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Riassunto "L'avventura del cinematografo. Storia di un'arte e di un linguaggio" di Sandro Bernardi, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto completo del libro "L'avventura del cinematografo. Storia di un'arte e di un linguaggio" di Sandro Bernardi per esame di Storia del Cinema.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 07/10/2020

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Scarica Riassunto "L'avventura del cinematografo. Storia di un'arte e di un linguaggio" di Sandro Bernardi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! PARTE PRIMA: NASCITA DI UNA MACCHINA CHE RACCONTA STORIE DA SOLA IL CINEMA PRIMA DEL CINEMA, IL MONDO COME SPETTACOLO Il cinematografo delle origini fa parte di un sistema di spettacolo in cui la presenza umana e la comunicazione fra persone fisiche è ancora l'asse portante di ogni rappresentazione. In quel grande sistema spettacolare che è la città moderna, ciascuno guarda ed è guardato, ciascuno è spettatore e attore nello stesso tempo. I primi “cinematografisti” erano spesso ambulanti e si sparsero in tutto il mondo, per catturare immagini e portarle a casa; nasce così il primo genere, la “veduta”, antenata del documentario. Il cinematografo esprime così anche il senso di onnipotenza della tecnica nell'era positivista: è una variante visiva dell'antico sogno di dominare il mondo. Prima del cinema: lanterne magiche e mondi nuovi Nel XXI secolo viviamo dentro un mondo pieno di immagini, non sapremmo immaginare un mondo senza immagini. Ma la città contemporanea, come noi la conosciamo, è una creazione recente, della fine dell'Ottocento. E' difficile immaginare le città dei secoli precedenti, il vuoto di immagini, la straordinaria povertà di attrazioni visive, la mancanza di segnali comunicativi e informativi. Le uniche immagini che la gente poteva vedere erano probabilmente le insegne delle botteghe artigianali, quelle dentro le chiese e scolpite sulle facciate delle grandi cattedrali gotiche, che spesso funzionavano come vere e proprie “bibbie illustrate”. Quadri e ritratti erano privilegi delle persone molto ricche, le case comuni erano spoglie, le pareti nude. Fu l'invenzione della stampa a iniziare la diffusione di immagini nel mondo occidentale. I primi libri stampati erano molto costosi ed ebbero diffusione in una cerchia ristretta, presso chi sapeva leggere e scrivere, mentre gli altri rimanevano nella situazione precedente. Nel Cinquecento e nel Seicento il mondo popolare cominciò ad aggiornarsi visivamente attraverso una rete, dapprima molto povera, ma crescente, di ambulanti coraggiosi, che attraversavano l'Europa a piedi per vendere stampe di santi e di paesaggi. Inoltre venditori, cantastorie, saltimbanchi, musicanti, sonnambuli, nani, donne giganti, “ragazzi selvaggi” trovati nel bosco, gemelli siamesi e altri prodigi o mostruose creature, tutto ciò che poteva attirare l'attenzione era mostrato a pagamento, spesso in modo crudele. Fra queste curiosità, gli spettacoli ottici cominciarono a comparire già nel Seicento, nelle case signorili o nelle fese popolari. I dispositivi ottici si sviluppano tra il XV (solo per quanto riguarda la camera oscura leonardiana) e il XIX secolo e furono: la camera oscura leonardiana e la lanterna magica. La camera oscura, anche detta camera obscura, è un dispositivo ottico composto da scatola oscurata con un foro sul fronte e un piano di proiezione dell'immagine sul retro. L'oggetto è illuminato dall'esterno dalla luce del sole. La camera oscura è alla base della fotografia. La lanterna magica era la più misteriosa. Probabilmente veniva dalla Cina, dai giochi di ombre cinesi, che sono i veri antenati del cinema. Era una scatola con una candela dentro e una lente anteriore, che proiettava sulle pareti di una sala buia delle figure disegnate su un vetro. Ha una facile maneggevolezza poiché funger da strumento trasportabile. Proietta immagini all'esterno per una visione collettiva. Non erano immagini accompagnate da un suono, se non quello del lanternista che commentava. In Italia e in Spagna ebbe poco successo, mentre la sua fama accrebbe nei paesi nordici, come l'Inghilterra. La lanterna magica: cultura e attrazioni La lanterna magica viene descritta per la prima volta nel 1646 dal padre gesuita Kircher nel suo volume Ars magna lucis et umbrae, ma probabilmente era già conosciuta nelle corti d'Europa. Kircher aveva lavorato molto tempo in Cina, e pare avesse portato questo oggetto dall'Oriente. Tuttavia esistono illustri antenati della lanterna magica anche in Occidente, come la “camera oscura”, che serviva a disegnare edifici e paesaggi dal vero, descritta anche da Leonardo. Puntata verso un monumento, la camera oscura permetteva di ottenere l'immagine capovolta sopra una lastra di vetro. L'artista poneva sul vetro una tela o un foglio di carta e in trasparenza ricopiava i monumenti. La lanterna magica si diffuse ben presto con diverse applicazioni, almeno due, nelle quali possiamo già leggere i due aspetti contrapposti che avrà il cinema lungo tutta la sua storia: uno era quello fantastico e l'altro didattico. L'uso didattico consisteva nel far vedere luoghi, monumenti, ma anche oggetti, piante animali che nessuno aveva mai avuto occasione di vedere. Si poteva proiettare una serie di vetrini con animali, piante, monumenti, mostrando quello di cui si parlava, e aveva un effetto molto più suggestivo di una stampa. Ma poteva anche essere uno strumento fantastico, utilissimo per sussidio alle conferenze e alle prediche, magari per illustrare il Giudizio universale, con le punizioni dei dannati nelle fiamme. In questo caso era un'antenata del cinema catastrofico e del genere horror contemporaneo. In questo duplice uso della lanterna magica vediamo già in embrione le caratteristiche che definiscono il cinema in tutta la sua storia: strumento di attrazione, di sviluppo dell'immaginazione, ma anche canale di informazione e diffusione culturale. Naturalmente nei secoli passati, fino all'Ottocento, le due cose non erano poi molto differenziate: la cosiddetta scienza traboccava di elementi fantastici e la fantasia si appoggiava sempre a certe conoscenze scientifiche. E' così che nelle poche serie di vetrini che ci sono rimaste vediamo spesso animali reali mescolati con animali fantastici. Ogni forma di conoscenza, non dobbiamo dimenticarlo, è caratterizzata da una continua mescolanza di realismo e di immaginazione. Inizialmente la lanterna magica proiettava una sola immagine fissa, ma poco a poco una serie di invenzioni accessorie consentì di moltiplicare le immagini e di muoverle, almeno in parte; per esempio, facendo scorrere due o più lastre una sopra l'altra si poteva dare l'illusione di un cavaliere (mobile) che si avvicinava a un castello fisso o di due persone che si allontanavano una dall'altra. Ma soprattutto essa ebbe grande successo come strumento di suggestione spiritica. Ma veniva usata anche per insegnare ai ragazzi la storia. L'altra macchina ottica, diffusa fin dalla fine del Seicento, era il Mondo nuovo, che funzionava nel senso contrario alla lanterna magica. Era una cassa di grandi dimensioni, spesso alta quanto una persona o quasi, con alcune aperture attraverso cui, dopo avere pagato, si potevano guardare alcune figure che erano all'interno e che potevano anche essere animate. Il Mondo nuovo descriveva o raccontava più o meno le stesse cose della lanterna magica, ma in maniera meno fantastica, perché funzionava sotto la luce del sole, all'aperto, nelle piazze. Se la lanterna magica infatti funzionava al buio, e dava a tutte le scene un aspetto fantastico, il Mondo nuovo era completamente diurno e solare, poiché fantasmi e spiriti avevano poca credibilità alla luce del giorno, e serviva soprattutto a mostrare paesaggi, luoghi, città lontane, o anche cerimonie e fatti storici, raccontati dall'imbonitore che manovrava la macchina, per diffondere le notizie, poiché informazione e spettacolo erano molto confusi. Sia la lanterna magica che il Mondo nuovo richiedevano spiegazioni; da sole quelle figure erano incomprensibili o quasi, per questo erano accompagnate dalla voce di un imbonitore, o narratore, che spiegava le scene mostrate; che fosse un predicatore, un insegnante, un “mago”, le immagini erano sempre parte di una rappresentazione più ampia, che includeva il discorso. A questo punto non è difficile vedere in queste due macchine ottiche gli antenati del cinema. L'aspetto più importante è che tutte queste macchine erano gestite sempre da un presentatore o imbonitore, che parlava al suo pubblico. La comunicazione fra le persone in carne e ossa era fondamentale, come accadrà anche nelle prime forme del cinematografo. La fotografia Prima di arrivare al cinema c'era ancora molta strada da fare. Una forte spinta venne anche dall'invenzione della fotografia. Niepce sperimentò per primo nel 1826 la permanenza di impressioni luminose sopra una lastra di gelatina, e brevettò la scoperta della fotografia. Le prime fotografie utilizzavano lastre con gelatine poco sensibili alla luce ed erano immagini molto rozze, sgranate e confuse. Daguerre, pochi anni dopo, diede inizio al genere del ritratto umano. Le foto però erano brutte, tanto che prese piede il mestiere del “calotipista”, colui che ritoccava le immagini stampate con il pennello. La tecnica della fotografia si sviluppò rapidamente, perché il governo francese, intuendone l'importanza, nel 1827 comprò il brevetto da Niepce e liberò l'invenzione dai diritti in modo che tutti potessero usarla e perfezionarla. Questo permise una sua rapidissima diffusione nel mondo e anche un veloce sviluppo, perché molti si misero a sperimentare nuovi tipi di emulsioni sensibili, e il tempo di esposizione scese rapidamente a 1/25 di secondo. Siamo arrivati così alle soglie del cinematografo. Fin dalla sua prima diffusione, anche la fotografia contribuì a far nascere confusione fra il reale e l'immaginario. Abbondavano infatti i processi agli impostori che usavano la fotografia per truffa. Anche le ricerche sul movimento delle immagini avevano compito altri passi avanti rispetto alla lanterna magica. Si era scoperto che l'illusione del movimento poteva essere prodotta con la successione velocissima di immagini fisse; il fenachistoscopio di Plateau (1833) era un cerchio di carta che conteneva molte diverse pose di una persona; facendolo girare velocemente davanti a uno specchio, sembrava che la persona si muovesse a scatti. Non ci volle molto, in seguito, a trasformare questo cerchio in una striscia di carta antenata della pellicola odierna. Uno scienziato che lavorava in California, a Palo Alto, Edward Muybridge, usò la fotografia per studiare il movimento degli animali: collocò diverse macchine fotografiche lungo un percorso e scompose la corsa di un cavallo o la camminata di un uomo nudo Ancora difficile era però unificare le varie posizioni in un unico flusso continuo, perché gli scatti fotografici erano distanti fra loro. Combinando queste macchine, si giunse ben presto all'animazione di immagini fotografiche (lanterna magica = proiezione; fotografia = immagini dal vero; fenachistoscopio = movimento). La città come spettacolo Intanto, nel corso dell'Ottocento, la città cambiava radicalmente aspetto. Non era più l'universo privo di immagini ma pieno di vita: si trasformava nella città-spettacolo attuale, piena di immagini, popolata da gente sempre più sola, distratta, immersa nelle sue fantasie o nei suoi pensieri (come si vede nel celebre film del 1927 Aurora di Murnau). Soprattutto Parigi, allora capitale culturale d'Europa, si stava trasformando in un immenso salotto pieno di spettacoli. Le vetrine, prima inesistenti, cominciavano a sostituire gli imbonitori, esibivano merci dietro vetri senza parlare. I caffè cominciavano a riempirsi di vetri e di specchi; era possibile sedersi e guardare fuori pur voltando le spalle alla strada, anzi era possibile guardare dovunque, semplicemente facendo uso degli specchi che riempivano le pareti. Si andava al caffè per guardare e per essere guardati. I manifesti cominciavano a colpire l'attenzione con i colori sgargianti e le figure molto grandi. Un altro evento stava spettacolarizzando il mondo intero: le Grandi Esposizioni, iniziate a metà secolo, erano veri e propri spettacoli scientifici, nei quali i visitatori potevano ammirare gli ultimi ritrovati della scienza. Il positivismo era la filosofia dominante, che prospettava frontiere sconfinate alla conoscenza: cambiare la vita dell'umanità. La prima Esposizione, quella di anche un primo tipo di racconto, costruito per lunghe inquadrature fisse, ciascuna delle quali rappresenta un'intera scena. Anche questo sistema narrativo era basato su un presentatore che spiegava al pubblico le varie scene, e privilegiava quindi il rapporto fra esseri umani. La scoperta dei trucchi: Méliès e il montaggio-metamorfosi A Méliès, prestigiatore e illusionista famoso, direttore di un piccolo teatro di Parigi, il Théatre Robert-Hudin, viene attribuita l'invenzione del montaggio, il primo di tutti i trucchi. Méliès aveva assistito alla prima esibizione del Cinematografo a Parigi, aveva subito acquistato un apparecchio dai fratelli Lumière, e con questo faceva delle riprese all'aperto, come loro. La tradizione racconta questo aneddoto: durante una ripresa in esterni, la macchina s'inceppò e poco dopo ripartì. Solo più tardi, durante lo sviluppo della pellicola, Méliès si sarebbe accorto che al posto di una carrozza appariva improvvisamente un carro funebre: era una vera e propria metamorfosi. Che sia stato o no l'inventore del montaggio, Méliès, prestigiatore e maestro di giochi illusionistici, è colui che subito valorizza questa capacità del cinema di operare prodigiose trasformazioni. I trucchi esistenti erano già molti: alcuni erano teatrali, come i voli meccanici e le discese dal cielo, altri erano già usati in fotografia, come le sovrimpressioni. Ma ne furono inventati molti altri, da Méliès e da uno spagnolo, Segundo de Chomòn, trucchi specificamente cinematografici. Il mascherino-contromascherino permetteva di unificare spazi diversi, o di sdoppiare un personaggio. Un altro era, come abbiamo visto, l'arresto della ripresa con cui gli oggetti e le persone sparivano o apparivano dal nulla; un altro ancora era lo scatto singolo, che faceva muovere le cose inanimate; oppure lo spostamento della cinepresa avanti o indietro, usato per fare ingrandire o rimpicciolire i corpi (per esempio una testa umana che diventa enorme e poi ritorna piccolissima, L'homme à la tête en caoutchou, Méliès, 1901). Molti altri trucchi furono inventati sulla base di queste tecniche. La fortuna di Méliès fu enorme negli anni fra il 1900 e il 1912. Subito, nel 1896, apparve il suo Escamotage d'une dame chez Robert-Hudin (Sparizione di una signora al teatro Robert-Hudin). Spesso Méliès interpreta di persona il ruolo di prestigiatore e mago, come nel famoso L'homme orchestre (1902), in cui si moltiplica con ben dieci immagini di se stesso: nella stessa inquadratura vediamo dieci Méliès, ognuno dei quali suona uno strumento differente (si tratta di un mascherino-contromascherino ripetuto dieci volte). Il suo suo del montaggio come metamorfosi è l'apoteosi dell'”arte della meraviglia”, com'era stata coltivata nei secoli precedenti. Grazie al realismo della fotografia, i trucchi suscitavano uno stupore inaudito e il successo fu immediato e immenso. Le leggi della natura e le norme stesse della società civile erano capovolte, superbamente ignorate e scavalcate; era il sogno della libertà sfrenata, dell'anarchia totale e delle possibilità infinite. Il racconto a quadri fissi Appena si accorse che tutto era possibile con il montaggio, Méliès cominciò a realizzare film di più inquadrature, come i viaggi fantastici, per esempio. Méliès però non era narratore nel senso che intendiamo oggi. Il suo era un film-varietà, era più spettacolo che narrazione. Gli interessava mostrare giochi di prestigio, e le “storie”, se mai, erano semplici raccolte di episodi autonomi. Il suo modo di raccontare lo potremmo chiamare racconto a stazioni, o a quadri, poiché ogni inquadratura è fissa e comprende un intero episodio, staccato e autonomo. Il montaggio serviva a Méliès e ai suoi colleghi per creare effetti di magia o per collegare una scena a quella successiva. Ogni volta che cambiava l'inquadratura cominciava un altro episodio, poiché tra un inquadratura e l'altra c'era sempre un salto temporale (vi è quindi una coincidenza tra scena e inquadratura). Le inquadrature sono dette "autarchiche", perché si esauriscono in sé stesse e ogni "quadro animato" veniva inanellato a quello successivo; ogni nuova inquadratura dava quindi inizio a un differente episodio, con stacchi temporali tra l'uno e l'altro ("ellissi"). Il racconto di Méliès non ha mai un aspetto drammatico, anche quando mostra decapitazioni e crimini di ogni tipo si tratta sempre di un “gioco”. Il cinematografo è per lui uno straordinario “giocattolo”, e lo spettatore viene sempre invitato ad assistere divertito, senza nessuna immedesimazione sentimentale, nessuna illusione di realtà, come nei giochi di prestigio che prima Méliès faceva in teatro. Riconosciamo però a Méliès il merito di avere scoperto che il cinema non riproduce la realtà, ma crea sempre dei mondi diversi dalla realtà. I suoi viaggi sulla luna e in ogni luogo, reale o fantastico, ci immettono per la prima volta dentro un mondo immaginario che non viene raccontato, come faceva la letteratura, ma viene mostrato. Infine è doveroso ricordare che Méliès lavorava soprattutto in studio, nello studio di Montreuil al chiuso. I viaggi impossibili di Méliès Il Viaggio sulla luna (Le voyage dans la lune, 1902) è una geniale parodia del romanzo di Jules Verne Dalla terra alla luna. E' questo un racconto a quadri o “a stazioni”. Il congresso degli astronomi decide di sparare un proiettile sul nostro satellite. Lanciato da un cannone, con un corteo di ballerine che festeggiano l'impresa, il proiettile si conficca in un occhio della luna (una luna chiaramente di cartone, che strizza l'occhio infastidita). I viaggiatori scendono, incontrano i seleniti da cui vengono catturati, ma riescono a scappare e ripartono, facendo ricadere il proiettile sulla terra, dove sono accolti in modo trionfale. Si tratta di una divertente successione di 26 inquadrature fisse, alcune delle quali molto lunghe, per la durata complessiva di circa sette minuti, tutto costituito da messe in scena teatrali, mentre i personaggi si muovono con il ritmo gioioso e lo stile di un balletto. La versione restaurata a colori è stata pubblicata al Festival di Cannes. E' questa una colorazione manuale. Il racconto è sempre lasciato al ruolo dell'imbonitore, che talvolta è accompagnato da un'orchestra. Per cambiare inquadrature si utilizza la dissolvenza incrociata (molto utilizzata da Méliès). L'immagine dell'ingrandimento della luna è fatta tramite uno spostamento su un asse obliquo della cinepresa. Inoltre si vedono le stelle, logo della casa produttrice di Méliès. Nel 1903 Méliès realizza un altro dei suoi film più significativi, La lanterna magica, che è un omaggio alla trasformazione della vecchia lanterna in cinematografo. E' un film che consiste di una sola inquadratura di lunga durata. Con il sistema della successione dei quadri animati, Méliès inventa anche una serie di viaggi fantastici. Del 1904 è il Viaggio attraverso l'impossibile, in cui un gruppo di persone, con un treno speciale, sale in cielo, incontra le stelle di legno con sopra belle ragazze in costume da varietà teatrale, che sorridono ai viaggiatori, poi arriva nel sole, ridiscendo sulla terra, sott'acqua, incontrando animali e mostri di tutti i tipi. Ancor più ricco d'invenzione è il Viaggio alla conquista del Polo (1912) in cui un gruppo di esploratori, con un mezzo particolare, si spinge fino al Polo dove trova un gigante di ghiaccio che, come Lucifero nel poema dantesco, comincia a divorare i visitatori. E' chiaro, in tutti questi film, che si tratta di un racconto del tutto diverso da quello a noi noto, mescolato con numeri di varietà, scherzi e attrazioni teatrali. Lo spettatore infatti non viene mai coinvolto emotivamente nella storia, ma viene invitato a guardare allegro e divertito. Gli inglesi e la nascita del racconto moralista: la “chase” Nello stesso tempo al di là della Manica, a Brighton, si sperimentano altre forme narrative, forse anche più articolate e complesse. Alcuni intraprendenti cineasti dotati di un kinetoscopio Edison andavano provando vari tipi di trucchi, fra cui una stessa azione che continuava da un'inquadratura all'altra, cosa che Méliès ignorava. Naturalmente erano inquadrature girate separatamente e raccordate in modo molto goffo e confuso, ma con questi primi tentativi si pone il problema della continuità dell'azione, la cosiddetta “linearizzazione temporale”, che sarà risolto solo con la nascita di un nuovo tipo di montaggio e una nuova forma di spettacolo. Gli inglesi elaborano anche altri piccoli procedimenti narrativi: James Williamson in Fire! (1901) collegava scene dal vero a scene ricostruite (o scene di fiction): il carro dei pompieri che corre (scena vera) – l'incendio di una casa (scena finta). Lo stesso Williamson usa il primissimo piano come effetto-paura; in The Big Swallow (1901) un passante arrabbiato, che non vuole essere ripreso, si avvicina alla cinepresa divorandola, e vediamo un enorme buco nero: la bocca. Questi erano solo effetti speciali, il racconto era fatto a voce. Il cinema britannico è molto diverso da quello francese, non è così anarchico, sovversivo e giocoso, ha una sostanziale impronta educativa o moralista che rimarrà a lungo, anche nel cinema americano classico, e ritornerà anche ai nostri giorni. Insegna a fare attenzione per la strada, spiega i danni dell'alcolismo, mostra che i cani salvano i bambini, che i poliziotti arrestano i ladri. Alla base c'è un principio che diventerà fondamentale nel cinema classico americano ed europeo, la lotta del bene contro il male. E anche la lotta dell'ordine contro il disordine: infatti il bene viene identificato con l'ordine e il male coincide sempre con il disordine. Potremmo dire che questo principio, legato alla morale vittoriana, sta alla base del futuro cinema narrativo. Nasce infatti un tipo di storia a tre fasi: l'ordine, la trasgressione e il ripristino dell'ordine. Il bene e il male saranno presto i motori del racconto classico, insieme con la necessità di un lieto fine, infatti il rientro nella normalità sarà sempre necessario per rassicurare lo spettatore. Questo modello in realtà è molto antico e potrebbe essere ricondotto alle favole, alla stessa struttura della fiaba. Dentro questa prospettiva incontriamo anche i primi film di fuga-inseguimento o “chase”, o in italiano “caccia”; e non occorre ricordare che anche questo genere avrà un enorme successo fino ai nostri giorni (basta pensare a Matrix). Infatti, la maggiore attrazione del cinematografo, il migliore effetto speciale, rimarrà sempre il movimento e l'inseguimento. Porter, la lanterna magica e le prime narrazioni americane Ma gli inglesi non sono i soli, e neppure i primi ad avviare questo tipo di racconto. In effetti non c'è mai una prima volta nella storia del linguaggio e della cultura, tutti rielaborano qualche cosa fatto già da altri, o magari nello stesso tempo in diversi luoghi. In America, all'inizio del secolo, si sviluppa lo stesso tipo di racconto, a carattere moralista, in difesa della legge e dell'ordine. E si tratta sempre di un racconto a quadri, stile Méliès. Edwin S. Porter organizzava proiezioni di lanterna magica, finché non incontro Edison e con lui si mise a fare cinema. Nel 1903 realizzò una versione di un romanzo molto popolare, La capanna dello zio Tom, composta da dodici quadri in cui si mostravano i momenti salienti della storia. Se guardiamo questo film senza conoscere la storia, non riusciamo a capire niente, sembra di assistere a una seduta di lanterna magica e ci si aspetta sempre la voce di qualcuno che spieghi l'accaduto. Porter comprese subito la grande potenzialità del cinema. Fece anche film che mostravano fatti di cronaca, come era successo un secolo prima con i Mondi nuovi che avevano divulgato la storia della Rivoluzione francese. Nel 1903 Porter girò The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), uno dei primi racconti lineari completi. Si tratta di 14 episodi (in un rullo), ciascuno in una sola inquadratura, quindi 14 inquadrature autonome, piene di effetti speciali, come il mascherino-contromascherino, che permette di vedere il paesaggio dal finestrino del treno. Mostrare, più che raccontare. Il ruolo del presentatore Questo tipo di spettacolo, che va dal 1895 al 1915 circa, ha come funzione principale quella di mostrare immagini, alla maniera della lanterna magica, o dei Mondi nuovi, ed è stato chiamato opportunamente cinema delle attrazioni. Alcuni storici hanno voluto individuare una differenza fra due periodi all'interno di questo primo ventennio: il Sistema delle Attrazioni Mostrative (SAM) che va grosso modo dal 1895 al 1906, in cui si mostrano singole “vedute”, finte o vere che siano, e ciascuna vale per se stessa; e un successivo sistema, che per un po' si sovrappone al primo ma poco a poco prevale, il Sistema dell'Integrazione Narrativa (SIM) che dura circa fino al 1915. Quest'ultimo è il periodo in cui le inquadrature sono ancora lunghe e autonome, ma si comincia a montarle una dopo l'altra, in una specie di successione narrativa. In entrambi i casi però l'intenzione principale dello spettacolo era quella di mostrare scene in movimento: il racconto era compito del presentatore, che colmava a voce i vuoti e le mancanze fra una scena e l'altra. Cerchiamo ora di sintetizzare le caratteristiche del cinema delle attrazioni: 1. Mostrare più che raccontare. 2. Inquadrature lunghe, fisse autonome. 3. Presentatore o imbonitore che spiegava la scena. Colori Un'altra grande attrazione del primo cinema era il colore. Anche se la pellicola cinematografica rimase in bianco e nero fino agli anni trenta, esistevano vari tipi di colorazione: viraggi, imbibizioni e colorazioni a mano. I viraggi erano ottenuti immergendo la pellicola in un liquido che colorava secondo l'atmosfera: spesso il blu stava per la notte, il verde per la natura, il rosso per la violenza, il giallo per l'ira, anche se una vera e propria divisione semantica dei colori era impossibile. Combinando il viraggio con l'imbibizione si potevano anche ottenere più colori diversi nello stesso fotogramma. La colorazione a mano invece era più affascinante e faceva di ogni copia un'opera singola, non più industriale, ma artigianale, ciascuna diversa dalle altre. In genere questo lavoro era affidato alle donne, dato che erano considerate adatte ai lavori sedentari, di precisione, ed erano meno pagate, ma comportava uno sforzo per gli occhi, a causa delle dimensioni minuscole della pellicola, e veniva eseguito con l'aiuto di grosse lenti. Fine di un'epoca Il cinema delle attrazioni era quasi sempre uno spettacolo ambulante. Fino al 1905-1906 le sale destinate a questo spettacolo erano pochissime. Per lo più veniva proiettato in locali pubblici, caffè, teatri di varietà, ed era un'attrazione fra le altre; oppure veniva presentato anche nelle pubbliche piazze, durante le feste o le fiere di città, sotto il tendone di un ambulante: non era quindi il soggetto rappresentato che attirava la gente, ma il cinematografo stesso, la magia delle immagini in movimento. Le pellicole non si noleggiavano, ma si comperavano; ognuno, ambulante o fisso, aveva un pacchetto di sua proprietà, acquistato dal produttore-autore, che era la stessa persona, come nel caso di Méliès. Il film, quindi, era ancora più simile a un prodotto artigianale che industriale. Ben presto, visto che il cinematografo rendeva abbastanza bene, alcuni cominciarono ad affittare locali e ad aprire sale vere e proprie, con proiezioni di soli film e più volte al giorno, a ore fisse. Il cinema si stava trasformando in una istituzione, una struttura; il fascino dello spettacolo ambulante e degli artisti girovaghi, che portavano le notizie in giro per il mondo, stava per terminare. Con questa svolta finisce davvero un'epoca. Quando anche il narratore sarà scomparso dietro le immagini, e queste saranno capaci di raccontare le storie da sole, allora sarà nato il cinema, uno spettacolo del tutto nuovo. UNA MACCHINA CHE RACCONTA STORIE DA SOLA Fra il 1906 e il 1915 avviene la “trasformazione del Cinematografo in Cinema”, ovvero la nascita del cinema narrativo. Il Cinematografo di prima si limitava a illustrare le storie, conosciute o raccontate da altri, il cinema invece le racconterà da solo, farà a meno del presentatore e di ogni altro aiuto. Non è piccola cosa: poco a poco gli spettatori rimarranno soli davanti a una macchina, il cui potere sarà immenso. Il cambiamento però non avviene in un colpo solo: la voce del presentatore rimarrà nelle didascalie, anche se astratta e impersonale. Solo più tardi, con il sonoro questa trasformazione sarà completa. Uno spettacolo nuovo per una nuova classe sociale Intorno al 1906 il Cinematografo era in crisi totale, non interessava a nessuno. In un film di René Clair (Il silenzio è d'oro, 1948), questa crisi viene descritta in maniera sintetica ed esemplare. Un uomo e una donna visitano un parco di divertimenti; fra baracconi vari, tiri a segno, maghi e atleti, passano davanti a un tendone dove un imbonitore intirizzito dal freddo cerca inutilmente di richiamare l'attenzione della gente, ma non entra nessuno. L'uomo dice alla sua compagna: “Guarda, c'è il cinematografo. Andiamo a vederlo!” e lei risponde: “L'abbiamo già visto l'anno scorso! Non ricordi?” Lui però insiste: “Ma dobbiamo pure ripararci dalla pioggia!” E così la coppia entra, ma solo per la pioggia. Nel 1906 le cose stavano più o meno così: il cinematografo era un'attrazione ancora nuova eppure già vecchia. La crisi fu dura. Gli ambulanti sparirono, con i loro tendoni, spazzati via dalla miseria e dai tempi nuovi. In America il prezzo del biglietto scese da 20-25 a 5 centesimi. Ma una funzione comune, la narrazione. Soprattutto il primo piano entra a fare parte di questa struttura molto ricca e complessa: diventa lo strumento fondamentale per la costruzione psicologica del personaggio. Griffith lo usa per descrivere volti di personaggi innamorati, prepotenti, sdegnati, violenti, delicati e deboli, ma ance pensosi e sognanti; crea una gamma di tipi umani destinata a crescere senza limiti nel tempo. Fin dall'inizio, il film Nascita di una nazione, a confronto con le inquadrature lunghe e statiche del cinema delle origini, produce davvero la sensazione improvvisa che una nuova musa si affacci sulla scena del mondo, prepotente, dinamica e baldanzosa. Questa nuova musa è il cinema e la sua arte è il montaggio narrativo. Ormai il rapporto si era invertito: se nel cinema delle attrazioni l'intenzione dominante era mostrare le scene in movimento, a partire da Griffith, invece, l'intenzione principale sarà la narrazione. I raccordi-base del montaggio narrativo Come nasce il montaggio narrativo? Dalla scomposizione della vecchia scena d'insieme in tante inquadrature frammentarie. Ma come si collegano queste fra loro? Il cinema di Griffith risolve grandissimi problemi, poiché mette a punto alcune forme essenziali del raccordo, che durano ancora fino ai giorni nostri. Il montaggio analitico, che scompone una singola scena (una stanza, una strada...) in molte inquadrature, usa sostanzialmente tre tipi: 1. Raccordo sull'asse. E' il più semplice: montaggio di due inquadrature sulle stesso asse visivo; si passa da un punto di vista lontano a uno molto vicino, come se la cinepresa avesse fatto un salto in avanti per vedere meglio o, viceversa, può anche partire da un dettaglio e poi fare un salto indietro per guardare la scena nel suo insieme. Una variante è costituita dal raccordo di posizione, quando durante una scena la cinepresa cambia posizione per vedere la stessa scena da un punto di vista leggermente diverso, per sottolineare un particolare o qualcos'altro. 2. Raccordo di sguardo e soggettiva. Il raccordo di sguardo passa da un personaggio che guarda all'oggetto guardato; attraverso il raccordo di sguardo, soggetto e oggetto vengono collegati nella mente dello spettatore, anche se durante le riprese non erano vicini e neppure nello stesso posto. Una variante del raccordo di sguardo nascerà molto presto sarà la soggettiva, che presenta l'oggetto guardato esattamente dal punto dell'osservatore, magari attraverso una finestra o un cannocchiale. La soggettiva diventerà uno dei punti di forza del cinema classico. 3. Raccordo di movimento o di azione (detto anche montaggio contiguo). La cinepresa cambia luogo seguendo il movimento di un personaggio, che ci guida attraverso una serie di spazi diversi. Ben presto i cineasti impararono che, se un personaggio esce da un lato (per esempio da destra), nell'inquadratura successiva deve rientrare dal lato opposto (quindi da sinistra), per evitare l'impressione sgradevole che abbia cambiato direzione. Questo è un grave errore di raccordo, detto anche scavalcamento di campo, e lo ritroveremo solo come un aspetto volontariamente trasgressivo nel cinema moderno. Progressivamente Griffith mette a punto altri due tipi di montaggio, che servono a concatenare la narrazione di due o più storie diverse: 1. il montaggio alternato segue una storia che si dirama in due parti, passando dall'una all'altra alternativamente; alcuni esempi: inseguitore e inseguito, oppure la famiglia a casa e il padre lontano (The Lonely Villa, La villa isolata, Griffith, 1909). 2. Il montaggio parallelo propone una serie di eventi o storie differenti che hanno solo un'idea comune. Questi due tipi di montaggio scandiscono anche due grandi tipi di cinema. Il montaggio parallelo servirà come modello per chi intende portare lo spettatore a riflettere. Il montaggio alternato invece sarà il codice delle narrazioni intense e appassionate. Nel cinema narrativo classico sarà quest'ultimo a trionfare. The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, David Wark Griffith, 1915) E' un grande racconto, ma anche un grande discorso politico. Tratto dalla fusione di due romanzi del reverendo Thomas Dixon, The Leopard Spot e The Clansman, il film sostiene con grande accanimento una tesi politicamente reazionaria.. i neri sono considerati una razza inferiore e solo i bianchi possono esercitare e difendere la giustizia. Nel film due famiglie bianche, una del Nord (gli Stoneman, liberali) e una del Sud (i Cameron, schiavisti buoni), fanno amicizia e i rispettivi figli stringono fra loro legami sentimentali (montaggio alternato). Ben Cameron, proprietario di una grande piantagione di cotone del Sud piena di schiavi neri, s'innamora di Elsie Stoneman, figlia del sentore del Nord che sostiene l'abolizione della schiavitù. Ma la guerra di secessione li divide, il Sud viene sconfitto, e gli schiavi neri liberati si abbandonano all'orgia e alla violenza contro le donne bianche. Ben Cameron allora fonda il Ku Kluz Klan, che riuscirà a salvare i bianchi buoni e a punire gli schiavi cattivi. Il film suscitò manifestazioni e scontri in tutta l'America, ma venne anche immensamente ammirato per la straordinaria potenza narrativa. Inizia quindi con Nascita di una nazione anche la poetica dell'eccesso cinematografico, in cui il bene e il male, il bianco e il nero, la luce e le tenebre si contrappongono come valori assoluti e senza mediazioni. La tecnica di montaggio è molto forte e dinamica, si passa dai piani d'insieme, distanti, a piani ravvicinati e a primi piani vicinissimi. Ogni personaggio viene introdotto con speciali connotazioni che lo definiscono psicologicamente: Elsie Stoneman compare abbracciata al padre e poi in giardino con un gattino in collo, i Cameron vengono presentati sulla soglia della loro grande casa, fra cagnolini e gattini sottolineati con ripetuti dettagli per indicare il carattere buono della famiglia, e così via, tutti i personaggi hanno il loro primo piano che ce li fa conoscere personalmente. Il narratore invisibile e il regista La creazione di Griffith è questa: nasce con lui una grande macchina, il linguaggio del cinema, che è più forte delle sue componenti, le inquadrature. E con questo nasce anche una grande figura che avrà parte importante nel cinema futuro: il narratore invisibile, ben diverso dal vecchio imbonitore. E' un narratore nuovo e moderno, rapido e potente, capace di spostarsi continuamente nel tempo e nello spazio. Ma, adesso che non c'è più bisogno dell''imbonitore, chi si cela dietro lo schermo, chi è il grande seduttore che racconta le immagini? L'opera di Griffith, il suo sistema di lavoro, segna anche la nascita di un'altra figura che domina il set durante le riprese: il regista. Quando Griffith cominciò a lavorare, l'autore dei film era il cinematographer, cioè l'operatore che teneva la cinepresa. Con Griffith è il regista che diventa narratore e prende in mano il destino del film. Il narratore invisibile del cinema, quindi, non è una persona sola ma è la sintesi di molte persone che hanno lavorato alla realizzazione del film: all'inizio sono il regista e il cinematographer, poi verranno lo sceneggiatore, il fotografo, il montatore, e poco a poco tutti gli altri artisti che collaborano insieme con fatica e sacrificio alla realizzazione dell'opera, compresi gli attori. E' adesso che il cinema si afferma come una grande arte collettiva, pari alla danza e alla musica per orchestra. Didascalie: voce simbolica del narratore Naturalmente niente accade mai all'improvviso, e la scomparsa dell'imbonitore trova un sostituto nelle didascalie che inizialmente erano chiamate anche “titoli” e servivano a presentare ogni scena. Poiché non molti spettatori erano in grado di leggere, qualcuno leggeva per tutti ad alta voce. In seguito vennero usate per introdurre i personaggi, o anche per indicare quanto tempo passava, dove ci si trovava di volta in volta, oppure i cambiamenti di scena. Di fatto la didascalia sostituisce la vecchia voce del presentatore ed è come la voce simbolica del regista, che diventa lui il narratore. Più tardi, in una terza fase, le didascalie conterranno anche le parole dei personaggi, almeno nel cinema muto. Con il sonoro spariranno definitivamente. La didascalia quindi nasce come voce che sostituisce l'imbonitore, e Griffith infatti la usa anche per commentare i fatti e i personaggi che appaiono sullo schermo, dichiarando subito le sue simpatie o antipatie e coinvolgendo lo spettatore in maniera più intensa dentro la trama. La sequenza. Dall'autonomia alla gerarchia delle inquadrature Con il linguaggio del cinema nasce anche la forma-base del cinema narrativo, la sequenza, che consiste nella scomposizione della vecchia inquadratura lunga e autonoma in molte inquadrature brevi, corrispondenti a diversi punti di vista, e dipendenti una dall'altra. I piani ravvicinati, i mezzi piani, i dettagli sono tutti frammenti ingranditi del vecchio piano d'insieme, e dipendono da questo. Con la sequenza nasce anche una gerarchia fra le inquadrature: i dettagli dipendono dall'inquadratura generale, il piano d'insieme, appunto, che definisce la situazione nel suo complesso. La vecchia inquadratura autonoma e lunga, che prima era l'unica, diventa ora la principale (master shot), che “regge”, per così dire, le inquadrature subordinate, cioè i vari piani ravvicinati, i dettagli (inserts); è il master shot infatti che ci permette di capire gli inserti, i particolari. Il tempo e la velocità narrativa saranno la cosa più importante nel nuovo montaggio. Come dirà François Truffaut: “i film corrono come treni nella notte”, e il film classico fino dalla sua origine impara a correre verso la soluzione della storia. Con la sequenza il cinema impara anche a guardare le stesse cose da molti punti di vista, vicino, lontano, davanti, dietro eccetera. Con la sequenza nasce anche il concetto di inquadratura, che prima non esisteva; infatti, mentre la “veduta” delle origini comprendeva una scena intera, autonoma e completa, l'inquadratura sarà solo una piccola parte di una costruzione più ampia che è, appunto, la sequenza, composta da molte inquadrature. Il montaggio allora non è più un effetto speciale, ma diventa una pratica comune, di scomposizione e ricomposizione delle azioni. I vari tagli di montaggio saranno chiamati raccordi, appunto perché ci permettono di passare da un punto a un altro della scena senza sbalzi, in modo continuo e lineare. Il mondo diegetico La sequenza è anche lo strumento essenziale per la reinvenzione dello spazio e del tempo, che trasformano anche il mondo reale in un mondo del tutto immaginario, quello dove si svolgeva la storia raccontata. Nel cinema narrativo tutto il mondo è finito e se non lo è lo diventa , a partire dal montaggio, che può collegare le cose e i luoghi più lontani fra loro, unire tutto con tutto. Questo comporta una conseguenza importante, che abbiamo già intravisto con Méliès. Il mondo reale delle vedute viene sostituito da quello che potremmo chiamare d'ora in poi mondo diegetico (dal greco antico, diéghesis = narrazione), e avrà nel cinema un'importanza fondamentale. Una camminata può continuare da un'inquadratura a un'altra, collegano due stanze che nella realtà sono molto distanti e che nella mente dello spettatore si uniscono a comporre uno spazio unico, il mondo della diegesi, appunto. Come possiamo definire il montaggio che nasce ora e che ritroveremo con pieni poteri nel cinema narrativo classico? Possiamo definirlo in questo modo: montaggio narrativo = creazione illusoria di una continuità temporale e spaziale mediante inquadrature discontinue, girate in luoghi e tempi diversi e montate in una sequenza unitaria. Il montaggio narrativo completa così il processo di costruzione del mondo virtuale, iniziato dal montaggio giocoso di Méliès. Lo spazio e il tempo creati dalla sequenza hanno le caratteristiche di un vero miracolo: il mondo della finzione, nel quale d'ora in poi lo spettatore vivrà immerso, insieme con i personaggi. Ogni realismo diventerà illusione e ogni finzione sembrerà vera. Per questo motivo è anche opportuno che il mondo virtuale creato dal film si chiami mondo diegetico, invece che mondo immaginario: di solito infatti il mondo immaginario si contrappone a un mondo reale, mentre nel cinema tutto è immaginario, anche i luoghi veri, anzi soprattutto quelli. Dal cinema di narrazione a quello sperimentale, il secondo volo di Griffith La ricerca di Griffith non si arresta qui. Non si accontenta più di coinvolgere lo spettatore, ma vuole anche stimolare la riflessione. Cristiano protestante qual era, Griffith rimase molto scosso dalla violenza razzista suscitata dal suo film La nascita di una nazione che, con la sua tesi sulla superiorità dei bianchi, aveva provocato tumulti e scontri in molte città americane. Fu anche stupito dall'uso politico che ne venne fatto, da lui non previsto e neppure vagamente immaginato, e cercò di riscattare la fama di razzista che si era meritata girando un grande film pacifista. Intolerance, realizzato l'anno dopo (1916), elabora forme narrative assolutamente nuove. Per illustrare i mali provocati dall'intolleranza Griffith decise di raccontare e confrontare quattro storie che scorrevano insieme, alternandosi continuamente sullo schermo; in tal modo Intolerance diventava una sintesi della violenza nel mondo; ecco le quattro storie: 1. la caduta di Babilonia e del suo sovrano pacifico, Baldassarre; 2. la Passione di Cristo; 3. lo sterminio degli Ugonotti in Francia nel 1572 8notte di San Bartolomeo); 4. una storia di gangster contemporanea. Le vicende, distanti addirittura due migliaia di anni, s'intrecciano continuamente. Il montaggio ci fa passare da un'epoca all'altra, da Babilonia, a Parigi, alla Palestina, poi a New York e di nuovo in Palestina, tutto il mondo si mescola e il tempo si avvolge su se stesso... Quello che importa a Griffith infatti è il concetto, non la singola vicenda raccontata. Le quattro storie corrispondevano anche a quattro generi maggiormente frequentati nel cinema contemporaneo: il film colossale (Pastrone), quello storico (film d'arte), quello religioso (le Passioni), e il dramma a sfondo sociale (di Griffith stesso). La straordinaria novità, quasi assurda, di questo film consiste nel cambiamento continuo di scena e di epoca,nell'entrare e uscire a piacimento da quattro mondi, spezzando la continuità del racconto per un discorso complessivo, di carattere morale e politico, sulla necessità della pace. Intolerance segna la nascita del film didattico e filosofico. Invece di cercare l'adesione commossa dello spettatore, come faceva prima, Griffith qui cerca di scuotere la sua intelligenza: primi piani lunghi e descrittivi, mascherini che sottolineano azioni e volti, didascalie sarcastiche e amare, oppure immagini simboliche strane e misteriose, che ricorrono spesso fra un episodio e l'altro, come quella di una madre che dondola la culla, o di un libro (la Bibbia?), sono altrettanti inviti alla riflessione, a confrontare la vita con la morte, il bene con il male, il bello con il brutto. Diverso è anche l'uso del primo piano nei due film: mentre in Nascita di una nazione era uno strumento psicologico di costruzione del personaggio, qui diventa uno strumento poetico che, con i volti delicati e gentili delle vittime, crea tante piccole liriche all'interno di una serie narrativa di per sé già molto complessa. Nascita di una nazione è un cinema di prosa e d'azione, mentre Intolerance è cinema che racconta storie di un mondo diverso, pieno di poesia e di pensiero, e le inquadrature spesso prendono una durata temporale insolita, troppo lunga, per indurre lo spettatore a pensare. Nella storia spesso incontreremo queste due dimensioni, narrazione poetica e narrazione in prosa, spesso rivali ma più spesso intrecciate fra loro, e le vedremo attingere linfa una dall'altra per rinnovarsi continuamente. Differenze fra America e Europa Poco a poco, progressivamente, dietro la spinta americana anche il cinema europeo si mette in movimento, e dai quadri fissi alla Méliès passa a un montaggio dinamico e drammatico. Spesso però, a eccezione delle avanguardie russe che, come vedremo, si basano sul montaggio di pezzi brevissimi, il cinema europeo – soprattutto quello italiano, francese, tedesco e scandinavo – manterrà uno stile di campi lunghi e tempi distesi. Se lo stile americano è basato sul montaggio analitico, quello europeo insiste ancora molto sulla profondità di campo, che era caratteristica del Cinematografo Lumière, dove tutto appariva sempre a fuoco, sia il primo piano che lo sfondo più distante. Il cinema americano si sforzerà di eliminarla, perché la profondità di campo riempie le inquadrature di oggetti e persone, le rende complicate e rallenta la narrazione. Il cinema europeo invece valorizza e ne fa spesso un punto di riferimento estetico. La profondità di campo richiede anche tempi diversi, inquadrature di lunga durata, che diano allo spettatore il tempo di guardare bene; impedisce lo scorrere veloce e avvincente della narrazione, impostando invece un cinema lento, di osservazione e di contemplazione, un cinema pittorico e poetico più che narrativo. Di qui nasce anche una diversa concezione del racconto cinematografico fra Alan Schneider su un soggetto dello scrittore Samuel Beckett. Qui Keaton intraprende se stesso, nella lotta di un uomo che non vuole essere guardato da nessuno. Nel grande cure geometrico di questo acrobata matematico, il linguaggio cinematografico diventa uno strumento per nascondersi invece che mostrarsi. Stroheim: la profondità di campo e le metafore Se i primi due maestri sono comici, il terzo è un tragico. Stroheim, che aveva lavorato come attore con Griffith, perseguiva con accanimento una concezione del cinema come arte grandiosa e colossale, basata soprattutto nella messa in scena che doveva essere accuratissima e sfarzosa. La sua lotta in difesa dell'autore come padrone assoluto del film, sul set e nel montaggio, lo portò alla rovina. Inizialmente l'idea di cinema d'autore fu sfruttata dai produttori che crearono intorno a lui una leggenda e all'inizio degli anni venti lanciarono lo slogan: “contano soprattutto l'opera e l'autore”. Ma non poteva durare, e Irwing Thalberg, il direttore dell'appena nata Metro Goldwyn Mayer, rovesciò il principio e cambiò lo slogan: “il produttore innanzi tutto”. I suoi film, Blind Husbands (1918), Foolish Wives (1921), presentano storie e scene provocanti e crudamente sensuali e, con il più feroce realismo dei particolari, sfidano sia il perbenismo e l'ipocrisia della borghesia americana ed europea, sia la disponibilità e la falsa generosità dei produttori hollywoodiani. La sua idea di autore onnipotente e incurante di qualunque censura o richiesta del mercato era insopportabile per tutti. In Greed (1924) troviamo la più forte e grandiosa esemplificazione della sua poetica: realismo e metafora sono fusi in un tutto unico. Da una parte il realismo, con una ricostruzione della scena nei minimi dettagli (un'intera strada di San Francisco venne interamente ricostruita in studio, compresi i palazzi, così com'era nell'Ottocento). Dall'altra parte, l'inquadratura doveva essere piena di simboli e metafore. La profondità di campo diventa lo strumento principale per sviluppare i contrasti dentro l'inquadratura; se il primo piano sembra lieto, spesso lo sfondo è tetro o addirittura terrificante, o viceversa, come nella scena del matrimonio, in cui si vede un funerale passare davanti alla finestra. Stroheim aveva una completa indifferenza verso lo spettatore comune (il target dell'industria hollywoodiana, come si potrebbe chiamare oggi), e pensava che il film non dovesse certo offrire un rilassato piacere ma, anzi, dovesse chiedere un duro e lungo impegno intellettuale e anche fisico da parte dello spettatore. Greed infatti è la prima grande sfida e provocazione sociale e culturale. Più tardi, la Metro gli offrì di dirigere una Vedova allegra, che Stroheim trasformò in una cinica e tetra descrizione delle feste depravate e libertine della vita di corte. Era un altro atto di accusa metaforica contro tutte le prevaricazioni commesse dal potere. Il film successivo, Queen Kelly (1928), doveva essere ancora più provocante. Questa concezione del cinema ben presto lo rese incompatibile con il sistema, e Thalberg, dopo avere inizialmente sfruttato le sue manie di grandezza, colse l'occasione del sonoro per sospendere Queen Kelly e abbandonarlo alla disoccupazione. Stroheim avrebbe poi lavorato solo come attore in opere di altri registi, rendendo famosi, con la sua sola presenza, anche dei film mediocri. La sua opera ha ancora oggi un'altra qualità che lo rende incompatibile con il sistema classico: la sua altissima violenza erotica. Ogni inquadratura contiene una carica sensuale che nel cinema non si era mai vista e che non si vedrà mai più. Non si tratta di scene di nudo, che peraltro non mancano, ma dell'attenzione sensuale sul corpo femminile, uno sguardo lussurioso che nessun regista riuscirà più a raggiungere. Il sudore, la sofferenza fisica, lo sporco, la pelle, diventano spesso padroni dell'inquadratura. Un cinema di questo tipo non poteva essere tollerato dal producer system che si andava consolidando. Greed (Erich von Stroheim, 1924) Il capolavoro di Stroheim Greed (Rapacità) doveva essere un film di durata inconcepibile, sette ore circa (42 bobine). Thalberg gli impose di ridurlo al montaggio; con grande sforzo Stroheim arrivò a circa metà (24 bobine), poi il film passò nelle mani di Rex Ingram, suo allievo e ammiratore, che cercò di salvare il salvabile, e arrivò a 18 bobine (tre ore circa), ma alla fine dovette passare la mano a montatori di professione che ne fecero un vero e proprio massacro e ridussero il film a 10 bobine, le dimensioni che il film ha oggi (108 minuti). Interi episodi e personaggi furono cancellati e Stroheim non accettò mai questo strazio. Greed racconta la storia della giovane e graziosa Trina, figlia di poveri immigrati, e di suo marito Mac Teague, che prima l'ama follemente, poi la uccide. Trina, alla vigilia del matrimonio con Mac, vince alla lotteria 5000 dollari in monete d'oro, ma questa somma la trasforma nella sordida custode del suo tesoro. Mac, un uomo fortissimo e violento ma anche tenero e delicato, era prima un giovane operaio in miniera, poi aveva seguito un dentista che gli aveva insegnato il mestiere e aveva cominciato a esercitare senza licenza. Pur vivendo una vita agiata, i due poco a poco diventano una coppia sempre più degradata. Un cugino, Marcus, per gelosia denuncia Mac alla società dei dentisti ufficiali, lo priva del lavoro, e così li trascina nella disoccupazione e nella miseria più nera. Ma Trina si accanisce sempre di più nella custodia del suo tesoro, e anzi, nel tentativo disperato di accrescerlo, nutre Mac di cibi avariati e lo riduce a uno schiavo. Impazzito, l'uomo prima l'abbandona, poi la ritrova e la uccide, scappando con l'oro. Marcus, a capo di una squadra di rangers, lo segue fin dentro la Valle della Morte (deserto di Mojave) e i due moriranno di sete in quel paesaggio orribilmente arido e bruciato come le loro anime. Paurose sono infatti le inquadrature finali, in cui la metafora del deserto è spianta fino al più crudo e duro realismo. Stroheim fece soffrire la sete ai due attori e i loro volti disseccati si riempiono di crepe come la creta circostante, popolata solo di serpenti e scorpioni; “What a country”, dice Mac, impaurito dal posto in cui è finito. Ma il luogo è solo il simbolo delle passioni e della violenza umane. E' una storia ricostruita con un realismo esasperato, ma anche costellata di metafore e di oscuri presagi. La metafora prende possesso della scena e, accanto a un intenso realismo, cresce l'opposto, un simbolismo esasperato e pauroso. Tutto è vero, naturale, ordinario, e tutto è astratto, immaginario e simbolico. CINEMA COME ARTE SOVVERSIVA: IL FUTURISMO ITALIANO E LA RIVOLUZIONE RUSSA Mentre in America matura il modello narrativo, che s'impone sul piano commerciale in tutto il mondo, in Europa alcuni artisti coraggiosi e innovatori si spingono verso nuovi orizzonti: per loro il cinema non è uno spettacolo, ma un'arte che scopre un mondo nuovo. Avanguardie italiane Il secolo della tecnica Non era solo il cinema che cambiava la vita e la cultura del Novecento. Anzi, c'erano macchine ben più importanti, soprattutto i veri mezzi di trasporto meccanici – treni, automobili, aeroplani – trasformavano il mondo. Il paesaggio visto da un treno, dall'automobile o dall'aereo, con il suo continuo mutare, era ben diverso da quello visto da una montagna: era impossibile fissarlo prima che fosse già cambiato. Le avanguardie europee degli anni venti sono tutte costruite intorno al tema e al grande sogno della macchina. Primi fra tutti, sono i futuristi italiani a lanciare il sogno di rivoluzionare la vita attraverso le macchine, presto seguiti dalle avanguardie francesi – cubismo e dadaismo – che scompongono il mondo e il linguaggio secondo forme geometriche e meccaniche. I futuristi russi vedono nelle macchine e nell'elettricità un equivalente della rivoluzione socialista, mentre per le avanguardie tedesche l'idea di macchina assume significati tenebrosi, fino a suggerire spesso una strana mescolanza fra vita e morte, fra l'organico e l'inorganico. Ma alcune cose hanno in comune, come l'interesse per il cinema. Naturalmente però si tratta di un tipo di cinema completamente diverso da quello narrativo commerciale che l'industria aveva lanciato nel frattempo. Le avanguardie propongono un cinema che frantuma i modelli conosciuti. La modernità si annuncia con la distruzione di ogni forma e modello tradizionale. I futuristi italiani e la comicità E' nel futurismo italiano che incontriamo il primo salto verso la modernità. Marinetti e gli altri artisti avevano rifiutato le arti tradizionali nel Manifesto del futurismo (1909), sostenendo che una “rombante automobile” era più bella della Vittoria di Samotracia, la statua greca (ora al Louvre) che costituiva il più tradizionale simbolo dell'arte classica. Uno dopo l'altro furono pubblicati i vari Manifesti futuristi, fino al Manifesto della cinematografia futurista (1916). Il cinema era da considerare arte futurista per natura, poiché in primo luogo era “privo di passato e libero da tradizioni”. In polemica contro il cinema narrativo, i futuristi proponevano un cinema di “viaggi, di cacce, di guerre” e, come antidoto alla tradizione, proponevano anzi esigevano un cinema “antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero”. Volevano “liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte, immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti”, utilizzando i colori, il movimento, il montaggio, per comporre nuove metafore: ad esempio “una montagna cavernosa per descrivere uno stato angoscioso”. I futuristi capiscono subito il potere dissacrante e creativo dei trucchi, che fino allora nessuno aveva considerato. Il cinema è per loro anche il più affascinante e nuovo fra i mezzi di trasporto conosciuti. I futuristi colgono immediatamente l'identità di cinema e movimento. I primi a fare esperimenti filmici furono i due fratelli Arnaldo e Brino Corradini con quattro film del 1911, oggi perduti, in cui la pellicola era colorata a mano, anzi macchiata di colori sparsi e confusi. Da queste idee sarebbe nata più tardi anche una nuova pittura, l'aeropittura, che tentava di riprodurre sulla tela le impressioni visive durante il volo in aereo, con le figure deformate in macchie di colore. Un film realizzato da Marinetti nel 1916, Vita futurista, anch'esso perduto, mostrava i futuristi che disturbavano la quiete pubblica a Firenze e importunavano la gente seduta nei caffè. Dalla distruzione si è salvato solo un film particolarmente significativo, Thaïs, o Perfido incanto (1916) di Anton Giulio Bragaglia. Una bellissima contessa russa, Thaïs, grande seduttrice di uomini sposati, si uccide nella sua casa labirintica, fra le pareti disegnate a scacchi, losanghe, spirali, gatti neri dipinti e un fumo velenoso che esce da una bocca anch'essa dipinta, tutta opera del pittore Enrico Prampolini. Soprattutto, però, i futuristi adoravano il cinema comico popolare che celebrava, come abbiamo visto, il movimento e il montaggio allo stato puro. I primi comici italiani erano quasi tutti venuti dal circo, spettacolo molto amato dai futuristi perché era costituito da un assemblaggio di numeri diversi e brevi. L'influenza del futurismo in Europa A dire il vero, le teorie futuriste furono considerate all'inizio stravaganti e un po' esaltate e non produssero, almeno immediatamente, opere adeguate alle loro intenzioni rivoluzionarie. Furono però importanti come fonti d'ispirazione per tutte le avanguardie successive, francesi, russe e tedesche. Film come Il gabinetto del dottor Caligari in Germania saranno profondamente influenzati dal futurismo italiano. Sotto questo aspetto il futurismo lascia nel cinema più tracce di quanto sembri, apre la strada a tutte le avanguardie. Prima del futurismo il cinema era solo un'attrazione di fiera, con il futurismo invece i trucchi diventano poesia: non più curiosità bizzarre, ma strumenti di un nuovo linguaggio creativo e sovversivo. Il futurismo è in effetti la prima corrente artistica che s'interessa al cinema come linguaggio e come movimento del linguaggio. Inoltre in Italia non c'è solo il futurismo che influenza il cinema. La pittura moderna, liberty o Art nouveau, costituiscono una grande fonte di ispirazione per un altro genere del cinema italiano, il diva-film in cui su storie drammatiche tradizionali d'amore e morte si innestava spesso una serie di effetti scenici o recitativo tendenti all'eccesso, al sublime. Ma il grande pregio di questo genere fu, come dice il nome, di creare una nuova figura di diva o di donna, sviluppata in Italia. Seduttrici tristi e dolenti, vittime di amori sconfinati, le nuove dive dominarono il cinema italiano e europeo creando i presupposti per il grande fenomeno del divismo che avrebbe trionfato in America. Un altro genere del cinema italiano, il diva-film e la scoperta del primo piano Thaïs non è l'unica donna fatale del cinema e nemmeno la prima, anzi è forse una delle ultime grandi seduttrici del cinema muto. Il cinema dei paesi scandinavi inventa la figura della vamp la donna-vampiro), con le prime grani dive e grandi seduttrici dello schermo. In Italia, nel periodo tra il 1915 e il 1921, intorno alla figura della diva si sviluppa un vero e proprio genere: è il diva-film, dramma aristocratico elegante, anch'esso raccontato per inquadrature lunghe, con rari e lunghissimi primi piani delle protagoniste femminili. Ambientato spesso in grandi ville con interni liberty o decò, il diva film lancia grandi figure femminili. Pina Menichelli e altre lasceranno nel cinema italiano la loro impronta di donne fatali. Nascono anche molti tipi di recitazione diversi e opposti fra loro: da quella naturalistica, semplice e distesa, fino a quella eccessiva ed esasperata. Le dive del cinema italiano spesso compongono quadri statici e lunghi, immagini da contemplare al di là delle storie. Anche i primi piani sono straordinariamente lunghi e intensi, ben diversi da quelli narrativi del cinema americano contemporaneo. Questo nuovo uso del primo piano e del volto umano, che potremmo definire descrittivo e pittorico, poiché deriva dalla pittura, avrà poi molta influenza sia sui registi del cinema espressionista tedesco, sia su quelli del cinema francese, che scopriranno nel primo piano la grande forza del cinema. Il futurismo russo e la rivoluzione come festa La “baldoria” dei futuristi italiani purtroppo non andava oltre un generico progetto, né essi furono in grado di realizzare opere adeguate alle loro idee. Completamente diverso è il risultato del futurismo russo, che si proponeva di trasformare realmente sia l'arte che la vita, costruendo un'arte nuova per un mondo nuovo. Dobbiamo prima soffermarci un poco sull'importanza culturale della rivoluzione russa, culminata nel 1917 con la presa del Palazzo d'Inverno (la residenza degli zar), che fu un'esplosione non solo popolare, ma anche intellettuale e artistica, e liberò tutte le forze nuove che, sotto l'oppressione dell'antico regime zarista, non avevano avuto la possibilità di manifestarsi. La rivoluzione fu un grande evento distruttivo, di liberazione sociale, ma anche costruttivo, di rinnovamento artistico e di creazione di nuovi modelli espressivi. Ogni rivoluzione è sempre all'inizio una grande festa. La forza di ogni rivoluzione consiste nella rottura di tutti i vincoli e nella creazione di nuoci rapporti umani, più adatti al mondo che è cambiato. Ma per vivere insieme gli uomini hanno bisogno di leggi e di strutture che regolano i rapporti fra di loro, frenando l'anarchia degli individui, per il bene collettivo. Dalla libertà anarchica si ritorna sempre alle istituzioni. Così, ben presto questi nuovi rapporti sociali creati nell'atmosfera rivoluzionaria s'irrigidirono. Le nuove strutture create dalla rivoluzione diventarono ben presto soffocanti come le precedenti. Così anche in Russia, dopo il primo periodo esplosivo, la rivoluzione, nel giro di pochi anni, cominciò a cristallizzarsi. Per chiarire le cose basta fare un esempio. La presa del Palazzo d'Inverno, che aveva segnato l'inizio della rivolta popolare nel 1917, veniva rievocata tutti gli anni e ripetuta tale e quale. Tutti gli anni la rappresentazione si ripeté, fino a quando, in capo a dieci anni, non diventò che uno spettacolo come gli altri, indifferente a tutti. La grandiosa celebrazione decennale del 1928 fu anche la sua sepoltura: ormai la rivoluzione era solo un ricordo. La festa (formula rivoluzionaria) divenne poco a poco uno spettacolo (formula tradizionale). La festa è infatti un'esperienza unica e irripetibile, ma con la sua annuale ripetizione si trasformò nel suo opposto, lo spettacolo, che è sempre una formula ripetitiva ed è l'opposto della vera festa, come aveva detto Rousseau nella sua mirabile Lettera a D'Alembert sugli spettacoli già nel lontano 1758. Così la rivoluzione perse tutto il suo grande potenziale eversivo e creativo, ma in quei primi anni ci fu veramente uno straordinario fermento. In primo luogo c'era stata la rivista “LEF”, che costituiva un grande centro di azzeramento tradizionale. La rivoluzione era una grande occasione, tutti s'incontravano, discutevano; tutto doveva essere rifatto e rinnovato. Ma è soprattutto nella figura di un teorico, Viktor Šklovskij, che si concentrano i grandi cambiamenti. Questi, nella rivista “LEF”, era l'ispiratore della ricerca del nuovo: sua era la teoria dello “straniamento” - che sarebbe stata applicata in teatro da Brecht – secondo cui lo straniamento è un cambiamento del punto di vista, uno spostamento improvviso che l'artista deve fare rispetto ai codici precedenti. Šklovskij lo chiama anche “la mossa del cavallo”, trasversale, angolare, imprevedibile. Un'altra delle grandi idee di Šklovskij era il primato della forma: una poesia, una pittura, ogni opera d'arte sono importanti non per il contenuto, ma per la forma: da qui sarebbe nata la più grande scuola teorica del Novecento, il formalismo. L'interesse per le macchine creava una nuova estetica anti-tradizione. Il cogliere la percezione visiva in movimento. Cubismo, dadaismo, surrealismo saranno i suoi punti di riferimento costanti. Ma anche la letteratura si avviava verso orizzonti nuovi e sconosciuti. Parigi era allora il più grande cantiere artistico europeo. Molti poeti e scrittori, come Apollinaire e tanti altri parlavano del cinema come della nuova arte, e scrivevano sulla rivista “Film”, di cui era direttore Louis Delluc, un geniale cineasta e anche grande teorico del cinema. Dovunque regnava l'idea di abbandonare i modelli narrativi, che tutti consideravano stereotipi banali. La ricerca di un cinema poetico era ormai lanciata. Dal punto di vista industriale la situazione francese era differente da quella americana e favoriva lo sviluppo di autori indipendenti dalle necessità commerciali. Mentre l'industria americana, come vedremo, si concentrava in senso monopolistico, quella francese rimaneva più aperta, legata alla piccola e media borghesia, che tradizionalmente era più forte in Europa, e si disperdeva in molte piccole e medie case di produzione. Questo permette al cinema di svilupparsi in modo più indipendente che in America. Come abbiamo visto, Méliès produceva e distribuiva da solo i suoi film, e così facevano molti altri autori. Le due grandi aziende francesi per il cinema, la Pathé e la Gaumont, erano concentrate soprattutto sulla distribuzione e sull'esercizio e trascuravano la produzione, che in tal modo rimaneva più anarchica e quindi libera di cercare anche autori più coraggiosi di quelli commerciali. La fotogenia e il volto umano La grande scoperta che solleva il cinema francese ad arte nuova sarà la fotogenia. Tutto incominciò, si potrebbe dire, con un film americano, una storia di violenze sessuali, The Cheat (I prevaricatori, 1915, di Cecil De Mille). L'attore giapponese Hayakawa interpretava il personaggio di un orientale ricco e strano che, dopo aver aiutato con un prestito una donna giovane e bella, l'attirava nella sua abitazione e la marchiava a fuoco su una spalla, come gli altri oggetti della sua collezione. La straordinaria maschera di Hayakawa fece di lui un vero e proprio simbolo di mistero. I Critici del cinema si esaltavano per il suo volto nel quale coglievano un numero infinito di espressioni, dalla minaccia alla protezione, dalla violenza alla tenerezza. Il suo volto aveva la stessa immobile stranezza delle maschere, ma dietro la maschera due occhi intensi segnalavano un animo ambiguo. Scriveva Delluc (1917): “Hayakawa domina le folle con la sua malinconia. Non parlo di talento, considero questi attori, soprattutto lui, come una forza naturale e il suo viso come un'opera di poesia il cui motivo non c'importa”. Questo film e i suoi primi piani così ambigui scatenano la ricerca di che cosa sia la fotogenia, con paragoni di ogni tipo, fra cui quello più affascinante è il rapporto fra il volto umano e paesaggio. Toccherà a un ungherese, Béla Balàzs, sviluppare questo tema e portare a maggiore chiarezza le intuizioni degli scrittori francesi. Il volto umano ingrandito diventa per lui un autentico paesaggio naturale, cambia con il mutare delle ore e dei sentimenti, come la natura cambia aspetto secondo il tempo e la luce. Ogni volta è un mondo intero e anche più di un mondo, è una pluralità di mondi. Balàzs ha colto per primo tutta la straordinaria e prepotente novità della visione cinematografica: con il primo piano l'anima umana diventa visibile (Balàzs). Ecco allora che il primo piano diventa uno strumento prodigioso per fondare un'arte del tutto nuova, un'immagine visibile usata per mostrare l'invisibile. La fotogenia è quindi una vera e propria rivoluzione intellettuale e poetica. Con l'interesse per il paesaggio matura più tardi anche la corrente detta impressionismo cinematografico, che si basa appunto sulla poesia del paesaggio. Tutte le avanguardie europee, quella francese, russa, tedesca e scandinava, fanno del primo piano la punta di diamante. Mentre però il cinema americano propone del primo piano un uso narrativo, per mostrare chi parla e chi ascolta, il cinema europea invece si orienta verso un uso simbolico, che diventa essenziale per esprimere il dolore, la crudeltà, la perfidia, la malinconia. La passione di Giovanna d'Arco: Dreyer e l'apoteosi del primo piano Anche se il dibattito si svolge in Francia, il maestro che sa dare al primo piano la massima potenza espressiva è un danese, legato tuttavia alle avanguardie francesi e tedesche, Carl Theodor Dreyer. Nel suo film La passione di Giovanna d'Arco (1928) Dreyer raggiunge un'altezza e grandezza espressiva che il cinema non aveva mai conosciuto fino ad allora. Questo film è un grande poema cinematografico sulla sofferenza e sul volto umano. Il progetto originario prevedeva un film di genere storico, con la ricostruzione di ambienti d'epoca e di scenografie in costume. Ma il risultato fu l'opposto, un film senza tempo e senza luoghi, con un solo tema, il dolore, mostrato in mille forme diverse che però sono sempre la stessa forma: il volto e il corpo devastato dell'eroina. Tagliando poi e buttando via tutto quello che aveva girato, Dreyer montò una sinfonia i primi e primissimi piani di Giovanna, dei suoi accusatori e torturatori. L'attrice Renée Falconetti, a cui per contratto furono tagliati i capelli e fu praticato un salasso vero, uscì psicologicamente distrutta da quell'esperienza. L'importanza del dettaglio genera anche quella riflessa del fuori campo: essendo un film quasi interamente fatto di primi piani, l'insieme non è mai mostrato ma sempre suggerito; lasciato all'immaginazione, l'ambiente diventa immenso. L'immobilità esasperata della cinepresa, e quella dei volti indagati, sembrano negare l'essenza del cinema, che è nel movimento, mentre invece la esaltano per antitesi, come il silenzio esalta spesso la parola, e i pochi movimenti che ci sono esplodono come urla nel silenzio. La straordinaria importanza di questo film ne fa un oggetto unico nella storia, un monumento al mistero del volto umano. Dato l'estremismo della sua ricerca, Dreyer lavorò sempre in grandissime difficoltà. Nel suo film successivo, Vampyr (1932), costruisce un paesaggio misterioso e oscuro, con luoghi, volti, ombre, suoni, rumori e voci incomprensibili, e propone una riflessione sul mistero e sull'ignoto che circondano l'uomo. Con Dreyer il cinema davvero diventa capace di far vedere l'invisibile. L'arrivo del cubismo nel cinema Il cubismo è uno dei più famosi movimenti artistici del Novecento; la sua data di nascita viene collocata di solito nel 1907, con la grande mostra dedicata a Cézanne, morto l'anno prima. un opera di primaria importanza iniziale è Les demoiselles d'Avignon di Picasso. Il cubismo scompone lo spazio e gli oggetti in forme geometriche. Mentre la pittura classica è basata sulla riduzione di tutto a un unico punto di vista fisso (la prospettiva centrale), il cubismo moltiplica i punti di vista dentro il quadro, scompone la figura dipinta in una serie di immagini sovrapposte, come se questa venisse guardata contemporaneamente da molti occhi. I cubisti fecero capire che la prospettiva rinascimentale era un effetto illusorio, un'astrazione senza nessuna corrispondenza nella realtà. Questo movimento di scomposizione delle forme si trasmette presto al cinema. Fernand Léger, pittore e cineasta, cubista, autore di un altro grande film di avanguardia, Ballet mécanique (1924) sostiene che il cinema deve abbandonare assolutamente la narrazione, per diventare una danza di oggetti e di corpi assolutamente libera, puro e semplice ritmo, musica di immagini. Come la pittura andava liberata dalla riproduzione degli oggetti reali, così occorreva anche liberare il cinema dall'obbligo di raccontare storie: il cinema doveva diventare uno strumento per vedere cose mai viste. Un oggetto può diventare da solo uno spettacolo tragico, comico, grandioso, un'avventura. Ballet mécanique è una grande danza di oggetti, figure geometriche, volti, ombre e luci. Una donna sale le scale infinite volte, continuamente: questo gesto banale diventa un gesto mitico, con riferimento alla condanna a ripetere sempre la stessa azione. Il film crea una vera e propria sinfonia di oggetti e di colori, corredato da una “musica cubista”, a ritmo continuamente spezzato, scritta per l'occasione da un compositore d'avanguardia, George Antheil. Occhi che si aprono e si chiudono continuamente; occhi e bocca diventano spaventosi, ingranditi orribilmente dal primo piano, mentre gli oggetti sembrano esseri viventi. E fra tutte ritorna sempre una lunga inquadratura-manifesto, un enorme primo piano dell'occhio. E' l'occhio infatti che le avanguardie francesi intendono provocare, aprendolo e portandolo a un nuovo modo di guardare. La forza sovversiva del dadaismo: René Clair Eredi del futurismo sono tutti i movimenti artistici dell'Europa occidentale fra gli anni dieci e venti, primo fra tutti il dadaismo, fondato a Zurigo, nel 1916, da Tristan Tzara, e durato approssimativamente fino al 1923. “Dada” era una parola priva di senso, che i dadaisti dicevano di avere trovato aprendo a caso il vocabolario; probabilmente alla sua origine sta una parola inglese, che indica “un passatempo ozioso”. Questa parola è l'antenata delle nostre parole “hobby” (passatempo preferito). Il dadaismo intende appunto la letteratura come lavoro senza scopo, gratuito e libero da tutti i significati. Il metodo giusto per scrivere nuove poesie, secondo Tzara, era la scelta casuale: bastava scrivere delle parole su dei foglietti, metterli dentro il cappello e tirare su a caso. L'arte per il dadaismo è totalmente liberatoria. Nel manifesto del 1918 leggiamo: “Basta con i pittori, basta con i letterati, con i musicisti, con gli scultori, le religioni, i repubblicani, i monarchi, gli anarchici, basta con i proletari, con gli aristocratici, con gli eserciti, con i borghesi, con la polizia, con le patrie, insomma, basta con tutte queste imbecillità, più nulla, più nulla, più nulla”. Alcune parole d'ordine del movimento dada sono: 1) Il pensiero si fa nella bocca; 2)Chiunque è direttore di Dada; 3) I veri dadaisti sono contro Dada. Il primo slogan rovescia il percorso tradizionale dal pensiero alla parola, e propone di parlare a caso per poi cercare di capire quello che abbiamo detto; è forse la prima applicazione della psicoanalisi alla letteratura. Il secondo slogan è un attacco contro tutte le gerarchie. Il terzo invece critica ogni tentativo di istituzionalizzare la rivoluzione dadaista. L'incontro del dadaismo con il cinema produsse alcuni capolavori, come il film di René Clair Entr'acte (Intervallo, 1925), così chiamato perché era nato come intervallo cinematografico fra due parti di un balletto. Ma la parola “intervallo” indica anche la poetica del dadaismo: un cinema senza un posto preciso, libero da qualunque struttura. La musica originale, scritta per il film, eseguita in sala da un'orchestra, era di Erik Satie. Entr'acte (René Clair, 1924) In Entr'acte la poetica dadaista si dispiega nel pieno della sua libertà, creando un cinema in cui le immagini, libere finalmente dall'obbligo di produrre un senso e di raccontare una storia, diventano autentiche protagoniste del film; non hanno altro fine che se stesse. Nessuno recita, non ci sono personaggi né storie, appaiono solo persone e figure, fra cui anche alcuni grandi artisti del Novecento, come lo stesso musicista, Erik Satie, che spara una cannonata contro lo spettatore, o i pittori Marcel Duchamp e Man Ray che giocano a scacchi su una terrazza. Entr'acte, come dice il titolo stesso, è solo un intermezzo giocoso, è solamente cinema, un gioco in cui ritroviamo tutte e vecchie attrazioni del cinematografo: la sovrimpressione, con due o più immagini sovrapposte, la dissolvenza incrociata, il primo piano, la soggettiva, il montaggio puramente ludico, la fuga-inseguimento, la sparizione alla Méliès, tutti questi effetti speciali s'intrecciano e hanno il cinema stesso come significato. La rivoluzione surrealista i dadaisti presto si erano trovati in una situazione di vuoto intellettuale. Questo fu il problema di partenza del più importante movimento europeo del Novecento: il surrealismo. Il suo fondatore, André Breton, si propone di scavare in profondità, sia dentro l'animo umano sia dietro l'apparenza del mondo e delle cose. L'inconscio, la sessualità repressa, le culture di altri paesi lontani, fino ad allora disprezzate e considerate “primitive”, e anche l'arte povera e popolare, tutti questi diventano nuovi strumenti di conoscenza, per vedere il mondo al di fuori dai modelli tradizionali. I surrealisti si gettarono su tutto ciò che fino ad allora non era considerato cultura, ma spazzatura, come per esempio il cinema popolare. Riscoprirono Fantômas e Méliès, e tutta la letteratura e il cinema povero, prima ignorati e disprezzati dagli intellettuali. Il “Manifesto del surrealismo”, scritto nel 1924 da André Breton, fu la prima grande rivoluzione intellettuale del Novecento. Freud, che fino ad allora era stato ignorato dalla cultura ufficiale, divenne una vera e propria miniera per i surrealisti che si buttarono sull'inconscio per sondarlo, studiarlo. Nel 1924 la psicoanalisi era già molto conosciuta, ma l'idea che ciascun uomo avesse un inconscio primitivo, passionale e violento, faceva paura a tutti i benpensanti. Il maggior film surrealista, Un chien andalou (1929), è invece uno sguardo dritto e crudele nelle parti più profonde della psiche. Un'altra invenzione del surrealismo, collegata alla psicoanalisi, è l'abolizione del confine fra il sogno e la veglia. Il poeta Robert Desnos inventa la “scrittura automatica” che consiste nello scrivere in uno stato semiaddormentato per lasciare emergere i pensieri profondi e repressi. Al posto della scrittura automatica, se ci si sposta sul piano della pittura, troviamo le “immagini ipnagogiche”, che interessano a Salvador Dalì. Sono le immagini che stanno a metà fra veglia e sogno, e che ci accompagnano dentro il sonno. In questa direzione Dalì avrebbe dipinto i famosi orologi sciolti, i deserti popolati da rocce umane e gli uomini dentro altri uomini. Un altro grande tema surrealista è il folle amore, amore spinto fino alla follia. E' il tema che sta anche al centro di quelli che sono forse gli unici due film veramente surrealisti, Un chien andalou (Un cane andaluso, Luis Buñuel e Salvador Dalì, 1929), e L'âge d'or (L'età dell'oro, Buñuel, 1930). Ma soprattutto è l'occhio che sta al centro di tutta la poetica cinematografica del surrealismo. L'occhio che i surrealisti vogliono aprire, spalancare, ferire e tagliare crudelmente, per farci vedere, anche a prezzo di grandi sofferenze, quello che finora non abbiamo mai visto e che forse non vorremmo vedere. Ma Buñuel non è solo creatore di immagini fantastiche e irreali: nel 1932 tornò in Spagna, dove realizzò un documentario, Las Hurdes in cui mostra con immagini crudeli la povertà di un paese di pastori, dimostrando che il surrealismo non è solo fantasia, ma anche e soprattutto osservazione spietata della realtà. A metà fra i vari movimenti di avanguardia (cinema puro, dadaismo, surrealismo) sono le opere di Duchamp come Anémic Cinéma (1925), dove la prima parola è anagramma della seconda). Un “cinema anemico” vuol dire “povero di senso”, ma non debole, fragile, anzi fortissimo, tanto da stordire lo spettatore. Vediamo dischi rotanti con delle scritte circolari che girano, cerchiamo con grande fatica di leggere le scritte ma quando ci riusciamo troviamo solo beffardi giochi di parole. Nasce con il surrealismo anche l'idea di cinema lirico, in opposizione a quello narrativo, un canto composto con immagini anziché con parole. Un chien andalou (Un cane andaluso, Luis Boñuel e Salvador Dalì, 1929) Il film inizia con una scena terrificante in cui un uomo, lo stesso Buñuel, con un rasoio taglia un occhio a una giovane donna che guarda la luna. Il taglio dell'occhio è il vero gesto surrealista: indica la penetrazione al di là di tutte le frontiere. D'ora in poi non sarà più possibile guardare il mondo con gli stessi occhi. Nel seguito del film, che è molto breve (15 minuti circa), un uomo e una donna attratti da un desiderio intenso e violento cercano disperatamente di congiungersi, ma una serie di oggetti, eventi o persone li divide continuamente. Tutto si svolge in uno spazio senza tempo e un tempo senza spazio, che cambiano continuamente: si passa dall'interno all'esterno di una casa e viceversa; si va avanti e indietro nel tempo a caso, come se la storia raccontata fosse eterna. Immagini terribili come l'androgino, una donna-uomo, scaraventato sotto un'automobile, oppure la mano tagliata, o la mano coperta di formiche, la faccia senza bocca, sono diventati veri e propri simboli del nuovo cinema e della nuova arte. La fine del film lascia l'uomo e la donna sepolti nella sabbia a poca distanza l'uno dall'altro; sono vicinissimi eppure non possono neppure toccarsi. Nel film L'âge d'or, il cui titolo è chiaramente sarcastico, poiché descrive un mondo orribile di crimini e violenze feroci, ancora una volta il tema dell'amore folle, necessario e impossibile travolge una coppia di amanti fino alla sofferenza più dolorosa; i loro nemici questa volta sono altri: la religione, incarnata in una serie di preti-cavalieri; le istituzioni sociali, rappresentate invece in una festa di ministri e aristocratici pazzi e dementi; la cultura tradizionale, come i quadri, la musica e la scultura, che vengono buttati dalla finestra. Immensa metafora e grido di dolore che racconta il bisogno di amore e l'impossibilità di trovarlo, questo film termina con una scena, accusata di atteggiamento blasfemo, dove Gesù Cristo e il marchese de Sade (il personaggio pervertito e folle del romanzo Le centoventi giornate di Sodoma) sarebbero la stessa persona; sacro e profano si confondono in un abisso di orrore, una scena ferocemente anticristiana, che costrinse Buñuel a scappare in Messico. Eredità del surrealismo Il surrealismo avrebbe avuto grandissima importanza nella cultura novecentesca, fino ai giorni nostri. D'ora in poi lo schermo del cinema sarà come una finestra che si apre sui sogni e sugli incubi, su mostri, spettri, ricordi, passioni proibite, grandi amori e altri fantasmi. Dovunque ciò accada, si può e si deve parlare di surrealismo. Anche il migliore cinema horror e fantascientifico dei nostri tempi è debitore a questo grande movimento. Basta il suo vertice nel settembre del 1923; un periodo di smarrimento e caos in tutto il paese, fra fallimenti, speculazioni, disoccupazione, milioni di famiglie borghesi e operaie ridotte alla fame, senza casa. I generi di prima necessità, come quelli alimentari, aumentavano di prezzo nel corso di una stessa giornata, i salari si disfacevano prima di essere spesi. Il quadro sociale di questa catastrofe non poteva non riflettersi nell'arte contemporanea tedesca. Ma già prima della guerra erano iniziati movimenti artistici interessati alla distruzione o alla deformazione dello spazio e della figura umana, come l'astrattismo e l'espressionismo. L'astrattismo nella pittura e nel cinema Solitamente si indica come padre della pittura astratta Kandiskij che pubblicava disegni tendenti alla grafica, piatti e a contorni duri, senza sfumature. Principio base era l'idea secondo cui un dipinto, prima di essere un paesaggio o un qualunque oggetto, è una superficie con dei colori, idea da cui derivò la rinuncia alle figure umane o alle forme definite per cercare di cogliere solo le ombre o le forze dinamiche allo stato puro. A questo movimento aderì anche l'olandese Mondrian. Dalla pittura astratta nasce subito l'idea del cinema astratto, che va alla ricerca di ritmi visivi senza immagini, un gioco di linee e forme geometriche che somiglia al “cinema puro” di Survage, e vuole imitare la pittura astratta o la musica di luce. Ne fanno parte i film del pittore Eggeling, giochi geometrici del tutto astratti, privi di oggetti, di figure umane, di contenuto sia visivo che narrativo. Molti di questi però erano esperimenti incerti, né pittorici né musicali e ancor meno cinematografici. Altre opere come quelle di Marcel Duchamp (Anémic cinéma, 1925), stanno come abbiamo visto fra dadaismo e astrattismo. Astratto è anche il cinema di Hans Richter che intitola un suo film Rhytmus 21 (l'anno di realizzazione); mentre Ruttmann li intitola Opus I, Opus II, Opus III, Opus IV (1921-1925), poiché sono tutte composizioni geometriche, luci in movimento. Egli ricerca una “musica visiva, puro ritmo. Il “cinema astratto” o il “cinema puro” avrebbero avuto molta influenza in futuro anche sul cinema narrativo e commerciale, per rappresentare quella tensione, profondamente radicata dentro ogni racconto, verso il non raccontabile, il non rappresentabile. Spesso il cinema astratto sarà utilizzato da grandi autori, capaci di muoversi con attenzione e maestria fra avanguardia e tradizione, e diventerà un segmento poetico che sospende temporaneamente la narrazione; basta pensare a 2001: Odissea nello spazio, dove viene utilizzato per rappresentare il viaggio finale dell'astronauta fra le stelle e, come dice il film, “oltre l'infinito”. Anche molte delle più belle creazioni di grafica luminosa, degli effetti speciali o delle sigle introduttive dei titoli di testa, nel cinema classico, moderno e postmoderno, sono nate da questa ricerca astratta. Oltre al cinema astratto, nel cinema tedesco degli anni venti possiamo distinguere tre diversi tipi di cinema: l'espressionismo, che spesso si usa impropriamente per tutto il cinema tedesco di quel periodo, il Kammerspiel e la Nuova oggettività, tendenze che adesso vedremo singolarmente. Cinema espressionista Il termine “espressionismo” è molto controverso: può essere usato per indicare un movimento artistico (quello della Germania all'inizio Novecento) oppure addirittura una categoria dell'arte, uno stile universale, quando un artista cerca di forzare le immagini o le parole verso un'espressività molto intensa. Anche come momento storico, l'espressionismo è molto discusso; ci si interroga ancora se certi film siano espressionisti oppure no. Secondo alcuni storici esiste un solo film espressionista in senso pieno, e cioè Il gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene, 1919), un film-manifesto di questo stile. Secondo altri l'espressionismo è uno stile diffuso in questo periodo in Germania, e caratterizza anche film molto diversi fra loro, come quelli di Fritz Lang, di Murnau, o di altri autori. Se invece intendiamo l'espressionismo come un movimento artistico storicamente ben preciso – nato in pittura ma esteso a varie arti, come la poesia, il teatro, il cinema – possiamo sintetizzare le sue caratteristiche in una forte distorsione del segno (linea, colore, parola, suono, azione, immagine). Un poeta appartenente a questa corrente, Benn, sosteneva che lo scrittore espressionista portava “il cuore disegnato sulla camicia”, magnifica espressione che indica l'esasperazione e lo sforzo di esternare i sentimenti: colui che si strappa l'anima, il cuore e l'espone all'esterno, lacerando i contorni del proprio corpo. Per realizzare queste distorsioni il cinema espressionista diventa appunto il regno dei trucchi, delle vecchie attrazioni, usate come strumenti per creare allucinazioni. Sovrimpressioni, apparizioni e sparizioni sono elementi per una nuova drammaturgia: spettri, vampiri, automi, morti che ritornano, e la morte stessa come personaggio. Tutte le creature del sogno e dell'incubo prendono vita con il cinema tedesco. Spazi immaginari si mescolano a spazi reali potenziando a dismisura il mondo fantastico. L'effetto Schüfftan, che prese il nome dal grande fotografo Eugen Schüfftan, padre del cinema virtuale di tutti i tempi, permetteva di creare luoghi immaginari. Un edificio disegnato in piccole dimensioni su cartone poteva essere proiettato e ingigantito mediante un gioco di specchi, creando un ambiente smisurato senza grossa spesa. E' il perfezionamento dei trucchi scenici di Méliès, ma è anche l'antenato del blue screen contemporaneo. Questa invenzione, che ne ha generato molte altre, può essere presa come simbolo dell'intera finzione cinematografica tedesca, ma anche di ogni epoca, poiché inizia a collocare attori in carne e ossa dentro luoghi virtuali. Ma non è solo l'effetto Schüfftan che lancia il cinema tedesco. Anche il primo piano assume aspetti demoniaci e persecutori, oppure sofferenti e vittimistici fino allo spasimo. Come il volto pesantemente truccato di Cesare, il sonnambulo nel Caligari che guarda verso lo spettatore. Nel 1919, quando fu realizzato il Caligari, l'espressionismo, come movimento artistico, era già molto noto. Questo film fu quindi la sua apoteosi e celebrazione. Le caratteristiche del Caligari, in cui si trova la massima distorsione dell'immagine, sono presenti in misura minore, come diluite, in altri film, dove pure troviamo scenografie deformate in maniera soggettiva, come se lo stato d'animo del protagonista, oppresso e angosciato, si proiettasse sopra il mondo intero; oppure un uso esasperato delle luci, spesso orizzontali, che tagliano la scena come coltelli; un forte contrasto fra luci e ombre, che diventa quasi un problema metafisico, simbolo del bene che soccombe di fronte al male; una recitazione caricata, che ignora le sfumature e trasforma tutto in una smorfia di dolore; uno spazio piatto, senza fondo o con fondo disegnato. Siamo in un mondo totalmente artificiale e mostruoso. In generale queste storie sono ambientate fuori epoca, nell'Ottocento, oppure in un Medioevo o in un Rinascimento immaginari. Spesso la storia stessa viene raccontata come una gigantesca allucinazione, ad esempio nel Caligari, o una maledizione, ad esempio in Nosferatu (Murnau, 1922). Dal punto di vista stilistico le caratteristiche emergenti del cinema espressionista sono la fissità e la durata delle inquadrature, tanto che spesso lo si contrappone al cinema sovietico contemporaneo, basato su inquadrature brevissime. Ma la caratteristica fondamentale è forse un'altra: la chiusura dell'inquadratura su se stessa. Il cinema espressionista in effetti trascura molto il montaggio e punta tutto sugli effetti: ogni inquadratura diventa un mondo completo in se stesso. Il gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene, 1919) Un giovane, Franz, racconta a un amico anziano la storia contorta di un sinistro imbonitore, il dottor Caligari, che gira per le fiere dei paesi mostrando un sonnambulo, Cesare, che dorme dentro una bara. Nel paesino dove abita Franz, la comparsa del dottor Caligari coincide con una serie di morti violente, fra cui il segretario comunale e anche un caro amico di Franz, Alan. Una notte Cesare rapisce la bella Jane, di cui Franz è innamorato e, inseguito dai paesani, scappa in un paesaggio dipinto, nascondendosi dentro al manicomio. Penetrati là dentro, gli inseguitori scoprono che si tratta del direttore stesso; costui infatti è stato preso da un delirio di onnipotenza. Il dottore viene così smascherato e chiuso in una cella, ma presto la verità appare più chiara: è il narratore, Franz, che è pazzo, e non il direttore della clinica, il quale invece dichiara: “Ora so come curarlo”. Il delirio si diffonde anche dentro le inquadrature, con le case distorte che sembrano cadere addosso ai passanti, le strade serpentine che non hanno nessuna direzione e spesso ritornano indietro, i lampioni sbilenchi che non illuminano niente. I personaggi hanno il volto contratto e coperto di trucco, come maschere dell'orrore, e Cesare ha gli occhi paurosamente cerchiati di nero. Le stanze e le finestre sono triangolari e i pavimenti inclinati. Tutto è falso, anche le luci sono spesso disegnate sulle pareti; i paesaggi sono dipinti. Alla fine, tutti i personaggi rientrano in scena, come pazienti della clinica che si aggirano nel cortile. L'influenza di un grande pittore, Kirchner, anche lui spesso in preda al delirio e sovente ricoverato in cliniche psichiatriche, e dei suoi dipinti con i grossi contorni neri che isolano le figure, sono ben visibili nel film, sia per le scenografie, i costumi e i trucchi, disegnati da tre pittori suoi seguaci. Ma il Caligari era anche vicino al futurismo italiano. Gli scenografi infatti imitarono anche le scenografie di Prampolini che abbiamo visto in Thaïs. Questo è un film girato per lunghe inquadrature fisse. Il Kammerspiel Completamente diverso, addirittura opposto, è il Kammerspielfilm o film da camera. Kammerspiel, che significa “teatro da camera”, era un tipo di teatro per pochissimi spettatori, inaugurato da Strindberg, un teatro piccolo, caratterizzato da vicinanza tra spettatore e attore, in cui la recitazione viene osservata come sotto una lente di ingrandimento. Se l'espressionismo trova la sua formula nella distorsione abnorme e gigantesca delle immagini, il Kammerspiel è basato sul principio opposto: qui è la sfumatura minima che interessa. Se il primo è caratterizzato dalla fissità dell'inquadratura, il secondo al contrario ha una straordinaria mobilità della cinepresa, che segue sempre da vicino i personaggi, fino alla persecuzione. Questo richiede anche un cambiamento radicale della recitazione perché, dato che lo spettatore può osservare da vicino il volto dell'attore, la mimica va ridotta al minimo, raffinata e perfezionata sul piano psicologico. Il Kammerspiel è quindi uno degli antenati del cinema moderno, soprattutto per il nuovo rapporto che la cinepresa stabilisce con l'attore, un rapporto di vicinanza, quasi di contatto, ma anche di osservazione distaccata, scientifica, rigorosa, spesso fino alla crudeltà; è il primo tipo di cinema tutto impostato sul rapporto fra attore e cinepresa. Il Kammerspielfilm è un'apoteosi del volto umano, dei sentimenti muti, dei conflitti invisibili, delle luci attenuate, il contrario delle dure luci espressioniste. Uno dei maggiori autori è Lupu Pick. Murnau e i movimenti della cinepresa Una grande personalità che collega questi due stili è Friedrich Murnau. E' con lui che la cinepresa raggiunge la massima agilità, fino a diventare un occhio che scivola nello spazio; e la soggettiva diventa la chiave di volta, tutto il suo cinema è una infinita soggettiva dal punto di vista della cinepresa. Nel 1922 Murnau realizza Nosferatu, film di vampiri apparentemente espressionista, girato però in esterni dal vero e con grande profondità di campo, che va ben oltre le inquadrature chiuse dell'espressionismo. La cinepresa segue i movimenti lentissimi del vampiro (Dracula-Nosferatu) con attrazione e paura nello stesso tempo, lo vede entrare e uscire dall'inquadratura come se venisse da un altro mondo, il fuori campo diventa il regno dell'ombra e della notte; Nosferatu si muove spesso senza camminare, come se fosse trasportato dall'aria stessa, e la città assume una dimensione spettrale. Nel film L'ultimo uomo (o L'ultima risata, 1924) Murnau imposta il dramma metaforico di un vecchio portiere d'albergo, che ha come unico orgoglio la sua bella divisa, ma ne viene improvvisamente privato ed è relegato a fare il custode dei gabinetti. La sua figura degradata diventa simbolo dell'uomo messo a nudo, privato del ruolo, dell'identità e quindi anche del rapporto con il mondo. Qui Murnau va al di là del Kammerspiel; tutto è soggettivo, ma tutto è anche deforme e distorto. Ricorrendo anche a obiettivi che distorcono lo spazio, Murnau ci mostra un ambiente normale che diventa improvvisamente pauroso e schiacciante. La cinepresa con carrelli e panoramiche sta sempre attaccata al personaggio. Murnau è per questo definito il padre del cinema moderno (Scorsese, Hitchcock). E' la vera e propria nascita del cinema come sguardo, che giungerà a maturazione solo dopo la seconda guerra mondiale. La cinepresa infatti diviene grazie a Murnau un vero e proprio essere vivente, autonomo e curioso, che si muove sul set come se stesse cercando di capire quello che accade. La grandezza del film si avvale anche della recitazione del più grande attore tedesco dell'epoca, Emil Jannings, che ritroviamo nel 1926 in Faust, sempre diretto da Murnau. Chiamato a Hollywood per lavorare alla Fox, Murnau realizza Aurora (Sunrise, 1927), un dramma sentimentale che è però anche “un canto di due esseri umani”, come recita la didascalia iniziale, un canto del loro amore. La storia di un uomo di campagna che viene travolto da una seduttrice cittadina e dalle attrazioni della metropoli, fino a cercare di uccidere la moglie. L'uso intenso della cinepresa, ma anche della sovrimpressione, riempie il film di contrasti simbolici che sintetizzano i grandi conflitti dell'età moderna. In questo periodo matura un altro mestiere che sarà molto importante nel cinema, quello dello sceneggiatore. Carl Mayer è la prima figura di sceneggiatore che interseca generi e stili molto differenti, come le tre diverse correnti tedesche che abbiamo nominato. A lui si deve l'idea del cine-poema sperimentale di Ruttmann Berlino – sinfonia di una grande città, un film interamente di montaggio, senza una storia da raccontare. A lui si devono le storie di film molto diversi come Il gabinetto del dottor Caligari, L'ultimo uomo, La rotaia (Lupu Pick, 1921) La Nuova oggettività La Nuova oggettività è stata un movimento artistico nato in Germania alla fine della prima guerra mondiale che coinvolse principalmente la grafica. I pittori più famosi appartenenti a questa corrente furono George Grosz (il quale ha dipinto I pilastri della società, 1926) e Otto Dix, i quali rappresentano un realismo grottesco. La Nuova oggettività, o “Nuovo realismo”, è soprattutto un movimento di cinema documentaristico e descrittivo che mostra le condizioni della Germania degli anni venti, con le sue storie disperate. Phil Jutzi, ad esempio, mescola in maniera nuova riprese documentarie con scene di finzione. Basta pensare a quel capolavoro che è Il viaggio di mamma Krausens verso la felicità (1929), un film che inizia con 42 inquadrature della città di Berlino, con la gente che dorme per le strade, in cerca di cibo e di lavoro, e i poveri vecchi seduti sulle panchine al gelo, e prosegue poi con una storia di finzione. Di primaria importanza è l'esasperato realismo delle storie che ritraggono problemi sociali e drammi umani. Un altro tipo di realismo è quello più teatrale di Pabst, il quale ha creato il più affascinante ritratto do donna che il cinema abbia mai avuto in Lulu (1928). Grazie alla collaborazione dell'attrice Louise Brooks, il personaggio di Lulu, con gli occhi scintillanti di pura sensualità e i capelli a caschetto neri e splendenti, il corpo ardente e flessuoso, pieno di energia e di desiderio, incarna il mito della donna-natura, portatrice di piacere e distruzione nella vita degli uomini. Nel film La via senza gioia (1925) Pabst ricostruisce il degrado e la sofferenza di una strada di Berlino, e di una classe sociale, la piccola borghesia, e la corruzione degli speculatori, con figure poco realistiche che rimandano ai disegni satirici di Grosz. Anche in questo film troviamo due bellissimi ritratti di donne, una è la nascente star Greta Garbo. Nel 1929 Pabst con Diario di una donna perduta, interpretato ancora da Louise Brooks, completò quella che poi fu definita la “trilogia della donna perduta”. Nei tre film le storie sono pretesti per costruire tre figure di donne sull'orlo dell'abisso che, sul confine tra predizione e sacrificio di se stesse, trovano la loro grandezza. Un maestro solitario: Lang e le immagini simboliche Al di fuori di queste tre correnti e vicino anche lui a tutte è il più grande maestro del cinema tedesco, Fritz Lang, che sarà considerato da molti come il simbolo del cinema moderno. Lang, che era stato anche pittore (infatti notiamo una composizione pittorica dell'inquadratura), si era accostato al cinema espressionista con Destino, del 1921. Ben presto però ci si accorse che la sua figura usciva dai contorni troppo stretti di questo o quel movimento. Nel 1922 Lang realizza Il dottor Mabuse, un film in due episodi. La Germania, travolta nella crisi del dopoguerra, diventa in questo film il fosco regno della criminalità organizzata: prostitute, speculatori, rapinatori, feste lussuose, ricchezza, potere, inganno, povertà, fame, sfruttamento. In seguito Lang realizza quello che sarà un film-culto di molte generazioni, Metropolis (1926), il più allucinatorio e profetico, le cui paurose scenografie sono state citate e riprodotte in molti film lungo tutta la storia del cinema. Dalla sua attività di pittore Lang ricava il suo grande interesse per la composizione dell'inquadratura, che diventa per lui il problema essenziale del cinema. Se in genere le avanguardie contestano il cinema narrativo, Lang invece non lo rifiuta per rifondare la fiducia nelle istituzioni sociali, la speranza nel futuro, la gioia di vivere, e restituire credito ad alcuni valori fondamentali, come il rapporto di coppia, la famiglia, il lavoro, la collettività urbana. Il messaggio proposto dal cinema americano classico va quindi letto all'interno del periodo successivo alla grande crisi, come tentativo, perfettamente riuscito, di restituire umanità e piacevolezza alla vita sociale altrimenti distrutta dalla fame e dalla miseria. Per raggiungere questo scopo occorreva un cinema che fosse chiaramente accessibile a tutti, dai ragazzi di otto anni agli anziani, leggibile da tutti i livelli culturali, sia quelli più bassi sia quelli più elevati, per i ricchi e per i poveri, un discorso valido per tutti. Non era cosa da poco. Il modello fu trovato nel romanzo ottocentesco, che aveva una sapiente struttura narrativa. Soprattutto nella cosiddetta popular litterature, come Dickens e Balzac. Chiaramente, per un cinema di questo tipo, in grado di raggiungere tutta la popolazione e tutti gli strati, occorreva un apparato produttivo non solo molto solido, ma anche capace di soddisfare una domanda enorme. In questa prospettiva lo studio system, ovvero il sistema di produzione in cui tutte le fasi del film, dalla sceneggiatura al montaggio finale, si svolgono sotto il controllo di una sola casa produttrice, svolge in America un ruolo dominante, permettendo la confezione di prodotti di alto livello stilistico e nello stesso tempo gradevoli per tutti, validi non solo per gli USA, ma anche da esportare in tutto il mondo, com'è infatti accaduto a questo tipo di cinema che per un certo tempo è stato considerato erroneamente addirittura l'unico possibile. Occorre forse chiarire in primo luogo che la nozione di modo di produzione tale quale l'hanno ridefinita gli studiosi americani è molto complessa. Il modo di produzione è un sistema culturale complesso, in cui le condizioni economiche e tecnologiche sono solo una piccola parte, e interagiscono con tutti gli altri fattori culturali, per dare una serie di risposte alle domande poste dalla società, modelli di comportamento e di pensiero necessari per la vita quotidiana. Il cinema in questo periodo diventa uno strumento per interpretare il mondo, che aiuta gli spettatori a comprenderlo e a muoversi nella vita. Molto diversa è quindi anche la nozione di stile. Qui lo stile non è più individuale, personale, come volevano Stroheim, Chaplin o altri maestri; è invece una marca collettiva, un paradigma comune a tutta la produzione. Azione e parola Nel cinema degli anni venti l'esigenza del sonoro non era sentita. Le grandi case di produzione non avevano bisogno e non volevano rischiare grosse somme nel lancio di una macchina sonora che poteva rivelarsi fallimentare. Soltanto una piccola casa di produzione che non aveva niente da perdere perché era in crisi, come la Warner Bros. appunto, poteva rischiare. Il primo film fu Il cantante di jazz con Al Jolson (1927), ed era naturalmente un film musicale. Era la storia di un giovane ebreo che, costretto dai genitori a cantare nella sinagoga, scappa di casa perché ama il jazz ma, dopo lunghe vicende, fa pace con la famiglia e riesce a fare sia jazz sia canto in sinagoga. Il film racconta una partenza con un ritorno a casa, insomma è uno stereotipo, quasi un modello strutturale di quello che sarebbe stato il racconto classico, che tratta sempre il rapporto fra la norma e la trasgressione. La pellicola fu un successo e tutte le case cinematografiche furono costrette ad adottare il sonoro. Con il sonoro ebbe un grande impulso la storia raccontata, che divenne il principio dominante del film. Non erano più le varie attrazioni o gli effetti speciali che attiravano gli spettatori, ma la storia, i temi e i problemi, in cui lo spettatore poteva riconoscersi, almeno in parte. Con le storie presero grande impulso anche i vari generi, che esistevano già ma erano meno importanti. Nel cinema sonoro i generi diventano il principio dominante da cui parte la realizzazione di un film: commedia, poliziesco, western, guerra, fantascienza, musical, storico, mélo (o dramma d'amore), sono altrettanto sistemi regolatori per la produzione e per lo spettatore, quando sceglie lo spettacolo da vedere. I tre principi Quella del sonoro fu la maggiore rivoluzione nel cinema. La priorità dell'azione e del dialogo comporta una serie di regole fondamentali per tutti i film. Il primo imperativo del film classico è la leggibilità. L'importante non è più la scoperta di nuovi effetti visivi o visionari, ma la chiarezza drammatica del contenuto narrativo. Lo stile, gli effetti, le attrazioni che abbiamo visto nel cinema precedente vengono eliminati: ciò che conta è la chiarezza. Si cerca uno stile omogeneo, occorre che lo spettatore sia in grado di leggere facilmente le immagini. Le altre regole sono collegate al principio della leggibilità sicura. Secondo grande principio del cinema narrativo classico è la gerarchizzazione: dentro l'inquadratura deve esserci sempre differenza tra la figura e lo sfondo, ciò che sta davanti – vicino allo spettatore – è di norma più importante di ciò che sta dietro, lontano; inoltre deve essere sempre chiaro il rapporto fra i protagonista (eroe) e figure di secondo piano (antagonisti) o di terzo piano (caratteristi). Terzo imperativo è la drammatizzazione: i contrasti di luce, di piani, di posizioni, di azione, devono tutti fornire parametri di valutazione chiari: buoni e cattivi, bene e male, giustizia e delinquenza sono sempre nettamente separati. Questo non significa che nel film classico tutto diventi banale e uguale, anzi. Il film classico è sempre caratterizzato da due aspetti principali: la norma e la trasgressione: ovvero il bisogno di regole e quello, opposto, di varianti e deviazioni personali. Questo permette di riconoscere, in misura maggiore o minore, i vari film sia come opere di autore, sia come opere collettive. Studio system e codice Hays All'inizio degli anni trenta le più grosse compagnie di Hollywood, le cosiddette Majors, erano cinque (Paramount, Metro-Goldwyn-Mayer, Fox, Warner, RKO) e, insieme con altre compagnie minori, le cosiddette Minors (Columbia, Universal e United Artists, che ormai si limitava alla distribuzione), formavano la MPPDA (Motion Pictures Producers and Distributors Association), quello che si suole definire un “cartello”, ovvero un oligopolio. Insieme divennero padrone del mercato e ottennero dal presidente Roosvelt un certo appoggio in cambio dell'aiuto che diedero al rilancio del New Deal e dell'ottimismo americano. Ogni compagnia aveva propri studi di produzione, immensi atelier in cui venivano adempiute tutte le fasi di realizzazione di un film che, sotto la direzione del produttore, usciva da lì completo. Pochi erano gli indipendenti che faticosamente riuscivano a sopravvivere, aiutati da qualche colpo di fortuna o di genio commerciale. Sotto la pressione di questo potere della produzione, il cinema hollywoodiano si struttura su due grandi assi portanti, uno che potremmo definire asse orizzontale, e che riguarda la catena produttiva dal soggetto al film finito, e l'altro asse verticale, che riguarda il percorso verso il pubblico, dalla produzione alla distribuzione. Nella catena di produzione orizzontale troviamo i vari mestieri del cinema, prima elencati, in cui il regista è solo uno fra i tanti lavoratori, a Hollywood lo si chiama anzi director, perché il suo compito è quasi esclusivamente ridotto al lavoro di direzione degli attori sul set. Sull'asse verticale dello sfruttamento del film, le Majors cominciarono ad acquistare sale alla fine degli anni venti. Il cartello della MPPDA invase quindi anche tutti gli altri livelli dello spettacolo cinematografico cioè la distribuzione e l'esercizio; insomma, facevano i film, li distribuivano sul territorio nazionale e li proiettavano nelle proprie sale. Con i proprietari di sale che resistevano e mantenevano la loro indipendenza, la MPPDA applicava il cosiddetto block-booking, ovvero noleggiava dei pacchetti indivisibili di film, in cui un film famoso era legato a molti altri meno riusciti. In tal modo la MPPDA imponeva anche agli esercenti autonomi quello che voleva, e li costringeva a proiettare e a pagare anche i film che altrimenti avrebbero rifiutato. Il block-booking serviva a pareggiare i conti fra i film di successo e quelli fallimentari. Un'altra innovazione significativa elaborata dalla MPPDA fu il codice Hays o codice di autocensura. In America erano nate molte leghe per la difesa del buon costume, tuttavia il cinema godeva ancora di una certa libertà e poteva permettersi persino scene di violenza o di nudo. Le proteste però erano molte, soprattutto da parte delle leghe e associazioni moralistiche. Alle case di produzione venne l'idea di arruolare un avvocato dell'ufficio governativo, William Hays, perché esercitasse un'azione di censura preventiva ed evitasse gli sprechi di scene girate e poi tagliate dal ministero. Hays dunque venne assunto non per trasgredire la censura ma per applicarla dall'interno della produzione, ed elaborò il codice di autocensura che porta il suo stesso nome, codice Hays (formulato nel 1930 e applicato interamente nel 1934. Lo scopo era quello di ottenere prodotti che potessero essere visibili per tutti, dai bambini agli adulti e di qualunque classe sociale. La MPPDA mise su un vero e proprio ufficio di supervisione di tutte le sceneggiature. In questo modo si poterono ottenere notevoli risparmi sia economici che di tempo. Fra le cose proibite dal codice Hays sono da ricordare gli indugi su comportamenti sessuali (era proibito andare al di là del semplice bacio), non si poteva mostrare le forze dell'ordine sconfitte dalla malavita oppure esaltare eroi del male. Star system: schiavi a Hollywood? Il divismo è una forma di promozione dell'immagine legata al rapporto fra spettacolo e mezzi di comunicazione di massa. La parola stessa “divo” segnala un processo di sottrazione dell'attore al mondo dei comuni mortali per farne un'entità superiore, incorporea. Le prime grandi opere di divinizzazione appartengono alla cultura classica, quando imperatori e condottieri promuovevano questo processo verso se stessi. Possiamo parlare di divismo quando le pratiche d'informazione e di pubblicità contribuiscono alla creazione di un'immagine di alto potere simbolico. Il divismo infatti si appoggia sempre, sia nelle epoche antiche sia in quelle moderne, sugli strumenti di comunicazione che possono servire a questo scopo. Se nell'antichità erano i teatri e le piazze, nel Novecento sono i giornali e gli altri media – fotografia, radio, televisione, pubblicità – che producono la stessa sensazione di onnipresenza del divo. Negli anni trenta molto spesso la costruzione di quest'immagine comportava una serie di interventi chirurgici sull'attrice stessa, il cui corpo diventava proprietà degli studios. Per il divo infatti importante è farsi guardare: il divo, a differenza dell'attore, non recita ma è semplicemente un'immagine confezionata che si offre allo sguardo del pubblico. Mentre l'attore è un professionista in grado d'interpretare molte parti e creare molti personaggi, il divo è soprattutto un prestatore d'immagine o di corpo, legato quasi sempre a un solo ruolo, ovvero a una serie di personaggi tutti simili. Anche la vita privata dei divi apparterrà infatti sempre di più agli studi di produzione che li hanno creati e li hanno sotto contratto. I contratti di assunzione erano infatti molto lunghi e prevedevano che gli attori venissero prestati ma non potessero scegliere con chi e dove lavorare, e non erano esclusi anche ricatti come quello di imporre loro parti inadatte per distruggerli. Il divo è insomma un personaggio che ricorre sempre uguale, un'immagine; l'attore invece mette in gioco tutta la sua professione, lo studio e la ricerca espressiva, crea personaggi sempre nuovi e diversi. Spesso tuttavia alcuni attori furono divinizzati, indipendentemente dalle loro interpretazioni, con accantonamento delle loro reali capacità a vantaggio della sola immagine. Una conseguenza è che i divi sopravvivono molto spesso al crollo della loro immagine, e rimangono abbandonati, autentici relitti, come mostra uno dei primi e più bei film hollywoodiani sul divismo, Viale del tramonto (Wilder, 1950). Il divo è legato al fotografo che crea l'immagine. Greta Garbo non volle mai spararsi dal suo fotografo. Da quando, negli anni venti, l'industria hollywoodiana decise di puntare sul divismo, tutta la produzione cinematografica ha avuto questa figura come centro. Le case di produzione (studios) tenevano sotto contratto i giovani attori prima che diventassero famosi e ne facevano dei divi, dopo di che ne sfruttavano l'immagine in una serie di film appositamente progettati. A volte i divi venivano prestati o ceduti ad altri studi, ma solo entro una politica di scambi. Gli altissimi compensi e il grande impegno pubblicitario fecero sì che ogni film venisse ideato espressamente per un volto o un personaggio. Dopo i primi divi, come Valentino negli anni trenta, in seguito all'introduzione del codice Hays sparirono le immagini provocanti e nacque un tipo di donna più conformista, ma anche spigliata, vivace, polemica e brillante. Fra gli uomini, alle movenze “sublimi” di Valentino seguirono figure maschili meno fatali ma altrettanto irresistibili; più tardi si passò al modello dell'uomo forte malinconico, con Bogart e l'eterna sigaretta, simbolo di malinconia, mentre nel western John Wayne incarna l'eroe americano salvatore. Sunset Boulevard (Viale del tramonto, Wilder, 1950) Nonostante la sua potente diffusione, l'immagine del divo è generalmente effimera. Il film Viale del tramonto è ambientato in una villa del Sunset Boulevard, il viale in cui i divi degli anni venti costruivano le loro ville sontuose e immense. E' Norma Desmond, l'attrice in declino,magnificamente interpretata da Gloria Swanson, la più famosa diva degli anni venti, che realmente, come Norma, era sopravvissuta al suo mito, abbandonata e dimenticata. Norma Desmond è tuttavia così affascinante che un giovane sceneggiatore disoccupato e pieno di debiti non può sottrarsi al suo potere sublime. Scappato per nascondersi ai creditori e nascosto nella villa, Joe Gillis diventa il mantenuto della vecchia signora e perde ogni contatto con il mondo del lavoro e con la realtà esterna. In questa discesa nel regno dei morti incontra però i grandi relitti di un glorioso passato come Buster Keaton, che viene la sera per giocare a carte, ed Erich von Stroheim, che fa da maggiordomo alla “grande” Norma. E soprattutto scopre la grandezza del cinema muto e del primo piano, l'infinita possibilità di espressione, al contrario del cinema sonoro, invaso dalle più banali parole, e lo spettatore la scopre con lui: “We didn't need dialogues, we had faces!” gli dirà Norma. Da questa discesa agli inferi, Joe non uscirà vivo. Norma ucciderà il giovane che la vuole abbandonare per ritornare nel mondo dei vivi e, divenuta pazza, viene portata via dagli infermieri, mentre crede invece di andare in studio a girare il suo promo piano. E il film termina appunto sul primissimo piano del suo volto orribilmente disfatto. L'illusione di realtà: continuità narrativa e primato dell'azione Se il divo trionfava sullo schermo, lo spettatore però doveva essere signore assoluto in sala, e magari identificarsi con il divo, o anche sentirsi superiore a lui. All'interno di questa finalità generale, di raggiungere e gratificare tutti gli spettatori, Hollywood elabora quindi dei modelli narrativi basati su alcuni principi fondamentali: 1) continuità narrativa; 2) trasparenza del linguaggio cinematografico; 3) spazio continuo e prospettico; 4) tempo lineare e perfettamente comprensibile. Questi risultati sono ottenuti soprattutto attraverso il montaggio narrativo, che abbiamo definito come creazione illusoria di una continuità temporale e spaziale, mediante inquadrature discontinue, girate in luoghi e tempi diversi e montate in una sequenza unitaria. La continuità narrativa è il principio secondo cui il film non deve indugiare su aspetti marginali; la bella inquadratura, gli aspetti visivi devono essere sacrificati alla funzione narrativa. Il principio è pertanto quello della inquadratura necessaria: il film deve contenere solo le inquadrature necessarie alla drammatizzazione. Non ci devono essere indugi nel flusso narrativo e lo spettatore deve arrivare alla soluzione trascinato dalla curiosità di sapere. Un film che non spinga lo spettatore verso la fine non è perfettamente riuscito. I momenti di ambiguità, oscurità o incertezza non sono proibiti, ma devono essere accuratamente controllati: lo spettatore non deve certo sapere tutto, a volte ci possono e ci devono essere equivoci, informazioni sbagliate, confuse, difficili da decifrare, false piste, ma solo in vista della conclusione dove ogni mistero deve essere sciolto. Strettamente connesso a questo principio è quello, conseguente, della trasparenza del linguaggio cinematografico. Tutto ciò che rimanda alle attrazioni e agli effetti speciali deve essere evitato o molto controllato. In base a questo principio, nel cinema classico troviamo un montaggio regolato sui movimenti e sugli sguardi, evitando ogni virtuosismo: è il cosiddetto montaggio invisibile. Lo stesso si può dire della fotografia e dell'illuminazione che cercano di imitare e riprodurre interni reali, o degli obiettivi, che devono dare un'immagine chiara della scena. La profondità di campo e anche i movimenti della macchina da presa vengono ridotti al minimo, perché distraggono lo spettatore dall'azione. La recitazione viene spesso contenuta dentro tipologie fisse e chiare, e anche i divi ripetono quasi sempre se stessi (stereotipi). La forma più standardizzata è il campo-controcampo continuo, dove il primo piano è usato per mostrare chi parla. Lo stile classico tende in generale al primato dell'azione e del dialogo. Spazio continuo e prospettico, con lo spettatore al centro. L'uomo che esce da un'inquadratura a destra nell'inquadratura successiva deve ricomparire da sinistra, per dare l'illusione della continuità spaziale. Lo spettatore si deve trovare sempre al posto giusto per vedere quello che c'è da vedere e ignorare quello che va ignorato. Tutto lo spazio ordine e caos, fra vita rigorosamente organizzata e confusione allo stato puro. Un esempio è il film Gli uomini preferiscono le bionde (1953). Lo stile di Hawks rappresenta la massima trasparenza possibile nel cinema, la vicenda non ha un attimo di sosta, è il trionfo dell'illusione di realtà, basata sul potere trascinante della narrazione. Il cinema di Hawks è talmente perfetto sul piano narrativo che dimentichiamo di essere al cinema per entrare dentro il mondo che ci viene mostrato. Più tardi anche la commedia assume un tono più cupo e amaro. Billy Wilder sviluppa il lato più amaro e disincantato della commedia, ma lo arricchisce di umorismo nero e psicoanalisi freudiana. Ed è così che la commedia, genere principe del cinema hollywoodiano, restituisce agli spettatori la fiducia nei rapporti umani, nel rapporto uomo-dona, famiglia, società, lavoro, una fiducia che era stata gravemente scossa, come abbiamo visto all'inizio, dalla crisi del 1929, e rilancia anche quella speranza nella solidarietà sociale e nelle istituzioni rinnovate e trasformate di cui avevano bisogno l'America e il mondo. Ma non fa solo ridere, e non è solo ottimista. Anzi, i dubbio rimane, e i grandi autori, almeno quelli che abbiamo visto, portano gli spettatori a grandi altezze di pensiero. It Happened One Night (Accadde una notte, Frank Capra, 1934) In Accadde una notte il giornalista squattrinato e senza lavoro Peter incontra una bella e simpatica ereditiera in fuga dal padre che vuole impedire il suo matrimonio con un aviatore. Nel corso di un lungo viaggio in cui Peter si prende cura di lei, i due s'innamorano, ma il loro amore non può andare a buon fine, poiché il padre vuole che lei si sposi un giovane ricco; eppure sarà proprio il padre che alla fine, accortosi del dolore della figlia e della profonda onestà di Peter, farà saltare il matrimonio con l'aviatore, già pronto, per accontentarla. Il finale ottimista è alquanto posticcio e niente impedisce allo spettatore di pensare che le cose nella realtà non vadano così bene come nel film. DENTRO E FUORI HOLLYWOOD: GLI AUTORI, LA POETICA, LO STILE Lo stile personale: dialettica fra tradizione e innovazione Molte volte la storia del cinema è stata scritta come storia degli autori. Ma, come appare chiaro, il cinema non è opera individuale; richiede la partecipazione di molte persone, grossi investimenti, un ritorno di questi investimenti, e quindi un rapporto intenso con il pubblico. A questo rapporto con il pubblico è collegato anche il rapporto fra tradizione e innovazione, fra gli stereotipi e le regole, fra la narrazione e i generi. Che spazio occupa allora la figura dell'autore nel cinema classico hollywoodiano? Possiamo collocarla fra due esigenze fondamentali: il bisogno di regole che assicurino la giusta trasmissione del messaggio, e il bisogno di novità, di sorpresa, di cambiamento. Il regista a Hollywood deve trovare il suo equilibrio fra queste due sponde opposte. Se i generi rappresentano la tradizione, la novità è costituita dalla loro evoluzione e trasformazione, con l'introduzione di personaggi nuovi o diversi, o anche dalle marche stilistiche d'autore. L'autore deve accettare le regole, ma anche riuscire a modificarle dall'interno; dentro i modelli convenzionali si può e anzi si deve variare, ricercare, trasgredire. Hollywood rifiuta gli “autori”, come abbiamo visto, ma nello stesso tempo ne ha anche bisogno. E, d'altra parte, è vero pure l'inverso: anche l'autore, per affermare la propria individualità, ha sempre bisogno di una tradizione dentro la quale inserirsi per modificarla. Spesso poi le modifiche più riuscite diventano regole nuove, che iniziano con lui e che altri autori coraggiosi potranno a loro volta modificare e trasgredire. Sceneggiatore, regista e produttore, tre autori Lo studio system era basato su una stretta divisione di lavoro e sul sistema della cosiddetta “sceneggiatura di ferro”, attraverso cui si limitava il potere del regista e gli si impediva di abbandonarsi a improvvisi estri creativi che forse avrebbero prodotto dei capolavori, ma sarebbero stati disastrosi per la produzione, come aveva mostrato il caso Stroheim. Nella sceneggiatura di ferro era indicato tutto: i dialoghi, l'azione e, spesso, le singole inquadrature. Gli sceneggiatori lavoravano soli o insieme, alla ricerca di idee, gag, trovate narrative per costruire o irrobustire le sceneggiature, le quali spesso passavano da una mano all'altra attraverso un processo di elaborazione che ne faceva davvero un lavoro di bottega, un prodotto collettivo. Molti scrittori americani cercarono di andare a Hollywood, ma pochi riuscirono a essere apprezzati. Non occorrevano personalità brillanti, troppo individualiste, ma scrittori docili, pronti a mettere la loro fantasia al servizio della casa produttrice. Una volta scritta, la sceneggiatura veniva affidata al regista, o director, che doveva metterla in scena così com'era, e non aveva quasi nessun margine di variazione. Poetica e stile come parametri del cinema d'autore Come potevano i registi difendere la loro autonomia artistica in una situazione così ristretta? E' soprattutto in due campi che si gioca la partita della libertà all'interno delle regole: la poetica e lo stile. E' qui che si svolge il confronto, sia con il passato che va cambiato, sia con il presente, dove ogni autore deve costruire la propria differenza rispetto agli altri. Ma che cosa sono poetica e stile? Ogni autore ha una sua idea di cinema, che si esprime sia nelle storie raccontate (poetica), sia nel modo di filmare e di raccontarle (stile). La poetica consiste nell'insieme dei temi, delle storie, dei personaggi costruiti da un autore. Come abbiamo visto il regista riceve dalle mani del produttore la sceneggiatura di ferro che è già completa in tutte le sue parti, e il sistema dei generi gli lascia poca libertà creativa. Ci sono tuttavia alcuni generi che gli sono più congeniali di altri. La frase famosa di John Ford: “My name is John Ford. I make western” significa fra l'altro anche questo: ogni director che si rispetti deve fare le sue scelte all'interno delle proposte che la produzione gli offre e non dovrebbe accettare qualunque sceneggiatura e qualunque proposta di lavoro. Naturalmente i registi più deboli, quelli di mestiere, accettavano tutto; la capacità di scegliere caratterizzava invece le forti personalità. Ford in realtà non faceva solo western, affrontava anche molti altri generi: film storici, d'avventura, di guerra, o anche commedie, ma vedeva nel western la propria poetica fondamentale. Lo stile è la somma delle scelte espressive di ciascun regista, e riguarda le inquadrature e le forme di recitazione o montaggio che possono essere più o meno trasgressive e intense, a volte anche disturbano il primato dell'azione. Ogni autore a Hollywood sa trovare dentro le norme dello stile classico la possibilità di manifestare sempre in qualche modo le sue esigenze stilistiche e la sua personalità individuale. Sa inserire dentro il film, consapevolmente o anche inconsapevolmente, alcuni tratti stilistici costanti che marcano la differenza rispetto agli altri: sono le cosiddette “marche d'autore”. La retorica studia queste marche d'autore, che sono le forme del linguaggio cinematografico. Tre esempi: John Ford, lo spazio dell'autore nel cinema classico Ford basava la sua poetica sul western, è vero, ma ha fatto del western un vero e proprio mito di fondazione della civiltà americana, una mitologia che esprimeva e celebrava la battaglia per la libertà e per l'uguaglianza, che racconta l'epica lotta contro la natura selvaggia, contro gli indiani o contro i banditi, la difesa dei deboli, delle donne o dei contadini, la dura fatica per la civilizzazione del paese. Il western era dunque il momento di conferma e definizione dell'identità nazionale e individuale. Diceva a tutti: tu non sei più un povero irlandese, o uno sventurato spagnolo, sei prima di tutto un americano, soggetto di diritti, responsabilità e doveri. Ford aveva illustrato quasi tutta la storia americana, da Lincoln a Mark Twain: le grandi guerre, le migrazioni dall'Europa, gli indiani, le storie degli irlandesi e degli spagnoli, tutti i grandi snodi e problemi del continente nuovo sono entrati nel suo schermo. Il western era dunque uno dei maggiori strumenti di unificazione culturale del paese. Ciò che dà unità poetica all'opera di Ford non è solo l'epopea dell'America, ma anche il cammino faticoso della giustizia, la dura lotta che spesso questo comporta. Ad esempio in L'uomo che uccise Liberty Valance si celebra il sacrificio di un uomo per la vita di un altro mentre in Sentieri selvaggi Ethan Edwards riporta a casa la piccola Debbie, rapita e ridotta a squaw (donna pellerossa) del grande capo indiano Scar (cicatrice), dopo una lunga ricerca durata dieci anni, svolta assieme a Martin. Alla fine del film Debbie viene ritrovata, ma la giovane, ormai adolescente e moglie del capo, integrata nella vita indiana, invita ad andarsene Ethan, il quale è determinato ad ucciderla piuttosto. I due cercatori faranno allora ritorno a casa, ma durante un attacco della banda di Scar Debbie viene liberata e Ethan rimarrà condannato ad un eterno vagabondare. Tutte le sue figure, grandi o piccole, spesso umili o poveri uomini comuni, eroi famosi oppure sconosciuti, fondatori del “Grande paese”, sono eroi del sacrificio. Con questa poetica, Ford poteva permettersi tutte le trasgressioni che voleva, perché la sua opera era troppo importante sul piano culturale per essere censurata. E, infatti, Ford non sempre esalta la cultura americana, spesso avanza dei dubbi, anzi delle vere e proprie critiche . La sua poetica non è mai trionfale e banale, anzi si permette sempre di gettare dubbi e ombre su tutta la storia ufficiale, dove quasi mai i “buoni” sono veramente buoni. Per Ford la civilizzazione non è sempre un progresso. Anche sul piano formale il regista difende il suo stile personalissimo e, pur continuano a muoversi dentro il sistema, rispettando il primato dell'azione, trova sempre modo di difendersi dalle intrusioni dei produttori e dal montaggio stereotipato di tipo hollywoodiano. Molte sue scene, invece di essere frammentate in primi piani o piani ravvicinati, sono girate tutte in profondità di campo, cosa che allora risultava abbastanza fastidiosa perché ostacolava la leggibilità del film, ma Ford non le cambiava. Nello stesso modo, pur rispettando le esigenze commerciali del cinema, Ford riesce sempre a inserire in ogni film la sua visione complessa del mondo e della vita. Gli indiani, per esempio, che in genere nel western rappresentano i nemici della civiltà, sono per lui amici, forse anche meno pericolosi dei bianchi. E, infatti, gli indiani di Ford rappresentano i vecchi nobili abitanti dell'America, sono i Troiani di un Iliade moderna. Il suo cinema, prima di tutto, rende onore agli eroi sconfitti. Ombre rosse (John Ford, 1939) 1880. Un dispaccio informa un'unità dell'esercito che gli Apache, comandati da Geronimo, sono sul piede di guerra. L'interruzione delle comunicazioni via telegrafo impedisce di avere maggiori informazioni, ma un gruppo di passeggeri, non valutando bene il pericolo e pensando di poter contare sulla scorta dell'esercito, decide ugualmente di mettersi in viaggio sulla diligenza che da Tonto va a Lordsburg. L'equipaggio è piuttosto eterogeneo (il medico ubriacone Boone, la prostituta Dallas, il giocatore d'azzardo Hatfield, il banchiere disonesto Gatewood, lo sceriffo Wilcox, il rappresentante di liquori Peacock e Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell'esercito) e ad esso si unirà poi Ringo, evaso alla ricerca di vendetta (a Lordsburg si trovano i fratelli Plummer, gli assassini del padre e del fratello). I membri del gruppo, inizialmente diffidenti l'uno dell'altro e pieni di pregiudizi nei confronti dei "poco di buono", come Ringo e Dallas, imparano a collaborare grazie all'improvviso parto di Lucy e all'attacco indiano poco prima di raggiungere la meta (dove Hatfield perde la vita). Raggiunta Lordsburg, Ringo compie la sua vendetta uccidendo i Plummer e, con la complicità del medico e dello sceriffo, grande amico di suo padre, fugge verso la frontiera in compagnia di Dallas.Tre esempi: Orson Welles, via da Hollywood Se Ford rappresenta un caso limite, che sta dentro il sistema con molta fatica, un altro regista, Orson Welles, che amava considerarsi un suo discepolo, verrà decisamente sbattuto fuori. Quello di Welles infatti è il primo grande caso di rottura dell'illusione di realtà. Con la sua opera il cinema e i suoi codici ritornano in primo piano con inaudita prepotenza, e le storie sono quasi pretesti per mostrare immagini di straordinaria violenza, in cui è visibile l'influenza dello stile espressionista tedesco. La comparsa di Welles sulla scena del cinema fu quella di un ragazzo prodigio, trasformato immediatamente in un autore maledetto. Il suo nome, prima osannato e pochi anni dopo evitato come una peste, da simbolo di genialità e di successo presto divenne simbolo di spreco e rovina. Nel 1939 il giovane Welles aveva sconvolto l'America intera con una trasmissione radiofonica, La guerra dei mondi. La novità stava nel raccontare l'arrivo dei marziani sulla terra come se fosse vera cronaca, inserendo in un comune programma musicale alcuni falsi annunci da cui sembrava che veramente gli alieni stessero distruggendo la terra. Questo programma gli fruttò grande fama e un contratto per un film con assoluta libertà e budget illimitato. Welles realizzò così il suo capolavoro, Citizen Kane (Quarto potere, 1941), in cui una profonda riflessione sull'identità dell'uomo moderno, che è basata su potere e ricchezza, si unisce a una grande esaltazione del cinema come strumento sovversivo. Abbandonato dalla RKO e prima di essere bandito definitivamente come regista pericoloso per i capitali americani, Welles ebbe ancora il tempo di girare per la Columbia almeno un altro capolavoro come La signora di Shanghai (1948), dove una trama poliziesca viene stravolta in un grottesco incubo, fra il sonno e la veglia. Negli anni successivi Welles vaga per il mondo, facendo l'attore in film americani ed europei, e con il denaro guadagnato paga i suoi film d'autore. Dominano la sua opera gli adattamenti da Shakespeare, come Macbeth (1948), oppure Otello, interpretato da lui stesso e girato nel corso di quattro anni (1948-1952). Nel 1958 troviamo un altro grande film, L'infernale Quinlan, storia tenebrosa e labirintica, in cui tutto accade nella logia del sogno. Più tardi Welles realizza in Europa un adattamento del romanzo di Kafka Il processo (1963), dove una sinistra città, sempre incerta fra il giorno e la notte, fra la veglia e il sogno, fa da sfondo ai terrori del protagonista, simbolo dell'intera umanità, stolta e ipocrita. Welles, seguace del prestigiatore Méliès, vede nel cinema la più grande macchina di illusioni che il mondo abbia mai avuto, e vede se stesso e il regista come un mago illusionista. Lo sorregge sempre la sua superba personalità stilistica, che fa letteralmente a pezzi il linguaggio del cinema classico e rilancia la potenza delle “attrazioni”. Il suo cinema è stato considerato a volte estremamente realistico, altre volte del tutto allucinatorio, e probabilmente è tutte e due le cose insieme. La sua figura stilistica più forte è la profondità di campo eccessiva. Lo spazio si allunga come un elastico o si strozza come un imbuto; le persone diventano mostri immensi o microscopici nani. Altrettanto trasgressiva è la profondità di campo sonora, in cui i personaggi parlano contemporaneamente dentro una stessa inquadratura, dentro e fuori campo, ottenendo spesso un effetto di caos. Queste sono le marche più forti dello stile di Welles, che con esse riesce a esprimere la sua visione poetica del mondo, secondo cui la realtà non è altro che un incubo affascinante e maligno. Ma non è solo questo l'effetto; è anche la prepotente, inaudita, aggressività delle immagini nei confronti dello spettatore che viene continuamente turbato e mai lasciato in pace a godersi la storia, come invece richiedeva lo spettacolo classico. Con Welles si ritorna al cinema delle attrazioni rivisitato ed enfatizzato poeticamente, in cui l'azione era niente e gli effetti tutto. E, come un erede degli antichi imbonitori della piazza, Welles capovolge il sistema del cinema classico secondo cui l'autore deve essere invisibile dietro le sue storie e, anzi, vuole prima di tutto far vedere se stesso e il suo lavoro di regista, di mago, di illusionista. Citizen Kane (Quarto potere, Orson Welles, 1941) In questo film il protagonista è visto direttamente dallo spettatore solo una volta, all'inizio, mentre sta morendo. Per il resto la visione è mediata attraverso sei racconti di cinque personaggi diversi. L'inizio ci porta dentro un castello, dove un uomo sta morendo e pronuncia una ola parola: “Rosebud”. Questa parola sembra contenere un significato oscuro, che potrebbe spiegare tutta la sua esistenza. Da un cinegiornale infatti apprendiamo che l'uomo appena deceduto è il grande Charles Foster Kane, proprietario di una grande miniera d'oro, di navi, edifici, giornali, fabbriche sparse in tutta America, forse l'uomo più ricco del mondo, ma rimane un enigma, legato a quell'ultima estrema parola “Rosebud”. Un giornalista, Thompson, viene incaricato di indagare. Thompson consulta le memorie del banchiere di fiducia, Thatcher, già morto da tempo, e dalle pagine del suo diario, depositato in un gigantesco e pauroso mausoleo, vediamo emergere il piccolo Kane che gioca con una slittino da neve, prima di essere portato in un elegante collegio, lontano dai genitori. Il secondo intervistato è Bernstein, il caporedattore del giornale “Inquirer” diretto e lanciato dal giovane Kane. Terzo è un giornalista, Leland, critico teatrale e amico di Kane; quarta è la ex moglie Susan, e infine quinto è il suo maggiordomo, che ha assistito agli ultimi giorni del padrone, chiuso nel castello di Xanadu. Se il cinegiornale ha mostrato il volto pubblico di Kane, gli altri cinque racconti mostrano la sua vita privata, e ciascun personaggio propone la sua versione dell'uomo che ha conosciuto sotto diversi ruoli. Se il cinegiornale ha posto un enigma, legato alla parola Rosebud, gli altri cinque però non sono riusciti a spiegarlo. Alla fine, dopo che Thompson ha rinunciato ed esce attori nuovi, meno banali dei divi, attori che provengono da un gruppo teatrale inaugurato da lui stesso, il Group Theatre, poi trasformato nell'Actor's Studio, che fu lo strumento della più grande rivoluzione recitativa americana. Gli attori del Group Theatre iniziano a costruire personaggi complicati, contraddittori, lontani dagli eroi stereotipati del cinema classico, imparano a dare una parte di se stessi e della loro personalità ai personaggi che interpretano. James Dean, Marlon Brando, Marilyn Monroe e molti altri trasformeranno il cinema hollywoodiano, creando una generazione di veri e propri attori, dinamici e vivi, in contrasto con i divi e le loro statiche immagini. L'altra grande figura di regista moderno, padre del futuro cinema americano, è Nicholas Ray, amico e in parte allievo di Kazan, che comincia verso la fine degli anni quaranta a dirigere film di genere, ma li sovverte sempre, mostrando degli eroi stanchi, deboli, falliti,in un'atmosfera disillusa e crepuscolare, per far capire che gli eroi del mito, forti e puri, erano stati solo un sogno, e che la realtà è ben diversa. Questo cinema, che spesso viene definito “crepuscolare”, è invece l'alba di un nuovo tipo di cinema. All'inizio degli anni cinquanta il pubblico sta cambiando, e il suggerimento sarà raccolto e compreso perfettamente dai francesi della Nouvelle vague, che faranno di Nicholas Ray il padre di una nuova generazione e di un nuovo tipo di cinema, un cinema degli esseri umani e non più dei divi. Mentre il cinema classico trionfava in tutto il mondo come forma dominante dello spettacolo e della comunicazione, il suo tramonto era già iniziato. La costruzione era ormai conclusa: dalle vecchie attrazioni e dagli imbonitori di fiera era nata una macchina che raccontava storie da sola. La seconda parte sarà la sua demolizione. PARTE SECONDA: LA SVOLTA DELLA MODERNITA', DAL CINEMA-NARRAZIONE AL CINEMA DELLO SGUARDO NEOREALISMO: LA ROTTURA DEI CODICI Che cosa rappresenta il neorealismo nella storia del cinema? Uno sconvolgimento visivo. Niente di programmatico, ma un evento inevitabile; dopo la guerra nasce una nuova percezione del mondo. La narrazione diventa frettolosa, confusa e incerta. Gli errori di stile si moltiplicano, per la fretta e la mancanza di mezzi, ma anche perché ci sono tante cose urgenti da dire allo spettatore. Il cinema riparte da capo, mettendo in disparte la forma classica. Il disordine e gli errori diventano elementi di un cinema nuovo, più espressivo e meno raffinato, ma pieno di sentimenti e di idee nuove. Però la narrazione non sarà abbandonata, sarà solo trasformata e rielaborata. Uno sconvolgimento visivo Ancora oggi, quando si vuole indicare la più grande scuola, si nomina quasi sempre il neorealismo. Registi e maestri di paesi e di cinematografie profondamente differenti, dall'Oriente all'Occidente, si appellano continuamente, e magari anche per ragioni molto diverse, al neorealismo italiano. Negli Stati Uniti due autori diversi come Martin Scorsese e Steven Spielberg indicano come maestri il primo Rossellini, il secondo Zavattini. Tuttavia, si ha una certa difficoltà a definire il neorealismo; tutti concordano sulla sua importanza, ma le interpretazioni sono spesso molto divergenti, addirittura contrastanti. C'è chi indica la narrazione di problemi sociali, della vita autentica della povera gente; chi parla di riprese in esterni reali, di attori non professionisti. Tutte queste cose sono vere, ma solamente in parte, perché quelle valide per un autore non lo sono per un altro. Il cinema italiano degli anni trenta La storiografia recente ci ha mostrato molto bene che gran parte della rivoluzione neorealista era stata preparata in Italia già prima della guerra, durante gli anni trenta, con un dibattito culturale molto intenso. Nella cinematografia fascista già durante la guerra abbondavano le storie realistiche, ambientate fra gente povera, c'era addirittura una specie di “realismo fascista”. Il regime aveva fatto inoltre grandi investimenti per la ricostruzione dell'industria cinematografica, crollata nel 1921. Cinecittà, fondata nel 1937, era allora il centro di produzione cinematografico più attrezzato d'Europa; il Centro Sperimentale di Cinematografia, nato insieme con Cinecittà pubblicava la rivista “Bianco & Nero” e aveva insegnanti di valore europeo; era un pool di persone che sostenevano un concetto molto alto di cinema come arte. La Mostra del cinema di Venezia (nata nel 1932), era in quel tempo la vetrina più importante del mondo. Il grande fermento della cultura cinematografica si raccoglieva intorno alla rivista “Cinema”, nata nel 1936. Vi collaboravano scrittori, letterati e intellettuali; tutti discutevano intorno a un progetto e a una parola: “realismo”. Ma che cosa intendevano con questa parola? Cose molto diverse a dire il vero. Ma forse era stato il cinema di guerra a proporre una vera svolta: una nuova visione della vita e della guerra,lontana da ogni facile trionfalismo. Nei film americani gli eroi si coprivano di gloria, erano uomini assolutamente superiori, che sapevano vincere o morire, o catturavano decine di nemici. Invece i film del comandante di marina Francesco De Robertis erano storie di soldati comuni. Storie di semplici marinai, soldati senza gloria, ben diversi dai superuomini americani. I film di guerra italiani non parlano di vittoria, ma di una guerra dura e ingrata, ben lontana dall'epica trionfale del cinema classico. Non si critica certamente il regime né la sua politica, questo era impossibile, ma i soldati italiani sono già uomini che non hanno altra speranza se non quella di tornare a casa, respirare un poco di pace, e accettano la guerra come un male necessario. C'erano però ostacoli invisibili che si frapponevano a un'affermazione di questo realismo. Soprattutto l'ideologia del regime che, come tutte le dittature, non poteva mostrare tutta la realtà sociale fino in fondo, compreso il dissenso e la disperazione. La tensione verso il realismo quindi non poteva che rimanere un'aspirazione insoddisfatta. Il cinema era troppo importante come strumento di controllo sociale per poter essere lasciato libero di guardarsi intorno realmente. Se la guerra è stata la principale matrice del neorealismo, ne deriva che questo movimento non va comunque considerato patrimonio esclusivamente italiano. Certamente il terreno italiano, con la fine di due incubi, guerra e dittatura, produsse quell'esplosione di interessi per la vita, quel desiderio di realismo che fecero letteralmente esplodere il nuovo cinema. Ma questo evento ha una dimensione europea, forse mondiale, riguarda tutti i paesi in cui la guerra ha portato la sua devastazione; e per questo ancora in tutti i paesi dove accade qualche cosa di drammatico la parola neorealismo indica un punto di riferimento per chi vuole guardarsi intorno. Nel cinema italiano nasce dopo la guerra una nuova maniera di guardare. Con questo non dobbiamo pensare che il neorealismo facesse davvero piazza pulita di tutto il cinema precedente. Ci sono dentro ancora molti stereotipi e modelli del cinema narrativo classico. La novità sta nella maniera di filmare, ovvero in un grande cambiamento nella forma dell'enunciazione, che è l'atto e il modo di raccontare le storie. Il cambiamento nella forma di narrazione In effetti, nell'ultima fase della guerra, durante la salita degli alleati dalla Sicilia al nord, caos e confusione invadono improvvisamente per alcuni mesi l'Italia e si riflettono anche nel cinema. Basta pensare alle città senza governo o con molti governi simultanei. Come accade molto spesso, nell'anarchia e nel disordine le istituzioni sociali e linguistiche crollano o vacillano, ma in questo spazio vuoto e confuso vengono fatte importanti scoperte che altrimenti non sarebbero state possibili; i film della breve stagione neorealista (1945-1948) contengono tutti qualche cosa di nuovo, di mai visto sullo schermo. Quest'anarchia non riguarda soltanto i contenuti, interessa soprattutto le forme. I codici del cinema classico vengono improvvisamente abbandonati, come se fossero divenuti impraticabili. Il montaggio tradizionale che poneva lo spettatore al centro della storia, l'inquadratura ordinata e pulita, la recitazione chiara e precisa, tutto questo diventa improvvisamente assurdo di fronte all'urgenza di esprimere le nuove condizioni del mondo. Non ci sono più storie costruite a tavolino, sceneggiature elaborate, costumi, recitazione e inquadrature perfettamente controllate e studiate. Con il neorealismo l'unità-base del racconto cinematografico non è più l'inquadratura, e quindi neppure il montaggio, ma “il fatto, l'evento bruto, ancora confuso, incerto e caotico, davanti al quale la cinepresa rimane attenta a osservare, cercando di capire quello che accade”. La novità del neorealismo è il caos della realtà quotidiana, il suo grovigli di cose inestricabili e confuse. Non c'è più tempo per le belle immagini, per scegliere dove collocare la cinepresa, per montare con rigore le varie scene. E' più importante vedere quello che accade e farlo vedere allo spettatore. Gli errori diventano fondamento di una nuova estetica; nasce da essi un nuovo rapporto con lo spettatore, al quale ci si indirizza spesso, chiamandolo direttamente in causa con la voce fuori campo o addirittura con lo sguardo in macchina e, anche se la narrazione non viene mai abbandonata, viene però sempre spezzata. E' improvvisamente finito il tempo del narratore onnisciente, dello spettatore tranquillo, del montaggio invisibile e della fiducia ottimista che avevamo visto nel cinema classico. Realismo significa quindi la rinuncia ai vecchi modelli e la ricerca di nuove forme e nuove idee per interpretare un mondo terribilmente diverso, o anche la provvisoria rinuncia alla forma. Questa liberazione dalla bella immagine e dal bello stile deriva anche da una serie di perdite: senza soldi, senza strumenti, senza strutture, senza stile, il neorealismo nasce dalle rovine. Un'altra breccia neorealista dalla quale nascerà il cinema moderno è la soggettività della cinepresa, caratteristica del reportage cinematografico più che del film narrativo. Nel cinema classico la soggettiva è un inquadratura solitamente breve, usata per mostrare ciò che vede un personaggio. Con il neorealismo la cinepresa si trova sempre in soggettiva, coinvolta dentro i fatti che mostra. Spesso non sa neppure dove guardare, ignora da dove venga il pericolo, e lo spettatore condivide questa incertezza. Lo spettatore e il narratore non sono più al posto di dio, ora sono uguali a tutti gli altri esseri umani che si vedono sullo schermo. Prima di tutto quindi il neorealismo è una pulizia degli occhi, un bagno di realtà, una liquidazione dei vecchi modelli. A parte questo, però, i vari registi che hanno fatto il neorealismo hanno ben poco in comune; la loro cultura, le idee, la provenienza, gli stili e gli interessi hanno prodotto idee di cinema molto diverse. I tre grandi maestri del neorealismo furono: Rossellini, Visconti e De Sica. Rossellini A lui si attribuisce di solito la nascita del neorealismo, con Roma città aperta (1945) che racconta alcune vicende della fine della guerra a Roma, la lotta fra partigiani e fascisti, le torture inflitte ai partigiani, l'uccisione di una giovane donna nel giorno del suo matrimonio, la fucilazione di un sacerdote, don Pietro, ispirata a un fatto vero. Qui la novità è che il caos e il disordine della guerra vengono trasposti a livello della forma e dello stile del film. La novità di Roma città aperta sta proprio nei suoi errori: nella fretta del montaggio, nei movimenti della cinepresa, troppo veloci, addirittura affannati, o nell'intreccio troppo rapido delle varie storie. E' un modo di raccontare frettoloso e impaurito, insomma un vero e proprio affanno, come se il narratore stesso fosse continuamente in pericolo. In tutti i momenti del film si cambia direzione, come se anche noi fossimo braccati, inseguiti. Lo stile e gli errori ci trasmettono la sensazione paurosa che la guerra entri nella vita di tutti, che all'improvviso possa accadere qualcosa di terribile. E questa “fretta”, e questa “paura” sono forse la prima vera e grande novità del neorealismo. Dopo Roma città aperta Rossellini prosegue la sua ricerca e completa la cosiddetta “trilogia della guerra” (Paisà, 1946 e Germania anno zero, 1948), in cui la catastrofe viene colta in tutte le sue conseguenze, come la perdita e la distruzione di ogni legame fra uomo e società. Per esprimere questa tragedia Rossellini scopre nelle campagne italiane e nelle città europee un paesaggio di rovine, un pauroso caos. Il titolo, Paisà, si riferisce al grido di fratellanza dei napoletani quando si incontrano in terra straniera, ma qui la fratellanza è scomparsa e tutti sono soli, estranei; anche se alcuni americani sono di origine italiana, qui nessuno incontra nessuno. E anche qui la novità sta nello stile rozzo e informe, nella fretta di dire, per cui la cinepresa salta da un posto all'altro e nessuna scena viene terminata in maniera regolare e soddisfacente. Rossellini taglia le scene prima che finiscano le azioni, ci lascia vedere solo quello che basta per capire, e poi passa ad altro. Gli errori questa volta si trovano soprattutto nei raccordi di montaggio, con i salti improvvisi da un luogo all'altro. Ancora più tragico è il mondo di Germania anno zero, dove un bambino, Edmund, avvelena il padre invalido per togliere un peso alla famiglia ridotta alla fame. Ma la novità anche qui sta nel modo in cui il piccolo Edmund vaga fra le rovine di Berlino, rasa al suolo dalla guerra, alla ricerca di cibo, di persone, di compagni di gioco, di calore, di lavoro o di spiegazioni che mancano, nella sua incapacità di capire che cosa è successo. Primo grande simbolo dell'uomo moderno, il piccolo Edmund cammina sempre a testa bassa, non sappiamo mai quali pensieri turbano la sua povera mente. Il volto di Edmund, così impenetrabile, può essere considerato lo scoglio contro il quale va a infrangersi tutto il cinema classico, che aveva sempre cercato di spiegare tutto, di schematizzare i volti e gli uomini. Per Rossellini, il realismo è soprattutto un rapporto di amore, curiosità e rispetto dell'altro, che non pretende di spiegare niente; essere realisti non significa interpretare, ma solo osservare, guardare. “ Rossellini non dimostra, mostra” e in questa frase sta contenuta anche la differenza tra due tipi di cinema, prima della guerra e dopo la guerra. Il cinema classico ha delle tesi da dimostrare (l'ottimismo temperato che abbiamo visto), il secondo ha solo domande da porre (perché la sofferenza, la morte, la distruzione?). E' con Rossellini che il sistema dell'enunciazione classica entra in crisi. Il narratore non è più onnisciente, è sceso in terra ed è diventato un uomo comune; e anche lo spettatore non è più al centro del mondo. Visconti Completamente diverso, il realismo di Visconti è un realismo fisico, dei corpi e degli uomini in carne ed ossa, della sensualità, e della vita, che aveva imparato da giovane, quando faceva l'assistente di Renoir, ma Visconti è cupo e tragico quanto Renoir era solare e gioioso. Nel suo primo film, Ossessione (1943), già durante la guerra emerge per la prima volta una realtà di sofferenza e di miseria. La storia dei due amanti, Gino e Giovanna, che uccidono il marito di lei per vivere insieme e poi si accorgono di non avere futuro, diventa un'occasione per guardare due esseri umani, con le loro colpe. Ossessione è un film noir, quasi poliziesco, ma i luoghi reali senza scenografie, il modo del tutto nuovo di filmare gli attori, stando loro addosso in maniera ossessiva, senza trucco e stravolti dalla passione sensuale, fa di questo film una vera e propria finestra sopra un mondo fisico e sensuale che fino ad allora era sconosciuto sullo schermo. La Giovanna di Ossessione e la Gina di Roma città aperta sono le prime donne in carne e ossa del cinema, non immagini artefatte, ricostruite dallo studio system, ma donne vere. Giovanna non è mai in posa come facevano le attrici classiche, non si lascia guardare, anzi si muove con inaudita energia e prepotenza sullo schermo. Anche Gino, l'amante di Giovanna, viene inquadrato in modo straordinariamente nuovo: la cinepresa si sofferma sulla canottiera sudicia, sulle spalle, la pelle sudata, i peli del torace, in un modo che disturba lo spettatore tradizionale, alla ricerca del bello e del pulito. Nel 1948 Visconti realizza La terra trema, un racconto tratto dai Malavoglia di Verga, una mescolanza, anzi una coesistenza di realtà e mito, poiché i pescatori del film, che cercano di migliorare la loro vita miserabile, rappresentano se stessi ma anche l'eterna lotta dell'uomo contro lo sfruttamento, la povertà e la fame. Visconti cambia anche i tempi delle inquadrature, che diventano straordinariamente lunghi rispetti ai tempi classici. Allungare la durata delle inquadrature non è solo un fatto tecnico, vuol dire anche aprire gli occhi dello spettatore, costringerlo a guardare, al di là della storia, i luoghi, le persone, le cose. Se il cinema narrativo classico chiede soltanto di essere letto, il cinema del neorealismo chiede anche di essere guardato. Il visibile è la nuova estetica. Il successivo film di Visconti, Bellissima (1951), affronta un tema altrettanto importante, il rapporto fra realtà e immaginazione, e descrive con amarezza il mondo del cinema come regno delle illusioni. La storia di Maddalena Cecconi che cerca di inserire la sua bambina nel mondo del cinema e poi rinuncia, scoprendone la falsità e la crudeltà, è ancora una volta un pretesto per mostrare degli esseri umani in carne e ossa. Ma il modello è questa volta una grande opera lirica. Visconti attinge all'opera teatrale della tradizione italiana, a Donizetti, che nell'Elisir d'amore racconta la storia di un imbonitore e truffatore che vende filtri di felicità, il dottor Dulcamara. Il cinema è il dottor Dulcamara del mondo moderno, che vende sogni in cambio di vite umane. La terra trema (Luchino Visconti, 1948) Ad Aci Trezza, paesino di mare siciliano, comandano i grossisti, che sono proprietari di tutte le barche le barche cinema dai binari classici e apre nuove infinite possibilità. La narrazione viene completamente rielaborata, sovvertita, reinventata, nasce il racconto moderno. Le vecchie attrazioni, montaggio, effetti e trucchi, vengono riprese e rivalutate, ma non più come semplici curiosità, anzi, diventano le chiavi di un linguaggio, il cinema, che ora comincia a parlare di se stesso: è il metalinguaggio, da cui nasce anche una poetica dell'errore e della trasgressione. Ma insieme con la Nouvelle vague francese molte altre “nuove correnti” di cinema moderno fioriscono in tutto il mondo. Una nuova generazione europea. Il cinema diventa cultura Gli anni cinquanta furono un periodo difficile per il cinema europeo, che doveva difendersi dalla grande potenza di espansione del cinema americano. Il pubblico europeo viene conquistato dai divi e dagli eroi dello schermo classico. Giovani e adulti cercano al cinema non solo evasione dalla vita, ma anche modelli di comportamento. Ma la nuova generazione, nata negli anni trenta, non aveva sofferto per la guerra, aveva potuto studiare, leggere, usufruire di servizi e strutture culturali e godere del primo slancio consumistico; i giovani del dopoguerra frequentavano biblioteche, teatri e cinematografi. La vita quotidiana ha sempre più bisogno di comunicazione. A molti di quei ragazzi l'evasione domenicale non basta più, il cinema deve essere uno strumento per comunicare e per pensare. Il desiderio di un cinema diverso, che non sia solo oggetto di consumo ma anche strumento di comunicazione e di conoscenza, nasce così paradossalmente proprio da un consumo quasi fanatico del cinema americano, ma anche dalla sazietà di questo consumo. Dappertutto, in Europa e altrove, è un'esplosione, un rinnovamento dei problemi e delle forme, dei modi di vita e di pensiero. E dovunque si cerca di demolire i vecchi stereotipi narrativi, si cercano argomenti più reali e attuali; sulla scia del neorealismo il cinema abbandona i teatri di posa per andare all'aria aperta, con personaggi e temi più attuali, e cerca produttori più colti, meno interessati al denaro, o anche formule economiche più snelle e libere. Anche la tecnologia contribuisce con la sua rapida evoluzione. Le nuove apparecchiature leggere forniscono un grande aiuto: diventa possibile un cinema meno costoso, più sbrigativo ma anche più aderente alla realtà: cineprese a spalla, lampade più semplici e più potenti, pellicole più sensibili, adatte anche agli interni reali, avvicinano il cinema alla vita quotidiana. Si cercano anche nuovi attori, volti di tutti i giorni, adatti a rappresentare persone e non divi. Compaiono sullo schermo le città, le case, le strade, la gente, i giovani, moltissimi giovani. Una ventata di aria fresca entra nel cinema di tutta Europa. Ma il primo e più brillante di tutti questi movimenti è la Nouvelle vague francese, e da lì conviene partire. La critica come punto di partenza. La politica degli autori La novità che distingue i giovani registi francesi da quelli precedenti è la critica: iniziano tutti dalla critica cinematografica, tutti sono cresciuti nelle sale e tutti scrivono e combattono sulle riviste per una nuova idea di cinema, cinema come scrittura, mezzo per pensare e comunicare, non cinema come spettacolo. L'espressione “nouvelle vague”, che indica una svolta radicale, venne coniata nel 1957 da un settimanale francese, “L'Express”, nel corso di un inchiesta sui giovani e sul loro atteggiamento ribelle. La grande palestra in cui nascono i nuovi registi e il nuovo cinema è una rivista, “Cahiers du cinéma” (Quaderni di cinema), fondata nel1951. E' la prima grande rivista di cinema moderna; sono François Truffaut, Jean Luc Godard, Erich Rohmer, Jacques Rivette e molti altri. Per il loro fanatismo ricevono il soprannome di “giovani turchi”, e sono impegnati nello stesso tempo in una difesa del cinema americano classico e anche del nuovo cinema povero nato dal neorealismo. Il nome di questi due grandi modelli fanno a pezzi tutto il reso, tutto il cinema di qualità media che caratterizzava la produzione europea di quegli anni. Vogliono soprattutto demolire le figure paterne e imporre un nuovo tipo di stile, che si basi su una maggiore consapevolezza del linguaggio delle immagini. Secondo Bazin (direttore della rivista“Cahiers du cinéma”), il cinema moderno, deve “mostrare e non dimostrare, deve cioè abbandonare le storie con una tesi predefinita per cogliere l'ambiguità del reale. Per questa nuova generazione l'idea di autore è fondamentale. Senza autori non c'è cinema. La prima grande svolta consiste in questo: non sono più lo studio system o il produttore che fanno il cinema, ma gli autori. La politica degli autori nasce dall'idea che ogni vero maestro sa imporre alla propria opera uno stile forte e personale. I grandi maestri europei sono tre: Renoir, Vigo e soprattutto Rossellini, di cui si scopre la grande portata innovatrice. Vigo perché unifica realtà e poesia, Renoir per la sua grande attenzione verso la vita, la sensualità, i paesaggi e gli spazi dove abita l'uomo, ma soprattutto Rossellini, perché distrugge i divi e scopre uomini e donne. All'autore moderno, secondo loro, spetta il controllo e la responsabilità di tutto il film. Non solo le riprese, ma anche la storia, il soggetto, i dialoghi, gli attori, i luoghi delle riprese, la fotografia, il montaggio e tutto quello che riguarda il film, sono scelte da affidare interamente all'autore. Anche i tempi, come abbiamo visto erano maturi per una nuova cinematografia. C'era un pubblico nuovo, c'erano i nuovi registi. Così quando nel 1959 venne presentato al Festival di Cannes il primo lungometraggio di François Truffaut, I quattrocento colpi, il pubblico era preparato. Il film ebbe un successo straordinario e assieme a Fino all'ultimo respiro (1960) di Jean Luc Godard diede inizio a una nuova corrente, la Nouvelle vague. Tradizione e innovazione: i miti americani I giovani critici, oltre ai maestri europei, esaltano il cinema americano. Sono due filoni opposti e incompatibili: da una parte i miti, dall'altra lo sguardo disilluso della modernità. Il nuovo cinema nascerà proprio da questa miscela esplosiva: il mondo delle favole (la tradizione), riletto attraverso la consapevolezza del mondo moderno (innovazione). O viceversa, il mondo moderno visto attraverso i sogni dei suoi personaggi. Il rapporto complesso con il passato e con la tradizione narrativa del cinema classico sta al centro di tutta la nuova concezione del cinema proposta dalla Nouvelle Vague, che ama, adora il passato e la tradizione, ma deve staccarsi da essi per fare un cinema nuovo, più vicino alla vita reale. Sintetizzando la nuova estetica, Godard dirà che “dietro la realtà c'è la finzione, ma dietro la finzione c'è di nuovo la realtà”, il cinema è un gioco in cui esse si inseguono continuamente. Il primo film di Godard, Fino all'ultimo respiro, ricavato da un soggetto di Truffaut, è un doloroso confronto fra i sogni e la realtà, la storia di un piccolo delinquente parigino che sogna di essere come i grandi gangster del cinema americano. Come viene visto il cinema americano dai giovani autori della Nouvelle Vague? Come un cinema di grandi eroi, duri e puri, di grandi imprese, azioni e passioni travolgenti, sogni, favole, miti: ma appartiene al passato,questo periodo è ormai finito. Infatti, il cinema americano è classico perché non cesserà mai di parlare alla nostra immaginazione e di stimolare la nostra fantasia. L'amore per il cinema classico è come l'amore per i padri, ma i figli per continuare a crescere hanno bisogno di staccarsi da loro. Anche i personaggi della Nouvelle vague sono così, sono ormai lontani da quel vecchio cinema di eroi, eppure portano il loro riconoscimento nel cuore. Ai divi hollywoodiani sempre perfetti (la diva hollywoodiana si sveglia la mattina già pettinata e perfettamente truccata), la Nouvelle vague sostituisce uomini e donne comuni, giovani, timidi, incerti, a colte anche bruttini. Spesso il regista costruisce i personaggi sugli attori, e spesso s'identifica anche con loro, l'autobiografia entra nel cinema. Inoltre, il rapporto di distanza/amore verso il cinema classico si manifesta in altri due aspetti: la narrazione e lo stile. À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, Jean Luc Godard, 1960) “Dopo tutto, sono un fesso”, queste sono le prime parole che sentiamo pronunciare dal protagonista, nascosto dietro un giornale, con la sigaretta in bocca, alla maniera di Bogart, mentre sta spiando un'automobile da rubare, Michael Poiccard è un ladruncolo che vive di sotterfugi. Con la complicità di una ragazza ruba una macchina a Marsiglia e corre verso Parigi. Durante il viaggio commenta il fisico delle ragazze che fanno l'autostop, guarda in macchina verso lo spettatore (come per coinvolgere lo spettatore) e, dopo un sorpasso pericoloso, uccide un poliziotto; ma l'omicidio non viene mostrato chiaramente, ne vediamo solo alcuni frammenti (jump cut). A Parigi Michael deruba una ragazza. Sugli Champs Elysées incontra Patricia, una giovane americana di cui è innamorato, e cerca di riallacciare la storia avuta con lei e finita da un certo tempo. Nel corso di un lungo piano- sequenza la coppia si mescola con la folla dei passanti casuali, distratti. Michael le offre di scappare con lui in Italia, ma Patricia ha altre cose per la testa, vuole scrivere, vuole una vita seria e fare carriera. Michael invece vuole vivere all'avventura, il suo ideale è Bogart e, quando lo vede su un manifesto, si ferma per ammirarlo. Sembra che i due, Michael dalla strada e Bogart, dalle locandine del cinema, si guardino negli occhi. Poi ricomincia la fuga senza pace. Michael è ricercato, la sua foto appare sui giornali e un passante (Jean Luc Godard) lo segnala agli agenti. Patricia, alla fine dell'ultima notte passata con lui, lo denuncia alla polizia. Ci sarebbe ancora il tempo di scappare, ma Michael vuole imitare Bogart, si lascia sparare dai poliziotti e cade al termine di una lunga corsa. Seguito dalla cinepresa in un carrello altrettanto lungo, barcollante, per tutta la corsa, va ad abbattersi sull'incrocio di un grande viale, mentre pronuncia le ultime parole: “E' uno schifo” e mentre sta morendo trova ancora il tempo di scherzare e fare le boccacce alla donna che ama e che lo ha tradito. Questa è una storia classica, ma anche una riflessione sul cinema, sui miti, sui sogni che il cinema genera, nel suo incrocio con la vita reale. Le continue trasgressioni del linguaggio narrativo (jump cut, piano-sequenza, carrelli voce fuori campo, iride, sguardi in macchina e altri “errori) svelano le illusioni del cinema e le smascherano. Tradizione e innovazione: il racconto che cambia La Nouvelle vague non abbandona la narrazione classica, però la modifica in maniera fondamentale. Al primato assoluto dell'azione subentra il primato dell'osservazione. Il racconto si allunga e si complica con numerose digressioni e deviazioni che mostrano l'ambiente circostante, i personaggi spesso vagano incerti, non sanno che cosa fare, o parlano di se stessi, spesso la cinepresa li segue senza che accada niente. I primi a entrare in crisi sono i principi fondamentali del racconto classico: drammatizzazione, gerarchizzazione, leggibilità. La drammaturgia si complica: diventa difficile distinguere fra i buoni e i cattivi, fra il bello e il brutto, anzi queste categorie spariscono quasi di fronte alla complessità dell'uomo moderno. La leggibilità delle storie si confonde: nell'inquadratura, grazie alla profondità di campo, dove accadono sempre molte cose, e spesso i protagonisti si perdono nella folla. Lo stesso si può dire della gerarchizzazione: spesso i luoghi o lo sfondo sono più interessanti del primo piano; spesso non accade niente. Vediamo più da vicino alcune forme di rinnovamento della narrazione. • Godard: lo sconvolgimento della narrazione. Il suo intento principale è far emergere la potenza suggestiva del linguaggio filmico, e quindi del cinema stesso. Fino all'ultimo respiro (1960) è disseminato di discussioni sulla vita, sull'amore, sui viaggi, ma è anche, anzi soprattutto, un'antologia di effetti filmici. Inoltre si tratta di mostrare non più le azioni, come faceva il cinema classico, ma di mostrare ciò che sta fra le azioni: i silenzi, le attese, le tensioni fra le persone, le cose non fatte e dette; dare agli spettatori ciò che l'occhio non vede, entrare nelle pieghe nascoste delle relazioni umane. • Truffaut: la riproposta della narrazione. Truffaut potrebbe essere considerato il poeta della Nouvelle vague. Trascurato dai genitori e cresciuto in casa di Bazin, non cessa mai di mostrare il suo amore per la cultura, per i libri, per la scrittura. L'amore per i libri lo porta a una forma del tutto nuova di adattamento cinematografico dei romanzi. Truffaut sostiene che il cinema deve rispettare la pagina scritta e solo in questo modo può trovare la sua autonomia. Nei suoi film spesso la voce fuori campo del narratore legge intere pagine dei libri d'origine. Con questo Truffaut ricupera ancora più di Godard la vecchia figura e il vecchio ruolo del presentatore, che abbiamo incontrato nel cinema delle origini. Più importante della storia stessa è quindi l'atto del raccontare, che diventa l'aspetto principale del film, con la coscienza amara che non sempre è possibile capire i personaggi e i loro sentimenti. I suoi personaggi rimangono misteriosi e i loro gesti incomprensibili, come il suicidio in Jules e Jim (1961). A volte troviamo anche la linearità temporale invertita, come nell'episodio della lettera in Jules e Jim, lettera che viene prima letta dal destinatario, Jim, e solo dopo vediamo Jules che la scrive. Altre volte troviamo un arresto di fotogramma per fissare una determinata scena, come accade nello stesso film. Sono tutti modi per mettere in primo piano l'atto del narrare, che è più interessante della storia narrata. • Rohmer: la ridiscussione della narrazione. L'altro grande rivoluzionario della narrazione è Rohmer, che realizza in modo forse anche più radicale il sogno di Godard, fare dei film in cui non c'è azione ma solo ciò che sta fra un'azione e l'altra: i tempi, i luoghi, i pensieri, le idee, i sospetti, i progetti dei personaggi; non quello che fanno ma quello che vorrebbero fare. L'azione si dissolve in una serie di attese, di proposte, di sguardi, di tensioni fra i personaggi, fra il detto e il non detto, fra il pensiero e l'azione. La prima serie dei suoi racconti porta il titolo di “Racconti morali”, sia per ricordare la grande tradizione dei moralisti francesi, sia per sottolineare la tensione spirituale che sta sempre alla base dei suoi pseudoracconti. Il segno del leone (1959) è la storia di un giovane fannullone che aspetta un'eredità, in una Parigi estiva, in attesa delle vacanze. Nel film La collezionista (1967) una seduttrice cerca di catturare e inserire nella sua collezione di uomini un giovane che però resiste. La mia notte con Maud è invece la storia di un giovane che passa la notte con una bellissima ragazza senza far l'amore, ma parlano di filosofia. Queste sono tutte storie di azioni mancate. Il cinema di Rohmer è il trionfo del non detto, dell'implicito, del non visibile. Anche Rivette sovverte la narrazione, lasciando al suo posto un labirinto in cui ci si perde fra realtà e immaginazione, fra storie immaginate e storie vere. Nel suo primo film, Paris nous appartient (Parigi ci appartiene, 1960), alcuni ragazzi, fanatici del cinema e del romanzo, sono convinti che una grande cospirazione stia per impadronirsi di Parigi e del mondo, tanto che uno di loro addirittura, sconfitto dalla paura, si uccide, mentre gli altri diventano finalmente adulti e scoprono che la cospirazione esiste solo nella loro fantasia. Un altro autore, Claude Chabrol, sembra ripristinare la narrazione classica, ma la sovverte al suo interno, distruggendone i miti e i modelli. Le beau Serge (1959) è l'esperienza di un giovane che torna al paese natale dove scopre che il suo amico Serge, il ragazzo più bello del paese, vive come un disgraziato; ecco un altro mito che crolla, ma il vero protagonista è l'angoscioso paesino con i suoi abitanti tristi, ottusi e cattivi. Anche I cugini (1959) racconta la fine di un mito, l'amicizia di due ragazzi che non regge all'amore per la stessa donna, ma la protagonista è a Parigi, con i giovani studenti o lavoratori. Con Chabrol si percepisce il dramma del passaggio dalla provincia in città. Lo stile. Il metalinguaggio. La copia originale Lo stesso rapporto tradizione/innovazione si può avvertire nello stile cinematografico della Nouvelle vague, che spezza i codici hollywoodiani ma nello stesso tempo li riprende, in un continuo gioco di sovversione e tradizione. In primo luogo cambiano i tempi e la durata delle inquadrature, che spesso si allungano oltre il necessario o, al contrario, s'interrompono troppo presto. Nella Nouvelle vague i film non scorrono più, la velocità varia a seconda del momento, dell'umore, del posto. La narrazione è discontinua, va a balzi e singhiozzi, accelera o rallenta. Accelera nel montaggio a salti (jump cut), che è più veloce della norma e non permette di capire bene che cosa accada. Oppure, al contrario, la narrazione rallenta, l'azione lascia il posto a lunghe conversazioni, con un montaggio di lunghi frammenti e movimenti della cinepresa. Secondo Godard, al cinema “la morale è una questione di carrelli”; vale a dire che una cinepresa sincera non crea nello spettatore la vecchia illusione di onnipresenza divina ma, al contrario, si muove come un occhio comune, diventa un'incarnazione dello sguardo umano, limitato e interrogativo. La moralità del nuovo cinema consiste appunto nel mostrare non l'azione, ma il racconto, l'atto del raccontare; in sostanza, ciò che si vuole mostrare è prima di tutto il cinema, con Dentro la commedia infatti nascono anche i più grandi attori italiani, che domineranno la scena, come Gassman, Tognazzi e Sordi. Saranno loro a creare le grandi maschere moderne, eredi di quelle antiche. Ad esempio Tognazzi di frequente rievoca un Pantalone, esperto trasformista, sempre infiltrato dovunque. Poi nascono molte Colombine, da Sophia Loren a Gina Lollobrigida. Inoltre gli sceneggiatori sono tutti scrittori, letterati e uomini di vasta cultura che trovano i loro soggetti saccheggiando felicemente la letteratura di tutto il mondo e di tutti i tempi. Ogni sceneggiatore lavora con molti registi diversi. Se la prima stagione scorre sul tema della farsa e della parodia, che sono i generi tipici della fantasia povera e popolare, la seconda stagione della commedia, dopo il 1955, legata alla nuova ricchezza economica, si caratterizza invece per un allargamento dei temi e dei modelli verso una satira del miracolo economico, del consumismo e delle facili fortune. La commedia italiana allora diventa una formula forte, sicura di sé e dei suoi modelli, diventa commedia all'italiana. Ma la nuova commedia all'italiana è solo uno dei grandi eventi provocati dall'ondata del neorealismo, dal quale nasce anche il cinema dello sguardo. I grandi maestri: Federico Fellini Fellini aveva lavorato inizialmente come disegnatore satirico e applica nel cinema questa sua capacità di distorcere le forme, sottolineando la mostruosità nascosta dentro il reale quotidiano. Nei primi film l'eredità neorealista lo porta a descrivere mondi e personaggi sospesi fra realismo e magia, come in Le notti di Cabiria (1957, sceneggiatura di Pasolini), tragica poesia sulle sfortune di una giovane prostituta con la testa piena di sogni (l'amore, un marito, una casa). Più tardi il suo sguardo si allarga e si innalza, Fellini compone il suo grande, maestoso affresco della Roma ricca e potente di quegli anni con La dolce vita (1960), dove mette in scena tutto lo stupido mondo del cinema, l'ottuso fanatismo della religione superstiziosa, l'ozio triste dell'aristocrazia, le feste insulse, l'ignoranza dei ricchi e l'arida raffinatezza degli intellettuali; tutto qui converge nella descrizione di un mondo infernale. Successivamente si abbandona al fasto dell'immaginazione con le grandi pitture metaforiche Satyricon (1969, in cui si vede una Roma imperiale della decadenza che somiglia alla Roma di tutte le ere, compresa quella contemporanea), Casanova (1974, in cui sono presenti i temi di decadenza, sessualità, morte e orrore e fascino dell'eccesso) e Roma, in cui il passato serve come pretesto per alludere alla corruzione moderna. L'aspetto più interessante della sua opera, a partire da La dolce vita, è la soppressione totale dell'azione e del protagonista: al loro posto troviamo un paesaggio di innumerevoli figure che appaiono e subito scompaiono per lasciare il posto ad altre e altre ancora. Anche il sonoro ha un aspetto del tutto nuovo: la voce fuori campo non viene da un narratore centrale, come in Truffaut, ma da molte fonti, spesso confuse; Fellini è forse il primo per cui si può parlare di paesaggi sonori. Con la sua visione del mondo il maestro influenza presto una giovane generazione di registi, soprattutto americani, come Woody Allen. La dolce vita (Federico Fellini, 1960) Negli anni cinquanta il cinema italiano attraversa un periodo di straordinaria fortuna, dovuta anche al fatto che gli americani non potevano riportare in America gli incassi fatti in Italia con i loro film, ma erano obbligati a reinvestirli nel nostro paese. Le grandi case di produzione hollywoodiane realizzarono a Roma, negli studi di Cinecittà, alcuni film colossali in costume. E' il periodo della cosiddetta Hollywood sul Tevere, quando anche i divi americani venivano a lavorare a Roma. La dolce vita descrive appunto questo mondo di lusso estremo, frivolo, vuoto ma straordinariamente affascinante, usando un personaggio-guida, un giornalista di rotocalchi alla moda, Marcello (M. Mastroianni), con al seguito il suo fotografo, chiamato Paparazzo, che ci conducono attraverso le carie stazioni di questo inferno-paradiso. Il film inizia con un elicottero che trasporta sulla città eterna una grande statua di Cristo, amara parodia del ritorno di Dio in un mondo che non lo riconosce più, a cui segue una scena di un ballerino travestito da idolo orientale in un locale notturno romano. La dolce vita è diviso in sette grandi stazioni, che sono anche sette lunghe notti di piacere e di dolore: 1) la notte di Marcello e Maddalena, una ricca, bella donna, sola e inutile, con la quale, per provare nuove emozioni, fa l'amore nella stamberga di una povera prostituta; 2) la notte con Silvia, la diva hollywoodiana e il bagno nella fontana di Trevi; 3) i bambini che vedono la Madonna, il fanatismo religioso e il grande spettacolo costruito introno a loro dai mass-media; 4) la serata in casa Steiner, l'intellettuale di sinistra debole e incapace di trovare nuove prospettive; 5) la visita del padre, che scappa al termine di un'altra notte di baldorie, forse deluso dal figlio o soffocato dai ricordi; 6) un'altra festa in mezzo a un'aristocrazia corrotta e insulsa; 7) infine l'ultima grande notte di noia in cui dopo una serie di giochi, uno più deprimente dell'altro, la comitiva, di cui Marcello è animatore, si spinge sulla riva del mare per guardare un animale mostruoso che è stato sbattuto sulla spiaggia. A metà film Marcello incontra per caso Paola, una ragazzina povera e semplice, che lavora onestamente in una trattoria di mare. Nell'ultima scena Marcello rivede Paola, simbolo di possibile salvezza; un canale melmoso li separa, lei gli parla da lontano ma lui non riesce a sentire e a capire. I grandi maestri: Luchino Visconti Visconti, dopo l'esperienza neorealista, giunge a un'esaltazione della messa in scena, in cui il cinema s'intreccia sempre con il teatro. La sua immensa cultura sull'Ottocento e sul Novecento europei lo porta al grandioso melodramma Senso (1954), una sintesi di pittura, teatro, musica, letteratura e storia. La vicenda di Livia Serpieri, una contessa italiana dell'Ottocento che s'innamora di un nemico austriaco, diventa simbolo negativo del nostro Risorgimento, che mette in luce le contraddizioni e le debolezze della futura nazione. Qui si riprende infatti il dipinto Il bacio (1859) di Hayez. Più tardi Visconti costruisce un altro grande poema epico sull'immigrazione da sud al nord (in questo caso Milano) che ha generato l'Italia industriale degli anni sessanta, Rocco e i suoi fratelli (1960). Alcuni personaggi del film Rocco e i suoi fratelli sono modellati su quelli de L'idiota di Dostoevskij. Quello di Visconti però non è esclusivo interesse per la messa in scena, è anche un costante lavoro sulla cinepresa che continuamente si muove sulla scena per osservare i suoi personaggi ora da vicino e ora da lontano; vede lo splendore ma anche lo squallore, sa rendere misteriosi un angolo di strada, un giardino, un vestito, un albero; i corpi e gli oggetti sotto il suo sguardo assumono un intensità simbolica, tanto che il suo cinema potrebbe essere sintetizzato con le parole; la scena e lo sguardo. I grandi maestri: Michelangelo Antonioni Il regista che però sviluppa al massimo le possibilità del cinema come sguardo è Antonioni. Da lui nasce un modo assolutamente nuovo di guardare e di filmare i luoghi e le persone. Nei suoi film un personaggi-guida si aggira per i meandri della città moderna o nelle vastità aperte della natura, facendoci da pilota per la scoperta di un mondo e dei suoi misteri, e dietro di lui la cinepresa percorre gli stessi spazi, guardando colui che sta guardando. Per Antonioni infatti l'atto di fare cinema e l'atto di guardare sono esattamente la stessa cosa; il cinema non è altro che una riflessione sullo sguardo umano. In Antonioni, anche i luoghi diventano personaggi: città, strade, case, campagne, deserti, parchi o semplici camere vuote sono protagonisti dei suoi film forse più delle persone. I protagonisti di Antonioni scoprono di non essere protagonisti, ma solo comparse di storie che accadono ad altri. La stessa cosa accade allo spettatore che sperimenta con amarezza di non essere più al centro del racconto. Lo stile di Antonioni scardina la sintassi del racconto classico. L'avventura è un film-enigma, che abbandona il sentiero della narrazione classica, incentrato su una sola storia, per lasciare emergere molte storie possibili che però non vengono raccontate, ma solo accennate. Antonioni sperimenta anche il colore artificiale, e fa colorare interi palazzi e strade e alberi. Il deserto rosso (1964) è già un film digitale prima che il digitale venisse inventato, poiché ci mostra il nuovo mondo industriale colorato e inventato dall'uomo. L'importanza di Antonioni è grande, soprattutto per la nascita del cinema moderno. L'avventura (Michelangelo Antonioni, 1960) Nel film L'avventura, che è diventato un vero e proprio manifesto del cinema moderno, un gruppo di ricchi turisti fa una gita in barca nelle isole Eolie. Durante una sosta una ragazza, Anna, sparisce misteriosamente. Tutti la cercano, anche la cinepresa si muove sull'isolotto cercando. Il tempo sta cambiando, un temporale si avvicina e molti ripartono. Claudia, la sua migliore amica, e Sandro, il suo fidanzato, continuano la ricerca rimanendo sull'isola anche la notte, poi girano la Sicilia sempre cercando Anna. Incontrano tanta gente e scoprono molti luoghi affascinanti e misteriosi. Inoltre scoprono che l'assenza di Anna è già stara colmata da una nuova storia che sta nascendo fra di loro. Durante una festa aristocratica, Sandro la lascia sola in camera e la mattina lei, appena desta, lo trova ancora intento ad amoreggiare con un'altra donna. Lui la insegue piangendo sulla piazzetta davanti all'albergo, dove la vista dell'Etna coperto di neve induce Claudia a perdonarlo e ad accettare questo rapporto, incerto come tutto il resto. Sembra un giallo, ma non lo è, anzi è un giallo alla rovescia i cui i personaggi che indagano, invece di trovare la ragazza scomparsa, si perdono loro stessi. Anna non sarà trovata, la storia non avrà una conclusione, ma in compenso il film ci ha dato un magnifico affresco della Sicilia e della società italiana. Dove sarà finita Anna? Questa sparizione è diventata negli anni un simbolo del cambiamento rispetto al vecchio cinema classico. Mentre il cinema narrativo forniva chiare risposte, il nuovo cinema ci lascia solo con delle domande. La cinepresa si trova incerta, confusa, non sa dove guardare. I raccordi sbagliati, il montaggio che spesso assorbe la confusione dei personaggi, le soggettive di luoghi dove non c'è nessuno creano uno spaesamento, per cui lo spettatore ha la sensazione di perdersi anche lui, o di essere guardato da un altro protagonista fino allora ignorato: il paesaggio. Pasolini e Ferreri, il cinema della crudeltà Parallelamente a questi tre grandi maestri, una generazione appena un po' più giovane si affaccia nel cinema italiano. Uno dei giovani esordienti è Pasolini, poeta e scrittore che passa alla regia dopo aver lavorato come sceneggiatore e porta sullo schermo i giovani piccoli delinquenti delle borgate romane (un'altra prosecuzione del neorealismo). In Accattone e nel secondo film (Mamma Roma, 1962) descrive la vita e la morte di due ragazzi di strada, ma in entrambe le opere la musica e la pittura religiosa gli servono per santificare queste figure e collocarle su un piano simbolico, a rappresentare tutta l'umanità, nelle sue colpe e nella sua innocenza. Più tardi rielabora alcuni grandi miti della letteratura classica, Edipo re (1968) e Medea (1969), per studiare la sopravvivenza dell'arcaico nella cultura contemporanea, o rilegge le grandi opere letterarie del passato, con la “trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte) in cui immagina la “disperata vitalità” e l'erotismo del mondo antico. A questa doveva seguire una ben più truce “trilogia della morte”, di cui l'autore poté realizzare solo la prima parte, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), un film tuttora feroce e inguardabile in cui quattro gerarchi fascisti si chiudono in una lussuosa villa veneta per compiere, sui corpi nudi di dieci ragazzi e dieci ragazze, gli atti sessuali più perversi, fino alla tortura e al massacro. Pasolini allarga qui la concezione del fascismo, ne fa una grande metafora del male. Ma nella sua opera, dall'inizio alla fine, il punto costante è l'inquadratura come opera pittorica; sempre l'inquadratura nasce come ricordo e rievocazione della grande pittura italiana, ma non si tratta di riferimenti accademici, al contrario, la pittura viene riavvicinata intensamente alla vita reale: da Caravaggio, a Masaccio, a Pontormo, a Rosso Fiorentino, la pittura serve a Pasolini per scoprire il mondo, viene utilizzata come una vera e propria lente per guardare la realtà attuale. Negli anni cinquanta all'ombra del neorealismo aveva esordito anche Marco Ferreri, che è il più grande erede del surrealismo francese. Dopo una breve parentesi in Spagna, Ferreri ritorna in Italia e sviluppa la sua vena surreale, cogliendo tutti i tic, le manie, le miserie e le assurdità più comuni ma anche sconosciute e invisibili. I primi film sono studi gelidi e crudeli sull'assurdità dell'uomo e della vita umana, fino ai due capolavori: Dillinger è morto (1969), in cui un ingegnere passa una notte insonne a cucinare e mangiare, al termine della quale uccide la moglie e parte per i Mari del Sud, e La grande abbuffata (1973), in cui quattro borghesi si chiudono in una villa e mangiano fino a morire di indigestione, passando dall'eleganza più raffinata alla fine più disgustosa. Olmi poeta dei poveri. Il documentario antropologico Un altro erede del neorealismo che esordisce negli anni sessanta, Ermanno Olmi, è invece il poeta del silenzio e dei timidi. Il posto (1961) racconta la vita di un giovane di campagna che scopre la nuova e grande Milano dello sviluppo industriale. Anche L'albero degli zoccoli (1978) sarà un grande poema sui poveri e sugli umili, quasi un documentario sulla vita dei contadini, le fatiche, i silenziosi amori, le feste e la fame nelle cascine alle origini del Novecento. Il tormento dei giovani I giovani registi italiani degli anni sessanta, quelli che corrispondono alla Nouvelle vague francese, sono forse meno sovversivi ma in compenso più ironici e autoironici. Questo accade soprattutto ai due maggiori autori, Bellocchio e Bertolucci. Il primo con I pugni in tasca (1965), dove un giovane epilettico uccide la madre cieca, provoca un vero e proprio scandalo, descrivendo la famiglia come covo di mostri, di malati e di idioti, un istituzione oppressiva e soffocante. Ma I pugni in tasca è ancora oggi un film di grande valore per il modo assolutamente nuovo di usar la cinepresa, che guarda da vicino i personaggi con attenzione quasi da Kammerspiel, e per le tecniche di ripresa un po' sciatte, trascurate, come se si trattasse quasi di un film fatto in casa, da un membro della famiglia che osserva i parenti e la loro idiozia. Ancora una volta, come nel neorealismo, l'indifferenza verso lo stile diventa uno stile più forte degli altri. Il suo sarà sempre un cinema dell'ombra e della penombra, che studia l'ambiguità del comportamento umano, l'incertezza degli affetti più scontati. Più vicino al cinema francese, in particolare a Godard, Bertolucci con Prima della rivoluzione (1964) costruisce la figura di un giovane borghese che si crede rivoluzionario, ma poi sposa una donna ricca e accetta tutto quello che aveva rifiutato. Ma saranno Il conformista e Strategia del ragno (1970) i suoi due capolavori. Nel primo mostra la potenza del passato e del fascismo, ancora profondamente radicato e nascosto nell'Italia moderna; nel secondo la potenza della finzione, in questo caso il melodramma musicale di Giuseppe Verdi, che prende il sopravvento sulla realtà e trasforma la Storia d'Italia in un palco teatrale. Più coraggioso è suo fratello, Giuseppe Bertolucci, che ha realizzato nel 1979, con Roberto Benigni, Berlinguer ti voglio bene, un capolavoro di arte colta e popolare nello stesso tempo. Il cinema italiano moderno: sintesi 1) Sguardo soggettivo e limitato, al posto della narrazione impersonale; 2) Emergere del linguaggio cinematografico, al posto della cinepresa invisibile. I movimenti della macchina da resa sono molto marcati; 3) Problemi di identità del personaggio e dello spettatore. LA NASCITA E LA DIFFUSIONE DEL CINEMA MODERNO L'ABBANDONO DELLE FORME MIMETICHE Modernità e soggettività Se il cinema degli anni trenta aveva ereditato la forma narrativa della letteratura popolare ottocentesca, la letteratura moderna intento era già andata ben oltre. Fin dall'inizio del Novecento, con Proust, Joyce, Kafka, Virginia Woolf e altri, aveva abbandonato il narratore onnisciente, aprendo vuoti e incertezze Aveva anche dato più spazio alla riflessione. Nel campo filosofico si sottolinea che l'uomo non guarda mai gli eventi e le cose dal di fuori, ma dal di dietro, cioè ne fa parte. Sotto questo punto di vista, la conoscenza non è mai oggettiva, ma personale. La cosiddetta “Scuola dello sguardo”, inaugurata in Francia negli anni sessanta, assesta un colpo definitivo alla figura del narratore, che a volte si perde nelle storie raccontate da lui stesso. Il cinema, rispetto a stesse, come La ronde (Francia, 1950) in cui dieci personaggi s’incontrano e si sfruttano sessualmente a catena (A-B, B-C, C-D...), fino al sublime Lola Montès (Francia, 1955) in cui una grande seduttrice e famosa ballerina è trasformata in fenomeno da circo equestre. In Ophuls la donna è utilizzata come filtro e reagente della sensibilità moderna. Bresson: il dettaglio Non sempre il cinema moderno è fatto di inquadrature lunghe, anzi altre volte accade il contrario. Se Dreyer lavora sulla durata, Bresson ha lo stile opposto, ma anche la stessa profondità spirituale. No cerca attori che interpretano dei personaggi, ma corpi, volti, oggetti, per farne simboli dell'uomo e del suo mondo interiore. La sua cinepresa, quasi sempre rivolta in basso, preferisce i dettagli, i frammenti di azione; non si alza mai per guardare lontano, non aspetta mai che le azioni siano finite. Il montaggio, invece di essere evitato, è protagonista assoluto. La sua figura stilistica principale è la sineddoche, ovvero il frammento, la parte che sostituisce l'intero. Due scarpe che battono su una strada stanno per un uomo che cammina, una finestra sta per un'intera stanza, una mano che ruba rappresenta tutti i ladri del mondo. Il fuori campo è la figura dominante del cinema di Bresson. Resnais: la crisi della memoria Alain Resnais è un po' più vecchio dei registi della Nouvelle vague. Scompone il rapporto fra suoni e immagini, sconvolge il tempo e lo spazio lineari del racconto classico, andando continuamente avanti e indietro, fra il presente e il ricordo, mostrando però anche che i ricordi sono spesso falsi e ingannevoli. Il suo primo film lungometraggio, Hiroshima mon amour (1959), è di solito collegato all'esordio della Nouvelle vague, anche se non vi appartiene di fatto; magnifico esempio di cinema poetico, inizia con le misteriose immagini di due corpi nudi abbracciati su cui cade una sabbia finissima. Sono due giovani, un giapponese e una francese, che si incontrano a Hiroshima e si raccontano le loro storie terribili. Lui ha perso i genitori nel bombardamento atomico che distrusse interamente quella città, mentre lei, in Francia, sempre durante la seconda guerra mondiale, è stata amante di un soldato nemico. I due si amano per un giorno e poi si lasciano per sempre. Buñuel: il rifiuto delle belle immagini Costretto a lasciare la Francia per gli scandali suscitati dai sui film surrealisti, Buñuel si fermò brevemente in Spagna e ripartì poi per il Messico dove ebbe una forte influenza anche sulla nascita di un cinema nazionale messicano. Qui infatti realizzò i suoi film più affascinanti e misteriosi, che continuavano la grande rivoluzione surrealista, come L'angelo sterminatore (1962), la sua più atroce metafora della decadenza borghese, dove alcuni ricchi signori, dopo una cena molto elegante, rimangono chiusi dentro una stanza e regrediscono alla vita animale, alla sporcizia e alla ferocia primordiale. Ritornato in Spagna, suo paese natale, Buñuel realizza altri film. Infine Buñuel ritorna in Francia dove consegna altri capolavori come Il fantasma della libertà (1974), sulla libertà del tutto illusoria del mondo contemporaneo. Bergman: il volto Erede del cinema muto svedese, di Sjöström, ma soprattutto di Dreyer e della sua ricerca sul primo piano e sul volto, Bergman realizza una vasta e complessa opera di riflessione sull'uomo moderno e sulla perdita della fede o delle altre certezze nel mondo contemporaneo. Il suo stile è caratterizzato da intensi contrasti di luce con luoghi in ombra tagliati da luci trasversali e una cinepresa che sta molto vicina ai personaggi, addirittura sulla pelle; spesso usa brani di musica classica (da Bach a Mozart), che non solo accompagnano dall'esterno le storie, ma scandiscono anche i tempi del montaggio, fino a fare quasi della musica visiva. Bergman adatta il film alle figure degli attori e delle attrici, ai loro corpi e volti. I suoi film, come Il posto delle fragole (1957, in cui è presente come attore Victor Sjöström), corrispondono alle varie attrici e attori da lui utilizzati. La sua poetica riguarda la solitudine, soprattutto quella femminile, mentre lo stile è osservazione dei volti e dei corpi, fin sulla pelle, fino alla nudità fisica e spirituale. Tati: il gioco dei punti di vista Jacques Tati è il migliore, forse l'unico degno erede di Keaton. La comicità diventa con Tati un esercizio d'interpretazione del mondo. I suoi film sono apoteosi del punto di vista: tutto dipende da questo. Una casa moderna può diventare un'opera d'arte ma anche una prigione, secondo chi la guarda; una signora elegante vestita alla moda può essere scambiata per un povero venditore di tappeti o per un lampadario. Il suo film Playtime (1967) è la descrizione di una città perfetta, che gioca da sola e non ha più bisogno degli uomini. I lampioni sostituiscono i fiori, le automobili danzano sull'autostrada come ballerine, il traffico interno a un'aiuola diventa una giostra, un girotondo, le poltrone di plastica sbuffano di fatica quando uno si siede. In questo mondo quasi perfetto soltanto l'uomo e la donna sono due fastidiosi accidenti. Il loro posto è preso dalle macchine. Kubrick: l'occhio siderale Un caso particolare di autore a mezza strada fra Europa e America è Stanley Kubrick, americano emigrato in Europa e lì rimasto per il resto della sua vita, in esilio volontario, forse per marcare la sua estraneità rispetto a tutto il mondo. Il mondo appare infatti nei suoi film come una congrega di folli che si applicano a farsi del male reciprocamente. Tutti, anche i buoni, hanno un doppio, un rovescio, in questo mondo di ombre paranoiche che deve molte delle sue idee al cinema espressionista tedesco. Molti dei suoi film riprendono alcuni generi del cinema classico e li smontano freddamente. Lolita (1962) smonta la commedia, è un'apoteosi dello sdoppiamento della personalità, con un personaggio che assume ben quattro travestimenti nel corso del film. Gli altri film demoliscono vari generi: 2001: Odissea nello spazio (1968) la fantascienza, Arancia meccanica (1971) l'horror, Shining (1979) ancora l'horror, ecc. 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968) Film di fantascienza realizzato con le tecniche dell'avanguardia europea degli anni venti e di quella americano degli anni sessanta, 2001: Odissea nello spazio potrebbe essere considerato un manifesto per un nuovo modo di guardare e per un nuovo tipo di spettatore, che trova la sua identità non più nella fruizione passiva di una storia confezionata, come nel cinema classico,ma nell'atto del guardare, inteso però come sguardo conoscitivo, cosciente e razionale. Considerato alla sua uscita un film noioso, perché basato su lunghe inquadrature in cui non accade nulla, 2001: Odissea nello spazio è moderno per questa riduzione al minimo della narrazione. Lunghi, interminabili carrelli, come nella danza delle astronavi o come quello circolare che segue David Bowman nel suo allenamento dentro la cabina circolare dell'astronave Discovery. La misteriosa forma geometrica del monolito, che rappresenta l'ingresso della ragione nel mondo, ha fatto per anni favoleggiare i critici. Un brano di cinema stupefacente è la scoperta della clava, che viene identificata con la nascita della memoria e del pensiero (il tapiro che cade nell'immaginazione della scimmia). Altrettanto si può dire della poderosa ellisse con cui passa dal passato scimmiesco al futuro fantascientifico: la clava gettata in aria dalla scimmia Moonwatch si trasforma, roteando su se stessa, in una astronave che danza nello spazio nero. Anche il finale è un pezzo di cinema superbo. Al termine del grande viaggio di Bowman, la porta dell'infinito, quella che è stata chiamata la “Porta delle stelle” (Star Door) è un lungo montaggio di soggettive in cui con il viso stravolto guarda verso di noi, e noi nel controcampo (sempre a 180°) vediamo una successione di luci e colori simili alle esperienze allucinatorie e psichedeliche della Beat Generation, della cultura della droga e della neoavanguardia americana degli anni sessanta, per terminare sull'immagine ingrandita della pupilla dilatata. E infine, anche il bambino stellare, lo Star Child, ruota su se stesso per puntare i suoi occhi enormi verso di noi: è l'ultimo invito a una presa di coscienza dell'intera umanità. Le nuove forme narrative nel mondo. Realismo e soggettività come cifre del nuovo cinema La scoperta del cinema a basso costo e il rinnovamento della tecnologia permettono a tutti i paesi, anche quelli più poveri, di scoprire e usare finalmente la grande arte del cinema. Grazie alla politica delle “nuove correnti” che abbiamo visto, gli autori moderni hanno anche maggiore libertà di quelli hollywoodiani. Nonostante la grande differenza del cinema moderno da un paese all'altro, possiamo individuare alcune importanti caratteristiche comuni a molti autori moderni, e vedere in che cosa si differenziano dagli autori classici. Inoltre si potrebbe considerare anche il film d'autore come un nuovo genere. Se prima il criterio di selezione per lo spettatore era basato sul divo o sul genere, ora questo ruolo viene svolto anche e soprattutto dalla firma dell'autore, e lo spettatore sceglie di ricedere i film del regista che gli è piaciuto e da cui si aspetta un certo stile e la trattazione di certi temi. Anche lo stile ha un aggiornamento rispetto agli autori classici. Le marche d'autore aumentano considerevolmente e sono più visibili rispetto allo stile classico. Alcune le abbiamo già incontrate, e ora diventano strumenti base del nuovo linguaggio. La profondità di campo, caratteristica delle origini, ritorna in voga. Anche i movimenti della macchina da presa, un tempo utilizzati da maestri come Murnau e poi limitati nel cinema classico, dominano lo stile moderno, perché ora non si tratta più di raccontare azioni, ma di guardare e pensare. Il carrello diventa uno strumento essenziale per inserire i personaggi dentro un contesto, la panoramica uno strumento di osservazione dell'ambiente. Anche il primo piano viene ricuperato, non come strumento narrativo, ma come lente per osservare il volto umano. Un'altra figura molto diffusa è la soggettiva che diventa soggettività della cinepresa, una cinepresa calata dentro le cose. Al posto della vecchia illusione di realtà subentra uno sguardo che fa riflettere. Il nuovo cinema tedesco Herzog è forse il regista più coraggioso e sperimentale fra tutti i tedeschi e può essere considerato inventore del documentario neoromantico. Il suo è uno sguardo inquieto sui paesaggi più strani e lontani, sempre alla ricerca di situazioni estreme, di una natura sublime, che faccia sentire all'uomo la sua piccolezza. Wim Wenders parla invece del rapporto fra realtà e mito, soprattutto i grandi miti del cinema classico. Nei suoi film rende omaggio ai grandi maestri del sogno e del cinema mito-poetico, in primo luogo Nicholas Ray. Più tardi anche Wenders scopre il documentario culturale, musicale o storico. Paesi balcanici e Medio Oriente Il più significativo autore è Abbas Kiarostami. Iraniano, ma molto influenzato dal cinema europeo, in particolare dal neorealismo e dalla Nouvelle vague, Kiarostami parte dal cinema per arrivare alla realtà, ma dietro questa trova di nuovo il cinema. In questo gioco di scambio fra reale e immaginario, è anche profondamente legato alla cultura araba, a quella dei poeti iraniani, o al sistema narrativo delle “mille e una notte”, per esempio, in cui ogni racconto contiene sempre altri racconti e la verità è solo una delle tante finzioni possibili. Anche in lui abbiamo tempi lunghi e privi di azione. Sintesi delle caratteristiche del cinema moderno 1) Carattere antimimetico: non esiste più nessuna illusione di realtà: mostra solo gli aspetti frammentari di una storia, da un certo punto di vista. 2) Emergere del linguaggio cinematografico. Inquadratura lunghe e tempi distesi, movimenti della macchina da presa molto marcati. 3) Narratore debole, soggettivo e limitato, al posto della narrazione impersonale onnisciente. 4) Lo spettatore non è più al centro del mondo, ha poche informazioni, a volte pochissime. 5) Tempo: durata reale contro tempo diegetico classico. 6) Spazio: luoghi reali contro spazio immaginario classico. 7) Personaggi: esseri umani contro tipi e stereotipi classici. 8) Significazione molto aperta: tocca allo spettatore fare e cercare il senso del film. IL RINNOVAMENTO AMERICANO I grandi eventi che turbarono il mondo negli anni cinquanta e sessanta non furono senza eco nel cinema americano. Le guerre, dalla lunga e snervante guerra di Corea a quella ancor peggiore del Vietnam; la reazione dei giovani che rifiutavano di partire soldati per una guerra disperata come quella del Vietnam; i movimenti degli intellettuali e il rifiuto del consumismo; il movimento di emancipazione dei neri guidato spiritualmente da Malcom X e dalle più radicali Pantere Nere; la nascita della “controcultura” degli anni sessanta, con la Beat Generation a New York; la musica folk, con il grande Bob Dylan; ma anche la contestazione nelle università, il movimento degli hippy per la libertà sessuale, tutti questi grandi eventi portarono a costruire una nuova atmosfera e nuove prospettive. Al centro di tutto stava il conflitto generazionale; gli adulti non vedevano alcun obiettivo al di là del benessere e del successo economico, mentre i giovani, nati dentro quel benessere economico, lo criticavano e lo rifiutavano. Tutto questo svecchia l'America e il cinema. Il pubblico si differenzia, come in Europa. In seguito a questo cambiamento nel pubblico occorreva aggiornare i modi di produzione, fare film diversi per ciascun tipo di spettatori. La vecchia formula dello studio system venne poco a poco abbandonata per dare origine a forme produttive più libere per gli autori. Le Majors (MGM, RKO, FOX, Warner, Paramount) abbandonano prima di tutto il monopolio delle sale cinematografiche, che ritornano in mano ai piccoli esercenti, poi aprono anche ai produttori indipendenti, fino allora ostacolati con tutti i mezzi; ora invece li incoraggiano e offrono loro a noleggio i grandi teatri di posa e le preziose attrezzature. Questo conduce alla nascita di un nuovo cinema: un cinema di idee più che di azioni. Si scelgono nuove storie più vicine al mondo attuale e si elaborano nuovi miti. Nascono nuovi generi, come il road movie, una specie di western moderno (Easy Rider, 1969). Tutti sono in genere ambientati in luoghi reali. Inizia anche la ricerca di nuovi registi che abbiano una loro poetica e anche nuovi attori: l'Actor's Studio, scuola del realismo americano, diventa vivaio dei nuovi attori hollywoodiani. Insieme con il regista moderno, che esige autonomia e rispetto, nasce l'attore moderno, con la figura dell'antieroe, che vive nella dimensione della debolezza, o anche della sconfitta. Autori-produttori e nuovi autori Una delle figure che contribuirono a svecchiare il cinema americano fu Roger Corman, che produsse quasi sempre da solo i suoi film, fin dal 1955. la sua povertà di mezzi divenne uno stile: i suoi sono sempre film di genere, che si allontanano dal modello hollywoodiano più per la forma che per la sostanza; spesso infatti propongono una versione sporca, a volte parodica dei generi classici: il western, il gangster, la fantascienza e l'horror vengono da lui rifatti in stile povero e grottesco. Pochi film di Corman valgono la pena di essere ricordati, ma molti futuri maestri della nuova Hollywood iniziarono a lavorare con lui e appresero da lui la testardaggine e il bisogno di autonomia finanziaria, ad esempio Coppola e attori come Jack Nicholson. La Nouvelle vague e Corman diventano il punto di riferimento per i giovani americani che vogliono rinnovare il cinema anche stando dentro Hollywood. Il rinnovamento del linguaggio classico passa attraverso l'esibizione del linguaggio stesso, movimenti strani della cinepresa, macchina a mano, in spalla, panoramiche sbagliate perché troppo veloci. Il racconto si frammenta, si allungano i tempi e le inquadrature, diminuisce l'importanza della storia, sparisce quasi l'azione, aumentano le soggettive, ritorna la profondità di campo, si moltiplicano i punti di vista contrastanti: i buoni spesso sono anche cattivi, il bello è anche brutto. Si rifiuta il bel cinema patinato di Hollywood a favore di un cinema sporco. Viene anche rielaborato il tradizionale happy ending, che diventa sarcastico o viene addirittura sostituito decisamente da una conclusione amara. Sempre nella direzione europea moderna, compaiono personaggi che non agiscono ma parlano e pensano. Con Easy Rider (1969) il cinema moderno lancia il suo nuovo stile, che collega musica e immagini con una narrazione debole (un viaggio in moto) in maniera del tutto nuova. Uscito dalla scuderia di Corman, anche Coppola propone una nuova figura di autore dotato di caratteristiche imprenditoriali. La sua casa di produzione, American Zoetrope, fa lavorare alcuni autori come Scorsese. La famosa trilogia Il padrino crea una delle figure più tenebrose del nuovo cinema
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