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Riassunto La fondazione della metafisica dei costumi-IMMANUEL Kant, Sintesi del corso di Filosofia Politica

riassunto o sintesi La fondazione della metafisica dei costumi-I. Kant

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto La fondazione della metafisica dei costumi-IMMANUEL Kant e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! PREFAZIONE - La fondazione della metafisica dei costumi. L’antica filosofia greca si divideva in 3 parti: fisica, etica e logica. La filosofia formale (che si occupa solo della forma dell’intelletto e della ragione, quindi delle regole generali del pensare) è la logica. La filosofia materiale (che si occupa di oggetti) si divide in 2: le leggi della natura (fisica) e le leggi della libertà (etica). La fisica e l’etica sono filosofie empiriche (hanno una parte empirica e una razionale): la fisica definisce le leggi della natura (le leggi secondo cui tutto avviene) come oggetto d’esperienza, mentre l’etica le leggi del volere umano (le leggi secondo cui tutto deve avvenire, considerando perchè spesso avviene il contrario) in quanto influenzato dalle condizioni empiriche. Nel caso dell’etica la parte empirica si chiama antropologia pratica, mentre la parte razionale è la morale. La logica è invece una filosofia pura, che si basa solo su principi a priori. La filosofia pure che si concentra su determinati oggetti dell'intelletto è la metafisica e si articola in due parti: metafisica della natura e metafisica dei costumi. Tutte le industrie hanno tratto vantaggio dalla divisione del lavoro, che permette di specializzarsi in una sola mansione. Diventa lecito domandarsi se anche la filosofia non esiga in tutte le sue parti uno specialista, e cioè se la parte empirica non debba essere distinta da quella razionale. In particolare per quanto riguarda la filosofia morale, che deve essere liberata dal carattere empirico dell’antropologia. Infatti ogni legge morale non è obbligatoria perché si fonda sulla natura dell’uomo o sulle circostanze in cui questo si trova, ma si basa su principi a priori. Ogni altra regola che si fonda sui principi dell’esperienza, o che anche solo poggia in minima parte su basi empiriche, anche se ha un carattere universale è comunque una regola pratica. Da questo deriva il fatto che tutta la filosofia morale, pur applicandosi all'uomo non trae nulla dalla conoscenza dell’uomo (e quindi dall’antropologia): le leggi morali sono leggi razionali a priori. Queste leggi richiedono comunque un giudizio arricchito dall’esperienza questo perché l’uomo è capace di una ragion pure ma non riesce facilmente a renderla efficace in concreto nel proprio comportamento. La metafisica dei costumi è indispensabile sia per lo scopo teoretico di indagare la fonte a priori dei principi pratici che si trovano nella nostra ragione, sia perché i costumi sono soggetti a corruzione se non c’è un filo conduttore e un retto giudizio. Questo giudizio non solo deve essere conforme alla legge morale, ma deve avvenire per la legge morale: il motivo non morale infatti produce per lo più comportamenti difformi. Wolff voleva una filosofia pratica generale che si distingue da quella morale perché non prende in considerazione un volere puro ma un volere generale. La filosofia pratica generale quindi si distingue dalla metafisica dei costumi che indaga l’idea e i principi di una possibile volontà pura e non le operazioni e le condizioni del volere umano in genere. Anche se nella filosofia generale pratica si parla anche di leggi morali e doveri bisogna considerare che gli autori non distinguono i moventi a priori (morali) da quelli empirici. La metafisica dei costumi si fonda sulla critica della ragion pura pratica, così come la metafisica si fonda sulla critica della ragion pura speculativa. Si vuole arrivare a mostrare un’unità tra la ragion pura pratica e quella speculativa, infatti alla fine ci sarà un’unica ragione che viene distinta solo per la sua applicazione. Però questa conclusione sarà successiva, per questo Kant sceglie il titolo “fondazione della metafisica dei costumi” e non “critica della ragion pure pratica”. Questa fondazione non è altro che la ricerca del principio supremo della moralità. L’opera si divide in 3 sezioni: 1) passaggio dalla conoscenza razionale comune della moralità alla conoscenza filosofica 2) passaggio dalla filosofia morale popolare alla metafisica dei costumi 3) passaggio dalla metafisica dei costumi alla critica della ragion pura. SEZIONE PRIMA - Passaggio dalla conoscenza razionale comune della moralità alla conoscenza filosofica. E’ impossibile pensare una cosa buona senza limitazioni, salvo la “​volontà buona​”. I “talenti spirituali” (intelligenza, spirito, giudizio) e le proprietà del “temperamento” (coraggio, decisione, costanza nei propositi) sono desiderabili, ma possono divenire anche dannosi quando la volontà che deve farne uso (carattere) non sia buona. Lo stesso vale per i “doni di fortuna” (potenza, ricchezza, onore, buona salute, felicità), questi danno forza d’animo, ma spesso anche prepotenza d’animo se la volontà non è buona. Alcune qualità favoriscono la volontà buona, ma non hanno un ​valore intrinseco incondizionato: esse presuppongono sempre ancora una volontà buona. La volontà buona è buona non per ciò che produce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale e va considerata come più alta di tutto ciò che mediante il volere si può ottenere. Quand’anche alla volontà mancassero i mezzi per raggiungere le sue intenzioni, questa risplenderebbe comunque come qualcosa che ha il suo pieno valore in sé. In questa idea del valore assoluto e della volontà pura e semplice, in cui non entra in gioco nessuna valutazione di utilità, vi è il sospetto che la natura, nel dare alla nostra volontà la ragione come guida abbia preso un abbaglio. La finalità della ragion pratica (la ragione), cioè volta al raggiungimento dei nostri scopi, non può essere la felicità​. Prima di tutto per una ragione di efficienza: l’istinto è guida più efficace quando si tratta di selezionare ciò che piace e ciò che non piace. Di fatto, ​l’istinto è ciò che ​guida la ragione​, alternativamente, la ragione da sola non è in grado di guidarci verso la massimizzazione della soddisfazione. ​La ragione​, infatti, ​non è in grado di garantirci la felicità perché nessun essere razionale finito​ può averne conoscenza sicura. Nella prima sezione viene definito l’unico possibile soggetto del bene: la volontà buona​. Si tratta di determinare le condizioni secondo le quali una volontà buona possa essere effettivamente definita buona, e, per comprendere realmente il concetto comune di volontà buona, la si deve pensare entro il concetto del dovere​. Kant espone tre proposizioni. A. La prima​: In questa proposizione Kant indica come non si debba confondere l’autentica moralità con quei comportamenti in cui si fa il bene perché farlo è di nostro gradimento. Il dovere deve diventare l’esclusiva motivazione dell’azione. Ma per sviluppare il concetto di una volontà in se stessa sommamente degna di stima e buona senz’altra considerazione vogliamo prendere in esame il concetto del dovere, che contiene quello di una volontà buona. Egli tralascia le azioni contrarie al dovere ed anche quelle che sono effettivamente conformi al dovere, ma verso le quali gli uomini non hanno alcuna inclinazione. Quindi si distingue in azioni che hanno avuto luogo per dovere o per scopi egoistici. Per esempio, è senz’altro conforme al dovere che il bottegaio non raggiri il cliente inesperto, infatti mantiene un prezzo fisso generale per tutti. Ma non si può ammettere che egli avesse un’immediata inclinazione verso i clienti. Dunque l’azione non ha avuto luogo né per dovere né per inclinazione immediata, bensì solo per scopi egoistici. Es. essere benefici, quando si può, è dovere, ed alcune persone provano soddisfazione nel diffondere gioia, godono dell’altrui contentezza. Essa però, seppur conforme al dovere, non ha alcun valore morale, perché l’azione si compie non per dovere, ma per inclinazione. Assicurarsi la propria felicità è un dovere, infatti la mancanza di soddisfazione per il proprio stato e l’oppressione dai bisogni inappagati, potrebbe diventare facilmente una grande tentazione alla trasgressione dei doveri. Bisogna promuovere la propria felicità non per inclinazione ma per dovere, e qui la condotta dell’uomo avrà autentico valore morale. Fare il bene per dovere è amore pratico e non patologico, che risiede nella volontà e non nella tendenza della sensibilità. B. La seconda​: la seconda proposizione afferma che se l’azione deve essere compiuta per dovere e solo per esso, la realtà dell’oggetto dell’azione non potrebbe mai essere ciò in base a cui si definisce il suo valore morale; ma tale realtà è in generale il proposito in base al quale si compie un’azione: un’azione compiuta per dovere possiede il suo valore morale non nello scopo che deve attuarsi per suo mezzo, ma nella massima in base alla quale viene decisa. Tale proposizione afferma che un’azione compiuta per dovere possiede il suo valore morale non nello scopo ma nella massima in base alla quale viene decisa. Il valore dipende dal principio del volere. Dove può dunque stare questo valore? Nel principio della volontà. 4) ogni volta che si aggiunge alle leggi morali qualcosa di empirico diminuisce la loro influenza e il valore incondizionato delle azioni 5) attingere a concetti e leggi morali dalla sola ragione è fondamentale non solo in funzione teoretica (per lo studio) ma anche in pratica. Dal punto 5 deriva che è necessario presentare tutta la morale come indipendente dall’antropologia - anche se poi per applicare la morale agli uomini sarà necessaria l’antropologia - e quindi come filosofia pura, cioè come metafisica. Solo così è possibile instillare negli animi intenzioni moralmente pure indirizzate al bene del mondo. GLI IMPERATIVI Per passare dalla filosofia popolare (che si limita agli esempi) alla metafisica, bisogna esporre con chiarezza la ​facoltà razionale pratica​ da cui scaturisce il concetto di dovere. Ogni cosa di natura agisce secondo delle leggi, ma solo un essere razionale può agire secondo la rappresentazione delle leggi cioè con una volontà. Dato che per desumere azioni dalle leggi è necessaria la ragione, ​la volontà non è altro che la ragion pratica​. Quando la ragione determina totalmente la volontà, allora la volontà potrà scegliere solo ciò che la ragione riconosce come necessario e quindi come buono. Ma se la ragione non determina la volontà nella sua interezza (come effettivamente succede negli uomini) allora questa non sarà sempre diretta al bene. Proprio da questo nasce il ​rapporto di “coazione” tra le leggi obiettive (morali) e la volontà: la volontà non obbedisce spontaneamente a quelle leggi perché non è totalmente determinata dalla ragione. La rappresentazione dei principi oggettivi sono i comandi della ragione e questi si esprimono tramite l’​imperativo​. Tutti gli imperativi sono espressi dal ​verbo “dovere” che rivela il rapporto di coazione i principi oggettivi e la volontà umana. Questi comandi dicono alla volontà che fare o non fare una cosa sarebbe bene ma la volontà umana non fa una cosa perchè è bene farla. Infatti ​“buono” è ciò che è oggettivo, e si distingue dal “gradevole” che invece è soggettivo e influenza la volontà solo tramite sensazioni che non valgono per tutti ma sono individuali. Una volontà perfettamente buona non la si potrebbe rappresentare come “costretta dalla legge”: ​per una volontà divina (o santa) non vale nessun imperativo perché non serve il verbo dovere in quanto il volere già di per sé concorda con la legge​. Gli imperativi quindi sono formule usate solo con le volontà imperfette degli esseri razionali. Kant distingue 2 imperativi: - imperativo ipotetico​: quando l’azione si presenta come buona per il raggiungimento di un qualche altro scopo, quindi è solo un mezzo. L’azione può essere buona sia per una finalità reale che per una possibile. Nel primo caso l’imperativo è un principio “assertoriamente” pratico nel secondo “problematicamente” patrico. - imperativo categorico​: quando l’azione è rappresentata come buona in sé, cioè è oggettivamente necessaria indipendentemente da altri scopi. In questo caso l’imperativo vale come principio “apoditticamente” (=che mostra la verità senza ricorrere a prove, ma solo per mezzo della pura ragione) pratico ESEMPIO DIFFERENZA: l’imperativo ipotetico dice “non devo mentire per conservare il mio onore” mentre l’imperativo categorico dice “non devo mentire e basta. Anche se mentendo riuscirei comunque a conservare il mio onore, non devo mentire” Tutte le scienze hanno una parte pratica che si compone di problemi e di imperativi. Questi imperativi possono dirsi, in generale, ​imperativi dell’abilità per raggiungere uno scopo. In questo caso non interessa se lo scopo sia buono o meno. Nella prima giovinezza non si sa quali saranno i nostri scopi nella vita, e quindi i genitori si sforzano di far imparare ai figli molte cose per sviluppare le abilità a raggiungere tutti i possibili scopi. C’è poi uno scopo che si può prevedere che tutti avranno con certezza: essere felici. In questo caso la finalità è reale (non ipotetica) e quindi l’azione che ha come scopo il raggiungimento della felicità sarà guidata da un ​imperativo ipotetico assertorio. L’abilità nella scelta dei mezzi per raggiungere la felicità può dirsi ​saggezza e l’imperativo che si riferisce a questa sarà sempre ipotetico perché riguarda la scelta di un’azione come mezzo. L’imperativo categorico riguarda la bontà essenziale dell’azione stessa che consiste nell’intenzione (indipendentemente dal risultato) e quindi può essere chiamato ​imperativo della moralità La diversità tra questi principi risulta anche dalla diversità del tipo di coazione esercitata sulla volontà: - i ​comandi/leggi (imperativo abilità) comportano il concetto di una necessità incondizionata, oggettiva e quindi valida universalmente. A questi si deve obbedienza assoluta, indipendentemente dalle proprie inclinazioni. Possiamo chiamare gli imperativi di questa specie “​imperativi tecnici​” (pertinenti all’arte) - i ​consigli della saggezza contengono una necessità che vale solo nel caso in cui quella persona reputi quell’azione utile per la propria felicità. Quindi valgono solo in condizioni soggettive e accidentali. Gli imperativi appartenenti a questa specie vengono chiamati da Kant “​imperativi pragmatici​” (pertinenti al benessere) - l’imperativo categorico è un comando pratico necessario in senso assoluto. Per questo gli imperativi di questa specie possono dirsi “​imperativi morali​” Come è possibile che esistano questi imperativi? L’imperativo dell’abilità è possibile perchè chi vuole uno scopo vuole anche il mezzo per raggiungerlo. Questo ci porta a fare una differenza tra le proposizioni analitiche e quelle sintetiche. Nel volere un oggetto come effetto della mia azione è già pensato il mio essere causa agente e quindi l’uso del mezzo (​proposizione analitica​) mentre nel determinare i mezzi stessi si usano ​proposizioni sintetiche​. Es: la matematica tramite proposizioni sintetiche mi dice con quali operazioni si risolve il problema, ma nel momento in cui io, consapevole delle operazioni, quando voglio il risultato voglio anche le operazioni per raggiungerlo la proposizione è analitica. ​Gli imperativi dell’abilità sono analitici perchè chi vuole lo scopo vuole anche i mezzi per raggiungerlo. Non è così invece nel caso degli ​imperativi della saggezza perché anche se tutti vogliono la felicità, questa è un concetto così indeterminato che nessuno sa dire che cosa vuole davvero. Questo perché il concetto di felicità è formato da elementi empirici. Infatti è impossibile agire secondo principi determinati in vista della felicità, è possibile farlo invece secondo consigli empirici (es attraverso quelle cose come la dieta o la gentilezza che favoriscono il benessere). Da questo consegue che gli imperativi della saggezza non possono comandare ma devono essere considerati dei consigli. Più difficile è capire come sia possibile un ​imperativo della moralità non essendo questo ipotetico e quindi non potendosi appoggiare su nessun presupposto. Nel risolvere questo problema Kant ci ricorda che non possiamo desumere da un esempio e nota come tutti gli imperativi che sembrano categorici potrebbero alla fine essere ipotetici. Come può esistere l’imperativo categorico? Solo l’imperativo categorico può essere una legge pratica​, mentre tutti gli altri sono principi della volontà. Infatti nel caso di un imperativo ipotetico si può rifiutare il comando se si rinuncia allo scopo mentre invece quello categorico non lascia alla volontà la possibilità di preferire il contrario del comando. Per capire come sia possibile l’imperativo categorico, o legge della moralità, ​capiamo prima di tutto ​come suona un comando assoluto​. L’assolutezza di un comando non si fonda sulla cosa comandata (la materia) ma sulla forma della legge che è l’universalità. Il contenuto dell’imperativo categorico quindi coincide con la sua forma. Dunque l’imperativo categorico è solo uno: “​agisci secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale​”. Dato che l’universalità della legge, dice Kant, costituisce ciò che si chiama natura in generale, l’imperativo può anche suonare così: “​agisci come se la massima della tua azione dovesse per tua volontà diventare una legge universale di natura​”. Esempi: 1. Un tale, colpito da sciagure, medita di togliersi la vita. Esaminiamo se la sua massima possa diventare una legge universale di natura. La sua massima è: per amore di me, creo il principio per cui se la vita mi provoca più male che piacevolezza allora io me la accorcio. Nel caso in cui questa massima fosse una legge di natura allora lo stesso sentimento che dovrebbe promuovere la vita (l’amore di sé) finirebbe per distruggerla e questo significherebbe che la natura è contraddittoria. Ne deriva che questa massima non può funzionare come legge universale 2. Un tale prende in prestito del denaro, pur sapendo di non poterlo restituire. La sua massima è: se ho necessità farà delle promesse che non posso mantenere. Se questa massima fosse una legge universale nessuno crederebbe più alle promesse e quindi sarebbe impossibile lo scopo stesso che il tale vorrebbe raggiungere. 3. Un tale ha un talento ma preferisce abbandonarsi all’ozio piuttosto che migliorare la propria predisposizione naturale. La sua massima è vanificare le doti naturali abbandonandosi al piacere. Se questa fosse legge universale e gli uomini lasciassero arrugginire i loro talenti, la natura potrebbe comunque sussistere. Tuttavia è impossibile che volere ciò divenga legge universale perché in quanto essere razionale l’uomo vuole che tutte le sue facoltà si sviluppino. 4. Un tale a cui le cose vanno bene sceglie di non aiutare chi sta male intorno a lui. La natura potrebbe sussistere se questo modo di pensare diventasse legge universale ma è impossibile volere che questo principio diventi legge di natura. Infatti una volontà che vuole questa legge contraddirebbe sé stessa perché potrebbero esserci casi in cui è lei ad aver bisogno dell’amore e della partecipazione altrui. Questi sono solo alcuni dei molti ​doveri reali​. Da questi esempi capiamo che ​si deve poter volere che una massima della nostra azione divenga legge universale​. Se guardiamo infatti a quello che succede quando trasgrediamo un dovere, ci accorgiamo che anche in quel caso non vogliamo che la nostra massima diventi legge universale ma semplicemente vogliamo fare un'eccezione alla regola per noi. Questo perchè a volte consideriamo quell’azione dal punto di vista di una volontà perfettamente conforme alla ragione e altre volte invece dal punto di vista di una volontà soggetta alle nostre inclinazioni. Questo dimostra però in realtà che riconosciamo la validità dell’imperativo categorico​, anche se vogliamo permetterci una eccezione. Dopo aver dimostrato qual è il contenuto dell’imperativo categorico, Kant torna alla sua domanda iniziale e cioè ​come è possibile che questo imperativo esista e che l’obbedienza alla legge morale sia dovere. Prima di andare avanti ricorda, ancora una volta, come il dovere debba valere per tutti gli esseri razionali e non solo per l’uomo. La conseguenza di questo è che qualsiasi cosa è valida sulla base di una particolare caratteristica umana non può fornire una legge. Ma quindi ​gli esseri razionali devono sempre compiere azioni basate su massime che si possono volere come leggi universali? Abbiamo visto che ogni azione corrisponde ad una massima e che quando chi compie l’azione può volere che la massima valga per tutti, allora questa diventa legge universale. La domanda che Kant si pone è: è necessario che ogni azione dell’essere razionale corrisponda ad una legge universale? Per rispondere bisogna considerare la ​volontà di un essere razionale in genere e quindi fare il passaggio alla metafisica dei costumi. Bisogna ricordare che la volontà è una facoltà posseduta solo dall’essere razionale. ​Alla volontà serve uno scopo (io voglio qualcosa). Quando lo scopo è dato dalla pura ragione allora vale per tutti gli esseri razionali. Gli scopi dati dalla ragione sono quindi quelli oggettivi e sono fondati su “​motivi​”, tutti gli altri sono invece scopi soggettivi (che variano da individuo a individuo) e si fondano su “​moventi​”. I principi pratici di conseguenza si dividono in: ​formali quando si formano per astrazione da scopi soggettivi e ​materiali​ quando si formano per astrazione da scopi oggettivi. Ogni essere razionale esiste come scopo di sé stesso e non solo come mezzo​. Infatti in tutte le sue azioni, sia quelle verso sé stesso che quelle verso gli altri, deve essere considerato mezzo e fine allo stesso tempo. Ad esempio: nel caso in cui un uomo deve spedire un biglietto deve servirsi di un altro uomo (il postino). Il postino però non è solo un mezzo, infatti deve essere consenziente e quindi recapitare il biglietto diventa anche un suo fine. Gli enti privi di ragione invece sono solo mezzi e per questo si chiamano “cose” a differenza degli esseri razionali che si chiamano “​persone​” (perché sono sia mezzi che fini). Le persone quindi non sono scopi soggettivi, effetto della nostra azione, ma scopi oggettivi la cui esistenza è già un fine di per sé (vedi esempio postino sopra). I possibili principi della moralità in base al supposto dell’eteronomia Se prendiamo come punto di vista l’eteronomia della volontà (sbagliata, secondo Kant) allora i principi della moralità possono essere di 2 tipi: 1) principi empirici ​che derivano dal principio della felicità e si fondano sul sentimento che può essere: - fisico - morale: che rimane più vicino alla moralità In ogni caso questi principi non possono fondare una legge morale. Derivano dai sentimenti e quindi sono diversi per ognuno, mentre la legge morale deve essere universale. Il principio della felicità, dice Kant, non c’entra nulla con la moralità perché un uomo felice non è necessariamente un uomo buono. Questo principio quindi metterebbe sullo stesso piano vizi e virtù (“basta che ti renda felice, anche se non è giusto”) distruggendo la moralità. 2) principi razionali che si possono fondare o sul principio della perfezione come qualcosa di possibile, oppure sul concetto di perfezione divina (che quindi esiste già). In questo caso, dice Kant, è migliore il concetto di perfezione slegato da Dio, perché il concetto di perfezione divina significherebbe non amare incondizionatamente Dio ma farlo per il proprio interesse di sentirsi migliore. Kant osserva che, se proprio si dovesse scegliere tra questi concetti il migliore sarebbe il sentimento morale. Ma questi principi valgono solo nel caso dell’eteronomia della volontà, che si basa su imperativi ipotetici (come spiegato nel paragrafo sopra). Gli imperativi ipotetici però non possono comandare moralmente​. Infatti se l’imperativo ipotetico mi dice “io devo fare questa cosa perché voglio ottenere quest’altra cosa” allora servirebbe una legge che spieghi perché voglio quella cosa e sarebbe “voglio quella cosa per ottenere quell’altra cosa” e di nuovo sarebbe necessaria un’altra legge, così all’infinito. Conclusione seconda sezione: ​Kant ha dimostrato che la moralità non è una rappresentazione fantastica e che può basarsi solo sull’imperativo categorico e quindi sull’autonomia della volontà. Quest’imperativo è un principio a priori: non dimostrabile con l’esperienza ma basato sulla ragion pura pratica. Nell’ultima sezione Kant andrà a spiegare i tratti principali della ragion pura pratica SEZIONE TERZA - passaggio dalla metafisica dei costumi alla critica della ragion pura pratica Il concetto di libertà è la chiave per spiegare l’autonomia del volere La volontà è un tipo di causalità degli esseri razionali e ​la libertà sarebbe una proprietà della volontà​, che permette all’essere di agire indipendentemente dalle cause esterne. Al contrario invece la ​necessità naturale​ è la proprietà della causalità che porta tutti gli esseri ad agire secondo l’influenza di cause esterne. Kant sostiene che ​la libertà del volere è l’autonomia del volere​, cioè la capacità della volontà di essere legislatrice di sé stessa. Da ciò ne consegue che ​una volontà libera e una volontà sottoposta alla legge morale sono la stessa cosa​. La libertà deve essere presupposta come proprietà del volere di ogni essere razionale Bisogna dimostrare che la libertà è appartiene a tutti gli esseri razionali. Per fare questo non basta basarsi sull’esperienza, ma bisogna dimostrare “a priori”. Nell’essere razionale c’è una ragion pratica, cioè una ragione che è autrice dei propri principi indipendentemente dalle influenze esterne. Questo ci porta a considerare la ragione pratica come libera di per sé. La libertà non può essere mostrata come qualcosa di reale, ma la dobbiamo presupporre se vogliamo pensare un essere razionale cioè dotato di volontà propria. Da questo ragionamento Kant ricava che la libertà e la legislazione propria della volontà sono entrambe autonomia. Tuttavia il concetto di libertà non può essere usato come fondamento e spiegazione del concetto di legislazione propria, così come la legislazione propria non può spiegare la libertà. Per Kant la via d’uscita è la ​differenza tra fenomeno e noumeno​. Infatti quando noi pensiamo a noi stessi come cause efficienti (perché liberi di volere) ci guardiamo da un punto di vista che è diverso da quello con cui vediamo gli effetti delle nostre azioni. Spiegato meglio: tutte le cose che vediamo/sentiamo attraverso i nostri sensi non ci permettono di conoscere le cose come veramente sono ma solo come appaiono. Quindi attraverso i senti noi conosciamo solo i fenomeni e mai le cose in sé stesse. Da questa osservazione segue che dietro ai fenomeni esiste qualcos’altro che noi non possiamo sapere. Quindi Kant fa una ​distinzione tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile​. Il mondo sensibile è diverso per ogni osservatore mentre quello intellegibile è sempre lo stesso. L’uomo quindi non può mai dire di conoscersi davvero, perché la conoscenza di sé stesso non gli arriva “a priori” ma attraverso l’esperienza. Quindi l’uomo in parte appartiene al mondo sensibile (in relazione alle sue sensazioni) e in parte al mondo intelligibile (in relazione alla coscienza immediata). La stessa cosa vale per tutte le cose (la loro appartenenza sta nel mondo sensibile, ma la loro essenza in quello intelligibile). L’uomo però ha una facoltà che lo distingue dalle cose: la ragione, ossia una pura attività spontanea. La ragione è al di sopra dell’intelletto. Infatti l’intelletto ha bisogno della sensibilità (dei sensi) per pensare, mentre invece la ragione è indipendente dai sensi. Quindi è la ragione che permette all’uomo di distinguere mondo sensibile e mondo intelligibile. Un essere razionale come intelligenza appartiene quindi al mondo intelligibile. Da questo segue che l’uomo pensa il suo volere come indipendente dal mondo sensibile, e quindi come libero. L’idea della libertà della volontà si connette indissolubilmente con quella di autonomia e quindi con il principio universale della moralità. La conclusione è quindi che la moralità è a fondamento delle azioni degli esseri razionali, e la legge di natura è a fondamento dei fenomeni. Se l’uomo fosse un puro membro del mondo intelligibile tutte le sue azioni sarebbero conformi alla legge morale, mentre se fosse solo membro del mondo sensibile tutte le sue azioni sarebbero conformi alla legge di natura. Invece l’uomo, dato che appartiene ad entrambi i mondi, si riconosce sottoposto non solo alla legge di natura ma anche alla moralità (e quindi alla ragione). Le leggi del mondo intelligibile sono gli imperativi categorici. Quindi se io fossi solo membro del mondo intelligibile tutte le mie azioni sarebbero conformi (spontaneamente) all’autonomia della volontà, ma dato che sono anche membro del mondo sensibile le mie azioni devono (per costrizione) essere conformi all’autonomia della volontà. Kant fa notare che tutti gli uomini desidererebbero di essere onesti ma non riescono a causa dei loro istinti e delle loro inclinazioni, ma in realtà tutti desiderano di essere liberi dai vizi. Il dovere morale è quindi il volere dell’uomo come membro del mondo intelligibile ma è una costrizione perché l’uomo è anche membro del mondo sensibile​. Del confine esterno di ogni filosofia pratica La libertà è un’idea della ragione mentre la natura è un concetto dell’intelletto (che si dimostra attraverso esempi tratti dall’esperienza). Da questo sembrerebbe che la libertà sia in contrasto con la legge di natura. La filosofia deve presupporre che questo contrasto non esista perché l​a ragione non può sacrificare né il concetto di natura né quello di libertà​. La filosofia dimostra che questa apparente contraddizione deriva dal fatto che quando pensiamo l’uomo libero e quando lo pensiamo invece come elemento della natura stiamo guardando da diversi punti di vista (da i due mondi) che però coesistono (l’uomo è effettivamente entrambe le cose). La ragion pratica ci permette di pensarci come appartenenti ad un mondo intelligibile. Facendo questo la ragion pratica non oltrepassa i suoi confini, li oltrepasserebbe se spiegasse come una ragione pura può essere pratica e cioè come è possibile la libertà. Infatti ​la libertà, essendo una semplice idea, non può essere né capita né intuita (non ha a che fare con l’esperienza)​. Se non è possibile la spiegazione della libertà (=ragion pura pratica), dice Kant, è possibile però difenderla dalle obiezioni di chi crede che la libertà non esista. Come? Facendo vedere che non c’è una contraddizione tra legge di natura e libertà. L’impossibilità di spiegare la libertà del volere, dice Kant, è come l’impossibilità di trovare un interesse che spinga l’uomo ad obbedire alle leggi morali. Infatti ​per volere ciò che la ragione ci prescrive è necessaria una facoltà della ragione: il senso di piacere o di soddisfazione che si prova nel fare il proprio dovere. Questo ci dice che la pura ragione, mediante idee che non appartengono al mondo fenomenico, è la causa di effetti che si trovano nell’esperienza. Quindi ​è per noi impossibile spiegare come sia possibile che un pensiero puro (a priori) produca una sensazione di piacere​. Quindi per noi è impossibile spiegare come mai la legge morale ci interessi, ma possiamo essere certi che questa ha validità in noi perché ci interessa. La libertà del volere non può essere dimostrata e quindi si presuppone. Per noi è impossibile capire come la ragion pura possa essere pratica. Per farlo dovremmo attingere dal mondo intelligibile, di cui però l’uomo non ha la minima conoscenza. Qui si incontra quindi il ​limite superiore di ogni indagine morale. Conclusione L’uso speculativo della ragione riguarda la natura, mentre l’uso pratico della ragione riguarda la libertà. In generale è la ragione umana a non essere in grado di spiegare delle leggi incondizionate (indipendenti dall’esperienza). Tuttavia, conclude Kant, anche se non possiamo comprendere la necessità pratica dell’imperativo morale possiamo comprendere il fatto che non sia incomprensibile (e questo grazie alla filosofia).
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