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Riassunto L’italiano: strutture, comunicazione, testi, Sintesi del corso di Linguistica

Riassunto dettagliato per esame

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto L’italiano: strutture, comunicazione, testi e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! Linguistica italiana contemporanea – Riassunti. Capitolo 1- Norma e variazione. 1.1 Norma e italiano standard. Mentre l’italiano letterario scritto è stato portato all’eccellenza nel XIV secolo da Dante, Petrarca e Boccaccio, l’italiano da usare in tutti i registri della comunicazione scritta e parlata si è fatto molto tardi. Il processo di italianizzazione linguistica ha iniziato a farsi più intenso a partire dall’Unità, accelerando poi dopo la seconda guerra mondiale grazie a diffusori come i giornali, la radio, il cinema, la tv e all’innalzamento del livello di istruzione scolastica. La secolare presenza dei dialetti (alcuni ancora presenti) ha lasciato tracce nella realizzazione parlata della lingua. L’italiano di chiunque risente del suo retroterra dialettale per quanto riguarda intonazione, pronuncia, morfosintassi (di meno) e nel lessico (regionalismi, geosinonimi, geoomonimi). Ognuno parla il suo italiano regionale nel quale sono presenti dei tratti locali, che non mettono in discussione l’unitarietà del modello. Nello scritto invece le differenze sono minime o nulle, perché il concetto di italiano “standard”, di difficile estensione agli usi parlati, appare legittimo se applicato agli usi scritti. Norma: Insieme di regole che riguardano tutti i livelli della lingua (ortografia, fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità) accettato da una comunità di parlanti/scriventi in un determinato periodo e contesto storico-culturale. Non è quindi qualcosa di immutabile, ma cambia con il tempo e in base a nuovi contesti sociali, politici e culturali. E’ la manifestazione concreta, in una determinata fase storica, del sistema linguistico dell’italiano, inteso come insieme di regole potenziali della lingua, non necessariamente poste in essere. Es. Morfologia verbale: desinenza -uto per il participio passato dei verbi in -ere. C’è quindi ripetuto ma non competuto, perché pur essendo compatibile con il sistema verbale dell’italiano non è ammesso nella norma dell’italiano contemporaneo. Potrebbe diventarlo per analogia. Dicendo competoso invece violeremmo le regole del sistema, perché non è previsto che un participio passato possa avere il suffisso -oso. L’italiano ha una norma non sempre univoca (francese e spagnolo si); è una lingua polimorfa per il retaggio della frammentazione politica e del policentrismo linguistico. Esempi di oscillazione. 1. Apocope vocalica facoltativa (bicchier/bicchiere d’acqua). 2. Possibile alternanza di col/con il (pel/pel il solo virtuale). 3. Duello tra lui/egli, lei/ella, loro/essi come pronomi soggetto di terza persona + recente affermarsi di te come pronome soggetto insieme a tu. 4. Pronome dativale gli esteso alla terza persona plurale e alla terza singolare femminile. 5. Pronome allocutivo plurale voi o loro. 6. Dimostrativo codesto che si può sostituire a questo (ormai solo in Toscana) in alcuni contesti burocratici. Negli usi scritti è vitale la forma tale. 7. Sia essere che avere come ausiliari dei verbi servili davanti a verbi intransitivi (ho/sono dovuto partire). Ci sono oscillazioni anche in campo fonetico (pronuncia/pronunzia), morfologico (ha piovuto/è piovuto) e sintattico (ccordo del participio con l’oggetto, vi ho visto/visti uscire). Nella norma attuale non solo italiana c’è incertezza per i nomi femminili di cariche pubbliche o professioni che per secoli sono state appannaggio di soli uomini e solo di recente hanno visto la partecipazione di donne. Ci sono diverse soluzioni (ministro, ministra, la ministro, la ministressa anche se è visto come scherzoso o spregiativo). L’uso individuale della lingua può essere più o meno osservante della norma, violando la quale spesso si ottengono effetti comici o più espressivi. Può essere violata dall'alto chi conoscendo l’italiano ne forza volutamente le regole (come degli scrittori “irregolari”) o dal basso per un’imperfetta conoscenza della norma per un’istruzione scolastica modesta. L’italiano standard è la varietà che tende a far aderire l’uso individuale alla norma. Alcuni caratteri: - Conoscenza sicura di ortografia ed interpunzione (punteggiatura e segni paragrafematici, come lineette, caratteri speciali etc). - Padronanza della morfologia flessiva verbale e nominale. - Padronanza dei processi di formazione delle parole. - Conoscenza della microsintassi (reggenze preposizionali etc). - Uso corretto degli elementi coesivi e connettivi nei collegamenti sintattici e testuali. - Capacità di usare tutte le proposizioni e regolare i rapporti tra principali e secondarie. - Buon dominio della testualità (capacità di costruire testi coordinando e subordinando adeguatamente le proposizioni). - Buon dominio del lessico con conoscenza e padronanza di ampi settori del vocabolario intellettuale, astratto, letterario, tecnico-scientifico. - Uso appropriato di sinonimi, iperonimi, iponimi, antonimi. Nel parlato le infrazioni alla norma sono di più e più tollerate ma è importante la conoscenza e l’uso dell’intero inventario fonologico anche se nel parlato meno sorvegliato ci possono essere deviazioni. 1.1.1 Norma prescrittiva e norma descrittiva. In linguistica la norma prescrittiva/esplicita fa riferimento all’insieme di regole relative ai diversi livelli linguistici che concorrono a definire la varietà di prestigio, cioè l’italiano standard, e che individuano gli usi linguistici corretti. E’ la norma codificata nelle grammatiche e dai soggetti normatori che possono cambiare nel corso delle epoche (prima letterati, ora mass media e carta stampata che può diffondere usi linguistici diversi da quelli insegnati a scuola). Il linguista Eugenio Coseriu ha introdotto un concetto di norma che rimanda alla media delle realizzazioni linguistiche individuali, cioè gli usi linguistici verso i quali i parlanti convergono senza che siano stati affermati da una particolare autorità. Mentre la norma prescrittiva è codificata da strumenti di riferimento, la norma descrittiva/implicita comprende gli usi reali della lingua e riflette il comportamento linguistico della maggior parte dei parlanti. Non sono perfettamente allineate, dei fenomeni della norma descrittiva (accolti dai parlanti) possono essere censurati dalla norma prescrittiva. Es. preferibile diàtriba, ma tutti usano la variante diatrìba per una tendenza a porre l’accento sulla penultima o per influsso del francese diatribe. Es. redarre è censurato dalla norma prescrittiva (modellato su altri verbi con il participio in -atto come astrarre) ma è molto usato anche nello scritto, al posto di redigere. Il conflitto spesso si configura come una tendenza della norma implicita a percorre soluzioni attuate dalla norma esplicita. E’ bene attenersi alla norma prescrittiva almeno negli usi formali fin quando non si imporrà la forma della norma descrittiva. 1.2 Repertorio e varietà dell’italiano. L’italiano standard è il registro più elevato dell’italiano. Repertorio: in sociolinguistica (branca della linguistica che studia il rapporto/condizionamenti tra linguaggio e società) è l’insieme delle risorse linguistiche a disposizione di una comunità linguistica. Possono essere altre lingue, i dialetti e le varietà di una lingua. Varietà: Effettive realizzazioni di una lingua, calata in una concreta situazione comunicativa. La nozione di lingua è astratta perché la fisionomia dipende da diversi fattori che condizionano la Nei contesti formali le differenze di pronuncia si riducono, ma in quelli rilassati sono evidenti. L’etichetta di italiano regionale è quindi un’astrazione, perché ne esistono diverse realizzazioni (da quella più vicina allo standard a quella vicino al dialetto) condizionate da età, istruzione, professione, quartiere, zona di residenza, e anche dal dialetto sottostante anche se ha dei tratti indipendenti. Ci sono cinque italiani regionali principali, che a loro volta possono essere divisi in sottovarietà: settentrionale, toscano, mediano, sardo, meridionale. Distinzioni tra italiano regionale e italiano comune (in scala di marcatezza): - Prosodia e intonazione (accento). Si riconosce un milanese, romano etc dalla curva melodica del suo parlato. La parodia linguistica verte infatti soprattutto su fenomeni intonativi e di pronuncia, non lessicali o sintattici. Questo aspetto non interessa la lingua scritta. - Il lessico evidenzia gli aspetti idiosincratici che caratterizzano anche se minimamente gli italiani regionali. Il lessico regionale ha geosinonimi (sinonimi su base geografica: cocomero, anguria), regionalismi (voci con diffusione limitata ad alcune aree geografiche anche se possono risalire all’italiano comune) e geomonimi (vocaboli che a parità di forma hanno significato diverso nelle diverse aree geografiche). Spesso il geosinonimo che tende a imporsi su scala nazionale è quello settentrionale, essendo l’italiano settentrionale considerato oggi la varietà più prestigiosa. I geosinonimi stanno diminuendo per l’espansione dell’italiano comune, che impone soluzioni lessicali unitarie. Diverse voci regionali risalgono nell’italiano, soprattutto a livello meno formale, con o senza connotazioni espressive (dal nord infreddatura, da Roma pennichella). La regionalità oltre che nelle singole creature è contenuta negli usi fraseologici, a volte più pregnanti e marcati localmente (Roma dritto per dritto, Sicilia dare una mano d’aiuto) ma queste sequenze hanno per lo più usi regionali e non tendono a penetrare nell’italiano comune. - Tratti morfosintattici. La coloritura regionale è minore. L’italiano settentionale usa mica assoluto nelle negazioni (mica vero) e verbi sintagmatici (con un avverbio a precisarne il significato, prendi su la spesa) e predilige l’uso del passato prossimo anche per eventi remoti. La varietà toscana usa la forma impersonale al posto della prima persona plurale (tratto idiosincratico). La varietà romana ha usi perifrastici marcati regionalmente (che+ verbo + a fare, stare a+ infinito) e il che pleonastico introduttore di domanda (che me la dai..). L’italiano meridionale usa verbi intransitivi come transitivi (scendi la valigia) e l’accusativo preposizionale (chiamo a Mario). Il sardo us la posposizione dell’ausiliare nelle interrogative (capito mi hai). 1.2.3 L’italiano dell’uso medio. Attorno al 1980 Francesco Sabatini individuò la varietà di italiano dell’uso medio, cioè una lingua particolarmente ricettiva dei tratti del parlato ma in grado di essere usata sia nel parlato sia nello scritto di media formalità. Negli stessi anni considerando tratti simili Berruto definì un nuovo italiano neostandard. La differenza tra italiano dell’uso medio e regionale è che il primo ha una diffusione panitaliana, non limitazioni di tipo areale. Anche l’italiano conobbe così un conguaglio fra lingua scritta e parlata, ponendo fine alla divaricazione tra le due modalità di comunicazione. E’ come una rivincita del parlato nei confronti della lingua scritta di stampo letterario. Sabatini elencò 35 tratti riguardanti la fonologia, morfologia e sintassi della frase semplice e di meno il lessico e la sintassi della frase complessa. Questi tratti erano in gran parte già presenti nella tradizione fiorentina, poi oscurati dalle grammatiche scolastiche (interpretazione troppo restrittiva della norma). Un esempio sono le frasi marcate (segmentate e scisse). Oggi sono molto diffusi ed il parlato di media formalità è più sciolto ed aperto ad accogliere tratti guardati con sospetto dalle grammatiche. Questo riguarda anche i testi scritti teatrali o fortemente emotivi (diari, blog, murali). Ilaria Bonomi ha indagato diversi tratti prima nella stampa e poi nella lingua della narrativa: - Lui, lei, loro soggetto. - Ciò pronome dimostrativo in via di sparizione. - Gli pronome dativale unificato. - Alternanza di che/cosa/che cosa come pronomi interrogativi. - Prevalenza di che su quale come aggettivo interrogativo. - Presente pro futuro. - Alternanza passato remoto-passato prossimo. - Indicativo al posto del congiuntivo in proposizioni dipendenti. - Concordanze a senso. - Uso di che polivalente, ossia come giuntore generico. Oltre all’italiano regionale e dell’uso medio c’è quello popolare, ossia prodotto da persone dialettofone che avevano una conoscenza scarsa o nulla della lingua nazionale per un’alfabetizzazione incerta e discontinua. L’istruzione ha quasi annullato questa varietà, mentre è da rivedere la ricaduta nell’italiano delle interferenze con le lingue degli immigrati. Ogni lingua di cultura indipendentemente dall’evoluzione di vicende storiche, sociali e politiche è sempre al centro della dinamica tra azione centripeta della norma e azione centrifuga delle diverse varietà che la animano. Parte 1- Le strutture. Capitolo 2- Fonologia, grafia, ortografia. Fonosintassi: Fenomeni fonologici che caratterizzano l’incontro tra parole nel corpo della frase. 2.1 Foni, fonemi, allofoni, coppie minime. La fonologia è la disciplina che si occupa di descrivere il funzionamento dei suoni di una data lingua. I foni sono entità fonetiche concrete, i suoni come vengono prodotti materialmente dall’apparato fonatorio umano. I fonemi sono classi di foni in senso astratto, che hanno un valore distintivo e che sono in grado di differenziare due parole anche se non sono portatori di significato. Questa distinzione è confermata dalla prova di commutazione nelle coppie minime (parole che divergono per la presenza di un suono) come cane e cane, vénti e vènti. C e p, è e é sono fonemi perché concorrono a distinguere il significato nell’ambito delle coppie minime. Se due foni occorrono nello stesso contesto dando luogo ad una coppia minima, sono in distribuzione contrastiva e quindi sono fonemi. Se la commutazione non determina una parola diversa, il suono sostituito non ha carattere distintivo; è un fono, non un fonema. La r moscia (uvulare) e la r vibrante alveolare non compaiono in coppie minime in italiano e quindi i due suoni sono allofoni, cioè realizzazioni foneticamente diverse di uno stesso fonema. Gli allofoni possono essere in variazione libera (il parlante stabilisce per lo più inconsapevolmente quale allofono realizzare senza cambiare il significato della parola o che sia irriconoscibile) o in variazione combinatoria (un suono può essere realizzato in maniera diversa a seconda del contesto fonetico, la n nasale prima di una vocale è diversa da una n prima di una consonante velare come in angolo). Nell’IPA (alfabeto fonetico internazionale) i fonemi si segnalano tra basse oblique (trascrizione fonematica) e i foni tra parentesi quadre (trascrizione fonetica). I suoni che in italiano hanno statuto di foni, in altre lingue possono essere fonemi e partecipare alla formazione di coppie minime; lo spagnolo ha due fonemi per la r, la monovibrante e la polivibrante. Anche nei vari sistemi fonologici dialettali ricorrono fonemi sconosciuti all’italiano. Nei dialetti settentrionali gallo-italici esistono le vocali turbate (o procheile perché pronunciate con un arrotondamento delle labbra) come la /y/ del milanese lüna. I dialetti emiliano-romagnoli conoscono anche un suono intermedio tra a ed e aperte (naes, sael). Nei dialetti settentrionali un elemento fonologico distintivo è rappresentato dalla lunghezza delle vocali, con coppie minime nel riminese (mela, e lunga mela e breve mille) e bolognese. 2.1.1 Fonemi dell’italiano. L’italiano ne utilizza 30, 45 se si considerano anche le realizzazioni intense dei fonemi consonantici come /t:/. I due puntini indicano la realizzazione intensa del fonema. Ci sono quindi 7 vocali in posizione tonica, 2 semivocali/semiconsonanti e 21 consonanti, di cui 15 possono avere realizzazione intensa. Vocali: Sono suoni che vengono prodotti senza che nella cavità orale l’aria che esce dai polmoni incontri barriere. Sono gli unici fonemi che in italiano possono avere l’accento. 0 2 5 BLe toniche sono: una vocale centrale /a/, tre palatali o anteriori, / / aperta, /e/ chiusa e /i/, tre velari 0 2 5 4o posteriori, / / aperta, /o/ chiusa, /u/. L’articolazione è rappresentata dal trapezio o triangolo vocalico (pg 20). Le vocali velari e quelle palatali prevedono tre gradi di apertura, determinati dallo spostamento della lingua durante l’articolazione verso il velo palatino (vocali velari) e verso il palato (palatali). In posizione atona le vocali si riducono a cinque perché viene meno la distinzione tra vocali aperte (medio-basse) e chiuse (medio-alte). In italiano il grado di apertura della vocale determina molte coppie minime. La distinzione riguarda solo le forme in cui la vocale è in sillaba tonica(accetta-accétta); quando l’accento si sposta su un’altra sillaba, la differenza di grado è neutralizzata (accettata). In posizione finale di parola la u non può essere atona. Le consonanti sono suoni la cui pronuncia in contra in qualche punto dell’apparato fonatorio un ostacolo. Si denominano le singole consonanti combinando diversi parametri: - Modo di articolazione: il modo in cui l’aria fuoriesce dalla bocca, che permette di distinguere tra occlusive/esplosive (prodotte con una totale occlusione del canale fonatorio che determina una sorta di scoppio), fricative/costrittive/continue (durante l’articolazione il canale si restringe ma non del tutto, permettendo all’aria di passare) e affricate (completa chiusura e poi un restringimento). - Grado di articolazione: grado di sonorità, determinato dalla posizione delle corde vocali. Se sono rilassate sono prodotte consonanti sorde, se sono tese vibrano producendo consonanti sonore. - Luogo di articolazione: determinato dalla posizione della lingua nel cavo orale e quindi dal luogo in cui si determina l’arresto/restringimento del flusso d’aria: il velo (velari), la zona che precede il palato (prepalatali), il palato (palatali), gli alveoli dei denti (alveolari/dentali), le labbra (bilabiali), denti e labbra contemporaneamente (labiodentali). - Nell’articolazione di alcuni fonemi intervengono fenomeni particolari; per le nasali l’aria esce sia da naso che da bocca e se la lingua vibra si produce una vibrante, mentre per la laterale il flusso d’aria passa ai lati della lingua. Sono (prima sorde poi sonore): Occlusive: velari k g, alveolari t d, bilabiali p b. 0 2 8 3Fricative: prepalatali , alveolari s z, labiodentali f v. 0 2 8 3 0 1 B 7Affricate: prepalatali t d , alveolari ts dz. 0 2 7 2Nasali: palatali , alveolari n (sonora), bilabiali m (sonora). 0 2 8 ELaterali: palatali , alveolari l. Vibranti: r. In posizione intervocalica molte consonanti possono essere brevi o lunghe; nella trascrizione fonetica le doppie sono indicate con due puntini o duplicando l’elemento occlusivo delle affricate. Nelle varietà settentrionali la differenza è neutralizzata ma in italiano questo tratto ha carattere distintivo e ci sono coppie minime che si distinguono per la lunghezza consonantica. Le occlusive possono essere lunghe anche tra vocale e vibrante (labbro) o tra vocale e laterale (applico). Sono sempre intense quando intervocaliche le consonanti palatali e le affricate, anche se nella grafia sono rappresentate come brevi. E’ sempre breve /z/. Sono fonemi italiani anche /j/ iod e /w/ uwu, realizzati mediante l’avvicinamento della lingua al In base alla provenienza del parlante ci sono cinque italiani regionali: settentrionale, toscano, mediano, sardo, meridionale con dei sottogruppi rilevanti. La provenienza di un parlante è facilmente riconoscibile per la curva melodica del suo parlato, anche se è vicino allo standard. Nell’italiano settentrionale ci sono divergenze nella pronuncia di e ed o in posizione tonica (béne, biciclètta) e c’è la tendenza allo scempiamento delle consonanti intense in posizione intervocalica (capeli) o quella alla sonorizzazione delle consonanti (marido). Tra i fenomeni fonologici dell’italiano toscano c’è la gorgia, che determina la pronuncia spirantizzata delle consonanti c p t in posizione intervocalica (baco, baho) e l’affricata prepalatale 0 1 B 7sonora è resa come una fricativa postalveolare (ragione, ra one). 0 1 B 7Nell’italiano mediano (e romano soprattutto) c’è la tendenza al raddoppiamento di b e d intervocaliche (subbito) e la pronuncia affricata della sibilante dopo l n r (borza). Negli italiani meridionali c’è la pronuncia sonora delle consonanti sorde dopo nasale (anghe) e la chiusura della vocale nei dittonghi ascendenti (piède) e spesso risulta annullata la distinzione delle vocali finali che per influsso dei dialetti locali possono essere realizzate come schwa (vocale centrale media). Nell’italiano di Sicilia ci sono scambi tra vocale aperta e chiusa e in quello di Sardegna la tendenza a raddoppiare le consonanti dopo vocale tonica (capitto). 2.1.7 Iconismo fonico e fonosimbolismo. I suoni, in base ad un principio iconico, possono anche essere motivati semanticamente ed indicare sensazioni, concetti, attività. Ci sono parole che servono a riprodurre suoni associati ad azioni, eventi, stati (onomatopee). Le onomatopee primarie sono formate esclusivamente da una sequenza di fonemi che riproducono un suono della realtà (miao) e sono usate nel discorso riportato o in incisi (ho sentito miao miao, - splash-) o come nomi (il chicchirichì). Le onomatopee secondarie/derivate hanno elementi morfologici che ne determinano l’appartenenza ad una categoria grammaticale (tintinnio, squittire). L’onomatopea può indicare anche il produttore del suono (cuccù). Sono il prodotto dell’iconicità del linguaggio ma non sono interamente iconiche, infatti nelle diverse lingue sono diverse perché i sistemi fonematici sono diversi e le onomatopee sono segni filtrati dal sistema linguistico. Fonosimbolismo: Capacità di associare suoni linguistici a eventi/fenomeni non sonori. Si può ricorre a sequenze di foni per evocare sensazioni, eventi, azioni che non sono sonori. Es. interiezioni. In altre lingue ci sono altri fenomeni fonosimbolici, detti ideofoni; in giapponese ci sono verbi in cui l’alternanza tra un suono sordo ed uno sonoro determina un cambiamento nel modo di realizzare l’azione. I fenomeni sordi sono associati alla leggerezza/finezza, i sonori alla pesantezza/ grossolanità. Gli ideofoni si originano spesso da onomatopee che perdono il legame con il suono per passare a indicarne aspetti e caratteristiche (ambito del fonosimbolismo). In italiano un esempio è persona “gnè gnè”. 2.2 Grafia e grafemi. Per rappresentare i suoni della lingua scritta l’italiano si serve di segni grafici, i grafemi/lettere che convenzionalmente si indicano tra parentesi aguzze < > e di un sistema di scrittura alfabetico (21) derivato dall’alfabeto latino con l’aggiunta della u. Esistono tre grandi tipi di scrittura: - Sistemi logografici: Si adottano segni (logogrammi/ideogrammi) che rappresentano morfemi o parole come in cinese. Combinandosi con altri elementi il simbolo crea concetti logici complessi. - Scrittura sillabica: Attribuisce a ogni segno un determinato valore sillabico fonetico. - Sistemi alfabetici: Rappresentano graficamente i singoli suoni attraverso le lettere. La scrittura è nata circa 5000 anni fa in una zona che va dall’Egitto alla valle dell’Indo. I più antichi reperti sumeri sono di 4000 anni fa. Si pensa che si sia sviluppata da un antico sistema di conteggio ed etichettatura di 8000 anni fa. I più antichi sistemi di scrittura sono a base logografica. Con il tempo sembra costante il passaggio ai sistemi alfabetici. I sistemi alfabetici tentano di riprodurre i singoli suoni delle parole ma tra grafemi e fonemi non vi è una piena corrispondenza anche se in italiano c’è molta simmetria tra pronuncia e scrittura. In certi casi il rapporto tra grafema e fonema non è biunivoco ed alcuni grafemi possono rinviare a più di un fonema: - In una parola la distinzione tra vocali aperte e chiuse non è segnalata graficamente; la distinzione di timbro nello scritto emerge solo nel caso delle vocali toniche finali grazie all’accento grave/ acuto. - I grafemi i ed u sono usati sia per le vocali che per semiconsonanti o semivocali (i, j, u, w). - C e g corrispondono a occlusive velati davanti ad a e davanti alle vocali velari (o,u), mentre davanti alle vocali palatali indicano le affricate prepalatali (e, i). - I grafemi s e z non rendono la distinzione tra sorda e sonora per le fricative alveolari ( s z ) e le affricate alveolari ( ts dz ), come nel caso di chiese edificio (sorda) e chiese verbo (sonora). A volte si ricorre a un digramma (sequenza di due grafemi) per esprimere un unico suono: - I fonemi k e g davanti a vocale palatale sono scritti mediante ch e gh. 0 2 8 3 0 1 B 7- t e d davanti ad a e alle vocali velari sono resi con ci e gi. In giallo e ciambella il segno i non corrisponde alla vocale /i/ e non è trascritto foneticamente. 0 2 8 3-La sibilante palatale davanti a i è resa con sc. 0 2 7 2- La nasale palatale è resa con gn davanti a qualsiasi vocale; la grafia non ne segnala l’intensità quando intervocalica, come per la sibilante e la laterale palatali. 0 2 8 E- La laterale palatale è espressa davanti a i da gl. 0 2 8 3 0 2 8 EIn alcuni casi si ricorre a un trigramma; sci e gli sono impiegate nelle parole in cui i fonemi 0 2 7 2 sono seguiti da vocale diversa da i (sciame). La i del trigramma non rappresenta un suono (in scio, sciare si e va pronunciata). Il trigramma gni è usato nella desinenza della prima persona plurale del presente indicativo (sogniamo). Nel caso dell’occlusiva velare k, uno stesso fonema è rappresentato mediante due grafemi distinti; può essere indicata con c o con q. 2.2.1 Difficoltà di grafia. La scrittura è un’attività artificiale e convenzionale in cui hanno peso fattori storici e culturali; certi usi grafici potrebbero essersi imposti nel corso della storia dell’italiano e non rispettare la pronuncia. H per esempio non ha valore fonetico, ma partecipa alla composizione di digrammi ed è preposta ad alcune persone del verbo avere dove consente di distinguere le voci verbali dai corrispettivi omonimi (anno, a). In questo caso è un segno diacritico (aggiunto ad una lettera per modificarne la pronuncia o per distinguere il significato di parole simili) motivato etimologicamente (habere). Anche la i può comportarsi come diacritico e non avere valore fonologico (trigrammi); in famiglia realizza il trigramma ed evita la pronuncia /gl/. L’uso della i diacritica o vocale può essere un problema nella scrittura, come nel plurale dei nomi in cia e gia e in co e go. Per i nomi in -cia e -gia: - Se l’accento cade sulla i, il plurale è in cie e gie (magie). La i ha valore vocalico, essendo tonica. - Se l’accento non cade sulla i, il plurale è cie e gie se la c e la g sono precedute da vocale (camicia, ciliegia). La i distingue tra coppie di omografi/omofoni (camice, audace). - Se la c e la g sono precedute da consonante, il plurale è in -ce -ge (guance). Per il plurale dei nomi in -co e -go può esserci un cambiamento fonetico rispetto al singolare (palatalizzazione della velare): - I n. parossitoni in co e go hanno il plurale in chi e ghi (bachi, spaghi) ma amici, greci, nemici, porci. - I n. proparossitoni in co e go formano il plurale in ci e gi (magici) ma pizzichi, profughi, naufraghi. - I nomi in -logo che si riferiscono a persone hanno il plurale in -logi (psicologi). - I nomi in -logo che si riferiscono a cose hanno il plurale in -loghi (cataloghi). - I nomi in -fugo hanno il plurale in fughi (vermifughi). 2.2.2 I nuovi arrivi. Oltre alle 21 lettere dell’italiano ce ne sono altre cinque che ricorrono per di più nella grafia di parole straniere entrate nell’uso italiano: j (i lunga/jey), k (cappa), w (vu doppia/doppia vu), x (ics), y (i greca/ipsilon). La j rappresenta diversi suoni a seconda della provenienza della parola in cui è impiegata; nelle 0 1 B 7 0 1 B 7parole inglesi si pronuncia d (jeans), in quelle francesi (abat-jour), in quelle tedesche j (jahr) e spagnole x (juicio). In italiano antico questo grafema era usato con il valore di j e ci sono residui onomastici come mar Jonio e Jacopo. La k si trova in parole derivanti da diverse lingue ma si pronuncia sempre k. E’ diffusa soprattutto nelle grafie telematiche e giovanili. La w si pronuncia w nelle parole di provenienza inglese (woman) e in quelle tedesche v (wurstel). La x è resa dalla combinazione di due suoni diversi, /ks/. Si trova in parole dal greco (xenofobia), nel prefisso latino ex- e in parole straniere (taxista). Nelle grafie telematiche vuol dire ‘per’. La y era usata fino al XVII secolo nelle parole di origine greca (tiranno e tyranno), oggi è usata nei forestierismi dove rappresenta la vocale i o semiconsonante j (baby, yacht). 2.2.3 La messa a punto della grafia italiana. L’alfabeto italiano deriva da quello latino, elaborato a partire dall’alfabeto greco. L’adattamento dell’alfabeto latino al volgare ha portato all’esigenza di nuove soluzioni grafiche per indicare i fenomeni dell’italiano sconosciuti al latino, dove non esistevano le affricate alveodentali (ts, dz) e l’italiano è ricorso all’alfabeto greco per la lettera z. 0 2 5 5Nell’alto Medioevo si era diffuso il grafema , nato da una combinazione tra c e z infrascritta; nei manoscritti medievali ci sono però anche altre opzioni. Avarizia (da avaritiam) poteva essere scritta 0 2 5 5 0 2 5 5avaritia, avari a, avari ia, avarisia, avarizza. L’italiano introdusse anche la distinzione tra u e v, infatti il latino non conosceva il suono v e usava la V come grafema per la u. Nei manoscritti medievali però si trova anche la u per la v. Spesso la scelta dipendeva dalla posizione della vocale o della consonante nella parola e spesso si selezionava v a inizio parola. La distinzione fu teorizzata nel 500 da Trissino e si impose dal 600 in poi. L’alternanza nel reso del nesso /kw/ espresso con cu o q rimanda all’alfabeto latino. In alcuni casi ha però riflessi nella pronuncia; la presenza della c in innocuo suggerisce che la u è vocale, mentre la q in quota che la u è semiconsonante. Sono poi venuti a meno nel volgare dei suoni indicati da alcune lettere del latino, come la h aspirata che però non scomparve. Continuò ad essere indicata nelle grafie etimologiche (homo) per un effetto latineggiante e partecipò alla formazione di digrammi. Anche la x poteva comparire in grafie etimologiche, anche per indicare la sibilare intensa (dixi per dissi). Nelle grafie settentrionali iniziò 0 2 8 3 0 1 B 7ad essere usata per indicare e (camixotto, pixon). Il latino non conosceva inoltre le affricate prepalatali sorde e sonore e nel medioevo si attribuiva talvolta al grafema c il valore di palatale, esteso però anche davanti a vocale velare (coè, bocce). Si recuperò anche la lettera /k/ (caduto in disuso nell’alfabeto latino) per distinguere il suono velare da quello palatale. Infine si introdussero i digrammi ch, gh, ci, gi ancora poco frequenti nel 400. Non era chiaro come indicare i fonemi palatali (famiglia, famigla, familia) o la sibilante e la nasale palatali. La stampa contribuì all’uniformazione grafica del volgare; si impose un modello grafico comune. Questo ruolo lo ebbe anche il processo di normativizzazione grammaticale che iniziò nel XVI secolo in poi. La collaborazione tra Aldo Manunzio e Pietro Bembo portò alla codificazione di una serie di segni paragrafematici come l’apostrofo e i segni di punteggiatura, prima rari. Gli appellativi e i titoli onorifici seguiti dal nome o cognome si scrivono per lo più con la minuscola (l’ingegner) ma la maiuscola si usa quando l’appellativo è usato per antonomasia (il Cavaliere). Si usa la maiuscola reverenziale o di rispetto nei confronti di persone verso le quali si vuole manifestare rispetto/deferenza. Non si scrivono maiuscoli solo gli appellativi (Egregio Professore) ma anche i pronomi personali e i possessivi. Coloro che usano il pc si possono servire dei caratteri speciali, diversi da quello usuale (tondo). Il corsivo serve per citare parole straniere, per evidenziare le parole italiane di cui si sta parlando, per indicare un concetto o un fatto ritenuto particolarmente importante o per i titoli. Il neretto/grassetto evidenzia un concetto o una frase che l’autore ritiene di grande rilievo. Il sottolineato svolge più o meno le stesse funzioni del corsivo; era usato nella macchina da scrivere per indicare al tipografo cosa doveva essere composto in corsivo. Può essere usato oggi per differenziare una o più parole rispetto ad altre in corsivo. Il maiuscoletto è usato per i nomi dei personaggi delle opere teatrali. Nei testi di linguistica relativi alle lingue romanze segnala le parole latine da cui quelle romanze si originano. Capitolo 3- Morfologia. 3.1 Morfemi, allomorfi e tipi di lingue. La morfoligia studia la forma delle parole e le trasformazioni che subiscono nel concreto uso linguistico. Morfema: Unità minima dotata di significato di cui si compongono le parole. Può veicolare significato lessicale (morfema lessicale) o codificare informazioni grammaticali (morfema grammaticale). I morfemi lessicali riguardano il livello del lessico, che è un sistema aperto in continua trasformazione, mentre i morfemi grammaticali costituiscono un inventario chiuso. Infatti si possono creare nuove parole ma non un nuovo morfema per il femminile o il passato. Le innovazioni morfologiche si possono osservare solo in diacronia (attraverso il tempo). Molte parole tuttavia sono costituite da un solo morfema libero; lo sono le parole invariabili come oggi, però, quando. I morfemi semiliberi sono invece le parole funzionali (preposizioni, articoli, ausiliari, clitici) che nella frase svolgono la loro funzione in unione con altre parole. I morfemi che devono legarsi necessariamente ad un altro morfema (-o) sono detti morfemi legati. I morfemi grammaticali sono di due tipi, a seconda che il morfema determini o meno la creazione di una parola diversa rispetto al morfema lessicale cui si collega. La -a di gatta produce una forma diversa di gatto, ma non un cambiamento di parola; questi morfemi grammaticali sono detti flessivi. Nella parola gattile (neoconiazione da canile) il morfema -ile crea una nuova parola rispetto a gatto, con un significato diverso. Anche il morfema pre- prima di pensionamento ne cambia il senso. Questi morfemi che creano nuove parole sono detti derivativi e sono rappresentati da prefissi, suffissi e interfissi. 3.1.1 I morfemi flessivi. Lingue flessive: I morfemi flessivi dell’italiano tendono a cumulare più informazioni (-iamo attivo, indicativo etc), per questo l’italiano è di tipo linguistico flessivo come il latino e la maggior parte delle lingue indoeuropee (da Europa a Medio Oriente e India, derivanti dal protoindoeuropeo) e semitiche (tra le afro-asiatiche, di cui arabo ebraico etc). Lingue agglutinanti: Ungherese, finlandese, giapponese.. Ogni morfema che si salda alla radice lessicale presenta un solo significato grammaticale. Lingue isolanti: Cinese. Parola e morfema tendono a coincidere, non ci sono morfemi grammaticali. Le parole sono invariabili rispetto all’opposizione singolare/plurale, maschile/femminile e non ci sono coniugazioni, solo morfemi lessicali che si combinano nella frase. Morfologicamente le lingue si distinguono anche in base al loro grado di sinteticità; l’italiano è più analitico del latino perché esprime molte informazioni grammaticali, che il latino codificava con elementi morfologici. Le desinenze dei nomi esprimevano anche il caso, cioè la funzione sintattica svolta dal nome nella frase, cosa che l’italiano segnala con le preposizioni o l’ordine delle parole. 3.1.2 Allomorfia. L’italiano si caratterizza per l’ampia allomorfia. Gli allomorfi sono forme diverse che uno stesso morfema può assumere a seconda di specifiche condizioni. I morfemi lessicali del verbo possono cambiare per modo, tempo, persona: tenere, teng- tien- ten-. Nei nomi l’allomorfia lessicale dipende spesso dall’influsso del fonema che compare nel morfema grammaticale; amico ma amici, i palatalizza l’occlusiva velare sorda della base. Anche i morfemi grammaticali cambiano a seconda del suono che li segue; in- im- ir-, la nasale dentale tende ad assimilarsi alle consonanti labiali e alla vibrante. Un tipo di allomorfia è il suppletivismo (italiano antico), cioè la coesistenza di due o più morfemi non riconducibili a un etimo comune per una stessa forma grammaticale. Es. And-, vad-. Il primo deriva dal latino ambulare (camminare), il secondo da vadere (andare). Visto/veduto, sieda/segga, buono/migliore/ottimo, gatto/felino (agg. di relazione), napoletano/ partenopeo (etnicismi, derivati spesso da latinismi o grecismi). In certi casi i due allomorfi sono condizionati, cioè in distribuzione grammaticale e vengono scelti in base alla forma grammaticale da realizzare (tien-, teng-). In altri casi sono non condizionati e il parlante può scegliere tra due opzioni che il sistema gli offre (perduto/perso anche se le forme participiali deboli sono in regresso). I morfemi referenziali rientrano dunque nell’ambito del lessico, in quanto portatori di significato referenziale. Le desinenze e gli affissi (morfemi flessivi o derivativi) appartengono alla dimensione grammaticale. Non c’è però un confine netto e le lingue svolgono la propria funzione grazie alla loro combinazione. Spesso una parola semanticamente piena può affievolire il proprio significato ed acquisire una funzione grammaticale (grammaticalizzazione). Es. Preposizione temporale durante si origina dal participio presente di durare, che significava permanente nel tempo. Ha perso poi il valore di participio e si è trasformato in una preposizione. Una parola soggetta a grammaticalizzazione può perdere la propria autonomia fonologica, come nel caso di -mente (per gli avverbi). E’ un suffisso dall’ablativo mens/mentis e si è originato da espressioni modali come felice mente (con mente felice). Il processo di grammaticalizzazione non impedisce che la parola possa essere usata nel suo valore semantico pieno; oggi “tipo” è usato come connettivo utile per esemplificare/attenuare ma anche come parola piena. Nel caso della lessicalizzazione, una forma dotata di una funzione grammaticale assume un significato lessicale pieno; grazie al fenomeno della conversione molti participi e gerundi sono diventati nomi (studente, laureando). Si ha lessicalizzazione anche quando un affisso (morfema legato) assume uno statuto lessicale autonomo (ex) e anche per locuzioni formate da più parole; tiramisù e l’espressione fuoco amico sono parole autonome con un significato complessivo diverso da quello dei loro singoli componenti. Grammaticalizzazione e lessicalizzazione sono fenomeni determinati dal fatto che gli elementi di una lingua si collocano in diverse posizioni rispetto al continuum grammatica-lessico (schema pg 45). 3.2 Il sistema nominale. Nella morfologia nominale sono coinvolti i tratti del numero (quantità cardinale) e del genere. Per quanto riguarda il numero, l’italiano conosce singolare e plurale, non il duale (greco antico, sloveno). Nell’ambito del genere, distingue maschile e femminile ma non neutro anche se sono giunte dal latino delle forme residuali. I nomi latini venivano flessi anche in base al caso, cioè alla funzione sintattica che ricoprivano nella frase. Le desinenze potevano variare in base alla declinazione ma non una desinenza non corrispondeva sempre solo ad un caso. Nel passaggio dal latino alle lingue romanze si è verificato il collasso delle cinque declinazioni, iniziato nel tardo latino. I parlanti hanno cominciato a confondere le desinenze che resistevano meglio nello scritto. Con il venir meno della flessione casuale si è ricorsi soprattuttoalle preposizioni e all’irrigidimento dell’ordine delle parole. Nel latino volgare prima della scomparsa delle declinazioni erano soprattutto il nominativo e l’accusativo ad essere impiegati, mentre gli altri casi erano frequentemente espressi mediante una preposizione. La caduta della -M finale favoriva la sovrapposizione tra nominativo ed accusativo. L’accusativo diventò il caso passe-partout (fonte da fontem e non da fons, imperatore da imperatorem e no imperator). Ci sono anche parole che derivano dal nominativo, come uomo da homo, ladro da latro. Morfologicamente i nomi dell’italiano possono essere raggruppati in sei classi. Le classi più produttive sono la prima (nomi maschili con l’eccezione di mano/mani femminile, -o/-i) e la seconda classe (femminili, -a/-e). Accolgono la maggior parte delle parole italiane e molti forestierismi in -o (mambo) e in -a (tempura). La terza classe (-e/-i; femminile, maschile, ambigenere) comprende per lo più i nomi suffissati in - tore (lavoratore), -trice e -zione. Sono in aumento i nomi della VI classe, gli invariabili maschili e femminili; parole ossitone, monosillabi forti (i re, le gru), i nomi in -ie (serie), alcuni in -a (cinema), i grecismi in -i (genesi) e i prestiti stranieri che tendono a non essere flessi al plurale. Meno produttive sono la IV classe (-a/-i maschile) di cui fanno parte i suffissati in -ista e la V (-o/-a alternante come uovo) che sembra residuale. 3.2.1 Il numero. In italiano il plurale si forma sostituendo il morfema singolare con quello plurale, mentre in altre lingue c’è il plurale sintagmatico che si forma generalmente aggiungendo una s alla forma del singolare (femmes, dogs). Vari nomi con accordo al maschile nel singolare, per lo più provenienti da neutri della seconda declinazione latina, hanno un doppio plurale, uno femminile ed uno maschile (genere alternante). Es. bracci/braccia, cigli/ciglia, ossi/ossa. Generalmente i due plurali hanno una differenza di genere più o meno accentuata. Le forme in -a evidenziano il fatto che i referenti fanno parte di qualcosa di unitario (braccia del corpo, mura della città). I plurali in -i invece indicano entità autonome, nella loro individualità (diti indici) e sono usati nei casi in cui, per un processo metaforico, rimandano a parti di referenti inanimati (labbri di una ferita). Non ci sono differenze tra lenzuola/lenzuoli e ginocchi/ginocchia. Ci sono anche i pluralia tantum, che presentano solo la forma del plurale (nozze) o che si usano prevalentemente al plurale (pantaloni) anche in riferimento ad una singola unità. Altri nomi sono detti collettivi, perché usati per lo più al singolare (gregge, frutta) perché indicano un gruppo di animali o un insieme di cose e dunque contengono già in sé l’idea del plurale. Per quanto riguarda i forestierismi, la grammatica consiglia di non adattare al plurale i prestiti stranieri anche perché in italiano l’uso dell’articolo può esplicitare la marca del plurale anche se il nome è invariabile. Ci sono però prestiti che presentano già la forma del plurale (telenovelas). Il ricorso a fenomeni di accorciamento e riduzione aumenta i nomi invariabili al plurale (auto, moto, frigo). 3.3.2 Il genere. L’italiano conserva dal latino maschile e femminile, non il neutro. Nei nomi che individuano referenti inanimati il genere grammaticale è immotivato e regola l’accordo di aggettivi e articoli; si dice la casa perché il nome è morfologicamente femminile, ma il referente non ha un sesso. una parola vicina con cui formano una sola unità prosodica. La serie tonica comprende i pronomi io, me, tu, te, egli, ella, esso, essa, lui, lei, noi, voi, essi, elle, esse, loro e sé. Io/me e tu/te si distinguono in base al caso (soggetto e oggetto diretto/indiretto). Nella costruzione io e te tuttavia te ricorre in funzione di soggetto e l’uso di te soggetto è frequente in alcuni italiani regionali. Noi e voi sono invariabili sia rispetto al genere sia rispetto al caso, mentre i pronomi di terza persona risultano sensibili al tratto del genere (egli esso lui essi, ella essa lei elle esse), mentre loro che va bene per entrambi i generi. Le forme egli ed ella possono essere usate solo in funzione di soggetto, mentre esso essa essi esse possono essere soggetto e oggetto indiretto (con essi) ma non oggetto diretto (ho perso esso). Lui lei e loro coprono qualsiasi funzione sintattica. Sono nati come pronomi oggetto (diretto e indiretto) e con il tempo hanno assunto anche la funzione di soggetto nonostante a lungo la norma grammaticale l’abbia censurata. L’uso di lui, lei e loro soggetto si diffonde dal Quattrocento; prima si usava egli, ella essi tranne nei casi in cui il soggetto era messo in rilievo o in presenza di un verbo non finito, allora si alternavano. Nell’italiano antico troviamo lui, lei, loro in posizione postverbale, come soggetti di costruzioni assolute al gerundio e al participio o di frasi mancanti del verbo (beati loro). Quando i grammatici del 500 sottoposero a normazione l’italiano sulla base dei tre autori del 300 notarono la scarsa diffusione di lui lei loro soggetto e li censurarono. Erano però entrati a far parte del sistema dell’italiano e furono usati comunque. Dal secondo 800 in poi furono ammessi anche dai grammatici (anche Manzoni lo aveva usato nel 1840-42). Oggi predominano nel parlato, mentre nello scritto c’è ancora alternanza tra egli e lui. La scelta dipende dal registro ma in alcuni casi non sono intercambiabili. Egli assicurerebbe il rinvio anaforico all’antecedente (nome) più vicino nella frase/testo, mentre lui determinerebbe un rinvio deittico al referente più rilevante nel contesto (unica persona che agisce sulla scena raccontata dal narratore). In quanto deittico e non anaforico, lui deve riferirsi a qualcuno che è presente nella situazione extralinguistica. I pronomi della serie atona sono: mi ti lo la si ci vi li le (oggetto diretto) e mi ti ci gli le si ci vi loro gli (oggetto indiretto). Le forme mi ti ci vi sono usate senza distinzione di caso e di genere, anche nella formazione dei riflessivi (mi lavo). La terza persona singolare e plurale presenta forme sensibili al variare del genere e del caso; per esprimere la riflessività si ricorre a si. In alcune varietà dell’italiano contemporaneo la distinzione tra gli le loro sembra essersi affievolita soprattutto nel parlato informale con il generalizzarsi del maschile gli sia per il femminile che per il plurale. Gli al posto di loro è ammesso anche dalle grammatiche normative ed anche per gli usi scritti; loro ha uno statuto ambiguo fra i pronomi clitici (personali atoni) perché è bisillabo e sempre postverbale. L’uso di gli per le invece non è ammesso dalla norma grammaticale. Il pronome si, oltre a riflessivo di terza persona, è usato per costruzioni impersonali (si prega) o con funzione passivante (si vendono: sono venduti). Ci sono anche ne ci vi in funzione avverbiale. Ne è usato in funzione di complemento partitivo (ne ho visti), ci e vi hanno funzione locativa (ci vivono). Ci è oggi più frequente di vi e ricorre con vari verbi con funzione attualizzante; davanti a essere e avere rafforza il significato del verbo e da maggiore consistenza fonica alla parola. Dunque i pronomi clitici non sempre riprendono un nome già espresso. Si possono unire a delle espressioni verbali cambiandone il significato originario (prendersela, piantarla, entrarci per riguardare). In questi esempi i pronomi si lessicalizzano, perdono la loro funzione grammaticale di ripresa per formare con il verbo una nuova parola. I verbi che presentano questi pronomi privi di riferimento sono detti procomplementari. Oggi la posizione dei clitici dipende dalla finitezza della forma verbale. Con forme verbali finite normalmente si trovano prima del verbo (proclisi, te lo dico) mentre con modi verbali non finiti si collocano dopo (enclisi, dirtelo). Prima del XVI secolo la posizione dei clitici era regolata dalla collocazione del verbo nella frase. In italiano antico i pronomi atoni precedevano il verbo tranne che con il verbo a inizio assoluto di frase (videlo), quando il verbo seguiva le congiunzioni e o ma (lo vide e dissegli) e dopo una subordinata (quando lo vide, dissegli). Questa è detta legge Tobler- Mussafia. 3.5.1.1 I pronomi allocutivi. Il parlante se ne serve per rivolgersi al proprio interlocutore, infatti hanno una funzione interazionale. Nell’italiano standard la scelta dipende dal grado di confidenza e vicinanza tra gli interlocutori. Il tu è l’allocutivo di vicinanza (per rapporto paritario o qualcuno che si conosce), mentre il lei è l’allocutivo di distanza che segnala una minore confidenza (forma di cortesia per chi non si conosce, più grande o che ha una diversa posizione nella gerarchia lavorativa). L’uso di lei comporta incertezza nell’accordo dei vari costituenti frasali; i clitici si accordano infatti al femminile anche quando l’interlocutore è di sesso maschile ma i participi o gli aggettivi nell’italiano di oggi hanno l’accordo maschile (lei è stato sorteggiato). Quando il participio o l’aggettivo fanno parte di una costruzione predicativa con pronome clitico espresso, si usa il femminile (l’ho sentita chiamare). Voi è invece una forma di cortesia meno usuale, talvolta usata nei confronti di cariche istituzionali di alto livello. Quando gli interlocutori sono più di uno, si tende a usare la seconda plurale; il pronome di cortesia loro (loro hanno deciso cosa ordinare?) è oggi marginale o riservato a occasioni molto formali. La distribuzione degli allocutivi muta con la variabile diatopica. I parlanti meridionali usano spesso il voi come forma di cortesia. Un tempo il sistema era ternario: voi, lei, tu. Oggi il tu è frequente anche nelle interazioni fra estranei ma in passato la norma sociale prevedeva l’uso di allocutivi di distanza anche con i familiari. In sardo i figli davano del voi ai genitori ma una volta cresciuti la figlia lavoratrice/acculturata continuava a darlo alla madre, mentre alla madre dava del tu e riceveva da lei il voi. Nella gerarchia dei rapporti familiari il fattore sociale predominava sul rapporto di parentela ma era subordinato al parametro del genere. Lei si è sviluppato più tardi. In italiano antico fino al 400 gli unici pronomi allocutivi erano tu e voi, ma si diffusero in quel periodo espressioni onorifiche (la vostra/tua signoria) che richiamavano l’uso di pronomi femminili al singolare nel contesto frasale. Lei si diffuse dal 500. Nel 900 la politica linguistica del fascismo tentò di sradicarlo perché considerato un prestito dallo spagnolo e sentito come effemminato. Tentò di sostituirlo con il voi ma non ci riuscì. 3.5.2 Possessivi. I pronomi/aggettivi possessivi esprimono il possessore (colui a qualcosa appartiene) oppure a indicare una vicinanza affettiva (tua madre). Variano al variare della persona di riferimento (mio, tuo), del numero (miei) e del genere (mia) del referente ma loro è inalterato. Per la terza singolare non si segnala se il possessore è maschile o femminile (mentre in inglese his o her). Se è necessario disambiguare il genere del possessore, nel linguaggio burocratico si ricorre alla costruzione di lui/di lei (il di lei coniuge). Anche l’aggettivo proprio ha la funzione di possessivo; si usa quando il possessore coincide con il soggetto sintattico della frase (i propri figli). 3.5.3 Dimostrativi e numerali. I dimostrativi sono pronomi e aggettivi che il parlante usa per situare gli oggetti di cui parla nello spazio e nel tempo (funzione deittica). In italiano moderno il sistema dei dimostrativi è a due uscite; questo per oggetti vicini nello spazio e nel tempo al parlante (dimostrativo di vicinanza) e quello per oggetti lontani dall’emittente (dim. di lontananza). I concetti di vicinanza/lontananza riguardano la dimensione spaziale, temporale e psicologica (quello per qualcosa che si sente estraneo/lontano dal proprio modo di essere: quel tuo modo..). In passato si usava anche la forma codesto, per esprimere distanza dal parlante e vicinanza rispetto all’interlocutore. Oggi si usa nell’italiano regionale toscano e nel linguaggio burocratico (sia per esigenza di precisione che per una tenza alla conservazione di forme/costrutti non più usati). Sono dimostrativi anche costui costei costoro (meno usati oggi) e colui colei coloro (spesso usati nelle proposizioni relative: coloro che..). Pronomi e aggettivi numerali si distinguono in cardinali (uno) e ordinali (primo); è una classe aperta di elementi. I cardinali sono invariabili, tranne uno che si flette in base al genere e gli ordinali variano per genere e numero. Per i nomi dei secoli si usano i numerali ordinali (secondo sec da 101 a 200). I secoli dal XIII al XX possono essere indicati anche mediante il numero cardinale con l’iniziale maiuscola sottintendendo mille (Quattrocento). Raro è l’uso di Cento per l’undicesimo secolo. Altri numerali sono: - Moltiplicativi: Per una quantità fino a sei volte più grande di un’altra (triplo..) e poi si usa la perifrasi x volte maggiore di. - Frazionari: Una o più parti di un tutto. Al numeratore compare un cardinale, al denominatore un ordinale (due terzi). - Distributivi: Distribuzione di più oggetti in base al numero (a uno a uno, tre per volta). - Collettivi: Insieme numerico (paio, decina, coppia). Per i multipli di dieci: ventina etc. 3.5.4 Pronomi indefiniti, relativi, interrogativi. Articoli, numerali e indefiniti fanno parte dei quantificatori; elementi con cui le lingue naturali esprimono informazioni sulla quantità dei referenti considerati nel discorso. Gli indefiniti si riferiscono a un referente non determinato qualitativamente o quantitativamente. Ci sono: - Gli universali: Si riferiscono a tutti gli elementi dell’insieme considerato (tutti, ogni, ognuno). - Esistenziali: Riferiti a almeno a un elemento dell’insieme individuato dal nome (alcuno, qualche). - Quantitativi: Esprimono la quantità considerata di un referente (parecchio, molto, poco). - Negativi: Escludono qualsiasi elemento dell’insieme considerato (nessuno, niente). - Identificativi: Riguardano l’identità/differenza di un referente (certo, tale, altro). - Generalizzanti/indefiniti di libera scelta: Esprimono l’indifferenza del parlante rispetto all’elemento dell’insieme che si considera (qualsiasi, qualunque, chiunque). La maggior parte degli indefiniti può svolgere la funzione di pronome e aggettivo. Alcuni hanno solo valore pronominale (chiunque, niente, ognuno, qualcosa, uno), mentre altri solo aggettivale (ogni, qualche, qualsiasi, qualunque). Fra quelli con entrambe le funzioni, ciascuno e nessuno sono invariabili per numero. Ci sono però altre strategie per esprimere l’indefinitezza; in italiano colloquiale ci sono molte locuzioni per esprimere una grande quantità, formate da un sostantivo che rimanda in genere a grandi quantità anche astratte + un complemento di specificazione (un sacco di, una valanga di). Alcuni indefiniti possono introdurre delle subordinate relative. I relativi e gli interrogativi appartengono alla classe degli elementi wh- (in inglese introdotti dal morfo wh-); sono pronomi e avverbi che tendono a spostarsi prima del verbo da cui dipendono (Che cosa hai comprato/ Hai comprato un libro?). I pronomi relativi riprendono un referente già espresso (antecedente) e collegano due proposizioni, agendo come introduttori di frasi relative. Sono invariabili/relativi sintetici (che come soggetto/ complemento oggetto e cui come complemento indiretto) e variabili/relativi analitici (il quale etc). Ci sono anche pronomi relativi doppi (chi, colui che e quanto, ciò che) che non si riferiscono a un antecedente nominale espresso ma è come se lo contenessero. I pronomi interrogativi (chi, che, quale, quanto) introducono domande che vertono sull’identità/ quantità di un referente. Possono avere valore aggettivale (che cosa fai) o funzionare come
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