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Riassunto La forma della passione, Sintesi del corso di Estetica

Riassunto dettagliato de La forma della passione per il corso di estetica a cura di Maddalena Mazzocut-Mis dell'Università degli studi di Milano

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 27/01/2016

chiarabilo
chiarabilo 🇮🇹

4.2

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Scarica Riassunto La forma della passione e più Sintesi del corso in PDF di Estetica solo su Docsity! Riassunto Le forme della passione La passione di narrare: le origini filosofiche del romanzo C’era un tempo in cui il filosofo scriveva racconti, novelle e romanzi; in cui il conte philosophique diventava, con Voltaire, un genere letterario diffuso e amato; un tempo in cui Diderot componeva drammi ed elaborava histories, guadando con ammirazione verso Richardson; in cui Rosseau scriveva un romanzo epistolare come Julie, ou la nouvelle Eloise, tappa fondamentale per il percorso di trasformazione di un genere; un tempo in cui la filosofia viveva nelle novelle, nei contes e nei romanzi libertini. Le donne prediligono i racconti senza significato; che sia vero o no, è proprio quello che nel Settecento si crede. Una sensibilità femminea, un linguaggio morbido al limite della lascivia sono gli ingredienti del romanzo, che incontrano un gusto altrettanto affettato e delicato, ma non privo di pretese. Ebbene, se la donna è colei che fruisce dei romanzi, il genere non può essere elevato. Queste le contraddizioni di un secolo che vede fiorire il romanzo e che pure lo considera un genere minore. Secondo Montesquieu i poeti drammatici possiedono l’arte della parola che magicamente orienta il cuore per eccitarlo, calmarlo, volgerlo al bene o al male. I drammi orientano e i romanzi amati dalle sultane disorientano. La semplicità della struttura narrativa, la compromissione frequentissima con il conte fantastique o con quello di derivazione libertina sono potenti veicoli di rinnovamento e di circolazione di idee e di temi filosofici che entrano ed escono dai salotti, cioè dalla conversazione comune. Esiste una palese differenza tra fable e conte: • La fable narra un solo e unico fatto, racchiuso in uno spazio determinato e compiuto in un solo tempo. Lo scopo della fable è di rendere la verità sensibile; il fine è morale mentre la falsità, cioè l’elemento di pura fantasia, non è richiesto. È spesso un monologo o una singola scena di una commedia; • Nel conte non è richiesta nessuna unità di tempo, luogo o azione e il suo scopo è meno di istruire che di divertire; perciò la trama si colora di estremizzazioni, paradossi e maldicenze. È un concatenarsi di commedie, che narra avvenimenti falsi ma non per questo impossibili. Il conte si rivela un ottimo strumento dimostrativo, in cui l’articolazione interna è buona solo per l’esplicitazione di un pensiero la cui coerenza non dipende dall’articolazione. La complessità della divagazione, della descrizione e dell’articolazione nel romanzo si oppone alla complessità della vicenda, all’irrealtà dei suoi episodi nel conte. Huet è un sostenitore del romanzo perché hanno lo scopo di istruire il lettore attraverso “ la virtù premiata e il vizio castigato” ma messi in bella forma. Du Bos ammette la legittimità dei poemi in prosa e, pur con l’accortezza di paragonare i poemi in prosa alle stampe “in cui viene riprodotto l’intero quadro, eccetto il colorito”, scrive: nei romanzi in prosa si trovano la finzione e lo stile della poesia seppur con una maggiore diffusione. Il romanzo, nonostante stenti a essere considerato di elevato prestigio letterario, è riconosciuto, da un pubblico sempre più diffuso, quale strumento espressivo utile ed efficace; si contamina con la riflessione filosofica anche in opere non vicine a una speculazione di tipo teoretico, ma che comunque mettono in evidenza lo svolgersi di un’evoluzione conscienziale, a partire anche da una esperienza che fa dell’amore e della sensualità stimoli di crescita. La prosa si rivolge ad un pubblico femminile e a un pubblico dotto ma prevalentemente salottiero. Lontano da ogni pretesa realistica la prosa di Voltaire mostra l’inconciliabilità tra linguaggio poetico e linguaggio prosastico. Il romanzo risponderebbe al bisogno, coesistente nell’uomo, di amore e avventure. Il romanzo d’amore, inconcepibile per i greci come tale, nasce per Huet dalla tradizione dei narratori popolari, contaminata dalla prosa degli storici greci. Un colpo fatale alla sua diffusione verrà dato dalle grandi invasioni. Per ripristinare il genere, occorrerà un millennio e, in seguito, la presa di coscienza della donna: da qui l’origine del linguaggio femminile come linguaggio del romanzo. Voltaire, sostenitore del buon gusto come qualità dell’honnete homme, alla ricerca di un bello che è latore di verità, non vuole o non può comprendere Rosseau, il suo stile e le questioni sollevate nella sua imponente opera. La morale espressa dai libri è chiacchera per gente oziosa. Solo nella solitudine, la possibilità di meditare rende i libri di una certa utilità. D’altra parte il libro non è e non dev’essere un rimedio contro la noia. I romanzi non fanno altro che esaltare il gusto cittadino e tutto offusca i doveri e i sani costumi, con effetto negativo per la società: la virtù non va ricercata né a teatro né tra le pagine di un libro. Se un romanzo è fatto bene secondo Rosseau sarà fischiato e odiato dalla gente alla moda, dai parigini. Se sarà utile, sarà stroncato come pedestre e stravagante. La progressione logica della passione è più importante della coerenza drammaturgica che comunque sta ancora all’interno di un’unità d’azione. La versificazione è tutto. Non è la meraviglia che ci attira in Richardson, ma l’attenta osservazione della natura umana, la capacità di utilizzare l’esperienza a favore della verità. La riflessione va governata, regolata, corretta dall’esperienza e l’esperienza coadiuvata dall’osservazione. Diderot comprende che i tratti costitutivi del roman per lettres incideranno con efficacia sulla modalità di scrittura e struttura del romanzo in genere, ma solo se depurati dal fantastico e dai residui dell’oriente’. L’ironia, la satira devono lasciare il posto alla sensibilità che si esprime sotto la forma epistolare. La narrazione è una enunciazione del reale che per la maggior parte si fonda su un’esplicita bipolarità io-tu. La comunicazione epistolare, tuttavia, può dichiaratamente, e già negli intenti, manifestarsi come finzione. Diderot esalta in Richardson quella progressione della struttura narrativa che rende l’illusione della realtà. Una progressione che culmina anche nell’orrore. È verità e nello stesso tempo scoperta della stessa, lenta e graduale, che non consente mai di ritornare alla natura originaria. Le convenzioni soffocano ogni slancio, la società impone delle regole che determinano gli atteggiamenti. Un linguaggio che spesso si orienta su tonalità altissime, su registri iperbolici e ricchi di vocaboli mutuati dalla lingua della lirica altissime, su registri iperbolici e ricchi di vocaboli mutuati della lingua della lirica che, sebbene inadatti alle vicende quotidiane che il contesto descrive, esaltando il momento drammatico, indirizzando il lettore verso la fruizione del patetico. La religione è messa sotto accusa, non nel suo rapporto intimo, ma nella relazione tra legge, istituzione e individuo. Ciò che è messo sotto accusa non è la fede, e ancor meno Dio, ma la religione nei suoi rapporti con la vita personale e privata. Difficile liberarsi delle false credenze. Il progresso dello spirito è impossibile senza un grande sforzo contro ogni forma di resistenza. Meno si conosce, sostengono gli uomini dei Lumi, più ci si ostina ad difendere ciò che si pensa di conoscere: è l’ignoranza a non avere dubbi. Perciò la rivoluzione diventa indispensabile. Non necessariamente una rivoluzione armata, ma un nuovo modo di vedere e considerare le cose che si sanno e che si conoscono. Più l’uomo è illuminato, più e in grado di abbattere il pregiudizio e la credulità, più comprende gli stretti legami che lo relazionano agli altri individui, alle altre culture e società. I riti e le funzioni religiose, all’occhio di un osservatore esterno e, si spogliano di ogni significato altro che possono avere e risultano solamente pratiche come gesti assurdi di ripetitività ossequiosa lontana dal razionale. Si fa strada nel Settecento l’idea dell’ateo virtuoso che indaga la natura e i suoi misteri alla luce della ragione. Una volta ammessa l’esistenza di poteri invisibili che agiscono sulla natura per l’uomo diventa naturale adorarli; tuttavia con questa divinizzazione la Nei contes philosophiques, nella letteratura settecentesca in generale, la terra si fa più piccola e paradossalmente i confini si dilatano. L’estraneo è meno estraneo ma non meno incomprensibile. Un’incomprensione che colpisce anche ciò che prima si comprendeva benissimo o almeno si credeva di comprendere benissimo: la nostra cultura. La natura è cultura e come tale è storia e quindi compromesso e connubio etico e politico. Lo stato di natura viene dissolta all’interno di un’ideale che si allontana sempre di più. La maggior parte dei personaggi dei contes di Voltaire non viaggia per scelta ma si trova costretta: l’esilio o la minaccia di morte mettono in moto i protagonisti che diventano, loro malgrado, da fuggiaschi a esploratori. Ma che fuggono? Un mondo che non li comprende, che li censura considerandoli eretici. Il viaggio è una liberazione da un destino opprimente e infausto. Il racconto di viaggio è un’espediente per criticare quella che viene considerata una rigida e inefficace riproposizione del razionalismo e dei grandi sistemi deduttivi e per opporre un metodo aperto a una sperimentazione. Il viaggiatore avanza per prova ed errore, sperimenta, interpreta, cercando la legge universale. Il viaggio è tanto necessario quanto inutile: tanto necessario alla crescita, alla liberazione dal pregiudizio, quanto inutile, perché dissolve ogni speranza di comprensione in un’inspiegabile e funesta serie di eventi. Meglio quindi abbandonare ogni teoria, ogni desiderio di veder realizzati i propri sogni e ritornare a una vita semplice mettendo in soffitta il pensiero. L’unica via di salvezza è la rinuncia a qualsiasi passione. La provvidenza è allo stremo sotto gli attacchi sferrati da una ragione libera, tagliente, lucida, aiutata da un sentimento che è istinto e ragionevolezza assieme. Voltaire non escluderà mai definitivamente un provvidenzialismo che l’esistenza di un Dio giusto porta con sé. Concezione della perfettibilità umana si scontra con la problematizzazione che a ogni livello il secolo esprime. Azione e rappresentazione: il linguaggio dell’attore Il gesto è il geroglifico del teatro. La leggibilità del segno riconduce il geroglifico, simbolo che dell’istantaneità si fa espressione, all’interno di un bello colto dell’attimo della visione, all’interno di un bello colto nell’attimo della visione. Il gesto geroglifico è l’attività del genio, la sua produttività poetica, nel momento in cui quel poeta è l’attore stesso. Il gesto non inizia dove finisce la parola ma a volte l’accompagna, a volte la carica, a volte la contraddice e a volte la sostituisce del tutto. Tableau e pantomima sono nozioni attraverso le quali far giocare il ruolo rappresentativo del geroglifico gestuale. Il linguaggio teatrale è fisico e scappa al dominio assoluto della parola. L’elemento mimico è la forza dell’arte teatrale. La supremazia del corpo rispetto alla parola, che lo affianca, amplifica ma mai lo sostituisce del tutto, fanno sì che la recitazione sia azione concreta, presentate nell’immediatezza di uno spazio e di un tempo e orientata, indirizzata, istruita da un ‘contratto d’illusione’ tra attore e fruitore, la cui matrice è culturale e soprattutto comunicativa. Il Settecento esalta l’arte gestuale come pittura nello spazio e recuperando la pantomima, quale linguaggio del corpo, da cui è necessario ripartire per rifondare un’espressività che la mimica non solo contribuisce a formare di cui costruisce direttamente il senso. L’io drammatico si sovraccaricano di una presenza di un ‘qui e ora’ che è dipendente, in modo strettissimo, dalla personalità dell’attore, dalle sue caratteristiche e potenzialità. Consapevole del proprio corpo e delle proprie potenzialità, l’attore dovrà retrocedere di fronte alla parola. La pantomima diventa, per Diderot, parte della recitazione e l’attore ne è l’esperto, perché, se la ignorasse, non saprebbe né cominciare né condurre a termine la scena. I grandi scrittori, i maestri del pathos, sanno quanto qualsiasi gesto sia evocativo, già a livello di composizione narrativa. Ogni azione colpisce più delle stesse parole. La pantomima, nella scrittura, è il quadro che viene dipinto nell’immaginazione del poeta, quello che egli vorrebbe vedere rappresentato nella mente del fruitore. La conoscenza della pantomima ‘va pretesa’, soprattutto se il poeta ne descrive le linee essenziali nella stesura drammaturgica. Perfino il modo di scrivere una commedia sarà diverso tenendo conto oppure no del ruolo della pantomima. Lo spettatore, e prima di lui l’attore sapranno subito se l’autore ha composto la sua opera tenendo presente la mimica, la postura la disposizione dei personaggi nello spazio. Lo spettatore comprenderà immediatamente se l’immaginazione del poeta ha lavorato attraverso immagini, componendo un grande quadro. Che il gesto sia liberamente creativo o che sia al servizio della parola, lo statuto dell’attore viene comunque elevato: se non è un libero creatore è solo perché, come il pittore, possiede una tecnica, quella del gesto, che deve mettere al servizio del racconto. Parola e gesto devono trovare un modo armonico per ricomporsi sulla scena, perfino dimenticando che nel quotidiano essi naturalmente si accompagnano vicendevolmente. Parola e mimica si compenetrano finalizzando il loro risultato a un quadro che è armonia espressiva. L’arte di parlare agli occhi e attraverso di essi al cuore è veramente la sfida del secolo, nel momento in cui Voltaire afferma che tutto il teatro si gioca nella postura, nel gesto e non nella parola. Il rispetto delle regole e di alcune leggi della messa in scena può, come lo è stato per i Greci, essere trasgredito, anche se Voltaire sottolinea che bisogna stare attenti alla coerenza e soprattutto alla verosimiglianza. L’azione crea scena una dimensione altra, non meno vera di quella reale e, nello stesso tempo, diversa, a ogni rappresentazione. Se la pantomima gli ricorda un’azione del corpo survoltata ed eccessiva, a cui deve il suo successo il teatro popolare, se la pantomima rimanda a un’azione il cui senso costringe la parola a retrocedere, allora non può essere la via attraverso cui rinnovare il teatro. Esistono due tipi di gesto: • Naturale: accompagna un discorso, lo sottolinea e raramente ha significato senza l’ausilio della parola; • Artificiale: non trae il suo significato dalla natura, ma “dalla convenzione degli uomini”. L’oratore adegua il gesto al sentimento che sta esprimendo e al significato della parola che pronuncia. Se all’oratore è interdetto il gesto convenzionale, è Aristide Quintiliano a suggerire a Du Bos che oratore e attore usano però qualità espressive diverse. La recitazione, secondo Du Bos, necessità di uno stato chiaro e a tutti intellegibile. In tal senso, il recupero dei classici e il loro studio possono essere di grande aiuto solo se non se ne diventa schiavi. L’arte del recitare esige norme, rigore ed esercizio: è tanto difficile avere dei buoni attori proprio perché non esiste una tecnica che possa essere insegnata e una ‘scuola’ che dia continuità all’arte. Gli attori romani lasciavano il teatro in lacrime, dopo aver fatto piangere il pubblico, anche se la loro recitazione era fortemente orientata e diretta. Al contrario, la declamazione arbitraria è il più delle volte e a più livelli svantaggiosa e, quando l’attore improvvisa e conclude, durante una recitazione cantilenata come quella francese, su un tono che non permette l’inserimento dell’altro attore, i commedianti non sanno come trarsi d’impaccio. Una declamazione notata potrebbe inibire sia la passione sia l’entusiasmo dell’attore; soprattutto potrebbe eliminare quel tanto di naturalezza importante per il transito emozionale. Du Bos, pur sostenendo la melopea teatrale e le sue regole non sente probabilmente che quel modo tanto artificioso di recitare, quella recitazione tutta cantilenata e senza passione e soprattutto soggetta a una limitata gamma espressiva della Duclos, non entusiasta più né lui né il pubblico. Era necessario trovare un modo, nella contemporaneità, per notare le inflessioni della voce nella recitazione e dare indicazioni precise all’attore. Du Bos è convinto della possibilità di poter determinare e istituire una struttura notazionale per qualsiasi forma di declamazione, servendosi di un sistema di disegni- accento. Egli sa che i segni-accento venivano riportati al di sopra delle parole ed erano disposti su due linee (la superiore per il canto, l’inferiore per l’accompagnamento). Il problema di Du Bos è duplice: 1. Da un lato la notazione permetterebbe anche agli attori dilettati o non dotati di recitare con un’impostazione della voce e dell’espressione corretta e consona al personaggio; 2. Dall’altro l’espressione sembrerebbe un connubio inseparabile di linguaggio e decoroso sonoro e contemporaneamente di decorso gestuale. La parola recitata è un linguaggio dei sentimenti, come lo è la musica. Il teatro è fatto per essere fruito e gli intenditori si accontentano di una recitazione modesta e sanno ben giudicare il valore di un’opera. Du Bos si perde in vaste ed erudite, considerazioni sulla recitazione degli Antichi e sui mimi, che, in base alle sue ricerche, ricorrevano sia al gesto convenzionale sia a quello naturale, a un linguaggio muto, altamente espressivo che andava studiando con metodo nei suoi significati. I mimi derivavano la loro abilità gestuale dall’arte della saltazione e, come gli istrioni, esponevano e facevano comprendere “una trama senza parlare”. Du Bos giunge alla nobilitazione del gesto per due vie: 1. Una diretta: l’espressione della passione e la codificazione del gesto che giungono dal cuore e vanno al cuore; 2. L’altra, assai tortuosa, che passa attraverso la riflessione sulla musica degli Antichi e la tradizione retorica. Codificazione nuova dell’arte attoriale che scandisca i tempi, i ritmi, le misure. Una sorta di metodo che abbia come riscontro l’acquisizione di una tecnica. È la natura a dettare le sfumature più convenienti al ruolo da interpretare. Charles Duclos dice che se l’attore entra nella parte, è inutile qualsiasi indicazione, poiché il gesto nasce spontaneamente e in modo appropriato; la notazione rischierebbe di rendere la recitazione affettata. Tanto le emozioni naturali quanto quelle artificiali, che l’attore incarna quando entra nel ruolo adeguatamente, non necessitano, per essere trasmesse di nessuna notazione particolare. Lekain comprende bene che lo studio dell’opera ‘corretta’ e che, quando possibile, è bene conoscere le aspettative dello stesso autore. Una spontaneità ben studiata e mai fredda e meccanica. È indispensabile per Lekain possedere una ‘tecnica’ per poterne dettare le regole. Le didascalie sono di fondamentale importanza non solo per i dilettanti ma anche per i professionisti. Du Bos, il fondatore dell’estetica emozionalista (fa del sentimento spontaneo e immediato il suo centro di riflessione) è nel contempo il promotore di una notazione della voce e del gesto. Per l’autore una volta resa esplicita la differenza tra sentire e meditare, il vero attore dovrà esercitare sia il sentimento sia il ragionamento. Le passione troveranno così una via adeguata per essere rappresentate e potranno trasparire sul volto e nel gesto in modo da essere colte immediatamente dal pubblico. È un principio meccanico inderogabile quello per cui si partecipa al dolore altrui anche nell’ambito della finzione. pantomima classica. L’action non è altro che la pantomima. Il ballerino deve dipingere e parlare, ogni gesto, ogni atteggiamento, ogni port de bras devono avere un’espressione diversa; la vera pantomima, in ogni suo genere, segue la natura in tutte le sue sfumature. Noverre e Diderot sanno bene quanto è difficile insegnare la ‘nobile pantomima’ agli attori di teatro e quanto spesso tale insegnamento, anche legato alla declamazione, si mostra del tutto fallimentare se l’attore non è predisposto e se il gesto, invece di aspirarsi alla natura, diventa meccanico e ripetitivo. Il gesto rivela la natura dell’uomo, la sua singolarità e irrepetibilità, il suo ‘tocco’. Un’autenticità che recupererà dalle convenzioni il significato, mentre dà libera forma all’espressione. Diderot, in uno scritto del 1769, sostiene che il teatro dev’essere vivacizzato e, pur riportando le parole di altri afferma che la pantomima non possa essere esclusa da nessun genere drammatico; essa è una lingua comune a tutte le nazioni; il grido e il gesto si toccano e il silenzio, rotto solo dalle esclamazioni di dolore e di gioia, produce spesso il massimo effetto. La pantomima è espressione che soddisfa la vista poiché alla parola degli attori si contrappone non solo l’orecchio ma anche l’occhi del pubblico; un occhio che, per Diderot, dev’essere soddisfatto indipendentemente dall’orecchio. L’occhio non accompagna la comprensione di ciò che l’orecchio apprende; piuttosto conosce autonomamente e sovrappone il suo ‘sapere’ incontrandosi con l’orecchio. Il corpo dell’attore ha accesso privilegiato al senso più nobile, al senso più elevato e completo, almeno secondo Du Bos e Diderot e quasi tutto il Settecento: il senso della vista. È attraverso l’occhio che le emozioni si trasmettono più rapidamente. L’anima si fida dell’occhio che racconta le cose come stanno. Quando Du Bos sostiene che i segni della pittura non sono arbitrari ma naturali e più forti, non fa altro che affermare come le esperienze maggiormente ‘realistiche’ abbiano sull’uomo un impatto più violento, senza mediazione. Il fattore temporale diviene discriminante: la pittura colpisce nell’immediatezza mentre la poesia, attraverso le parole, costruisce l’azione per gradi successivi. Perciò la poesia sa commuovere proprio quando, utilizzando le parole, riesce a raggiungere l’intensità istantanea della rappresentazione pittorica. L’effettivo vantaggio della poesia sarà quello di poter iterare l’emozione a ogni quadro descritto a parole, mentre il quadro dipinto impressiona per un solo istante. Le figure hanno più varietà rispetto ai suoni, sono più espressive e la velocità di comunicazione è più rapida ed efficace. L’uso del linguaggio gestuale a teatro è l’uso di una lingua che ha le sue regole e che deve essere non solo ‘sentita’ con il cuore ma anche controllata e governata dall’attore. Il valore del linguaggio dei gesti risiede nella sua espressività, nella sua immediatezza e quindi anche nella sua specificità e intraducibilità in altri linguaggi. Il linguaggio gestuale è un grado di significare e comunicare, emozioni che, per essere tali nella loro estrema ambiguità semantica, hanno bisogno di quella simultaneità non concessa al linguaggio istituzionale. Il carattere metaforico del linguaggio gestuale esprime una peculiarità propria di tutte le arti, per cui esse sanno creare, con un’immagine, con una forma, con un suono contemporaneamente idee e sentimenti. Il gesto porta con sé elementi comunicativi, simbolici ma anche espressamente passionali e sensuali. Non è necessario ricorre alle rappresentazioni basse o comiche per comprendere il ruolo del gesto. L’oratore o l’attore non manifestano con il gesto la parola che si pronuncia ma direttamente il pensiero, tanto che il gesto non accompagna ma più propriamente esprime. Il legame tra il linguaggio gestuale e quello pittorico è strettissimo. I tableaux sono veicoli espressivi in un contenuto gestuale, che si manifesta attraverso i temi iconografici, aderenti a un determinato canone espressivo condiviso. Il muto convenzionale, e non il muto dalla nascita, tradurrebbe in gesto, per via sperimentale, un discorso orale predeterminato, utilizzando una mimica il più possibile diretta. La teoria della modalità dei linguaggi, comunicativa prima ed espressiva poi, s’incontra pienamente con la tematica del gesto. I gesti sono “un dizionario della semplice natura”. Le arti non hanno altro compito che perfezionarli facendoli diventare “bella natura”. Le parole di Batteux fanno ben comprendere come, nell’ambito di una disciplina ormai pienamente formata come l’estetica, il tema del gesto si ripresenti carico di nuovi e autentici significativi espressivi che vanno indagati con rinnovate chiavi di lettura anche interpretata. Il quadro concentra il sentimento e lo restituisce carico di energia. L’immaginazione non è altro che la facoltà di trovare, di raccogliere immagini e riunirle trasformandole in emozione. Charles Le Brun nel 1667, durante le famosissime conferenze pronunciate all’Académie Royale de Peinture et de Sculpture, afferma che le passioni dell’uomo si esprimono sul volto e possono essere codificate cogliendone i tratti essenziali e i segni espliciti. Quello di Le Brun è uno studio sull’espressione e sulla trasmissione della passione; passione che è esattamente la stessa che plasma il corpo dell’attore, il suo volto e che si riversa simpateticamente e meccanicamente sulla sensibilità dello spettatore capace di leggerne i tratti nella postura, nelle varie espressioni e nel tono della voce del commediante. Il volto è una cartografia dei moti dell’animo, il più potente tra i mezzi comunicativi. Un’idea che si esplicita della rappresentazione; un’arte che è sempre un segno: un segno che, nell’arte, è veicolo della passione e del sentimento. In Du Bos è facile riscontrare un atteggiamento positivo verso quel sistema retorico che punta direttamente al lato emozionale nel rispetto della verosimiglianza. Non tanto addomesticare le passioni, quanto saperle tramettere è il compito sia del pittore che dell’attore che dunque non solo conoscono il cuore dell’uomo ma soprattutto conoscono il destinatario dell’opera, il suo modo di leggere l’amore, l’odio, la vendetta sul volto altrui. L’emozione passa al pubblico solo condividendo un linguaggio comune, quello personale, che non è appannaggio della libera sensibilità dell’attore, mutevole e fugace, ma si sottomette a una serie di convenzioni gestuali, posturali, espressive, codificate e da tutti leggibili attraverso i sensi e il cuore. Il fruitore dovrà riconoscere i personaggi, distinguere con chiarezza il loro ruolo, comprendere gli atteggiamenti, le differenze caratteriali, le scelte e ovviamente le azioni. Il pubblico si aspetta che la collera, l’odio e la vendetta vengono espressi in modo diverso a seconda dell’estrazione sociale del personaggio. Il codice delle passioni è anche un codice sociale. L’attore, dovendo rendere comprensibili i segni esteriori della passione, è costretto a rifarsi a un’iconografia di pubblico dominio. Non si tratta di una conformità tra attore e personaggio, ma di una conformità tra l’attore e il personaggio come il pubblico si aspetta che sia. È un paradossale realismo scenico che si adegua non solo a una rigidissima gerarchia sociale, ma anche a un patrimonio di immagini comune, l’attore è sottomesso a una tipologizzazione scenica, vocale e gestuale. Du Bos e buona parte del Settecento con lui rimangano ancorati all’ideale di una attore che incontra le aspettative di un pubblico dotto, amante della pittura e della scultura. Il teatro diventerà presto uno strumento di educazione del popolo e non più un divertimento elitario. Attore e pittore variano e moltiplicano la mimica e la postura dei personaggi che l’oratore cambia e diversifica le inflessioni della voce. Ogni gesto si adatta a un determinato carattere e a una determinata situazione. Noverre lo faceva ben notare: il ruolo della pittura è, per il teatro e per la danza del Settecento, un vero punto di svolta. Il tableau è la ‘naturale’ e ‘vera’ disposizione dei personaggi sulla scena, tanto ‘naturale’ e ‘vera’ che è la stessa che il pittore sceglierebbe di dipingere. Simmetricamente al “tableau-stase”, che apre l’atto, il “tableau-comble” si situa alla fine e racchiude in una sola espressione parossistica lo stato d’animo dei personaggi principali, suscitando nello spettatore un apice melodrammatico o sublime. Lo stase indica la fissità monolitica dell’insieme all’inizio dell’atto, mette in scena quella che può essere definita ‘un’atmosfera generale’, una ‘decorazione animata’, come afferma Doval. La quarta parete, funzionale all’estetica del tableau, valorizza il ruolo del fruitore, fa comprendere come l’attore abbia nei suoi confronti un potere altissimo di seduzione che tuttavia non è e non dev’essere compiacimento. L’atteggiamento dello spettatore è quello allora di un distacco ‘disinteressato’ e al contempo sentimentalmente coinvolto. Il continuo alternarsi di disinteresse e interesse di atteggiamento apatico e coinvolgimento patetico, rende il lavoro del fruitore ricco di ritorni e contraddizioni: un paradosso, come quello del commediante. All’epoca non era usuale per il pubblico distogliere l’attenzione dell’azione del personaggio principale, che richiamava a sé gli astanti con lunghe ed efficaci ‘tirate’. Il tableau consente di vedere l’azione scomposta nelle sue componenti narrative simultaneamente presenti, attivando l’immaginazione dello spettatore. I tableaux sono amati da Diderot per la loro espressività e concisione, per la loro unicità, per il fatto che il ruolo dell’attore in essi è esplicitamente quello di recitare all’interno di una ‘tela’, dentro una ‘cornice’, al di fuori della quale il pubblico contempla, gioisce, piange, come di fronte ad un quadro. Un istante che immediatamente si dinamizza in racconto, perché il gesto evocativo di un contatto relazionale tra i personaggi. Solo in questo modo, il quadro può essere tradotto in un dramma. La nozione di tableau è veramente essenziale per il Settecento. Il quadro cambia “il centro di gravità” della commedia, della tragedia e del dramma. Bisogna imitare la natura, ispirarsi ad essa e, solo dopo, costruire un quadro nella propria mente: un quadro perfettamente rappresentabile. Chi invece si ispira alla scena, deve scegliere con grande accortezza i propri modelli, per non correre il rischio di quegli attori che, imitando i grandi, ne copiano solo i difetti. Un giovane può miseramente fallire e vedere spalancarsi davanti la porta della povertà. Chi fallisce come pittore però ha delle alternative e una di queste è diventare attore. La Clairon, quando aveva debuttato nel settembre 1734 alla Comedie, si era subito imposta, per i ruoli tragici su Mlle Dumesnil. Il temperamento, la duttilità nel recitare le passioni, comprese quelle estreme le resero celebre e assai apprezzata. Tanto Diderot quando Du Bos prima di lui e gli attori più attenti, come Riccoboni, la Dumesnil e la Clairon, erano tutti ben consapevoli che adottare un nuovo genere declamatorio e una mimica più vicini a quella che veniva intesa come espressione legata a una certa quotidianità o naturalezza o ‘natura’ comportava una conseguente revisione dell’immagine scenica, del personaggio stesso e di elementi non secondari come il trucco e i costumi. Tuttavia la capacità di armonizzare vecchi e nuovi codici, una recitazione che abbandona una rigida e sedimentata codificazione non sono di per sé sinonimo di stile più quotidiano, più naturale, di semplicità o di immediatezza e la mimica, esasperata ed eccessiva più volte fissata dai ritrattisti della Clairon, ne è un evidente esempio. Nella teorizzazione di Dorval, la declamazione viene consigliata come esempio di uno stile di composizione (style simple) che la scena lirica potrebbe adottare, prendendo a musicare brani della tragedia classica che offrono versi particolarmente lirici e situazioni proprie all’imitazione musicale. Il gesto non dev’essere necessariamente ‘elegante’, perché rischia di diventare innaturale. L’occhio vuole la sua parte ed è soddisfatto solo quando la scena è vera e Il ritmo è disposizione e sentimento. Il genio possiede una ‘sensibilità motrice’ e gestuale che riconosce negli oggetti e nelle forme una ritmicità che è consustanziale al movimento che caratterizza la natura. Se è il disegno che dà la forma agli esseri, sono invece il colore e il ritmo che danno loro la vita. In Greuze l’irrealtà dell’istante, che coglie solo un frammento, si trasforma nella realtà del racconto che si anima nel tempo. Questo è il gesto della grazia. L’emozione estetica eccede la rappresentazione e l’immaginazione colma il vuoto che l’istante fecondo deve creare. Le sue parole evocano sensazioni; il gesto del pittore sulla tela diventa racconto attraverso un lavoro immaginativo. Una scrittura picto-narrativa che supera il gesto del quadro, ma che nel gesto, nella tecnica, riceve il suo spessore. Greuze fa pittura narrativa, pittura che fissa in un’immagine, in un gesto, lo svolgersi di quel racconto che Diderot immagina dipanarsi all’interno di un teatro riformato, di un teatro borghese. La pittura di Greuze presenta una profusione di passioni mute, di espressioni e gesti patetici, di sguardi intensi. Egli si esprime all’interno di una morale famigliare, di una piccole porzione di natura e di vita vissuta, già idealizzata. Greuze sa descrivere attraverso la capacità di riassumere nell’istante fecondo il gesto e l’espressione dei visi. Fissa il dramma borghese nell’istante. Tradire il tocco significa anche tradire le convenzioni. Nella pittura storica, chi diserta l’applicazione della regola impedisce allo spettatore il riconoscimento dei personaggi e del loro ruolo. Nella pittura alta, il cui fine è quello di nobilitare il fruitore al di sopra di quelle passioni che vive comunemente, il rispetto delle regole è costitutivo alla coerenza dell’opera e al suo effetto sul pubblico. In Chardin, Diderot riconosce una qualità tecnica che è già arte; arte come natura. La tecnica è veramente il tocco, il gesto del pittore-poeta. Un sapere, una qualità, un valore che si raggiungono lentamente. Copiando la natura come il genio deve fare, anche Chardin può concedersi tutto e non deve rendere conto a nessuno se non alla sua stessa composizione che diventa modello. La maestria di Chardin si risolve in un bello che risalta in ogni dettaglio. Nulla è lasciato al caso. Una bellezza superiore che deriva dall’attesa superiore che deriva dall’attesa osservazione della natura e dai riflessi che tale osservazione ha sul soggetto, dalla sapiente conoscenza delle cause e degli effetti, come un filosofo della natura deve avere. Chardin è il vero interprete della natura e i suoi strumenti sono l’osservazione e la mano. La tecnica è la qualità, il valore aggiunto che porta nel regno del ‘non so che’, del piacere estetico. Il genio mostra la sua unicità e il suo tocco: mostra intelligenza e libertà. Boucher non manca di inventiva, di immaginazione. Dipinge con grande facilità, ma ha tradito il suo pubblico con un gesto abile e falso. Se il cattivo gusto si incarna negli eccessi di Boucher, il buon gusto è misura, ma non solo. L’opera deve coinvolgere; dev’essere disinteressatamente interessante: questo l’atteggiamento dell’uomo di buon gusto. Le regole del gusto non sono mai prescrittive e allo stesso tempo non sono innate, ma si apprendono in giovane età con l’abitudine. L’opera d’arte di gusto deve coinvolgere senza mentire a se stessa, senza perdere la propria autenticità e senza che il fruitore debba vergognarsi delle emozioni provate. Il gusto, risultano dell’equilibrio tra i piaceri dell’anima, matura a seconda delle circostanze estetiche, sensibili, emotive, ma anche culturali e storiche e il giudizio, sebbene fortemente condizionato dalla ‘natura’, non è mai conoscenza teorica, ma un’applicazione di regole che non si conoscono. La composizione pittorica deve rientrare nell’arte del possibile o meglio ancor di ciò che in natura ‘è’. Boucher non rispetta il principio di economia, del bilanciamento, dell’armonia. Verità che è forma, modello, linea vera. L’elemento numerativo lascia il posto a una narrativizzazione che mette in movimento la scena, trasformando il coesistente in successivo e consentendo a chi non avrò mai di fronte il dipinto non solo di ricostruire la scena ma di percepire distintamente la tonalità affettiva. L’attenzione ai particolari è esaltata e riconosciuta come componente essenziale. In una rappresentazione patetica, dove il pianto e la commozione sono protagonisti, la negligenza degli abiti è un dettaglio da non sottovalutare. Il ‘buon gusto’, sebbene meno raro del ‘genio’, condivide con quest’ultimo sensibilità, raffinatezza, intelligenza. Solo l’uomo di buon gusto riconosce il vero genio. La critica di Diderot al cattivo gusto ha il suo apice proprio nel Salon 1765. L’arte religiosa ha bisogno della ‘grandeur’. La religione, per un uomo dei lumi, è passione spinta al fanatismo, estasi e melodrammaticità; i crimini della follia religiosa sono il fondamento dell’orrore che si volge verso un patetico spinto all’estremo.
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