, che avrebbe poi scandito sotto l’insegna di tre colori simbolici: 1. Il nero, equivalente alla massima economia dei mezzi pittorici; 2. Il rosso della rivoluzione; 3. Il bianco della pura azione; La conclusione fu “Quadrato bianco su bianco”, in cui l’azzeramento dei contrasti cromatici indeboliva la presenza dell’icona astratta per eccellenza, ovvero il quadrato, appena percepibile sul fondo. Il bianco significava l’estinzione del colore.  Rodčenko – Sull’evidenza della fattura pittorica insistette anche Rodčenko nel dipinto “Nero su nero”, esposto alla collettiva moscovita del 1919, in cui Malevič presentava il suo “Bianco su bianco”. Lo scarto avvenne nel 1921, quando Rodčenko presentò tele monocrome con campiture uniformi di giallo, rosso e blu. Quando l’artista presentò queste tele monocrome, il segretario dell’Istituto di Cultura Artistica di Mosca, Tarabukin, vi ravvisò la fine di un percorso millenario: il grado zero raggiunto dalla pittura, che ne segnava di fatto la sconfitta. In seguito anche Rodčenko finì per considerare le esperienze pittoriche “inutili come una chiesa”. Il colore in Matisse – Quanto a Matisse, divenuto inabile nel dipingere al cavalletto, per le conseguenze di un’operazione chirurgica, egli iniziò a ritagliare e a comporre delle carte, colorate a 16 mano dai suoi assistenti; i cosiddetti “papier découpé” venivano attaccati con delle puntine ai muri ed erano spesso foglie, fiori e frutti che trasformavano l’atelier in un giardino. Matisse in questo modo non stava davanti alla propria opera, ma vi era letteralmente immerso.  Nella creazione dei découpé, Matisse trovò la soluzione della dialettica fra disegno e colore in cui aveva sempre ragionato: il movimento delle forbici infatti non seguiva una traccia grafica, ma ricavava i profili delle figure direttamente dentro il colore, così come il colore non riempiva la sagoma individuata poiché di fatto preesisteva alla definizione delle singole forme. Il colore nel Cubismo – Nel sodalizio fra Picasso e Braque, muovendo da esperienze differenti, essi giunsero a ripensare il linguaggio della pittura nella sua specifica qualità segnica, mortificando il colore fino a una gamma monocroma, sui toni del grigio e del bruno e frantumando il disegno fino a ridurlo a brevi segmenti lineari. Non ci fu un calcolo programmatico, ma un processo istintivo. La logica chiaroscurale non poteva più sussistere perché non c’erano volumi da tornire, la realtà era bidimensionale. Il colore in Mondrian – Sulla base delle indicazioni estreme di Picasso e Braque, più prossime alla dissoluzione del dato iconico, Mondrian si impegnò a indebolire nella pittura lo spessore delle cose, per ridurne e infine annullarne la presenza. Egli estrasse dapprima brevi segmenti orizzontali e verticali, ponendoli in evidenza sul fondo bianco della tela, poi conferì ad essi un’evidenza nitida, ponendoli in dialogo con le note timbriche del colore, infine li portò a vivere nelle linee orizzontali e verticali intersecate ad angolo retto. Secondo Mondrian, l’equilibrio interiore dell’artista realizzava sulla tela una composizione armonica di componenti discordi e, attraverso il quadro, l’armonia poteva filtrare nella società, un procedimento che il pittore definì, con un termine ormai desueto e quasi assurdo nei discorsi della modernità, “bellezza”. L’utilizzo della scrittura nelle Avanguardie: I segni verbali nel Cubismo – Nel 1911 Braque sancì l’inserimento di parole – o meglio segni verbali – all’interno della trama pittorica. Inserire parole nella pittura non era insolito ed era già stato una risorsa per Gauguin, il quale imitò i tituli dei dipinti medievali. Ciò che mutava era però il senso dell’operazione dei lavori cubisti: ovvero la disintegrazione del dato figurale, che faceva guadagnare alle iscrizioni un valore paritario e non sussidiario all’immagine. Non c’era infatti alterità fra segni pittorici e segni verbali, questi ultimi erano parte integrante dell’oggetto raffigurato. Nei collages, le scritte ricavate dai materiali a stampa complicarono ulteriormente il sistema di relazioni tra segni iconici e segni verbali, poiché i ritagli cartacei esponevano un’effettiva consistenza oggettuale ma allo stesso momento funzionavano come segni di cose non fisicamente presenti. Si aprirono così possibilità infinite di giochi verbali. I segni verbali nel Dada – I dadaisti utilizzarono tutte le risorse stilistiche e retoriche per sorprendere e contraddire le abitudini e le attese dell’osservatore. Adottarono, ad esempio, le convenzioni del linguaggio enigmistico, formulando rebus, anagrammi ecc. L’effetto provocatorio della Monna Lisa di Duchamp non era affidato soltanto ai baffi, che sfiguravano il volto, ma anche all’acrostico “L. L. H. O. O. Q.”, in didascalia, lettere che se pronunciate in francese danno origine alla frase “Elle a chaud au cul”, letteralmente “Lei ha caldo al culo”, che significa “Lei è molto eccitata”. 17 I segni verbali nel Futurismo – Le “parole in libertà” di Marinetti e i calligrammi di Apollinaire furono le forme in cui maggiormente l’esercizio letterario si appropriò di una logica visuale. Le “tavole parolibere” furono le opere in cui i pittori futuristi si mossero verso la scrittura poetica: i segni verbali sostituivano le icone del linguaggio pittorico: scrivere e dipingere erano diventate operazioni equivalenti. I segni verbali nel Surrealismo – Nei cosiddetti “tableaux-poèmes”, eseguiti da Mirò alla metà degli anni Venti, le scritte non intervenivano soltanto come tracce verbali, ma anche come elementi iconografici, non erano soltanto parole da leggere, ma da vedere. Considerare quelle opere come dipinti era in dubbio, visto che la scrittura ne costituiva l’ordito essenziale, pertanto lo stesso pittore preferì lasciarne in sospeso la qualifica, riferendosi al loro con “X”. Nel dicembre 1929 sulle pagine della “Révolution surréaliste” Magritte articolò una dettagliata casistica delle possibilità di relazione fra icone, parole e cose, o delle loro difficile dialogo. Nel dipinto “L’usage de la parole”, Magritte ne offrì un messaggio di icastica evidenza scrivendo la didascalia “Ceci n’est pas une pipe” sotto l’immagine di una pipa: di fatto un’ovvietà, ma non così scontata. Cinema e Avanguardia: Esperimenti – Le potenzialità del cinema erano state subito intuite dagli artisti dell’Avanguardia, per quanto non avessero portato a risultati immediatamente conseguenti. Nel manifesto “La cinematografia futurista” del 1916 si avvertì il pericolo di spegnere la peculiarità visiva del cinema in narrazioni di impianto teatrale, mentre avrebbero dovuto trionfarvi le risorse linguistiche della pittura recente.  Kandinskij – Non trovarono realizzazione le idee di Kandinskij per una sequenza di immagini astratte che scorresse davanti agli occhi con un accompagnamento musicale;  Eggeling e Richter – Non ebbero neppure fortuna i primi avventurosi esperimenti di Eggeling e Richter per la produzione di un film astratto: i lunghi rotoli di disegni non risultano abbastanza precisi per l’occhio infallibile della cinepresa;  Man Ray – Invece vide la luce il film di Man Ray “Il ritorno alla ragione”, composto da pezzi di pellicola cinematografica impressionati in fretta con la tecnica del pirografo, tagliati e incollati senza criterio, fatto che costituì un episodio isolato. Di fatto, anche in ambito dadaista ci si accorse ben presto che il linguaggio cinematografico imponeva non una percezione distratta, ma un doppio livello di attenzione, per la definizione del singolo fotogramma e per il suo montaggio in sequenza: le risorse del montaggio erano essenziali quindi alle esigenze di un racconto che non volesse cedere a forme narrative tradizionali.  Leger – Anche Leger si diede agli esperimenti cinematografici. Nel suo “Balletto meccanico”, dove l’artista si divertiva ad alternare il viso impassibile della modella ai burattini da fiera, al balletto delle gambe finte nel finale, la frequenza con cui gli occhi della modella Kiki de Montparnasse tornavano nel montaggio eleggeva lo sguardo a unico strumento di conoscenza della realtà. Diversamente, nella sequenza ripetuta della lavandaia che, con il suo carico di biancheria, continua a salire la stessa scalinata, Leger apriva uno sguardo diverso sulla realtà contemporanea. Dal cinema americano a quello surrealista – Il fascino esercitato in quegli anni dai film di Charlie Chaplin era dovuto alla naturalezza con cui vi si trovavano mescolati i diversi piani espressivi della realtà. Fra commozione patetica e ironia, egli mostrava che ogni essere umano era un manichino di cui si andava a cercare la manovella. La densità semantica dei film surrealisti non richiedeva soltanto, nella sgradevole assurdità delle situazioni proposte in ogni singola scena, come ad esempio la carcassa 20 … A Calder e Giacometti – Adesso la scultura si librava nel vuoto e galleggiava nello spazio. Fu l’americano Calder a sviluppare la potenzialità di questa intuizione, proponendo delle sculture sciolte dalla legge di gravità, liberamente oscillanti nel vuoto. Dapprima si trattava di elementi di legno levigato o sospesi a fili di spago, poi sagome di alluminio verniciato fissate a fili metallici curvati dai contrappesi, per cui era stata decisiva – a detta dell’artista stesso – la vista di Mondrian. Per altri autori la scultura doveva invece cercare, all’opposto, un ancoraggio stabile al suolo, fino ad appiattirsi in orizzontale, proponendosi come un oggetto da esplorare dall’alto. Ciò accade con la “Femme égorgée” (“Donna sgozzata”) di Giacometti, che appariva come un insetto schiacciato, o uno strano carapace, un’opera il cui significato gravitava su contenuti scomodi e dava corpo a pulsioni sadiche. Capitolo IV – La realtà oggettuale: Avanguardia e nuove tecniche artistiche: Il collage: Picasso – Quando nel 1912 Picasso realizzò “Nature morte à la chaise cannée,” incollando un pezzo di tela cerata su una natura morta cubista, non fu subito consapevole della portata rivoluzionaria del suo atto. La tecnica del collage non era nuova a dire il vero: utilizzare un’immagine esistente, invece di raffigurarla in modo originale era una scorciatoia diffusa nell’arte popolare e nei giochi infantili, tuttavia quando essa venne portata all’interno dell’arte colta, bruciò secoli di tradizione pittorica fondata sul prestigio esclusivo del mestiere e fu questo ad attrarre gli artisti. De Chirico stesso osservò che il collage disimpegnava i pittori dalla perizia e dalla fatica del mestiere. L’ambiguità del collage – In “Natura morta con sedia impagliata” (“Nature morte à la chaise cannée”) Picasso diede avvio all’esplorazione delle infinite potenzialità del collage, esso poteva:  Alludere infatti alla presenza di una sedia presso la natura morta;  Oppure poteva funzionare quale inserto tautologico, come porzione effettiva di una tovaglia cerata stesa sotto gli oggetti dipinti; Dal momento che gli oggetti reali quindi non venivano soltanto raffigurati, ma potevano vivere direttamente nello spazio della pittura, non si può escludere che in “La bataille s’est engage” (“La battaglia è iniziata”), la chitarra costruita con le carte colorate fosse non soltanto un’interpretazione in chiave astratta dello strumento musicale, ma anche una mimesi della “Guitare” costruita in cartone da Picasso. I suoi lavori, inoltre, articolavano una contrapposizione fra:  La dimensione privata dei soggetti, ovvero le nature morte;  La sfera pubblica dei ritagli stampa, con notizie politiche e reportages di guerra. Per la loro natura ambigua i collages permettevano di tenere in tensione l’interrogativo fondamentale sul rapporto fra arte e realtà, per cui si chiedeva quando iniziava una e finiva l’altra. I “Merz”: Origine – Schwitters, artista dadaista tedesco, si diede alla particolare costruzione dei “Merz”: opere formate da lacerti di cose trovate per caso dall’artista nelle strade di Hannover: biglietti del tram obliterati, buste spedite, giornali sgualciti, francobolli timbrati ecc. 21  Nei “Merz” si accentuavano alcuni paradossi impliciti fin dall’esordio nella tecnica del collage, poiché si attribuiva un significato artistico e quindi un prezzo venale a opere che erano costituite non soltanto da materiali umili, ma da cose prive di valore commerciale, se non addirittura rifiuti. Inoltre, la condizione della Germania impoverita dalla guerra rendeva ancora più intenso il senso di cui recuperi, poiché nulla si poteva più sprecare. Ogni cosa poteva entrare in un Merz, Schwitters attribuì persino a se stesso questa funzione. I “Merzbau” – Nel grande Merzbau in cui lavorò per vent’anni, ovvero la sua abitazione a Hannover, senza che fosse più possibile distinguere fra dimensione artistica ed esistenziale, egli inglobò insieme a manifesti, collages e sculture, anche le tracce fisiche lasciate dai vari ospiti. L’opera si configurava così come una sorta di cattedrale, che accoglieva senza giudicare valore e miseria e dell’intera esistenza. Soltanto l’autore conosceva il percorso significativo che legava ogni oggetto ad una sua memoria. Ogni luogo vissuto impegnava Schwitters a creare un Merzbau, che lo realizzò nella propria casa delle vacanze, in seguito nei pressi di Oslo e anche in Inghilterra. Nei Merz, la congestione dei materiali in spazi ridotti produceva un effetto drammatico e, dietro ad ogni presenza, era percepibile un vuoto. Il fotomontaggio: Un collage dadaista – Già dalla serata inaugurale del Club dadaista berlinese, gli artisti avevano riconosciuto la necessità di raccontare la “brutale realtà” attraverso l’impiego di materiali nuovi nella pittura. I collages dadaisti avevano raccolto l’influsso:  Delle aperture cubiste;  Dei collages di guerra futuristi;  Insieme alla sintassi della pittura dechirichiana; Per i dadaisti, però, le forbici erano più che uno strumento di lavoro: esse erano una metafora del processo critico per cui l’intera realtà veniva sottoposta, con drastiche dissezioni e ricomposizioni inaudite. Il fotomontaggio consentiva era un ottimo strumento critico, poiché si appoggiava a materiali fotografici, cioè immagini dotate di immediata leggibilità ed altrettanto sicura credibilità, la cui alterazione produceva, per contrasto, un forte impatto visivo. Fotomontaggio e propaganda – Il fotomontaggio si prestava anche a scopi di propaganda e per questa ragione fu adottato in ambito costruttivista, quando la politica culturale sovietica cominciò pretendere una comunicazione più esplicita dei contenuti ideologici della rivoluzione. La dimostrazione più eloquente di ciò fu offerta da Lisickij, Klucis e Senkin alla Mostra internazionale della Stampa (in tedesco “Pressa”) che si tenne a Colonia nel 1928, in un fotomontaggio lungo 20 metri, articolato sulle componenti figurali tipiche della propaganda sovietica:  La compattezza delle masse dei lavoratori, impegnati nella realizzazione del Piano quinquennale da una parte;  E le icone della rivoluzione – Lenin e Bucharin – dall’altra, amplificate in dimensioni colossali; Fotomontaggio “borghese” e “rivoluzionario” – Il fotomontaggio definì una propria sintassi compositiva su scarti dimensionali tra primo piano e sfondo, tra elementi di superficie e proiezioni prospettiche, che fu presto assimilata dal linguaggio pubblicitario per necessità commerciali. Mentre questo fotomontaggio “borghese” falsificava la realtà, producendo illusioni e inganni, il 22 fotomontaggio “rivoluzionario” esprimeva un’attitudine critica, perché evidenziava connessioni e contraddizioni interne nella società contemporanea. Fotomontaggio e dittature – La risposta più drammatica venne dalla propaganda nazista, ormai consolidata al potere, la quale utilizzò ai propri fini la tecnica del fotomontaggio, proposta dai costruttivisti, rendendo più bruciante, per contrasto, l’attitudine negativa di Heartfield. In tutta risposta, nel collage rivoluzionario figuravano, ad esempio, “i milioni” che Hitler vantava dietro di sé sotto forma però di denaro, che egli riceveva dai grandi finanzieri, alle sue spalle; oppure la figura di Goering era sempre accompagnata dalle fiamme, per evocare l’incendio del Reichstag, di cui il gerarca nazista era ritenuto il vero colpevole. Heartfield prese inoltre di mira la svastica nazista, formata da quattro scuri grondanti di sangue, combattuta a livello simbolico da un’altra icona, quella del pugno chiuso della propaganda comunista. In ambito sovietico tuttavia, lo spirito critico del fotomontaggio rivoluzionario era già stato censurato dalla propaganda statale, che ormai privilegiava la ripetizione ossessiva dell’icona di Stalin, come quella nazista puntava su Hitler e quella fascista su Mussolini: a livello ideologico predominava infatti il culto della personalità individuale. Le tavole dei romanzi-collages: Caratteristiche delle tavole – In ambito surrealista, in particolar modo per mano di Max Ernst, nacque una modalità di lavoro di derivazione dadaista, prossima al procedimento del fotomontaggio, ma sottratta all’imposizione di significati univoci: si trattava di tavole illustrate che andavano a formare dei veri e propri romanzi senza parole, realizzate con collages di immagini ricavate da opere scientifiche, enciclopedie mediche, cataloghi pubblicitari o racconti popolari illustrati. Il montaggio dei collages era però volutamente dissimulato, per regalare all’opera un’apparenza di unità, particolarmente evidente nella versione tipografica, anche in virtù del bianco e nero. Dalle “Répetitions”… – Il precedente di queste tavole fu la raccolta “Répetitions”, edita nel 1922, con le poesie di Éluard e le tavole di Ernst, nella quale lo slittamento di posizioni rispetto alle prove dadaiste era già percepibile. Non c’era infatti una corrispondenza stringente fra immagini e testi, che furono interpolati solo dopo essere stati concepiti in modo autonomo. … A “La Femme 100 têtes” – Fin quando, nel 1929, Ernst pubblicò “La Femme 100 têtes”, dove 147 tavole furono distribuite in 9 capitoli, dove la prima e l’ultima tavola, essendo identiche, sovvertivano la linearità della narrazione con un effetto di circolarità senza fine. Ernst creava immagini prive di logica, inserendo spesso un elemento perturbatore dentro ad un assetto consueto: la testa di un animale su un corpo umano, uno scheletro, un frammento anatomico in un tranquillo décor borghese. Significato delle tavole – Il senso delle tavole può essere spiegato alla luce degli studi universitari dell’artista a Colonia, prima della guerra oppure degli interessi condivisi nel movimento surrealista per i testi freudiani, per cui è possibile che Ernst volesse innanzitutto irretire l’osservatore in un labirinto senza uscita, nella finale consapevolezza che non ci fosse spiegazione possibile, che nulla aveva senso. 25 Le vendite scarse indussero i futuristi a scendere a patti con un finanziere tedesco, Wilhem Borchardt, il quale acquistò l’intero lotto dei quadri invenduti ad un prezzo ridotto, per poi sfruttare la curiosità suscitata dal movimento marinettiano incassando i proventi delle esposizioni da lui allestite in varie città europee. In questo modo egli comprometteva anche la possibilità che gli stessi futuristi mettessero piede con nuove iniziative in quelle piazze ormai bruciate, dove il successo dello scandalo non avrebbe mai più potuto riprodursi. Era l’epilogo del Futurismo, un movimento che si era diffuso attraverso una tecnica pubblicitaria finalizzata al successo commerciale ma che paradossalmente non riusciva a vendere i suoi prodotti, un movimento che aveva degradato l’opera d’arte a merce, ma che si collocava fuori dalle leggi del mercato poiché nulla concedeva ai gusti del pubblico. … E fortuna dei movimenti d’Avanguardia – Nell’ambito dell’Avanguardia però ci furono anche eccezioni fortunate:  Matisse – Dopo il Salon d’Automne del 1905, Matisse infatti cominciò a fruire dell’appoggio fortunato di celebri collezionisti;  Picasso – Picasso in particolar modo fu un esempio luminoso di capacità di gestire il proprio lavoro con abilità, fortuna e larghi guadagni. In una decina di anni infatti le sue opere potevano moltiplicare il valore iniziale e nel 1912, come Braque, si legò in esclusiva a Kahnweiler, il quale assicurava un salario mensile, oltre alle percentuali sulle vendite. L’accordo manteneva i due pittori estranei alle collettive parigine e al rischio del ridicolo che esse comportavano. Nel 1913 Kahnweiler mise sotto contratto anche Léger, Gris e Vlaminck. Tuttavia anche il successo di Picasso avrebbe dovuto scontare di lì a poco i contraccolpi negativi della guerra, con il sequestro da parte del governo francese delle gallerie Kahnweiler e Uhde, con la conseguente esclusione dal circuito mercantile dell’intera produzione cubista; Le conseguenze della guerra sull’arte – La guerra ruppe gli equilibri. Molti artisti partirono per il fronte, alcuni si arruolarono per obbligo, altri per acquisire un’identità nazionale, come De Chirico, altre per patriottismo, come i futuristi. Alcuni persero la vita, altri furono feriti. Molti smisero per anni di dipingere o scolpire, altri trovarono il modo di lavorare nelle retrovie, come Léger, o negli ospedali militari, come De Chirico e Carrà. Pochi restarono estranei al conflitto, fra questi Picasso perché era spagnolo, Mondrian perché era olandese. Duchamp e Severini furono riformati. La geografia dell’arte cominciò a mutare: Mondrian ritornò in patria, dove avviò il sodalizio con Van Doesburg, Duchamp si trasferì a New York, dove consolidò i rapporti dell’Avanguardia francese con la cultura statunitense, altri si rifugiarono nella Svizzera neutrale: a Zurigo l’insegna del Cabaret Voltaire, fu la fucina del dadaismo. Il dopoguerra in Europa – Nessuno eguagliò l’entusiasmo dei futuristi per la guerra, un movimento che fin dalla nascita aveva coniato lo slogan della “guerra come sola igiene del mondo” e che si impegnò in una intensa campagna interventista. Per i futuristi infatti la guerra finalmente avrebbe spezzato il giogo del passato, tuttavia quest’ultimo continuò a sopravvivere proprio perché, in tempo di guerra, i linguaggi tradizionali prevalsero in quanto più rassicuranti. Nel dopoguerra inoltre la commemorazione dei caduti e la celebrazione della vittoria rimisero in auge la retorica monumentale. A nulla erano valsi negli anni precedenti le proteste dei futuristi contro la “monumento-mania”. Il dopoguerra in Germania e Russia – Soltanto nella Germania sconfitta e nella Russia uscita dalla rivoluzione si formularono scelte iconoclastiche. La fine dell’impero guglielmino infatti sembrò un’occasione per rinnovare il panorama dell’arte ufficiale e la tragedia della guerra imponeva l’abbattimento dei monumenti di spirito militarista. In ambito sovietico la contestazione colpì i 26 simboli del potere zarista, mentre la propaganda monumentale di Lenin promuoveva la celebrazione dei grandi rivoluzionari di ogni tempo e luogo. Come qualcuno osservò, queste ultime erano iniziative sbagliate se considerate di fronte alla dimensione collettiva, e non individuale, del processo rivoluzionario sovietico.  Il progetto di Tatlin – Pertanto Tatlin, in alternativa, immaginò una struttura architettonica in cui si fondessero tutte le arti e che fosse un luogo verso il quale la comunità potesse convergere, attratta da stimoli sonori e visivi simultanei. Ci sarebbero dovute essere infatti biblioteche, sale conferenze, palestre ecc., ma essa doveva anche essere un formidabile strumento di propaganda rivolto verso l’esterno, emettendo segnali radiofonici e proiettando slogan, immagini e persino lettere luminose sulle nuvole per comunicazioni a grande distanza. Malevič vide il pericolo di un asservimento dell’arte ad una concezione utilitaristica, il progetto di Tatlin fu presentato nel 1920 al congresso dei Soviet con il titolo “Monumento alla Terza Internazionale”: una colossale struttura cinetica di tre volumi ruotanti a velocità diverse che però non venne mai realizzata. I musei: La proposta di Grosz – Grosz era convinto che i musei si dovessero abbattere e, dalle riviste comuniste con cui collaborava, denunciando l’asservimento ancora esercitato dalle classi dominanti sui proletari, propose la vendita delle opere conservate nei musei per sfamare la popolazione stremata dalla guerra. In effetti il tema delle istituzioni museali assunse una coloritura politica intensa nel dibattito tra Avanguardia e tradizione. I musei nel contesto sovietico: progetti… – Nel contesto sovietico i musei erano concepiti come centri di propaganda e di istruzione per le masse popolari, come riferì Malevič, ed era quindi essenziale ripensare in questa chiave il loro ordinamento, in modo da distanziarsi ideologicamente il più possibile dai musei europei, che illustravano il volto della società contestata dalla rivoluzione. Con tipica intransigenza Malevič propose una drastica eliminazione delle opere inessenziali alla definizione dell’arte nuova. Dalle icone russe, fino al Suprematismo, il percorso storico dell’arte non era inteso come un ovvio processo evolutivo, ma come una vicenda segnata da rotture e rivoluzioni. Nel giro di poco tempo però, tutti – suprematisti, astrattisti e costruttivisti – si trovarono a verificare le difficoltà di proseguire sia una riforma degli istituti museali sia una collaborazione con gli apparati del potere. … e realtà – La questione centrale era il ruolo dell’artista nella società contemporanea ed il margine di autonomia concesso al suo lavoro. Quando in ambito sovietico le frange conservatrici ripresero il sopravvento, i costruttivisti furono relegati in posizioni subalterne e infine estromessi dai ruoli dirigenziali nei musei. Nel 1922, nel suo viaggio in Unione Sovietica, Grosz toccò con mano la difficoltà di conciliare una ragione di stato e le ragioni dell’arte e, una volta rientrato in patria, stracciò la tessera del Partito Comunista, senza tuttavia rinnegare le proprie convinzioni ideologiche. L’Avanguardia tornava ad avere un volto pericoloso per gli assetti consolidati: per i commissari sovietici essa era minata da uno spirito anarchico. Il mercato dell’arte: Il rilancio del mercato artistico – La fine della guerra determinò un inaspettato rilancio del mercato artistico, risultato delle speculazioni dei nuovi ricchi che cercavano nelle opere d’arte una forma di investimento ed un mezzo di legittimazione sociale. Non erano infrequenti i casi di collezionisti che 27 demandavano ad alcuni esperti l’incremento delle proprie raccolte, Duchamp ad esempio era amico e consulente della “Società Anonima” di Katherine Dreier, fondata a New York nel 1920. L’inflazione verso la pittura cubista – Le aste dei beni Kahnweiler e Uhde, nei cinque lotti messi in vendita dallo stato francese fra 1921 e 1923 per integrare le riparazioni di guerra, come prevedeva il trattato di Versailles, produssero un esito inflattivo sulla pittura cubista, sia per le centinaia di tele immesse sul mercato, sia per i prezzi sempre più bassi venivano abbinati alle opere. L’insuccesso dell’Avanguardia – Per molti artisti la militanza nell’Avanguardia rimaneva una scelta scomoda: Mondrian ad esempio si trovò costretto ad eseguire acquerelli floreali di facile smercio accanto ai quadri astratti spesso invenduti. Di fatto egli era estraneo ai principali circuiti mercantili ed espositivi, avrebbe sempre difeso la scelta di vivere nella capitale francese perché essa garantiva un confronto costruttivo con le ultime tendenze artistiche, ma non ne ricavò mai benefici economici né morali. L’attività delle gallerie – L’attività delle gallerie non si limitava al mercato: le ditte più agguerrite intrapresero un’attività editoriale strumentale al commercio, sovvenzionando bollettini, riviste d’arte, album iconografici, monografie, che assicuravano visibilità agli artisti e insieme costruivano il consenso del pubblico e della critica attorno e nome privilegiati:  In Francia – La collana “Les maîtres du cubisme”, varata da Leonce Rosenberg, è l’esempio francese di tale attività editoriale promossa dalle gallerie d’arte;  In Italia – In Italia ci fu il caso di “Valori plastici”, che vide la formazione di un’attività editoriale e mercantile attorno alla rivista già costituita da Carrà, De Chirico, Morandi e Martini; Per un artista, far parte della scuderia di un gallerista comportava vantaggi concreti, tuttavia il prezzo da pagare era alto: i prezzi dei quadri restavano bloccati alla data del contratto, indifferenti agli incrementi del mercato, se non addirittura svalutati improvvisamente qualora il gallerista avesse bisogno di recuperare liquidità. Un esempio del cinismo del mercato fu la progressiva lievitazione dei prezzi che le opere di Modigliani conobbero dopo la morte dell’artista. Il mondo dell’arte era disseminato di trappole. Il Futurismo dopo la guerra – I futuristi non trovarono protettori, se non nell’infaticabile generosità di Marinetti, i cui tentativi non procurarono però ai suoi artisti una collocazione istituzionale nel panorama Nazionale. Diversamente dal Cubismo infatti, il Futurismo aveva quasi completamente perso, per ragioni diverse, la sua prima generazione di artisti e doveva raccogliere nuove forze per reinventare il proprio ruolo. A Parigi nel gennaio 1921 Tzara e Picabia proclamarono: “Il Futurismo è morto. Di che? di Dada”. Nel 1920 la spregiudicatezza intellettuale di Marinetti aveva ricevuto il plauso di Lunacarskij, contribuendo a rafforzare per breve tempo l’attenzione dei comunisti italiani per il Futurismo. A loro volta i futuristi furono sedotti dal linguaggio costruttivista e dal mito bolscevico, nonostante Marinetti avesse sottoscritto già da un anno la propria fedeltà al regime. Mussolini dichiarò di non voler interferire nelle scelte degli artisti e non avrebbe mai concesso patenti di ufficialità a nessun gruppo o tendenza. Direzione artistica e direzione politica – Infine, la dimensione internazionale delle relazioni impediva rigide delimitazione nel mondo dell’arte. Le affinità formali non implicavano necessariamente contenuti analoghi, mentre uguali convinzioni ideologiche potevano esprimersi in forme artistiche differenti. Ad esempio, i grassi borghesi che erano oggetto del sarcasmo di Grosz, 30 milizie franchiste contro il governo repubblicano della Spagna, ed il padiglione dell’Unione Sovietica. Il grande mosaico di Sironi era più vicino all’opera di Picasso che non alla retorica nazista, mentre quest’ultima appariva prossima alle scelte sovietiche nella ripresa di una figurazione convenzionale. L’“arte degenerata” – In luglio fu inaugurata a Monaco di Baviera la mostra “Entartete kunst” (“arte degenerata”), dove 650 opere confiscate dal governo nazista ai musei nazionali furono esposte come esempi di arte degenerata, putrefazioni mentali, fantasie malate. Per paradosso quell’esposizione itinerante nelle città tedesche per cinque anni fu una mostra colossale dell’arte del primo Novecento. Furono 20.000 le opere sequestrate; per capire la portata delle persecuzioni individuali sugli artisti basti sapere che Kirchner subì confisca di 639 opere, di fatto, la sua intera vita d’artista, e nel 1938 si uccise. Il programma culturale nazista si intrecciava al disegno eugenetico per la razza ariana, in cui le opere d’Avanguardia erano dimostrazioni di alterazioni patologiche da eliminare. Nel catalogo di “Entartete kunst” infatti, i dipinti sequestrati furono impaginati accanto ai lavori dei malati di mente. Ogni cosa nell’allestimento doveva provocare disgusto e riprovazione per un’arte giudicata stupida e nociva. Non si perse l’occasione di evidenziare la complicità dei mercanti ebrei con gli artisti esecrati come prove di un affarismo senza scrupoli ai danni del popolo tedesco. Furono inoltre allestite altre mostre simili, ad esempio a Norimberga e un’altra itinerante per enfatizzare l’ormai ovvia associazione fra avanguardia, bolscevismo ed ebraismo. Di lì ad un anno la proclamazione delle leggi razziali fece precipitare anche la cultura italiana nella banalità del male. Nel programma hitleriano le opere sequestrate avrebbero permesso di rinnovare l’allestimento dei musei statali, quelle invendute sarebbero poi andate al rogo. Ai collezionisti e ai direttori dei musei europei e statunitensi si offrì l’occasione di acquistare opere di altissimo livello che nessuno avrebbe mai immaginato di possedere. L’asta si tenne il 30 giugno 1939, di lì a pochi mesi l’esercito nazista invase la Polonia. La risposta comunista – Il “Manifesto per un arte rivoluzionaria indipendente”, formulato da Breton e Trockij nel luglio 1938 e sottoscritto da Rivera, rivolse al regime nazista e a quello sovietico senza distinzioni l’accusa di rendere artisti ed intellettuali servi della ragione di Stato. Gli USA, il nuovo baricentro del mondo artistico nel secondo dopoguerra: Il caso di “Guernica” – Nell’aprile 1940 Picasso rientrò a Parigi per riprendere a lavorare nell’atelier in cui aveva dipinto “Guernica”. Esposto nel 1939, nella retrospettiva su Picasso al Moma, “Guernica” fu bloccato oltreoceano, dove sarebbe rimasto per decenni nella stessa sala ospitava “Les damoiselles d’Avignon”. La sua presenza segnò un simbolico passaggio di consegne dall’Europa agli Stati Uniti, dove il baricentro del mondo artistico si stava ormai spostando. Gli artisti lasciano l’Europa – Molti artisti avevano già iniziato ad espatriare. Grosz ad esempio si era trasferito negli Stati Uniti; Londra offrì una prima alternativa a Mondrian; Moholy-Nagy, Heartfield, Schwitters, i fratelli Pevsner, mentre Peggy Guggenheim vi apriva la sua prima galleria. Schwitters passò un anno e mezzo nei campi di concentramento, ogni volta trasformando la propria cella in un merzbau, in un disperato accumulo di memoria destinato ogni volta alla distruzione, tra cui ci fu anche una scultura fatta di porridge. Allo scoppio della guerra furono gli Stati Uniti l’approdo definitivo per gli artisti e non solo. Non si era più sicuri neanche a Parigi: dopo la capitolazione della Francia infatti, il governo americano inviò a Marsiglia un proprio funzionario per vigilare sull’espatrio di duecento artisti e 31 intellettuali francesi, quasi tutti i surrealisti fuggirono in questo modo. Picasso rimase a Parigi, non subì minacce, ma fu oggetto di linciaggio morale. In pieno clima collaborazionista all’Orangerie venne inaugurata la mostra su Arno Breker, lo scultore prediletto da Hitler, con il plauso e l’omaggio di 65.000 visitatori. Inoltre l’allestimento del Museo Nazionale d’Arte Moderna, inaugurato a Parigi, oscurò la presenza di Picasso nella storia dell’arte contemporanea e cancellò tutti gli artisti ebrei. Gli USA raccolgono l’eredità europea – Ciò che aveva stimolato in profondità la cultura europea del primo Novecento iniziò a rifluire nella giovane arte statunitense. La difesa delle avanguardie, da parte della politica statunitense, implicava una scelta ideologica: era l’arte perseguitata dai regimi dittatoriali, dunque espressione di valori democratici, pertanto la cultura statunitense si impegnò a diffonderla con esposizioni nelle gallerie private e nei musei. Non sorprende che nel secondo dopoguerra, per la spaccatura del mondo occidentale fra i due blocchi statunitense e sovietico, il dibattito artistico rimase ingabbiato nella contrapposizione fra astrattismo e realismo. Continua il dibattito tra astrattismo e realismo – La fine delle dittature europee e non determinò tuttavia una liberazione dai condizionamenti politici. Successivamente, a dimostrazione della stretta comunista attorno all’arte, avvenne in Italia, ad esempio, la censura drastica opposta da Palmiro Togliatti ai dipinti neocubisti che i pittori iscritti al suo partito esposero a Bologna nel 1948, dicendo che si trattava di una raccolta di cose mostruose e non di arte. La lezione delle avanguardie storiche continuava a costituire quindi una presenza scomoda per le solite accuse che le si rivolgevano: di essere un insieme di esercizi formali incomprensibili alle masse, la presenza di soggetti indifferenti e di contenuti politici non espliciti.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved