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Riassunto "La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo", Sintesi del corso di Storia Della Filosofia

Riassunto dettagliato de "La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo" con il quale si può affrontare l'esame di Filosofia Medievale

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 16/02/2023

Enrico_Lo_Piccolo
Enrico_Lo_Piccolo 🇮🇹

4.5

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Scarica Riassunto "La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! RIASSUNTO DE “LA FILOSOFIA NEL MEDIOEVO” DI E. GILSON 1 – Padri greci e la filosofia La filosofia compare nella storia del cristianesimo soltanto nel momento in cui alcuni cristiani prendono posizione nei suoi riguardi, sia per condannarla, sia per assorbirla nella nuova religione. Il termine filosofia presenta fin da quest’epoca il significato di “sapienza pagana” che conserverà per secoli. Anche nel XII e XIII secolo i termini philosophi e sancti significheranno direttamente l’opposizione tra le opposizioni del mondo elaborate da uomini privi della luce della fede e quelle dei Padri della chiesa. Poiché la filosofia continua ad essere considerata come una realtà distinta dalla fede cristiana, rimane possibile scriverne la storia, cioè la storia di ciò che i primi cristiani hanno pensato. Padri apologisti Fin dal II secolo dell’era cristiana compaiono i padri apologisti o apologeti, così chiamati perché le loro opere principali sono apologie della religione cristiana. Nel senso della parola un’apologia era una arringa giuridica. Vi si trovano esposizioni parziali della fede cristiana e dei tentativi di giustificarla dinanzi alla filosofia greca. Delle due apologie più antiche, che datano entrambe intorno al 125, quella di Quadrato non è mai stata ritrovata. Possediamo invece, in traduzione, quella di Aristide. Partendo dalla considerazione dell’insieme delle cose e dell’ordine che vi si osserva, Aristide fa notare che ogni movimento regolato nell’universo obbedisce a una certa necessità, per cui egli conclude che l’autore e ordinatore di questo movimento è Dio immobile, incomprensibile e innominabile. La visione cristiana dell’universo è dunque fissata nelle sue grandi linee fin dal primo quarto del II secolo. Il concetto di un dio unico, creatore dell’universo, senza inesattezza la si chiamerà “giudeo-cristiana” perché è quella stessa che il Cristianesimo aveva ereditato dall’Antico Testamento. Il concetto di un Dio unico, creatore dell’universo, ne è il tratto dominante. San Giustino Martire nato a Flavia Neapolis da genitori pagani, fu uno dei primi che si convertì al cristianesimo prima dell’anno 123 e fu martirizzato a Roma nel 163/167. Egli stesso ci ha raccontato la sua evoluzione religiosa nel “Dialogus cum Tryphone”, essa esprime fedelmente le principali ragioni che un pagano di cultura greca poteva avere per convertirsi al cristianesimo. Convertirsi era spesso passare da una filosofia animata da uno spirito religioso a una religione capace di prospettive filosofiche. Egli si istruì su ciò che desiderava apprendere presso i discepoli di Platone. “In un luogo isolato dove si era ritirato per meditare, Giustino incontrò un vegliardo che lo interrogò su Dio e sull’anima e avendo egli risposto esponendo le opinioni di Platone su Dio e sulla trasmigrazione delle anime, questo vegliardo gliene mostrò l’incoerenza; se l’anima vive immortale non è perché è vita, come insegna Platone, ma perché la riceve come insegnano i cristiani: l’anima vive perché Dio lo vuole e tanto a lungo tanto egli vuole. Giustino domandò dunque dove si potesse leggere questa dottrina e poiché gli fu risposto che non si trovava negli scritti di nessun filosofo, ma in quelli dell’antico e del nuovo testamento, Giustino immediatamente bruciò dal desiderio di leggerli”. Questo testo del Dialogus cum Tryphone è di importanza capitale in quanto ci fa rilevare in un caso concreto e storicamente riscontrabile come la religione cristiana offriva una soluzione nuova dei problemi che i filosofi stessi avevano posto. Questa pretesa non era tuttavia al riparo da ogni obbiezione. Innanzi tutto, se si ammette che Dio non ha rilevato la verità agli uomini attraverso Cristo, sembra che quelli che sono vissuti prima di Cristo non siano stati colpevoli d’averla ignorata. Ponendo lui stesso questo problema nella apologia I, Giustino indica come principio della soluzione, che è preso a prestito dal prologo del Vangelo di San Giovanni: “Abbiamo imparato che il verbo illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo, e che di conseguenza tutto il genere umano è partecipe del Verbo”; c’è dunque una rivelazione universale del verbo divino anteriore a quella prodottasi nel momento in cui il verbo stesso s’è fatto carne. Dio è un essere unico e innominabile; Giustino dice “anonimo”. Chiamarlo Padre, Creatore, Signore e Maestro indica meno ciò che egli è in sé che ciò che egli ha fatto per noi. Nessuno gli ha mai parlato né l’ha mai visto, ma egli s’è fatto conoscere dall’uomo inviando “il Verbo” che s’è fatto vedere da Mosè come dagli altri patriarchi, e di cui (il Verbo) abbiamo detto che illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo. Il Verbo è “il primogenito” di Dio che l’ha posto e costituito prima di tutte le creature. Giustino ha esplicitamente subordinato il Verbo al Padre e creatore di tutte le cose. Il Dio demiurgo, per usare con lui il linguaggio del Timeo, occupa il primo posto; il verbo che egli ha generato secondo la sua volontà è anche Dio, ma di secondo grado. Quanto allo spirito santo, terza persona del Trinità cristiana, è Dio in terzo luogo; il modo in cui Giustino ne parla invita del resto a pensare che egli non ne abbia mai chiaramente definita la natura. Giustino ha, in tutto questo, una concezione tripartita della natura umana (corpo, anima e spirito) che è di origine paolina e stoica. Si vede per altro che Giustino non considera impossibile la morte dell’anima; infatti, come gli aveva insegnato il vegliardo l’anima non è vita, essa la riceve da Dio: non è dunque immortale di pieno diritto, ma dura tanto a lungo quanto piace a Dio conservarla. Comunque sia, Giustino non dubita che l’anima debba essere premiata o castigata nell’altra vita secondo i suoi meriti o demeriti. Niente, d’altronde, di più giusto poiché la sua volontà è libera, e niente affatto sottomessa al destino come pretendono gli stoici, l’uomo è responsabile dei suoi atti. Giustino ha cos ì fortemente insistito sul libero arbitrio come fondamento necessario e sufficiente del merito e del demerito, e ha così poco e vagamente parlato del peccato originale, che non si vede bene come abbia potuto concepire il ruolo della grazia. Giustino si presenta, inoltre, come il primo di coloro per i quali la rivelazione cristiana è il punto culminante di una rivelazione più ampia, e per tanto, a suo modo, cristiana, dal momento che ogni rivelazione viene dal Verbo e che Cristo è il Verbo incarnato. Dopo Giustino, c’è Taziano, cioè il prototipo e antenato di quei pensatori il cui cristianesimo, ripiegato su sé stesso, è più pronto a escludere chi è curioso di assimilare. Dopo aver molto viaggiato ed essersi iniziato a diverse discipline, particolarmente alla filosofia, egli si convertì al cristianesimo. Si recò allora a Roma e conobbe Giustino diventando suo discepolo. Gli elementi che passarono da Giustino a Taziano, integrandosi all’opera del discepolo, cambiarono molto di aspetto. La sua opera principale è “Oratio ad Graecos”. Quest’opera è la dichiarazione dei diritti dei barbari, cioè dei cristiani e del cristianesimo, contro gli Elleni e la loro cultura. Taziano ha usato spesso contro di loro un argomento che abbiamo già incontrato presso Giustino: i Greci hanno attinto dalla Bibbia parecchie delle loro idee filosofiche. Essa prova che i primi pensatori cristiani hanno avuto chiara coscienza che una certa sfera di problemi era, congiuntamente, di competenza della giurisdizione dei filosofi e di quella dei Cristiani. Ciò che egli sosteneva è che i Greci non perpetuo e a sua volta, questa ci garantisce la sua resurrezione, senza la quale l’uomo non potrebbe sussistere; 2) il secondo argomento di Atenagora si ricava dalla natura dell’uomo che è composto di anima e di corpo. Dio non ha creato delle anime, ma degli uomini, in vista di un certo fine. L’uomo non è l’anima, ma il composto dell’anima e del corpo. O si ammette con il Platone dell’Alcibiade che l’uomo è una anima che si serve di un corpo, oppure si pone con Atenagora che il corpo fa essenzialmente parte della natura umana; facendo sì che il dogma della resurrezione dei corpi era un invito pressante a includere il corpo nella definizione dell’uomo. “Ora, ciò che ha ricevuto il pensiero e la ragione non è l’anima per sé stessa, è l’uomo. Bisogna dunque necessariamente che l’uomo, composto di anima e corpo, sussista sempre e non lo può se non resuscita”; 3) è soltanto nel momento che appare il terzo e ultimo argomento, anche esso dimostrativo, ma soprattutto dopo che i due precedenti sono stati accettati, che a ciascun uomo è dovuto il suo giusto compenso, premio o castigo. Se si ammette, dunque, un dio creatore e giusto, bisogna anche ammettere un giudizio giusto seguito da sanzioni, e poiché non è l’anima ma l’uomo che ha meritato o demeritato, sarà necessario che il corpo resusciti perché l’uomo tutto intero sia premiato o punito. Gli apologisti del II secolo non si sono mai preoccupati di costruire dei sistemi filosofici, ma la loro opera, non di meno, interessa direttamente la storia della filosofia. Essa ci fa conoscere in anticipo i problemi che dovevano, più tardi, attirare l’attenzione dei filosofi cristiani: dio, la creazione, l’uomo considerato nella sua natura e nei suoi fini. Ciò che costituisce l’interesse di questi primi tentativi filosofici è che i loro autori sembrano alla ricerca non di verità da scoprire, ma piuttosto di formule per esprimere quello che hanno già scoperto. Ora la sola tecnica filosofica di cui dispongono è quella dei greci. Gli apologisti del II secolo hanno dunque intrapreso il compito immenso, di esprimere l’universo mentale dei cristiani in un linguaggio espressamente concepito per esprimere l’universo mentale dei greci. Lo gnosticismo del II secolo e i suoi avversari Il II secolo d.C. è un periodo di attivo fermento religioso. Da tutte le parti e in tutte le forme si cerca e si crede di trovare la possibilità di raggiungere la desiderata unione dell’anima con Dio. Sapere che Dio esiste e sapere che ciò si può affermare razionalmente nei suoi riguardi, quindi in breve, conoscerlo filosoficamente, non sembrava più sufficiente; ciò che si cerca è una gnosi (gnosis) cioè un’esperienza unificante e divinizzante che permetta di raggiungerlo in un contatto personale e di unirsi realmente a lui. Nulla è più cristiano dell’ambizione di approfondire la fede attraverso la conoscenza, a condizione che la conoscenza si ponga all’interno della fede; ma non è cristiano considerare la fede come una struttura provvisoria dalla quale la conoscenza razionale potrà dispensarci. Per questo d’ora in avanti incontreremo due possibili concezioni della conoscenza accessibili al cristiano, quella che vuole sostituirsi alla fede e quella che vi si sottomette per scrutarne il mistero. La prima di queste concezioni è caratteristica dello gnosticismo propriamente detto. La dottrina di Marcione ci è nota esclusivamente attraverso le confutazioni dei suoi avversari cristiani. L’antico testamento e il nuovo testamento non gli sembravano complementari ma antitetici. È quanto egli sosteneva nel suo trattato, oggi perduto, Antites. L’antico testamento è per lui la rivelazione del Dio adorato dagli Ebrei. Ordinatore dell’universo che per formare il mondo ha utilizzato una materia che egli non aveva creato e che è d’altronde il principio del male. Da questo si spiega come il demiurgo abbia fallito nella sua opera. La defezione degli angeli e la caduta dell’uomo ne sono venute a ostacolare i suoi disegni e, anche allora, egli non ha trovato niente di meglio per mascherare i suoi insuccessi che imporre all’uomo leggi rigorose sostenute da sanzioni terribili. Ben al di là di questo dio degli ebrei, si trova il dio straniero così chiamato perché rimasto sconosciuto agli uomini e al demiurgo stesso fino al giorno in cui Gesù Cristo è venuto a rivelarlo. A differenza del primo Dio, che è un giustiziere, questo è essenzialmente bontà. Egli esercita la sua provvidenza sul mondo prodotto dal demiurgo. La gnosi di Marcione resta dunque ancora interamente all’interno di un problema autenticamente cristiano, quello del rapporto dell’antica legge con la nuova. La perdita dei testi originali non permette di ricostruire con certezza i particolari delle dottrine gnostiche, ma i loro caratteri generali sono abbastanza evidenti da far sì che gli storici s’accordino sull’interpretazione d’insieme che conviene proporre. Il loro nome generico ne indica bene la natura. Una “gnosi” è un sapere il cui possesso assicura la salvezza per la liberazione da un errore originario legato alla storia del mondo. Tutte queste dottrine si rifanno anzitutto al cristianesimo per il ruolo che attribuiscono a Gesù ma tendono a ridurre la sua opera alla semplice trasmissione della conoscenza che salva. Si trattava per loro di risolvere il problema del male. Se il male è nella creazione, si deve trovare l’origine nell’atto creatore; ora il Dio supremo è perfettamente buono, non è lui, dunque, il creatore. Anzi si deve considerarlo come fonte prima di questa conoscenza redentrice che deve rimediare all’errore iniziale del demiurgo e compiere l’opera di salvezza. Nella seconda metà del II secolo divenne necessario impegnare direttamente la lotta contro queste dottrine e definire il cristianesimo autentico contro le contraffazioni gnostiche con le quali esso rischiava di confondersi. Apparve allora una nuova generazione di scrittori cristiani la cui opera doveva avere il risultato di restituire alla loro purezza primitiva certi concetti d’importanza fondamentale per ogni filosofo cristiano. Sant’Ireneo nacque a Smirne, o nei suoi dintorni, verso il 126 da una famiglia cristiana. Fin dalla giovinezza egli frequentò Policarpo che era stato istruito dagli Apostoli e non aveva altra ambizione che quella di conservare fedelmente la tradizione: “Egli ha sempre insegnato ciò che aveva imparato dagli apostoli”. Per Ireneo è lì che si trova la fonte della vita interiore. Egli dipende da Gesù Cristo attraverso un uomo che ha visto coloro che hanno visto Gesù Cristo. Il pensiero di Ireneo ci è noto attraverso il suo trattato “Adversus Haereses”. L’opera comprende 5 libri il primo descrive le dottrine gnostiche, il secondo le confuta, gli ultimi tre sono un’esposizione della dottrina cristiana. Ireneo vi si pone immediatamente sul terreno religioso e oppone al così detto sapere dei suoi avversari il vero sapere che è l’insegnamento degli Apostoli e la tradizione della chiesa nel mondo intero. A partire da questo dato è possibile e legittimo uno sforzo per conoscere Dio, se condotto sobriamente. Noi ignoriamo la causa di numerosi fenomeni: come potremmo sapere tutto ciò che concerne Dio? Pretendere, come gli gnostici, di saperlo è disconoscere i limiti della ragione umana. La migliore cosa da fare di fronte a queste questioni è di riservarle a Dio, perché non è per diventare sapienti che ci si fa cristiani, ma per salvarsi. Non c’è che un solo Dio, e non un Dio e un demiurgo. L'esistenza di questo Dio può essere dimostrata e deve essere conosciuta dai pagani stessi partendo dalle opere di San Paolo. Gli gnostici sostengono che il creatore è il demiurgo, ma riconoscono che esso dipende da Dio per la sua esistenza. Che si moltiplichino o no gli intermediari, è Dio dunque il vero creatore del mondo. Il terreno sul quale si svilupperà la filosofia del Medioevo è già quindi saldamente occupato. Ireneo ne ha d’altronde riconosciuto i punti fondamentali. In primo luogo, la creazione. Dio onnipotente ha creato tutto dal nulla attraverso il Verbo. Gli uomini non possono creare nulla senza una materia preesistente, ma Dio ha prodotto perfino la materia stessa della sua opera, materia che prima non esisteva. Dio ha creato il mondo per bontà. L'universo è nato dunque dal bene, in vista del bene, e non, come a torto credevano gli gnostici, in seguito a qualche errore iniziale. Come tutti gli altri esseri, l’uomo è direttamente e totalmente creato da Dio. Creato da Dio, egli è buono; essendo creato, egli non è perfetto, non soltanto nel senso che è finito, ma anche perché, non essendo per sé ciò che egli è, è esposto a decadere. In compenso, l’uomo può avvicinarsi progressivamente al grado di perfezione che gli è accessibile. Dicendo uomo bisogna intendere l’unità di anima e corpo. Le facoltà fondamentali dell’anima sono l’intelletto e il libero arbitrio. L’intelletto (nous) inizia col guardare le cose (contemplatur), le esamina (cogitat) ne ricava un sapere (sapit) sul quale ragiona (consiliatur), di cui discute dentro sé e che esprime infine con la parola. Come il Padre il nostro intelletto emette dunque un verbo, ma lui stesso non viene emesso dal nulla. Un essere intelligente è un essere libero; libero di usare come crede gli ordini divini. Se, come sostiene Ireneo, ogni uomo è libero dei suoi giudizi, ogni uomo ne è responsabile. È vero che il peccato ha ridotto la nostra libertà ma non l’ha distrutta; così si risolve l’unico problema che qui è in discussione: spiegare la presenza del male morale nel mondo senza impegnare la responsabilità di Dio. La scuola di Alessandria Durante il III secolo Alessandria è il centro più attivo del pensiero cristiano. Inclusa nell’Impero Romano, questa città aveva tuttavia conservato l’antica religione degli Egiziani. Alessandria comprendeva, inoltre un importante comunità di ebrei così completamente ellenizzati che si dovette tradurre per loro l’Antico Testamento dall’ebraico al greco. In questo ambiente era sorto l’alessandrinismo ebraico di cui Filone era stato il più notevole rappresentante. Poiché Ebrei e cristiani si richiamavano ugualmente all’Antico Testamento, si capisce come l’esegesi di Filone, carica di elementi platonici e stoici, abbia esercitato una notevole influenza sul pensiero dei cristiani di Alessandria. C'era infatti in Alessandria, accanto al culto egiziano, romano ed ebraico, una comunità cristiana, e di conseguenza un culto cristiano. Le origini di questa comunità sono mal note. Comunque sia, c’era sicuramente ad Alessandria, verso l’anno 190, una scuola cristiana, il cui maestro Panteno (morto nel 200) stoico convertito che pare non abbia scritto nulla, ma al quale|| Clemente di Alessandria deve il meglio della sua formazione. Quest’ultimo nato verso il 150 e morto verso il 215, pare si sia convertito presto al cristianesimo. Si stabilì presso Panteno e insegnò nella scuola cui il maestro aveva dato lustro. Le sue opere più importanti sono L’esortazione ai Greci, il Pedagogus e gli Stromata. L’esortazione è imparentata con le opere di Giustino, di Taziano e di Atenagora. Clemente vi esorta i pagani a distogliersi dal culto degli idoli per rivolgersi verso il vero Dio. Dopo aver enunciato i benefici conferiti agli uomini da Cristo, Clemente impegna i Greci a volgersi verso di lui come verso il solo maestro della verità. Supponiamo che il pagano si converta: sarà necessario modificare i suoi costumi e questa sarà l’opera del Pedagogus. Chi è? Gli uomini sono peccatori e il verbo si è assunto la funzione di prigionieri dei corpi in conseguenza della loro diserzione iniziale. Ma esse possono compiere uno sforzo per liberarsi dalla loro prigione e recuperare la loro prima condizione. Nella parola anima (psyché), Origene distingue la radice che significa freddo (psycròn). Le anime sono per lui spiriti raffreddati. Per compiere la liberazione verso cui deve tendere, l’anima deve dapprima elevarsi, grazie alla dialettica, dalla conoscenza delle cose sensibili a quella delle verità intellettuali e morali. Come fu causa iniziale della sua caduta, il libero arbitrio dell’uomo è l’agente principale del suo risollevamento. Ogni uomo è potentemente aiutato in questa impresa dalla grazia di cristo, la cui anima è la sola che sia discesa in un corpo umano senza aver perso nulla della sua somiglianza a Dio. Da questo sacrificio deriva la grazia, causa principale del nostro risollevamento, con la quale tuttavia deve collaborare il nostro libero arbitrio perché questo risollevamento ci appartenga. Quando il male avrà raggiunto il limite che Dio ha fissato per esso, il mondo sarà distrutto. Ritornati puri spiriti, i giusti si eleveranno al rango degli angeli e i cattivi scenderanno a quello dei demoni. Ogni cosa sarà sottomessa a Cristo, e attraverso lui a Dio suo Padre. Qui Origene si spinge troppo avanti. Dai frammenti del nostro mondo distrutto, Dio ne farà un altro e dopo questo altri ancora, la cui storia dipenderà per ciascuno di essi dalle libere decisioni degli esseri dotati di ragione che vi si troveranno contenuti. Sembra tuttavia che Origene abbia pensato a un lento progresso che si compie da un mondo a un altro e che il male debba un giorno sparire, eliminato dal bene. Così intravediamo, confusamente, una fine veramente ultima dei tempi. Dai grandi di Cappadocia a Teodoreto A partire dal concilio di Nicea (325), avventure dottrinali del tipo di quelle alle quali abbiamo ora assistito divenivano molto più difficili. Riunito per sistemare la controversia trinitaria provocata dalla dottrina di Ario (sosteneva l’inferiorità di Cristo rispetto a Dio) il concilio aveva definito la dottrina della chiesa. “Gesù Cristo, figlio di Dio, è stato generato dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre. Quanto a quelli che dicono: c’è stato un tempo in cui egli non era, oppure egli non era prima di essere generato, oppure egli è nato dal nulla, oppure che il figlio di Dio è creato, o mutevole, o sottoposto a cambiamento, quelli la chiesa cattolica e apostolica li anatemizza.” Dopo questa dichiarazione, le speculazioni sul Verbo non potevano consistere più che nel commentarla o nell’opporvisi con qualche eresia scientemente accettata come tale. È per questo che i teologi greci, dopo il concilio di Nicea, sembrano dapprima più diffidenti riguardo alla speculazione filosofica di quelli che li avevano preceduti. Gli scrittori cristiani del IV secolo sono, tuttavia, ancora direttamente in contatto con la cultura classica greca, verso la quale tutti continuano ad essere debitori della loro prima formazione intellettuale. Talvolta essi la giudicano con tanta severità soltanto perché debbono difendere sé stessi contro la sua influenza. Eusebio di Cesarea, nato verso il 265 a Cesarea, in Palestina, e morto vescovo di questa città nel 339 o 340, è piuttosto uno storico che un filosofo. vuole mostrare ai pagani che un cristiano può saperne quanto loro. Lo si avverte forse un po’ troppo leggendo questo libro farcito di testi e di citazioni di ogni genere: ma attraverso tutta questa erudizione viene a galla un’idea: quella di una reale parentela tra la verità cristiana e ciò che di meglio aveva la filosofia greca. Alla scuola di Cesarea di Cappadocia, fondata da Origene dopo la sua fuga da Alessandria, studiò dapprima Gregorio di Nazianzo, che spesso viene chiamato Gregorio il Teologo (329-389). Egli continuò poi gli studi ad Atene, in compagnia di uno dei suoi condiscepoli di Cesarea che doveva un giorno essere San Basilio. Ordinato prete, poi elevato all’episcopato, senza aver ambito, sembra né l’una né l’altra dignità, Gregorio rimase sempre un oratore, uno scrittore, nemico delle responsabilità della vita pubblica, rivolto alla vita interiore, all’ascesi e alla contemplazione. Egli deve il titolo di Teologo a un gruppo di cinque sermoni (tra i 45 che di lui possediamo) e che si indicano sotto il titolo distinto di “Discorsi teologici” (del 380). Essi contengono un’esposizione del dogma della trinità diventata classica nella storia della teologia cristiana e ci informano sulla posizione intellettuale dei cristiani all’epoca in cui essi furono pronunciati. Parlando dei Padri della Chiesa, noi pensiamo principalmente all’uso che essi fecero della filosofia per definire il dogma, e rischiamo di dimenticare i loro avversari che nella stessa epoca si sforzavano, al contrario di utilizzare la fede cristiana, per nutrirne la loro filosofia. L’eresia di Ario sembra essere sorta in gran parte da questo desiderio di ricondurre la religione nei limiti della ragione. Gregorio di Nazianzo e Basilio si sono trovati di fronte ad un atteggiamento analogo di razionalizzazione del dogma Cristiano. Si tratta di sapere se la metafisica avrebbe assorbito il dogma, o il dogma la metafisica. Gregorio di Nazianzo si trovava, appunto, di fronte un avversario di prima qualità nella persona dell’ariano Eunomio (morto verso il 395). Per questo capo di setta e per i suoi discepoli, il mondo dipendeva da un Dio unico, non divenuto e non generato, cioè fornito del privilegio dell’innascibilità. Da questo deriva questa conseguenza: il Verbo, che è Figlio, essendo generato, è completamente dissimile dal Padre e niente affatto consustanziale ad esso. Eunomio non cercava di circondare il mistero con una formula preoccupata di definirlo ed esporlo, ma di ricondurre il mistero sul piano dell’intellegibile. Eunomio, non aveva altro torto che quello di svuotare il mistero in nome della logica: se è nato, egli diceva del Figlio, vuol dire che prima di nascere egli non esisteva. Da ciò si comprende anche il significato dell’opera di Gregorio di Nazianzo. Rivolgendosi ai seguaci di Eunomio, li scongiura di ritornare in primo luogo alla semplicità della fede, il che non è possibile se essi non si liberano prima dei loro vizi e non attendono alla meditazione della Scrittura, non per giudicarla e criticarla come filosofi ma per sottomettervisi. Ciò non vuol dire che Gregorio rinunci a filosofare, al contrario, niente di più legittimo, purché lo si faccia con moderazione, dopo essersi istruiti sulla Scrittura per poi istruire gli altri ad essa. Che Gregorio stesso si serva di termini filosofici per descrivere il mistero non significa in alcun modo, dunque, che egli pretenda di chiarirlo o disciplinarlo. Come con piena ragione dice A. Puech: “Gregorio è profondamente cristiano, il suo pensiero e la sua vita sono sempre stati guidati dalla fede. Ma egli conserva radicato nel cuore l’antico amore, l’amore ellenico delle lettere, l’amore della poesia e della retorica. Non ha mai pensato di rinunciarvi, e se ne scusava compiacendosi nel pensiero che la fede ci è stata rivelata dal Verbo Divino. Bisogna allora che sia la parola umana a predicarla.” Non si potrebbe dire meglio; aggiungiamo soltanto che, a parte le formule, questo atteggiamento di Gregorio è quello dei tre grandi di Cappadocia. San Basilio o Basilio il Grande (330-379) originario di Cesarea in Cappadocia fu condiscepolo di Gregorio di Nazianzo. Battezzato a Cesarea egli andò a visitare i più illustri asceti di Siria e d’Egitto e di Palestina, fondò lui stesso un centro di vita monastica e compose la Regola, del resto tra le più severe, che porta ancora oggi il nome di Regola di San Basilio. Tra le opere di san Basilio sin trova un breve trattato “Ai giovani” sul modo di trarre profitto dalle lettere elleniche, dove si poneva il problema di sapere come istruire i giovani cristiani, mentre tutta la letteratura, la morale e la filosofia erano espressione di una cultura pagana. Basilio risolse il problema con eleganza, dando egli stesso l’esempio di un’opera tutta fiorita di citazioni e di esempi presi dall’antichità, ma animata d’uno spirito integralmente cristiano. Questo scritto affascinante diventerà naturalmente il programma degli ellenisti cristiani del XIV e del XV secolo. La grandezza di San Basilio non consiste tuttavia in questo, ma piuttosto nella sua opera di teologo. Anch’egli si oppose duramente al filosofismo di Eunomio e dei suoi seguaci, nel suo Adversus Eunomium. Non bisogna partire dall’innascibile di Eunomio perché così si renderebbe impossibile la consustanzialità del figlio col padre, ma dall’essere, che al contrario rende possibile la comunità di essere del Padre e del Figlio. Siamo di fronte a due attitudini speculative inconciliabili, perché, pur dicendosi entrambi, Eunomio e Basilio, cristiani, l'uno procede per definizioni astratte di cui sviluppa le conseguenze attraverso un'analisi logica, mentre l’altro parte dalla fede cristiana, presa nel suo termine esatto e concreto, per descriverne il contenuto. L’opera di san Basilio di maggiore interesse per la storia della filosofia è la raccolta delle sue nove Omelie sull’Hexameron, cioè sui sei giorni della creazione. Quest’opera è il prototipo di una famiglia di scritti che si moltiplicheranno nel medioevo. Un In Hexaemeron è essenzialmente un commento dei capitoli del Genesi che raccontano la creazione del mondo, dove l’autore coglie l'occasione del testo sacro per sviluppare le sue vedute filosofiche o le nozioni scientifiche che vi si riferiscono. Per la loro stessa natura, tali opere non si prestavano all’esposizione sistematica di una dottrina, ma vi si trovano spesso informazioni utili sulle conoscenze reali dei loro autori. La natura è l’opera di Dio, che l’ha creata, nella sua interezza, compresa la materia. Non bisogna dunque immaginare una specie di materia primitiva comune, da cui Dio avrebbe plasmato tutti gli esseri. Infatti, ogni classe di esseri ha ricevuto da Dio il genere di materia che le conviene. La struttura del mondo di san Basilio è già nelle sue grandi linee quella che il medioevo, fino alla fine del XIV sec, continuerà ad assegnarli. In principio i 4 elementi erano mescolati, ma ciascuno di essi ha raggiunto il suo luogo naturale: il fuoco in alto, poi l’aria, l’acqua e la terra. Ogni elemento possiede una qualità caratteristica; il fuoco è caldo, l’acqua fredda, l’aria umida, la terra secca; ciascuno di essi può mescolarsi agli altri contraendo alcune delle sue qualità. Questa concordia o armonia degli elementi rende possibili le loro combinazioni che costituiscono la struttura stessa dell’ordine universale. Non si può separare da Basilio il suo fratello minore, san Gregorio di Nissa (335 c.ca morto dopo il 394). Formatosi sotto la direzione di Basilio, di cui subì fortemente l’influenza. Dall’insieme dei suoi scritti, 3 particolarmente s’impongono alla nostra attenzione: il suo trattato Sulla formazione dell’uomo, il Commento sul Cantico dei Cantici, il Dialogo con Macrina sull’anima e l’immortalità. L’universo si divide in due zone, quella del mondo visibile e quella del mondo invisibile. L’uomo appartiene col corpo al mondo visibile con l’anima al mondo invisibile, e serve, per così dire, da legame fra i due. Egli occupa la sommità del mondo visibile, in quanto è un’animale dotato di ragione. Sotto di lui sono disposti in ordine gli animali, poi i vegetali e infine i corpi inanimati. L’uomo contiene in sé tutti i gradi della vita. Non bisogna tuttavia concepirlo come dotato di parecchie anime: la sua ragione contiene in sé le facoltà di vivere e di servire. La principale difficoltà è sapere come spiegare l’unione di anima e corpo. Gregorio di Nissa non pensa che il problema si possa completamente risolvere. Per definizione, un’anima è il principio animatore di necessari, naturali ma non necessari, né naturali né necessari. Al di sopra di queste passioni animali stanno i piaceri puramente spirituali, ma si dovrebbe chiamarli gioie piuttosto che piaceri, perché un piacere è una passione, ma una gioia è un’azione. Quanto alle pene e alle affezioni, come la collera e la paura, non sono che passioni animali nel senso stretto del termine. Sotto di esse si trovala parte irrazionale dell'anima, che non obbedisce alla ragione; essa comprende le funzioni nutritiva, generativa e vitale. Le azioni dell’uomo sono più difficili da definire delle sue passioni. Si classificano in volontarie e involontarie. Mentre il principio dell’atto è esterno all’agente e spesso s’accompagna da un’ignoranza delle circostanze dell’atto, il principio dell’atto volontario è interno all’agente e si accompagna a una dettagliata conoscenza delle circostanze. L’inizio del V sec abbonda di tentativi curiosi che permettono di rappresentarsi un’epoca nella quale giungevano al cristianesimo spiriti di culture differenti, ciascuno con idee personali che conservava, una volta diventato cristiano. Una delle più curiose figure di quest’epoca è quella di Teodoreto (386-458). Questo arcivescovo di Ciro ha composto, tra il 429 e il 437 una Guarigione dalle malattie greche. Si trattava per dei credenti di imporsi di non essere ignoranti. Dei dodici libri di cui si compone l’opera, i primi sei sono i più interessanti per la storia delle idee filosofiche. Gli avversari della fede sono dei presuntuosi, più o meno con un’infarinatura di filosofia, che Teodoreto cerca di guarire dalla loro malattia. D’altronde fede e sapere sono inseparabili, perché la credenza precede la conoscenza, e la conoscenza accompagna la credenza. Prima credere e poi comprendere, ecco l’andamento normale di ogni insegnamento. Da Dionigi a Giovanni Damasceno Una delle fonti più importanti del pensiero medievale è un insieme di scritti spesso indicato col titolo di “Corpus Aereopagiticum”. Esso comprende le seguenti opere: Della gerarchia celeste, Della gerarchia ecclesiastica, Dei nomi divini, Teologia mistica, Dieci lettere. Il loro autore si presenta come discepolo di San Paolo e le sue opere portano il nome di Dionigi. I suoi scritti compaiono nella storia per la prima volta nel 532, prodotti in appoggio alle loro tesi, durante un colloquio teologico, dai seguaci di Severo d’Antiochia, rifiutati invece come apocrifi dai cattolici. Così come noi lo conosciamo, deve dunque essere stato composto verso l’inizio del V secolo. La sua opera è completamente priva di controversie e questo per deliberato proposito. Confutare i Greci gli interessava meno che esporre la verità cristiana. Il trattato più ricco di dati filosofici è consacrato al problema “Dei nomi divini”. Partendo dal fatto che la scrittura da a Dio una quantità di nomi diversi, Dionigi si chiede in che senso sia legittimo attribuirglieli. Il problema era di importanza tanto fondamentale che il trattato sarà più volte commentato nel medioevo specialmente da San Tommaso d’Aquino. L’intenzione dell’autore è di non dire e di non pensare, a proposito di Dio, nulla che non sia contenuto nelle Scritture e da esse garantito. Poiché soltanto Dio si conosce, solo lui può dunque farsi conoscere. Decifrare la creazione alla luce delle Scritture è aprirsi alla grazia dell’illuminazione divina, conoscere Dio come causa, essere e vita di tutti gli esseri, restaurare in sé stessi la somiglianza divina cancellata, dominare le passioni della carne e ritornare alla propria origine. È per aiutarci in questo che le scritture danno a Dio i nomi di cui fanno uso: unità, bellezza, sovranità e altri ancora. Tuttavia, non sono che nomi adatti alla nostra condizione e che nascondono l’intellegibile sotto il sensibile. I semplici fedeli, tuttavia, gli attribuiscono i nomi di cui si serve la scrittura ma quelli illuminati da una luce superiore sanno andare al di là della lettera, avvicinandosi alla condizione degli angeli e unirsi intimamente alla stessa luce divina. Questi due atteggiamenti possono d’altronde conciliarsi in un terzo, che consiste nel dire che Dio merita ciascuno di questi nomi in un senso inconcepibile per la ragione umana, perché egli è un “iper-essere”, una “iper-bontà”. Dionigi ha dato uno stupefacente esempio di teologia negativa in un breve trattato, ne “La Teologia mistica”, la cui influenza s’è esercitata profondamente nel pensiero del Medioevo. Il Dio di Dionigi assomiglia all’idea del bene descritta da Platone nella sua Repubblica: come il sole sensibile penetra con la sua luce tutte le cose, così il bene si diffonde in natura, in energie attive, in esseri intellegibili e intelligenti che a lui debbono il loro essere quel che sono. Sviluppandosi per gradi, questa illuminazione divina genera naturalmente una gerarchia il che significa in primo luogo uno stato, nel senso che ogni essere è definito per quello che è e per il posto che occupa in questa gerarchia; poi una funzione, nel senso che ogni membro della gerarchia riceve l’influenza dall’alto per trasmetterla a sua volta. In rapporto alla creazione, Dio è dunque il Bene, in rapporto a sé stesso il nome che meno male gli si addice, tra quelli presi a prestito dalle creature, è quello di Essere. Egli è “colui che è” e a questo titolo egli è causa di ogni essere. Poiché egli sussiste eternamente in sé stesso, egli è colui per il quale tutto il resto sussiste a titolo di partecipazione. Dicendo che Dio è l’Essere, Dionigi non dimentica che si tratta sempre qui soltanto di un «nome divino». Infatti, Dio non è l’essere, ma è al di là dell’essere. Tutto proviene dunque, come da sua causa, da un non essere primitivo. Come dice Dionigi nel V capitolo “Dei nomi divini”: “è per la loro partecipazione all’essere che i diversi principi delle cose esistono e diventano principi: ma dapprima esistono, in seguito diventano principi”. Ciò che qui si deve ricordare è che Dio produce l’essere come sua prima partecipazione, dunque l’essere deriva da Dio, ma Dio non deriva da lui. Ritornando alla terminologia di Proclo e di Plotino, Dionigi preferisce chiamarlo l’Uno; infatti, Dio contiene tutto in sé in un’unità pura ed è esente da ogni molteplicità; il molteplice non può esistere senza l’uno ma l’uno può esistere senza il molteplice. Ma perché parlare dell’Uno? Dio non è la sola unità di principio del numero che noi conosciamo perché non è più l’uno di quanto non sia l’essere. Dio non ha nome: egli non è né divinità, né paternità, né filiazione; in breve, egli non è niente che non è e niente di ciò che è; nessun essere lo conosce quale egli è. La dottrina di Dionigi eserciterà un vero fascino sul pensiero del Medioevo. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Fino al momento in cui Lorenzo Valla ed Erasmo non solleveranno i primi dubbi a questo proposito, tutti considereranno San Paolo forse come il testimone di qualche segreto insegnamento apostolico. Le opere in cui s’era espresso il pensiero di Dionigi furono tradotte e ritradotte numerose volte, furono oggetto di innumerevoli commenti e restarono oggetto di meditazione per Tommaso d’Aquino e molti altri. L’alto medioevo non disgiungerà l’opera di Dionigi da quella del suo commentatore Massimo di Crisopoli, chiamato comunemente Massimo il confessore (580-662). Oltre a numerosi scritti di controversia teologica, possediamo un libro di commenti teologici la cui importanza è considerevole per la storia del pensiero Medievale. Quest’opera ha per titolo: Intorno ad alcuni passi particolarmente difficili di Dionigi e di Gregorio di Nazianzo. Un certo Tommaso aveva inviato a Massimo un elenco di passi oscuri tratti dalle Omelie di Gregorio di Nazianzo e dalle opere di Dionigi pregandolo di chiarirli. Dio è la pura monade, non quell’unità numerica che, per addizione, genera i numeri, ma la fonte, essa stessa indivisibile e non moltiplicabile, da cui deriva il molteplice senza alterarne la purezza. La monade è dunque il principio di un certo movimento. Il primo movimento della Monade dà vita alla Diade, con la generazione del Verbo che è la sua manifestazione totale, poi supera la Diade producendo la Triade, con la processione dello Spirito Santo. Il primo movimento della Monade si ferma qui, perché la sua suprema manifestazione è allora perfetta. Questo primo movimento è il principio di un secondo: la manifestazione di Dio fuori di sé, in esseri che non sono Dio. Il verbo contiene eternamente in sé l’essenza, cioè la realtà stessa di tutto ciò che esiste. Ciascuno di questi esseri vi è eternamente conosciuto, voluto, stabilito, per ricevere la sua esistenza e la sua sostanza al tempo opportuno. Non dobbiamo dunque immaginare che Dio prenda una decisione particolare ogni volta che un nuovo essere appare. Questa rivelazione di Dio si chiama creazione. Con un’effusione di pura bontà, la Triade divina irradia queste espressioni di sé che sono le creature. Così le vediamo comparire in una specie di gerarchia, ciascuna al posto che le assegna la propria perfezione, quelle permanenti occupandolo per tutta la durata del mondo, quelle transitorie venendo a prendervi il proprio posto nel momento che la saggezza di Dio assegna loro e facendosi da parte davanti ad altre quando il loro tempo è trascorso. La maggior parte degli esseri così prodotti non ha altra storia da quella che la loro essenza assegna loro. Altri invece sono capaci di determinare in certa misura il posto che occuperanno nella gerarchia degli esseri. Questi sono capaci, con la decisione della loro libera volontà di crescere o decrescere in quanto partecipazioni divine. L'uomo è nel numero di questi esseri. Egli è fatto di un corpo materiale, divisibile e quindi perituro, e di un'anima immateriale, indivisibile e quindi immortale. Come il corpo non potrebbe esistere senza di lei, non saprebbe esistere prima di lei. L'anima razionale coesiste dunque col corpo fin dal momento stesso in cui è concepito l’embrione. Non diciamo dunque che l’anima esiste prima del corpo: saremmo condotti in tal modo all’errore mostruoso di credere che Dio non ha creato i corpi che come prigioni, dove le anime dei peccatori subiscono la pena dei loro crimini. Così creato nell’anima e nel corpo, l’uomo era capace con la conoscenza di muoversi verso il centro immobile che è il suo creatore. La sua funzione era di raccogliere il molteplice nell’unità della sua conoscenza e di riunirlo a Dio. L’uomo ha fatto esattamente il contrario, ha disperso ciò che era uno volgendosi dalla conoscenza di Dio a quella delle cose; è in quel momento che colui che per sua natura è completamente immobile si è posto in movimento verso la natura decaduta per ricrearla. Questo ricongiungimento della natura umana alla natura divina è la redenzione dell’uomo. Essa ci dà nuovamente il modo di conseguire il nostro fine e ce ne indica la via. Questo ricongiungimento della natura umana alla natura divina è la redenzione dell’uomo; il termine di ogni nostra agitazione deve essere il raggiungimento dell’immobilità di Dio. Muoversi verso Dio è quindi impegnarsi a conoscerlo, il miglior modo di conoscere è avvicinarsi e assimilandosi a lui; muovendosi così verso Dio con la conoscenza, l’uomo non fa che risalire con un movimento inverso alla sua caduta verso l’idea eterna di sé stesso che, come sua causa, non ha mai cessato di esistere in Dio. Forte di questa speranza, Massimo prevede già il giorno in cui, alla fine dei tempi, l’universo ritornerà così verso la sua causa. La divisione degli esseri umani in due sessi distinti sarà la prima a scomparire; la terra abitata, in seguito, subirà una metamorfosi unendosi al paradiso egli l'ha creato. Quanto allo spirito Santo, esso s’aggiunge al padre e al verbo senza rompere l'unità di Dio. La dottrina di Tertulliano è semplice, ma questo vigoroso ed eloquente scrittore aveva il dono delle formule essenziali. C'erano in lui, del resto, con i difetti anche troppo evidenti, un ardore e una sincerità avvincenti che furono per gran parte all'origine dei suoi errori, dato che le sfumature gli sembravano compromessi. Si tolse successivamente da due chiese, perché le trovava troppo indulgenti alle esigenze del corpo. Anche per questo aspetto del suo pensiero, Tertulliano s'inizia stranamente a Taziano. L'affascinante Minucio Felice e il suo dialogo di andamento ciceroniano, l’Octavius, evocano, invece, il ricordo di Giustino. Fino ad oggi, gli eruditi non hanno potuto decidere se l’opera di Minucio sia anteriore o posteriore a quella di Tertulliano. Una delle ragioni che rendono interessante l’Octavius è la coscienza così giusta che, invece, ebbe il suo autore degli scrupoli di un pagano che sta per convertirsi. Di tutti gli apologisti del III secolo, Minucio Felice è il solo ad averci presentato i due aspetti della questione. Egli, fedele alle sette di Cicerone, riporta una conversazione immaginaria che avrebbe avuto luogo in sua presenza a Ostia, tra il pagano Cecilio Natale e il cristiano Ottavio. In primo luogo, c'era, nel dogmatismo della fede cristiana, qualcosa di fastidioso per un pagano colto. I cristiani, anche i più incolti, avevano una risposta a tutto, sull'esistenza di Dio, la sua natura, la creazione del mondo, la provvidenza. Che cosa di più insopportabile che questa gente per un accademico? A queste obiezioni Ottavio risponde con cortese fermezza, osservando che non c'è ragione alcuna per cui la verità debba restare patrimonio di un piccolo numero di persone. In seguito, riprendendo ciascuno dei punti toccati da Cecilio, egli mostra che l'ordine del mondo suppone un ordinatore, cioè un Dio unico e provvidenziale, come quello dei cristiani. Infine, Ottavio mostra come le parecchie credenze di quest’ultimi siano state presentate dai filosofi e anche dai poeti pagani. Fine del mondo, immortalità dell'anima, premiazioni dei buoni e castigo dei cattivi dopo la morte. Cecilio ha tanta buona grazia da lasciarsi convincere, e abbraccia la religione di Ottavio. Accostandoci ad Arnobio (260-327) non usciamo dall'Africa. Insegnava da lungo tempo retorica a Sicca, sua città natale. Verso il 296, questo avversario di Cristo si proclamò cristiano e chiese il battesimo, ma il vescovo di Sicca si rifiutò. Arnobio, allora, iniziò a convincerlo, e, in vista di questo, scrisse un’apologia della religione da abbracciare. Fu questa l'origine dell’Adversus notiones, apologia del cristianesimo da parte di un uomo che non era ancora cristiano, se non per desiderio. È vero che, se si giudicasse dai dati positivi che l’Adversus nationes contiene, il bagaglio dogmatico di Arnobio sembrerebbe assai leggero. Questo neofita vuole provare che la sua professione di fede cristiana è sincera e che egli ha veramente smesso di essere pagano; nessuno ne dubita, dopo averla letta, ma non ci si dovrebbe attendere, da un semplice candidato al battesimo, che parli con l'autorità di un padre della Chiesa. Questo professore di retorica, di recente convertito al cristianesimo, aiuta a vedere ciò che uno spirito colto, liberato definitivamente dal paganesimo, inizialmente accoglieva della nuova religione. Il Cristo è per lui principalmente un maestro, tenuto per rilevare agli uomini la verità sulla natura di Dio. Un Dio sovrano, signore di tutto ciò che esiste, che noi dobbiamo adorare, invocare con rispetto e venerare. Ecco qual era per Arnobio, l'essenziale di questa religione. Il cristianesimo era, innanzitutto, per lui, la rivelazione del monoteismo attraverso il Cristo. Ma insegnare agli uomini l'esistenza di un solo ed unico Dio era insegnar loro, insieme, la causa e la spiegazione ultima di tutto ciò che è. Nel Adversus notiones si sono notate le parecchie tracce di scetticismo. Questa tendenza si spiega benissimo con l'esperienza personale di Arnobio. Inesorabile sull'assurdità delle teologie pagane, egli non poteva dimenticare di essersi pienamente prosternato davanti a dei pezzi di legno e anche a sassi strofinati d'olio. Il favore supremo di Dio e agli uomini è quello di averli sollevati dalla passata alla vera religione. Quest'uomo di Arnobio, animale informe, che non vede ciò che ha sotto gli occhi, e il primo di una famiglia autenticamente cristiana in cui più tardi figureranno Montaigne, Charron, Pascal. Scettici, se vogliamo, ma di uno scetticismo che è meno affermazione del potere che ha la ragione di giudicare la fede, che constatazione della propria incapacità di conoscere, meno rivendicazione della grandezza dell’uomo, che confessione della sua miseria. Arnobio ebbe almeno il merito di abbozzare i temi principali di ogni apologia di questo tipo. Il primo tema è sempre stato l’enumerazione dei problemi inevitabili per ogni spirito umano, di cui tuttavia ci sfugge la soluzione. Questo tema ne introduce di solito un secondo: poiché sugli argomenti in questione noi non sappiamo nulla, e tuttavia crediamo qualunque cosa, che c'è di straordinario o ridicolo in un atto di fede? Ogni attività degli uomini dipende dalla convinzione che molti avvenimenti non mancheranno di verificarsi, anche se la ragione è incapace di dimostrarlo. Perché i cristiani non dovrebbero credere a ciò che dice Cristo? È l'eterna forza e debolezza dell'argomento. Un terzo tema, familiari a quelli che talvolta si chiamano gli “scettici cristiani”, è la svalutazione metodica dell'uomo e relativo elogio degli animali. Tra i primi apologisti cristiani, parecchi sembrano, al contrario, essere stati colpiti da un altro aspetto del problema, ovvero essi hanno visto assai bene che, in Platone, l’immortalità dell’anima era solidale con la sua preesistenza, e che farne una sostanza spirituale, di pieno diritto immortale, significava farne un Dio. Inutile farsi cristiani per ricadere subito nel panteismo. È per questo che Giustino, Taziano, e altri hanno affermato con energia che l’anima è immortale soltanto perché Dio lo vuole. Coloro che sostengono che le anime sono immortali per natura sono, per lui, gli stessi che vedono in esse esseri prossimi a Dio per dignità, ricche di un’innata saggezza e senza contatto con i corpi. È per meglio confonderli che egli insiste sul fatto che gli uomini non sono anime, ma animali; piuttosto losono per il corpo, il modo di nutrizione e di riproduzione. Ammettiamo dunque che l’uomo ha saputo conquistare una certa conoscenza delle cose e che a sua volta dà prova di un certo ingegno. È stato necessario che gli uomini, acquisissero queste conoscenze progressivamente e a prezzo di grandi sforzi. In breve, non hanno portato le loro anime dal cielo, scendendo nei corpi. Fermamente convinto della divinità di Cristo (II 60), non sembra che Arnobio abbia saputo granché del dogma della Trinità. Il Dio supremo di cui egli spesso parla (Deus summus) sembra sovraintendere a molti altri dei, e Cristo spesso appare come un Dio incaricato di istruire la nostra ignoranza e di salvare le nostre anime. Queste anime non sono create da Dio supremo, ma da un membro eminente della sua corte celeste (II 36); sono esseri di qualità mediana: se ignorano Dio, esse saranno annientate, cioè moriranno di una morte totale; ma sopravvivranno se conoscono Cristo e invocano il suo soccorso (II 14). Nessuno pensa di fare di Arnobio un Dottore della chiesa; l’Adversus notiones resta tuttavia uno dei documenti più istruttivi e lo è per le sue stesse lacune. Il tono di Lattanzio è ben diverso da quello di Arnobio. Professore di retorica a Nicomedia, convertito al cristianesimo verso il 300 e nel 316 l’imperatore Costantino lo incaricò dell’educazione di suo figlio. Nella sua opera principale Divinae Istitutiones (307-311), egli si rivolge appunto a Costantino. Prima di questa apologia scritto un De opificio Dei (305) e due trattati, il De ira Dei e il De mortibus persecutorum (314). Lattanzio è, di solito, tanto tranquillo e calmo ma l’eleganza uniforme del suo stile non esclude tuttavia la fermezza, e appare evidente che questo uomo mite non era incapace di collera. Lattanzio segue la sua via con spigliatezza e senza fretta, spiegando instancabilmente e commentando a proprio agio la verità che egli ama, con un candido e sempre rinnovato stupore per la fortuna di essere cristiano. Lattanzio non è pit metafisico di quanto sia sapiente, ma è un testimone di prima qualità della sorpresa che tanti pagani provarono di fronte ad una religione in cui, a non considerarla che, come filosofia, la fede prevaleva di gran lunga sulla filosofia stessa. C'era nelle credenze cristiane più razionalità che nella razionalità. Quel è il messaggio di Lattanzio ai pagani del suo tempo? Che cos’è la felicità se non la conoscenza del vero? Lattanzio ha trovato il vero nella fede cristiana; egli è felice e vuole che tutti lo siano come lui. Da qui i sette libri della Divinae Institutiones. Rivolgendosi ai pagani del suo tempo, egli pensa ai pagani del passato, soprattutto Cicerone. Che cosa sapeva di Dio Cicerone al temine delle sue ricerche? Niente. Cercando la causa di questi errori, Lattanzio incontra una idea: la piaga del pensiero pagano fu il divorzio della sapienza e della religione. Invece, la grande novità del cristianesimo è il collegamento di religione e sapienza. Questo è anche l’oggetto principale delle Istituzioni di Lattanzio: “i pagani accettano delle false religioni per mancanza di sapienza, o delle false forme di sapienza per mancanza di religione. Era a lui, allora, a Lattanzio, che era devoluto il compito di difendere tutta la verità. Capace di spiegare l’esistenza di Dio e della sua provvidenza con l’ordine del mondo, perché era un tema già conosciuto, egli perde il filo del discorso ogni volta che intoppa in una questione tecnica. La sapienza che Lattanzio insegna si riduce a questo: “il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l’autore del mondo e di noi stessi, Dio; lo riconosciamo per rendergli culto, gli rendiamo culto per ricevere l’immortalità in compenso ai nostri sforzi. Lattanzio sa che Dio è incomprensibile e ineffabile, ma pensa, con Seneca, che Dio s’è fatto da sé, sembra attribuirgli una figura e una forma, e crede che egli abbia proferito oralmente il suo Verbo, generandolo dal suo pensiero con un’emissione di voce. Quanto all’uomo, Lattanzio non dubita che la sua anima sia immortale, ma ritiene, con Tertulliano, che il vero uomo si nasconde, invisibile, nel corpo visibile che lo avvolge. Egli stesso non ne sa granché, ma si esprime ovunque come se il pensiero, e a maggior ragione l’anima, fossero una natura sottile e tenue, dunque degli elementi materiali. Se egli non ha mai insegnato in alcun modo il dualismo manicheo di bene e male, è stato incline a ciò che si chiama a ragione “dualismo subordinato”. Lattanzio ha trovato il diavolo così utile a Dio che ne ha fatto quasi un agente necessario dell’ordine universale. Dio, quindi, ha creato prima l’avversario come istigatore delle tentazioni che l’uomo poi dovrà superare con la virtù. Ma ci si può fidare di Mefistofele come apologista? Evidentemente l’apologetica latina ha sofferto di una certa carenza di cultura filosofica, alla quale la cultura romana, da sola, non offriva alcun rimedio. Sant’Ilario di Poitiers (morto nel 368), si è convertito molto tardi al cristianesimo, in seguito alle lunghe riflessioni dalle quali egli stesso ci informa all’inizio del suo De Trinitate. Egli aspirava alla felicità e la cercava nella virtù, ma non poteva credere che un Dio così buono ci avesse dato la vita e la felicità per privarcene in seguito; questo rilievo lo condusse a concludere che Dio doveva conoscenza con cui essa si esprime (notitia) e dal suo rapporto con questa conoscenza sorge l’amore. Essere analogo alla trinità significa essere una testimonianza vivente del Padre, del Figlio e dello Spirito. Conoscere sé stesso è conoscersi come immagine di Dio, è conoscere Dio. In questo senso il nostro pensiero è ricordo di Dio. Tutta questa dottrina implica l’idea di una creazione, che ci viene imposta dal modo stesso in cui abbiamo trovato Dio. Egli è l’essenza di cui gli esseri attestano l’esistenza. Le cose, per la loro stessa mutabilità, non cessano di proclamare il fatto che sono state create da Dio. Dio contiene eternamente in sé i modelli archetipi di tutti gli esseri possibili. Questi modelli eterni sono le idee, increate e consustanziali a Dio e al verbo. Per creare il mondo, Dio non ha avuto che dirlo; dicendolo, lo ha voluto e fatto. Il racconto dell’opera dei sei giorni deve essere inteso allegoricamente. Tutti gli esseri futuri sono stati prodotti fin dall’origine, con la stessa materia, ma sotto forma di germi che devono ancora svilupparsi. Agostino ha concepito quindi la storia del mondo come sviluppo perpetuo o come un’evoluzione. Il mondo di Agostino si dispiega nel tempo, e il tempo si dispiega col mondo. Le più nobili creature di Dio sono gli angeli, che non si sa se siano corporee o meno. L’uomo viene dopo, molto simile all’angelo, ma sicuramente corporeo. Puramente spirituale e semplice, l’anima è unita al corpo da un’inclinazione naturale che lo porta a vivificarlo e così, a formare l’uomo. Il corpo non è la prigione dell’anima, ma lo è diventato per effetto del peccato originale, e lo scopo della vita morale è di liberarcene. Dio, essendo immutabilità, è la pienezza dell’essere; egli è, dunque, il bene assoluto. Creata dal nulla, la natura dell’uomo non è buona che per quel tanto che essa è. Il bene è proporzionale all’essere, dal che consegue che il male non può essere considerato come appartenente all’essere. Dunque, il male non esiste. Questo nome designa l’assenza di un certo bene in una natura che dovrebbe possederlo e ciò permette di spiegare la presenza del male in un mondo creato da Dio. Quanto al senso morale, il male s’incontra solo negli atti delle creature razionali. Questi atti sono liberi: le colpe morali derivano dunque dal cattivo uso che l’uomo fa del suo libero arbitrio. È lui ad esserne responsabile, non Dio, ma il libero arbitrio è un bene ed è anche la condizione del più grande bene: la beatitudine. Il peccato originale ha avuto come conseguenza la ribellione del corpo contro l’anima, che ha portato alla concupiscenza e all’ignoranza. Rivolta alla materia, l’anima si appaga del sensibile e, dato che trae da sé stessa le sensazioni e le immagini, si sfinisce a causa della perdita di sostanza. Essa cessa dunque di riconoscersi e arriva a credersi anche lei un corpo. Questo, e non il corpo stesso, è la tomba dell’anima. L’uomo ha potuto cadere spontaneamente, ma il suo libero arbitrio non gli basta a risollevarsi, serve l’intervento della Grazia per lottare contro gli assalti della concupiscenza. Senza la grazia non si può conoscere la legge. Iniziativa divina, la grazia precede ogni sforzo fatto per risollevarsi. L’uomo che è completamente dominato dalla grazia di Cristo è il più libero, ma questa libertà plenaria è accessibile solo dopo la morte. Volgendoci al corpo e alla materia l’abbiamo perduta e guardando a Dio possiamo recuperarla. La conversione a Dio consiste nello sforzo di volgersi dal sensibile all’intelligibile, cioè dalla scienza verso la sapienza. La sola ragione per filosofare è essere felici. Gli uomini che amano Dio sono uniti a lui dall’amore che gli portano e sono così anche uniti tra loro. Tutti i cristiani di tutti i paesi e di tutte le epoche sono uniti dal comune amore per lo stesso dio e quindi formano un popolo. La costruzione progressiva della città di Dio è quindi una grande opera, che dà significato alla storia universale. Da Boezio a Gregorio Magno Boezio, nato a Roma verso il 470 e morto verso il 525, studiò dapprima a Roma, poi ad Atene. Legato alla persona del re goto Teodorico, fu accusato di cospirazione, vide confiscati i suoi beni e fu imprigionato. È durante una lunga detenzione che egli scrisse il De consolatione philosophiae. Fu, infine, giustiziato a Pavia. Poiché la sua condanna fu dapprima attribuita a motivi religiosi, lo si considerò a lungo un martire. La critica moderna ha messo in dubbio a lungo l’autenticità degli opuscoli teologici che gli sono tradizionalmente attribuiti. La scoperta, nel 1877, di un frammento di Cassiodoro attribuisce a Boezio un “librum de sancta Trinitate est capita quaedam dogmatica”, sembra aver posto fine alla controversia. L’opera di Boezio è multiforme e non c’è un aspetto del suo pensiero che non abbia influenzato il Medioevo. Gli si devono ringraziare notevoli traduzioni e commenti alle opere di: Porfirio, Cicerone e molte opere di Aristotele; inoltre divenne professore di logica del Medioevo fino al momento in cui, nel XIII secolo, l’Organon completo di Aristotele fu tradotto in latino. Il successo di Boezio non è effetto del caso. Egli stesso s’era assegnato questo ruolo d’intermediario tra la filosofica greca e il mondo latino. L’autore del De consolatione philosophiae non soltanto ha trasmesso al Medioevo l’immagine allegorica della filosofia, ma ha lasciato una definizione e, allo stesso tempo, una classificazione delle scienze che essa dominava. La filosofia è l’amore per la sapienza; quest’ultima è questo pensiero vivente, causa di tutte le cose, che sussiste in sé stessa e non ha bisogno che di sé per sussistere. La filosofia, dunque, può essere considerata indifferentemente come il conseguimento della sapienza, la ricerca di Dio o l’amore di Dio. La filosofia presa come genere, si divide in due specie: teorica e pratica. La prima si suddivide a sua volta in tante scienze quante sono le classi degli esseri da studiare. Tre tipi di esseri sono oggetto di conoscenza vera: gli intellettibili (intellectibilia), gli intelligibili (intelligibilia) e i naturali (naturalia). Con il termine intellettibili, Boezio intende gli esseri che esistono o dovrebbero esistere fuori dalla materia. Tali sono Dio e gli angeli, forse l’anima separata dal corpo. Gli intelligibili, invece sono degli esseri concepibili dal puro pensiero, ma caduti nei corpi: le anime nel loro stato presente. La scienza intellettibile è la teologia; Boezio non propone un nome per quella dell’intelligibile. Restano i corpi naturali, la scienza dei quali è la fisiologia (la fisica). Come la filosofia teoretica si divide secondo gli oggetti che si devono conoscere, la filosofia pratica si divide secondo gli atti che si devono compiere. Essa comprende tre parti: quella che insegna a comportarsi da soli mediante l’acquisizione delle virtù, quella che consiste nel far regnare nello stato queste stesse virtù di prudenza, giustizia, forza e temperanza; infine, quella che presiede all’amministrazione della società domestica. Boezio chiama Quadrivium il gruppo di quattro scienze che copre lo studio della natura: aritmetica, geometria, astronomia e musica. E il senso che lui gli dà è “quadruplice via verso la sapienza”. A queste quattro parti della filosofia s'aggiungono altre tre discipline, il cui insieme forma il Trivium: la grammatica, la retorica e la logica. Esse si propongono più il modo di esprimere la conoscenza che l'acquisizione della conoscenza stessa. La logica di Boezio è un commento di quella di Aristotele, in cui spesso traspare il desiderio di interpretarla secondo la filosofia di Platone - questo perché segue da vicino il commento di Porfirio. Tutti i professori commenteranno il testo di Boezio, ma mentre gli uni prenderanno in considerazione ciò che egli aveva conservato di Aristotele, gli altri, al contrario, si collegheranno a ciò che il suo autore vi aveva introdotto di Platone. Sotto questo aspetto, il problema cruciale è quello della natura delle idee generali, o universali. Si considera, come punto di partenza della controversia, un passaggio del suo Isagoge (Introduzione alle Categorie di Aristotele) dove, dopo aver enunciato che il suo studio verterà sui generi e sulle specie, il platonico Porfirio aggiunge che egli più tardi deciderà se i generi e le specie siano delle realtà sussistenti in sé o semplicemente concezioni della mente; suppone comunque che siano delle realtà, ma si rifiuta per il momento di dire se siano corporee o incorporee; infine, supponendo che siano incorporee, declina di esaminare se esistano separatamente dalle cose sensibili o soltanto unite ad esse. Ora, si contesta che Boezio stesso non ha imitato la discrezione di Porfirio e che, nel suo desiderio di conciliare Platone e Aristotele, egli ha proposto due soluzioni. Nei suoi due commenti all’Introduzione alle Categorie di Aristotele, prevale, naturalmente, la risposta di Aristotele. Boezio dimostra dapprima l’impossibilità che gli universali siano delle sostanze. Prendiamo come esempio, l’idea del genere “animale” e quella della specie “uomo”. I generi e le specie, per definizione, sono comuni a dei gruppi di individui; ora, ciò che è comune a parecchi individui non può essere esso stesso un individuo. È impossibile che il genere, per esempio, appartenga interamente alla specie (un uomo che possiede interamente l’animalità); supponiamo che nulla assolutamente corrisponda nella realtà alle idee che noi ne abbiamo: il nostro pensiero, pensandole, non pensa nulla. Ma un pensiero senza oggetto non è che un pensiero di niente. Se ogni pensiero degno di questo nome ha un oggetto, bisogna che gli universali siano dei pensieri di qualcosa, sicché il problema della loro natura ricomincia subito a porsi. Di fronte a questo dilemma, Boezio aderisce ad una soluzione che prende a prestito da Alessandro d’Afrodisia. I sensi ci danno le cose in stato di confusione; il nostro spirito (animus), che gode del potere del separare e di ricomporre questi dati, può distinguere nei corpi delle proprietà che non si trovano che in stato di mescolanza. I generi e le specie sono tra questi; o lo spirito li scopre in esseri incorporei, nel qual caso li trova completamente astratti, oppure li trova in esseri corporei, nel qual caso egli estrae dai corpi ciò che essi contengono di incorporeo per considerarlo a parte come una forma nuda e pura. Forse si obietterà che ciò significa ancora pensare ciò che non è, ma l’obiezione sarà superficiale, perché non c’è errore nel distinguere col pensiero ciò che nella realtà è unito. Nulla, quindi, impedisce di pensare a parte i generi e le specie, benché essi non esistano a parte. E tale è la soluzione del problema degli universali: essi sussistono in unione con le cose sensibili, ma li si conosce separatamente dai corpi. Boezio ha trasmesso dunque al Medioevo più che una semplice posizione del problema degli universali, e la soluzione che egli ne proponeva era sì quella di Aristotele, ma egli non la proponeva senza riserva. Egli ci dice semplicemente che lo spirito preleva l’intelligibile dal sensibile, “ut solet”, senza ragguagliarci in alcun modo sulla natura e la condizione di questa misteriosa operazione. I lettori di Boezio non hanno dovuto quindi stupirsi troppo di trovare nel V libro dei De consolatione philosophiae una dottrina differente. Un essere qualunque è conosciuto in diversi modi, con i sensi, l’immaginazione, la ragione e l’intelligenza. Queste formule, che nel De anima di Gundissalinus si combineranno con dei temi platonici venuti da altre fonti, testimoniano a sufficienza che, per Boezio, la realtà che corrisponde agli universali è quella dell’idea. Per lui, come per Agostino, la sensazione non è una passione subita dall'anima in conseguenza di qualche azione del corpo, ma l’atto attraverso il quale l’anima giudica le passioni subite dal suo corpo. Lo si immaginerà volentieri tra Platone e Aristotele, ascoltare volta a volta l’uno e l’altro non sapendo che cosa decidere. Tuttavia, il Boezio reale della storia non ha esitato. neoplatonismo nel pensiero di questo cristiano, ma noi ora sappiamo che egli non è che un caso tra molti altri. La sua dottrina è un esempio classico dell'applicazione del precetto che egli stesso aveva formulato: "fidem si poteris rationemque conjunge” (Se puoi, ricongiungi la fede e la ragione). La cultura patristica latina La patristica latina differisce sensibilmente da quella greca. Nella letteratura latina, la metafisica non è mai stata altro che un argomento d’importazione; ma Roma ha prodotto moralisti notevoli, tra i quali bisogna contare i suoi oratori e i suoi storici, la più chiara espressione dell’ideale che domina questa cultura si trova nell’opera di Cicerone. L’uomo, per lui, si distingue dagli animali soltanto col linguaggio: è un animale parlante. Per questo l’eloquenza è, ai suoi occhi, l’arte suprema, e non soltanto un’arte, ma una virtù. Come egli stesso ha detto nel De inventione rhetorica e nel De oratore, l’eloquenza è quella virtù per la quale un uomo primeggia sugli altri uomini. Ma come bisogna intendere l’eloquenza? Cicerone ha denunciato l’errore di quelli che pensano d’insegnare o di acquisire l’eloquenza imparando la retorica. Egli stesso era troppo artista per ignorare che le regole nascono dall’arte, e non viceversa; egli denunciava anche gli specialisti del puro pensiero e della speculazione. Cicerone deplora un’eloquenza che non è nient’altro che retorica, perché non ha più nulla da dire, è una sapienza senza efficacia perché ha disimparato a parlare. Bisogna dunque, ormai, re-insegnare ai filosofi a parlare, oppure, il che è lo stesso, re- insegnare agli oratori a pensare. L’ideale umano che bisogna perseguire è quello del “doctus orator”: l’oratore istruito. In che cosa deve essere istruito? Ogni capo di stato è un oratore; deve dunque, in primis, essere istruito in tutte le arti non servili e degne d’un uomo libero (artes liberales). Nel De oratore Cicerone cita la grammatica, la matematica (include la geometria), la musica, la retorica e la filosofia. Otteniamo così la lista delle sette arti liberali del Medioevo. Ma è importante notare che tutto il programma di educazione romano comprendeva elementi di due tipi: le arti liberali comuni a tutti gli uomini colti che sono state appena enumerate, più alcune conoscenze di natura variabile, secondo il fine particolare che ogni educatore si proponeva. Le sette arti liberali persisteranno, attraverso la storia della cultura occidentale, come caratteristiche proprie della civiltà latina, ma persisteranno perché si potrà adattarle indefinitamente a nuovi fini. Dopo il trionfo di Giulio Cesare, Cicerone stesso aveva dovuto constatare che, sotto una dittatura militare, non c’è posto che per un solo oratore. Ecco che cercherà l’eloquenza sotto una “nuova” forma, quella scritta, nelle sue opere filosofiche. Quando Quintilliano pubblicò la sua Institutio oratoria, egli reclamò vivamente l’alleanza dell’eloquenza e della filosofia, ma per un fine diverso da quello di Cicerone; questo perché il suo ideale era quello di formare un uomo dabbene che sapesse esprimersi con proprietà di linguaggio. Per Cicerone la filosofia era la fonte dell’eloquenza, il futuro oratore doveva studiare la filosofia; per Quintiliano, poiché essere un filosofo significava essere un uomo dabbene, e il suo discepolo doveva essere un uomo dabbene che sapesse parlare, egli doveva anche studiare la filosofia. Di qui il suo programma di studi. Dopo aver affidato il fanciullo ad un primo maestro che gli insegnasse a leggere e a scrivere, gli si dava un professore di lettere che gli insegnasse la grammatica e lo studio dei poeti, degli storici, degli oratori e della composizione letteraria. Per comprendere i poeti, bisognava saperli leggere, assicurarsi del testo, spiegarlo, infine criticarlo. Impossibile fare tutto questo senza aver acquisito la conoscenza delle cose di cui i poeti parlano, e a questo serviva lo studio elementare della musica, dell’astronomia, delle scienze della natura e della storia. È di grande rilievo il fatto che tutti i Padri della chiesa latina, la cui autorità dominerà il pensiero del Medioevo, abbiano dapprima subito la formazione intellettuale preconizzata da Cicerone e codificata da Quintiliano. Agostino, quando commentava le Scritture, lo faceva con tutti i metodi e le risorse di un “grammaticus” emerito: lettura, emendazione del testo, spiegazione dato che Quintiliano pensava che il compito principale del professore di lettere fosse la spiegazione dei poeti. Bisognava trattarli dunque come dei poemi, tranne questa riserva, fatta esplicitamente dallo stesso Agostino, che il “grammaticus” che commenta questo testo ispirato non ha diritto, dopo la “enarratio” (narrazione), di passare al “judicium!” (giudizio). Nella storia della cultura cristiana il suo De doctrina christiana, occupa un posto analogo a quello del De oratore di Cicerone nella storia della cultura classica. Posto dinanzi al testo della Sacra Scrittura, gli occorreva comprenderlo per spiegarlo; per comprendere il testo si richiedevano tutte le risorse delle arti libere. Essere in condizione di comprendere la Scrittura non è tutto; bisognava anche saperne parlare. È qui che interviene la retorica, perché i cristiani possono e debbono insegnarla. Il tipo di cultura trasmesso al Medioevo dai Padri latini era dunque una specie di “eloquentia christiana”, cioè di eloquenza intesa in senso ciceroniano, dove però la sapienza cristiana rimpiazzava quella dei filosofi. Con piena ragione la Patristica latina prosegue senza sosta il suo corso dall’inizio del II secolo fino alla fine del XII, e con non minor ragione vi si arresta. 3 – Dalla rinascenza carolingia al X secolo Le origini del movimento filosofico medievale sono legate allo sforzo di Carlo Magno per migliorare la situazione intellettuale e morale dei popoli che governava. L’impero carolingio amava considerarsi come un prolungamento nel tempo dell’antico Impero Romano. Esso era una cosa completamente diversa ma la chiesa cattolica salverà la sua cultura dal disastro imponendola ai popoli d’Occidente. Bisogna quindi in primo luogo considerare com’è avvenuta questa trasmissione. La trasmissione della cultura italiana Roma non aveva atteso le invasioni degli Anglosassoni per inviare dei missionari in Gran Bretagna, e le popolazioni celtiche dell’isola erano state già parzialmente cristianizzate. Nel 596 papa Gregorio inviò Agostino in Bretagna con molti monaci, per predicare agli Inglesi la parola di Dio. Si può leggere nella Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum il racconto pieno di fascino e di vivacità che Beda ha fatto di questa missione, e del successo ch’essa ottenne fin dal principio. Era stato necessario incominciare insegnando a questi pagani la lingua della Chiesa, ed è così che ha dovuto aver inizio l’importazione di un rudimento di cultura latina presso le nuove popolazioni d’Inghilterra. È certo, in ogni caso, che verso la metà del VII secolo, cioè una sessantina d’anni dopo l’arrivo di Agostino, Roma riteneva utile inviare in Inghilterra dei missionari che fossero anche delle persone colte. La cultura classica latina incomincia a fiorire fin dalla seconda metà del VII sec sul suolo inglese. Gli anglosassoni furono così pronti e desiderosi di assimilare la cultura latina che, circa cento anni dopo aver accolto i missionari romani venuti per evangelizzarli, essi a loro volta mandarono dei missionari per evangelizzare le popolazioni pagane del continente. Questo movimento sorse nel Wessex. Le origini delle scuole del Wessex sono oscurissime. Fin dall’inizio del VII secolo incontriamo il nome dei celebri monasteri, quali Malmesbury, Exeter, dove un giovane sassone dell’ovest di nome Vinfrith fece i suoi primi studi. Gli anglosassoni cristianizzati di Gran Bretagna non potevano pensare senza tristezza all’ignoranza di coloro ch’essi avevano lasciato in Germania. Nel 716 Vinfrith andò in Frisia, nel 718 si spostò a Roma poi si recò in Germania dove evangelizzò i sassoni, con un successo tale che Gregorio II lo richiamò a Roma nel 722 e lo consacrò primo vescovo dei popoli germanici. Nella storia della chiesa questo anglosassone si chiama san Bonifacio. Vinfrith ci interessa d’altronde anche per un altro motivo, perché le circostanze ne hanno fatto un testimone dello stato intellettuale, morale e religioso delle Gallie verso la metà del VIII secolo, immediatamente prima del regno di Carlomagno. Quest’ultimo, che avrebbe dovuto abdicare nel 742, nel 747 invitò Vinfrith a riorganizzare la chiesa nel suo ducato di Austrasia. Bonifacio accettò ed abbiamo la lettera ch’egli scrisse a papa Zaccaria per consultarlo a questo proposito. Questo importate documento mostra in quale stato di disintegrazione fosse allora giunta la chiesa delle Gallie. Vinfrith dice, infatti, che da ottant’anni nessun concilio di vescovi franchi è stato riunito. Che cosa fare di quei diaconi che vivono con 3 o 4 concubine, e tuttavia leggono il Vangelo in pubblico? Mettere ordine in tale caos era una fatica senza fine. Durante i suoi lunghi anni di apostolato in Germania, Vinfrith ha sempre saputo dove rivolgersi quando aveva bisogno di consigli o di appoggio: si rivolgeva a Roma e al suo vescovo Daniele, le sole fonti di cultura cristiana che gli fossero accessibili. Mentre la puerilis institutio di Quintiliano e di Cicerone inviava così nel continente il suo primo missionario, essa stessa si stabiliva saldamente in Inghilterra, precisamente in Northumbria. In questa regione gli avvenimenti si svolgono intorno ad un uomo curioso, Benedetto Biscop, già ministro del re Oswy, quando decise, all’età di 25 anni, di diventare ministro di Dio. La sua insaziabile attività esprime a meraviglia la violenza con cui questi germani di Inghilterra si gettarono sulla cultura cristiana che loro si offriva. Appena fattosi sacerdote, Biscop si reca a Roma, ritorna in Inghelterra e poi ritorna a Roma ai tempi di papa Vitaliano raccogliendo un numero considerevole di libri di cultura religiosa. Raccoglie a Vienna un altro stock di libri che erano stati radunati per lui e, carico di questa ricchezza, ritorna questa volta nel suo paese, Northumberland. Qui Biscop riceve dal re Egfrido un considerevole terreno, dove Biscop costruì un monastero, san Pietro di Wearmouth. Dopo un anno, egli si recò in Gallia per riportare con sé dei muratori capaci di costruirgli una chiesa secondo la moda romana e anche dei vetrai, la cui arte era ancora sconosciuta in Inghilterra, per guarnire le finestre della sua chiesa, del refettorio e del chiostro. Fatto questo, Biscop si rimise in viaggio e tornò a Roma per un quinto soggiorno. Nel frattempo, Biscop aveva ottenuto da re Egfrido il dono di nuove terre sulle quali fondò un nuovo monastero, dedicato a San Paolo. Secondo la sua idea, i due monasteri dovevano formare un’unica fondazione religiosa, benché ciascuno di essi avesse il suo abate. Biscop teneva ai suoi libri. Egli dispose per testamento che la famosa e ricca di biblioteca ch’egli aveva portato da Roma per l’istruzione della chiesa, fosse sempre conservata intatta senza essere trascurata, né dispersa. In questa stessa biblioteca portata da Roma a Jarrow da Benedetto Biscop stava per formarsi l’opera del venerabile Beda. volontà: “disgraziatamente io adesso sono sprovvisto di molti dei libri che avevo a mia disposizione nel mio paese natale, lo dico a vostra Signoria perché il vostro costante amore per la sapienza v’ispiri a d’inviare alcuni dei miei discepoli in Gran Bretagna da dove porteranno in Francia tutti questi fiori britannici”. Alcuino non morì in Inghilterra, non fu sepolto a York: ma morì a Tours il 19 maggio 806 e l’abbazia di Saint Martin conservò il suo corpo. La sola ambizione di Alcuino è benissimo espressa in una delle lettere a Carlomagno: edificare in Francia una nuova Atene o piuttosto un’Atene migliore dell’antica perché nobilitata dall’insegnamento di Cristo nostro Signore. Ciò che Alcuino si proponeva di fare l’ha fatto veramente, perché egli ha posto le fondamenta della futura Università di Parigi. Partendo da Alcuino e fin verso la fine del XII secolo si vede, in effetti, propagarsi di scuola in scuola una cultura letteraria a base scritturale e patristica, di cui la grammatica del basso Impero Romano costituiva il fondamento. Per far fronte ai bisogni di questo insegnamento fu necessario moltiplicare le opere classiche della letteratura latina e basta considerare l’introduzione di un’edizione moderna d’una qualunque di queste opere per constatare che i manoscritti che ce l’hanno conservata per lo più vengono dallo scriptorium di qualche abbazia benedettina dei IX/XII secolo. Compatriota, discepolo di Alcuino e suo successore come abate di Saint Martin de Tours, Fredegiso (morto nell’834) fu uno spirito di tono più speculativo e avventuroso. Gli si deve un’epistola de nihilo et tenebris, nella quale egli sostiene che il nulla e le tenebre sono qualcosa, non soltanto l’assenza di qualcosa. Il principio della sua argomentazione è che ogni nome di senso determinato significa qualcosa: uomo, pietra, legno, ad esempio: dunque “nulla” si riferisce a qualcosa. Queste formule non erano così prive di senso come s'è detto, ed è anche curioso che i loro critici non se ne siano accorti. Sarebbe assurdo dire: «nihil» designa una cosa, se si ammettesse nello stesso tempo che «nihil» significa il nulla. Ed è precisamente questo che Fredegiso nega. Il «nihil» a cui egli pensa è quello da cui Dio ha creato il mondo (ex nihilo), cioè una specie di materia comune e indifferenziata, da cui egli avrebbe formato tutto il resto. Mentre perdurava in Francia, l'influenza civilizzatrice di Alcuino si estendeva alla Germania attraverso il suo scolaro Rabano Mauro. Sembra che qui l’allievo abbia superato il maestro in due opere quali Alcuino non si sarebbe mai sognato d’intraprendere e che corrispondono esattamente ai bisogni di un paese dove si voleva fondare una cultura latina di spirito cristiano. Il De clericorum institutione è una specie di trattato degli studi ecclesiastici ad uso dei chierici tedeschi del IX secolo. Il programma proposto segue, naturalmente, l’ordine delle arti liberali quali già un tempo s’insegnavano nelle scuole romane: alla base di tutto la Grammatica, poi la Retorica, la Dialettica, l’Aritmetica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia. A questo piano di studi, Rabano ha aggiunto un’ampia enciclopedia chiamata comunemente De universo. Tutti gli esseri conosciuti dall’autore vi sono ridotti all’insegnamento morale e religioso che se ne può trarre. Praticamente, le loro nature non sono nulla più di ciò ch’essi significano. Basta conoscere l’etimologia dei loro nomi. All’influenza di Rabano Mauro si ricollega il breve trattato del monaco tedesco Bruun, detto Candido di Fulda, che è intitolato Dicta Candidi. Questo breve scritto ha attirato l’attenzione degli storici a causa del suo ultimo paragrafo che espone la prima prova dell’esistenza di Dio sviluppata dialetticamente che s’incontri nel Medioevo. L’universo si distingue in tre generi: ciò che esiste, ciò che vive, ciò che è intelligente. Questi tre generi sono ordinati gerarchicamente dal meno potente al più potente. Allora, l’uomo che è al sommo di questa gerarchia col suo intelletto si chiede se è onnipotente. Non lo è perché non può fare tutto ciò che vuole. L’uomo deve ammettere, dunque al di sopra di sé una potenza onnipotente, che contemporaneamente domina ciò che esiste, ciò che vive e ciò che conosce. Questa onnipotenza è Dio. Non sembra, l'abbiamo già fatto notare, che l’influenza irlandese, immensa sul continente nella storia della vita monastica dell’VII secolo, si sia accompagnata ad una corrispondente influenza intellettuale. Se questa s'è esercitata, non ha lasciato traccia. Giovanni Scoto Eriugena La personalità di Giovanni Scoto Eriugena domina la sua epoca, e la sua opera presenta un carattere così nuovo nella storia del pensiero occidentale che merita di trattenere la nostra attenzione. Nato in Irlanda verso l’810, egli giunse in Francia tra l’840 e l’847. Si è supposto ch’egli avesse imparato il greco in Irlanda. Professore della Scuola Palatina, Giovanni Scoto visse alla corte colta e brillante di Carlo il Calvo. Molto importante per l’avvenire del suo pensiero e della filosofia medievale è la sua nuova traduzione, dal greco in latino, del Corpus Aeropagiticum. Il suo primo traduttore, Ilduino, abate di Saint Denis, aveva tentato di dimostrare che l’autore di questi scritti era proprio il convertito di San Paolo, l’apostolo delle Gallie e il fondatore del monastero che portava il suo nome. Lo stesso Giovanni Scoto non era convinto che Dionigi l’Areopagita fosse il fondatore di questo monastero, ma non dubitava affatto ch'egli avesse scritto le opere che gli si attribuivano. Egli aggiunse a questa traduzione quella degli Ambigua di Massimo il Confessore e del De hominis opificio di Gregorio di Nissa. L’ultima parte della vita di Eriugena è molto oscura. L’ipotesi meno avventurosa, che non è però necessariamente quella vera, è quella che lo fa morire in Francia, circa allo stesso tempo di Carlo il Calvo, cioè verso l’877. La più romanzesca lo fa ritornare dalla Francia in Inghilterra dopo la morte di Carlo il Calvo, insegnare all'Abbazia di Malmesbury e morirvi assassinato dai suoi scolari. Il significato della dottrina di Eriugena consiste nella sua concezione dei rapporti fra fede e ragione. Non c’è una risposta unica al problema della conoscenza, ma un seguito di risposte, ciascuna delle quali vale per una di quelle posizioni, e soltanto per quella. Presa in sé stessa, la natura umana prova un desiderio innato di conoscere la verità. Fra il peccato originale e la venuta di Cristo, la ragione è oscurata dalle conseguenze dell'errore, e non essendo ancora rischiarata da quella rivelazione completa che sarà il Vangelo, essa non può che costruire laboriosamente una fisica, per comprendere almeno la Natura e stabilire l’esistenza del Creatore che ne è la causa. Da questo momento la ragione entra in una seconda posizione. Essa non è più sola, e poiché la verità rivelata le viene da una fonte la cui certezza è assoluta, la saggezza per lei consiste nell’accettare questa verità quale Dio gliela rivela. La fede deve dunque precedere l’esercizio della ragione, ma questo non significa che la ragione debba scomparire; al contrario la nostra ragione è una ragione istruita dalla rivelazione. Se la fede è veramente un punto di partenza, Dio non l’ha data all’uomo perché egli si fermi lì, tutto al contrario “essa non è altro che una specie di principio, partendo dal quale incomincia a svolgersi la conoscenza del suo Creatore”, è Dio stesso, dunque, che ordina di andare più lontano. La fede è un principio che tende a svilupparsi in una conoscenza più perfetta. L’interpretazione letterale della scrittura condurrebbe facilmente a errori grossolani se la ragione non intervenisse per svelarne il senso spirituale. La fede non può raggiungere il fine verso cui ci avvia che conducendoci per le vie della speculazione filosofica; è per questo che Scoto Eriugena giunge a considerare filosofia e religione come termini equivalenti. La prospettiva più sicura per scoprirlo è quella che lo stesso Eriugena ha definito: la vera filosofia prolunga lo sforzo della fede per raggiungere il suo oggetto. Conoscenza di un genere diverso dalla fede, essa ha però lo stesso contenuto, ed è per questo, in un certo senso, che esse si confondono. Ciò che lo colpisce è l’intrinseca unità della sapienza cristiana perché una luce illumina l’anima cristiana ed è quella della fede. In questo senso conviene interpretare i celebri testi di Eriugena sul primato della ragione. Spesso essi vengono commentati come se significassero che la fede deve solo sottomettersi alla ragione. Niente di meno esatto; nessun testo di Eriugena può essere citato in questo senso, e innumerevoli sono i testi che vanno nella direzione opposta. Davanti all’autorità della Scrittura, la ragione non ha che da inchinarsi: Dio parla, noi accettiamo per fede ciò che egli dice, e la sua parola è indiscutibile. L'autorità alla quale Eriugena si ribella non è quella di Dio, è quella degli uomini, cioè l’interpretazione della parola di Dio, che è infallibile, con ragioni umane, che non lo sono. L'origine di questa autorità umana è, in fin dei conti, la ragione, e per questo essa rimane sempre completamente passibile di giudizio. Ciò che Dio dice è vero, che la ragione lo comprenda o no; ciò che dice un uomo è vero solo se la ragione l’approva. Nessuno più di Eriugena ha fatto più largo uso della tradizione patristica: Dionigi, Massimo, Gregorio di Nazianzo, Agostino sono così intimamente incorporati nella sua dottrina che ovunque si sente la loro presenza, anche là dove non sono citati. Tuttavia, ai suoi occhi la loro autorità si fonda soltanto sulla razionalità di ciò che hanno detto e che la tradizione gli trasmette. Il metodo di cui la ragione si serve per conseguire l’intelligenza di ciò che crede è la dialettica, le cui due operazioni fondamentali sono la divisione e l’analisi. La divisione consiste nel partire dall’unità dei generi supremi e nel distinguere, in seno alla loro unità, i generi via via meno universali che vi si trovano contenuti, finché si arriva agli individui. L’analisi segue invece la via inversa, partendo dagli individui e risalendo i gradini discesi con la divisione, essa li raccoglie e li riunisce nell’unità dei generi supremi. Questi due momenti del metodo sono dunque complementari, tanto che si possono considerare come un solo movimento d’andata e ritorno che discende dall’unità del genere alla molteplicità degli individui e poi risale all’unità prima da cui essi sono discesi. La divisione e l’analisi non sono semplicemente dei metodi astratti di decomposizione e composizione delle idee, ma la legge stessa degli esseri dato che l’universo è una vasta dialettica. Il duplice movimento della dialettica non è dunque una regola formale del pensiero, ma s’impone come vera alla ragione, perché è inscritta nelle cose. La dottrina di Eriugena non è una logica, ma è una fisica, o, come dice egli stesso, una fisiologia. La nozione di natura è la più comprensiva di tutte quelle che si offrono al pensiero ed essa include tutto ciò che è e tutto ciò che non è. Consideriamo dapprima la divisione della natura in quanto include l’essere. Parlando in senso stretto, essa andrebbe sino all’infinito per chi volesse seguirla in tutti i particolari, ma quando la si considera nell’insieme, essa offre dapprima al pensiero le quattro grandi distinzioni: 1) la natura che crea e non è creata, 2) la natura che è creata e crea, 3) la natura che è creata e non crea, 4) la natura che non è creata e non crea. Siamo in realtà di fronte a due sole divisioni angeli non vedono Dio, ma non vedono nemmeno le idee di Dio; la loro visuale si arresta ad alcune apparizioni divine di queste idee, cioè alle teofanie delle cause eterne delle cose. Il loro privilegio si restringe quindi a ricevere le prime manifestazioni irradiate dal Verbo fuori di sé. Queste teofanie non si comunicano agli angeli in blocco e indistintamente, ma in ordine gerarchico; infatti, soltanto gli angeli più perfetti ricevono le prime e le trasmettono di ordine in ordine fino agli angeli meno nobili, che a loro volta le trasmettono all’ordine superiore della gerarchia ecclesiastica, e attraverso di esso agli altri ordini, fino ai semplici fedeli. Ancor meno degli angeli, l’uomo è capace di illuminarsi con i propri mezzi. Egli può ricevere la luce e trasmetterla ma non ne produce. Divisi in sessi gli esseri umani si moltiplicano come gli animali, ma avrebbe potuto e dovuto essere altrimenti. Giovanni Scoto sostiene che Dio prevedendo il peccato originale abbia preventivato una maniera di moltiplicazione della specie umana diversa dalla pullulazione istantanea e analoga a quella degli Angeli, che avrebbe prevalso senza questa prospettiva di caduta. Dio si è dunque servito della divisione dei sessi come di un espediente. C’è di più. Separandosi da Dio, l’uomo trascinava nella sua caduta l’intero mondo dei corpi. Per capire questo punto bisogna osservare che l’universo corporeo esiste dapprima nel pensiero dell’uomo; poiché tutto è teofania, e l’illuminazione si trasmette dall’alto in basso, c’è un momento in cui tutto ciò che viene dopo l’uomo e già contenuto in lui. Allo stesso modo che il triangolo perfetto non esiste che nel pensiero del geometra, tutti gli esseri esistono nel pensiero dell’uomo, come tipi intelligibili, più perfettamente che nella materia in cui in seguito si sparpagliano. Se si hanno dei dubbi, è perché dapprima non si capisce come il corporeo e sensibile possa uscire dall’intelligibile col modo della divisione. Le specie sotto le quali si dispongono i corpi sono delle realtà intellegibili; le loro quantità pure lo sono e anche le loro qualità. Una quantità senza qualità non è un corpo; una qualità senza quantità neppure lo è; il corpo sensibile ha principio al punto di incontro di questi due elementi intellegibili, la quantità e la qualità. Ma, si dirà forse, resta tuttavia la materia! Indubbiamente la materia esiste; essa, tuttavia, forse non è ciò che si crede, per comprenderne la natura riprendiamo l’analisi dell’essere corporeo. Ciò che dapprima si trova in un corpo è la sostanza, ma la sua sostanza non è altro che la sua causa intellegibile che sussiste eternamente in Dio. Presa in quanto realizzata in un Corpo, essa riceve il nome di forma e genera una natura. Come tutto ciò che è in Dio, l’essenza di un essere vi è inconoscibile per definizione. Invece, le nature ci sono comprensibili, perché sono delle essenze incorporate a delle materie e sottoposte alle categorie intellegibili. La forma è intellegibile, la natura è intellegibile, la quantità è intellegibile, la qualità in generale è intellegibile. Ciò che non è intellegibile è la mescolanza di questi accidenti, che è la materia stessa. L’intero mondo è dunque un’immensa predestinazione di essenze di cui il pensiero creatore fissa una volta per tutte la costituzione ontologica. Ciò che procura loro questo titolo di essenze (realtà stabili), è la loro stessa immutabilità. Questa stessa essenza è ciò che prende il nome, in quanto essa è generata localmente e temporalmente, in una materia suscettibile di accidenti. L’essenza è dunque un puro intellegibile che contiene in sé due altri intellegibili: qualità e quantità la cui congiunzione produce la materia oggetto dei nostri sensi. Il fondo stabile e sostanziale degli esseri rimane dunque l’essenza intellegibile e invisibile da cui scaturisce tutto il resto. Non è senza fatica che Eriugena accorda questa metafisica con il testo della Genesi. Egli spende tesori d’ingegnosità per risolvere questo problema nel libro IV del suo De divisione naturae. Così l’uomo creato da Dio viene ridotto ad una semplice nozione divina. In certo modo, l’universo qual è deriva dall’errore dell’uomo, ma esso non ne è il risultato. L'uomo non ha voluto conservare la sua posizione intelligibile e Dio ha dispiegato intorno a noi la fantasmagoria del mondo dei corpi, perché possiamo trovare anche nel sensibile il modo per ritornare a lui. Conseguenza di una divisione che ha degenerato in separazione, il mondo è organizzato per facilitare un ritorno. Ciò che rende possibile questo ritorno è il fatto stesso che è esso stesso una gerarchia. Ora questa gerarchia è quella di una trinità. L’anima è una ma essa allo stesso tempo è capace di 3 operazioni principali che la diversificano senza dividerla. Il processo più alto è quello ch’essa compie come pensiero puro. È un processo di ordine mistico e che richiede l’aiuto della grazia. Per esso l’anima si volge interamente verso Dio, al di là delle sensazioni, delle immagini e delle operazioni discorsive del ragionamento. Il secondo processo dell’anima è quello che essa compie come ragione. Essa non si eleva più al di sopra di sé, ma si volge invece verso sé stessa per formare e legare insieme le nozioni intellegibili delle cose. Rimane il terzo processo dell’anima, di natura complessa. Infatti, esso suppone dapprima un’impressione puramente corporea prodotta da un oggetto materiale su uno dei nostri organi sensoriali, poi, che l’anima raccolga questa impressione e formi in sé l’immagine che si chiama sensazione. Considerata sotto questo aspetto, l’anima non soltanto imita Dio nella sua trinità; essa gravita intorno a lui. Diciamo di più; essa non l’abbandona mai, perché ciò che sa di lui, quando verso lui si volge come pensiero puro, non lo dimentica ridiscendendo verso i generi. Ogni conoscenza è opera dell’intelletto uno e trino. La molteplicità delle operazioni del pensiero esce da lui, in lui sussiste, e ritorna verso di lui, come esce da Dio, sussiste in Dio e a Dio ritorna la molteplicità degli esseri che costituiscono l’universo. Perché si compia questo ritorno bisogna che lo stesso movimento di amore divino che ha dispiegato la gerarchia degli esseri la riporti all’unità. Questo richiamo di Dio si manifesta dapprima con una specie di mancanza o di bisogno, interiore agli esseri stessi, che Eriugena chiama l’informitas. Sotto l’azione di questa spinta oscura, il flusso degli esseri è come un fiume che dopo essersi perso nella sabbia, ritorna verso la sua sorgente attraverso i pori del suolo. Questo ritorno incomincia nel momento di massima dispersione che l’essere umano può raggiungere, cioè la morte. L’anima allora si divide dal corpo; ma proprio perché la circolazione degli esseri è un fiume la cui corrente non si interrompe mai, l’ultimo momento della divisione fa tutt’uno con il primo momento dell’analisi. Come in un viaggio il punto di arrivo dell’andata è il punto di partenza del ritorno, la morte dell’uomo è la prima tappa del suo ritorno verso Dio. La seconda tappa è la resurrezione dei corpi. I sessi saranno allora aboliti e l’uomo sarà tale, quale sarebbe stato se Dio non ne avesse previsto la caduta. Nel corso della terza tappa, il corpo di ciascun individuo si reintegrerà nell’anima da cui è uscito per via di divisione. Una quarta tappa reintegrerà l’anima umana nella sua Causa prima o Idea, e, con l’anima, il corpo ch’essa ha riassorbito. Tutti gli esseri sono con ciò riportati a Dio. Il loro ritorno finale è il quinto ed ultimo momento di questa analisi. Questo processo di ritorno è l’opera comune della natura e della grazia, poiché, senza la resurrezione di Cristo, pegno della nostra, questo movimento universale verso Dio sarebbe impossibile. Tutta questa escatologia si adatta benissimo agli eletti, ma che fare dei dannati? Una volta riscattato dalla sua caduta e restituito alla sua condizione intellegibile l’universo materiale, non resterà nessun luogo dove collocare un inferno, nessun fuoco per bruciarvi, nessun corpo per soffrirvi e neanche nessun tempo, perché questi supplizi corporali possano durarvi ancora. Questo non vuol dire che la dottrina dei premi eterni e degli eterni castighi sia vana. Ciò che Eriugena mantiene fermamente è che ogni traccia di male dovrà sparire un giorno dalla natura e che con il riassorbirsi della materia nell’intellegibile questo risultato sarà ottenuto. Non c'è altra beatitudine che la vita eterna, e poiché la vita eterna consiste nel conoscere la verità, la conoscenza della verità è la sola beatitudine; inversamente, se non c'è altra sventura che la morte eterna, e se la morte eterna è l'ignoranza della verità, non c’è altra sventura che l’ignoranza della verità. 4 – La filosofia nell’XI secolo I dialettici e teologi Per modesto che fosse rimasto, dopo la rinascenza carolingia, la pratica del trivium e del quadrivium era nondimeno diventata tradizionale. In Italia, ad esempio, si vedevano ormai dei laici avviarsi a questi studi che li rendevano adatti ad occupare degli impieghi pubblici. Anche all’interno della chiesa, già si incontravano alcuni chierici le cui disposizioni di spirito inclinavano alla sofistica, per la dialettica e per la retorica da far passare la teologia al secondo piano. Pier Damiani si lamentava perché ci si interessava molto meno al contenuto delle lettere edificanti che egli inviava, che al loro stile. Anselmo di Besante, detto il Peripatetico, e Berengario di Tours rappresentano molto bene ciò che furono questi dialettici intransigenti, e ci permettono di capire meglio perché la filosofia rimase a lungo sospetta a degli spiriti assai elevati. Anselmo, incominciò un giro attorno all’Europa discutendo e argomentando in tutte le città che attraversava. In mancanza di successo, Anselmo voleva almeno l’attenzione e l’otteneva dappertutto, tranne a Magonza. Allora incominciò a dimostrare al suo uditorio che tale astensione era contraddittoria perché non approvare e non biasimare niente è un non fare niente e non fare niente è fare niente, il che è impossibile. Gli abitanti di Magonza ebbero la cortesia di dichiararsi convinti, e Anselmo ripartì felice, in cerca di altri successi. Anselmo giustificava ampiamente l’accusa di puerilità che fu loro rivolta; Berengario di Tours giustificava quella di empietà. Quest’ultimo (morto nel 1088) non esitava a tradurre le verità di fede in termini di ragione. Questo tentativo lo indusse a negare la transustanziazione (è il termine che indica la conversione della sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo e della sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo) e la presenza reale. Egli, infatti, considera la dialettica come il mezzo per eccellenza per scoprire la verità. Fare appello alla dialettica, scrive nel De sacra coena, significa fare appello alla ragione, poiché per la ragione l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, non fare ricorso ad essa significa rinunciare al proprio titolo d'onore e non rinnovarsi di giorno in giorno ad immagine di Dio. Come Giovanni Scoto Eriugena, egli è dunque persuaso della superiorità della ragione sull’autorità. In ogni composto di materia e forma, dice Berengario, bisogna distinguere il fatto dalla sua esistenza e ciò che esso è. Laddove non esiste il soggetto non si possono trovare i suoi accidenti. Poiché la sostanza del pane non scompare, ma permane, non ci sarebbe né annientamento della forma propria del pane, né generazione del corpo di Gesù Cristo. Questa interpretazione dialettica non poteva mancare di provocare reazione contro la logica e anche, in generale, contro ogni studio filosofico. C'era del resto, in quest'epoca, in certi ordini religiosi, un movimento di riforma che tendeva a fare della più rigorosa vita monastica il tipo normale della vita umana. Per Gerando, vescovo di Czanad, “quelli che sono discepoli di Cristo non hanno bisogno di dottrine estranee”. L’applicazione della filosofia presunzione non mettere per prima la fede, è negligenza non fare successivamente appello alla ragione. Questa è la determinazione di principio alla quale arriva sant’Anselmo. Egli non si è tirato indietro di fronte all’impegno di mostrare la necessità della Trinità e dell’Incarnazione, impresa che Tommaso d’Aquino dichiarerà contraddittoria e impossibile. Ricordiamoci però in che condizioni Anselmo affrontava il suo impegno; ovvero nell’XI secolo la filosofia si riduceva alla dialettica di Aristotele, e nessuna fisica, antropologia e metafisica, nessuna morale puramente razionale era conosciuta dagli uomini di quell’epoca. Capire il testo sacro era dunque prima di tutto cercarne l’interpretazione con l’aiuto delle risorse di cui dispone il dialettico. Argomentando da puro dialettico, egli non si è proposto di rendere i misteri in sé stessi intelligibili, ma provare con ciò che egli chiama “ragione necessaria” che la ragione umana ben guidata arriva necessariamente ad affermali. Sant’Anselmo conserva la coscienza che la ragione non giungerà mai a capire il mistero. La parte più feconda e più robusta dell’opera di sant’Anselmo consiste nelle sue dimostrazioni dell’esistenza di Dio, ispirate da sant’Agostino. Esaminiamo dapprima le prove del Monologion. Esse suppongono l’ammissione di due principi: 1) le cose sono ineguali in perfezione; 2) tutto ciò che possiede più o meno una perfezione ce l’ha dalla sua partecipazione a questa perfezione, presa nella sua forma assoluta. Questi due principi devono inoltre applicarsi a dei dati sensibili e razionali, ad esempio il bene. Noi desideriamo godere di ciò che è bene: è quindi pressoché inevitabile chiederci da dove provenivano tutte le cose che giudichiamo buone. È questa riflessione così naturale sul contenuto della nostra vita interiore e sull’oggetto del nostro desiderio che ci condurrà a Dio. Noi sentiamo infatti con i sensi, e discerniamo con la ragione. Sappiamo d’altra parte che tutto ha una causa; ma possiamo chiederci se ogni cosa buona ha una sua causa particolare o se non c’è che una sola causa per tutti questi beni. Poiché è assolutamente certo il secondo principio, allora, poiché tutti i beni particolari sono buoni in modo diverso, non possono esserlo che per la loro partecipazione ad un solo e medesimo bene. Tutto il resto è buono per lui, esso solo è buono per sé. Questo bene sovrano prevale dunque su tutto, il che significa che ciò che è supremamente buono è anche sovranamente grande. C’è dunque un essere primo, superiore a tutto ciò che esiste, e noi lo chiamiamo Dio. Si può allargare la base della prova, argomentando sulla perfezione che gli esseri possiedono in comune. Infatti, tutto ciò che esiste ha una causa; il solo problema è sapere se essa derivi da parecchie cause o da una sola: 1) Se si riducono a una sola, evidentemente è quest’unica causa a essere causa dell’universo. 2) Se esistono per sé, possiedono in comune almeno questa facoltà, ed è questa facoltà comune che le fa esistere; esse allora possono ancora essere considerate come disposte sotto una stessa causa. 3) La terza ipotesi è questa: si producono reciprocamente; ma è una ipotesi contraria alla ragione che una cosa esista in virtù di ciò a cui essa dà l’esistenza. Così, dunque, una sola ipotesi rimane intelligibile, ed è che tutto ciò che esiste, esiste in virtù di una causa: e questa causa è Dio. Una terza dimostrazione capace di condurci a Dio è quella che si fonda sui gradi di perfezione che le cose possiedono. Non si può negare che le nature siano superiori le une alle altre, non si affermerà che esiste un’infinità di esseri, perché è assurdo, ma esiste necessariamente una natura tale da essere superiore alle altre senza essere inferiore a nessuna. Resta, è vero, l’ipotesi di parecchie nature eguali poste alla sommità della gerarchia universale, ma, se esse sono eguali, lo sono per ciò che esse hanno in comune, e se ciò che esse hanno in comune è la loro essenza, esse non sono in realtà che una sola natura; e se ciò che hanno in comune è qualcosa di diverso dalla loro essenza, è allora un’altra natura, superiore a loro, e che è a sua volta la più perfetta di tutte. Le tre prove che abbiamo ora presentato hanno questo in comune, che esse partono tutte da un reale dato e ragionano degli aspetti dell’esperienza. Infatti, ci sono il bene, l’essere, i gradi dell’essere e l’esistenza di Dio è la spiegazione necessaria che questi diversi aspetti della realtà richiedono. Anselmo non fa che portare all’estremo questo carattere della prova, coronando le precedenti dimostrazioni con l’argomento ontologico sviluppato nel Proslogion. Gli occorre una sola prova, che sia autosufficiente, dalla quale invece derivi necessariamente tutto il resto. Noi crediamo che Dio esista e che egli sia l’essere di cui non possiamo concepirne uno maggiore. Il problema è di sapere se una tale natura esista o no, perché “lo stolto ha detto in cuor suo: Dio non esiste”. Ora, quando diciamo davanti allo stolto: l’essere di cui non è possibile concepirne uno maggiore, egli capisce ciò che noi diciamo, e ciò che egli capisce esiste nella sua intelligenza anche se egli non ne percepisce l’esistenza. Ora, ciò di cui non è possibile concepire nulla di più grande non può esistere soltanto nell’intelligenza. Infatti, l’esistere in realtà è essere ancor più grande che esistere nell’intelligenza soltanto. L’essere di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore esiste quindi indubbiamente, nell’intelligenza e nella realtà. I principi sui quali si poggia questa argomentazione sono: 1) una nozione di Dio fornita dalla fede; 2) l’esistere nel pensiero è già veramente esistere; 3) l’esistenza della nozione di Dio nel pensiero esige logicamente che si affermi che egli esiste in realtà. Tutta la dialettica astratta che qui si sviluppa dalla fede alla ragione e ritorna al suo punto di partenza, conclude che ciò che viene proposto dalla fede è immediatamente intelligibile. Gaunilone obiettava che non ci si può fondare sull’esistenza nel pensiero per concludere all’esistenza fuori dal pensiero. Al che Anselmo risponde che il passaggio dall’esistenza nel pensiero all’esistenza nella realtà non è possibile e necessario che quando si tratti dell’essere più grande che si possa concepire. L’argomentazione di Anselmo ha in sé un problema. Ci sono sempre stati filosofi per riprenderla e rimaneggiarla a loro modo. San Bonaventura, Leibniz, Hegel l’hanno ripresa, ciascuno alla propria maniera, ma san Tommaso d’Aquino, Locke e Kant l’hanno rifiutata, ciascuno alla propria maniera. Ciò che è comune a coloro che l’ammettono è l’identificazione dell’esistenza reale con l’essere intelligibile concepito col pensiero; quelli che invece la rifiutano condannano il principio di porre un problema d’esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Da queste prove, si può facilmente dedurne gli attributi principali. Poiché Dio è ciò che non può non esistere, egli è l’essere per eccellenza, cioè la pienezza della realtà. Gli si dà dunque il titolo di essentia, e questo termine, che significa «realtà plenaria», non può essere usato propriamente che in riferimento a Dio. In Dio, che solo esiste per sé, l’essenza e l’essere coincidono; la sua natura è allo stesso modo che la luce risplende. Come la natura della luce non si separa dalla luminosità che essa espande, l’essenza divina non si separa dall’essere di cui ella gode. È tutto diverso per gli esseri che ricevono la loro esistenza da altro; perché esista la loro natura bisogna che l’essere venga loro conferito da Dio. Resta da sapere: Dio è la causa produttrice dell’universo, oppure egli è la materia di cui è formato l’universo? Se ammettiamo quest’ultima ipotesi accettiamo il panteismo. Bisogna quindi che il mondo sia stato creato dal nulla, e soltanto la dottrina della creazione “ex nihilo” (dal nulla) permetterà di non confondere in un solo essere l’universo e Dio. Resta quindi soltanto l’ipotesi che abbiamo considerato: l’universo giunge all’essere senza nessuna preesistente materia, non esisteva, ed ecco che, per la sola potenza di Dio, esso esiste. Quando l’universo non era ancora posto nell’essere attuale che ha ricevuto da Dio, esisteva già come immagine nel pensiero del suo creatore. La dottrina anselmiana delle idee divine è esattamente il contrario della dottrina eriugeniana delle idee create. Secondo Anselmo, le creature preesistono in Dio, ma è anche giusto aggiungere che esse sono e sussistono in Dio più effettivamente che in sé stesse. Già presenti nel pensiero, le creature ne sono uscite per effetto della sua parola e del suo Verbo. Questa parola creatrice non ha niente in comune con le parole che la nostra bocca proferisce, né con queste stesse parole quando noi non le pronunciamo ma le pensiamo interiormente. Assomiglierebbero piuttosto a quella visione interiore che noi abbiamo delle cose quando immaginiamo o quando la nostra ragione pensa la loro essenza universale. Così tutto ciò che non è l’essenza di Dio è stato da Dio creato. Ciò significa che Dio è presente ovunque. Se dunque vogliamo dire qualcosa di un essere così completamente trascendente tutti gli esseri creati, dovremo attribuirgli dei nomi che designino una perfezione positiva. In primo luogo, bisognerà attribuirglieli assolutamente e non relativamente: nemmeno relativamente alla totalità delle cose create di cui egli è la Prima causa. Se l’universo non esistesse, la sostanza divina, assoluta in sé stessa, non subirebbe alcun cambiamento né alcuna diminuzione. In secondo luogo, non è legittimo attribuire a Dio, indifferentemente, tutte le perfezioni positive, ma soltanto quelle che sono migliori di tutto ciò che è diverso da loro. Non diremo che Dio sia un corpo, perché conosciamo qualcosa di superiore al corpo, lo spirito; poiché non conosciamo niente di superiore allo spirito nel genere dell’essere, diremo che Dio è spirito. Stabiliremo che Dio è, e che egli è indivisibilmente vivo, sapiente, potente e onnipotente, vero, giusto, felice, eterno. Tutte queste perfezioni si riuniscono in Dio senza alterarne la perfetta semplicità. Egli non ha né principio né fine: è in ogni luogo e in ogni tempo, senza essere chiuso in nessun luogo e in nessun tempo; è immutabile. Lui solo è nel pieno senso di questo, e gli altri esseri, comparati a lui, “non sono”. L’uomo è, tra le creature, una di quelle in cui più facilmente si ritrova l’immagine di Dio. Unica tra tutte le creature l’anima umana si ricorda di sé stessa, si comprende e si ama, e con questa memoria, questa intelligenza e con questo amore, costituisce un’ineffabile trinità. La conoscenza che acquisiamo dalle cose suppone la cooperazione dei sensi e dell’intelligenza, ma Anselmo non precisa il modo di questa collaborazione, ma riprende semplicemente alcune tesi agostiniane sull’illuminazione. Quanto al genere d’esistenza degli universali, sant’Anselmo si oppone vigorosamente alle tendenze nominalistiche di Roscellino, al punto di fare del realismo una condizione necessaria dell’ortodossia teologica. Questa teologia naturale, si compie con una teoria della verità considerata sotto il suo aspetto più metafisico. La verità di una conoscenza dipende dalla sua “rettitudine” cioè deve essere l’apprendimento corretto del suo oggetto. Una volontà è vera se è retta; un’azione è vera per la stessa ragione. In breve, la verità è la conformità di ciò che è alla regola che stabilisce ciò che deve essere, e poiché questa regola è sempre in fin dei conti l’essenza creatrice, il De veritate di sant’Anselmo conclude che c’è una sola verità di ciò che è vero, e cioè Dio. Tecnicamente parlando, la teologia di Anselmo era in anticipo sulla teologia di andamento patristico che Abelardo stava per proporre. Ciò che più manca a questa dottrina è una filosofia della natura abbastanza concisa da equilibrare allo sbalorditivo virtuosismo dialettico del senso che sussistono al di fuori della materia e senza mai mescolarsi. Le fondamentali sono in numero di 4: fuoco, aria, acqua, terra. Non si tratta qui in nessun modo di elementi sensibili che noi designiamo con questi nomi, ma di modelli ideali di questi elementi. È per questo, d’altra parte, che si chiamano idee. Per spiegarsi la produzione delle cose, bisogna prendere in considerazione tre termini: la materia prima e le due forme prime che sono la sostanza (ousia) dell’Artefice e le idee delle cose sensibili. Le forme propriamente dette, che sono unite alla materia dei corpi sensibili, sono in un certo modo delle copie (exempla) che vengono dal loro modello (exemplar) per una specie di deduzione che consiste nel conformarsi. Le forme che sono nei corpi non sono quindi le idee, ma immagini di queste sostanze pure ed eterne che sono le idee. Prese in sé stesse le forme non sono dunque sostanze, ma sono le sussistenze in virtù delle quali ci sono delle sostanze. Bisogna d’altronde parlarne al plurale; anche a proposito di un solo individuo, perché ogni individuo è determinato da una sussistenza generica, da una sussistenza specifica, e dalle sue proprietà sostanziali. Ma la ragione umana è capace di considerare separatamente ed astrattamente ciò che nella realtà è dato insieme. Essa allora considera dapprima una forma generata, l’astrae mentalmente dal corpo in cui essa è impegnata, la paragona ad altre forme generate a cui essa assomiglia e con le quali costituisce un gruppo, e così consegue la prima sussistenza specifica. Si tratta, per Gilberto, di ritrovare nelle cose della stessa specie e dello stesso genere questa omogeneità naturale che esse ricevono esattamente dalla deductio conformativa per la quale le forme generate vengono dalle idee eterne. Come si può vedere, la dottrina di Gilberto, presenta un aspetto molto più solido di quella di Bernardo di Chartres. Essa è tecnicamente molto elaborata, ed è questa solidità stessa che ne ha assicurato l’influenza. C’è qui un certo formalismo del pensiero che, rinforzato dall’influenza di Avicenna, si svilupperà pienamente nella dottrina di Duns Scoto. Lo stesso Gilberto de la Porrée l’aveva ereditata da Boezio di cui egli commentava gli opuscoli teologici. Per Boezio l’essere di una cosa era, in primo luogo, la cosa stessa che è (id quod est) ma egli distingueva, in ogni cosa, la cosa che è dal principio per il quale essa è ciò che è (quo est). Il quo est è l’essere stesso di ciò che è. Questo è tanto vero che, in un essere assolutamente semplice, come Dio, l’id quod est e il quo est coincidono. Per questo Dio è veramente ciò che egli è. Al contrario, in ogni altro essere, c’è composizione di ciò che egli è con ciò per cui egli è; quindi, si dirà che in parte esse non è ciò che è. Gilberto pone alla sommità di tutto ciò che è, Dio, che è la realtà essenziale per eccellenza e dal quale tutto il resto di ciò che è riceve la propria essentia, cioè la sua stessa realtà. A questo titolo, ogni essere creato è composto. Esso si scompone in primo luogo in essere e in ciò che è. L’essere di una cosa è ciò che le fa essere ciò che è. L’umanità è l’essere del soggetto uomo; l’uomo stesso è ciò che è. L’opera creatrice consiste dunque, per Dio, nel produrre questa forma, che in greco si chiama “ousia” (sostanza), ad immagine d’una idea divina. Questa forma generica, o essenza, determina allora l'unione d’una certa materia con la sua forma particolare. L'essere divino (essentia) sembra quindi trasmettersi alle altre creature conferendo loro l’essere con la loro essenza generica; essere un corpo significa essere la corporalità, come essere un uomo è essere l’umanità. Così costituita nell’essere attraverso l’essenza che la fa sussistere (la sua subsistentia), la creatura è una sostanza (substantia). Ora, per partecipare, bisogna essere, e l’essenza dunque non può partecipare di niente. Ma essa fa essere, la sostanza di cui essa determina la generazione, è, e di conseguenza essa può partecipare. Così la corporalità stessa non partecipa di niente, ma la sostanza corporale che essa genera può partecipare del colore, della durezza, lunghezza, densità, solidità e così via. I discepoli di Gilberto furono così numerosi che si è presa l’abitudine di parlarne come di una famiglia dottrinale distinta, quella dei Porretani. Citiamo tra i più noti, Raoul Ardens, Giovanni Beleth e Nicola d’Amiens. Tuttavia, questa non è la cosa più importante. Più si studia il medioevo più si nota il polimorfismo dell’influenza platonica. Platone stesso non è da nessuna parte, ma il platonismo è ovunque o ovunque ci sono dei platonismi: quello di Dionigi l’Areopagita e di Massimo il Confessore, che passa attraverso Scoto Eriugena e del quale abbiamo appena colto la presenza in Bernardo di Chartres; quello di sant’Agostino che domina il pensiero di sant’Anselmo; quello di Boezio che dirige l’opera di Gilberto de la Porrée. Il posto del porretanesimo in questo complesso insieme è ben definito: esso ha favorito la diffusione di quella forma di Platonismo che si può chiamare il realismo dell’essenza, e che la filosofia di Avicenna stava per rinforzare presto così potentemente. Il successore di Gilberto come cancelliere della scuola fu Teodorico di Chartres, fratello di Bernardo, che fu, pure lui, una delle personalità più caratteristiche del suo ambiente e del suo tempo. La materia dell’insegnamento che egli impartiva ci è perfettamente nota grazie al suo Heptateuchon, raccolta di testi e di manuali sui quali si fondava il suo insegnamento, che copriva non soltanto il Trivium ma anche il Quadrivium. Teodorico difese non con minore ostinazione e coraggio dei suoi predecessori l’ideale della cultura classica proprio della scuola di Chartres. Meno dialettico di Gilberto, sembra che egli si sia piuttosto interessato ai problemi cosmogonici. Ciò che conosciamo del suo “De septem diebus et sex operum distinctionibus” permette di annoverarlo in un genere di scritti assolutamente classici dopo san Basilio e sant’Ambrogio. Lui fa dei tentativi per accordare la “Genesi” con la fisica e la metafisica visto che l’inizio del testo sacro “in principio Dio creò il cielo e la terra” pone due questioni: quella delle cause dell’universo e quella dell’ordine dei giorni della creazione. Le cause dell’universo sono in numero di quattro: l’efficiente, che è Dio; la formale, che è la Sapienza di Dio che dispone la forma dell’opera futura; la finale, che è la benevolenza divina; la materiale, che consiste nei quattro elementi. La creazione propriamente detta si fonda su questi 4 elementi (terra, acqua, aria, fuoco); la scrittura li indica col nome di cielo e terra ma si tratta proprio di questi. Quanto all’ordine dei giorni, Dio ha creato la materia nel primo istante, facendo prendere a ciascun elemento il posto che conviene alla propria natura e disponendosi tutti e 4 in globi concentrici: terra-acqua-aria-fuoco. Quest’ultimo, che è di una leggerezza estrema, tende naturalmente a muoversi mettendosi a girare su stesso. La sua prima rivoluzione completa costituisce il primo giorno, nel corso del quale il fuoco cominciò ad illuminare l’aria e, attraverso questa, l’acqua e la terra; questa fu l’opera del primo giorno. Attraversando l’acqua il calore del fuoco produce dei vapori. Questi si elevarono sopra la zona dell’aria rimanendo sospesi, l’aria si trovò così presa tra l’acqua sotto di sé e i vapori sopra di sé; questa fu l’opera del secondo giorno. Vaporizzando una parte dell’acqua il calore scopriva delle parti di terra, lasciava così comparire le isole e riscaldandole le rendeva atte a produrre erbe e alberi; questa fu l’opera del terzo giorno. Durante il quarto giorno i vapori sospesi si condensarono formando i corpi degli astri. Una volta creati e girando nel firmamento gli astri accrebbero il calore e lo portarono al grado di calore vitale; questo raggiunse l’acqua posta alla superficie della terra e vi generò gli animali acquatici e volatili; questa fu l’opera del quinto giorno. Il calore vitale raggiunse quindi la terra per la quale furono creati gli animali terrestri e l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio; questa fu l’opera del sesto giorno. Allora Dio entrò nel suo riposo, il che significa che nessun essere apparso dopo il sesto giorno è stato creato ma è stato prodotto da un germe creato da Dio durante l’opera dei sei giorni. Teodorico si è accorto delle difficoltà che emergono quando si vuole mettere d’accordo la littera, cioè la Bibbia, con la physica, cioè il commento di Calcidio al Timeo. Egli non presenta ciascun elemento come dotato di qualità fisse né situato in un proprio luogo. La terra non è dura per natura, perché essa può liquefarsi ed infiammarsi; ma la vera causa della sua durezza è il movimento incessante dell’aria e del fuoco che, stringendo da ogni parte la terra e l’acqua, conferisce loro solidità e durezza. Il carattere meccanicistico di questa spiegazione è notevolissimo. Vi sono dunque nel XII secolo, legate al movimento platonico, delle tendenze meccanicistiche che riappariranno nel XIV secolo, quando l’aristotelismo del XII secolo avrà finito il suo corso. Per capire la Genesi, la teologia ha bisogno delle scienze del Quadrivium: aritmetica, musica, geometria e astronomia. Ora il loro elemento comune è il numero, il cui principio è l’unità. Presa in sé l’unità è stabile, immutabile, eterna; il numero è variabile e mutevole poiché esso cambia per addizione o sottrazione di unità. Ora, il dominio delle creature è quello del cambiamento; la creazione è dunque il dominio del numero come il divino è quello dell’unità. Risalire al principio del numero, che è l’unità, è risalire dalla creatura al creatore. Il principio col quale Teodorico spiega la generazione di un Verbo unico è che l’unità non può generare che un’unità che le sia uguale. Inoltre, Teodorico ha posto in tutta la sua nettezza il principio di ogni ontologia dove l’Uno è superiore all’essere perché ne è la causa. Ciò che Teodorico afferma è che gli esseri che non sono l’Uno, ma sono esseri soltanto per l’Uno, che non è nessuno degli esseri. L’apparizione forse più singolare, e la più tipica manifestazione di questa cultura così raffinata è Giovanni di Salisbury (1110-1180). Questo inglese s’istruì in Francia e morì vescovo di Chartres. Con il Policraticus e il Metalogicon, il lungo sforzo dell’umanesimo di Chartres finalmente fiorisce in opere affascinanti. Il tipo di cultura che egli ha coscientemente voluto far rivivere era l’“eloquentia” di Cicerone e Quintiliano, cioè la formazione intellettuale e morale completa di un uomo retto, ma capace di ben esprimersi. Sul terreno filosofico, propriamente detto, egli s’è richiamato a più riprese alla setta degli accademici e, anche qui, l’uomo di cui egli si sforza di copiare lo stile è Cicerone. Certamente egli non professa un completo scetticismo ma incomincia con l’isolare un certo numero di verità acquisite. Noi possiamo attingere delle conoscenze sicure da tre differenti fonti: i sensi, la ragione e la fede. Colui che non ha un minimo di fiducia nei suoi sensi è inferiore agli animali; colui che non crede alla sua ragione e di tutto dubita arriva a non sapere più neanche se dubita; colui che rifiuta di acconsentire alla conoscenza oscura, ma certa, della fede, ricusa il fondamento e il punto di partenza di ogni speranza. Ma bisogna confessare che la modestia degli accademici è nella maggior parte dei casi l’esempio più saggio che possiamo imitare. Bisogna dubitare di tutti gli argomenti di cui né i sensi, né la ragione, né la fede ci danno una sicurezza incontestabile e si potrebbe redigere una lunga lista di questi argomenti insolubili. Ciò non vuol dire che si debba trascurare di informarsi intorno questi argomenti col pretesto che la soluzione certa debba sfuggire alla nostra presa. Al contrario è l’ignoranza a produrre la filosofia dogmatica ed è l’erudizione che fa l’accademico. Il tipo dei problemi insolubili agli occhi almeno indifferentemente. L’origine di tutte queste difficoltà è l’illusione che gli universali siano delle cose reali, se non in loro stessi, almeno negli individui. L’universale è ciò che si può predicare di parecchie cose; ora, non ci sono cose che, si prendano individualmente o collettivamente, o che si possano predicare di parecchie altre; ognuna di esse non è che sé stessa e ciò che essa è. Da qui la decisiva conclusione di Abelardo; poiché questo tipo di universalità non può essere attribuito alle cose, non resta che attribuirlo alle parole. L’universalità non è dunque che la funzione logica di certe parole. Si sarebbe tentati di credere che Abelardo qui ritorni semplicemente alla posizione di Roscellino, per il quale l’universale non era che un flatus vocis, un’emissione di voce. Se Roscellino avesse ragione, ogni costruzione grammaticale corretta sarebbe valida anche logicamente. Ma non è così perché grammaticalmente è altrettanto corretto dire: l’uomo è una pietra, o, l’uomo è un animale; ma solo la seconda proposizione è valida logicamente. Da qui questo nuovo problema: qual è la ragione per cui certi predicati sono validi logicamente, mentre altri non lo sono? La risposta di Abelardo è che le cose si prestano di per sé alla predicazione degli universali. Bisogna che sia così; infatti, un'idea non può essere tratta dal nulla, e poiché gli universali non esistono al di fuori delle cose, bisogna che le cose abbiano di che giustificare la validità o l’invalidità logica delle predicazioni che vi si riferiscono. L’errore di quelli che attribuiscono una qualunque realtà agli universali è di confondere “uomo” che non è niente, con “essere uomo” che è qualcosa, è una realtà. È da questa realtà concreta che bisogna partire per spiegare la validità logica delle predicazioni, il che allora diventa possibile. Qui non si tratta di ammettere che essi abbiano in comune qualche «essenza» che sarebbe quella dell’uomo; noi non ricorriamo a nessuna essenza, precisa Abelardo; si tratta semplicemente del fatto che certi individui si trovano ad essere ciascuno nello stesso stato di altri individui. Resta da determinare il contenuto di questi universali nel pensiero. Per conoscerlo, osserviamo la loro formazione. Noi abbiamo degli organi sensoriali e percepiamo degli oggetti, un uomo o una torre, per esempio; in noi si forma un’immagine di ciascun oggetto, e questa immagine esiste sin d’allora indipendentemente da esso: se la torre in questione viene distrutta, possiamo ancora immaginarla. Queste immagini prodotte in noi dagli oggetti si distinguono dal resto delle immagini fittizie che in seguito noi stessi componiamo, come quando sogniamo o immaginiamo una città che non abbiamo mai visto. Ma esse si distinguono ugualmente da ciò che abbiamo nello spirito quando pensiamo a «un uomo» o a «una torre» in generale. Se io parlo di individui determinati, la mia rappresentazione è di natura diversa che se parlo di “uomo”; io non mi rappresento la torre di Cluny come mi rappresento “una torre”. La mia rappresentazione di un individuo è un’immagine viva, precisa; quella di un universale è debole, confusa e relativamente indeterminata: essa non conserva che gli elementi comuni dagli individui simili da cui è tratta. Un universale non è dunque che un nome che designa l’immagine confusa e astratta dal pensiero da una pluralità di individui di natura simile e che sono di conseguenza nello stesso stato. È per questo, d’altronde, che il termine idea mal gli si addice. Per parlare con proprietà, un’idea è l’atto unico e semplice per cui un intelletto si rappresenterebbe distintamente la pluralità d’individui contenuti in una specie, ma tale non è il caso dell’uomo. È vero che i nostri artigiani hanno l’idea di ciò che stanno per fare. In questo modo gli uomini fanno delle spade o delle case, ma allora si tratta soltanto di oggetti artificiali, di cui in effetti noi abbiamo delle idee, e non di esseri naturali di cui Dio ha le idee perché egli li causa, ma di cui noi non abbiamo idee perché non li causiamo. Da questo fatto derivano delle importanti conseguenze epistemologiche. Le sole conoscenze precise attinenti ad oggetti reali sono, per l’uomo, quelle degli esseri particolari. In tutti i casi di questo genere c’è “intellezione” propriamente detta; quando invece noi pensiamo il generale siamo nel vago, e non può più trattarsi che di un’opinione (opinio). Di tutto ciò che non hanno toccato con i loro sensi, gli uomini hanno più opinione che conoscenza. In effetti gli universali per Abelardo altro non sono che il significato dei nomi. Il procedimento con cui noi li formiamo si chiama «astrazione». La materia e la forma ci sono sempre dati insieme dalla realtà, ma il nostro intelletto ha il potere di volgere la sua attenzione verso la sola forma o verso la sola materia. Questo atto di attenzione costituisce l’astrazione. Non c’è d’altronde alcun errore nel concepire così le cose. L’intelletto non si sbaglia pensando separatamente sia la forma sia la materia; si sbaglierebbe invece pensando che sia la materia che la forma esistano separatamente; ma si tratterebbe allora di una falsa composizione degli astratti, non della loro astrazione. La conoscenza consiste nell’asserire come esistente insieme ciò che insieme esiste; l’opinione e l’errore consiste nel fatto che l’intelletto compone insieme ciò che nella realtà insieme non è. Questa spiegazione rimarrà nella scuola agostiniana del XIII secolo e riceverà la sua completa elaborazione nelle dottrine di Ockham. Siamo ormai in grado di rispondere alle 4 domande formulate. 1) I generi e le specie esistono? Per sé stessi essi non esistono che nell’intelletto, ma essi significano degli esseri reali, e cioè le cose stesse particolari che i termini particolari designano. 2) Gli universali sono corporei o incorporei? Per il senso che può avere si dovrà rispondere: come nomi gli universali sono corporei, ma la loro attitudine a significare una pluralità di individui simili è incorporea, le parole sono dunque dei corpi, il loro significato no. 3) Gli Universali esistono nelle cose sensibili o al di fuori di esse? Incorporei sono due tipi: quelli che esistono al di fuori del sensibile, come Dio e l’anima, e quelli che esistono nel sensibile, come le forme dei corpi. In quanto designano delle forme di quest’ultimo tipo, gli universali sussistono nei sensibili, ma in quanto le designano come separate dai sensibili, per astrazione, essi sono al di là del sensibile. Abelardo ritiene che si possano conciliare Platone e Aristotele, perché Aristotele dice che le forme non esistono che nel sensibile, il che è vero, ma Platone dice che queste forme conserverebbero la loro natura anche se non cadessero più sotto i nostri sensi, il che è egualmente vero. 4) Gli universali sussisterebbero ancora senza individui corrispondenti? Come nomi significanti gli individui essi cesserebbero di esistere, tuttavia i loro significati sussisterebbero ancora, perché anche se non ci fossero più rose si potrebbe ancora dire: la rosa non esiste. Grande è l’importanza storica dell’opera logica di Abelardo. Essa, infatti, forniva l’esempio di un problema esclusivamente filosofico discusso a fondo e risolto per sé stesso, senza alcun riferimento alla teologia. La logica di Abelardo ha influenzato profondamente il Medioevo. Due partiti allora si dividevano sul problema di sapere se la logica tratti di cose (res) o di parole (voces). Eliminando la prima soluzione Abelardo ha contribuito potentemente a rifare della logica una scienza autonoma, libera da ogni presupposto metafisico nel suo ordine proprio. Abbiamo visto che lo stesso Abelardo non contestava l’esistenza in Dio delle Idee propriamente dette; non poteva d'altra parte servirsi della sua logica per criticare delle tesi metafisiche di cui ignorava l’esistenza, ma riducendo il reale all’individuale e l’universale al significato dei termini, egli poneva sicuramente le basi sulle quali questa critica logica della metafisica, alla quale egli non pensava, avrebbe potuto, un giorno, fondarsi. Rinnovare tutto ciò che toccano è il vanto di spiriti di questo genere. La loro disgrazia è di essere le prime vittime delle loro scoperte. Dopo il semplice chierico professore di logica, incontriamo il monaco professore di teologia. Nel suo Scito te ipsum, Abelardo parte dalla distinzione tra vizio e peccato. Il vizio è un’inclinazione ad acconsentire a ciò che è sconveniente. Il vizio per sé stesso non è un peccato, ma un’inclinazione a peccare contro la quale noi possiamo lottare. Aggiungiamo che, dato che l’abbiamo definito negativamente, il peccato stesso è privo di sostanza: è non-essere, piuttosto che essere. Il peccato consiste precisamente nel non astenersi da ciò che non bisogna fare, cioè nell’acconsentirvi. Acconsentire al male significa disprezzare Dio, e l’intenzione di farlo è l’essenza stessa del peccato. Agire bene significa agire con l’intenzione di rispettare la volontà divina. Bisogna quindi distinguere tra la bontà dell’intenzione e la bontà del risultato (opus), come tra la malizia dell’intenzione e la malizia del risultato. Un’intenzione che per sé sia buona può avere come conseguenza un’opera per sé cattiva, o viceversa; ma l’atto morale dettato da una buona intenzione è sempre un atto buono; come quello dettato da un’intenzione cattiva è sempre un atto cattivo. Così, per il bene come per il male, la moralità dell’azione si confonde con quella dell’intenzione. Ma che cos’è una buona intenzione? Non è semplicemente un’intenzione che sembra buona, ma è quella che lo è realmente. Per agire bene non basta quindi credere che ciò che si fa piaccia a Dio, bisogna che sia anche quello che Dio vuole che l’uomo faccia. Ma allora, come potevano gli uomini avere delle buone intenzioni prima della predicazione del Verbo? Abelardo seguendo da logico le conseguenze dei suoi principi sostiene che è l’intenzione che decide. Coloro che non conoscono il Vangelo evidentemente non conoscono alcun errore non credendo in Cristo. Come si peccherebbe contro una legge che si ignora? Tutto ciò andrebbe molto bene, se Abelardo non urtasse contro questa difficoltà teologica supplementare: in qualunque maniera moralmente si qualifichino i loro atti, quelli che muoiono senza aver conosciuto il Vangelo sono dannati. Se ignorano il Vangelo e contravvengono alle sue leggi, non è tuttavia loro colpa! Chi sono gli infedeli? I filosofi pagani ad esempio meritano questo nome? Congiungendosi attraverso i secoli alla tesi di san Giustino, Abelardo assicura che quelli tra loro che hanno condotto una vita più castigata hanno ricevuto da Dio una certa luce di verità. Abelardo ritiene che molti pagani ed alcuni ebrei siano stati salvati e, tra i pagani, prima alcuni greci e poi i latini che hanno seguito la loro dottrina. Basta d’altronde vedere come hanno vissuto i filosofi per accertarsene. La rivelazione cristiana non è mai stata per lui la barriera insormontabile che divide gli eletti dai dannati e la verità dall’errore. Abelardo conosce dei passaggi segreti dall’una all’altra parte e gli piace pensare che anche gli antichi ch’egli ama li abbiano già trovati. L’influenza di Abelardo fu immensa ed è certo che la fine del XII secolo gli è debitrice del gusto del rigore tecnico e della spiegazione esauriente, anche in teologia, che troverà la sua completa espressione nella sintesi dottrinale del XIII secolo, Abelardo ha imposto uno standard intellettuale al di sotto del quale ormai non si accetterà più di ridiscendere. La figura e l’opera di Abelardo dominano tanto dall’alto l’insegnamento logico del suo secolo, che noi saremmo tentati di dimenticare i suoi avversari, se egli stesso non ce ne avesse fatto ricordare almeno uno. La mistica speculativa San Bernardo di Chiaravalle (1091-1153) è uno dei fondatori della mistica medievale. Egli sostiene che la conoscenza delle scienze profane è di infimo valore a paragone di quella delle La contemplazione di Dio si poggia sull’insieme delle scienze umane, e non è ignorandole che intende superarle. Lontano dal disprezzarle, Ugo le ritiene salutari. Imparate tutto, egli diceva, e vedrete in seguito che non c'è niente di inutile. Le scienze si riducono a quattro e queste contengono tutte le altre: la scienza teorica, che cerca di scoprire la verità; la scienza pratica che considera la disciplina dei costumi; la meccanica che presiede alle azioni della nostra vita; la logica che ci insegna la scienza di ben parlare e discutere. La scienza teorica o speculativa comprende la teologia, la matematica e la fisica: la matematica stessa si divide in aritmetica, musica, geometria e astronomia. La scienza pratica si suddivide in morale individuale, domestica e politica. La meccanica a sua volta si divide in sette scienze: tessitura, fabbrica d’armi, navigazione, agricoltura, caccia, medicina, teatro. La logica, infine, che è la quarta parte della filosofia, si divide in grammatica e in arte di discorrere, e quest'ultima comprende in sé la teoria della dimostrazione, la retorica e la dialettica. Fra tutte queste scienze ce ne sono sette che meritano in particolare di essere studiate, sono quelle che formano il Trivium e il Quadrivium. Si dà loro questo nome perché esse sono come le vie che conducono e introducono l’anima alla sapienza. Si vede dunque che pur essendo un mistico il nostro teologo è in primo luogo un maestro desideroso di vedere i suoi discepoli seguire il corso ordinario delle scienze profane. Egli insiste anche con forza sul punto che le sette arti liberali sono inseparabili e che si ha sempre torto quando si crede di conseguire la vera sapienza applicandosi ad alcune di esse e trascurando le altre. La sua teoria della conoscenza è la teoria aristotelica dell’astrazione, ch'egli tuttavia interpreta in senso completamente psicologico, come aveva fatto Abelardo e come si fa ancora ai giorni nostri nei manuali elementari di psicologia. Astrarre per lui consiste semplicemente nel fissare l’attenzione su di un elemento del reale per considerarlo a parte. Ugo di San Vittore corona con una dottrina mistica una filosofia che si richiama ai poteri ordinari dell’intelligenza e questa mistica consiste nel cercare delle interpretazioni allegoriche delle cose naturali e nel condurre l’anima verso la pace interiore. Considerata anche nel suo contenuto stesso, l’opera di Ugo di San Vittore merita la nostra attenzione. Il De Sacramentis è già una vasta somma teologica di cui sono notevoli le proporzioni e l’ordinamento interno; vi trova posto tutta la storia del mondo e si ordina attorno a due fatti che ne segnano i momenti i critici, la sua creazione e la sua restaurazione: l’opera di creazione per la quale sono state fatte le cose che ancora non esistevano; l’opera di restaurazione per la quale ciò che ha perito è stato rifatto, cioè l’incarnazione del Verbo e i Sacramenti. Ora poiché il mondo è stato fatto in vista dell’uomo bisogna spiegare la creazione di tutto il mondo per far capire quella dell’uomo: ma il racconto della Scrittura può essere utilmente rischiarato dalle interpretazioni della ragione. Infatti, nelle interpretazioni che propone, Ugo di San Vittore s’ispira principalmente a sant’Agostino, e a dire il vero le riduce al minimo indispensabile. Egli, in particolare, riprende il tema, così frequente nel Medioevo, del Cogito di Sant’Agostino. Ugo, infatti, pone come prima conoscenza quella della nostra esistenza. Noi non possiamo ignorare di esistere, l’anima non può ignorare di esistere e di non essere un corpo; e noi sappiamo anche di non essere sempre esistiti e di aver avuto un principio; è stato dunque necessario un primo autore del nostro essere, che è Dio. Lo studio delle opere di Riccardo di San Vittore (morto nel 1173), discepolo e successore di Ugo, non aggiungerà nessun nuovo tratto a ciò che sappiamo della filosofia medievale, ma egli è uno dei grandi nomi della mistica speculativa. Se non è, come talvolta si dice, il primo a chiedere un fondamento sensibile per le prove dell’esistenza di Dio, egli per lo meno sottolinea questa esigenza con maggior forza di quanto non avesse fatto Anselmo nel suo Monolgion. Tutte le prove dell’esistenza di Dio prendono a prestito qualcosa dal sensibile: esse si distinguono soprattutto per ciò che prendono a prestito. Per Riccardo, come per Anselmo e per Agostino, il mondo sensibile offre al pensiero soprattutto la nozione di una realtà mutevole, e di conseguenza colpita da una deficienza ontologica. Per opposizione, la ragione ne ricava la nozione della realtà immutabile ed ontologicamente sufficiente. Riccardo d’altronde fa un uso molto largo della ragione in maniera di teologia: egli reclama con insistenza il diritto di cercare le “ragioni necessarie” cioè dialetticamente stringenti, anche di dogmi quale quello della Trinità. La sua opera teologica si corona con una teoria delle facoltà superiori dell’anima che fa della purificazione del cuore la condizione necessaria della conoscenza mistica. Dopo aver cercato Dio nella natura e nella sua bellezza sensibile, l’anima, superando la pura immaginazione, vi aggiunge il ragionamento: essa allora è, nell’immaginazione, aiutata dalla ragione: un nuovo sforzo l’insedia nella ragione aiutata dall’immaginazione, poi nella pura ragione, infine al di sopra della ragione. Al più alto grado della conoscenza, l’anima, che è già dilatata e sollevata, smarrisce sé stessa, e nei rari istanti in cui questa grazia le è concessa quaggiù, essa contempla nella sua nuda verità la luce della suprema Sapienza. Le grandi opere mistiche di Riccardo eserciteranno con il loro fervente simbolismo un’azione profonda su alcune dottrine del XIII secolo. Si può dire che una catena continua lega sant’Anselmo ai Vittorini e a San Bonaventura, la cui opera non farà che perpetuare e rinnovare questa tradizione nelle circostanze nuove in cui egli si troverà. L’universo del XII secolo Come si è già visto il medioevo ha ereditato dall’antichità classica l’idea di un certo genere di opera scientifica che riassume e classifica l’insieme delle conoscenze umane in una data epoca. È ciò che oggi si chiama un’enciclopedia. Le antichità di Varrone, oggi sono perdute, ma sant’Agostino le ha conosciute, ne ha fatto un grande uso ed è ciò che l’ha condotto, nel suo De doctrina christiana, a formulare il desiderio che si facesse, ad uso dei cristiani, una raccolta di tutte le conoscenze richieste per l’interpretazione della Sacra scrittura. Il Medioevo non ha trascurato di esaudire questo desiderio. Di secolo in secolo, si sono trovati dei compilatori per comporre o rifare queste somme di ogni umana conoscenza. Nel XII secolo compaiono parecchie opere dello stesso tipo e la loro lettura ci permette di rappresentarci con molta esattezza l’idea che ci si faceva allora dell’universo e della sua struttura. Nel De immagine mundi, opera attribuita all’enigmatica personalità del XII secolo, nota sotto il nome di Honorius Augustodunensis (Onorio di Autun) leggiamo che la parola mondo significa “ovunque c’è movimento” perché esso è un movimento perpetuo. L’origine del mondo è la creazione da parte di Dio. Dapprima il mondo è concepito nel pensiero divino prima dell’inizio dei secoli: questa concezione genera l’archetipo del mondo. In seguito, il mondo sensibile è creato nella materia ad immagine del suo archetipo. In terzo luogo, esso riceve le sue specie e le sue forme con l’opera dei sei giorni. Qual è al presente, il mondo è fatto di quattro elementi. Elemento significa contemporaneamente materia e legamento. In effetti la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco sono la materia di cui tutto è fatto, ed essi si legano l’un l’altro nel corso di un’incessante rivoluzione circolare. Il più pesante degli elementi, occupa la parte bassa del mondo; il fuoco, che è la più leggera, occupa il posto in alto; l’acqua sta vicina alla terra e l’aria più vicina al fuoco. Poiché si trova al centro, è dalla terra che bisogna incominciare. Essa è di forma rotonda. Posta al centro esatto del mondo, essa non vi posa su null’altro che sulla potenza divina. L’oceano la circonda come una cintura. All’interno essa è percorsa da canali d’acqua che temperano la sua naturale secchezza. La superficie della terra si distribuisce in cinque zone, o circoli. Le due zone estreme sono inabitabili a causa del freddo, perché il sole non vi si avvicina mai; la zona del centro è inabitabile a causa del caldo; le due zone medie sono abitabili, temperate come sono dal caldo e dal freddo delle zone vicine. L’Asia trae il suo nome da quello d’una regina. È la prima regione a est partendo dal paradiso terrestre che è un luogo di delizie inaccessibili agli uomini perché circondato da un muro d’oro che sale fino al cielo. Là si trova l’albero della vita, il cui frutto renderebbe immortali. Poi viene l’India, dal nome del fiume Indo che nasce a nord del Caucaso. Poiché questo fiume separa l’India dall’occidente, lo si chiama anche Oceano Indiano. L’India ha 44 regioni e molti popoli. Sulle montagne ci sono i pigmei che sono alti due cubiti, fanno guerra alle gru, si riproducono a 3 anni di età e a 8 sono vecchi. I Macrobi alti dodici cubiti vi combattono contro i grifoni che hanno il corpo di leone e le ali d’aquila. L’India è d’altronde il paese dei mostri umani. L’Europa prende il suo nome dal re Europo e dalla regina Europa, figlia di Agenore. Il nostro geografo descrive brevemente la Germania, l’Italia, la Grecia e la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna. Passando poi all’Africa e alle numerose isole del mediterraneo compresa la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e la grande Isola che, Platone dice, fu sommersa dal mare. È diventato un classico considerare la scoperta dell’America, le esplorazioni di tanti viaggiatori, e le loro descrizioni di modi di vivere sorprendenti per gli Europei, come una delle cause dell’allargamento dello spirito umano nei tempi moderni. Ci si può chiedere al contrario se la terra non si sia ristretta e non abbia perduto del suo mistero da quando essa non è più una stretta striscia di terra fiancheggiata da ogni parte da meraviglie. Nel XII secolo l’inferno era concepito come una stretta gola al centro della terra; luogo di fuoco e di zolfo, lago di morte. Le conoscenze relative all’acqua sono molto semplici. Aqua viene da equalitas; la si chiama quindi anche aequor, perché è piana. Questo elemento penetra la terra e la circonda da tutte le parti. Allora lo si chiama Oceano. L’aria è tutto ciò che, tra la terra e la luna, assomiglia al vuoto. Noi la respiriamo per vivere; poiché essa è umida gli uccelli vi volano come i pesci nuotano nell’acqua, ma è lì che dimorano anche i demoni; di essa si formano i corpi per comparire agli uomini. I venti non sono che aria in movimento. Così arriviamo al fuoco, il cui nome (ignis) significa non gignis: tu non generi, e che, come sottigliezza, vince l’aria quanto l’aria vince l’acqua. La sua purezza è perfetta; è col fuoco che si formano i corpi degli angeli quando vengono tra gli uomini. La scienza del fuoco comprende la descrizione dei sette pianeti, ciascuno dei quali è appoggiato su di un particolare circolo. Si chiamano astri erranti, perché i pianeti tendono naturalmente ad andare in senso inverso a questo movimento di rotazione. I nostri intervalli musicali, non di meno, sono derivati da quelli delle sfere celesti. Di forma sferica, di natura acquea, ma fatto di un solido cristallo analogo al ghiaccio, il firmamento ha due poli, il polo boreale sempre visibile e il polo australe che noi non vediamo mai perché la convessità della terra ce lo nasconde. Il cielo gira sui suoi due poli come una ruota sul suo asse, e le stelle girano con lui. Per completare l’opera non resta più che riassumere la storia di ciò che è accaduto nel tempo dopo le origini del mondo, per dare ordine a questa vasta materia la si divide in età (aetates). Prima età, dalla caduta degli angeli e poeti ch’egli ammira profondamente gli è insopportabile. Egli ha bisogno di sentire una reale continuità tra la verità nella sua forma antica e la verità nella sua forma cristiana: così, non potendo paganizzare il Cristianesimo, egli cristianizza l’antichità. Le sole conoscenze che mancarono a Platone per essere un perfetto cristiano sono quelle dell’incarnazione e dei sacramenti. Quest’intima combinazione di fede cristiana e filosofia ellenistica ha generato quindi nel XII secolo una concezione dell’universo che spesso ci meraviglia, ma che non manca né di interessi né di bellezza. Il punto dove più completamente gli uomini di quest’epoca differiscono da noi è la loro ignoranza pressoché totale di ciò che possono essere le scienze della natura. Per un pensatore di quest’epoca conoscere e spiegare una cosa consiste sempre nel mostrare che essa non è ciò che appare, che essa è il simbolo e il segno di una realtà più profonda ch’essa annuncia o ch’essa significa una cosa diversa. Ciò che manca al XII secolo per porre una concreta realtà sotto questo mondo di simboli è la concezione di una natura che abbia una struttura in sé e un’intellegibilità per sé, per debole che essa sia. Siamo alla vigilia del giorno in cui questa concezione sta per formarsi, e il XIII secolo ne andrà debitore alla fisica aristotelica. 6 – Le filosofie orientali È un fatto di notevole importanza per la storia della filosofia medievale in Occidente che il suo sviluppo abbia avuto un ritardo di circa un secolo su quella delle corrispondenti filosofie arabe ed ebraiche. Lo studio dell’ampio e magnifico sviluppo di queste filosofie orientali, preso per sé stesso, non potrebbe entrare nel nostro programma: sarebbe necessario uno studio speciale. Ma poiché alcune di esse hanno influenzato direttamente le grandi dottrine occidentali del XII secolo, è necessario che noi qui almeno notiamo quali furono i momenti decisivi della loro storia e le ragioni essenziali dell’azione che esse hanno esercitato sull’evoluzione filosofica dell’Occidente. La filosofia araba Nel 529 d.C., l’imperatore Giustiniano decretava la chiusura delle scuole filosofiche di Atene. Poteva sembrare quindi che l’Occidente rifiutasse definitivamente l’influenza della speculazione ellenica, ma il pensiero greco aveva incominciato ben prima di questa data a guadagnare terreno verso l’Oriente. La speculazione ellenica, in effetti, beneficiò della diffusione della religione cristiana in Mesopotamia e in Siria. La scuola di Edessa insegnava Aristotele, Ippocrate e Galeno. La necessità in cui si trovavano i siriani convertiti di imparare il greco per leggere l'antico e il nuovo testamento li aveva messi in grado di iniziarli alla scienza e alla filosofia greca. Dunque, si insegnava la filosofia, la matematica e la medicina, laddove si insegnava la teologia, e si traducevano le opere classiche dal greco in siriaco. Nell'insieme il pensiero arabo pose sotto l'autorità di Aristotele una sintesi dell'aristotelismo e del neoplatonismo sulla quale dovette in seguito necessariamente esercitarsi la riflessione e la critica dei teologi del XIII secolo. Quando la scuola di Edessa fu chiusa, nel 489, i suoi professori passarono in Persia e diedero lustro alle scuole di Nisibis e di Gandisapora. Nel momento in cui l’Islamismo sostituì il Cristianesimo in Oriente, il ruolo dei Persiani come agenti di trasmissione della filosofia ellenica apparve con perfetta chiarezza. I califfi Abbassidi, la cui dinastia si fonda nel 750, fecero appello ai servigi dei Siriani, ed è così che Euclide, Archimede, Tolomeo, Ippocrate, Aristotele, Alessandro d’Afrodisia vennero tradotti direttamente dal greco all’arabo, sia dal greco al siriaco, poi dal siriaco all’arabo. Tra gli elementi di cui si componeva questa tradizione, evidentemente le opere di Aristotele costituivano la parte più importante. Ma nel catalogo delle opere di Aristotele che i Siriani trasmettevano agli Arabi, s’erano introdotti degli scritti assai differenti. Due trattati essenzialmente neoplatonici, La teologia di Aristotele e il Liber de causis, che passarono per produzioni autentiche del Maestro e influenzarono profondamente l’interpretazione del suo pensiero. La più importante conseguenza di questo fatto fu che, nell’insieme, il pensiero arabo pose sotto l’autorità di Aristotele una sintesi dell’Aristotelismo e del neoplatonismo sulla quale dovette in seguito necessariamente esercitarsi la riflessione e la critica dei teologi del XIII secolo. Si attribuisce infatti ad una influenza del pensiero ellenico la costituzione della setta dei Mutaziliti. All’interno di questo gruppo comparì, nel secondo quarto del IX secolo, il movimento indicato col nome di Kalam o parola. Divisi essi stessi in parecchie sette, i fautori del Kalam si distaccavano dall’ortodossia musulmana in quanto confondevano gli attributi divini, dei quali il corano sembra ammettere la distinzione, con l’unità assoluta dell’essenza divina, ma soprattutto in quanto affermavano la libertà umana, insegnavano che la giustizia di Dio è la regola rigorosa della sua azione riguardo agli uomini e negavano la rigorosa predestinazione ammessa dai veri credenti. Il Kalam non si identificherebbe dunque più con la teoria musulmana; completamente liberi da preoccupazioni teologiche, e come si vedrà i filosofi arabi continuavano la speculazione greca e costituivano delle dottrine di cui l’Occidente cristiano doveva subirne profondamente l’influenza. Il primo nome famoso della filosofia musulmana è quello di Al-Kindi, Pressoché contemporaneo di Giovanni Scoto Eriugena. Al-Kindi è innanzitutto un enciclopedista, i cui scritti coprono quasi tutti i campi del sapere greco. Il medioevo ha conosciuto solo una piccola parte di quest'opera così estesa, ma almeno uno dei suoi scritti merita di trattenere la nostra attenzione perché esso rientra in una famiglia di opere dove quei caratteri sono ben definiti, il De intellectu, che verrà conosciuto nella sua traduzione latina, sotto il titolo di De intellectu et intellecto. Questo trattato aveva lo scopo di chiarire il senso della distinzione introdotta da Aristotele tra intelletto possibile e intelletto agente. Il pensiero occidentale non sospettava nulla di questa difficoltà. Si capisce che i traduttori latini abbiano avuto particolare interesse per quei trattati che potevano chiarire l'ordine degli universali spiegando la natura dell'astrazione. Al-Kindi distingueva l'intelletto che è sempre in atto, l'intelletto in potenza, l'intelletto che passa dalla potenza all'atto e l'intelletto che si chiama dimostrativo e considera “l'intelletto sempre in atto” come un'intelligenza. Il pensiero arabo quindi ha ammesso, fin dalle origini, che non c'è che un'intelligenza agente per tutti gli uomini. Il secondo grande nome della filosofia araba è Al-Farabi. Oltre alle sue traduzioni e commenti di Porfirio e dell’Organon di Aristotele, egli compose i trattati De intellectu et intellecto, L'anima, L'unità e L'uno ecc. Una delle sue opere più significative è la sua concordanza di Platone e Aristotele. Questo titolo mostra già assai bene quanto sia inesatto sostenere che la filosofia araba non abbia fatto altro che prolungare quella di Aristotele. Al contrario, convinti che il pensiero di Aristotele era in fondo d'accordo con quello di Platone, gli arabi hanno fatto grandi sforzi per conciliarli. D'altra parte, come gli occidentali, essi avevano una religione di cui dovevano tener conto, e che non fu priva d’influenza sulla loro dottrina. Come quello dell'antico testamento, il Dio del Corano è uno, eterno, onnipotente e creatore di tutte le cose; i filosofi arabi hanno incontrato dunque, prima dei cristiani, il problema di conciliare una concezione greca dell'essere e del mondo a quella nozione biblica di creazione. Il problema riveste l’aspetto di un confitto tra il diritto dell'universo posto come una realtà intelligibile, sussistente e per sé stessa sufficiente, e il diritto di un Dio onnipotente a rivendicare per sé ogni realtà ed efficacia. Certi teologi musulmani spinsero molto lontano questa rivendicazione metafisica dei diritti di Dio. Al-Farabi era, anche lui, uno spirito profondamente religioso, ed è almeno probabile che questo stesso sentimento gli abbia ispirato la dottrina fondamentale della distinzione di essenza ed esistenza negli esseri creati. Al-Farabi si è dimostrato capace di adattare la schiacciante ricchezza delle idee filosofiche greche al sentimento nostalgico di Dio che avevano gli orientali e alla sua personale esperienza mistica. Egli si è ispirato a questa osservazione di Aristotele: che la nozione di ciò che è una cosa, non include il fatto che la cosa esista. La distinzione logica tra l'essenza e l'esistenza, introdotta da Aristotele, diventa il segno della loro distinzione metafisica. La nuova posizione dottrinale così definita comporta tre momenti principali: un'analisi dialettica della nozione di essenza, che mostra come la nozione di esistenza non vi sia inclusa; l'affermazione che, poiché è così, l'essenza non include l'esistenza attuale; l'affermazione che l'esistenza è un accidente dell'essenza. Il mondo di Al-Farabi si presenta quindi già come molto simile al mondo dei metafisici occidentali del XIII secolo. Adesso dipende da una causa prima nella sua esistenza nel movimento che lo anima e nelle sue essenze che definiscono gli esseri di cui esso si compone. La fonte di ciò che le cose sono è d'altronde quella della conoscenza che noi ne abbiamo. Il De intellectu et intellecto mette in piena luce questa idea. Dividendo a sua volta le funzioni dell'intelletto, Al-Farabi distingue l'intelletto in potenza rispetto alla conoscenza che esso può conseguire; l'intelletto in atto rispetto a questa conoscenza finché l’acquisisce; l'intelletto acquisito in quanto l’ha già acquisita; infine, l'intelligenza agente, essere spirituale e trascendente al mondo sublunare; questa intelligenza è sempre in atto. Irradiando le materie, gli elementi eternamente e sempre allo stesso modo, la sua azione è immutabile; la densità degli effetti che produce deriva semplicemente dal fatto che le materie degli intelletti che la subiscono non sono sempre e tutti ugualmente disposti a riceverla. Il fine ultimo dell'uomo è di unirsi con l'intelletto e l'amore all'intelligenza agente separata, ed è il profeta che realizza questa Unione in sommo grado. Il fondatore di una delle più importanti sette musulmane, al Ashari (morto nel 936), che ha meritato il titolo di terzo fondatore dell’Islam, ha affermato con precisione che tutto è stato creato dal solo Fiat di Dio (sia fatta la luce); che nulla è indipendente dal suo potere, e che il bene come il male esistono soltanto per la sua volontà. L’elaborazione metafisica di questi principi religiosi portava i suoi discepoli ad una curiosa ed originale concezione dell’universo. Tutto vi era disarticolato nel tempo e nello spazio per permettere all’onnipotenza di Dio di circolarvi a proprio agio. Una materia che compie delle operazioni nelle quali ogni momento è indipendente da quello che lo precede e senza effetto su quello che lo segue, ovvero il tutto non sussistente, è tenuto insieme e funzionante solo per volontà di Dio che lo tiene al di sopra del nulla e lo anima, tale era pressappoco il mondo degli Ashariti. Era una combinazione di atomismo e di occasionalismo provocata da una gelosia religiosa dell’onnipotenza divina. Niente di tutto questo si ritrova in al- insieme in virtù del solo necesse esse, che è Dio. Per diventare più tardi assimilabile al pensiero cristiano, bisognerà che l’universo di Avicenna ammetta alla sua origine la decisione di una volontà divina sovranamente libera. Il Necessario, o Primo, è semplice e uno, perché la sua essenza è autosufficiente, ora, dall’uno non può uscire che l’uno. D’altra parte, Dio è semplice e uno perché egli è una sostanza intellegibile; ora l’atto di una sostanza intellegibile è conoscere, l’atto creatore non può essere che l’atto stesso per il quale conosce. Il Primo conosce sé stesso e la conoscenza che egli ha di sé, e costituisce il Primo causato. Questo primo essere causato è una sostanza intellegibile o intelligenza; poiché è causato, esso è per sé possibile, ma esso è anche di fatto necessario, in virtù della sua causa. Non tutti gli uomini hanno al medesimo grado la capacità di unirsi all’intelletto agente perché certuni ne sono appena capaci, mentre altri vi pervengono a prezzo di sforzi più o meno grandi, e tra questi ve ne sono alcuni che si elevano grazie alla purezza della loro vita, fino a comunicare così facilmente con questa intelligenza divina, che è come una preghiera esaudita in anticipo. Questo stato dell’intelletto è l’intellectus sanctus, il cui vertice è lo spirito di profezia. Un musulmano aveva il dovere di riservare questo posto d’onore al Profeta. Quest’opera, per la sua ampiezza di vedute e la perfezione della sua tecnica filosofica, meritava certamente la profonda e duratura influenza che doveva esercitare sui pensatori cristiani d’occidente. Senza dimenticare tutto ciò che Avicenna deve, e riconosce di dovere, al suo predecessore Al-Farabi, gli si può attribuire il merito di aver realizzato una felice fusione dell’aristotelismo e del neoplatonismo ad uso del pensiero arabo. È vero nondimeno che alcuni spiriti si preoccupavano delle conseguenze spiacevoli che questo straordinario sviluppo della spiegazione razionale poteva avere per la fede. Al-Ghazali (morto verso il 1111) tenta uno sforzo di reazione, e pubblica parecchie celebri opere di cui i titoli stessi sono significativi: Restaurazione delle conoscenze religiose, La distruzione dei filosofi. Nessuna di queste opere fu conosciuta dal mondo latino medioevale, ma Al-Ghazali ne aveva composta una, Le intenzioni dei filosofi, nella quale egli si limitava ad esporre le dottrine di Al-Farabi e di Avicenna. Quando quest’ultimo fu tradotto in latino, Al-Ghazali ebbe la sfortuna di passare in occidente come sostenitore di quelle stesse tesi. Il vero Al-Ghazali è completamente diverso perché egli professa una specie di scetticismo filosofico. Il suo grande avversario è Aristotele, il principe dei filosofi, ma spesso egli ingloba nei suoi attacchi contro di lui i più grandi interpreti musulmani dell’aristotelismo: Al-Farabi e Avicenna. Volutamente, del resto, egli salva dalla sua critica tutto ciò che rientra nel dominio della scienza, e la sua rigorosa distinzione tra scienza e filosofia dovevano permettergli di eliminare tutte le dottrine filosofiche di cui la fede avrebbe potuto preoccuparsi. Egli stabilisce, ad esempio, che i filosofi si sbagliano affermando l’eternità della materia, che essi non possono dimostrare l’esistenza di un demiurgo, né stabilire che Dio è uno e che è incorporeo. Questa critica della filosofia non doveva arrestarne lo sviluppo, neanche nell’ambiente musulmano, ma essa doveva avere come risultato quello di far emigrare la filosofia musulmana dall’oriente in Spagna, ove avrà ancora un vivo splendore con Avempace, Ibn Tufail e soprattutto Averroè. Il nome più importante della filosofia araba insieme a quello di Avicenna, è Averroè la cui influenza si è propagata in molteplici direzioni, durante tutta la durata del medioevo. È un arabo di Spagna perché nacque nel 1126 a Cordoba, per parecchi anni esercitò la funzione di giudice e compose un numero considerevole di scritti sulla medicina. Alcuni dei suoi commenti su Aristotele nel medioevo gli valsero il titolo di “commentatore” per eccellenza. Averroè morì nel 1198 all’età di 72 anni. Uno dei tentativi più originali da lui compiuti è quello che gli fece determinare con precisione i rapporti tra filosofia e ragione. Egli constatava la presenza di un grande numero di sette filosofiche e teologiche in lotta le une contro le altre, la cui esistenza stessa era un continuo pericolo tanto per la filosofia quanto per la religione. Averroè attribuì ogni male al fatto che si autorizzavano ad accedere alla filosofia degli spiriti incapaci di capirla: egli vide rimedio in una esatta definizione dei diversi gradi possibili dell’intelligenza dei testi del Corano, e nell’interdizione manifesta ad ogni spirito di superare il grado che gli conviene. Il Corano è destinato alla totalità degli uomini, deve contenere di che soddisfare e convincere tutti gli spiriti. Ora, vi sono 3 categorie di spiriti e 3 corrispondenti specie di uomini: 1) gli uomini portati alla dimostrazione, che esigono le prove rigorose e vogliono conseguire la scienza andando dal necessario al necessario attraverso il necessario; 2) gli uomini dialettici che sono soddisfatti di elementi probabili; 3) gli uomini portati all’esortazione, ai quali bastano gli argomenti oratori che fanno appello all’immaginazione e alle passioni. Il pensiero centrale di Averroè è che ogni spirito ha il diritto e il dovere di comprendere e interpretare il Corano nel modo più perfetto di cui è capace. La prima è che uno spirito non deve mai cercare di elevarsi al di sopra del grado di interpretazione di cui è capace. La seconda è che non si devono mai divulgare presso le classi inferiori di spirito le interpretazioni riservate alle classi superiori. L’errore in cui si è caduti consiste precisamente nella confusione e tempestiva divulgazione delle conoscenze superiori agli spiriti inferiori. Conviene dunque ristabilire in tutto il suo rigore, la distinzione dei tre ordini d’interpretazione e insegnamento; al vertice la filosofia che conferisce la scienza e la verità assoluta; al di sotto la teologia; al basso religione e fede. In una posizione così complessa, dei conflitti di giurisdizione sono inevitabili. Che cosa si deve fare quando, su un punto preciso, la filosofia insegna una cosa e la fede un’altra? Averroè in casi simili parla come se lui stesso fosse insieme filosofo e credente, ed è il motivo per cui i suoi avversari gli attribuirono la dottrina detta “della doppia verità”, secondo la quale due conclusioni contraddittorie potrebbero essere simultaneamente vere, l’una per la ragione e la filosofia, l ‘altra per la fede e la religione. Pare sicuro che Averroè non abbia mai detto nulla di simile, ma egli constata che una certa conclusione s’impone necessariamente alla ragione, ed in caso di contrasto, egli aderisce all’insegnamento della fede. Senza dubbio egli pone la conoscenza filosofica alla sommità della gerarchia del sapere, ma anche san Tommaso lo fa: la scienza è un sapere più perfetto della fede; come accertarci che, anche per Averroè, la fede è, anche se meno evidente, più sicura della ragione? È vero che san Tommaso lo dice e Averroè no. Il fatto è importante, ma Averroè dice che, nel Profeta, fede e ragione, religione e filosofia coincidono. Il pensiero di Averroè si presenta come uno sforzo cosciente di restituire alla sua purezza la dottrina di Aristotele, corrotta da tutto il platonismo che i suoi predecessori vi avevano introdotto. Averroè ha visto benissimo quali interessi teologici avessero favorito questa mescolanza. Egli sapeva che restaurare l’aristotelismo autentico significava escludere dalla filosofia ciò che in essa meglio si accordava con la religione. I cristiani che l'hanno letto non si sono sbagliati affatto su questo aspetto del suo pensiero, e quelli che non ameranno la sua filosofia non rinunceranno ad addurre, contro i cristiani che invece vorranno ispirarsene, il pericolo che essa faceva correre alla fede. In logica, Averroè non ha avuto altro ruolo che quello, del resto per sé molto importante, di un interprete penetrante e fedele dell’aristotelismo autentico. In antropologia e in metafisica egli ha posto in circolazione un aristotelismo di tipo preciso, che doveva contendere le menti a quello di Avicenna nel corso dei secoli XIII e XIV. La metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, e delle proprietà che, come tale, gli appartengono. Con il termine “essere” bisogna intendere la sostanza stessa che è. Ogni sostanza è un essere; ogni essere è o una sostanza o un accidente che partecipa dell’essere sostanza. Così vincolato alla realtà concreta, l’essere di ciascuna cosa le è proprio; non si può quindi predicare l'essere univocamente (in un senso identico) di tutto ciò che è. Tuttavia, ciò che è, è un certo genere di essere: la sostanza, l’accidente, la quantità, la qualità, in breve ciascuna delle categorie dell’essere ha questo in comune con le altre, che essa designa qualcosa che è; non si può dunque predicare l’essere equivocamente; per questo si dice che l’essere è «analogo». Intendiamo con questo che, qualunque cosa esse siano e in qualunque maniera siano, tutte le categorie hanno un «rapporto» con l’essere. Perché la nostra logica si applichi al reale, bisogna che le cose sensibili siano allo stesso tempo intellegibili. Esse lo sono, e anche questo prova che la loro causa prima è il pensiero di un intelletto. Se fosse diversamente, da dove prenderebbe la loro natura questa disposizione ad essere pensata? La loro intellegibilità è loro essenziale, e ciò che è essenziale non esiste che per una causa efficiente necessaria. È vero che esse sono sensibili, ma anche il pensiero degli artigiani produce degli oggetti materiali. Se noi possiamo capire questi oggetti, è perché essi vengono da un pensiero, cioè da una forma intellegibile presente all’intelletto di colui che li ha fatti. I platonici hanno avuto torto di credere all’esistenza delle idee separate, ma non di pensare che il sensibile riceva da qualche causa la sua intellegibilità. Sarebbe un errore credere che gli universali esistano in sé, al di fuori degli individui. L’universale non è una sostanza ma l’opera di un intelletto. Composta di forma e di materia, ogni sostanza sensibile è anche composta di atto e di potenza. Per l’atto essa è, per la potenza essa può divenire. Cambiare di qualità, di quantità o di luogo, è passare dalla potenza all’atto, è essere in movimento. In fisica si prova che tutto ciò che è in movimento è mosso da un motore, il motore muove soltanto perché è in atto. Gli esseri in movimento si ripartiranno necessariamente in 3 classi: quelli che sono mossi e non muovono; quelli che sono nello stesso tempo effetti e cause, che muovono e che sono mossi; la più alta comprenderà gli esseri che muovono senza essere mossi. Muovere senza essere mosso significa essere un atto scevro di ogni potenzialità: un atto puro. Perché l’azione motrice di questi atti puri sia continua, bisogna che anche il movimento e le cose mosse lo siano. Poiché sono privi di potenzialità, questi atti lo sono anche di materia. Sono dunque delle sostanze immateriali. Quanti ve ne sono? Ne porremo quanti sarà necessario per spiegare i movimenti primi, cause di tutti gli altri dell’universo; comunemente si ammette che ce ne sono 38: cinque per ciascuno dei pianeti superiori (Saturno, Giove e Marte), cinque per la luna, otto per Mercurio, sette per Venere, uno per il sole e uno per la sfera che avvolge il mondo, cioè il firmamento. Come possono muovere questi motori, che sono immobili? È che, per muovere, essi non hanno da fare altro che esistere. Il movimento di ogni sfera nasce in lei dal desiderio particolare che essa prova per l’atto puro da cui dipende. Essa si muove da sé verso di lui. Per comprendere questo movimento, ricordiamoci che i motori sono degli atti immateriali, cioè delle intelligenze e che la sfera corrispondente desidera il l'esistenza di Dio con la necessità di ammettere un primo motore per render conto dell’esistenza del movimento, con l'esistenza di un essere necessario, e con l'esistenza di una causa prima. L'esistenza di Dio si trova dunque fissata, sia che il mondo sia stato creato ex nihilo nel tempo, sia che esso sia esistito dall’eternità. Rifiuta assolutamente all'uomo il diritto di affermare circa Dio degli attributi che non siano negativi: di Dio si sa solo "che è, non che cosa egli sia, e la sola risorsa che ci resta per parlare di lui è accumulare gli attributi negativi che, negando ogni imperfezione di Dio, ci faranno almeno conoscere ciò che egli non è”. Con questa dottrina si ritrova la preoccupazione di eliminare tutto ciò che può essere un attacco alla totale unità di Dio. Se l'assenza di Dio ci sfugge, gli effetti della sua azione nel mondo sono invece manifesti agli occhi di tutti. Dio è evidentemente la causa finale del mondo, come è la sua causa efficiente. La sua provvidenza si estende all'insieme delle cose come al minimo dettaglio, e ciò che di male può esservi nel mondo si spiega sia con la limitazione inerente allo stato di creatura, sia con i disordini della creatura stessa che spesso è l'artefice responsabile dei suoi mali. 7 – Influenza greco-araba nel XIII secolo e la fondazione delle università Influenza greco-araba Il progresso filosofico e teologico del XIII secolo ha fatto seguito all’invasione dell’Occidente latino da parte delle filosofie arabe ed ebraiche e, quasi contemporaneamente, delle opere scientifiche, metafisiche e morali di Aristotele. L’opera dei traduttori ha dunque preceduto e condizionato quella dei filosofi e dei teologi. Quando si trattava di scritti di Aristotele, le traduzioni arabe di cui disponevano erano stare a loro volta tradotte da una traduzione siriaca del testo greco. Per quanto esse talvolta siano oscure, le traduzioni di Aristotele incominciate in Italia un po’ tardi non potevano non risultare utilizzabili. Queste prime traduzioni hanno avuto nondimeno un ruolo importante. Gerardo da Cremona tradusse molte opere, gli si deve inoltre, e vedremo l’importanza decisiva di questo fatto, la traduzione latina del Liber de causis, compilazione neoplatonica dell’Elementatio theologica di Proclo, ma che è stata considerata a lungo opera di Aristotele. Quest’opera viene spesso citata nel Medioevo come Liber Aristotelis de expositione vonitatis purae. Troveremo altrove l’inglese Alfredo di Sareshel (Alfredus Anglicus) traduttore toledano di opere scientifiche falsamente attribuite ad Aristotele; le traduzioni toledane, furono quelle delle opere originali degli stessi filosofi arabi ed ebrei. La Logica di Avicenna tradotta da Giovanni Ispano, la Metafisica tradotta da Domenico Gundissalino; agli stessi autori si deve la Metafisica, la Logica e la Fisica di al-Ghazali. Ciò che l’Occidente raggiungeva attraverso questi scritti era principalmente l’Aristotele degli Arabi, cioè un Aristotele fortemente neo platonizzato, ed era anche, nel caso del Liber de causis il neoplatonismo quasi puro di Proclo e Plotino. Le 32 proposizioni che formano il Liber de causis formano una specie di trattato sull’ordine gerarchico delle cause, partendo dalla prima. Causa di tutte le altre, e della loro stessa causalità, questa Prima causa è anteriore all’eternità, perché è anteriore all’essere stesso e, di conseguenza, all’intelligibile. Essa è dunque indefinibile, ma la si chiama il Bene, perché è la fecondità prima, da cui proviene tutto il resto, e l’Uno perché è la sola causa che sia al di sopra dell’essere e delle forme. Tutto ciò che non è questa Prima causa è molteplice e, di conseguenza, non è l’Uno. L’essere non compare che con il primo causato. Questo primo essere è una intelligenza pura; esso è dunque semplice, ma non è l’uno, perché contiene nella sua semplicità la totalità delle forme intelligibili. Questa dottrina era un potente appoggio per i fautori della dottrina delle idee create, concepite come non coeterne a Dio. Le forme causate dalla prima intelligenza generano a loro volta tutte le anime, tra cui l’anima umana. Capace di conoscere le cose eterne, perché lei stessa è eterna, ogni Intelligenza e ogni anima intelligente possiede naturalmente in sé i sensibili, perché è piena delle loro forme. Il primo a subire questa spinta neoplatonica e a cedere all’urto fu uno dei principali traduttori toledani, Gundissalino. Il suo De divisione philosophiae è una specie di introduzione alla filosofica, dove per la prima volta in Occidente si aggiunge al Quadrivio dell’alto Medioevo la fisica, la psicologia, la metafisica, la politica e l’economia di cui gli scritti di Aristotele avevano appena svelato l’esistenza. Molto più importante è il suo De processione mundi, dove intraprende l’interpretazione del problema della reazione come cristiano, descrivendola però come colui che personalmente ha tradotto la Metafisica di Avicenna. Ancora da Avicenna, trae ispirazione il suo De immortalitate animae. L’opera personale di Gundissalino è un documento prezioso sulle prime reazioni dei cristiani a contatto con le filosofie arabe ed ebraiche anteriori ad Averroè. (da finire) La fondazione delle università Universitas, o Università, non indica nel Medioevo l’insieme delle facoltà istituite in una stessa città, ma l’insieme delle persone, maestri e scolari, che partecipano all’insegnamento impartito in questa stessa città. Non si è quindi sempre autorizzati a dedurre dalla parola universitas l’esistenza di una Università organizzata in un determinato luogo. Uno studium generale, o universale, o anche comune, non è un luogo in cui viene studiata la totalità del sapere, ma un centro di studi dove possono venire accolti studenti di origini assai diverse. Si mandavano allo studium particulare di una provincia gli studenti di una medesima provincia, e allo studium generale di una provincia dell’ordine gli studenti di tutte le provincie. Uno studium solemne era un centro di studi particolarmente importante, anche se non necessariamente generale. La prima universitas analoga alle nostre moderne Università è quella di Bologna, ma essa fu innanzitutto un centro di studi giuridici ed ottenne una facoltà regolare di teologia soltanto dal papa Innocenzo V, nel 1352. Dal punto di vista filosofico e teologico, l’Università di Parigi s'è costituita per seconda e il suo successo nel XII secolo fu tale che essa eclissò completamente Bologna di lei più antica, e parzialmente Oxford, di lei più giovane. Tra le cause che hanno contribuito alla fondazione e allo sviluppo dell’Università di Parigi se ne possono distinguere di tre ordini. Innanzitutto, l’esistenza di un ambiente scolastico già estremamente fiorente dal XII secolo. Fin dalla fine del XII secolo le scuole si erano raggruppate nelle isole della città e sulle pendici del monte Sainte Geneviève, maestri e scolari incominciavano da soli a prendere coscienza della loro unità. D’altra parte, due differenti poteri avevano interesse a proteggerli, anche per tenerli sotto controllo, i re di Francia e i papi. I re di Francia non potevano non vedere quanto lustro conferisse alla loro capitale. Perché lo studium parisiense fosse prospero, bisognava assicurare la tranquillità degli studi; bisognava, in una sola parola, organizzarlo. In questa organizzazione i re di francesi ebbero un ruolo secondario: il vero fondatore è Innocenzo III, e quelli che garantivano il suo ulteriore sviluppo sono i suoi successori, prima di tutti Gregorio IX. L’Università parigina nel XIII secolo è divisa tra due tendenze contraddittorie, una delle quali sarebbe giunta a farne un centro di studi puramente scientifici e disinteressati, mentre l’altra cercava di subordinare questi studi a dei fini religiosi e a metterli al servizio di una vera teocrazia intellettuale. Quando leggiamo i documenti dell’epoca, come il Chartularium unversitatis parisiensis, scorgiamo tracce di queste due correnti. Se si lascia da parte l’insegnamento della medicina, vi si vede un gran numero di persone dedite all’insegnamento e allo studio del diritto romano, fondamento d’una società civile autonoma e dipendente solo da sé stessa, ma il papa giunse ben presto a proibire questo insegnamento e a pretendere che il solo diritto insegnato fosse quello canonico fondamento della società religiosa stessa e di ogni società civile che s’integri ad un organismo religioso. Lo stesso accade per quanto concerne l’insegnamento della filosofia. Dopo la scoperta dei libri di Aristotele, i maestri delle arti liberali avevano acquistato un’autorità molto più considerevole di quella che esercitavano nel XII secolo. Perciò incontriamo nella Facoltà delle arti a Parigi, durante tutto il XIII secolo, un insieme di maestri delle arti che non domandano altro che la libertà d’insegnare la logica, la fisica e la morale di Aristotele senza avere preoccupazioni né di altre discipline, né di superiori interessi alla teologia. L’altra tendenza è rappresentata dalla Facoltà di teologia la cui importanza e la crescente influenza ben presto relegarono la Facoltà delle arti in secondo piano. Dal tempo di sant’Anselmo e con i maestri di san Vittore, la teologia che s’insegnava era un agostinismo che non rifiutava l’aiuto della dialettica aristotelica. La Facoltà di teologia parigina non aveva nessun desiderio di modificare questa tradizione, e fino alla fine del secolo, fino al trionfo definitivo dell’aristotelismo tomista, i maestri più celebri come san Bonaventura, Alessandro di Hales e i vescovi parigini come Stefano Tempier, saranno risolutamente agostiniani. La genialità di Alberto Magno e di san Tommaso e il segreto del loro clamoroso trionfo consisteranno proprio nel fatto che essi armonizzeranno le due tendenze divergenti e anche contraddittorie nelle quali si divideva l’Università di Parigi. Ora, per il fatto che vi s’insegnava la teologia, l’Università di Parigi cessava di appartenere a sé stessa e dipendeva da una giurisdizione più alta di quella della ragione individuale o della tradizione scolastica. La sua stessa importanza, il numero continuamente in aumento dei maestri e degli scolari che venivano da tutte le parti del mondo cristiano per istruirvisi, ne faceva la fonte dell’errore o della verità teologica per tutta la cristianità. Dal punto di vista di Innocenzo III o di Gregorio IX, l’Università di Parigi, non poteva essere che il più potente mezzo d’azione di cui la chiesa disponeva per diffondere la verità religiosa nel mondo. Innocenzo III è il primo ad aver voluto decisamente fare di questa Università una maestra di verità per l’intera chiesa. Lo studium parisiense è una forza spirituale e morale il cui significato più profondo non è né parigino né francese, ma cristiano ed ecclesiastico; è un elemento della chiesa universale esattamente allo stesso titolo e assolutamente con lo stesso significato del Sacerdozio e dell’impero. Nel 1215, il legato di Innocenzo III, Roberto di Courçon, proibiva l’insegnamento della fisica e della metafisica di Aristotele. Onofrio III favorì l’insediamento dei Domenicani e dei Francescani a Parigi. Gregorio IX si accinse a inserire di forza gli ordini mendicanti nell’Università di Parigi affinché questa stessa scienza, messa al servizio della teologia, sia veicolo della verità cristiana attraverso il mondo intero. Come egli scrive ai maestri di teologia di Parigi il 7 luglio 1228: “il nostro cuore è stato toccato da un profondo dolore sentendo riferire che alcuni di voi, gonfiati come otri dallo spirito di vanità, seguendo uno spirito di empia novità spostavano i confini fissati dai Padri, forzando nel senso della filosofia pagana il significato del testo sacro. Dovrebbero combinarli per formare i “sensibili comuni” (cioè comuni a parecchi sensi). Il senso comune, che Avicenna chiama sensus formalis, è un senso interno. Per liberare da queste immagini comuni le nozioni astratte, bisogna far intervenire la facoltà intellettiva (virtus intellectiva) che non è legata ad alcun organo particolare, ma è presente tutt’intera nel corpo intero: “est in toto corpore tota”. Nonostante l’influenza del “De spiritu et anima”, e dei tratti avicenniani, Giovanni ha voluto mettere d’accordo la dottrina greco-araba dell’intelletto agente e la dottrina agostiniana dell’illuminazione divina. Egli infatti ammette, nello stesso intelletto la distinzione aristotelica dell’intelletto possibile in potenza riguardo agli intelligibili come una tavoletta sulla quale niente è ancora scritto, e dell’intelletto agente, che nella nostra anima è come la luce intelligibile di Dio stesso che è sempre in atto. L’aristotelismo ha quindi conseguito una vittoria decisiva, poiché, come Alberto Magno e Tommaso, Giovanni attribuisce a ciascuna anima umana, presa individualmente, un intelletto agente che le è proprio e che è in essa come il segno lasciato da Dio sulla sua opera. Questo intelletto, egli dice esplicitamente, è la più alta facoltà dell’anima: l'intelletto attivo, che è il potere supremo dell'anima, e noi non abbiamo bisogno di nient’altro per conoscere gli esseri materiali posti fuori di noi. Giovanni de la Rochelle sembra nondimeno ammettere uno o più intelletti agenti separati. Si può chiamare, infatti, intelletto agente separato ogni sostanza spirituale distinta dall’anima, superiore ad essa e capace di agire su di lei per conferirle gratuitamente, e dall’esterno, conoscenze che essa non saprebbe acquisire con la luce naturale del suo intelletto agente. In questo senso gli angeli e Dio possono essere considerati come tanti intelletti agenti separati, gli angeli per istruire l’uomo su ciò che concerne gli angeli, Dio per istruirlo su verità soprannaturali, come la Trinità. Giovanni rifiuta la tesi di Gebirol sulla composizione di materia e forma nell’anima umana e negli angeli, la prova evidente della profonda influenza esercitata da Aristotele fin dalla prima metà del XIII secolo, anche tra i francescani. Ma la dottrina di Bonaventura stava per riportare ben presto numerosi spiriti, soprattutto all’interno del suo ordine, ai principi di Agostino. San Bonaventura (Giovanni di Fidenza) nacque a Bagnorea, vicino Viterbo, nel 1221. Entrato nell’ordine dei frati minori nel 1238. Andò a Parigi per seguire i corsi di Alessandro di Hales e nel 1241 vi conseguì la licenza. Dal 1248 al 1255 egli insegna all’Università di Parigi e vi occupa la cattedra riservata ai francescani dopo Alessandro. Malgrado la campagna condotta da Guglielmo di Saint-Amour per far interdire agli Ordini mendicanti l’insegnamento nell’Università parigina, il papa conferma Domenicani e Francescani nel diritto di occuparvi delle cattedre e, il 23 ottobre 1256, egli designa i fratelli Tommaso (ordine dei Predicatori) e Bonaventura (ordine dei Minori) a occuparle. San Bonaventura morì verso la fine del concilio di Lione, il 15 luglio 1274. La dottrina di Bonaventura procede verso un fine perfettamente definito, ovvero l’amore di Dio, e le vie che ci conducono a esso sono quelle della teologia. La filosofia deve aiutarci a realizzare il nostro disegno, di modo che, seguendo le tracce dei suoi predecessori, e specialmente Alessandro di Hales, Bonaventura non esiterà tuttavia ad accogliere delle nuove dottrine. Questo è lo spirito che anima la sua opera fondamentale, il Commento alle sentenze, e i suoi numerosi trattati e opuscoli, nei quali si trova sviluppata la sua dottrina. L’anima umana è fatta per cogliere il bene infinito che è Dio, per riposarsi in lui e goderne. Di questo oggetto supremo verso cui tende, l’anima possiede fin da quaggiù una conoscenza imperfetta, ma molto sicura, che è quella della fede. Il filosofo, invece, è meno sicuro di ciò che sa di quanto non lo sia il fedele di ciò che crede. E nondimeno è la stessa fede nella verità rivelata che è l’origine della speculazione filosofica. Laddove la ragione è sufficiente a determinare l’assenso, la fede non potrebbe trovar posto. Non è più dunque per ragione, ma per amore di questo oggetto che noi facciamo atto di fede; ed è allora che entra in gioco anche la speculazione filosofica. Colui che crede per amore vuole avere ragioni per la sua fede perché niente è più dolce per l’uomo di capire ciò che ama. Questo vuol dire che filosofia e teologia, distinte per i loro metodi, si continuano e si completano l’una con l’altra: sono due guide che ci conducono a Dio. La vita è un pellegrinaggio verso Dio: la strada che noi seguiamo, se siamo sulla buona via, è la via illuminativa; il fine ci è dato dalla fede, aderiamo a esso con l’amore, ma con una presa incerta. L’amore perfetto e la gioia totale che l’accompagna ci attendono alla fine del pellegrinaggio. Colui che segue la via illuminativa, ritrova in ciascuna delle sue percezioni, e in ciascuno dei suoi atti di conoscenza, Dio stesso nascosto all’interno delle cose. La dottrina di Bonaventura si pone innanzitutto come un “itinerario dell’anima verso Dio”; ecco perché la sua filosofia giunge a mostrare un universo in cui ciascun oggetto ci parla di Dio, ce lo rappresenta a suo modo e ci invita a volgerci verso di lui. Prima del peccato originale l’uomo poteva gioire tranquillamente della contemplazione di Dio, ma dopo il peccato e per esso, l’uomo è colpito dall’ignoranza nello spirito e nella cupidigia nella carne. Ci occorre ora uno sforzo costante di volontà e l’aiuto della grazia divina per risollevarci verso Dio. Per giungere alla sapienza bisogna ottenere con la preghiera la grazia riformatrice. La grazia è il fondamento di una volontà retta e di una ragione chiaroveggente. Dobbiamo quindi dapprima pregare, in seguito vivere santamente, essere attenti alla verità e contemplandole elevarsi progressivamente fino alla sommità. L’esigenza di questa purificazione non risulta da una confusione tra filosofia e mistica in cui sarebbe caduto Bonaventura. Se la nostra mente è ottenebrata dal peccato, un semplice sforzo della ragione naturale non potrà renderci intellegibili l'universo e le cose. Dobbiamo prima combattere le conseguenze del peccato e rimettere i nostri mezzi conoscitivi in una condizione più simile a quella in cui li abbiamo ricevuti. Allora soltanto la via illuminativa ci è aperta e il senso offuscato dell’universo torna ad esserci intellegibile. Dio non è vero in rapporto ad altro, poiché egli è l’essere totale e supremo; sono le altre cose, invece, che saranno vere in rapporto a lui. Se è così, sta per apparirci il significato delle cose e capiremo come il mondo possa condurci a Dio. La verità delle cose consiste nel rappresentare, cioè nell’imitare la prima e suprema verità. È questa somiglianza tra le creature e il creatore che ci permette di sollevarci dalle cose fino a Dio. Non però che questa somiglianza implichi una partecipazione delle cose all’essenza di Dio, perché non c’è niente di comune tra Dio e le cose. La somiglianza reale che esiste tra il Creatore e le creature è una somiglianza d’espressione. Le cose stanno a Dio come i segni al significato che essi esprimono; esse costituiscono quindi una specie di linguaggio, e l’universo intero non è che un libro nel quale si legge ovunque Trinità. E se si chiedesse perché Dio ha creato il mondo? Egli risponderebbe che il mondo non ha altra ragione d’essere che quella di esprimere Dio. La via illuminata risalirà quindi il corso delle cose per innalzarci a Dio di cui esse sono l’espressione. Tre tappe fondamentali segneranno i momenti di questa ascesa: 1) ritrovare le vestigia di Dio nel mondo sensibile; 2) ricercare la sua immagine nella nostra anima; 3) superare le cose create e introdurci nelle gioie mistiche della conoscenza e dell’adorazione di Dio. 1) Ritrovare Dio grazie alle vestigia ch'egli ha lasciato nelle cose significa «entrare nella via di Dio», e significa anche ritrovare lungo la strada tutte le prove della sua esistenza. Ma ciò che caratterizza l’atteggiamento di Bonaventura è che egli ci invita a cogliere Dio direttamente presente sotto il movimento, la misura, la bellezza e la disposizione delle cose; meglio ancora, egli pensa evidentemente che si possa dedurre l’esistenza di Dio partendo da qualunque cosa, di modo che, per uno spirito e un cuore purificati, ogni oggetto e ogni aspetto di ciascun oggetto tradisca la presenza segreta del suo creatore. Per questo la dialettica dell’Itinerarium tende molto più a moltiplicare i punti di vista dai quali noi cogliamo Dio. Da questo momento si vede Dio ovunque: “Lo splendore delle cose ce lo rivela, se non siamo ciechi: esse gridano Dio ai nostri orecchi e bisogna, infine, essere muti per non lodare Dio in ciascuno dei suoi effetti, e folli per non riconoscere, a tanti indizi, il primo principio.” E tuttavia questo non è che il primo grado dell’ascesa. Considerando il mondo sensibile, noi possiamo ritrovarvi l’ombra di Dio, possiamo trovarvi anche le sue vestigia, ma, nell’uno e nell’altro caso, noi volgiamo le spalle alla luce divina di cui nelle cose cerchiamo i suoi riflessi. Cercando Dio nella nostra anima, invece, noi ci volgiamo verso Dio stesso; il che fa sì che noi troviamo in essa, non più una vestigia, (2) ma l’immagine stessa di Dio; è perché egli non è soltanto la causa, ma anche l’oggetto. (3) Il nostro intelletto non giunge a cogliere pienamente i suoi oggetti che grazie all’idea di essere puro, totale e assoluto; è la presenza in noi di perfetto e assoluto che ci permettono di conoscere il particolare come imperfetto e relativo. Come Agostino aveva già dimostrato, il nostro intelletto è congiunto alla stessa verità eterna; abbiamo naturalmente in noi infusa l’immagine di Dio; come noi conosciamo direttamente la nostra anima e le sue operazioni, così conosciamo Dio senza l’aiuto dei sensi esterni. Se l’esistenza di Dio sembrasse mancare di evidenza, questo non potrebbe essere che mancanza di riflessione da parte nostra. Bonaventura, dunque, fa buona accoglienza dell’argomento ontologico di Anselmo e lo incorpora tale e quale nella sua dottrina. Il fatto è che qui noi non affermiamo più la presenza di Dio perché ne acquistiamo la conoscenza; al contrario, noi conosciamo Dio perché egli è già presente. “Deus praesentissimus est”. Se è la presenza di Dio che fonda la conoscenza che di lui abbiamo, è sottinteso che l’idea che noi abbiamo di Dio ne implica l’esistenza. È dunque la necessità di Dio stesso che, illuminando costantemente la nostra anima, rende impossibile per noi pensare che Dio non esista, né di sostenerlo senza contraddizioni. Poiché egli è l’essere puro e semplice, è una sola e medesima cosa dire che Dio è Dio, o dire che egli esiste: “si Deus est Deust, Deus est.” È sottinteso che Bonaventura non ci attribuisca tuttavia un’idea definita e un concetto chiaro dell’essenza divina. Ciò che è inseparabile dal nostro pensiero e impresso profondamente in esso è l’affermazione dell’esistenza di Dio, non assolutamente la comprensione della sua essenza. Ugo di San Vittore aveva già detto che Dio ha dosato la conoscenza che noi abbiamo di lui in maniera tale che noi non possiamo né sapere ciò che egli è, né ignorare che egli è. Questa è la formula a cui si riallaccia anche Bonaventura, d’accordo, anche in questo punto, con la tradizione. Quale concezione dell’anima umana e della conoscenza implicano simili prove dell’esistenza di Dio? L’anima è essenzialmente una, ma le sue facoltà, o potenze, si diversificano secondo la natura degli oggetti ai quali essa si applica. Essa può farlo del resto, perché essa stessa è contemporaneamente una sostanza intelligibile completa in sé; infatti, può sopravvivere alla morte dei corpi, e la forma del corpo organizzato che essa anima. In quanto anima il corpo essa fisica di Bonaventura il suo caratteristico aspetto. In primo luogo, la tesi della pluralità delle forme. Ogni essere implica altrettante forme quante sono le diverse proprietà che egli possiede. Un corpo, infatti, implica sempre almeno due forme differenti; l'una, che è generale e comune a tutti, ed è la forma della luce alla quale partecipano tutte le cose; l'altra le forme dei misti, degli elementi. Bonaventura accoglie infine nella sua dottrina la concezione stoica delle ragioni seminali. La materia, passiva per sé, riceve immediatamente una determinazione virtuale dalle forme sostanziali che sono in sé allo stato latente, aspettando che più tardi esse, sviluppandosi, la informino. Tutti i fenomeni e tutti gli esseri dell'universo si spiegano così con lo sviluppo di forme di ragioni seminali primitive la cui prima origine è Dio. Spesso, leggendo i suoi Opuscoli o anche il suo Commento alle Sentenze, si ha l'impressione di essere in presenza di un San Francesco d'Assisi che s'abbandonasse a filosofare. La fiduciosa felicità e l'intenerita emozione, con cui Bonaventura scopre sotto le cose il volto stesso di Dio, sono appena più complesse dei sentimenti del Poverello, che legge a libro aperto il bel libro d’immagini della natura. A questa emozione costante di un cuore che si sente vicino a Dio dobbiamo il rifiuto di seguire fino alle sue conseguenze estreme la filosofia di Aristotele e l’ostinata conservazione di un intimo contatto tra la creatura e il suo creatore. "È, abbiamo detto, un mistico", scrive l’Hauréau di Bonaventura e aggiunge "ma il suo misticismo non è banale come, ad esempio, quello di San Bernardo; esso è teorico". Bonaventura ha fatto appello alle risorse della filosofia propriamente detta per costituire la sua sintesi dottrinale. Non è inesatto, tuttavia, qualificare come agostinismo questa dottrina e quella che se ne sono ispirate. Senza dubbio, qui non si tratta più della pura dottrina di Sant'Agostino, e si deve inoltre ravvisare in tutte la persistenza di un nucleo agostiniano: la tesi, veramente centrale in questa dottrina, dell'illuminazione divina. I rappresentanti di questo complesso agostiniano si incontrano un po' ovunque nel XIII secolo, a Parigi, a Oxford, in Italia. Questi agostiniani appartengono a tutti gli ordini religiosi, ma per la maggior parte sono dei Padri Minori. Esattamente contemporaneo di Duns Scoto, Raimondo Lullo (1235-1315) riprende a suo modo lo stesso tema e gli conferisce una nuova vitalità. Egli riassume la sua vita nella sua Disputatio clerici et Raymundi phantastici: "Io sono stato un uomo sposato, padre di famiglia, in una buona posizione economica, passionale e mondano. A tutto questo ho rinunciato di mia spontanea volontà per poter onorare Dio, servire il bene comune ed esaltare la nostra santa fede. Ho imparato l'arabo, sono partito parecchie volte per evangelizzare i Saraceni. Arrestato, incatenato e flagellato per la fede. Adesso sono vecchio, sono povero, ma non ho cambiato idea e persevererò nella medesima, se il Signore me l’accorda, fino alla morte". La leggenda di Raimondo alchimista e un po' mago non riceve nessuna conferma dall'esame della sua vita né dallo studio delle sue opere. È vero che, dato che gliene attribuiscono almeno 200, pochi possono vantarsi di averle lette tutte. Si arriva ben presto a figurarselo come una persona dotata di grande immaginazione e anche come un illuminato, che crede di ricevere la sua dottrina da una rivelazione divina. La famosa arte di Lullo consiste essenzialmente in tavole sulle quali sono scritti i concetti fondamentali, in modo che, combinando le diverse posizioni possibili di queste tavole si possono ottenere meccanicamente tutte le relazioni di concetti corrispondenti alle verità essenziali della religione. È sottinteso che quando oggi si tenta di servirsi di queste tavole si urta nelle peggiori difficoltà e non si può non domandarsi se lo stesso Lullo sia mai stato capace di utilizzarle. Bisogna crederlo, tuttavia, se si sta alle sue dichiarazioni. Il sentimento, così vivo in Raimondo, della necessità di un'opera apologetica destinata a convincere gli infedeli, non gli è affatto personale e non costituisce un fatto nuovo. Già Raimondo Martin nel suo Pugio fidei e San Tommaso, con la sua Summa contra Gentes, avevano apertamente perseguito lo stesso fine. Ma si può dire che, in Raimondo Lullo, questa preoccupazione produce la dottrina filosofica stessa in ciò che essa ha di più originale. Occorre effettivamente un metodo, ma ne occorre uno solo, per convincere di errore mussulmani e averroisti. Nell’uno e nell’altro caso, ci si trova in presenza dello stesso problema perché si ha a che fare con dei pagani. I musulmani negano la nostra rivelazione e gli averroisti rifiutano, per ragioni di principio, di prenderla in considerazione. La filosofia e la religione si trovano dunque separate da un abisso. Ora, è evidente che si deve poter stabilire l'accordo tra le due scienze. La teologia e madre e maestra della filosofia. Per rendere manifesta questa concordanza bisogna partire da principi che sono riconosciuti e accettati da tutti, ed è per questo che Raimondo propone la lista di quelli che compaiono nella tavola generale, principi generali e comuni a tutte le scienze, noti ed evidenti per sé. Questi principi sono: bontà, grandezza, eternità o durata, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità, e gloria; differenza, concordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggiore, eguaglianza, minore. Raimondo aggiunge alla sua lista, ed è in questo il segreto della sua Ars magna, le regole che permettono di combinare correttamente questi principi. Egli ha inventato anche delle figure girevoli che permettono di combinarli più agevolmente e tutte le combinazioni che le tavole di Lullo rendono possibili corrispondono esattamente a tutte le verità e a tutti i segreti della natura che l’intelletto umano può cogliere in questa vita. Le regole che permettono di determinare le combinazioni di principi sono una serie di domande molto generali e applicabili a tutte le altre; di che cosa, perché, quanto, quale, quando, dove, e altre simili. In un dialogo vediamo Raimondo convincere senza difficoltà un Socrate eccezionalmente docile, il filosofo greco si lascia imporre come naturalmente evidenti delle proposizioni da cui risulta immediatamente la dimostrazione della Trinità. L'influenza del Dottore Illuminato si è esercitata d'altronde in altre direzioni, di cui una almeno merita di trattenere l'attenzione degli storici. È un'antica idea cristiana quella per la quale Dio si è manifestato in due libri, la Bibbia e il Libro del mondo. Monaco francescano, Lullo non aveva da cercare lontano per informarsene. Lullo ci descrive quell'illuminazione che egli ebbe un giorno nella solitudine del monte Randa: "sembra che una luce divina gli sia stata data per discernere le perfezioni divine. Per la stessa luce, egli seppe che l'essere totale delle creature non è nient'altro che una limitazione di Dio". Evidentemente quest'ultima illuminazione di Raimondo è quella di Bonaventura coincidono. E si vede bene come essa sia diventata il fondamento stesso dell'opera di Lullo: l’Ars magna è possibile solo nel caso che, essendo tutte le creature imitazioni di Dio, le loro proprietà fondamentali e le loro relazioni di queste proprietà tra loro possono aiutarci a conoscere quelle di Dio. L'influenza di Lullo è riconoscibile nell'opera di colui che chiamiamo Raimondo di Sebond, maestro delle arti, di medicina e di ideologia autore di un Liber creaturarum e di altre opere, tra cui un venerabile manoscritto iniziato nel 1434 e terminato nel 1436. Sebond morì il 29 aprile dello stesso anno. Il titolo di Theologia naturalis, sotto il quale quest'opera è oggi conosciuta, sembra sia comparso per la prima volta in un'edizione del 1484. L’importantissimo Prologo dell’opera censurato al concilio di Trento scomparve dalle edizioni posteriori. Egli intraprende ad esporre "La scienza del libro delle creature", che ogni cristiano deve possedere per poterla difendere e, all'occorrenza, per poter morire per essa. Ognuno può conoscere "realmente senza difficoltà né fatica ogni verità necessaria all'uomo". Continua affermando che la scienza che egli propone permette di conoscere infallibilmente tutta la fede cattolica e di provare che essa è vera. Aggiungiamo che questa scienza e autosufficiente. Essa non ha bisogno di nessun'altra scienza e di nessun'altra arte, che sia la grammatica, la logica, la fisica o la metafisica. Insegnando all'uomo qual è il suo bene e il suo male, ispirandogli l'amore giocoso dell'uno e l'odio dell'altro, essa gli è insieme necessaria e sufficiente. Egli si impegna a non citare mai la Scrittura, né, d'altronde, nessun dottore, e manterrà la parola nei 300 capitoli della sua opera. I due soli libri che Dio stesso ci ha dato sono, infatti, il libro della natura e quello della Sacra Scrittura. Ora, di questi due libri, il primo c'è stato dato prima dell'altro, al momento stesso della creazione. Il libro della Scrittura non è stato dato che in seguito, dopo che l'uomo divenne incapace di reggere il primo in conseguenza del peccato, e non è fatto per tutti, perché soltanto i sacerdoti sanno leggerlo, mentre il libro della natura è comune a tutti. Impossibile falsificare quest'ultimo, mentre il libro della Scrittura può essere falsificato o falsamente interpretato. Opere dello stesso Autore, questi due libri non possono mai contraddirsi, e quindi una sola e medesima scienza che s’impara nell'uno e nell'altro, ma Sebond ritiene nondimeno che quella che egli propone ai laici come ai sacerdoti offre dei grandi vantaggi. "Questa scienza argomentata con argomenti infallibili, cioè con l'esperienza, essa prova tutto con l'uomo stesso. Ed è perciò che questa scienza non richiede altri testimoni che l'uomo stesso". Da Roberto Grossatesta a Giovanni di Peckham Grossatesta tradusse l’Etica Nicomachea e scrisse commenti sugli Analitici secondi, sulla Fisica e su Dionigi l’Areopagita, oltre che un Hexaemeron. Attribuisce alla luce un ruolo centrale nella produzione e costituzione dell’universo. All’inizio Dio crea dal nulla e simultaneamente la materia prima e la forma di questa materia. Questa forma è la luce, che è corporea, di una sostanza corporea molto sottile, che si avvicina all’incorporea, e le cui proprietà caratteristiche sono di generare perpetuamente sé stessa e di diffondersi specialmente attorno a un punto in modo istantaneo. Questa diffusione della luce può essere ostacolata per due ragioni: o incontra un ostacolo opaco che la ferma, oppure finisce col raggiungere il limite estremo della sua possibile rarefazione e la sua propagazione finisce. Questa sostanza formale è anche il principio attivo di tutte le cose; essa è la prima forma corporea, la corporeità. Così, quindi, si formula la formazione del mondo, se si dà una materia che si estende secondo le tre dimensioni dello spazio. Originariamente, forma e materia luminosa, poiché si riducono entrambe a un punto, sono ugualmente inestese; ma sappiamo che darsi un punto di luce significa darsene una sfera; appena dunque esiste la luce, essa si diffonde istantaneamente, e, nella sua diffusione, trascina ed estende con sé la materia da cui è inseparabile. La luce è l’essenza stessa della corporeità, anzi la corporeità stessa. Prima forma creata da Dio nella materia prima, si moltiplica infinitamente e si espande ugualmente in tutte le direzioni, dilatando fin dall’inizio dei tempi la materia alla quale essa è unita e costituendo la massa dell’universo che contempliamo. Il risultato di questa infinita moltiplicazione della luce e della sua materia doveva essere un universo finito. Il prodotto dell’infinita moltiplicazione di qualcosa supera infinitamente ciò che viene moltiplicato. Ora, se si sum qui sum” (io sono colui che sono). Questa parola è sufficiente per imporre all’ignorante la fede nell’esistenza di Dio ma essa non dispensa il metafisico. Ci sono dunque due teologie distinte che possono accordarsi e completarsi: la teologia rivelata che parte dal dogma, e la teologia naturale elaborata dalla ragione. È quest’ultima che San Tommaso ha elaborato più profondamente. Quando si tratta di fisica o di fisiologia Tommaso non fa che riprendere Aristotele, ma quando si tratta di Dio Tommaso è sé stesso. Egli sa per fede verso quale fine si dirige, ma tuttavia progredisce soltanto grazie alle risorse della ragione. Le prime cose che noi conosciamo non sono altro che le cose sensibili, ma la prima cosa che Dio ci rivela è la sua esistenza. Bisogna supporre lungo strada che ci siano dei problemi risolti, ma il fatto è che essi lo sono effettivamente, e la ragione non perderà nulla per aver aspettato. Aggiungiamo che, anche dal punto di vista strettamente filosofico, questa soluzione presenta dei vantaggi. Supponendo risolto il problema totale, facendo come se ciò che è più sconosciuto per sé lo fosse anche alle nostre menti finite, noi diamo della filosofia un’esposizione sintetica il cui profondo accordo con la realtà non potrebbe essere messo in dubbio. Allo stesso modo è l’universo quale è, con Dio come principio e come fine, che la teologia naturale così intesa ci invita a contemplare. Allora, grazie a questo rovesciamento del problema, noi abbozzeremo il sistema del mondo che avremmo rigorosamente il diritto di stabilire se i principi della nostra conoscenza fossero al tempo stesso i principi delle cose. Secondo l’ordine che abbiamo deciso di seguire, ci conviene partire da Dio. La dimostrazione della sua esistenza è necessaria e possibile per Tommaso. Essa è necessaria perché l’esistenza di Dio non è una cosa evidente. Dio è un essere infinito e la nostra mente finita non può vedere la necessità di esistere che la sua stessa infinità implica; si deve quindi dedurre attraverso il ragionamento questa esistenza che non possiamo constatare. Cerchiamo quindi, con Aristotele, nelle cose sensibili la cui natura è conforme alla nostra, un punto d’appoggio per elevarsi a Dio. Tutte le prove tomiste mettono in gioco due elementi distinti: la constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione, l’affermazione di una serie causale di cui questa realtà è la base e Dio il vertice. 1) Mutamento, nell’universo è evidente l’esistenza del movimento, cioè del divenire. Non può però esistere alcun movimento senza cause che lo producano. Sarebbe illogico se si volesse procedere all’infinito nella successione tra effetti e cause. Dunque, occorre una Causa Prima che causa senza essere a sua volta causata. 2) Rapporto causa/effetto, San Tommaso dice che ogni cosa dipende da un’altra, nel senso che è effetto di una causa. Tale causa è a sua volta effetto di un’altra causa ancora. Ovviamente, anche in questo caso, non si può procedere all’infinito, ma bisogna riconoscere una causa prima incausata. Questa causa incausata è Dio. 3) Contingente/necessario, San Tommaso dice che tutto ciò che esiste in questo mondo è contingente, cioè esiste ma sarebbe potuto anche non esistere. Ciò perché tutto ciò che esiste ha avuto bisogno di una causa per esistere. La contingenza delle cose implica un essere necessario che è all’inizio di tutto e questo essere necessario è Dio. L’essere necessario potrebbe non esistere, se non vi fossero gli esseri contingenti. Ma dal momento che gli esseri contingenti esistono, l’essere necessario deve necessariamente esistere. 4) Gradi di perfezione, San Tommaso dice che osservando la natura ci si accorge che i vari enti posseggono una maggiore o minore perfezione. Da dove deriva questa perfezione? É necessario che esista un Essere assolutamente perfetto che “partecipa” ai vari enti la sua perfezione in diverso grado e che può essere considerato come termine di confronto. 5) Ordinamento finalistico, San Tommaso dice che nella natura non si può negare il finalismo. Ovvero che esiste un ordine delle cose, per cui queste sono fatte per raggiungere un ben preciso fine. Ordine significa indirizzare una cosa al suo giusto fine. Dunque, l’ordine esige un’intelligenza. Le cose, però, non esprimono un’intelligenza intrinseca. Dunque, questa deve essere al di fuori della natura. Si tratta dell’Intelligenza ordinatrice di Dio. Il metafisico qui raggiunge con la sola ragione la verità filosofica nascosta sotto il nome che Dio stesso si è dato per farsi conoscere dall'uomo. Dio è l’Atto puro di esistere, cioè non un’essenza qualunque, come l’Uno o il Bene, o il pensiero a cui inoltre si attribuirebbe l’esistenza; ma l’esistere stesso (ipsum esse) posto in sé, senza nessuna aggiunta. Se Dio è il puro esistere, Dio è la pienezza assoluta dell’essere, quindi è infinito. In quanto infinito, nulla può mancargli che egli debba acquisire, nessun cambiamento in lui è concepibile; dunque, egli è immutabile ed eterno. Di qui le molteplici deficienze del linguaggio in cui noi l’esprimiamo. Questo Dio di cui affermiamo l’esistenza non ci lascia penetrare ciò che egli è. Una prima maniera di procedere consiste nel negare dell’essenza divina tutto ciò che non può appartenerle. Scartando successivamente dall'idea di Dio il movimento, il cambiamento, la passività, la composizione, finiamo col porlo come un essere immobile, immutabile, perfettamente in atto e assolutamente semplice. Ma ne può seguire una seconda: Dio secondo le analogie che sussistono tra lui e le cose. In questo senso, noi attribuiremo a Dio, ma portandole all’infinito, tutte le perfezioni di cui avremo trovato qualche ombra nella creatura. Così diremo che Dio è perfetto, unico, intelligente ecc. Ognuno di questi attributi, comunque, si riduce a essere un aspetto della perfezione infinita e perfettamente unica dell’Atto puro di esistere che è Dio. Dimostrando l’esistenza di Dio col principio di causalità, noi stabiliamo al tempo stesso che Dio è il creatore del mondo. Per definire questa idea, conviene prestare attenzione a tre cose: 1) Il problema della creazione si pone per la totalità di ciò che esiste; 2) La creazione non può essere che il dono stesso dell’esistenza: non c’è nulla, né tempo, né movimento, ed ecco apparire la creatura, movimento e tempo. Dire che la creazione è l’emanazione totius esse (l’intero essere), significa dire che essa è ex nihilo (nulla); 3) Se la creazione non presuppone, per definizione, nessuna materia, essa presuppone, un’essenza creatrice che, poiché è essa stessa l’Atto puro di esistere, può causare degli atti finiti di esistere. Poste queste condizioni, si capisce che sia possibile una creazione, e si vede che essa deve essere libera. L’Atto puro di esistere non manca di nulla se il mondo non esiste, e di nulla aumenta se il mondo esiste. Il rapporto tra la creatura e il creatore, quale risulta dalla creazione, si chiama partecipazione. Partecipazione esprime contemporaneamente il legame che unisce la creatura al creatore, il che rende intelligibile la creazione e la separazione che impedisce loro di confondersi. Partecipare all’Atto puro significa possedere una perfezione che preesisteva in Dio, che vi si trova del resto ancora, e che questa riproduce secondo il suo modo limitato e finito. Partecipare non significa essere una parte di ciò di cui si partecipa, significa possedere il proprio essere e riceverlo da un altro essere. Così la creatura viene a porsi infinitamente al di sotto del creatore, così lontano che non c’è relazione reale tra Dio e le cose, ma soltanto tra le cose e Dio. Quest’ultimo conosce quindi tutti i suoi effetti prima di produrli, e se egli li produce perché li conosce, è dunque perché li ha voluti. Alcuni filosofi arabi, come Avicenna, sono convinti che da un’unica causa non possa uscire che un unico effetto, deducono che Dio deve creare una prima creatura che a sua volta ne crea un’altra, e così via. Ma Agostino già da un pezzo ci aveva dato la soluzione al problema. Poiché Dio è intelligenza pura, deve possedere in sé tutti gli intelligibili. Queste forme delle cose, che noi chiamiamo idee, preesistono in Dio stesso. L’idea di creatura è quindi la conoscenza che Dio ha di una certa partecipazione possibile della sua perfezione da parte di questa creatura. Ed è così che, senza compromettere l’unità divina, una molteplicità di cose può essere generata da Dio. Resterebbe da sapere in quale momento l'universo sia stato creato. I filosofi arabi, e specialmente Averroè, pretendono d’interpretare il pensiero autentico di Aristotele insegnando che il mondo è eterno. Dio sarebbe sì la causa prima di tutte le cose, ma esistente dall’eternità, avrebbe anche prodotto il suo effetto dall’eternità. Altri, invece, come Bonaventura, pretendono di dimostrare razionalmente che il mondo non è sempre esistito. D’accordo su questo punto con Alberto Magno, Tommaso ritiene che né l’una né l’altra ipotesi siano suscettibili di dimostrazione. Dimostrazione significa infatti partire dall’essenza di una cosa per mostrare che una proprietà appartiene a quella cosa. Se noi partiamo dall’essenza delle cose contenute nell’universo creato, vedremo che, poiché essa è per sé stessa distinta dalla sua esistenza, ogni essenza presa in sé stessa è indifferente ad ogni considerazione di tempo. Le definizioni dell’essenza del cielo, dell’uomo, della pietra, sono atemporali; esse non ci ragguagliano in nessun modo sul problema di sapere se il cielo, l’uomo e la pietra esistono o non esistono, siano o non siano sempre stati. Non troveremo quindi nessun aiuto nella considerazione del mondo e non ne troveremo di più nella considerazione della causa prima che è Dio. Il solo fondamento che ci rimane per fondarvi la nostra opinione è che Dio ci ha manifestato la sua volontà con la rivelazione sulla quale si fonda la fede. Poiché la ragione non potrebbe decidere in merito, e Dio ce lo insegna, noi dobbiamo credere che il mondo ha avuto inizio, ma non possiamo dimostrarlo e, a considerare rigorosamente la cosa, noi non lo sappiamo. Se l’universo deve la sua esistenza ad una causa intelligente e perfetta, allora ne consegue che l’imperfezione dell’universo non è imputabile al suo autore. Il male propriamente parlando non è nulla, esso è molto più una mancanza di essere, che un essere; il male deriva dall’inevitabile limitazione che ogni creatura comporta, e dire che Dio ha creato non soltanto il mondo, ma il male che vi si trova, significherebbe dire che Dio ha creato il nulla. Tutte le creature si dispongono secondo un ordine gerarchico di perfezione, andando dalle più perfette che sono gli angeli, alle meno perfette che sono i corpi; e nessuna creatura riceve la pienezza totale divina perché le perfezioni passano da Dio alle creature effettuando una discesa. Al vertice della creazione si trovano gli angeli. Sono delle creature incorporee e anche immateriali. Per porre il primo grado della creazione quanto più possibile vicino a Dio, Tommaso vuole concedere agli angeli la più alta perfezione che sia compatibile con lo stato di creatura; ora la semplicità accompagna la perfezione, dunque gli angeli sono semplici fino al massimo grado raggiungibile da una creatura. Gli angeli hanno ricevuto l’esistenza da Dio, essi sono quindi sottoposti, come tutte le creature, alla legge che impone agli esseri partecipati la distinzione reale tra la loro essenza e la loro esistenza. Ciascuno di loro riceve dall’angelo immediatamente superiore la specie intelligibile. In questa gerarchia discendente della creatura, la comparsa dell’uomo, e di conseguenza della materia, segna un gradino caratteristico. Con la sua anima, l’uomo appartiene ancora alla serie degli esseri immateriali, ma la sua anima non è logica, importanti Quaestiones in Mataphysicam, delle Quaestiones quodlibetales e un trattato De primo principio. Anche a non tenere conto di altre opere importanti, si resta stupiti dinanzi all'immensità dello sforzo compiuto da un maestro morto all'età di 42 anni (1308). L'ispirazione generale della sua filosofia possiamo collocarla, senza rischio di grave errore, nell'insieme delle filosofie medievali. All'interno della dottrina di Duns Scoto stesso, essa si pone in rapporto con la teologia. L'oggetto proprio della teologia è Dio in quanto Dio quello della filosofia, o piuttosto della metafisica che la corona, e l'essere in quanto essere. Da questa distinzione segue che la metafisica non può raggiungere Dio in sé stesso ma solo in quanto Dio è essere. Ora, accade che l'uomo debba trarre la sua conoscenza dal sensibile. L'intelletto umano, quindi, non conosce veramente dell'essere ciò che egli può astrarre dai dati dei sensi. Noi non abbiamo alcun contatto diretto di ciò che possono essere delle sostanze puramente immateriali e intelligibili, gli angeli e Dio. Non possiamo nemmeno concepire cosa significa la parola "essere" quando l’applichiamo a esse. Stando così le cose, che cosa si deve fare perché la metafisica sia possibile? Per salvare l'unità del suo oggetto, e di conseguenza la propria esistenza, la metafisica deve considerare la nozione di essere solo nel suo ultimo grado di astrazione, quello in cui essa si applica in un solo ed unico senso a tutto ciò che è, il che si esprime dicendo che l'essere è "univoco" per il metafisico. Alcuni giudicano necessario partire dall'esistenza delle cose sensibili per inferire le loro cause, ma si parte dai corpi fisici, si arriverà a provare l'esistenza della loro causa prima ma con questo non si uscirà dalla fisica, il Dio che si raggiungerà in questo modo non trascenderà l'ordine fisico. Per raggiungere un principio primo che sia causa del mondo nel suo stesso essere, non bisogna fondarsi sull’essere sensibile ma semplicemente sull’essere. La nozione univoca di essere in quanto essere è una nozione astratta, è la prima di tutte poiché l'essere e ciò che cade per primo sotto la presa dell’intelletto, quindi è un universale, ma non è in quanto tale che il metafisico lo considera. L'essere di cui il metafisico persegue lo studio non è una realtà fisica particolare, né un universale preso nella sua generalità logica; è la realtà intellegibile che coincide con la natura stessa dell'essere in quanto essere. L'essere del metafisico è una realtà, ha delle proprietà, le prime delle quali sono i suoi modi. I modi di una natura o essenza, sono le sue determinazioni intrinseche possibili. Ci sono dei modi dell'essere, delle “maniere di essere” che non sono che l'essere stesso, diversamente modificato, certo, ma sempre in quanto essere. I due primi modi dell’essere sono il finito e l'infinito. Dimostrare l'esistenza di Dio significa, per il metafisico, provare che "l’essere infinito" è. Limitata dalla natura stessa del suo oggetto, che è l'essere, la metafisica non potrebbe pretendere di andare lontano, ma fino a questo punto può giungere. Per giungervi, il metafisico procederà in due tempi: dapprima proverà che esiste un primo nell'ordine nell'essere, poi che questo primo è infinito. Osserviamo di sfuggita che questo modo di proporre il problema è sufficiente ad attestare l'influenza di Avicenna, per il quale il modo abituale di designare Dio è di chiamarlo Primus. Dimostrazioni di questo genere non si possono fare a priori, queste dimostrazioni saranno dunque a posteriori, cioè risaliranno dagli effetti alle loro cause; ma gli effetti da cui si partirà non saranno gli esseri contingenti dati nell'esperienza sensibile. Quest’ultimi non ci permetterebbero nemmeno di uscire dal contingente. La solida base sulla quale quindi si verificheranno le prove sarà ogni modalità dell'essere in quanto essere, che soltanto un primo posto sulla stessa linea può spiegare. In effetti, si assiste, in questa metafisica, ad una trasposizione di prove a posteriori dell’esistenza di Dio che le fa passare dal piano delle esistenze attuali al piano delle modalità e delle proprietà dell'essere in quanto essere, in cui sempre resta Duns Scoto quando parla da metafisico. La prima prova si fonda su queste proprietà complementari dell'essere, la “causalità” e la "producibilità" o capacità di produrre e di essere prodotto. Partiamo dal fatto che qualche essere è producibile: come può essere prodotto? Può esserlo solo dal nulla, da sé o da un altro. Non può esserlo dal nulla, perché ciò che è niente non causa niente. Non può essere prodotto da sé, perché niente è causa di sé stesso. Esso deve quindi essere prodotto da un altro. Supponiamo quindi che lo sia da A; se A è assolutamente primo, abbiamo la nostra conclusione. Se A non è primo, è una causa seconda, quindi causata da un’altra. Supponiamo che questa causa anteriore sia B: si ragionerà per essa come per A. Dunque, o si continuerà così all'infinito, il che è assurdo, perché allora niente sarebbe producibile in mancanza di una prima causa, oppure ci si fermerà ad una causa assolutamente prima, come si doveva dimostrare. La stessa argomentazione permette di stabilire che è necessario porre un fine ultimo, che non abbia esso stesso fine, ma sia fine di tutto il resto, e che bisogna inoltre porre un termine ultimo nell'ordine della perfezione e dell’eminenza dell'essere. Così si ottengono tre «primi» o piuttosto tre «primalità», perché ciò che è primo come causa coincida necessariamente con ciò che ultimo come fine e perfetto in sommo grado. Rimane allora da mostrare che questo "primo" in tutti gli ordini è, o esiste. Bisogna provarlo partendo dalle proprietà dell'essere, poiché noi procediamo da metafisici. Il solo modo di arrivarvi è di stabilire che l'esistenza di questo primo è, non un fatto, il che sarebbe provarlo empiricamente e in modo convincente, ma che essa è una necessità. Si può provare perché questo primo, che noi necessariamente poniamo in tutti gli ordini, è almeno possibile; ma, per definizione la causa prima è essa stessa incausabile: abbiamo quindi una causa incausabile. Restano aperte due ipotesi: o esiste o non esiste. Supponiamo allora che questa causa incausabile non esista. Per quale ragione non esisterebbe? Forse in virtù di una causa della sua non esistenza? Ma la prima causa non ha cause. Ma se non si può concepire nessuna causa che possa far sì che essa non esista, con ciò stesso si concepisce che è impossibile che essa non esista. L'essere, la cui non esistenza è impossibile, esiste necessariamente. Il nerbo dell'argomento è quindi l'esigenza interna di essere, che la nozione di «primalità» nasconde nell’ordine della causalità. La possibilità di ciò da cui l’essere è causabile non comporta necessariamente la sua esistenza attuale, ma ciò che esclude ogni causa estrinseca o intrinseca riguardo al suo essere non può non esistere. In breve, se l’essere primo è possibile, esiste; resta da stabilire che questo Primo, che esiste è infinito. Le stesse vie conducono a questa nuova conclusione. Una causa prima e di conseguenza incausata, non è limitata da nulla nella sua casualità: essa è quindi infinita. Questo essere necessario è intelligente ma è anche il Primo Intelligente. Quindi l’Intelligente sommo conosce tutto ciò che può essere conosciuto; c'è dunque un'infinità d’intellegibili nell’intelligenza prima, e di conseguenza l'intelletto che li abbraccia tutti insieme è attualmente infinito. Infine, l’infinità di Dio ci è provata dall’inclinazione naturale della nostra volontà verso un bene supremo e della nostra intelligenza verso una suprema verità. Non soltanto, infatti, l’idea di essere infinito non ci sembra contraddittoria, ma ci sembra essere il tipo stesso dell’intellegibile. Ora, sarebbe straordinario che nessuno percepisse la minima contraddizione in questo oggetto primo del pensiero, mentre il nostro orecchio scopre immediatamente la minima dissonanza. Questo infinito, che possiamo dimostrare, evidentemente non potremo comprenderlo, e tutto ciò che ne diciamo porta il segno troppo sensibile della nostra debolezza. Come san Tommaso, Duns Scoto ritiene relativa e caduca la nostra conoscenza degli attributi divini, ma egli tuttavia la considera come meglio fondata, in realtà, più di quanto generalmente si supponga. Con tutti i teologi del Medioevo egli ammette l’unità di Dio e di conseguenza che tutti gli attributi divini si congiungano infine nell'unità dell’essenza divina; ma egli aggiunge che in Dio c'è almeno un fondamento virtuale della distinzione che noi stabiliamo tra i suoi diversi attributi, cioè la perfezione formale corrispondente ai nomi coi quali noi li designiamo. Avendo così posto come Dio l’essere necessario accessibile alla speculazione metafisica, Duns Scoto si trova portato allo stesso punto di Avicenna; per lui il possibile emanava dal necessario per necessità, per Duns Scoto, la cui dottrina diventa un anti- avicennismo radicale, dove il possibile viene dal necessario per un atto di libertà. La ragione è semplice: in una dottrina che si fonda sull'essere univoco, bisogna far intervenire un atto separatore per garantire la contingenza del possibile; è questo il ruolo che ha la volontà nella dottrina di Duns Scoto. Egli non crede che Dio possa volere il contraddittorio; egli non può, secondo lui, che volere ciò che è possibile logicamente. La libertà divina non è quindi l’arbitrio del monarca che decreta le leggi nel suo regno, ma Duns Scoto insiste nondimeno in maniera caratteristica sul ruolo decisivo che ha la volontà di Dio anche riguardo alle conoscenze del suo intelletto. Come tutti i filosofi cristiani, Duns Scoto ammette che Dio conosce tutte le cose con le sue Idee eterne. In un testo, in cui il nostro autore si sforza di descrivere un'ipotetica generazione delle essenze in Dio, vediamo che in un primo momento Dio conosce la propria essenza in sé stessa; in un secondo momento Dio produce la pietra conferendole un essere intellegibile, e conosce la pietra; in un terzo momento Dio si paragona a questo intellegibile e con ciò si stabilisce una relazione tra loro. Qui vediamo quindi affermata proprio una fonte di verità delle essenze in rapporto all'essenza infinita di Dio. Di tutti questi possibili così generati non ce n'è uno rispetto al quale la libertà divina sia particolarmente legata. Dio crea se lo vuole, e crea solo perché lo vuole; la sua volontà è l'unica causa, non c'è dunque da riferire oltre. La volontà di Dio è quindi padrona assoluta della scelta e delle combinazioni delle essenze; essa non è sottomessa alla regola del bene; è la regola del bene, invece, ad essere sottomessa. Se Dio vuole una cosa, questa cosa sarà buona; e se egli avesse voluto delle leggi morali diverse da quelle che ha stabilito, queste altre leggi sarebbero state giuste, perché la rettitudine è interna alla sua stessa volontà, e nessuna legge è giusta se non in quanto essa è accettata dalla volontà di Dio. Una volta prodotte le essenze, Duns Scoto riconosce alle forme una realtà più stabile di quanto non avesse fatto San Tommaso. Il suo realismo delle forme si esprime in primo luogo nella sua famosa teoria della "distinzione formale". C'è distinzione formale scotista ogni volta che l'intelletto può concepire, in seno ad un essere reale, uno dei suoi costituenti formali separato dagli altri. Le formalites così concepite sono quindi contemporaneamente distinte nel pensiero e realmente une nell’unità stessa del soggetto. Questa dottrina d'altronde concorda con il modo in cui, nello scotismo, si spiega la formazione dei concetti. L’universale, quale noi lo concepiamo, risulta certamente dall’astrazione compiuta dal nostro intelletto sulle cose; ma, osserva Duns Scoto, se l’universale fosse un prodotto della mente, senza nessun fondamento nelle cose stesse, non ci sarebbe più nessuna differenza tra la metafisica, che verte sull’essere, e la logica che verte sui concetti. Per evitare questa
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