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Riassunto L'impero irresistibile - Victoria De Grazia, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto completo per l'esame di World History, tenuto dal prof. Capuzzp, basato sullo studio autonomo del testo consigliato dal docente, "L'impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo", di Victoria De Grazia. I principali argomenti trattati sono i seguenti: cultura dei consumi americana ed europea, imperialismo americano.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 29/04/2016

terni.paolo
terni.paolo 🇮🇹

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Scarica Riassunto L'impero irresistibile - Victoria De Grazia e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! L'IMPERO IRRESISTIBILE Victoria De Grazia PREFAZIONE Una scorciatoria per la pace Il 10 luglio 1916 il presidente americano Wilson si trovava a Detroit, per intervernire dinnanzi a una platea di venditori, in occasione del loro primo congresso mondiale, anche se nel mondo c'era poco da celebrare: l'Europa era tutta in fiamme per la guerra. Nei mesi successivi, il presidente sarebbe stato chiamato a valutare due gravose alternative: rimanere fuori dal conflitto e trarre vantagio dalla devastazione del vecchio continente, oppure gettarsi nella guerra a fianco degli alleati e porre fine alle aggressioni dei tedeschi. Ma intanto, con le elezioni di autunno ormai alle porte, quel congresso di venditori rappresentava la sede ideale in cui enunciare una formula ben più sbrigativa per ristabilire la pace mondiale. L'America, con la sua "democrazia degli affari", avrebbe dovuto assumere la guida della "lotta per la conquista del mondo con mezzi pacifici": queste furono le sue parole. Alla luce della situazione mondiale, non c'erano infatti a suo parere che due alternative: la pirma sarebbe stata quella di "imporre i gusti del paese produttore sul territorio del paese del quale si intendevano occupare i mercati", il classico atteggiamento mercantile di stampo predatorio messo in atto dai prepotenti imperialisti europei; la seconda sarebbe consistita invece nello "studio dei gusti e delle esigenze dei paesi nei quali si intendono individuare sbocchi di mercato e l'adattamento di conseguenza delle proprie merci". Ecco la via americana agli scambi. Questa sì era una "scorciatoria per la pace". "Le grandi barriere che dividono il mondo oggi non sono questione di principi, ma di gusti", proseguiva Wilson. Poichè "certe classi sociali trovano disgustosi, dal loro punto di vista, alcuni altri ceti, in quanto composti di oggetti malvestiti, poco puliti e sgradevoli sotto molti altri aspetti, dette classi non amano mescolarsi con costoro.. con il risultato di una distanza sociale che rende impossibile interpretarne le esigenze". Ecco quindi che i conflitti nascono non dall'ideologia o dalla politica, ma nell'incomprensione generata da stili di vita troppo diversi. Wilson ebbe ragione di credere che i suoi concittadini avrebbero recepito il messaggio: nessun'altra nazione del pianeta ha mostrato un'altrettanto spiccata capacità di produrre e vendere beni prodotti in serie. Nessun'altra nazione ha fatto altrettanto propria l'idea che le comodità materiali siano il corollario indispensabile di diritti quali la libertà, il diritto alla vita e la felicità. E nessun'altra nazione ha saputo appianare altrettanto efficacemente le proprie diversità interne in quel potente catalizzatore che è il consumo di massa. E infatti quella platea di venditori, esultando, recepì perfettamente il messaggio. Con non minore acume Wilson pose l'accento non tanto sui cordiali rapporti personali, per i quali divenne celebre la sua "diplomazia aperta", ma piuttosto su quegli scaltri accorgimenti, su quella comunicazione seduttiva, su quell'empatia calcolata che solitamente si idenitificano con la società dei consumi. Anche in questo caso, egli faceva propria una nozione squisitamente statunitense della democrazia, quella che potremmo definire la "democrazia del riconoscimento", basata su un minimo di elementi comuni, come indossare la stessa maglietta, o le stesse marche. La nozione di partecipazione a una comunità globale sviluppatasi, anzichè su un livello di vita uniforme, sulla condivisione di abitudini, sulla libertà di scegliere alternative giunte da lontano, sul riconoscimento della diversità e sulla capacità di accettarla. Al contempo, esortando i propri compagni a spaziare con la loro creatività nel mondo intero, ad andare all'estero a vendere le loro merci, a fare opera di convensione ai valori americani, Wilson stava dando il proprio avallo a un interscambio globale non solo di beni, ma anche di principi. In contrapposizione alla costruzione di imperi manu militari messa in campo dall'Europa, gli Stati Uniti si schieravano per la conquista del mondo con mezzi pacifici. Le parole di Wilson sembrano calzare a pennello come introduzione al tema di questo volume: l'ascesa di un grande impero con i contorni di un grande emporio. Ecco gli Stati Uniti durante il regno di ciò che sarà definito "impero del mercato". Un impero privo di frontiere, sorto nel primo decennio del Novecento, che toccò l'apogeo nella seconda metà del secolo scorso e che ha iniziato a mostrare i segni di disgregazione alla fine del millennio. Un impero le cui frontiere più remote sarebbero state tracciate dagli appetiti insaziabili di grandi gruppi sempre in cerca di nuovi mercati globali, e i cui ancor più vasti territori di vendita sarebbero stati definiti di concerto da enti governativi e imprese private, dall'incontenibile influenza delle reti affaristiche, da marchi commerciali onnipresenti,ma soprattutto dall'intima familiarità con lo tile di vita americano, che tutto ciò avrebbe contribuito a diffondere fra gli abitanti del pianeta. L'impero regnava grazie alla pressione dei mercati, alla capacità di persuasione dei modelli che esprimeva, a un ricorso alle armi tutto sommato modesto, tenuto conto dello strapotere di cui godeva, ma soprattutto facendo leva sul carattere pacifico del suo progetto globale in un secolo segnato indelebilmente da una spaventosa violenza. Detrattori e apologeti di questo impero riconoscono concordi che gli Stati Uniti hanno saputo porsi invariabilmente in prima linea nell'innovare la cultura del consumatore, il che ha concorso in modo determinante alla loro egemonia planetaria, oltre che naturalmente al grande potere economico del paese, alle alleanze politiche che ha saputo tessere, alla sua forza sul piano militare. Eppure, non è per nulla chiaro in che modo una forza cos impalpabile come la cultura dei consumi abbia, da sola, potuto dar vita a una superpotenza. Nè è chiaro in che misura gli Stati Uniti abbiano fatto uso del proprio strapotere per promuovere una democrazia basata sui consumi in altre regioni del mondo. Sono questi gli interrogativi di fondo ai quali il volume vuole dare una risposta. Non è la sede mondiale della Ford Motor Company a Detroit la fucina in cui si è forgiata l'egemonia statunitense, contrariamente a una opinione assai diffusa; nè lo è Hollywood, capitale mondiale del cinema, e neppure Washington, capitale politica del paese. L'egemonia americana è sorta sul suolo europeo. Fu il vecchio mondo il luogo in cui gli Stati Uniti operarono la propria metamorfosi da pirma sociatà dei consumi di massa a baricentro mondiale delle moderne pratiche consumistiche. L'America, per potersi vedere legittimata in questa posizione, dovette misurarsi con l'auctoritas accumulata in questo campo dall'Europa nel corso dei secoli, sin dall'epoca del mercantilismo, un'Europa assurta a centro di vasti e opulenti imperi e depositaria non solo di una comprovata sagacia commerciale, ma anche di una notevole raffinatezza di gusto. Ancora ai primi del Novecento, a definire i modelli di distinzione sociale e culturale delle gerarchie di tutto l'Occidente era la borghesia europea. Con la scelta di sfidare il primato culturale della borghesia commerciale europea fino a spodestarla, gli Stati Uniti si consacravano come il primo regime al mondo basato sui consumi di massa, e non si limitarono certo a riempire le lacune lasciate dai ben noti insuccessi diplomatici, dalle avventure militari e dal tormentato liberalismo delle grandi potenze europee. Gli Stati Uniti si ponevano come alternativa al sofferto impegno con cui le società europee si sforzavano di soddisfare non soltanto la crescente aspirazione dei loro cittadini a una vita dignitosa, ma anche di essere portatori di tale verbo nel mondo, forti delle proprie tradizioni rivoluzionarie. Se ci si sofferma sulla folta congerie di fattori e soggetti che hanno concorso alla formazione di un impero del mercato senza precedenti nella storia dell'umanità, se si pone l'accento sulla sua natura sostanzialmente non militare, è proprio per chiarire che la legittimità acquisita dagli Stati Uniti al primo posto fra le società dei consumi non ha nulla a che fare con altre forme di egemonia esercitate da altri sistemi imperiali. Con il termine "impero" si intende solitamente un sistema formale di rapporti politici gerarchizzati nei quali lo Stato più potente esercita un'influenza determinante. Nella classica visione occidentale, un impero ha confini territoriali più o meno definiti. La capitale della madrepatria è solitamente anche il baricentro dal quale si irradia un potere che si regge sulla delega di autorità politica agli stati subalterni o alle amministrazioni delle colonie. Il classico impero stabilisce un monopolio politico sugli scambi e sulle risorse. Ebbene, l'impero del mercato, per gran parte della propria storia, non ha fatto nulla di ciò, rappresentando piuttosto un modello di impero "informale", o "a richiesta", o "basato sul consenso", o infine "dello svago". Cinque sono i tratti distintivi che segnano l'unicità dell'impero del mercato. Il primo, che spicca su tutti, è che sin dagli albori esso ha ritenuto che la sovranità delle altre nazioni sul rispettivo spazio pubblico fosse limitata. Una volta accetato il classico principio liberale del libero scambio, diventavano completamente irrilevanti le proteste delle altre nazioni per le tradizioni locali violate dalle pratiche commerciali americane. E così i popoli esteri dovevano essere ben lieti di usufruire non soltanto dell'interscambio di merci, ma anche dei principi in esso racchiusi. Ed ecco perciò che qualsiasi potenza estera osasse tentare di ostacolare gli scambi mediante il ricorso a dazi, quote o altre barriere non tariffarie, si mostrava non soltanto protezionista in campo economico, ma anche intollerante e oscurantista in ambito culturale. Una simile paradossale tesi è resa ancor più singolare dal fatto che, per quasi tutto il Novecento, il mercato interno statunitense è rimasto uno dei più difficili da penetrare di tutto l'Occidente capitalista. Il secondo tratto distintivo è la capacità di questo impero di esportare la propria società civile - intesa come sommatoria di associazioni volontarie, competenze nel delle scienze sociali e senso civico - di pari passo con l'esportazione di beni, o ancora prima di essa. Agendo inizialmente in modo isolato, e talora contradditorio, all'apogeo della potenza degli Stati Uniti all'inizio degli anni Sessanta, lo Stato e la società civile del paese operavano all'insegna di un impeccabile sincronismo, in sintonia con l'interesse nazionale, quell'entusiastica unità di intenti che caratterizzò il clima di consenso nazionale in piena guerra fredda. La terza caratteristica, anzi la vera e proria carta vincente di questo impero, è data dalla sua stessa forza normativa. A governare la produzione di norme non erano cioè tanto i brevetti, i codici o le leggi, quanto piuttosto "le migliori prassi", così come erano definite da imprenditori, esponenti dei movimenti civici e amministratori coscienziosi, in base alle proprie competenze specifiche. A prescindere dalle fonti, la migliore prassi consisteva di norma nell'individuazione di procedure sufficientemente flessibili da potersi adattare alle prassi locali, rielabolandole per renderle più credibili e rivendicandone quindi l'applicabilità universale, spesso in toni iperbolici. Si trattava di disposizioni trasparenti che si ponevano come norme, non come atti di legge. E poichè avevano la peculiarità di presentarsi come qualcosa di naturale, moderno e sostanzialmente corretto dal punto di vista pratico, nè è stata a lungo smentita la natura di strumenti di "micropotere" (Foucault), nonostante si trattasse proprio di questo. Forse per questo, tra l'altro, questo impero non ha mai avuto un centro stabile; e non ha mai generato un compatto e univoco "gran rifiuto". Il suo quarto tratto saliente era il continuo fare sfoggio di un'etica della democrazia, intesa come uguaglianza consumistica nei confronti di standard universalmente noti. La parola chiave di questa democrazia basata sull'identificazione era "sociabilità", come emergeva dalla personificazione dei beni materiali mediante il ricorso ai marchi commerciali, dal culto per la fidelizzazione del cliente, dalla ricerca incessante di sempre nuovi consumatori da conquistare, da una persuasiva comunicazione tesa ad affermare l'offerta di sempre nuovi servizi e comodità, ma anche da nuove forme di comunanza; con l'esito ultimo che gli stili di vita così indotti finivano per ruotare attorno a un bene materiale, che diventava il perno di tutto anzichè limitarsi a rappresentare una comodità in più. Ma la nozione di sociabilità ebbe effetti rivoluzionari soprattutto perchè si contrapponeva alle forme di solidarietà su cui si reggevano i commerci della vecchia Europa. "Solidarietà" significava comunanza di tradizioni e diritti; fonte di garanzie per alcuni, ma di esclusione per altri; le si imputava di basarsi sull'ideologia più che sulle convinzioni obiettive e i suoi fautori erano accusati di fare propaganda più che informazione. "Sociabilità", invece, intendeva la libertà come diritto di scegliere, privilegiava il mercato e il desiderio di acquistare beni come metodo per accedervi, e affermava senza titubanze che votare alle elezioni non era un atto sostanzialmente diverso da una scelta di acquisto. La risposta a un simile sovvertimento di abitudini e riflessi inveterati si tradusse spesso in un rafforzamento delle gerarchie nazionali, razziali e di classe. Ebbene, di fronte a ciò, la sociabilità del consumo di massa si poneva come alternativa brillante e progressista, contro forme di sodalizio beceramente esclusive, provinciali o peggio reazionarie tout court. La quinta e ultima caratteristica dell'impero del mercato, quella che forse lascia più disorientati, era la sua natura apparentemente pacifica. Sorto come alternativa al militarismo europeo, in un secolo tormentato da decenni di guerre, conflitti civili fratricidi, olocausti nucleari e genocidi, questo modello si è autoproclamato paradigma di come governare garantendo la serenità dei cittadini. L'impero si autoassolveva così dall'accusa, fondata, di perpetuare un altro genere di violenza, finalizzata all'imposizione dei propri voleri sul libero scambio, le cui armi micidiali venivano attinte dall'arsenale di un'incontrastabile cultura dei consumi, le cui vittime erano tutti coloro che si vedevano strappati a consuetudini consolidate nel tempo, che vedevano azzerarsi i loro introiti. Inoltre, la visione di un impero pacifista, è offuscata dal fatto che esso si è in realtà trovato spesso in guerra (250 interventi militari a partire dalla fondazione del 1776). Specie in occasione delle mobilitazioni in concomitanza con grandi eventi bellici, alla guerra si sono del resto sempre accompagnati grandi cambiamenti, a tutto vantaggio di industrie e consumatori. L'approccio con il quale ci si accinge a dare un'interpretazione di un potere così ricco di sfaccettature prende le mosse da tre diverse prospettive. Nella prima ci si sofferma sulle forze che, dopo aver scatenato la rivoluzione dei consumi negli Stati Uniti, ne hanno valicato i confini portando quelle stesse istituzioni e quelle stesse pratiche sul suolo europeo. In buona sostanza, i prodotti di ogni genere, una volta testati sul mercato interno, un mercato sconfinato, diversificato e caratterizzato da una concorrenza estrema, al momento di uscire dalle frontiere nazionali alla volta dell'estero, avevano ormai acquisito una competitività imbattibile. Forti dell'appoggio del governo, ma anche dei loro stessi capitali e delle loro competenze, gli imprenditori interpretavano i mercati esteri come una mera estensione del mercato nazionale e si proponevano di conquistare una clientela straniera con le stesse tecniche utilizzate in patria: lo stimolo dei bisogni del consumatore, lo studio della psicologia nazionale, l'incremento del potere d'acquisto delle masse, eccetera. La seconda prospettiva implica un accento sull'Europa, sulla ricostruzione di quella civiltà dei commerci che contrapponeva alla cultura consumistica statunitense la propria visione dei valori e delle istituzioni del mercato. Questo vorrà dire ricordare l'intensa animazione dei centri e delle città europee, con le loro eleganti vie e gallerie ricche di vetrine ammalianti, i prodotti di artigianato traboccanti dai banchi delle fiere commerciali europee attorno alle quali ruotavano vivaci mercati regionali, le idee degli europei in maniera di etica del consumo, eccetera; il che chiarisce l'enorme distanza che separava quel modello di consumi borghesi "all'antica" da ciò che convenzionalmente si definisce moderna cultura dei consumi di massa, sia quanto avrebbe potuto essere diversa la traiettoria seguita dall'Europa se non si fosse trovaga costantemente esposta alla pressione delle forze irradiate dal nuovo mondo. Tutto ciò si è tradotto in un vero e proprio scontro di civiltà fra le due opposte sponde dell'Atlantico. Il primo grande conflitto fu nel 1940, con un paradosso terrificante: che fosse il Terzo Reich di Hitler a potersi presentare a un continente demoralizzato come l'unica potenza europea in grado di opporsi con successo allo strapotere statunitense. Il secondo grande scontro, quello conclusivo, ebbe estroverso rituale che tanto catturava e intimoriva l'alta borghesia europea, un rituale fatto di pacche sulle spalle, chiacchiere e barzellette grossolane, nomignoli in luogo dei cognomi, rumorosi cori, eccetera. Una modalità di rapportarsi fondata sì sull'individualismo, ma ingentilita da tante piccole cortesie, che fungeva da supporto a una nuova identità individuale, conformista ma intraprendente, che si asteneva dal trnciare giudizi o che li espimeva facendo ricorso a circonlocuzioni, e comunque sufficientemente sicura di sè da essere riconoscibile e riconosciuta anche in capo al mondo. L'osservazione di Toqueville secondo la quale l'associazionismo, rafforzando il pluralismo, rendeva la politica meno polarizzata e conflittuale, appare altresì giustificata. Giacchè negli Stati Uniti le associazioni di cittadini crescevano di pari passo con l'ascesa dei partiti politici, ma senza essere subordinati a essi dal punto di vista organizzativo, si mostravano in grado di rappresentare la colletività al di sopra degli interessi di parte rispetto a problematiche quali la sanità pubblica, lo standard di vita o il buon governo. Tale professione di interesse verso le esigenze del prossimo affondava certo le radici nell'etica caritativa giudaico-cristiana. Eppure bisogna sottolineare che si sposava perfettamente all'etica del servizio promossa dalle nuove professioni emergenti della società dei consumi. In ultima analisi, la concezione rotariana della vita in società faceva riscontro alla perenne ambivalenza, propria dell'economia capitalista, tra l'impulso a un commercio che unificasse la società e una competizione all'ultimo sangue che rischiava di farla a pezzi. Per questa ragione, un movimento come il Rotary veniva considerato dai contemporanei alla stregua di un compagno di viaggio del fordismo: l'uno aveva posto un freno al capitalismo selvaggio standardizzando la produzione; l'altro stabilendo delle regole nei rapporti sociali. Ecco perchè l'era del fordismo è anche l'era del Rotary. Si diceva che Ford avesse messo a disposizione i macchinari e Harris la moralità per una nuova epoca. Man mano che il rotarianesimo si allontanava dall'originaria nicchia di mercato, la gestione del Rotary dovette ben presto individuare ogni falla che rischiasse di compormetterne lo sviluppo: fu proprio per proteggere la loro quota di mercato di fronte ai nuovi club concorrenti (Lions, Exchange, Civitan, eccetera), che i rotariani applicarono al proprio prodotto, il cameratismo tra maschi, tutte le regole di una ben impostata promozione vendite, dalla costituzione di un marchio universalmente riconoscibile, alla standardizzazione del prodotto, al controllo di qualità, alle iniziative promozionali. Del resto l'istinto del venditore che albergava nei rotariani trova riscontro anche nella scelta del nome: "rotary" in inglese significa "rotatorio" come aggettivo, "dinamo" come sostantivo, e quindi fa pensare tanto a un ingranaggio quanto all'energia: il movimento, con quel nome, voleva richiamarsi cioè al costante, rapido avvicendamento ai posti di comando nelle sezioni locali, ma anche al dinamismo di un'organizzazione sostanzialmente egualitaria che univa tra loro gli affiliati di tutto il mondo. L'equilibrismo più complicato fu quello con cui il Rotary seppe conciliare intimità e cameratismo, con l'espansione del movimento a livello planetario. Quanto più il Rotary andava oltrefrontiera tanto più diventava impellente la necessità di affermare con coerenza gli obiettivi del movimento senza la minima traccia di quella retorica fondamentalista tanto in voga nella provincia americana. Un importante passo in questa direzione fu la decisione di delegare il compito di chiarire i principi rotariani ad affiliati britannici anzichè statunitensi. Per lunghi anni, esperti costituzionalisti inglesi si dedicarono a limare la prolissità terminologica per mettere in luce l'obiettivo della pace mondiale e per chiarire due principi di fondo del movimento: il sistema di classificazione e il principio del servizio. Il sistema di classificazione era lo strumento messo a punto per selezionare nuovi membri. Poichè, per rimanere efficiente, ogni club doveva restare entro dimensioni contenute, ogni professione poteva esservi rappresentata da un solo membro, di solito il suo massimo esponente del luogo. La ratio originariamente soggiacente a tale decisione fu il timore che lo spirito di competizione potesse rovinare l'atmosfera di sereno cameratismo. I rotariani tenevano anche a mostrare di non avere nulla da nascondere, per cui fuggivano il chiuso delle varie logge, massoniche e non, o le salette in cui cenare in gran segreto, per incontrarsi in luoghi assolutamente pubblici. Il prinicpio del servizio nasceva già greve di almeno tre secoli di significati. Nell'accezione di "servire al di sopra di ogni interesse personale" era riconducibile all'ideale calvinista di redenzione individuale tramite il proprio operato sociale sulla terra. Il motto"chi serve meglio ha maggiori benefici" alludeva alla fiducia che si instaura fra chi vende e chi compra e alla promessa di un'assistenza postvendita del tutto congeniale a un'emergente società dei consumi. L'etica del servizio partiva dal presupposto che le esigenze della collettività fossero molteplici e che il livello di benessere diffuso dovesse essere innalzato, ma anche che quelle stesse esigenze andassero soddisfatte con un parsimonioso e oculato pragmatismo. Di conseguenza, i rotariani erano restii a qualsivoglia nozione di solidarietà pubblica intesa come stato sociale o in termini populisici. In generale, i progetti locali portati avanti dal Rotary venivano selezionati senza mai perdere di vista la loro fattibilità e una ostentata neutralità nei confronti della politica, proprio per evitare non solo le controversie, ma anche il rischio di andare a ledere l'interesse privato di questo o quel membro potente. I progetti in questione potevano spaziare dall'illuminazione pubblica al parcheggio in centro, dalla donazione agli ospedali di polmoni d'acciaio alle campagne di vaccinazione nelle scuole, eccetera. Ma si trattava di progetti che, pur perseguiti coscienziosamente, non andavano in alcun modo intesi come una forma di attivismo politico: l'obiettivo era anzi proprio quello di sostitursi alla politica, i cui proclami in materia di miglioramento della convivenza civile apparivano quantomeno sospetti, e di certo eticamente inferiori all'impegno di volontariato. Questo era l'ideale del servizio, la nuova etica del capitalismo della società dei consumi. 2. Attraverso l'Atlantico bianco Gli stessi fattori che decretarono il successo del Rotary in tutta la geografia statunitense lo catapultarono al di là delle frontiere nazionali. Al congresso del 1912, proprio a Duluth, i delegati di tutti e quarantuno i club esistenti votarono all'unanimità una mozione con la quale si proclamavano Associazione internazionale del Rotary Club (che poi sarebbe stata ribattezzata Rotary Internazional nel 1922). L'espansione all'estero rimase opera di singoli uomini d'affari desiderosi di crearsi le stesse occasioni di sociabilità già trovate in patria finchè, a dare un nuovo impulso per ragionare in termini più globali non giunse la guerra in Europa. Nel 1927 il congresso si tenne a Ostenda, città della costa belga ritenuta simile ad Atlantic City. Sil piano etico, un paese neutrale come il Belgio, che aveva fatto così pesantemente le spese del primo conflitto mondiale, era la sede ideale. In un Europa tanto bellicosa, una simile scelta ribadiva l'impegno del Rotary per la pace nel mondo. Alla traversata, a detta degli organizzatori la più imponente dalla partenza del corpo di spedizione americano del 1917, presero parte quattromila rotariani statunitensi e canadesi. Re Alberto, che aveva gentilmente accettato lo status di membro onorario, porse il benvenuto nel nome della pace a loro e ad altri undicimila convenuti dagli altri paesi. Quando egli ebbe finito la propria allocuzione, l'impianto acustico del grandioso hotel ospitante, il kursaal, amplificò le voci degli altri intervenuti europei. Il "ponte rotariano", di disse, avrebbe unito le due sponde dell'"Atlantico bianco", e avrebbe permesso di roconoscere le sfide che attendevano il Vecchio mondo a confronto con gli Stati Uniti "fiorenti di ricchezza e di nuove città". E poi: "forse soffriamo di un surplus di cultura che sarebbe bene barattare, almeno in piccola parte, con le energie e la forza dirompente di un paese giovane come gli Stati Uniti d'America". Ancora: a fronte di una diplomazia "isolazionista e intrigante", il Rotary difendeva la tesi di un completo "disarmo morale, attuato non da pacifisti irresponsabili o da idealisti stolidi, ma da uomini d'affari di buon senso, pragmatici e dal cuore caldo". Parole appassionate che non giunsero alle orecchie né dei cittadini di Dresda nè di alcun cittadino tedesco: questo perchè allora i tedeschi erano ancora esclusi dal movimento. In particolare, molti avevano sostenuto che l'inclusione della bandiera tedesca fra i vessilli delle altre 38 nazioni presenti a quel congresso sarebbe stata un affronto al re belga, per cui si ritenne opportuno posticipare l'apertura alla Germania fino a dopo la sua fine; cosa che avvenne per l'appunto nell'autunno di quel 1927. L'anglofila Amburgo fu scelta come trampolino di lancio. Celebre per i suoi codici di etica negli affari, la città era il principale porto di tutta la regione nonchè sede della marina mercantile tedesca. Un secondo club fu aperto nella cattolica Colonia, il cui presidente fu il borgomastro (ovvero, capo del consiglio cittadino) Konrad Adenauer. Seguirono quindi Francoforte, Monaco, Dresda, Lipsia e Berlino. Per spiegare come gli ideali rotariani siano giunti sulle sponde dell'Elba occorre guardare ai verbali compilati nei vari Rotary tedeschi dal momento delle fondazioni. Facendolo, si scopre come il Rotary sbarcò nel bel mezzo dell'Europa con poco o nulla del bagaglio con il quale era sbarcato poco prima a Ostenda: nulla lascia supporre che vi fosse una longa manus dell'impero del mercato a teleguidare le scelte dei rotariani locali, e men che meno che queste fossero in qualche modo dettate dalle smanie filoamericane che negli anni Venti si erano impadronite dei consumatori tedeschi, ammaliati dagli articoli di importazione; nulla avrebbe dato credito alla voce che circolava qua e là e che bollava il Rotary europeo come una forma di "clientelismo affarisitico". Ma allora cosa spinse quegli uomini così altolocati e raffinati a sposare in modo tanto appassionato un'invenzione così dichiaratamente statunitense? Certamente non fu per mancanza di altre occasioni di sociabilità: l'alta società tedesca, tra pranzi, confraternite, associazioni, circoli, opere filantropiche, non aveva di che annoiarsi. Le vere ragioni erano ben più cogenti, e diventavano sempre più profonde man mano che il tempo passava. La più pressante era rappresentata dalla necessità di ricongiungersi alla comunità internazionale dalla quale la Germania si trovava ostracizzata a causa della Grande guerra: soprattutto avrebbe segnato la fine di quell'imbarazzante clima di ostilità personale con cui talvolta si scontravano i tedeschi all'estero, negli affari come in vacanza. Entrare nel mondo del Rotary avrebbe significato anche restituire impulso alle esportazioni, grazie a un rinnovato clima di fiducia negli affari, e quindi rivitalizzare l'economia del paese. Inoltre il rotarianesimo avrebbe riaffermato il ruolo guida di un'elite, culturale ma anche economica, in una nazione profondamente irrequieta, associandola a una communitas globale. Nell'etica degli affari rotariana gli affiliati tedeschi scorgevano poi i valori di fondo di un umanesimo borghese, a conferma che la loro non era affatto una cultura basata sul privilegio di classe, come sostenevano con veemenza i suoi detrattori, o autoreferenziale, ma che rispondeva invece a valori universali. In questo modo veniva convalidato anche il significato intriseco della professione svolta, o della vocazione seguita, il baruf. L'autorevolezza riconosciuta dalla tradizione a un padre fondatore carismatico, si combinavano infine felicemente con uno statuto chiaro, una presidenza a rotazione annuale, una struttura organizzativa in comitati e un dettagliatissimo apparato di regole: nulla a che vedere con il caotico accalcarsi delle masse, ma un nuovo modello di orginata tessitura dei legami. Ciò che ci si attendeva dai singoli soci non ammetteva deroghe: regolare frequenza, scuse in anticipo per eventuali assenze, discorsi postprandiali, eccetera. Fu quest'insieme di motivi che permise il coagularsi del primo gruppetto dresdiano; un gruppo decisamente eterogeneo: alti funzionari pubblici, industriali, medici, il pubblico notaio, il direttore del museo, artisti e perfino un eminente cantante lirico. Dei soci fondatori, cinque erano di religione ebraica. Dal Rotary di Dresda emerge anche il profilo di una generazione, forse la più favorita nella storia della Germania moderna. Erano gli individui nati durante l'era della fondazione dello stato tedesco unitario, ossia gli anni contraddistinti dal boom economico che fece seguito alla nascita dell'impero nel 1871, e che diventarono maggiorenni proprio quando la potenza della Germania era all'apice. Tutti erano in un certo senso conservatori, leali alla repubblica di Weimar, per estrazione, esperienza, età e puro senso del dovere, anche se ne disprezzavano le basse origini socialdemocratiche e il clima politico tormentato. Credevano nell'ideale del servizio alla patria ed erano preoccupati per le sorti del paese, dal momento che i partitini di destra per i quali votavano non facevano che assottigliarsi sempre più davanti all'avanzata di nazisti e comunisti. Insomma, per far confluire la buona società di Dresda nel Rotary non fu certo necessario pregarla in ginocchio. Ma pur con questa spiegazione, è lecito chiedersi se quella buona società non sapesse che il nascere del rotarianesimo in Germania fu il frutto di una precisa strategia degli alleati, influenzata dagli americani, e tesa proprio a riportare il paese in Europa. Propabilmente no. Quegli splendidi signori cosmopoliti e sofisticati erano stati l'oggetto, e non i protagonisti, di un'operazione di estensione. Il Rotary era il treno sul quale erano saliti per tornare al centro del mondo, ormai in veste di provinciali provenienti dalla periferia: la loro miopia storica consiste nel non aver saputo capire che la comparsa di un simile movimento nel bel mezzo della Germania così, di punto in bianco, era la riprova che l'Europa ormai andava al traino, anziche fungere da locomotiva. Con la sua economia dipendente dalle esportazioni, con le sue banche troppo cresciute, con un'agricoltura impoverita, la Sassonia si era guadagnata in quegli anni la nomea di "bandieruola del ciclo economico". Ma anche di roccaforte dell'estremismo politico. Terreno fertile per l'antisemitismo, dotata di un sistema politico caratterizzato da profondi conflitti di classe e incapace di compromessi, la Sassonia si trovava in un endemico stato di guerra civile sin dal 1918. Fu qui che Hitler fece il suo debutto elettorale nel maggio del 1928, e fu ancora qui che, nel cruciale 1932, il suo partito ottenne più del 50 per cento dei voti. Il centro, i liberali, erano in pezzi. In un simile contesto, non stupisce che il Rotary abbia assunto un'aurea così accattivante, e che i rotariani tedeschi fossero così assidui alla causa. Il movimento offriva alla buona società, a quei liberali, una rivisitazione di antiche tradizioni, nella quale alla familiarità del vecchio veniva ad aggiungersi la freschezza e il piacere del nuovo. I rotariani sposavano consapevolmente una versione addomesticata della feroce critica nietzschiana al conformismo borghese: ecco perchè nei loro discorsi e nei loro scritti criticavano una visione gretta e meccanicistica della cultura, l'utilitarismo miope e la fede cieca nella tecnologia come panacea. Il paradosso fu quindi che, in Germania, il Rotary emerse come veicolo di una potente, ma ambigua, critica culturale. L'antagonista, anche se non menzionato direttamente, era quella nuova cultura che una folta schiera di critici autorevoli definiva molto semplicemente come Amerikanimus. Nonostante l'incontenibile conquistatore d'oltreoceano non venisse mai nominato, l'antagonista era individuato nel mito delle opportunità illimitate, nello strapotere derivato da una forza economica e finanziaria senza pari, in un efficientismo e in un'innovazione senza freni, nella fastidiosa e occhiuta presenza dei mass media, nella sciatta informalità del vivere quotidiano. In Germania insomma il Rotary si oppose con fermezza alla soppressione dell'etica del Vecchio mondo ad opera del Nuovo, ma anche all'estromissione del solido ego della cultura tradizionale per mano dell'immatura personalità dei fragili uomini della società di massa. Il problema dell'Europa, si diceva, non era il cieco perseguimento del profitto, nè l'individualismo spietato, diversamente da quanto avveniva nella terra d'origine del Rotary; il problema qui era la lotta di classe, e l'unico modo con cui la borghesia poteva tentare di placarla consisteva nel raddopiare la compattezza e la civiltà del proprio stile di vita. Quindi il Rotary si proponeva come un'organizzazione esemplare, più che aperta alle emulazioni. Le qualità che la contraddistiguevano erano la compattezza interna, la profonda convinzione dei suoi aderenti e la sua vitalità interna, molto più che non quell'insieme di procedure standard divulgabili all'estero tanto care agli americani come strumento per entrare in contatto con altre culture. In ultima analisi, il rotarianesimo tedesco era trascendente più che universale, e cosmopolita più che globale. Un movimento così socievole come il Rotary permise a quei grandi signori di fare ingresso in una rete mondiale con il preciso intento di farvi valere la propria convinzione, per altro giustificata, di essere depositari di un modo del tutto alternativo di guardare al mondo materiale. 3. La forza delle procedure Non può che destare ammirazione una rete che riusciva a legare fra loro, gomito a gomito, l'America di provincia e l'aristo-borghesia dell'Europa centrale: il Rotary, invenzione della nuova società americana, rappresentava un'estensione del suo neonato potere. La sua arma? I regolamenti. Gli europei, si diceva in america, dovevano convincersi che i regolamenti applicabili a tutti i club non emanavano da una nobile e seriosa amministrazione all'antica, come la longa manus delle burocrazie imperiali che si esentendeva fin nelle colonie. Per gli americani, i regolamenti erano piuttosto un modo innovativo di condividere le stesse regole in tutta un'elite mondiale, in osservanza di standard comuni di ragionevolezza e funzionalità. Il Rotary promuoveva infatti la convinzione un po' narcisistica e un po' altruistica che vi fossero ovunque persone con la stessa mentalità. Una visione molto comoda per una potenza emergente. Sul piano dello statuto, il Rotary si sforzava di mostrarsi egualitario e trasparente: era convernato da un consiglio direttivo i cui quattordici membri venivano eletti dai delegati del congresso annuale. Il direttivo, che si riuniva a Chicago due volte l'anno, discuteva dei suggerimenti che gli pervenivano da ogni dove, formulava raccomandazioni e inoltrava al congresso annuale ogni provvedimento che richiedesse una modifica dello statuto, affinchè venisse votato in quella sede internazionale. A partire dagli anni Trenta l'Europa continentale divenne sempre più rappresentata a tale congresso annuale; ma anche così, il processo decisionale restava nelle mani degli imperturbabili "uomini di Chicago". Fu fatta quindi una grande concessione alla compessità europea quando, nel 1925, fu aperto un apposito ufficio in loco preposto alla supervisione sugli affari regionali. Tale scelta rispondeva tuttavia principalmente allo scopo di migliorare la comunicazione fra i rotariani erupei, e non certo di fomentare un'autonomia nazionale, o peggio continentale. Al pari di tanti entri internazionali, anche l'ufficio europeo del Rotary venne posto in Svizzera, così da poter beneficiare dei vantaggi comparativi della Confederazione elvetica: posizione geografica, neutralità, multilinguismo. Se si guarda al Rotary internazionale come alla prima esperienza di dominazione extraeuropea delle elite europee, si capisce ancora di più l'importanza di mostrare come le regole non fossero specificamente americane, e men che meno arbitrarie, coercitive o antidemocratiche. Per cui, ogniqualvolta si trovasse a far fronte alla rimostranza che "norme, regole, statuti e quant'altro sono stati scritti da Americani e sono dunque inadatti al contesto europeo", il primo segretario europeo Potter trovava più accorto rispondere "bene, studiamo la questione insieme e cerchiamo di capire se si riesca a trovare di meglio", anzichè replicare "le norme del Rotary internazionale sono queste". La pressante necessità di non perdere di vista la supervisione delle attività, senza però dare agli europei l'impressione di controllarli, scaturiva dalla naturale tendenza di tutti i club europei a mettere in luce il carattere nazionale, alcuni in modo ancor più ostinato e indisponente dei tedeschi stessi (vedasi il caso italiano, i cui fondatori si batterono strenuamente, e inutilmente, per potersi costituire unità a se stante, fatto elitario e aristocratico, e non "volgarmente democratico"). Ma se avessero ottenuto l'autonomia, che uso ne avrebbero fatto gli europei? Era una domanda che gli americani ponevano spesso, in temini retorici e tendenziosi, quasi a spingere i confratelli del Vecchio continente ad ammettere che un movimento presuntamente neutrale fosse essenziale alla coesione della stessa Europa. Il problema consisteva insomma nell'individuare una terza via, tra l'autonomia completa e un globalismo guidato dagli americani. A porre la questione su un piano più concreto ci pensò infine un membro belga: "l'Europa non è pronta ad autoamministrarsi: siamo troppo nazionalisti!" 4. Parlare europeo con accento americano All'epoca, la lingua del Rotary internazionale non era ancora l'iglese, almeno non in linea di principio. Nè poteva essere diversamente: i rotariani continetali che lo parlassero erano ancora troppo pochi. A Dresda per esempio solo un socio su cinque dichiarava di capire l'inglese: sempre più di quanti capivano il francese. Saggiamente, per tanto, la segureteria europea riconosceva l'uso di quattro lingue ufficiali oltre all'inglese, ovvero francese, tedesco, italiano e spagnolo, e coordinava la traduzione dei documenti in altre cinque lingue. Di tanto in tanto qualche mozione tesa all'uso dell'inglese veniva sonoramente sconfitta: gli accorti uomini d'affari europei capirono al volo che accettare l'inglese come lingua ufficiale del movimento equivaleva a una svendita all'ingrosso del proprio capitale culturale agli angloamericani. Cionondimeno, il linguaggio procedurale era comunque infarcito di termini la cui traduzione comportava anche la trasposizione della cultura che li aveva originati. La traduzione dei fondamenti organizzativi del movimento comportò vere e proprie battaglie terminologiche. Del resto la posta in gioco era alta. Si prenda per esempio la traduzione del termine "servizio", uno di questi principi fondanti. Un'etica fatta di noblesse oblige, di altruismo e solidarietà, era profondamente radicata in Europa fra i ceti più elevati, anche si in diverso grado a seconda del credo religioso, ovvero cattolicesimo, protestantesimo ed ebraismo. Nel cattolicesimo, quell'etica assumeva soprattutto le vesti della carità, nel protestantesimo della predestinazione. Comeunque sia, la nozione di "opera del bene" era distante dalla particolare accezione assunta negli Stati Uniti dal termine "servizio", ormai ricco di diverse connotazioni che spaziavano dal miglioramento delle condizioni sociali, allo spirito del buon vicinato alla disponiblità verso il prossimo, ma anche all'attenzione degi operatori economici verso i nuovi clienti. 5. La Chiesa degli uomini d'affari In Europa il Rotary evocava dunque lo spettro della religione. In America no. O fose si? Il Rotary si voleva ecumenico, in ossequio al pluralismo religioso della società americana. Eppure, nonostante non vi fosse alcuna forma di registrazione del credo religioso dei statunitense incarnasse la virtuosa assenza di ogni ideologia, mentre un'agenzia internazionale preposta alla riforma del lavoro ne fosse invece schiava, i donatori statunitensi chiedevano l'ingaggio di consulenti esterni a garazia dell'"autorevolezza" dei risultati dell'indagine. Un conto era accettare pubbliche donazioni per la ricerca; tutt'altra questione era farsi pagare per svolgere una ricerca di mercato a nome di una colossale impresa americana, con il presuntuoso pretesto che l'intero pianeta ne avrebbe tratto giovamento. Tuttavia Thomas aveva anche un suo programma politico e fu proprio questo, alla fine, a spingerlo ad abbanondare la sua indecisione e a portare avanti lo studio alle condizioni richieste. Al pari di altri socialisti europei, Thomas si batteva infatti da sempre perchè i lavoratori in Europa ottenessero salari più alti, e questa poteva essere una buona occasione per muovere un primo passo verso quell'obiettivo. Il primo compito dei ricercatori consisteva nel deteminare il budget destinato dalle famiglie all'acquisto di beni di consumo. Solo tale ricerca richiese otto mesi di lavoro. Occorse poi ulteriore tempo prima che i risultati venissero commutati nel sistema metrico decimale, i prezzi convertiti in diciassette valute nazionali, e perchè il tutto fosse tradotto in sei lingue. Seguì poi il tentativo di raffrontare i diversi stili di vita, impresa ancor più titanica. Quand'anche si fosse risolto il problema delle differenze valutarie, infatti, uno sfilatino di pane bianco acquistato negli Stati Uniti era davver equivalente a una baguette? Difficile accettarlo per i francesi, anche in ossequio al loro adagio per cui non ci sono due pezzi di legno uguali, o due brioches, o due panetti di burro.. Anche senza queste esagerazioni, bastava comunque il comune buon senso per capire che, se nel raffronto tra Detroit e l'Europa si fosse tenuto conto non solo di costi e quantitativi, ma anche della qualità dei prodotti, il margine d'errore avrebbe rasentato l'infinito. In ogni caso la ricerca proseguì. I ricercatori americani decisero anche di spedire in Europa un paniere di beni messo insieme a Detroit e di renderlo disponibile in loco: fu così che, insieme a redigere tabelle dei valori nutrizionali e calorici dei vari generi e a stimare la spesa di cento diversi nuclei familiari, gli esperti dell'Ufficio economia domestica statunitense dovettero riempire due bauli di capi d'abbigliamento e di altri generi non deperibili e spedirli oltreoceano. Una volta aperti, i bauli rivelarono una cultura materiale visibilmente opulenta, per la realtà europea. Dalla scelta di articoli previsto per una famiglia-tipo di quattro componenti, era evidente che all'operaio americano stava a cuore vestirsi bene: il marito medio, per esempio, acquistava ogni anno cinque camice, due cravatte, due tute intime, quattordici paia di calzini, un paio di bretelle, due paia di scarpe e di guanti. Per non parlare della qualità dell'abito di lana, o dei cappelli di feltro, o del cappotto. In Europa invece gli operai portavano spesso vestiti fatti in casa; quelli dei bambini quasi sempre recuperati dagli abiti smessi degli adulti. Dall'elenco dei generi alimentari emergeva come gli operai di Detroit seguissero una dieta varia, abbondante e nutriente; diversa da quella assi ristretta tipicamente europea, per altro inquinata dal consumo eccessivo di alcool e tabacco. La qualità dell'alloggio poi rendeva addirittura imbarazzante il confronto: nelle città europee erano ben rade le case unifamiliari con media di 4 stanze, dotate di gas, elettricità, riscaldamento, bagno e finestre panoramiche; la famiglia dell'operaio medio europeo vieveva in due o tre stanzette decrepite. La differenza più consistente consisteva però nel fatto che gli operai della Ford rinnovassero costantemente un ampio parco di elettrodomestici prodotti in serie: radio, fonografi, ferri da stiro, lavatrici e aspirapolveri; quasi la metà delle famiglie possedeva un'automobile. In Europa era cosa rara persino tra la borghesia. In buona sostanza, più i diversi stili di vita entravano in contatto tra loro, più il compito di fare raffronti si presentava complicato. Tuttavia alla fine, nel novembre 1931, ossia a due anni e mezzo dall'iniziale richiesta, con diciassette mesi di ritardo, la Oil presentò la relazione conclusiva. Nella consapevolezza che il direttivo dell'organizzazione era in pieno subbuglio a causa dei risultati, temendo addirittura che si sarebbe scatenato un polverone tale da condurre alla soppressione della Oil, Thomas si guardò bene dall'inoltrarglielo per l'approvazione. Intanto, a New York, per volere della Twentieth Century Fund, si stava verificando un vero e propio battage pubblicitario per salutarne la pubblicazione della versione in lingua inglese. Una cosa però è certa: quando fu pubblicato (senza l'approvazione della Oil), quel resoconto dello standard di vita statunitense risultava ormai sorpassato dagli eventi. Buona parte degli operai presi a campione aveva nel frattempo perso il lavoro a causa della crisi. Lo stesso Ford, pur ostinandosi a negarla, aveva messo in mobilità ("ferie a tempo indefinito") 75 mila addetti. I lavoratori scampati ai tagli potevano ancora guadagnare 7 dollari al giorno, a condizione di rispettare il nuovo tasso di produttività giornaliero, incrementato del 50 per cento. Le migliaia di operai licenziati erano rimasti privi di assistenza: non avevano alcuna copertura contro la disoccupazione e non potevano usufruire neppure dei sussidi erogati dal municipio di Detroit. Con il dilagare della crisi economica in tutto il pianeta, i prezzi calavano e la disoccupazione saliva ovunque. Mentre un paese dopo l'altro abbandonava lo standard aureo, le valute fluttuavano e ovunque si innalzavano le barriere tariffarie. Nel frattempo, il calo delle vendite e l'aumento dei dazzi avevano ridimensionato drasticamente il mercato della Ford in Europa, spingendola a chiudere molti stabilimenti e a ritirarsi in patria. Per il povero Thomas, il fallimento su tutti i fronti dell'Indagine si rivelò l'ennesimo colpo inferto al riformismo europeo, cosicchè nel 1932 finì i suoi giorni in un caffè parigino, stroncato da una embolia polmonare. Insomma il raffronto tra le condizioni di vita in Europa e negli Stati Uniti se era rivelato un bel vaso di Pandora. Si trattava del primo esercizio di quel genere da quando gli Stati Uniti erano assurti al ruolo di potenza egemone, e aveva altresì rappresentato, per entrambe le sponde dell'Atlantico, la prima occasione di chiedersi in che cosa consistesse uno standar di vita decoroso. Grazie a quel confronto, gli europeo poterono mettere in luce due culture di mercato profondamente divise attorno al significato di standard. Di certo si sarebbero tutti trovati daccordo con James Bryce, che sostenne che gli americani "avevano il vizio di distruggere ogni qualità riducendola invariabilmente a un valore misurabile in termini monetari" e di non prendere neppure in considerazione "realtà e situazioni in cui gli standard monetari risultino inapplicabili". Ridurre il tutto a mere cifre si traduceva a una "ingannevaole impressione di esattezza". Anzi, quei dati, si diceva, ben lungi dall'essere "rassicuranti nella loro asetticità", inducevano semmai una "senzazione inquietante": destavano invidie, sì, ma senza per questo riuscire a rendere l'idea di che cosa volessero davvero gli operai, quando dicevano di ambire a una esistenza dignitosa. Ma agli occhi degli americani tutto il sussiego mostrato dalla comunità scientifica europea verso una problematica come la qualità di vita altro non era che la riprova del classico snobbismo del Vecchio mondo. L'argomento delle complicanze insormontabili connesse alle differenze di mentalità e di gusto, suonava come una mera ammissione di inettitudine scientifica o di ipocrisia sociale sotto le mentite spoglie di una pretesa onestà intellettuale. Dicevano per esempio: quali sarebbero stati gli standard igenici della classe operaia europea, così tanto diversa da quella americana, se come questa, avesse avuto a disposizione saponette a buon mercato, se fosse stata bombardata di pubblicità della Palmolive, nelle quali si ribadiva a ogni piè sospinto quanto fosse sconveniente non emanare un gradevole odore di pulito? L'offerta genera domanda, e non viceversa. La si pensi come si vuole, fatto sta che i dati dell'Inchiesta divennero di dominio pubblico, e fu Ditroit da quel momento a stabilire i termini di raffronto. Perfino chi criticava quella campionatura spicciola, la grossolanità di quei raffronti e l'ambiguità dei risultati finiva comunque per parlare di un insieme di abitudini definibili come "standar di vita americano". Ma allora che cosa avevano in mente gli europei quando parlavano delle norme implicite nel loro stile di vita? Gli esperti chiamavano in causa considerazioni non riconducibili al mercato. Bene, ma come esprimerle in cifre? Non si può, era la risposta. Con ciò giungiamo a un altro problema: in che modo si siano intaurate due concezioni tanto diverse di ciò che è bene e ciò che è necessario, e perchè, in risposta ai progressi dell'America, gli europeo abbiano difeso il proprio stile di vita in termini sempre più reazionari. 2. La promozione dello standard di vita americano L'Indagine Ford-Oil era indissociabile dalla favolosa vicenda personale di Ford, dal modo in cui la sua azienda aveva operato "la più grande rivoluzione dei compensi mai realizzata nel mondo industriale. Una vicenda auto-edificante, magnificata da tre libretti tradotti in una infinità di lingue: "La mia vita", "La mia opera" (che funse da bibbia per Hitler), "L'oggi e il domani". Accattivanti e didattici, questi tre edificanti manualetti racchiudono una serie di considerazioni personali sul come affrontare la vita moderna all'insegna dell'efficienza. Ma contengono anche un'analisi falsamente coerente dell'avvento dei consumi di massa, presentati come la logica conseguenza di un'accresciuta efficienza della produzione, di un'abbondante offerta, di una politica salariale elevata, e del sostegno alla domanda. I cinque dollari di retribuzione giornaliera conferivano un tocco di magia all'intera narrazione. Annunciata pubblicamente nel 1914, la nuova struttura salariale rappresentò un vero e proprio colpo di genio dal punto di vista della gestione del capitale umano e della comunicazione. Il raddoppio del salario medio veniva a coronare dieci anni di trasformazioni che avevano tramutato la Ford Company da azienda più che artigianale con 150 dipendenti in un colosso del settore automobilistico con 14 mila addetti e una produzione pari alla metà del totale nazionale. Il management di Ford, basato sugli studi dell'ingegnere industriale Taylor, aveva varato una nuova modalità di produzione, basata su un nastro trasportatore costantemente in moto, la catena di montaggio, per spostare i pezzi da un punto di lavorazione all'altro. C'era però il rovescio della medaglia: a fronte dell'aumento indiscusso della produttività, con un'auto nuova sfornata ogni 93 minuti, ogni mese metà degli organici della Ford dava le dimissioni per la fatica straziante. Fatto sta che l'offerta di una paga più elevata si rivelò azzeccata: il giorno dopo l'annuncio l'area della Ford fu assediata da una folla di 12 mila persone ansiose di occupare uno dei 4 mila posti disponibili. Da quel momento in poi l'azienda riuscì ad accaparrarsi il meglio della mano d'opera, velocizzando i tempi di produzione, sbarazzandosi dei brontoloni, e tenendo in scacco i sindacati per almeno vent'anni. Le politiche seguite da un'azienda tanto influente ebbero effetti permanenti: fecero apparire una retribuzione più elevata come la chiave del successo della moderna economia americana, e l'offerta come il primo mobile della domanda, indispensabile a una società dei consumi di massa. La maggiore produttività permetteva infatti un aumento delle retribuzioni; queste si traducevano in un consumo di massa, che alimentava i profitti, e quindi gli investimenti, in un circolo virtuoso potenzialmente senza fine. Biasimando le elite europee su tutta la linea, gli americani, nel boom degli anni Venti, si ritenevano i depositari della nuova morale della civiltà industriale. Eppure non era affatto scontato che negli Stati Uniti una maggior produttività accompagnata da retribuzioni più elevate sarebbe bastata a convertire un'intera società alla dottrina dei consumi di massa, anche perchè una simile strategia poteva essere messa in atto solo da poche grandi aziende dedite alla produzione di beni di consumo. Altri sono i fattori da calcolare, per poter capire le origini di un nuovo standard di vita, e per comprendere perchè gli Stati Uniti abbiano seguito la strada dell'opulenza consumistica mentre le società europee parvero dapprima orientarsi verso il modello americano prima di piombare nel "nuovo ordine" della Germania nazista. Il primo elemento da tenere in considerazione è l'inusitata mescolanza di risorse che caratterizzava un paese come gli Stati Uniti. Non appena si sente parlare di grandezza economica dell'America, la mente corre subito al carbone, all'acciaio, allo stagno, al rame, all'abbondanza d'acqua, al petrolio, e a tutte le altre materie prime che confluiscono nella produzione industriale, e del quale il paese era indubbiamente ricco. Non ci si sofferma mai, poi, sulla precoce industrializzazione dell'agricoltura o sulla fertilità delle vaste estensioni del paese, che dava al consumatore americano la possibilità di disporre di una grande quantità di alimenti, utile per sottrarsi alle carestie come per far calare i prezzi. Per non parlare della rapidità dei traporti, la quale, per esempio, fece degli americani i primi consumatori al mondo di tabacco e di caffè. Il secondo elemento era rappresentato da un mercato interno estremamente vasto e profondo, nonchè dalle dimensioni delle industrie statunitensi. Il tutto in uno territorio tre volte più grande dell'Europa, ma con un terzo dei suoi abitanti (123 milioni contro 370, nel 1930). Dediti alla causa delle "tre S" della produttività, ossia semplificazione, standardizzazione e specializzazione, i colossi dell'industria manifatturiera americana tendevano a restringere la gamma di produzione, mirando a trarre profitto dalla qualità a costi unitari contenuti. Il risultato fu la creazione del mercato nazionale più vasto, profondo e in crescita del mondo intero. In terzo elemento di cui tenere conto era rappresentato dal precoce sorgere di una coscienza consumistica nel proletariato. La necessità di una retribuzione decorosa che consentisse uno standard di vita decoroso corrispondeva non solo a una strategia di ordine economico, ma anche sindacale. Avendo fatto persare a suon di scioperi e sabotaggi il principio che un essere umano non è in vendita, la retribuzione diventava non il prezzo del lavoro prestato ma lo strumento per acquistare il necessario a un'esistenza dignitosa. Una simile forma di consumismo populista faceva presa sui lavoratori più qualificati, e socialmente più consapevoli, perchè costoro si sentivano in lotta su due fronti: contro un padrone che li prendeva per il collo, ma anche contro l'odiata concorrenza sleale di irlandesi pezzenti, cinesi senza spina dorsale, negri fannulloni e italiani "animali". La crescita dei salari rafforzava il consumismo populista in modo pressochè automatico. Il concetto di retribuzione elevata non va tuttavia inteso in senso strettamente aritmerico, ma piuttosto come il fenomeno di una somma pagata in denaro, e regolarmente, a una quota sempre più vasta della popolazione. Tale modalità redistributiva veniva a sostituire altre forme di pagamento in natura, come la messa a disposizione di alloggi, lo spazio aziendale, il dopolavoro aziendale, o altri istituti di paternalismo capitalista. Con la remunerazione in denaro, il lavoratore era portato a disporre dei propri introiti in maniera flessibile: non potendo dare affidamento su sussidi pubblici nei momenti di necessità, il lavoratore americano era costretto ad amministrare i propri introiti in modo autonomo in moto tale da far fronte agli alti e bassi del ciclo economico. Nei periodi di vacche grasse, l'intera famiglia spedeva allegramente, in quelli di vacche magre diventava più occulata. Un esercizio questo che insegnava alla classe operaia a trattare i propri introiti come una forma di capitale, da investire in articoli o dotazioni per la casa, o nell'acquisto di un alloggio di proprietà, quasi a ribadirne l'intraprendenza come consumatori e l'apparente libertà di azione come singoli individui. Ma il consumismo populista sarebbe stato inconcepibile senza il filtro di uno "stile democratico della vita pubblica". Werner Sombart, il più acuto studioso europeo della crescita capitalista a cavallo tra i due secoli, viene spesso ricordato per aver asserito che, in America, "davanti al roastbeaf e all'apple-pie tutte le utopie socialiste andarono in rovina", a significare che i lavoratori si lasciarono comprare dai consumi di massa. In realtà egli non intese mai nulla del genere, ma volle piuttosto dire che negli Stati Uniti il nuovo stile di vita, ossia i nuovi beni e le nuove abitudini, veniva vissuto in una situazione di distensione sociale, mentre in Europa era ancora gravato dal persistente retaggio della discriminazione di classe. L'operaio americano "intrattiene rapporti con onguno come se fosse realmente... un suo pari". E non era una questione di sperequazioni di reddito, che negli Stati Uniti risultavano più gravi che altrove. Il punto nodale era che l'assenza delle distinzioni di status ereditate dal feudalesimo faceva si che la minore distanza sociale si riducesse "ancor di più nella coscienza delle diverse classi, di quanto non lo fosse in realtà". E così le distinzioni comportamentali tra i vari ceti sociali diventavano sempre più labili: il modo più veloce di essere "come gli altri" diventava cercare di possedere gli oggetti che tutti gli altri già avevano. Naturalmente, questa parità di accesso ai beni innovativi non fece certo sparire l'hapartaid raziale, le disuguaglianze raziali e lo snobbismo sociale. Con ciò poteva dirsi del tutto rivoluzionato il modo di porsi dei consumi di massa: si suggellava cioè in modo definitivo ciò che Simon Patten aveva definito un'economia basata sulle carenze (definit) e sulla fatica (pain), a una economia dell'abbondanza (surplus) e del piacere (pleasure). Contemporaneamente il filosofo vedeva emergere una nuova moralità. Questa si reggeva sulla corretta gestione delle risorse economiche nazionali, nel cui quadro rientrava anche l'aumento dei salari minimi, senza che ciò comportasse un calo dei consumi delle altre classi sociali. Ecco così smentite definitivamente le catastrofiche previsioni di Malthus, secondo cui gli esseri umani erano condannati a un destino animalesco: fornicare e procreare fino all'esaurimento delle risorse alimentari, per poi sterminarsi a vicenda nella lotta per contendersi gli avanzi. Analogamente, veniva dichiarata morta anche la sinistra dialettica marxista della lotta di classe per spartirsi il surplus generato da ogni sviluppo nei mezzi di produzione. Voltando le spalle anche all'scetismo giudaico-cristiano, Patten pronosticava che a "un più elevato standard di vita sarebbe corrisposta una più elevata soglia dei desideri". Se l'uomo primitivo era ingordo, l'essere ben pasciuti significava invece diventare epicurei. Ecco perchè più consumi si sarebbero tradotti in una società più etica: per giustificare il diritto a uno standard di vita decoroso non era necessario chiamare in causa il bene comune, i valori superiori o chissà quale legge natuale o principio universale di umana giustizia. A quel punto, per definire lo standard americano mancavano soltanto due elementi. Il primo era capire cosa volessero gli americani. Essi vennero costretti a esporre ogni risvolto della propria esistenza in ogni sorta di test e sondaggi, in nome delle scienze del consumatore. Secondo Margaret Reid, esperta di economia domestica, lo standard americano era "caratterizzato dall'assenza di distinzioni di classe e dalla tendenza a monetizzare ogni valore: di qui l'importanza attribuita a ciò che è nuovo, a ciò che è veloce, a ciò che fa risparmiare tempo... Fra le aspirazioni dei cittadini statunitensi, a primi posti figurano la salute e l'istruzione formale – e quindi non necessariamente la cultura". L'ultimo passo da compiere consisteva nel classificare gli americani in funzione della capacità di raggiungere tale standard. Con le sue "classi di standard di vita", l'economista Paul Nystrom presentò il primo studio completo: all'utlimo scalino stavano i diseredati (18,5 per cento), ovvero coloro che vivevano al livello della mera sussistenza (afroamericani, indiani, eccetera); il grosso della popolazione (71,4 per cento) partecipava al mercato dei consumi per tutte le tipologie di beni (classe media); allo scalino ancora superiore (10 per cento) appartenevano coloro che conducevano uno standar di vita agiato e opulento (classe dirigente). A quel punto non esistevano più classi sociali, ma classi di consumo. Lo standard di vita americano forniva la prova di come la propensione a cambiare abitudini fosse sinonimo di vitalità sociale, di come la maturazione dei desideri li rendesse sempre più complessi e diversificati, di come l'emulazione sociale nei consumi rappresentasse un fatto del tutto naturale dagli effetti benefici; e infine, stava a dimostrare che, con la graduale immissione sul mercato di nuovi beni l'intera società ne guadagnava in termini di coesione e di comunicazione. Ecco dunque che un simile standard di vita avrebbe rappresentato un solido fondamento per quella "democrazia del riconoscimento" tanto cara al presidente Wilson. Almeno in linea di principio (un quinto della popolazione era ancora escluso), l'intera popolazione si vedeva riconosciuto, in veste di comunità di consumatori, un potere reale, allorchè minuscolo: quello di poter scegliere ogni giorno, trasformando così ogni giornata in un plebiscito sulla qualità della vita, in un esercizio minimalista di cittadinanza che andava comunque a rafforzare lo spirito nazionale. Le istanze di giustizia sociale si concentravano sull'innalzamento del potere d'acquisto più che sulla ridistribuzione della ricchezza, sulla scelta fra alterantive di offerta più che su un'ambiziosa riqualificazione del sistema. Già negli anni Venti, gli Statunitensi potevano vantarsi di essere i primi al mondo a parlare di "libertà della domanda come fondamento della libertà generale". 3. La difesa dello stile di vita europeo Il problema per l'Europa non era stabilire se lo standard di vita americano fosse auspicabile o esecrando, tema ricorrente ora che il fordismo, con la sua proposta di una soluzione rapida sul piano economico, faceva valere tutto il suo potere demagogico attraverso tutto lo spettro politico. All'estrema sinistra stavano i comunisti e in particolare Antonio Gramsci, che scrisse dell'americanismo e del fordismo in termini originali nei suo Quaderni dal carcere, riconoscendo alla nascente egemonia statunitense il merito di aver spazzato via le macerie del passato feudale e borghese dell'Europa. All'altro estremo, a destra, emblematica risultava la figura del barone Ottliliefeld, docente di economia politica all'università di Berlino, che con un pamphlet eloquentemente intitolato Fordimus? Rese popolare una versione reazionaria di socialismo, quello bianco, che avrebbe collettivizzato la prosperità che scaturiva dalla catena di montaggio per deciare l'attenzione delle masse dalla variante rivoluzionaria del socialismo, quella rossa. Ma il problema qui è stabilire piuttosto se avesse senso attendersi nell'Europa del primo Novecento, l'instaurarsi di uno standard affine a quello americano. Dopotutto nei vari stati europei non si era verificata alcuna espressione dei consumi paragonabile a quella che aveva avuto luogo negli Stati Uniti nel cinquantennio precedente, in conseguenza delle enomi risorse del territorio, della tradizione democratica, dell'accumularsi di numerosi, sottili e costanti cambiamenti delle istituzioni economiche, nel panorama sociale e demografico e nella vita culturale del paese. Dinnanzi a tale problematica, la risposta di alcuni, come l'economista francese Francois Delaisi, fu non tanto nel prospettare riforme sul piano nazionale, quanto nel progetto di unificare fra loro paesi diversi allo scopo di dar vita anche in Europa a un mercato dei consumi paragonabile a quello statunitense. Il primo passo proposto da quel paneuropeista geniale sarebbe consistito nel canalizzare sull'Europa orientale i grandi flussi di capitale che la grande finanza americana riversava in Germania nella seconda metà degli anni Venti, dove provocarono un eccesso di capacità produttiva cui seguì la recessione. Nel 1932, posto di fronte all'aggravarsi della crisi, Delaisi avanzò una seconda proposta, ancora più ambiziosa: il piano Delaisi, che avrebbe consentito in Europa un ricongiungimento fra produttori e consumatori mediante la riqualificazione delle infrastrutture commerciali nel continente, inclusi trasporti, servizio postale e altri mezzi di comunicazione. Egli esortava altresì le potenze europea a smantellare formalmente i propri imperi coloniali, dai quali scaturivano unicamente conflitti e grande spreco di risorse. Sebbene precorresse i tempi, questa utopia si arenò nelle sacche della depressione. Sarebbe riduttivo, in ogni caso, considerare i problemi dell'Europa del primo Novecento come il frutto di una produzione non La prima, inevitabile, prassi di un regime che stava restando a corto di oro e di valuta e che dipendeva dalle importazioni per l'approvvigionamento alimentare, era l'autarchia. Spronata la burocrazia nazista, l'imprenditoria tedesca sfoderò un'inventiva sorprendente nel campo del surrogato (mele tedesche al posto dei frutti esotici, orzo al posto del caffè, resine varie al posto di gomma, cotone e lana, eccetera). Il dirigismo nei consumi dipendeva anche dall'esigenza di razionare drasticamente i generi di prima necessità: nell'ambito dell'abbigliamento, fu introdotta per esempio la tessera-vestiario, che assegnava al titolare un tot di punti, che potevano essere impegnati per una serie di acquisti a scelta, ma limitati. I consumi guidati presupponevano poi, e soprattutto, una revisione del concetto di standard: non più generi di prima necessità ai quali si accedeva in funzione della rispettiva fascia di reddito, ma in base a salute e dignità della razza. Veniva così sancita una scala di priorità, atta a determinare chi dovesse avere accesso ai beni di consumo, il che inzialmente era semplicissimo: gli ariani prima, gli altri dopo. Alla fine, il criterio ultimo del razionamento fu rappresentato dal grado di utilità per la "comunità del popolo": c'erano bocche utili e bocche utili. L'elenco di queste ultime non fece che crescere man mano che le risorse diventavano più scarse: ebrei, malati, disabili, anziani, popolazioni sottomesse, eccetera. Parallelamente, si diffuse sempre più l'idea che la Germania avesse bisogno di un'area economica propia, il gross-wirtschaftsraum (grande stanza); un temine che faceva il paio con lebenstraum (spazio vitale), e con tutto il suo corollario pangermanico e razzista di colonializzazione, annichilimento e dominazione diretta. Nel 1942, all'apogeo delle conquiste del Terzo Reich, l'idea che il nuovo ordine avrebbe consentito uno stile di vita elevato andava acquistando credibilità non soltanto in Germania, ma anche all'estero. La propaganda nazista prometteva che la nuova suddivisione del lavoro a livello internazionale, imposta dalla dominazione tedesca avrebbe dato vita a nuove forme di complementarietà economica, e che la stessa Germania avrebbe rinunciato in parte a migliorare lo standard di vita della sua popolazione per consentire ad altri popoli di farlo. Ex paneuropeisti, scorgendo nel trionfo di Hilter il compimento della loro visione di una Europa prospera e unificata, abbracciarono la sua causa. Ciò che poi in Terzo Reich inflisse all'Europa andò al di là anche delle sinistre prefigurazioni di Malthus: una devastazione degna dei più folli scenari dell'ancien regime, in cui il banchetto della natura era sovraffollato e gli ultimi arrivati, non riuscendo a trovare posto, finivano divorati dagli altri commensali. CAPITOLO TERZO LE CATENE DI NEGOZI A PREZZO FISSO Come la moderna distrubuzione ha scavalcato la vendita al dettaglio Edward Albert Filene all'estero amava presentarsi come "un semplice uomo d'affari". Un palese esercizio di falsa modestia: era uno dei più ricchi commercianti degli Stati Uniti, eminente filantropo, autorevole voce a favore della pace del mondo, riformista, e abilissimo a promuovere la propria immagine. Era nato a Salem, nel Massachusetts, nel 1860. Quando il padre si ammalò, nel 1891, Filene rilevò l'attività insieme al fratello: in dieci anni i due giovani riuscirono a trasformare un emporio nel più grande magazzino del mondo: le merci esposte andavano vendute in trenta gioni; l'assortimento veniva scontrato in base a un programma prestabilito; le merci in giacenza venivano donate alle opere caritatevoli della zona; gli articoli venivano selezionati attingendo a partite incomplete, eccedenze di produzione, giacenze di prestigiosi negozi, stock fallimentari, eccetera. La filosofia di pensiero di Filene divenne presto arcinota: il principale problema economico con il quale doveva fare i conti il mondo industralizzato riguardava la distrubuzione di merci sformate da una produzione ormai virtualmente inesauribile. Insomma, il problema di fondo per le aziende non consisteva tanto in un eccesso di capacità produttive, ma piuttosto in una mancata "di-stri-bu-zio-ne", come egli amava scandire. Anzi, in ultima analisi l'intera, tragica deriva verso un "radicalismo insano", "l'insicurezza sociale generalizzata" e la guerra dipendeva proprio dall'impossibilità di trovare sbocchi ai beni di consumo. Filene era uno scapolo dallo stile di vita parsimonioso, tranne che nei suoi viaggi in giro per l'Europa: devolvette cospique somme alla causa del riformismo sociale. Tanto che nel 1928 i suoi soci in affari nominarono presidente a vita del gruppo suo fratello, estromettendolo di fatto dalla sua gestione. Egli allora si mise a commercializzare idee a tempo pieno. Il principale strumento del suo operato era il già citato Twentieth Century Fund, faro del suo costante impegno per la democratizzazione dei consumi. Attraverso questo, prestò infatti il proprio appoggio al movimento internazionale delle cooperative di consumo e di credito, convinto della necessità di innalzare il livello di vita; e sostenne con un guale ardore la Camera di commercio internazionale, oltre ad altre reti internazionali per la liberalizazzione degli scambi mondiali. Soprattutto, egli riteneva che, affinchè nel Nuovo mondo regnassero la sicurezza e il progresso, era indispensabile che il Vecchio mondo vivesse in pace e prosperità, e a tale scopo, doveva anzitutto essere unificato e godere di uno standard di vita unificato. Filene tuttavia, paradossalmente, non riuscì a capire che priprio lui, il cosiddetto "apostolo della distrubuzione", stava in questo modo spingendo il capitalismo americano ben più al di la di quanto non avesse prosettato il suo contemporaneo Ford, "il prometeo della distrubuzione". A metà degli anni Venti si proclamava solennemente che l'era della produzione aveva fatto il suo tempo e che sarebbe subentrata l'era della distrubuzione e del marketing. In conrasto con la produzione di massa di Ford, che dava voce a un mercato di venditori in cui la domanda pareva infinita e subordinata soltanto all'offerta, la distrubuzione di massa di Filene rappresentava un nuovo mercato degli acquirenti, nel quale a determinare i modelli d'acquisto erano sempre più i distributori e i consumatori. Ford riteneva che il prodotto, se fosse stato di qualità e a buon prezzo, si sarebbe venduto da solo, Filene invece seppe capire che le istanze dei consumatori erano anche una questione di bisogni e desideri in costante evoluzione. La distrubuzione di massa avrebbe quindi richiesto di intervenire costantemente su ogni elemento di scambio suscettibile di influire sulle scelte del consumatore, dal design, al prodotto, al packaging, alle tecniche di vendita. L'intuito di Filene per il futuro era più acuto di quello mostrato da Ford perchè, rispetto agli investimenti esteri, il pirmo imprsonava la componente più progressita e sociabile del capitalismo americano, incentrata sui servizi, la comunicazione e lo svago, componente che, in abbinamento con il sistema produttivo statunitense e sostenuta con fermezza dallo Stato, garantì al paese un'egemonia globale fino a tutti gli anni Sessanta, e che, negli anni Ottanta, risorse a nuovo dinamismo sancendo il trionfo di una enemonia "soft" nell'era postfordista. Fin dagli anni Trenta, invece, con l'innalzarsi delle barriere tariffarie e con la progressiva ritirata della produzione americana dall'estero, la voce di Ford aveva cessato di esprimere un internazionalismo lungimirante e basato sull'industria multinazionale, per suonare sempre più come il segnale di una globalizzazione industriale messa sotto scacco dal nazionalismo. Non poco peso ebbe in questa sua deriva un antisemitismo convinto. 1. La rivolzione nella distrubuzione Il termine "distribuzione" era entrato in uso nell'inglese d'America nel corso degli anni Venti ed era stato sanzionato ufficialmente nel 1925, in occasione del primo congresso nazionale della distrubuzione, tenutosi a Washington per volere di Hoover e organizzato dalla Camera di commercio statunitense. La distrubuzione rappresentava "il problema", si disse. Tale problema era in realtà stato identificato per la pirma volta come problema generale del capitalismo quando, all'indomani della Prima guerra mondiale, il cosiddetto mercato di venditori, che favoriva i produttori, ereditato dal boom industriale di fine Ottocento, si era trasformato in mercato che favoriva gli acquirenti. Organizzati in grandi trust su un mercato protetto, i maggiori produttori traevano giovamento dal simultaneo sviluppo di ferrovie transcontinentali, vendita al dettaglio e campagne publicitarie di portata nazionale, per abbreviare la distanza che li separava dal consumatore finale. Estromettendo i grossisti, essi utilizzavano il loro monopolio per rivolgersi direttamente ai consumatori, scavalcando anche i dettaglianti locali. In tal modo, riuscivano a stabilire il prezzo di rivendita; se a loro volta i dettaglianti volevano sopravvivere, non potevano fare altro che raggrupparsi in centri d'acquisto, o comprare all'ingrosso grandi quantitativi da rivendere per posta o tramite le catene di negozi a basso ricarico. Ma quando la capacità produttiva superò la domanda, venne il turno dei dettaglianti, che potevano far leva sulla concorrenza fra le industrie e mettere a frutto la propria esperienza commerciale per assecondare le esigenze del consumatore in termini non solo di quantità ma anche di varietà, convenienza e servizi. Questo nuovo stato di cose poneva i dettaglianti di fronte a una questione: vinta la battaglia contro i produttori per l'egemonia sul mercato, ora i dettaglianti avevano di fronte il problema di sancire la propria legittimazione agli occhi del consumatore, del terziario e della collettività in genrale. Essi avevano il compito di capire che cosa volesse il cliente finale, anzichè rifilargli ciò che avevano casualmente a disposizione, di scalare opportunamente gli ordini allo scopo di ridurre le fluttuazioni della produzione e la conseguente disoccupazione, eliminare funzioni che non andavano a incrementare il valore intrinseco del prodotto, il tutto avendo cura di eliminare gli sprechi. In Next steps forward in retailing, che rappresenta la summa suo pensiero, Filene suggerì tre innovazioni per far fronte a queste responsabilità. La prima consisteva in un uso più razionale del capitale, mediante economie di scala nelle vendite, l'acquisto di ingenti quantità di forniture e il perfezionamento della gestione dell'inventario. La seconda sarebbe consistita in un migliore addestramento, equipaggiamento e organizzazione della forza vendite: chi svolgeva il mestiere di venditore era un dipendente. Il terzo suggerimento riguardava lo sviluppo della prassi commerciale: grazie allo scambio di informazioni, culture commerciali diverse dovevano sfidarsi fra loro a colpi di migliori prassi. Il concetto di "catena di negozi" incarnava tutte queste innovazioni. Concentrando il know-how manageriale, i capitali e il processio decisionale in un'unica sede amministrativa, questo nuovo ritrovato fungeva da vera e propria macchina della vendita. Coordinando informazioni e forniture tra svariate decine di negozi diversi sparsi su un vasto territorio, la catena era in grado di ottenere una notevole economia di scala acquistando in grandi quantitativi direttamente dal produttore, standardizzando la presentazione degli spazi di vendita, specializzando il proprio assortimento in un numero ristretto di articoli e semplificando i listini dei prezzi. E a sua volta, avrebbe fatto risparmiare il consumatore. La premessa di Filene, ossia che la commercializzazione potesse essere organizzata in modo più razionale ed efficiente proprio come la produzione, costituiva un'enorme innovazione in un modo in cui era ancora opinione comune che lavorare nel campo della distrubuzione, e soprattutto della vendita al dettaglio, fosse roba da parassiti che succhiavano linfa vitale a chi lavorava davvero, cioè il produttore, fra i mille raggiri di speculatori, abusivi, impostori e altre fastidiose emanazioni del capitalismo "ebraico". La moderna distrubuzione al dettaglio introdotta dalle catene di negozi non impiegò molto a esplodere, e ad assurgere a modello anche per gli altri sistemi commeciali, per una serie di ragioni. Anzitutto, potendo attingere a un bacino di acquirenti urbani virtualmente inesauribile, quando i grandi magazzini dovettero concorrere con i prezzi più bassi offerti dalle catene di negozi, furono in grado di spiccare un salto di qualità, facendosi forti del loro potere economico e del loro immenso volume di affari per procurarsi l'assortimento e la qualità desiderata dalla clientela. I grandi magazzini erano inoltre i soli a poter attutire la concorrenza tra grandi e piccoli: poichè il target americano era un vasto mercato urbano in rapida crescita, i grandi magazzini si facevano concorrenza l'un l'altro, invece di scagliarsi contri i piccoli dettaglianti, o contro le stesse catene. La figura del commerciante si era guadagnata poi il rispetto se non addirittura l'onore di essere tale: nell'ideologia repubblicana statunitense chi commerciava veniva guardato con minore alterigia che altrove, ed era considerato un cittadino responsabile, che svolgeva una funzione utile. Ma c'è di più: nei primi anni del Novecento i grandi commercianti acquisirono un'apprezzabile influenza politica. Poichè si muovevano in un mondo che ricompensava chi sceglieva di rischiare, e penalizzava i tradizionalisti, le elite commerciali acquisirono ben presto fiducia in sè, il potere e le sostanze necessarie per allearsi con coalizioni progressite accanto a gurppi di femministe, movimenti di consumatori e organizzazioni sindacali. La continua innovazione, spinta da un sistema di distrubuzione guidato dalla vendita al dettaglio ebbe l'effetto di rafforzare quel concetto di middleness così tipico della cultura dei consumi americana. Tenuto conto del variare del potere d'acquisto, della volubilità dei gusti e della mobilità fisica, la moderna distrubuzione al dettaglio aveva scelto come interlocutore quei tre quinti della popolazione statunitense che spendevano il proprio reddito non soltanto nel necessario, ma anche nel voluttuario quando non addiruttura nel lusso. Andava emergendo un crescente ceto medio di persone che lavoravano come impiegati, quadri ed esperti, occupati in ogni genere di servizi. Middle erano anche i grandi magazzini, sparsi nelle grandi città tra il centro e le periferie delle città. Middle era la posizione occupata nel panorama economico dalle catene di negozi, che riuscivano a sottrarre clienti sia ai grandi magazzini di lusso sia ai comuni negozi specializzati in una data merceologia. Middle erano le donne di diverse estrazioni sociali che varcavano la stessa soglia per comprare gli stessi articoli. Un sistema di distrubuzione simile, tarato in funzione del dettaglio, avrebbe potuto funzionare in Europa? I liberali americani come Filene e le massime dirigenze dei principali grandi magazzini europei (membri della International Association of Departemen Stores da lui fondata) ne erano convinti. Alcuni studi del panorama della distrubuzione in Europa e in America affermavano del resto, sia pur un po' ottimisticamente, che le due realtà erano sostanzialmente paragonabili. Anche la distrubuzione europea, nel tentativo di soddisfare le esigenze del consumatore al minor prezzo e secondo la rotta più rapida, pareva inesorabilmente incamminata verso unità amministrative moderne e gestite in base ai principi del capitalismo. Era vero? 2. Il duplice volto della distribuzione al dettaglio in Europa In realtà, per potersi dotare di un sistema fondato sulla distribuzione di stampo americano, il commercio europeo avrebbe dovuto anzitutto essere teatro di una vera e propria rivolzione sociale nella vendita al dettaglio. Ciò che si verificò, invece, fu una massiccia reazione sociale a qualsiasi cambiamento nel regime dei consumi, una reazione che si accanì in particolare contro le catene di negozi a prezzo fisso, ossia proprio contro l'invenzione stessa che si proponeva di rivolzionare il panorama della distrubuzione al dettaglio. In linea di massima, in Europa anche la vendita al dettaglio non faceva altro che ricalcare le stratificazioni della società borghese in generale: le sue istituzioni più classiche, il grande magazzino e la bottega sotto casa, erano caratterizzati da una fortissima segregazione in base allo status, al livello economico, al potere e allo stile di vita edlla clientela. In particolare: il grande magazzino si rovava alla sommità della piramide del commercio, essendo dispensatore di lusso e rispettabilità, emblema del profitto capitalista e catalizatore del desiderio di novità dello stile di vita borghese; la comunità dei piccoli negozianti era invece l'ampia base della piramide, attingendo la propria clientela dai ceti meno abbienti. Sin dall'ascesa del capitalismo, il commercio europeo si era sempre presentato con questo duplice volto. Il grande capitalista faceva affari in tutto il mondo, costruiva la propria fortuna scommettendo sull'esotico, facendo leva sulla facilità con cui aveva accesso al capitale, con il quale poteva far scattare gli altri e chiamare a raccolta le sue truppe. Per contro, il piccolo negoziante non ha un'ottica capitalista: i suoi calcoli in materia di costi e ricavi non ammettono sorprese e la sua posizione sul mercato è garantita da forme di minimonopolio sulla clientela locale, a sua volta leale perchè priva di mobilità. L'apogeo dei gandi magazzini in Europa coincise con l'apogeo della borghesia ai primi del Novecento, proprio come vent'anni dopo avrebbe costituito il fosco indicatore del suo declino. Di conseguenza, il dislocamento sul territorio, la ricchezza e il potere della borghesia potevano essere ricostruiti con facilità su una cartina, verificando la diffusione dei grandi magazzini. Più numerosi nell'Europa nordoccidentale, man mano che si procedeva verso sud diventavano più scarsi. Gli edifici che li ospitavano incidevano sui flussi di traffico e causavano lo spostamento di innumerevoli piccoli esercizi commerciali, impartendo un nuovo profilo al paesaggio urbano. Accanto agli altri templi della cultura borghese, la borsa, le biblioteche, i municipi e le stazioni, queste "cattedrali del commercio ribadivano la segregazione tra centri cittadini spettacolari e tetri quartieri, sempre più distanti, popolati dalla classe operaia. Ma non è tutto. La profusione di merci presentate in modo sontuoso, con ogni articolo corredato di un cartellino riportante il prezzo, che era rigorosamente fisso, aveva l'effetto di ribadire non solo l'abbondanza dell'offerta, ma anche l'unicità di ogni singolo articolo. Il che presentava a sua volta un duplice significato: da un lato era stato eliminato il mercanteggiamento associabile ai bazar o ai piccoli negozi, dall'altro veniva conferamto che in quel magazzino venivano venduti solo articoli adeguati a uno stile di vita borghese. Del resto l'Europa funse da arbiter elegantiarum in tutto il mondo per lungo tempo, anche quando i temi erano ormai cambiati e gli Europei avevano varcato l'Oceano per apprendere le tecniche di distribuzione di massa. Ma poi i grandi magazzini mostrarono le loro contraddizioni, contribuendo, tra le due guerre, a erodere sempre più proprio quel modello di consumi; per varie ragioni. Anzitutto il grande magazzino rafforzava le distinzioni sociali in seno alla stessa borghesia: fra le sue pareti la discriminazione era onnipresente, e il rapporto che si instaurava con i dipendenti rasentava il legame tra padrone e servitù. In secondo luogo, pur nel suo indiscusso successo, il grande magazzino non poteva scrollarsi di dosso l'infamante opinione generale che vendere qualcosa fosse moralmente disdicevole, e che il grande commerciante fosse pur sempre una figura meno nobile del produttore. Altra preoccupazione consisteva nel fatto che, nel business dei grandi magazzini, la presenza ebraica appariva molto evidente: e infatti un'ossessione dei nazisti fu che ai massimi livelli il commecio fosse in mano agli ebrei. Ma soprattutto, i grandi mercanti europei non avevano risolto il problema dei loro tormentati rapporti con i piccoli dettaglianti: per quanto uniforme sul piano nazionale, centralizzato politicamente e stravolto dall'inurbamento e dall'industrializzazione, quel regime di consumi rimaneva profondamente locale, minutamente variegato e legato al passato senza soluzione di continuità. Non c'era settore d'attività più ostinatamente conservatore e al contempo pronto ad adeguarsi alla vendita al dettaglio. Sfidando i dettami sia della teoria economica classica sia di quella marxista in ordine alla loro stessa sostenibilità economica, i piccoli esercizi commerciali sfoderavano una notevole resistenza a fenomeni ritenuti inesorabili, come le economie di scala e di scopo. Nel complesso la vita di un singolo negoziante era effimera come quella di un moscerino (circa il 20% sopravviveva ai dieci anni di apertura); quello che invece sarebbe perdurato comunque era il negozio in sè, prontamente rilevato da schiere di persone in cerca di una occupazione in sistemi economici caratterizzati da un'agricoltura in crisi cronica, da un inesauribile serbatoio di disoccupati, da bassi salari, eccetera. I piccoli esercizi perduravano anche perchè erano depositari di un servizio altamente personalizzato: i clienti vi andavano ogni giorno, si poteva pagare a credito, c'era il servizio a domicilio. Ma non è tutto: nel definire il prezzo, il negoziante si atteneva alla nozione di giusto profitto, ovvero in base a quanto era necessario per la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia, e a quella di "prezzo di mercato", ovvero basata sui prezzi della concorrenza, dei costi fissi e dei costi di magazzino. Insomma, le differenze con il contesto americano erano assai profonde. In Europa il concetto stesso di middle avrebbe fatto pensare alla precarietà della classe media, all'inamovibile potere delle corporazioni, all'asfissiante visione della società come un'ineluttabile gerarchia in cui ciascuno doveva starsene al proprio posto. Nulla a che vedere con la complessa vissione di middleness della cultura dei consumi statunitense. Le linee di frattura che percorrevano il regime di consumo borghese europeo si aprirono ni veri e propri abissi quando nel periodo tra le due guerre, il grande magazzino iniziò a vacillare nel suo ruolo di vessillifero dei consumi della borghesia, e i piccoli esercenti e approfittarono per ribadire il proprio ruolo di sana alternativa a disposizione del ceto medio. Ma fu proprio allora che spuntò, nel panorama della distribuzione al dettaglio, una terza via: quella della catena di negozi, nella nuova e peculiare forma del bazar. Che si rivelò un temibile concorrente sia per la grande che per la piccola distribuzione. 3. La sfida del bazar Dunque era giunta una nuova invenzione dall'estero: la catena di negozi che vendevano di tutto un po', i cosiddetti bazar. Nelle intezioni dei grandi commericanti, nulla di ciò avrebbe dovuto modificare i rapporti di forza in seno alla società, nè promuovere l'emergere di un nuovo ceto di consumatori della classe media. Eppure quella nuova invenzione, divenne immediatamente bersaglio di numerose proteste. Essa era nota negli Stati Uniti come five-and-dime, denominazione che serviva a trasformare in virtù una delle sue principali caratteristiche: tutte le merci esposte venivano vendute a prezzi prestabiliti (un nikel, ovvero 50 centesimi). Emanazioni delle catene al dettaglio, queste catene avevano lo scopo di massimizzare lo smercio, attraverso l'acquisto in grandi quantità di generi alimentari non deperibili impacchettati. La loro principale caratteristica, oltre al prezzo, consisteva nel vasto assortimento di articoli e nell'assitenza in negozio ridotta allo stretto necessario (sostanzialmente, incassare). La colossale catena di negozi Woolworth significò per il five-and-dime ciò che il modello T rappresentò per la motorizzazione di massa. Paragonabile a un colossale emporio, l'impresa, fondata nel 1913, registrò un'espansione talemente rapida da dimostrare, già nel primo Novecento, quanto fosse possibile fare succulenti profitti puntando sulla vendita al dettaglio anzichè sulla produzione. Basti pensare che per lungo tempo la sua sede fu il grattacelo più alto del mondo, al civico 233 di Broadway. Nel 1909, Woolworth aprì la prima filiale all'estero, a Liverpool. Surclassando la concorrenza, nel 1930 aveva aperto in Gran Bretagna oltre 400 punti vendita. Poi si espanse in Germania: nel 1932 la catena poteva contare su 82 filiali, 14 nella sola Berlino. Nello stesso anno, dopo cinque anni di rapida crescita, le catene di bazar presenti in Germania oltre a Woolworth erano 15, per un totale di circa 400 punti vendita. A metà degli anni Trenta, queste catene contavano su 12 mila punti vendita in tutta Europa. stabiliva un nuovo standard nella prima colazione proponendo un alimento naturale con cui iniziare la giornata all'insegna del vigore fisico, o della Coca Cola, che inventò la sete nel momento stesso in cui prometteva di placarla.. Tutti beni di consumo difficilmente incasellabili nella tassonomia merceologica della fiera di stampo borghese, non soltanto perchè erano nuovi, ma soprattutto perchè stabilivano nuove categorie di valori. Nel Vecchio mondo il merchandising classico mirava a enfatizzare la natura del prodotto, mettendone in luce proprietà che si potrebbero definire intrinseche, o comunque strettamente connesse all'ambiente in cui quel determinato bene è stato realizzato. Per contro, nel Nuovo il marketing metteva in luce la personalità del prodotto, enfatizzandone l'aura di fascino, così da controbilanciare, agli occhi del consumatore, lo svantaggio di non conoscerne il luogo d'origine nè le proprietà intrinseche. Lipsia era la sede ideale in cui esporre merci realizzate in piccoli lotti, prodotti artigianali o su misura, che in un simile contesto erano di casa. Invece, i prodotti di marca in serie davano il meglio in assolo, o comunque accompagnati da un costoso stuolo di venditori, esperti di marketing, pubblicitari, insegne, cartelloni, eccetera. La mancanza di autenticità veniva insomma compensata da quello che Max Weber ha definito "carisma", intendendolo come un'autorevolezza quasi religiosa che travalicava i conflini delle burocrazie. Di conseguenza la personalità del prodotto di marca non poteva confondersi con gli ammennicoli artigianali che popolavano le case della borghesia; anzi, si presentavano proprio come punto di svolta radicale rispetto ai canoni invalsi e alle autorità che li avevano sanciti. Dietro la presentazione della fiera di Lipsia come il punto nodale di tutti i commerci, visibile nella mappa delle proprie agenzie distrubuita dalla gestione della fiera nel 1933, stava la ferrovia: l'imponente rete di binari dell'impero tedesco convergeva su Lipsia, che, con l'inagurazione della stazione centrale nel 1923, divenne il più grande terminal ferroviario d'Europa. Dietro la mappa americana dei territori di vendita europei distribuita dal dipartimento del commercio americano nello stesso anni, invece, si celavano la rapidità di telefono e telegrafo, l'istantaneità delle trasmissioni radio, la capacità di riprodurre in copia esatta, grazie alle rotative, la stessa indentica pubblicità in una ventina di lingue. Dietro alla fiera si celava il tessuto produttivo della regione europea più ricca di piccole e medie imprese, di attività artigianali, di transazioni tra grossisti e dettaglianti. Dietro al merchandising di massa statunitense si celavano invece le colossali economie di scala e di scopo della produzione in serie. I prodotti di marca americani, sebbene ancora scarsi in rapporto al volume totale di merci in circolazione, agli occhi dell'immaginario collettivo apparivano onnipresenti. Poichè si diffondevano attraverso lo spazio anzichè rimanere discretamente relegati al particulare, poichè il loro milieu era transnazionale anzichè locale, i beni di consumo prodotti in serie fissarono un nuovo standard in materia di rapporti tra merci e mercato. Mentre l'abbondanza della fiera era condensata in un punto nel bel mezzo di un deserto di penuria, il merchandising di massa spargeva sul territorio i segni della prolificità della produzione in serie. Prodotti un tempo ritenuti unici perchè disponibili solo stagionalmente, o in determinati luoghi, o in particolari punti di vendita, erano ora ottenibili tutto l'anno, più facili da trattare e soprattutto molto più riconoscibili. 2. La costruzione dell'immagine di marca La vasta scala su cui operano le industrie produttrici di beni di largo consumo statunitense contribuisce a spiegare la gamma di nuovi prodotti apparsi sul mercato. Per ammortare i costi generati dallo sviluppo di nuovi prodotti, le grandi aziende investivano abbondantemente nel marketing, che divenne a sua volta un'attività a sè stante e in impetuoso sviluppo. Sorto inizialmente come un forza di vendite più professionalizzata, si suddivise poi in ulteriori specializzazioni, quali pubblicità, istituti di sondaggio d'opinione e agenzie di marketing vere e proprie. A sua volta, questo apparato di vendita intensificò la commercializzazione di nuove invenzioni, perchè si faceva portavoce del feedback del consumatore. In settori industriali sempre più specializzati, la competizione per un mercato dei consumi di massa spingeva l'imprenditoria a spremersi le meningi per sfornare innovazioni sempre più ingegnose. Furono proprio queste il tratto distintivo della mitica ingegnosità della società dei consumi statunitense. Ovviamente, i nuovi beni sarebbero stati inconcepibili senza nuove tendenze sociali, e in particolare senza nuove abitudini alimentari, senza nuovi standard nelle dotazioni domestiche, senza nuove normative sull'igiene e sulla bellezza, senza nuove attività di svago. In linea di massima, buona parte di queste invenzioni servivano a risparmiare lavoro fisico, mentre in Europa erano finalizzate piuttosto a risparmiare sulle risorse. In ambito domestico: pulizia della casa (elettrodomestici), cucina (surgelati, cibo in scatola). In ambito di benessere fisico: bellezza (trucco, rasatura, vestiario), igiene (denti, pelle, capelli). Per velocizzarne la diffusione si insisteva in paricolare sulla democratizzazione del corpo: tutti più simili perchè ugualmente curati. Ma soprattutto, le invenzioni si concentrarono sulle esigenze di comunicazione di una società contraddistinta da un elevato grado di mobilità (automobile soprattutto, ma anche industria dello svago come fotografia, ragiofonia, cinema). In linea teorica, apporre il marchio a un prodotto significa solamente esporre l'idenità del produttore, e in questo senso, sotto diverse forme, i marchi sono sempre esistiti fino dall'antichità. Così era anche in Europa in quella fase del Novecento (Philips, Nestlè, Elettrolux, Aeg). Ma in un mercato mobile e in impetuosa espansione come quello statunitense, il ruolo del marketing, e qui sta la novità, era fondamentale ai fini del merchandising. La promozione del marchio serviva non solo a scopo difensivo, ossia a spingere i rivenditori a dettaglio a tenersi in magazzino abbondanti scorte di quel prodotto, ma anche come arma d'attacco, tesa al controllo di quote di mercato, prezzi, e valore simbolico dei nuovi prodotti. Se si fosse riusciti a condensare le qualità di un determinato nome di consumo in un'unica denominazione o emblema, in modo che il pubblico lo acquistasse perchè riconoscibile a prima vista, la sociatà produttrice avrebbe instaurato di fatto un monopolio, e il prezzo non avrebbe rappresentato più l'unico criterio determinate nella scelta di acquisto del consumatore. Non a caso sono numerose le marche amerciane che sono diventate la denominazione generica di un tipo di prodotto (Kodak per macchina fotografica, e kodakismo per la mania di fotografare). Nel corso del tempo, i marchi acquisirono un argomento decisivo a loro favore: la reputazione commerciale, o goodwill. Con questo concetto si intendeva rappresentare il titolare del marchio come una persona con uno status agli occhi dell'opinione pubblica, basato sulla sua celebrità, reputazione, e posizione nel mercato. Sul piano legale, tale forma di reputazione commerciale stava a significare il potere conferito al consumatore. In teoria, chiunque poteva acquistare altri prodotti, facendo uso del libro arbitrio, ma in pratica si tendeva a scegliere quel preciso articolo in base alla propria esperienza di cliente. Con un sistema tanto rassicurante, le grandi aziende riuscivano a stabilire con il consumatore un reticolo di rapporti di fiducia non dissimile da quello che tesseva il fruttivendolo all'angolo a forza di contatti personali con la clientela. 3. La vendita all'esplorazione di nuovi orizzonti La determinazione delle grandi aziende statunitensi di stabilire legami non meno intensi anche con la clientela di altri paesi le spinse ad andare all'estero anche a stati relativamente prematuri del ciclo produttivo. Non potendo attingere a piene mani agli archivi delle aziende, risulta impossibile conoscere, e men che meno valutare, i calcoli alla base di decisione strategiche come esportare, e in un secondo momento produrre all'estero. Una delle ragioni fu certamente la volontà di battere la concorrenza in patria. Un'altra la spinta a raccogliere profitti sul nuovo mercato. La fiducia di poter andare all'estero trovava una conferma nei profitti accumulati fino ad allora, nonchè dai segnali di un rallentamento del mercato nazionale. Ma in questo processo ebbe certamente un ruolo anche l'idea diffusa che i prodotti americani esprimessero una civiltà materiale estendibile all'intero pianeta. Eccezion fatta per un manipolo di fanatici, si diceva, tutti ricercano sicurezza, una vita migliore, più comoda e maggiore piacere nell'esistenza. Nessuno levava la voce contro ciò che i critici dell'eccesso di benessere avrebbero denunciato come gli sprechi del consumismo, fra i quali rientra anche lo spreco sociale che si ingenera quando ciò che è ritenuto necessario in una società ricca finisce per incidere sui destini di società più povere, o comunque organizzate in modo profodamente diverso. La decisione di spostare la produzione all'estero con l'apertura di stabilimenti e filiali, e in alcuni casi con l'acquisto di aziende concorrenti estere, era naturalmente più complessa e costosa che non la semplice decisione di esportare. Eppure le grandi aziende statunitensi erano presenti sul suolo europeo con le loro filiali sin dall'Ottocento. E questo per una serie di intuibili ragioni: per ridurre i costi di trasporto, per sfruttare una manodopera meno cara, per ottenere sgravi fiscali, per sconfiggere la concorrenza in patria, per andare all'attacco della concorrenza europea sul suo stesso piano di gioco, per aggirare la barreire tariffarie, eccetera. Quasi invariabilmente le ditte statunitensi potevano contare su tre grandi vantaggi comparativi. Anzittutto la disponibilità di capitali, che consentiva di controbilanciare iniziali perdite attingendo a profitti già accumulati in patria. In secondo luogo, trattavano un prodotto che avevano già avuto modo di perfezionare, e a caro prezzo, sul loro mercato di massa, e che, secondo loro, risultava imbattibile sul piano progettuale. Ciò detto, l'imprenditoria americana veniva inoltre notevolmente spalleggiata dal proprio governo, più che mai pronto a promuovere l'export nazionale: fra i provvedimenti adottati ci furono appositi incentivi fiscali sui redditi d'impresa prodotti all'estero, e la legge Webb-Pomerene del 1919, che esonerava dalle disposizioni antitrust i cartelli impegnati in attività estere. Ma per l'esportazione del consumismo statunitense non vi fu decisione più determinante di quella di fondare l'Ufficio per il commercio estero e nazionale, nel 1912. La nazionalità è un invenzione, è stato detto più volte, e fa presa sull'immaginario collettivo in modo molto diseguale. Lo stesso vale per la nazionalità della merce, anche dei famigerati beni "made in Usa". Che un dato articolo fosse presentato come americano o meno, rifletteva una vera e propria battaglia di interessi e di significati. Talvolta le società ne modificavano il nome a scopi commerciali, o anche soltanto per renderlo più pronunciabile (il latte Carnation divenne latte Gloria). C'erano poi articoli noti come americani non perchè presentati come tali dalla pubblicità, ma in virtù delle qualità del prodotto originale di riferimento (le sigarette di tabacco biondo impacchettate in carta lucida erano genericamente americane, anche se prodotte altrove). La questione dell'origine dei prodotti divenne sempre più intricata alla fine degli anni Trenta, sotto la spinta constrastante delle multinazionali che tendevano a internazionalizzare i loro marchi e dei governi che tentavano di nazionalizzare le preferenze del consumatore e a favorire la produzione interna a forza di dazi, contintenti e disposizioni in materia di accordi di compensazione. Per giungere a una soluzione la Camera di commercio internazionale suggeriva che il paese d'origine riportato in etichetta coincidesse o con il luogo di produzione in toto, oppure, qualora il processo manifatturiero fosse suddiviso fra più paesi, con il luogo in cui aveva avuto luogo l'ultima trasformazione sostanziale. Tutte disposizioni che naturalmente non potevano incidere sulla risposta individuale del singolo consumatore: per esempiodurante la Grande guerra, l'obbligo di legge inglese di apporre la difituda "made in Germany" sulle merci dell'acerrimo nemico ebbe l'effetto non voluto di incoraggiare il consumatore britannico ad acquistarle, perchè il prodotto tedesco aveva già un'elevata reputazione qualitativa. Non c'era quindi una risposta univoca all'interrogatorio se enfatizzare o meno l'americanità dei prodotti. Ciò che accumunava i prodotti statunitensi era in ogni caso il modo in cui apparivano sulla scena, in assolo: era l'apparato che stava dietro alla complessa e costosa alleanza fra capitale internazionale e governo nazionale. Insomma, ciò che accomunava tutti i prodotti identificati come tipicamente americani consisteva nel modo in cui venivano promossi e venduti: in una parola, il marketing. 4. Verso il riconoscimento del marchio nell'Europa degli anni Venti Una delle leggi fondamentali del merchandising sostiene che, quando in un dato settore, un'azienda inizia a commercializzare i propri prodotti, tutte le altre protamente si accodano. Ecco quindi che la vendita di prodotti di marca può iniziare, per esempio, con un certo tessuto, per poi estendersi a macchia d'olio a vestiti, cappelli, decorazioni, biancheria, nastri, maglieria, stuoie, ombrelli, eccetera. Anche su questo si basò la tattica americana per conquistare i mercati europei. La prassi commerciale americana rispecchiava poi, come visto, un modo di porsi dinnanzi al vivere quotidiano: l'idea che il consumatore si riconoscesse nelle varie esigenze che i vari prodotti promettevano di soddisfare. Per esempio, in che modo avrebbe mai potuto un produttore europeo anche solo pensare di competere con la Gillette, quando alla fine degli anni Venti quel nome era diventato anche lì sinonimo di "lametta da barba"? Fondata nel 1904 a Boston, la Gillette aveva registrato una costante ascesa delle vendite fino alla Grande guerra, quando l'ascesa si tramutò in vera e propria esplosione, dopo un'accorta attività di lobbying che permise all'azienda di aggiudicarsi la fornitura di astucci da rasatura delle forze armate. La società portò la buona novella della rasatura fai-da-te anche in Europa, sempre facendo leva sulle forniture militari: persino i barbuti soldati francesi, i cosiddetti polius, si lasciarono convertire. Gli stabilimenti si espansero dalla Gran Bretagna alla Francia, dal Belgio alla Svizzera, dalla Spagna all'Italia. Ovunque andava imponendosi il modello del volto maschile ben rasato. In Italia per esempio la Gillette ottenne il placet del Duce che, in lotta contro le barbe e i baffoni che avevano simboleggiato la gerontocrazia dell'Italia liberale, decretò il volto irsuto simbolo di decadeza. Sul continente europeo, l'unico concorrente della Gillette erano i produttori tedeschi. E furono proprio questi che la multinazionale statunitense decise di sfidare a testa bassa nel 1926, con l'acquisizione di una quota di maggioranza della Roth-Buchner, società berlinese leader del settore. Con quella mossa, la Gillette acquisiva di fatto il controllo mondiale del mercato delle lamette usa e getta. Ecco una tipica storia di espansionismo consmumistico amerericano. 5. Il crepuscolo della fiera Il potere del marketing delle grandi marche iniziò a sortire effetti perversi anche a Lipsia, dove la fiera ancora fioriva magrado l'inziale constrarietà del nazismo. Quel foro di scambio internazionale, cosmopolita e liberale, nei piani di Hitler andava ricorvertito in "fiera marrone" (colore delle camicie naziste), sotto l'egida dello slogan: "pensare tedesco, vendere tedesco, comprare tedesco". Dopo aver operato questa conversione, e dopo che il direttore, rotariano e liberale, fu epurato, il regime si placò: con le bandiere naziste che sventolavano in ogni angolo, Goebels in persona innaugurò la fiera del 1934. Anzi, negli anni successivi l'istituto della fiera andò spundando un po' ovunque, fino a raggiungere l'abnorme numero di 634 fiere sparse su tutto il terriorio tedesco. A rispecchiare tale posizione di spicco nel quadro del Terzo Reich, la fiera diventava sempre più la vetrina dell'industria tedesca, ma rifletteva anche sempre più le ambizioni coloniali del Reich nella regione: sempre più espositori e acquirenti venivano dall'Europa sudorientale, area nella quale il nuovo ordine intendeva estendere il proprio spazio vitale. Un clima commerciale in cui era sempre più difficile reperire nuovi sbocchi per le esportazioni rappresentava un incentivo all'apposizione del marchio. Se non vi provvedevano le aziende, era facoltà della fiera agire in loro vece, con l'apposizione di sigilli di garanzia della qualità delle merci. A quel punto la fiera avrebbe agito da massimo garante della cultura manifatturiera tedesca. Ma non si trattava di un contratto in senso capitalista, paragonabile al goodwill che il marchio instaura come garanzia di fiducia tra produttore e consumatore. Si trattava invece di un contratto sociale, sottoscritto collettivamente in forza di antiche solidarietà corporative, delle venerande tradizioni mercantili della fiera, di considerazioni politico-estetiche, dell'abilità dei produttori, dell'intelligenza dei pubblicitari e del raffinato gusto del pubblico. La speranza che la grande fiera di Lipsia prosperasse anche nel nuovo ordine nazista si sbriciolò sotto le tonnellate di bombe che iniziarono a martellare la città nel 1943. L'ottanta per cento degi edifici della fiera andò distrutto. Due anni dopo, nel 1945, le forze statunitensi occuparono la città; tuttavia gli accordi fra Stati Uniti e Unione Sovietica la posero sotto il controllo di quest'utlima. Quella primavera, per la prima volta dopo settecento anni, la Fiera di Lipsia restò chiusa. CAPITOLO QUINTO IL LINGUAGGIO PUBBLICITARIO Come la scienza della pubblicità ha sopraffatto l'arte del commercio I pubblicitari per primi riconoscono che è molto difficile, se non impossibile, determinare con esattezza l'imatto del messaggio sul pubblico. La battura "un buon cinquanta per cento della pubblicità è inutile, perccato che non si sappia quale.." attribuita a Albert Laser, maneger statunitense, negli anni Trenta era diventata un luogo comune. All'epoca si era già scritto molto sull'importanza della pubblicità come linguaggio dei beni di consumo. Le campagne di marketing non si limitavano a illustrare le qualità di un determinato articolo, ma anche i bisogni che avrebbero soddisfatto, spesso facendo ricorso a nuovi concetti e a nuove espressioni tese a ribadirne l'utilità. Inoltre la pubblicità abituava la popolazione a parlare di ciò che, in apparenza, la accomunava, arricchendone il conversare con nuove immagini e nuove espressioni, per dar voce alla propria visione del mondo. Per esempio: se in un paesino sull'Appennino emilano fosse stato affisso un cartellone pubblicitario di una famosa marca di lubrificante, sarebbe stato chiaro che nessuno lo avrebbe comprato, dal momento che in quel paese gli unici congegni meccanici per i quali occorresse una forma di lubrificazione erano i macinini da caffè, a manovella, e le macchine da cucire, a pedale: un uso per cui andavano benissmi benzina e olio d'oliva. Il fatto è che il desiderio latente implicito in quell'evento pubblicitario non era il lubrificante in sè, nè l'oggetto apparentemente più immediato a cui associarlo, ovvero l'automobile. L'effetto era invece quello di stimolare un'altra dimensione: il desiderio di mobilità individuale. Infatti di li a poco il prete del villaggio, figura intraprendente, resosi conto che la strada per il villaggio si prestava a un transito veicolare, avrebbe persuaso le autorità locali a riqualificarla; e così il villaggio si sarebbe ritrovato, inaspettatamente, meta di un certo turismo domenicale. E anche i cittadini avrebbero cominciato a scendere in città per comprare provviste, e poi elettrodomestici, e così via. In realtà in questo esempio il ruolo della pubblicità come primum mobile è stato estremizzato. Ma l'esempio serve a illustrare come, da invenzione sociale quale era, la modera pubblicità andava per oltre la sua specifica forma di espressione (dalla scritta sul muro di allora al pop-up online di oggi). Fin dagli albori la pubblicità ha costituito un complesso dialogo sui beni di consumo, mediato dall'intervento di specialisti che devono tener conto dei diversi interessi in gioco. I pubblicitari hanno dovuto conquistarsi la fiducia del pubblico, i cui mutevoli gusti e la cui crescente accortezza richiedevano un costante monitoraggio per poter essere gestiti, e il cui responso era conoscibile soltanto in modo indiretto. Al pari di altre invenzioni consumistiche del XX secolo, la pubblicità fu inizialmente un fenomeno legato a parametri culturali: si trattava di un microlinguaggio locale, che si instaurava in risptrette comunità di consumatori. Non esisteva insomma una lingua universale del commercio: la pubblcità poteva essere orale, scritta, visiva, sonora. Il problema è piuttosto capire come sia strato possibile trasporre le prassi di un ben preciso contesto di marketing, quello americano, in un altro melieu, quello europeo, prima di elevarle a fenomeno globale. I pubblicitari americani si erano posti il dichiarato obiettivo di promuovere una scienza in nome dei profitti delle imprese; mentre gli europei sostenevano di voler difendere un'arte, nel nome di un idem sentire attorno a marche ben note, passatempi e luoghi di aggregazione. Insomma, lo scontro tra il vecchio e il nuovo regimi dei consumi riguardava il tipo di linguaggio da utilizzare per rivolgersi a un pubblico di massa. Nel primo quarto di secolo il mondo pubblicitario americano svettava come un gigante non soltanto in termini di dimensioni, mezzi economici e sostanziosi ricarichi sui prezzi di distribuzione, ma anche in forza della crescente legittimazione che andava acquisendo il suo linguaggio specifico. Ma sprattutto, questo mondo ritagliò un nuovo spazio pubblico, spartendolo con onnipresenti catene di negozi, promozioni di grandi marchi, cinema hollywoodiano. È quella che può essere definita la dimensione culturale del commercio, che oramai si poteva aprire a orizzonti di presenza inimmaginabili: la stampa, la via pubblica, la radio, il cinema, fino alla televisione, ai centri commerciali e a internet. In questo modo lo spazio commerciale non era più appannaggio dei regimi assolutisti, come accadeva nel Settecento, e non si limitava a colonizzare il solo tessuto urbano come nell'Ottocento; ora, nel Novecento, lo spazio commerciale penetrava nello spazio pubblico generale. Inoltre, la comunicazione pubblicitaria rendeva volutamente più labile la distinzione tra rivendicazioni politiche e scelte dei consumatori: in questo modo l'esigenza di vendere beni di consumo poteva essere presentata come una conquista sociale. 1. Dalle frontiere a un vasto impero Fin dagli anni Venti, la pubblicità di autovetture rappresentava l'avanguardia della promozione commerciale, in linea con la rapida globalizzazione dell'industria automobilisitica dopo la Prima guerra mondiale e con l'intenso marketing dei vari carburanti, lubrificanti, pneumatici, eccetera. La notevole avanzata all'estero delle due principali case automobilistiche, Ford e General Motors, ebbe l'effetto di lanciare le principali agenzie pubblicitarie statunitensi anche in Europa. La prospettiva di vendere quantitativi consistenti di auto in Europa era in realtà assai remota: lì esisteva già una consolidata produzione locale. Eppure nel 1926-27, le due gradi marche americane decisero di fare questo passo, sia sulla spinta della grande rivalità che le contrapponeva in patria, ma Ciò che queste pubblicità vendevano era il beneficio, non il prodotto: la luce in luogo della lampadina, il prestigio anzichè l'automobile, il sex appeal invece del sapone. In linguaggio era di tipo colloquiale, una via di mezzo tra formale e informale, autorevole senza essere accademico, intimo ma non paternalistico, sensibilmente democratico. Era questo lo stile del realismo capitalista che in questa sede verrà definito piuttosto "populismo capitalista", a ricordo di quell'etica democratica del populismo capitalista di cui si è parlato in precedenza, cui il mondo degli affati si era affrettato a togliere ogni afflato autonomo per ridurlo a una democrazia esteriore, d'apparenza, di mero riconoscimento dell'uguaglianza sul piano dei comuni consumi. In queste contrapposizioni era già racchiuda in nuce la distinzione che, cinquant'anni più tardi, il sociologo francese Pierre Bourdieu avrebbe operato tra "estetica popolare" ed "estetica delle elitè". Da un lato la gente comune che "si appassione agli intrecci logicamente e cronologicamente indirizzati verso un happy end e si riconosce di più nelle situazioni e nei personaggi disegnati in modo semplice, che non nelle figure ambigue e simboliche... all'origine di queste reticenze e di questi rifiuti non c'è solo una mancanza di familiarità, ma anche una profonda attesa di partecipazione, che la ricerca formale sistematicamente elude". Dall'altro le elite culturai, che credono nella rappresentazione mentre tendono "a mettere tra parentesi la natura e la funzione dell'oggetto rappresentato, perchè hanno avuto la possibilità per lo meno di prolungare molto avanti nel tempo... il rapporto con il mondo proprio dell'infanzia". Con grande disgusto delle elite europee, il mondo commerciale statunitense accentuava questa dicotomia schierandosi dalla parte dominata da interessi di emergenze quotidiane, qualla contraddistinta da un radicato bisogno di sentirsi partecipe. Il populismo capitalista riempiva insomma un vuoto: l'esigenza del grande pubblico di sentirsi consigliato e guidato, non solo riguardo alle caratteristiche dei vari prodotti ma anche sul gusto, sull'adeguatezza sociale e sulla soddisfazione di bisogni psicologici. Rivolgendosi a un pubblico non infinito, ma comunque vasto, quel tipo di comunicazione doveva usare un vocabolario abbastanza esteso da raggiungere una massa di consumatori di varia entrazione, e soprattutto le donne (ecco perchè tutti quegli sforzi fatti per raggiungerle). Posti di fronte a un pubblico ben più limitato, con minori risorse a disposizione e una scarsa pressione da parte della clientela, i pubblicitari europei avevano ottime ragioni di non voler adottare un codice di comunicazione che erano i primi a considerare eccessivamente didascalico, grossolanamente letterale, tecnicamente inadatto alla stampa europea e difficile da comprendere per chi non fosse pienamente alfabetizzato. Ma avevano ragioni non meno valide per sperimentare i metodi giunti dall'America, e non solo per reagire agli evidenti svantaggi della cartellonistica o del caos inserzionistico sulla carta stampata: quella sperimentazione li avrebbe legittimati come esperti in nuove forme di comunicazione di massa dino a quel momento inibite in Europa dalla diffidenza sociale e dall'incapacità di riconoscere una realtà emergente, quella delle comunità di consumatori, e ancor di più di interloquire con essa. Ma durante gli anni Trenta la logica americana finì comunque per essere universalmente accettata in Europa. Un buon numero di nuove agenzie ispirate ai modelli americani fu fondato da ex dipendenti di Jwt e altre, a seguito della loro ritirata dal Vecchio continente agli inizi del decennio. La clientela erano principalmente produttori che non sapevano se tagliare le spese o investire, di fronte alla volatilità del mercato. Prevalse la seconda opzione: si riconosceva nella pubblicità il potere non soltanto di attrarre nuovi clienti, ma anche di rendere trasparenti i prezzi, di promuovere la conoscenza di caratteristiche poco note ai dettaglianti, di spingere i consumatori a tenere il fiato sul collo ai commercianti. Insomma l'industria della pubblicità "all'americana" si presentò come un'invenzione salutare in un momento storico di disordine dell'economia, poichè riusciva a saldarsi tanto alla nuova domanda, quanto alla vecchia offerta, nell'equazione degli scambi. Quel genere di pubblicità piaceva poi ai giornali, rappresentando un incentivo a migliorare la qualità della riproduzione, la corenza della rappresentazione grafica e la standardizzazione dei formati, miglioramenti impossibili senza i consistenti investimenti delle agenzie. Ma il fattore più potente che spingeva a adottare lo stile testuale pubblicitario americano era l'esigenza di stabilire una comunicazione con il pubblico, soprattutto alle donne: "le donne riducono immediatamnte tutto al proprio aspetto, alla propria felicità, alle proprie simpatie", si disse. Quando anche i conservatori cominciarono ad affermare la necessità di una democrazia nella quale ognuno potesse riconsocersi, fu inequivocabile che in Europa stava arrivando una nuova "cultura di vita": "meglio vivere in un appartamento standardizzato, con tanto di caldaia, termosifoni e bagno piuttosto che in una catapecchia tutta charme e personalità ma priva di acqua calda, anche se fornita di stufe in cotto e di una vasca di zinco sistemata in cantina", scrisse uno di loro. 5. Il nuovo ordine nella pubblicità A fine anni Trenta la Germania nazista offriva l'ambiente più propizio, in tutta Europa, per la pubblicità in sitile americano. Questo imbarazzante paradosso può essere spiegato in parte con la decisione di Hitler, appena salito al potere, di muoversi in modo energico per porre fine alle condizioni caotiche imperanti, a suo dire, e per stabilire nuove prassi che possano fungere da modello per altri paesi. Decisamente abile nelle tecniche di propaganda e persuasione, nonchè implacabile nel porre i media sotto controllo, il nuovo regime diramò immediatamente un diktat di una pagina in cui si imponeva ai quotidiani di pubblicare dati precisi sulla loro diffusione, oltre alle tariffe per le inserzioni pubblicitarie. Fu inoltre fatto divieto di praticare sconti ai broker pubblicitari, così come si bandì ogni pubblicità che prometesse incentivi, premi e omaggi. In nome della "veridicità delle comunicazioni pubblicitarie", si proibirono i raffronti con altri prodotti, le asserzioni non dimostrabili e l'uso di qualsiasi testimonial senza menzionarne esplicitamente l'identità, senza citarne alla lettera le dichiarazioni con tanto di data e garantire che non vi fosse stata alcuna forma di compenso economico. Infine, il regime diede vita a un comitato pubblicitario che rispondeva direttamente al ministero della propaganda e dell'informazione, affiadto a Goebbels. Scopo dell'operazione era garantire la germanicità dei prodotti, evitando temini stranieri e non venendo mai meno al buon gusto. Nella misura del possibile, la pubblicità doveva descrivere le virtù del prodotto reclamizzato, anczichè illustrare i limiti della concorrenza. Con i successivi decreti fu bandita in toto la pubblicità radiofonica, furono standardizzati formati e tariffe pubblicitarie sulla stampa, e vennero varate severe norme per l'affissione di manifesti commerciali in luogi pubblici. In Gemania come all'estero, gli esperi convennero che la nuova legislazione varata dal Reich costituiva un modello per l'Europa intera. Ma il cambiamento più spettacolare avvenne nel mezzo pubblicitario in sè: un tempo nota come patria del manifesto sperimentale, essenziale fino alla brutalità, la Germania degli anni Trenta si rivelò la patria della comunicazione pubblicitaria verbosa. Al contempo, la sperimentazione tipografica, che aveva dato vita a numerosi caratteri di stampa, si vide distrutta dal bando imposto alla stampa in caratteri non gotici, avvantaggiando così l'uso americano, molto più eclettico in materia di design tipografico. CAPITOLO SESTO LO STAR SYSTEM Come lo spettacolo hollywoodiano ha sconfitto il cinema europeo Stando al racconto di Fritz Lang, l'ispirazione del film Metropolis gli venne nel 1924, quando vide per la prima volta lo skyline di Manhattan dal ponte della nave che lo aveva portato in America,. Nel corso degli anni il regista avrebbe ripetuto la storia di questa visione un'infinità di volte. Il racconto di Lang è tuttavia apocrifo, nel senso che già prima di imbarcarsi ad Amburgo egli accarezzava l'idea di creare un'epopea sui fasti e il potere dell'industrialismo moderno. Già da tempo sua moglie, nota scrittrice e sceneggiatrice, aveva cominciato a lavorare a una sceneggiatura ambientata in una città futuristica che affrontava il tema delle conseguenze apocalittiche provocate dalla civiltà meccanizzata. L'insistenza con cui Lang si ostinava a raccontare quella storia, tuttavia, era a suo modo sincera. Quasi ad affermare con orgoglio che lui, un Europeo, sarebbe stato in grado di rappresentare la creatività e la catastrofica capacità distruttiva della modernità capitalistica meglio di Hollywood, che anzi forse non avrebbe mai potuto farlo essendoci completamente immersa. Nelle sue parole risuonava insomma l'ambizione dei migliori registi della sua epoca, ovvero quella di stare al passo con i progressi compiuti dal cinema statunitense. Eppure l'idea di Lang non si sarebbe tradotta in una storia a lieto fine, nè tanto meno la fusione tra la tecnologia del visivo del Nuovo mondo e l'epica del Vecchio avrebbe saputo produrre una sinergia perfetta. In primo luogo perchè il regista si dovette scontrare con dei prosaicissimi conti, che non tornavano. L'intera impresa era costata più di 5 milioni di marchi, la somma più alta che fosse mai stata spesa in Europa per un film. Solo che, mentre negli Stati Uniti simili sforamenti di spese venivano compensate dall'intervento di banchieri dello studio system e da nababbi di Wall Street, in Germania non era così: anzichè risollevare le finanze dell'Ufa, la casa cinematografica produttrice, il film la stava mandando in bancarotta. In sencondo luogo, Land incontrò grandi difficoltà nella ditrubuzione del film. Intanto il pubblico cinematografico tedesco, benchè fosse il più folto d'Europa, non arrivava a un quarto di quello statunitense, e quindi per quanto imponente, il successo non bastò nemmeno a superare la metà dei costi. Inoltre il messaggio ambiguo, se non confuso, del film ne complicò l'immissione sul mercato. Sebbene affrontasse temi universali, ossia l'ingiustizia in tutta la sua arroganza, lo sfruttamento e il potere redentore dell'amore, Metropolis emanava la pungente ambivalenza che caratterizzava la cultura intellettuale della Repubblica di Weimar: la tecnologia era salvifica o disumanizzante, gli operai sfruttati erano giustamente ribelli o ingiustamente violenti, il potere imprenditoriale era genio creativo o pura tirannia, l'eroina una santa vergine o una diabolica sgualdrina, eccetera. Coloro che videro il film uscirono dalla sala perplessi: la destre perennemente ansiosa vi scorse il presagio della vittoria di qualche ideale comunista di fraternità, mentre la sinistra pensò che Lang fosse capitolato di fronte alle romantiche stupidaggini reazionarie della moglie. Nel 1927, quando la Paramount organizzò la prima del film, le sedici bobine originali erano state ridotte a dieci: l'intreccio era stato completamente stravolto. Il nuovo adattamento, svuotato del suo simbolismo, rendeva la trama tipicamente americana, ovvero chiara e continua, e dotata di un rassicurante lieto fine negli quale gli operai facevano la pace con il principale e il ragazzo tornava con la ragazza. Nella nuova versione, il film monumentale realizzato per esprimere la sinergia delle concezioni della modernità del Vecchio e del Nuovo mondo, cessava di esistere. I tre anni segnati dalle riprese di Metropolis avevano del resto posto fine all'illusione che potesse nascere un'interfaccia dinamica tra la cinematografia europea e quella americana. Verso la metà degli anni Venti, i tedeschi erano sicuri di possedere le risorse, il talento e la cultura cinematografica necessari per confrontarsi con i migliori film statunitensi; lo stesso pensavano anche gli statunitensi. Ora l'industria tedesca manifestava però evidenti segni di cedimento: oltre alla mancanza di capitali, anche la pedita di alcuni dei suoi più talentuosi protagonisti e la scomparsa dell'afflato cosmopolita la stavano rendendo sempre più vittima delle pressioni della concorrenza statunitense. In che modo Hollywood, termine con cui qui si intende il lungometraggio prodotto per il pubblico di massa, narrato in stile classico, realizzato essenzialmente in giganteschi studi cinematografici del sud della California, abbia sidato la civiltà commerciale europea è il tema di questo capitolo. Nessuna industria americana era più consapevole del proprio ruolo di veicolo capace di dettare le tendenze culturali internazionali, nessuna più impegnata nel soddisfare, capire, plasmare il gusto dei consumatori all'estero, nessuna più aggressiva nel rimuovere le barriere che ostacolavano la sua affermazione su altre realtà sociali. All'estero, del resto, nessun prodotto americano ebbe un effetto altrettanto dirompente. E non fu uno sconvolgimento di natura schiettamente economica: fu anche un terremoto culturale. Come prodotto al contempo economico e culturale il cinema americano superò i confini nazionali, sfuggì ai controlli politici, si infiltrò nelle comunità locali, si insinuò nella vita della gente, al punto di essere accusato di penetrare nell'inconscio, in particolare quello degli individui più vulnerabili, ovvero donne, giovani e bambini. Di fatto, nessun altro mezzo di espressione ha saputo articolare in modo altrettanto efficace il concetto che, per esercitare la piena sovranità sul suo territorio, una nazione debba possedere un'industria dello spettacolo ed esprimere con essa la propria identità nazionale. Non sorprende che il sistema cinematografico alternativo a quello ameicano fosse quello tedesco. Il merito spettava non soltanto alla vivacità della cultura tedesca dell'epoca o alla pressione della sua aggressiva economia di esportazione, ma anche al tentativo dei razionalisti tedeschi di ristabilire quell'egemonia culturale perduta nella Prima guerra mondiale. Per centrare l'obiettivo era necessario cogliere l'occasione offerta dalla comparsa dei mass media visivi e capitralizzare la centralità della cultura tedesca. Sulla scia di queste intenzioni, i nazionalisti tedeschi finirono per riconoscere nel cinema il cuore pulsante del potere nazionale. Tuttavia per concretizzare tale potenziale era anche necessario, per ragioni economiche, un mercato internazionale, ovvero non precludere l'accesso degli altri paesi alla loro cinematografia. Questa fondamentale necessità dell'industria culturale di massa, ossia di produrre un bene al contempo imbevuto di valori culturali nazionali ma al contempo in grado di esercitare un'attrazione internazionale, non interessava soltanto l'Europa ma anche gli Stati Uniti. E fu propio il modo in cui l'America fu in grado di soddisfare tale necessità a sancire la sua egemonia mondiale. 1. Il "sorriso quasi feroce" di Pearl White I primi film statunitensi furono riconsciuti per la prima volta come "americani" quando, durante la Prima guerra mondiale, fecero la loro improvvisa comparsa sul "fronte interno" europeo. A Parigi il poteta Philippe Soupault ne ricordò l'arrivo come il primo colpo di scena di una vera e propria rivoluzione mediatica: "il sorriso quasi feroce di Pearl White che scintillava nell'oscurità annunciava a rivoluzione, l'inizio di un nuovo mondo". Doveva essere il 1916, perchè quello fu il periodo in cui l'esportazione dei film americani in Europa si impennò, sfruttando la fase di ristagno della produzione locale: da un giorno all'altro sugli schermi vennero proiettati la serie con protagonista il sorridente e impettito Charlot, prodotta da Chaplin, e lo scabroso melodramma di De Mille I prevaricatori. Fino ad allora il leader indiscusso dell'industrializzazione cinematografica mondiale era stato la Francia, che a lungo fu il produttore più prolifico del mondo. Traendo beneficio dalle tecnologie dei fratelli Lumiere e dalla fanasia di George Melies, le sociatà francesi, la Phatè in primis, approfittarono del vasto e ricettivo pubblico delle grandi città, di investitori benestanti, dell'enorme impreo e delle condizioni consentite dal libero commercio per fondare case di produzione capaci di assorbire i temi e le tecniche dell' intera industria cinematografica. Il sistema hollywoodiano classico invece, dopo alterne fortune, emerse definitivamente soltanto durante la Prima guerra mondiale, quando i produttori nazionali, conquistato il mercato interno soprattutto grazie alla popolarità di un nuovo genere quale il western, presero a farsi concorrenza in base alla qualità delle loro opere. Nel corso dei primi due anni del conflitto, grazie alla prosperità statunitense, il film standard in programmazione divenne quello ad alto budget, destinato a un pubblico di massa. Anche lo star system si sviluppò come una forma di "marca" legata agli attori più popolari, non appena gli studi si accorsero che erano loro i volti e i corpi a garantire la fedeltà del cliente. Mentre le case di produzione si garantivano vincolando per contratto gli attori a una serie di film, i settori del marketing gonfiavano l'interesse per i loro personaggi, proprio come le agenzie pubblicitarie davano "personalità" a prodotti di massa come le lamette Gillette e le macchine Kodak. Nulla di ciò sarebbe stato possibile, naturalmente, senza le economie in scala che cosentivano enormi investimenti in salari, assistenti e promozione, e tanto meno senza che gli attori autorizzassero il sacrificio sia della loro privacy borghese sia lo stile di vita eccentrico tipico dell'artista/genio per promuovere la loro celebrità. In termini di lavoro pratico, il sistema hollywoodiano contemplava un'elevata specializzazione dei compiti, pianificazione del lavoro, standardizzazione della produzione. In conclusione, al termine della Prima guerra mondiale, per i beni culturali di massa lo studio system rappresentava ciò che il fordismo aveva rappresentato per i beni durevoli di consumo globale. Soprattutto l'industria cinematografica americana uscì dalla guerra con una marcia in più per espandersi all'estero. Nell'ultimo anno del conflitto era stata creata la Division of Films, il cui compito era non soltanto quello di promuovere le pellicole, ma anche, nel contesto della guerra, quello di concedere all'industria cinematografica il supporto finanziario necessario per sconfiggere i suoi rivali europei: patriottismo aggressivo e pragmatismo imprenditoriale. Del resto Wilson sul cinema aveva detto: "un mezzo di grande portata per la diffusione dell'intelligenza pubblica e, poichè parla un linguaggio universale, un mezzo perfetto per presentare i progetti e i propositi dell'America. La capacità economica dell'industria cinematografica di portare a termine tale missione crebbe poi notevolmente quando il Congresso varò la legge Webb-POmerene: tale industria fu il maggior beneficiario di tale legge, e ne rimane ancora oggi il sostenitore più affezionato. Protetta da un simile supporto commerciale e ricca di capitale, all'inizio degli anni Venti l'industria cinematografica statunitense investì molto all'estero, moltiplicando gli uffici di vendita diretta, insinuandosi nelle case cinematografiche di altre nazioni, corteggiando i talenti per persuaderli a trasferirsi a Hollywood e mettendo a punto acute strategie di marketing come il block booking, che poneva alle scale locali la consizione di accettare l'intero pacchetto di film del distrubutore, inclusi quindi non solo i film adatti a questo o quel mercato, ma anche quelli che si prospettavano fiaschi. Infine, dettaglio ancora più importante, quella miriade di relazioni rafforzava la capacità del settore di creare una cultura transnazionale del gusto allo stesso modo in cui aveva creato una cultura cinematografica tutta americana. Infatti, così come doveva persuadere il pubblico di casa che i suoi prodotti erano innoqui se non addirittura di grande spessore morale, allo stesso modo doveva anche convincere i governi stranieri, i comitati per la censura, i gruppi cattolici o di altre religioni e le varie istituzioni civili e poliche all'estero che i suoi prodotti erano moralmente inoffensivi e ideologicamente neutrali. Dalla metà degli anni Venti in poi, da parte delle case di produzione fu esercitata una pressione sempre più elevata su coloro che partecipavano alla realizzazione dei film: questa strategia consentì però alla società americana di eludere le insidie della censura governativa, che erano di norma nelle altre parti del mondo. Quello straordinario esercizio di estetica e autoregolamentazione morale, strumento meno rigido e più intelligente della classica censura, in quanto comunque basato sulla negoziazione e non sull'arbitraria imposizione, si concretizzò poi nel celebre Codice Hays, ovvero i Production Codes, i regolamenti che stabilivano il contenuto morale della produzione (si l'amore per il focolare domestico, la famiglia, i figli, la devozione a un essere supremo, il piacere del gioco e dello sport e la fedeltà patriottica; no il sesso, la prostituzione o altri vizzi, rendere odiosa la virtù e attraente il vizio, eccetera). Il cinema americano inaugurò un mondo che andava a stimolare profondamente i sensi e le senzazioni ma che era camuffato da vita di tutti i gionni: non c'erano convenzioni sociali per cui non mostare l'oggetto di uso comune nel film. Il punto però non è che la visione di quei beni superflui aumentasse il desiderio di comprarli, come se fosse pubblicità pura e semplice. Essa consolidava piuttosto una nuova economia fondata sul desiderio di avera maggiori dettagli, più punti di vista. In tal senso, l'attrazione per il cinema americano assomigliava al piacere che davano la prosaicità della pubblicità americana, la spettacolarità della merce sistemata sugli scaffali dei supermercati, e il realismo letterario sfruttato ad arte per mettre in mostra le abitudini di vita dell'uomo medio. 2. La difesa culturale In che modo potevano difendersi le industrie cinematografiche europee dall'assalto del sistema americano? Le industrie cinematografiche europee si inserivano in un ordine culturale molto più complicato rispetto a quello degli Stati Uniti. Nel pieno degli anni Venti le elite europee ancora discutevano se il cinema dovesse essere trattato come forma di spettacolo, arte, mezzo di istruzione o di propaganda. Nè avevano deciso se il prestigio nazionale potesse aumentare grazie a un'industra cinematografica forte o ridursi a causa di una mediocre. Inoltre, poichè il cinema attirava imprenditori e artisti ebrei, la considerazione negativa che ne avevano le elite era spesso rafforzata da un sentimento antisemita. La cultura europea del cinema era poi impregnata dai movimenti artistici contemporanei (espressionismo, surrealismo, neorealismo): tale vicinanza la sottoponeva ai caprici delle mode intelletuali, ma anche alla persecuzione politica, per cui spesso i cineasti se ne andavano a Hollywood. Ancora: il pubblico europeo era molto inferiore rispetto a quello statunitense: nel 1930, a fronte delle 18 mila sale americane, in Francia ce n'erano 2400. Per finire, proliferavano le piccole case indipendenti, spesso legate a un unico film, e congeniali alla conformazione imprenditoriale del paese, le quali, a prescidere dalle qualità artistiche e artigianali, non avevano un'organizzazione di settore efficace, e di conseguenza non potevano esercitare alcuna influenza sul circuito di distrubuzione. Il caso francese è emblematico. Oltre ad avere tutti questi problemi, il cinama francese sul piano legale era ancora regolamentato da leggi simili a quelle imposte durante l'ancien regime al teatro, sulla base dell'idea che questa e altre forme di spettacolo sarebbero degenerate nel disordine se non sottoposte a dei vincoli governativi. Quelle disposizioni erano però state abrogate a partire dalla metà dell'Ottocento, per cui il teatro godeva da tempo di esenzioni fiscali e sussidi. Il cinema invece non ancora. Ebbene, nel 1926 il governo francese decise finalmente di definire un cinema nazionale. La cosiddetta commissione Herriot (lo stesso che aveva fondato la fiera di Lione) si prefissò due obiettivi: offrire al cinema gli stessi diritti legali di cui godeva il teatro, operazione che significava CAPITOLO SETTIMO IL CITTADINO CONSUMATORE Come gli europei si sono trasformati in liberi consumatori La Spagna fu l'unico paese europeo inizialmente escluso dal piano Mashall. Fino a quando Stalin non riufiutò l'offerta, anche l'Unione Sovietica era stata dichiarata idonea ai sussidi, ai crediti e agli appovvigionamenti che il governo statunitense aveva cominciato a inviare nel giungo del 1948. La Spagna era stata esclusa perchè la dittatura di Franco, ormai ben insediato, continuava a essere considerata uno "suqallido derivato del nazismo". Su tale esclusione si concentra la trama di un intero film, intitolato con evidente ironia Benvenuto, Mister Maschall!, e girato nel 1952 da Luis Berlanga. Il film si ispirava a un fatto realmente accaduto, ovvero la missione in Spagna del generale Spry, che nel 1951 aveva perlustrato il paese in cerca di basi militari per difendere l'occidente dall'Unione Sovietica. Berlanga satireggiava la Spagna e il suo servile accattonaggio nei confronti degli americani per ottenere il loro aiuto economico; aiuto che alla fine era arrivato con il Mutual Security Act. Questo film riesce in modo canzonatorio, laddove i documenti scritti falliscono, a raccontare un'Europa che si ritrovava faccia a faccia con la colossale prodigalità americana. Ovvero: le fantasione aspettative che suscito il piano, secondo le quali gli europei avrebbero presto raggiunto lo standard di vita americano; le nuove alleanze strette in nome del consumator, messe in moto dalla politica della Guerra Fredda e dominate dal capitale culturale ed economico degli Stati Uniti; ma anche il viaggio travagliato che la maggior parte della gente intraprese nei successivi vent'anni, partendo dalle rovine del regime di consumo borghese per arrivare a gettare alla bell'e meglio le fondamenta di quella che anche in Europa diventò dagli anni Sessanta la "società dei consumi". Qualsiasi studio sulla sfida che la cultura americana dei consumi americana dei consumi lanciò alla civiltà commerciale europea non può fare a meno di individuare una delle chiavi di risposta nel piano Mashall. Ma il punto che si vuole sottolineare con chiarezza in questa sede è che il piano non fu nè il primo nè l'ultimo tentativo fatto per definire lo standard di vita più adeguato all'Europa del dopoguerra. C'erano svariate alternative, perchè il problema cominciava a emergere in termini completamente diversi rispetto al passato, man mano che in tutta Europa nascevano coalizioni riformiste capaci di argomentare politicamente il diritto a uno stile di vita decoroso. Il primo segnale di questo profondo cambiamento nelle aspettative degli europei fu il rapporto Beveridge, pubblicato nel 1942, quando ancora al governo c'era Churchill. Il rapporto propose il primo modello di quello che i contemporanei chiamavano eloquentemente welfare state (stato assistenziale) in contrapposizione al warfar state (stato di guerra). Esso elencava cinque giganteschi "mali sociali" - malattia, ingnoranza, oziosità, squallore e indigenza -, che tormetavano i britannici, e suggeriva una vasta gamma di rimedi: servizio sanitario nazionale, piena occupazione, istruzione pubblica secondaria, sussidi per la casa, assicurazione statale per la malattia, disoccupazione, eccetera. Il rapporto Baveridge ispirò i successivi trent'anni le linee guida dei governi britannici, sia conservatori che laburisti, ma anche di molti altri governi europei: se il nome di Baveridge non divenne il nome di uno stile di vita per tutto il mondo civilizzato fu soltanto perchè gli Stati Uniti offrirono un'alternativa più persuasiva, nel quadro dello stile di vita americano. Sebbene ovunque si respirasse un generale malcontento di fronte alle imposizioni legate al periodo bellico, e specialmente il razionamento di generi alimentari, abbigliamento e carburante (che in molti paesi durò fino al 1951), nessuno aveva la certezza che la gente, posta di fronte alla scelta tra garanzie minime di sicurezza sociale e nuovi flussi di beni di consumo, avrebbe automaticamente optato per la seconda alternativa. Allo stesso modo, nessuno poteva dare per scontato che i governi, davanti alla scelta di fornire garanzie sociali oppure varare riforme strutturali basate sulla deregolamentazione dei mercati avrebbero optato per quest'ultima possibilità. Insomma, la guerra aveva fatto piazza pulita del vecchio regime di consumo, senza tuttavia creare necessariamente i presupposti per una civiltà del benessere plasmata sul modello americano, con la sua fiducia smisurata nella tecnologia, il suo chiassoso materialismo e la sconfinata brama di progresso, qualunque fosse il prezzo sociale. Il riformismo sociale europeo, che nel dopoguerra aveva trionfato un po'ovunque nell'Europa occidentale, sconfiggendo la destra reazionaria ma anche i partiti liberalisti, continuava infatti a operare in base a un'eredità diversa da quella americana: l'impulso solidaristico, che aveva mostrato il suo lato più bieco sotto il dominio del nuovo ordine nazista, rivelava ora le sue tendenze ampiamente progressiste. Non a caso, la maggior parte dei capi di governo decise di affrontare il problema del mercato nei modi suggeriti da Keynes, ovvero sfruttando le risorse statali per stimolare la rispresa economica all'interno del proprio mercato nazionale, anche allo scopo di promuovere la piena occupazione. Così come, per far fronte alla diseguaglianza sociale, si decise di abbracciare la nuova ortodossia sociale, secondo la quale non era al mercato che si doveva affidare per risolvere il problema: toccava al governo rendere più paritario il potere d'acquisto dei cittadini. Fu per questa via che le società europee giunsero ad abbracciare il concetto di "cittadinanza sociale". La rivoluzione dei consumi degli anni Cinquanta va quindi intesa come il risultato di uno scontro tra la nuova visione eruopea del cittadino sociale e la concezione americana del consumatore sovrano. Ciascuno dei due modelli rispondeva in modo diverso sia alla questione del tenore di vita più elevato sia a quella dei beni e dei servizi da privilegiare per ottenerlo. Il modello europeo riteneva che i tenori di vita più elevati fossero un diritto sociale, si appoggiava all'intervento statale per ridurre le disuguaglianze nell'accesso ai consumi ed era fortemente condizionato da valori solidaristici, insiti nelle sottoculture politiche, religiose, locali. Il modello americano, sull'onda del boom economico di quegli anni, confidava che fosse il mercato a espandere i consumi e ben accoglieva la proliferazione di nuove identità legate agli stili di vita che si identificavano con il consumo di massa statunitense. I conumatori- cittadini europei che nacquero da questo conflitto erano quindi ibridi: "i figli della Coca-Cola e di Marx, come ebbe a definirli Jean- Luc Godard, la cui prima generazione, nata nel decennio dopo la guerra, raggiunse la maggiore età negli anni Sessanta. Una generazione combattuta tra le lotte sociali e il desiderio di soddisfazioni private, tra lo Stato e il mercato. Il fatto che le idee solidaristiche tradizionali europee, nel dopoguerra, si identificassero sempre di più con il socialismo riformista, l'ideologia marxista e la pianificazione sovietica, trasformò le differenze tra l'una e l'altra parte dell'Atlantico da un tiro alla fune sulle politiche economiche da adottare a un fronte primario del conflitto tra superpotenze. Quindi, la linea tracciata dalla Cortina di ferro si trasformò in un lungo fronte su cui si combratteva per determinare quale dei due sistemi esaudisse in modo più efficace le promesse di uno standard di vita migliore. Sul piano della cultura materiale, i due mondi erano distanti come Duluth lo era da Dresda all'inizio del secolo. 1. Benvenuto, Mister Marshall! Se lo si considera il fulcro della travagliata trasformazione dell'europa in società dei consumi, il Piano Marchall va valutato non tanto per il contributo finanziario che seppe dare alla ricostruzione europea quanto piuttosto per le condizioni che impose all'elargizione degli aiuti. Nel complesso, per sfatare il mito, le somme che vennero effettivamente spese in Europa sotto forma di crediti, sussidi e forniture sono oggi considerate irrisorie rispetto agli investimenti interni dei singoli paesi (pari al 5 per cento del capitale totale maturato negli anni della ripresa). Il principale scopo dei pianificatori statunitensi era impedire che i politici europei, ancora memori della Depressione, ripegassero sull'intervento statale e sul protezionismo economico: ciò a cui si mirava era costruire un'Europa industrializzata capace di autosostentarsi, compatta e unificata, e pienamente integrata nell'economia mondiale dominata dagli Americani. Per essere ancor più chiari, il piano Marshall non fu fatto concepito allo scopo di creare un'Europa di consumatori: in prima istanza fu ideato per far fronte alla penuria di dollari che impediva ai fornitori europei di acquistare prodotti statunitensi e minacciava di bloccare la ripresa. La seconda priorità fu quella di incentivare investimenti nelle industrie e nelle infrastrutture, e non certo nelle pensioni, nei salari, negli alimenti o nella ricostruzione delle abitazioni. Detto tutto questo, si capisce perchè il piano Baveridge fosse la bestia nera del Piano Marshall. In sostanza era necessario convincere gli europeo ad accettare cio che Charles Maier ha chiamato la "politica della produttività", e per farlo occorreva che gli uomini d'affari abbandonassero la loro convinzione malthusiana secondo cui una produzione massiccia, basata sull'introduzione dei principi fordisti e sulle ultime novità americane in materia di tecnologia, avrebbe generato un eccesso di offerta seguito da una depressione. Lo scoglio più arduo era superare la resistenza degli operai, spaventati per ciò che il cambiamento dei sistemi di produzione avrebbe richiesto: disoccupazione, intensificazione dei ritmi di lavoro, cronometraggio e il tanto detestato pagamento a cottimo. Lo scotto richiesto dagli americani, quindi, fu la riduzione dell'autonomia dei sindacati e il ripristino delle gerarchie di fabbrica. E infatti, come condizione per concedere aiuti, gli americani premettero per l'estromissione della sinistra dalle coalizioni di governo. Non solo: tesero a imporre un modello sindacale centrista, che avrebbe minato la compattezza del movimento sindacale europeo, e avrebbe tacitamente chiuso un occhio sul lincenziamento di operai militanti. Al fine di creare un mercato di massa che servisse di base a una cooperazione intraeuropea, fu esercitato un enorme potere politico ed economico, e le aspettative del consumatore rispetto a un tenore di vita più elevato non furono soltanto rinviate, ma anche considerevolmente ridotte. Basta guardare ai dati sui livelli di consumo attorno al 1950: quelli americnai erano stati incrementati del 70 per cento negli ultimi dieci anni, quelli europei del 3. Per i consumatori della classe meno abbiente, le priorità d'investimento stabilite dal piano Marshall per la comunità atlantica erano altrettanto rigide quanto quelle imposte dai piani quinquennali sovietici. Tuttavia l'ostilità verso norme più elevate di consumo dovettero durare poco. Nel 1951, quando con il calo dell'inflazione, il decollo delle industrie di base e la ripresa del commercio esplosero le proteste operaie nell'Europa occidentale, i pianificatori americani cominciarono a dire che il piano Marshall era stato concepito per combattere i comunisti: ecco che ora occorreva aumetare i fondi destinati ad alloggi, ospedali, scuole, eccetera. Frattanto, per convincere l'Europa occidentale del fatto che i benefici a lungo termine della nuova cultura di mercato avrebbero compensato i costi a breve termine, i pianificatori misero appunto alcune strategie mirate di marketing di massa. Tra queste, la realizzazione di circa duecento film in slile documentario il cui filo conduttore doveva essere non la fantisticheria popolare, ma un solido realismo. Le sceneggiature invocavano fiducia in un progresso graduale, non l'aspettativa di gratificazioni istantanee, attenzione ai bisogni concreti anzichè a modelli utopici, fiducia nelle tradizioni europee, anzichè imitazione dei modelli sociali stranieri. Fu proprio questo il messaggio, ben studiato, di The story of koula. Il messaggio era: il piano Marchall ha l'obiettivo di produrre non un tenore di vita elevato in quanto tale, bensì le tecnologie, le procedure e le informazioni necessarie a ottenere un po' più di benessere. Le aspettative per il futuro debbono attingere alle tradizioni locali, e guai a chi volesse confondere queste ultime con lo standard totalmente estraneo provieniente dal modello americano (!). 2. Le guerre del nylon Nel momento in cui il suo ex nemico storico, la civiltà mercantile europea, capitolava a combattere contro il nuovo nemico, il collettivismo sovietico, il grande dilemma dell'impero del mercato era se l'egemonia di una grande potenza mondiale potesse basarsi soltanto sui banali principi del progresso materiale. Gli americani non avevano alcun dubbio che il proprio tenore di vita fosse superiore a quello altrui, nè sul fatto che le alternative alla libertà di scelta, a uno standard di vita elevato e alla democrazia fossero coercizione, privazione e dittatura. D'altro canto, fondare una grande poterza su basi fragili come le soddisfazioni derivate dai beni di consumo di massa era problematico. Storicamente, la guerra vuol dire sacificio. Invece, a partire dagli anni Cinquanta, l'insieme delle elite statunitensi promise un "capitalismo del popolo", un sistema in grado di muovere una guerra totale pur continuando a garantire livelli di consumo sempre più elevati. A differenza del Vecchio continente, gli americani avevano le capacità indutriali di fornire al contempo armi e alimenti. I dubbi comunque non mancavano. La civilità occidentale (come ormai veniva definita l'area nordatlantica), basata sulla monotona opulenza dei consumi di massa, era anche una societa per cui andava la pena lottare in termini di valori? Come si poteva dimostrare che la convinzione dei sovietici di aver messo in moto la ripresa grazie a strumenti che garantivano sia l'uguaglianza sia il benessere fosse priva di significato, quando vaste regioni europee e del mondo non solo non riuscivano a raggiungere gli standard di vita proposti dall'occidente, ma erano anche sempre più arretrati? Come si poteva dimostrare che il cosiddetto consumatore sovrano era davvero sovrano e che la società dei consumi di massa non paralizzava le capacità politiche e critiche dei propri cittadini? In The Naylon War il sociologo David Riesman colse l'essenza del dilemma di una nazione la cui egemonia poggiava sul morbito guanciale della ricchezza materiale. A una prima lettura il suo saggio satirico sembra un peana per la risoluzione pacifica dei conflitti. L'esercito statunitense viene elogiato per aver preso la decisione di "bombardare" l'Unione Sovietica con i propri beni di consumo nella convinzione che "se autorizzati a provare le ricchezze statunitensi, i russi non tollereranno più padroni che hanno dato loro carri armati e spie anzichè aspirapolveri e saloni di bellezza". Sotto il nome di "Operation Abundance", i primi raid aerei lanciano sul territorio sovietico 200 mila paia di calze di naylon, quattro milioni di pacchetti di sigarette, 10 mila orologi da polso, eccetera. I russi ricambiano con la propria "generosità aggressiva": barattoli di caviale, pellicce finte e copie dei discorsi di Stalin. Il bombardamento culmina quando le forze americane sganciano un massiccio carico di ricetrasmittenti, grazie alle quali i sovietici possno richiedere che venga loro lanciata merce specifica, come se ordinassero da un catalogo. Dopo la proclamazione della vittoria americana, il governo totalitario passa dalla produzione di armi a quella di alimenti. Riesman iniziò quindi ad approfondire una teoria che avrebbe poi proposto per la prima volta nel famoso libro "La folla solitaria": secondo tale teoria, le classi medie americane, che un tempo erano state un popolo sano, orientato verso l'interno e guidato da un giroscopio morale interiore sotto l'influenza correttiva del consumo di massa erano degenerate in individui orientati verso l'esterno, e guidati dal radar esteriore degli impulsi conformisti. Questa malleabilità li aveva resi sensibili all'atteggiamento militaristico dei mass media e fanatici della Guerra fredda. Se guerra doveva essere, meglio combatterla attraverso il gioco dell'Operation Abundance piuttosto che vacillando sull'orlo di una catastrofe nucleare. Più concretamente, gli Stati Uniti ufficiali risposero alla sfida di fodare una grande potenza sulla democrazia del consumo mettendo a punto una serie di strategie non esattamente nuove, ma coordinate con maggiore efficacia che in passato. Il primo passo fu di contrapporre la libertà del consumatore e la ricchezza della Comunità atlantica alle economie chiuse e ai bassi standard delle società sovietiche collettivistiche. Fondendo poi il diritto a un tenore di vita più elevato con gli altri due valori fondamentali della crociata anticomunista, democrazia e libertà, la propaganda dichiarò che l'Unione Sovietica rappresentava il nemico acerrimo non solo perchè totalitaria e anticapitalista, ma anche perchè la mancanza di scelta di cui soffrivano i consumatori era la prova dell'assenza di libertà. La capacità economica dimostrata dall'Urss attirava comunque grande ammirazione, e gli americani seguirono da vicino ogni passo compiuto dai russi dopo la morte di Stalin per competere nella corsa al tenore di vita migliore. Uno dei primi risultati di questo passaggio fu il radicale cambiamento dell'approccio ufficiale verso le fiere commerciali. Per esempio la grande fiera di Lipsia si trasformò in un'esposizione della pianificazione economica (la città era nella zona sovietica): sotto la gestione della Repubblica Democratica, assunse un'importanza sempre maggiore la parte meccanica, con le sue dinamo, il suoi trattori e le sue apparecchiature idrauliche. Per dimensione e visibilità, la manifestazione eclissava la feneranda fiera campionaria; una volta tornati a casa, gli acquirenti raccontavano con entusiasmo le conquiste della ricostruzione socialista. Uno sviluppo preoccupante. Immediatamente si rafforzò infatti la determinazione del governo Eisenhower di costruire una rete feristica alternativa, lanciando un'azione immediata e vigorosa per dimostrare la superiorità dei prodotti e dei valori culturali statunitensi. Mentre le fiere sovietiche mettevano in mostra il potere della pianificazione, le fiere americane esponevano l'eclettica democrazia materiale del mondo contemporaneo: riproduzioni di grandi magazzini e ranch, mostre di arte astratta, concerti jazz, proiezioni Cinerama, sfilate di moda, eccetera. Nel 1960 il dipartimento del commercio organizzò 97 fiere in 29 paesi, illustrando a più di 60 milioni di visitatori lo stile di vita di una nazione in cui il governo sembrava praticamente inesistente e la libertà veniva mostrata come un diritto astratto, ma propagandata come la libertà concreta di compiere scelte selezionando tra una miriade di spettacoli e di prodotti. Tali confronti, rafforzati da statistiche e sodaggi sui rispettivi standard di vita, divennero presto la norma. Soprattutto, la politica americana esercitava pressioni perchè le aree che l'esercito statunitense aveva occupato dopo la guerra, il Giappone ma in particolar modo la Germania, diventassero vetrine della democrazia del consumo. In generale il cosiddetto Occidente doveva diventare una grande area di consumo, tenendo il passo con i tassi di crescita sovietici: in questo modo avrebbe potuto indebolire se non addirittura distruggere il fascino esercitato dal comunismo. A sua volta, un migliore tenore di vita avrebbe smentito la propaganda comunista sulla decandenza dell'Occidente e avuto un effetto magnetico sulle popolazioni satellite. Affichè l''Europa occidentale in particolare si traformasse in vetrina della democrazia del consumo, doveva soddisfare tre condizioni: in primo luogo rinunciare irrevocabilmente alle sue tradizioni mercantilistiche aprendo i propri mercati; in secondo luogo i poteri imperialisti (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda e Portogallo) dovevano prendere le distanze dalle proprie colonie se non abbandonarle del tutto; in terzo luogo, si doveva riorganizzare il commercio per favorire gli Stati Uniti. Perciò furono gli stati dell'Europa occidentale quelli uniti sempre più saldamente all'Atlantico bianco, e inclini alla vocazione di potenze di secondo piano, ovvero quella di garantire il progresso materiale dei propri cittadini: da quel momento la competizione tra le nazioni si sarebbe misurata non più in termini di armi, estensione territoriale o ricchezza dell'impero, ma in base ai dati comparativi sul prodotto nazionale lordo, tassi di inflazione, spese sanitarie e per il tempo libero, presenza di automobili, lavatrici e televisori. Inoltre, non va dimenticato il terrore diffuso che potesse verificarsi un conflitto nucleare su territorio europeo: questo rese ancora più automatico lo spostamento dei paesi europei occidentali sotto l'ombrello di protezione americano. Il "lieto evento" si verificò nel 1953, quando un umento improvviso dei consumi personali rese chiaro che il consumatore avrebbe rivestito un ruolo sempre più importante nell'economia europea. La brusca impennata della domanda ebbe l'effetto di riorientare il sistema di distrubuzione verso il mercato monoclasse che aveva consentito ai produttori americani di dedicarsi ai sistemi di produzione di massa dei primi anni del Novecento. Il mercato monoclasse, che nessuno aveva previsto sarebbe comparso così all'improvviso, fu determinato da quattro fattori fondamentali: la piena occupazione; l'aumento degli stipendi reali dei lavoratori, reso possibile dalla crescita della produzione; la riduzione delle differenze di reddito fra più ricchi e più poveri a causa dell'inflazione e delle imposte sul reddito; l'aumento dell'assistenza sociale legata allo statalismo assistenziale. A tutto ciò va aggiunta la guerra di Corea, che, diversamente dalle due guerre globali del Novecento, non interessò in modo diretto il continente europeo: durato dal 1951 al 1953, il conflitto frutto ai produttori e consumatori europei gli stessi profitti che avevano futtato le guerre globali agli statunitensi. La domanda di armamenti superò infatti la capacità produttiva degli Stati Uniti, e l'urgenza di soddisfare tale bisogno generarò un aumento dell'occupazione europea che, a sua volta, generò un aumento del potere d'acquisto. Per non parlare delle richeste di beni di consumo dei paesi non impegnati sul fronte di guerra: in questo la Germania federale, che non poteva ancora produrre armi per scopi miliari, fu la maggiore beneficiaria di questa situazione. Così ciò che rimaneva del grande impero tedesco, l'unica potenza che nei primi decenni del secolo era stata capace di ancorarsi a un mercato di matrice europea e di proporzioni continentali e, al contempo, di creare un concetto di cultura di mercato alternativo a quello americano, fu integrato nell'area occidentale per diventare il cuore di quel commercio transnazionale incentrato sulle esportazioni indispensabile allo sviluppo di un mercato regionale di massa. Sconfitta, la parte occidentale dell Germania ridimensionava le proprie pretese culturali abbracciando con equanimità, sotto i governi Adenauer (1949-1963), il principio che il benessere si fondava sull'aumento dei consumi individuali. 3. Abbattere le barriere, uniformare le differenze Cosa significò il progresso della società dei consumi di massa dal punto di vista della storia della società europea e della sua politica? Nei primi anni Sessanta il sociologo Pierre Bordieu fu tra i primi a chiedersi quale impatto avrebbe avuto il consumo sulle classi sociali, dedicandosi nei successivi dieci anni alla ricerca di nuove "distinzioni" sociali generate dalla ridistribuzione del capitale culturale, mentre i consumatori potevano scegliere tra una gamma sempre più abbondante e variegata di beni e servizi. Venticinque anni dopo avrebbe risposto: "la figura del conumatore deve essere concepita in relazione a una serie di cambiamenti che non sono puramente di ordine economico, anche se il suo sviluppo coincide senza dubbio con la crescita in quantità e varietà dei beni di consumo e con l'accesso da parte di nuovi gruppi sociali a prodotti e servizi che fino a quel momento erano riservati a un pubblico più ristretto". Diversamente dalla tradizionale egemonia politico-economica o culturale, la nuova elite delle celebrità modellata dal consumo e dal pubblico di massa era priva di potere decisionale, e tuttavia oggetto di discussione, interesse, ammirazione, imitazione e affetto collettivo. In quanto celebrità, non erano all'apice della società in nessun senso convenzionale: pertanto potevano attirare l'ttenzione senza provocare invidia di classe nè risentimenti e senza stimolare, a differenza delle vecchie elite, tipici modelli gerarchici di nuove imprese commerciali, i grandi movimenti popolari che diedero vita al fenomeno dell'urbanizzazione su larga scala, le donne che lasciavano la casa per il lavoro in fabbrica o in ufficio, e ancora la diffusione di standard alimentari più elevati. 3. Fare la spesa all'italiana Tuttavia, le statistiche sul settore alimetare italiano effettuate una decina di anni dopo rivelarono un percorso meno linare. Nel 1971, gli italiani destinavano ancora appena il 2 per cento del proprio bilancio alla spesa al supermercato, contro il 14 per cento dei Francesi, il 32 per cento dei tedeschi e il 56 per cento degli americani; l'Italia contava ancora solo di 538 supermercati, contro ai 1800 francesi e ai 2000 tedeschi. Boogart fu sorpreso di scoprire che nel circondario di Milano i clienti abituali destinavano meno del 10 per cento del proprio bilancio all'acquisto di prodotti alimentari nei supermercati. Disse: "se fossi uno psicanalista, direi che i clienti hanno una sorta di mania che noi non riusciamo a capire". Il modo migliore per identificare questa mania consiste nel precisare che la spesa non è solo questione di prezzi bassi, ma anche di valori. Quando Boogart cercò di immaginarsi che cosa motivasse i consumatori italiani, il suo modello era la casalinga americana, la Signora Consumatrice: salda amministratrice del reddito familiare, appartenente al ceto medio, pienamente autonoma e libera da condizionamenti sociali, politici e culturali. Il problema era che tale modello non aveva nessun corrispettivo esatto nella casalinga europea di quegli anni. Quella italiana, la massaia, era fortemente modellata sulla sua classe di provenienza. C'era per esempio il problema dell'irregolarità degli stipendi: in generale le casalinghe non ricevevano una somma fissa per la spesa, e dovendo riservare buona parte del bilancio al cibo, spesso risolvevano il problema ricorrendo al credito presso i piccoli commercianti e saldando mensilmente. Per questo erano ancora molto legate ai negozi locali, così come i negozi erano legati a loro. Il secondo fattore che determinava il loro attaccamento alle vecchie abitudini era la tradizione. Per esempio cambiare abitudini alimentari richiedeva una qualche forma di autorizzazione collettiva, convalidata dal capofamiglia. Era noto che il supermercato stimolasse l'impulso a comprare non solo le novità ma anche prodotti che non erano stati messi sulla lista della spesa. I negozianti e i clienti continuavano a comportarsi in base al venerando concetto di giusto prezzo, di pari passo con quello di giusto profitto: i clienti vivevano vicino ai negozianti, e li consideravano persone come loro, che lavoravano e avevano bisogno di soldi per mantenere le famiglie. C'era poi, oltre alla possibilità di chiedere credito, qualla di sostituire la merce, ricevere consigli, fare un po' di pettegolezzi, eccetera. Questo tipo di servizi rientra nella categoria delle "economie of locality", come le definiscono gli economisti. D'altro canto i supermercati, soprattutto all'inizio, non davano informazioni sui prodotti: la gamma di scelte era talmente ampia da disorientare, e la spesa poteva rivelarsi dipendiosa in temini di tempo (capire qualità, prezzo e peso del prodotto) e di denaro (se l'acquisto si rivelava sbagliato). L'altro servizio che i supermercati non offirvano era la consegna, che invece era fornita gratis praticamente da tutti i piccoli commercianti, o meglio da quegli aiutanti non pagati che nei supermercati non potevano esserci (si dovevano assumere lavoratori iscritti ai sindacati). Le donne erano legate ai servizi offerti dai commercianti locali poichè di norma non uscivano dal perimetro delimitato del proprio quartiere. Di conseguenza, benchè i rincari fossero notevolmente alti, li pagavano perchè non vedevano alternative; inoltre temevano che andando a fare la spesa altrove, i negozianti locali sarebbero falliti, incidendo in modo negativo sul complessivo benessere del quartiere. CAPITOLO NONO UNA SIGNORA CONSUMATRICE MODELLO Come i beni di massa si sono impossessati dello spazio domestico Nel marzo 1968 ebbe inizio la più grande campagna di marketing mai condotta in territorio francese. Nelle settimane successive centinaia di donne assunte da Procter & Gamble, il principale produttore statunitense di prodotti per la casa, forte del maggio budget pubblicitario del mondo, avrebbero bussato alla porta di ogni singola casa francese in tutte le cità che contavano più di 2 mila abitanti. Il loro compito sarebbe stato promuovere Ariel, "il primo detersivo per lavartrici al mondo a base di enzimi". Questo genere di episodi era verificato infinite volte nell'arco degli utlimi sedici anni, ovvero dal 1952, quando la Uniliver lo aveva fatto per la prima volta con Omo, altro detersisvo per lavatrici. Alla svolta del decennio, la televisione di stato avrebbe aperto le porte della pubblicità. Era stata la "rivoluzione del bucato", formula in cui si condensavano il gergo iperbolico del marketing in stile americano e una delle parole chiave impiegate dalla politica occidentale per riassumere in un'unica espressione i tumultuosi sconvolgimenti che avevano interessato la vita materiale di quegli anni. Insieme con altre evidenti tendenze, come il rapido ingresso delle donne nel mondo del lavoro, le nuove abitudini d'acquisto introdotte dai negozi self-service e dai supermercati e da un trattamento più equo delle donne nella società, quei cambiamenti diedero il colpo di grazia all'organizzazione domestica propria del vecchio regime di consumo. La casa del moderno consumatore, così come si definì in Europa negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, era allestita secondo uno standard comune, diffuso, e schiettamente occidentale. Contro gli stili di vita del passato, differenziati a seconda della classe sociale, della zona, della residenza e dell'area geografica di appartenenza, il governo, l'imprenditoria, i creatori di tendenza e i consumatori si impegnarono a stabilire uno standard "medio" di consumo familiare. Sul paino economico, il nuovo standard comune serviva a diffondere la produzione industriale di serie su vasta scala; a livello sociale, creava un maggiore senso di coesione nazionale, accomunando diversi ceti sotto medesime norme di vita; in temini di dialettica di generi, aveva lo scopo di dimostrare che il lavoro domestico delle donne era degno della stessa considerazione di altri tipi di attività; in termini culturali, garantiva un nuovo tipo di democrazia basato sul comune accesso ai beni. Il nuovo centro operativo della casa era la cucina, dove si trovava tutto il blocco degli elettrodomestici: fino negli anni Sessanta fornello, lavatrice, aspirapolvere, mixer automatici, macinacaffè; negli anni Settanta lavastovoglie e televisore; negli anni Ottanta forno a microonde, tostapane, pentola a pressione, friggitrice. Regina della cucina e padorna di casa dei tempi moderni, la Signora Consumatrice, ora anche europea, che lavorava da sola o con i suoi servitori elettrici, e il cui compito principale era mediare tra le contrastanti esigenze che gravavano sul bilancio familiare, bombardato dalle miriade di nuovi prodotti lanciati sul mercato. La rivoluzione del bucato ispirò tre svolte di rilievo. In primo luogo, rappresentò un importante cambiamento delle tecnologie applicate alla pulizia dei vestiti. Prima di quella rivoluzione il bucato era in assoluto il lavoro domestico più pesante, dispendioso e malsano: sostanzialmente, bisognava fare tutto a mano, dal lavaggio in enormi mastelli, allo stiramento con pesanti ferri da stiro a carbone. La seconda svolta fu quella di attribuire un nuovo significato alle faccende domestiche femminili, dimostrando che era possibile demandarlo alle macchine e dargli un valore diverso: il tempo una volta impiegato per il bucato, le donne potevano ora trascorrerlo per esempio al lavoro, guadagnandosi la propria indipendenza. Questo nuovo approccio consentì loro anche di impadronirsi gradualmente della qualità indispensabili per diventare consumatrici modello, quali il buon gusto, la competenza, e le capacità di pianificazione, oltre all'abilità di misurare il proprio benessere familiare in relazione alle consuetudini di consumo dei vicini, delle comunità e della nazione. La terza e ultima svolta fu quella di conferire un carattere confortevole e casalingo a quella cultura della sicurezza che si era appena affermata in Europa occidentale e che mostrava ora i suoi pregi su diversi fronti: nelle famiglie si manifestò sotto forma di un tenore di vita decoroso che riduceva la precarietà del quotidiano; a livello nazionale fu garantita dallo stato sociale, che diminuì i rischi connessi con il vivere in una società induatriale; sul piano internazionale, prese forma grazie ai legami della Comunità atlantica, che aveva il compito di impedire il ritorno della guerra sul territorio europeo. La stessa assimilazione del catastrofico linguaggio militare e rivoluzionario ("lanci", "mobilitazioni", "campagne" per la conquista del mercato) al lessico convenzionale della cultura del consumatore transatlatico è la prova semantica del fatto che le tragedie del passato erano state esorcizzate. 1. Le guerre dei detersivi La vera guerra dei detersivi scoppiò all'inizio degli anni Cinquanta quando i tre produttori leader mondiali (Unliver, Procter & Gamble, Colgate-Palmolive), francesi, si fecero una concorrenza senza esclusione di colpi sul continente europeo per espandere e dividere il mercato dei detersivi in piena fioritura. All'inizio degli anni Settanta, i detersivi erano diventati indispensabili per le faccende domestiche quanto il carburante lo era per le auto. Come il mercato dei prodotti petroliferi in generale, anche il mercato dei detersivi era altamente concentrato. I tre massimi produttori controllavano, all'incirca, l'80 per cento del mercato continentale. Come qualsiasi altro prodotto la cui vendita fosse legata al riconoscimento del marchio, anche per i detersivi il marketing era un'operazione commerciale indispensabile e da effettuare adottando un approccio aggressivo e scientifico, nonchè investendo delle somme consistenti. Negli anni Settanta queste tre aziende spesero più soldi in pubblicità a mezzo stampa di qualsiasi altra azienda francese, eccetto Renault, la casa automobilistica nazionalizzata. Entro la fine del decennio, i tre colossi erano ricorsi a ciascuna delle ventidue tecniche di vendita della vendita contemporanea (2x1, omaggi, concorsi premi, eccetera). Sugli scaffali dei piccoli negozi i detersivi rubarono presto il posto degli alimentari, mentre nei supermercati finirono per occupare un'intera corsia: erano il perfetto articolo civetta, nel senso che la dirigenza li acquistava in grandi quantità rivendendoli quasi a prezzo di costo, in modo da indurre il consumatore ad acquistarne molti; la perdita sarebbe stata recuperata con la vendita di altri prodotti sui quali venivano applicati rincari elevati. Ormai, alla fine del decennio Sessanta, i detersivi erano diventati il prodotto più emblematico del nuovo regime di consumo. Secondo Roland Barthes, i detersivi sono un ottimo esempio del processo attraverso il quale le tendenze che nella società del consumo non sono affatto naturali diventano ovvie, tanto che nessuno ne riconda più l'origine. Un fatto che convalida la sua teoria è che nella Germania occidentale dei primi Cinquanta, "Persilscheine" (letteralmente, "pulito Persil") era diventata l'espressione colloquiale che indicava il certificato di buona condotta che i cittadini ottenevano durante i processi di denazzificazione ("Persil fa diventare bianche le camice marroni dei nazisti). 2. Gli ambasciatori Sarebbe comunque estremamente fuorviante intendere la rivoluzione europea del bucato, o di qualsiasi altro cambiamento nelle abitudini quotidiane, come un effetto provocato dall'introduzione di una nuova tecnologia o dal lancio sul mercato di nuove marche, americane o meno. Nessuna istituzione è più legata alle consuetudini e a un luogo come la famiglia. Il cambiamento nelle pratiche del bucato, così come quello di altre abitudini della vita privata (alimentazione, educazione, vita sessuale, svago, eccetera) è stato profondamente condizionato da radicate tradizioni nazionali, locali, e soprattutto familiari, e si è evoluto in modo lento e irregolare, e si è articolato in forme diverse e imprevedibili sotto la pressione di diversi fattori e di ostacoli insidiosi. Seguire i tortuosi percorsi attraverso i quali i modelli americani di abitazione e di casalinga si imposero nelle case europee richiede alcune brevi considerazioni sul ruolo rivestito dalla donna e dall'uomo nella missione globale americana e sulla divisione del lavoro tra i due sessi caratteristica degli Stati Uniti. Nella tradizione dell'imperialismo empatico di Wilson furono gli uomini, con la loro vocazione di venditori-diplomatici, a diffondere la concezione statunitense di prosperità e libertà. Che gli americani si fossero dimostrati così persuasivi dipendeva dal solido ordine che regnava nella loro madrepatria e che, a sua volta, era dovuto alla solidità della casa americana e alle eccezionali capacità sociali delle donne. Emancipate, ben istruite e abituate a gestire la propria famiglia, le donne avevano orientato le abidutini di consumo nazionali in un senso preciso: meno spese per l'alimentazione e l'abbigliamento, più spese per gli elettrodomestici, l'istruzione, la salute e il tempo libero. In certa misura, quella felice divisione del lavoro tra i sessi informava tutte le convenzioni sociali della cultura del consumo di massa: i Rotary club avavano assorbito qualche tocco di femminilità, ad esempio l'ethos del servizio e la cortesia; le strategie di vendita, di marketing e di pubblicità mettevano alla prova la propria efficacia rivolgendosi al pubblico femminile; il sostema hollywoodiano ruotava attorno al carisma delle sue dive, eccetera. Il riltato fu che, dapprima riconsocendo nel consumatore il più importante attore sociale, e poi identificando tale consumatore nella donna, l'impero del mercato statunitense strinse un'alleanza speciale con le donne degli altri paesi. Precursore del "femminismo come stile di vita", si rivolgeva soprattutto alle giovani, parlando del sollievo dalle fatiche domestiche, dell'amore romantico, di prodotti significativi come le calze di nylon, il trucco e i blue jeans, e delle tecniche per il controllo delle nascite. Gli eruopei conoscenvano questa figura femminile, grazie ai viaggi e alle visite in Europa degli imprenditori e dei diplomatici americani che, in occasioni quali ad esempio i congressi del Rotary, erano regolarmente accompagnati dalle mogli, ambasciatrici in seconda, la cui competenza, il cui sostegno, la cui alacrità, nell'inserirsi e nel capire le abitudini locali in tema di spese e di gestione delle altre faccende domestiche, le portavano a eclissare il marito, di cutlura meno sensibile alle novità e alle altrui abitudini locali. Che, malgrado ciò, fosse lei ad accompanare lui, era una prova palese della supremazia del marito. Dal punto di vista europeo, l'eccessiva dipendenza della coniuge americana avrebbe potuto passare inosservata; invece, fin da quando la cultura statunitense varcò le frontiere negli anni Venti, si scatenò il panico per le eventuali trasformazioni nei ruoli sessuali che avrebbe potuto produrre. Diversamente dalle figure femminili coltivate negli imperi europei, la cui sensualià poteva essere tenuta a debita distanza, le donne del Nuovo mondo, con le loro "menti puritane e corpi pagani" erfano fisicamente entrate nell'immaginario europeo da tempo. Quaratacinque anni prima che nell'episodio girato da Fellini in Boccaccio '70 la tipica star americana Anita Ekberg scendesse da un cartellone pubblicitario gigantesco, il seno generoso strizzato nel vestito, ed esortasse gli italiani a "bere più latte", soffisticati parigini come Soupault erano stati sedotti dal "feroce sorriso" di Pearl White, per esempio. Mano a mano che diventava impossibile recuperare il potere maschile sui campi di battaglia, l'eros femminile americano si rivelava sempre più inquietante. Per Denis de Rougemont, scrittore svizzero di fama, la sconfitta dell'amore cavalleresco era coerente con il catastrofico declino dell'Europa. Questi si rammaricava del fatto che il culto dell'amore passionale avesse ormai avuto la meglio sull'amore romantico, che la sensibilità cedesse al volgare sensazionalismo, che i grandi poemi epici soccombessero ai nuovi miti hollywoodiani. Ed era il matrimonio, un contratto firmato, sigillato e santificato dalla sistemazione della famiglia nella casa ben attrezzata, a segnare la morte della passione. Gli europei avevano imparato a convivere con questa disillusione grazie a piccoli sotterfugi e a un raffinato senso del peccato e del perdono; gli americani invece cercavano soluzioni più trasparenti, la più comune delle quali era il divorzio. Con la sua solita perspicacia, Toqueville aveva affontato il tema con grande incisività già verso la metà dell'Ottocento. Le ragazze americane, e i giovani americani in genere, erano avvantaggiati dalla libertà d'espressione, frutto di un costante mutamento dei consumi che dava modo alla cultura giovanile di rinnovarsi di continuo. D'altro canto, quel medesimo mutamento continuo le costringeva, una volta diventate mogli e madri, a focalizzare tutte le proprie forze sulla famiglia, per proteggerne il destino. Unendosi in matrimonio per assicurarsi un futuro, donne e uomini negoziavano le reciproche funzioni con una precisione quasi contrattuale, come se si trattasse di una collaborazione professionale. Nella quale ciascuno dei due coniugi apportava un capitale di pari importanza ma di diversa forma. Il vincolo che ne risultava sottoponeva la donna a obblighi inconsueti, e tuttavia le conferiva uno status di cui in nessun altro ambito poteva godere. "In questa superiorità delle sue donne risiede la causa principale della straordinaria prosperità e della crescente potenza di questa nazione", concludeva Toqueville. Benchè sia improbabile che avessero letto Toqueville, un folto gruppo di riformatori, e di femministe, europei, individuarono nella famiglia americana un alleato per la realizzazione di una società dei consumi bene ordinata. Di conseguenza, gli Stati Uniti erano visti da un lato come la principale fonte dell'esplodere dell'emancipazione femminile, di una volgare ostentazione della sessualità e di un becero romanticismo, dall'altro come il modello di una nuova realtà domestica caratterizzata da nuclei familiari più piccoli e più lontani da altri parenti, da una conoscenza tecinca costantemente aggiornata, da buoni elettrodomestici, e dalla presenza dell'esperta Signora Consumatrice, colonna portante della famiglia. Per le femministe europee il modello americano rappresentava la meta più ambiziosa. Madeleine Cazamian, femminista francese, dopo essersi recata in diverse case americane dove aveva osservato il comportamento a tavola di ogni singolo membro della famiglia, concluse che gli americani avevano "abbandonato i ruoli naturali": tutti davano una mano, come se la famiglia avesse stipulato un contratto per la divisione del lavoro, assegando a ogni membro il compito più ideoneo (la madre cucinava e serviva, il padre e i figli lavavano i piatti, eccetera). Gli elettrodomestici permettevano di trasformare la fatica quotidiana delle faccende domestiche in un lavoro più efficiente, a prescindere da chi lo svolgesse. Riorganizzato in base ai modelli americani, l'arretrato spazio privato della vita familiare gestito dalle donne non sarebbe più stato separato dal moderno ambito pubblico dominato dagli uomini. Insomma, in una parte del mondo, l'America, le donne sembravano essere state liberate dagli "obsoleti vincoli dell'autonegazione femminile". 3. La scoperta della cucina Terminata la Seconda guerra mondiale, i piani per la ripresa si trovarono di fronte alla situazione di mostruosa disuguaglianza vigente in Europa. Il modello abitativo che per decenni aveva ospitato la stragrande maggioranza degli europei era obsoleto e l'attrezzatura a disposizione della casa cosisteva di relitti dei tempi preindustriali. Nel 1948 in Francia, per esempio, il 96,2 per cento dei 39 milioni di cittadini viveva in alloggi che mancavano delle più elementari comodità moderne, ovvero bagno interno, acqua corrente, riscaldamento e tubature del gas, rispetto a un limitato 23 per cento di statunitensi che vivevano nelle stesse condizioni. Che gli Stati Uniti dettassero lo standard in tutta Europa era ormai scontato. Tuttavia una quindicina di anni dopo tale standard dettava legge anche in Europa, e a metà degli anni Ottanta cominciò ad esercitare una certa influenza anche nell'Europra dell'est. Le ragioni di tale mutamento sono molteplici, complesse e legate tra loro. La più importante era probabilmente legata al fatto che l'enorme domanda di unità abitative comunciò a essere più o meno soddisfatta grazie alla massiccia costruzione di nuove case che esigevano le nuove attrezzature. Anche altri fattori ebbero un ruolo importante: anzitutto, il potere d'acquisto degli operai aumentò grazie all'innalzamento degli stipendi, del contenimento dell'inflazione e della diminuzione dei prezzi degli elettrodomestici; sempre più donne trovavano impiego nel settore industriale o terziario, trovandosi a loro volta a percepire il salario; diventò possibile ottenere crediti per l'acquisto di beni durevoli di consumo; e infine in tutta l'area eruopea si diffuse l'idea che non possedere i beni che ormai tutti consideravano indispensabili per vivere secondo lo standard minimo di comodità era motivo di emarginazione sociale. 4. Libere di scegliere Il marketing di massa era un catalizzatore importante in questo movimento sociale. Chiaramente l'obiettivo finale dell'azienda erano le vendite. Gli addetti al marketing potevano calcolarne la percentuale di crescita, ma era difficile stabilire con precisione quale fosse la strategia, il fattore o l'approccio che ne determinavano l'aumento. Più sistematica era la pubblicità, più forte diventava il rapporto tra azienda e consumatrice e più la consumatrice incrementava le sue capacità di acquisto, anche se non necessariamente a beneficio della fedeltà del marchio. Quando i detersivi a base di enzimi non furono più una novità, per esempio, diventò difficile capire quali fossero le proprietà che distinuguevano una marca dall'altra. Più le campagne di marketing puntavano sul riconoscimento del marchio, più le consumatrici trattavano i detersivi come prodotti "naturali", che non richiedevano alcuna speciale lavorazione per essere sviluppati, come se fossero sale, latte o farina. Diffidenti nei confronti di quelle pubblicità che non attestassero reali proprietà innovative in un prodotto, le consumatrici compravano quello che costava meno, proprio come facevano per gli articoli di prima necessità. Questa crescente fiducia in se stessa della consumatrice emerse dalle nuove immagini proposte dalle campagne pubblicitarie per attrarre i consumatori. Nel 1972 l'agenzia Dupuy-Compton organizzò una campagna per la Ariel, introducendo una figura tutta nuova, Madamme Perignon: attenta e sveglia madre della classe operaia che, con le mani appoggiate sul carrello della spesa, parlava a nome della sua famiglia, mentre il marito, in abbigliamento casual e con il figlioletto in braccio, stava a guardare. Ormai esperta, allontanava bruscamente il venditore che cercava di andare contro gli interessi della sua famiglia e di abbindolarla offrendole un 2x1 di un altra marca. Madamme Perignon non si fidava più ciecamente neanche della madre: la mamma diceva che la Ariel era la migliore, ma lei doveva provare per credere, doveva giudicare da sè. Così aveva provato l'efficacia del prodotto sulle macchie di
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