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Riassunto "La passione e la ragione" Giovanni de Luna, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto del libro "La passione e la ragione" di Giovanni De Luna.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 27/03/2019

Benedetta_Misfit
Benedetta_Misfit 🇮🇹

4.7

(36)

13 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "La passione e la ragione" Giovanni de Luna e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! LA PASSIONE E LA RAGIONE di Giovanni De Luna Introduzione Sono tanti i motivi per cui la comunità degli storici è sull’orlo di una crisi di nervi, sia per le condizioni oggettive del loro lavoro, sia per la dimensione soggettiva di questo disagio. Questo libro nasce da queste inquietudini e vuole provare a calmarne il tumulto, sistematizzandolo in un percorso manualistico. ✤ Del manuale, questo libro ne ha la linearità della costruzione ed impostazione, fin dall’inizio in cui si identifica l’oggetto della storia contemporanea, definendone il tempo e il contenuto: per il primo vale l’opzione novecentesca che rifiuta la definizione di “contemporanea” per la storia degli ultimi due secoli; per il secondo è usata la definizione di “secolo delle masse”: dietro il totalitarismo, il fordismo e le guerre ci sono schiere di uomini. Nel secolo degli estremi, tutto è di massa. ✤ Si analizzano poi i soggetti della conoscenza storica: chi è che studia il 900? Qual è il ruolo dello storico? Si conoscerà, allora, lo “storico orco”, uno storico della contemporaneità onnivoro delle fonti e dei documenti. ✤ Per il “come si studia”, scopriremo che ogni epoca si dà le fonti di cui ha bisogno. Studiare la contemporaneità significa per lo storico confrontarsi non solo con gli aspetti politici ed istituzionali di miliardi di uomini, ma anche con la loro quotidianità. La vastità di questo oggetto ci ricorda che le fonti sono un corpus documentari variegati e qualitativamente eterogeneo, che gli storici frequentano assiduamente. Ma le fonti, prima tradizionali, cambiano e cambia anche la loro critica. I capisaldi della tradizionale critica delle fonti precipitano in quello che Vitali definisce “il mondo piatto delle rete”, in cui si opacizza il contesto di origine, di riferimento e dell’informazione. ✤ Nell’ultima parte del libro si scrive su come debba essere raccontato l’oggetto studiato: la narrazione deve tenere conto della trasmissione del sapere storico. Lo storico della contemporaneità scrive per comunicare e la sua funzione si basa tutta sulla sua mediazione del passato nel presente. È quindi uno “storico-enzima”, che non si limita ad un racconto veritiero dei fatti, ma anche all’alimentazione, trasmissione e confronto con altri tipi di racconto storico trasmessi dai media. Negli anni ’70, politica e storia, militanza e ricerca procedevano di pari passo nella figura dello “storico-militante” (metà studioso, metà volontario, metà uomo di biblioteca, metà uomo di piazza e di fabbrica), che svolgeva il suo ruolo tranquillamente. Ma la ricerca storica si è strutturata in altrettante parti da analizzare: il movimento operaio e cattolico e la storia della classi subalterne da oggetti storiografici diventano feudi interpretativi, raccolti intorno ai loro eroi. La crisi della Prima repubblica ha portato alla divisione tra forma-partito e ricerca storica e l’uso pubblico della storia ha prodotto una liberalizzazione del “mercato della memoria”. È uno scenario inedito in cui prevale lo “storico della gente” di Renzo De Felice: si tratta di uno storico che riproduce il senso comune e che misura la validità del proprio lavoro sulla base della legittimazione degli assetti politici e dell’opinione pubblica più diffusa. È uno scenario inedito, in cui tende a prevalere come protagonista solo ad esclusivamente “lo storico della gente” evocato da Renzo De Felice: si tratta di uno storico che attinge e riproduce il senso comune, che misura la bontà del proprio lavoro sulla base della sua funzionalità a legittimare gli assetti politici egemoni e l’opinione pubblica più diffusa.
 Pagina di 1 35 1) L’oggetto: il Novecento e le sue definizioni 1.1 Partire dal presente Dalla storia contemporanea e da chi la studia ci sono segnali di inquietudine. Si parla della fine della storia o di una grave crisi, dovuta dall’interruzione dei contatti tra generazioni, dalla saturazione della memoria collettiva e dal diffondersi di irrazionalismi incontrollati; cioè dagli aspetti patogeni e antistorici della cultura di massa postnovecentesca. Ma queste conseguenze racchiudono una sfida per la storia e per gli storici, che va raccolta, perché la storia ne può uscire rafforzata. Però dobbiamo prima indicare il territorio della contemporaneità, l’oggetto, i soggetti che lo studiano, le fonti e i metodi e i modi per raccontarlo. La definizione di tempo presente di Braudel, secondo il quale “il presente della civiltà attuale è questo tempo lunghissimo che inizia con il 18esimo secolo e non accenna a finire”, ci indica che ogni fase storica lascia tracce nelle fasi successive e il passato con cui lavora lo storico può essere scoperto nel presente. Si deve, quindi, vedere se il nostro presente ci fornisce gli strumenti per conoscere la contemporaneità di cui si occupano gli storici. Le perplessità della storia contemporanea utilizzate da chi giudica ingannevoli le proprie ricerche nascono dalla relazione con il presente: • la mancanza del distacco tra lo storico e l’oggetto della sua analisi; • l’assenza di una prospettiva solida perché il processo storico è in atto. Ma oggi non c’è questo problema, grazie all’occasione di vivere alla fine di un secolo che ha segnato la conclusione di un processo storico definitivo. Delimitiamo il secolo tra due cesure: quella del 1914-17 e del 1989-1991. Le due date sono periodizzanti per la loro efficacia ad indicare la storia del Novecento come un ciclo esaurito, così che oggi possiamo partire dal presente per conoscere il passato. La collocazione tra l’interno e l’esterno del 900 ci offre un’importante opportunità conoscitiva: gli uomini del 20esimo secolo parlano il nostro linguaggio, e ciò ci evita le trappole di una falsa attribuzione di parole. Ma c’è un secondo vantaggio: ๏ venendo dopo, diamo ai loro eventi un significato che loro non potevano avvertire; ๏ il secondo vantaggio deriva dalla nostra collocazione in un presente in bilico tra il loro tempo e quello della fase successiva. Nelle società premoderne si pensava che il futuro si creasse come risultato di una creatività sacra o eroica, ed era assente il paradigma dell’azione rivoluzionaria umana. Mancava il concetto del futuro creato di continuo; prima era considerato sfalsato rispetto al passato e al presente, ed anche inferiore. Ma ora i tre piani si equivalgono. La possibilità di confrontarsi con un futuro che non presenta mancanze rispetto al presente colloca lo storico nel passaggio dal tempo della “profezia” a quello della “prognosi”: questa trasformazione è legata alla consapevolezza che il presente di oggi è il futuro di ieri e il passato di domani. Verso la fine del 1899 ci si chiese se il 1900 dovesse contare come ultimo anno del vecchio secolo o primo del nuovo; intervenne alla fine l’imperatore Guglielmo II, che dichiarò che fosse il primo anno del nuovo secolo. Nessuno se ne rese conto, ma fu l’addio al tempo dell’Ottocento. Nel Novecento il tempo non fu più il “principio ordinatore” degli eventi umani: il continuum passato-presente-futuro è stato ripristinato, ma senza la sua linearità; il presente è un Pagina di 2 35 1.2.6 Gli eccessi: la morte come progetto Nel 900 la guerra è solo la precondizione del genocidio. Questo ci porta alla definizione di Freud del 900 come il secolo non delle morti, ma della morte. La morte come progetto è la conseguenza della politicizzazione della vita, principio secondo cui la politica si trasforma in biopolitica: la vita e la morte non sono più concetti scientifici. Nel Novecento, lo Stato non molla la presa rispetto alla vita. Ricordiamo, in questo senso, l’eutanasia. 1.2.7 Gli eccessi: il lager Il lager è il luogo dell’essenza biopolitica del 900. La morte segna anche il gulag, ma ne costituisce un sottoprodotto e non il fine ultimo. (lager:morte=gulag:lavori forzati) Nel lager la semplice esistenza biologica è politica. La morte era inflitta lentamente e terribilmente perché essa doveva diventare componente fissa del paesaggio, e i detenuti dovevano pensare di essere espressioni del male: nelle regressione biologica delle vittime i carnefici trovavano la legittimità politica della propria ferocia. 1.2.8 Il secolo delle masse Il Novecento è stato plasmato dall’ingresso attivo delle masse nella storia, e la dilatazione delle vittime di guerra ne è una conseguenza. L’organizzazione del lavoro e della produzione; lo stato interventista e la subordinazione delle élite intellettuali alla macchina propagandistica delle comunicazioni di massa; la dissoluzioni di tutti i valori sociali, politici e culturali ereditari dell’800: questo è il nocciolo del 900. 1.3 Una periodizzazione 1.3.1 1870-1914 Nel periodo 1870-1914 scorgiamo gli inizi dei fenomeni che poi esploderanno nel 900: imprese di grandi dimensioni, produzione su larga scala, stabile sistema dei pagamenti centrato sulla sterlina. Il nuovo modo di produrre influenza la vita di tutti: nascono nuove fonti di energia e nuove invenzioni. Tra il 1870 e il 1900 gli Stati europei e gli Usa affermano la propria superiorità, che forti del loro esercito e delle risorse scientifiche fecero sorgere in Asia e Africa imperi coloniali. Non ci furono guerre tra i paesi industrializzati, e quella fu la Belle Epoque, un’era pacifica ed operosa. Alla stabilità nazionale corrispondeva quella interna, ma ben presto iniziò la concorrenza economica e la guerra fu utilizzata per risolvere i contrasti. In tutti i Paesi gli operai si opposero alla borghesia, e le tensioni interne interagirono con la politica estera: fu la prima guerra mondiale (1914-1918). 1.3.2 1914-1991 Nella prima guerra mondiale crollarono i riferimenti dell’ordine ottocentesco, ma dopo affiorò una nuova realtà novecentesca: il mondo della massa. Il sistema del 1815-1914 con al centro la sterlina si dissolse, lasciando posto al bipolarismo Usa-Urss. Tra il 1920 e il 1939 il regime democratico-parlamentare sparì dall’Europa: in Germania e in Italia presero potere il fascismo e il nazismo; nell’URSS si installò la dittatura di Stalin e nel 1938 solo la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, la Svizzera, l’Olanda, l’Eire e i quattro paesi scandinavi erano democrazie parlamentari. Nasce in questo periodo lo stato sociale: il riconoscimento dei diritti e della sicurezza sociale fu un’altra caratteristica novecentesca. Le relazioni tra l’Urss e gli Usa scandirono tutte le fasi attraversate dal sistema politico internazionale: guerra fredda, coesistenza Pagina di 5 35 pacifica e scomparsa dell’Urss. Negli anni di metà secolo c’è stata la fine del colonialismo e l’indipendenza dell’Africa, Asia, America Latina. 1.3.3 Tra due secoli Per interpretare il passaggio da 20esimo a 21esimo ci sono due modi: • una che guarda al passato ed ai fenomeni che hanno segnato il secolo breve, cioè 1989-1991; • l’altra che guarda al futuro, in cui lo storico riflette sugli stessi fenomeni per trarne una previsione degli eventi del 21esimo secolo. Quando finì la guerra fredda gli storici si chiesero quale forma aveva preso l’assetto geopolitico a seconda dei conflitti: tutti i più radicali cambiamenti delle relazioni internazionali sono stati preceduti da guerre concluse con una pace che creava un nuovo sistema. Ad ogni pace è seguito l’allargamento della dimensione territoriale del sistema politico internazionale. Gli accordi del 1815 diedero all’Europa un ordine stabile: non ci fu guerra per quarant’anni e passò un secolo prima che il nuovo conflitto cancellasse il Congresso di Vienna. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti realizzarono due intese principali: ✦ una con l’Unione Sovietica che sfociò nella guerra fredda; ✦ l’altra tra le nazioni industriali dell’Occidente e il Giappone. La guerra fredda deteriorò le relazioni con l’Urss e dal 1947 fu decisiva per definire l’intervento degli Usa nella sicurezza europea. L’identità europea cominciò allora a definirsi con la consapevolezza della stupidità della guerra, e l’idea di un’Europa unita trovò sfogo nella Dichiarazione Universale dei Diritti Dell’Uomo, adottata dall’ONU nel 1948. Dopo il 1989, i vincitori non si sono resi conto della fine della guerra fredda, e gli analisti della Casa Bianca non sono riusciti a capire come si sarebbe rifondato il sistema politico internazionale. Si pensava che, fuori combattimento la Russia, le uniche insidie alla leadership degli USA provenissero dall’Europa. Ma nessuno scenario si realizzò, ed è la prima volta che ad un conflitto internazionale non successe un nuovo ordine. Il mondo in questi ultimi dieci anni è catastrofico, e alla fine dell’elenco c’è una data: l’11 settembre 2001. 
 1.3.4. Dopo l’undici settembre Lo storico riflette con un avvenimento così importante sulla capacità di un evento di essere una data periodizzante. L’11 settembre è una svolta, ma non epocale, infatti è solo il punto di arrivo di processi più antichi e fu la rivelazione dell’incapacità di trovare una stabilità degli equilibri internazionali dalla fine della guerra fredda. In teoria dopo la scomparsa dell’Urss, gli Usa non temevano confronti, ma rimasti soli sulla scena si sono convinti di controllare il disordine con l’intervento dell’esercito e questa scelta è stata devastante. Nessuno era preparato alla fine della guerra fredda e ai cambiamenti del 900. 1.3.5 La rivincita di Utopia Il pensiero politico classico sosteneva che l’uomo era portato all’armonia, che però si è dissolta nella modernità. La guerra non è stata più del singolo, ma dello Stato contro Stato. Dopo il Rinascimento contro lo Stato c’è stata l’Utopia; con la fine del 900 il declino dello Stato nazionale sembra segnare la rivincita di Utopia, e la successione delle rivoluzioni tecnologiche è stata lo strumento principale per la sua creazione: è il cyberspazio che unifica il pianeta, e il sogno degli utopisti si è avverato per eccesso. Ma tra la nostra Utopia e le altre le differenze sono enormi: non si era mai preso in considerazione che sarebbe stato il mercato a realizzare questo ideale e che sarebbe Pagina di 6 35 stato il mercato il successo degli Stati Uniti. L’unico paese che merita il nome di società globale sono gli USA , poiché vera società comunicante. L’Utopia si realizza in questo modo con il naturale dominio degli Usa. 1.3.6 Il migliore dei mondi possibili? La realizzazione di Utopia comporterebbe che questo sia il mondo migliore, ma è così? Sulla terra vivono 6 miliardi di persone, ed 1 miliardo soffre la fame. Gli Usa sono senza regole, ed hanno rifiutato di affidarsi all’Onu, puntando solo sulla forza militare e affidandosi alla “mano invisibile” del mercato integrato, sui cui esercitano un controllo totale, distruggendo le speranze della pace di Westfalia del 1648 e rilanciate dalla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo nel 1948. Gli Stati Uniti hanno scelto di governare con le armi, ma forse è un “militarismo teatrale”, poiché non potendo padroneggiare le vere potenze, l’America alimenta un’azione militare incessante contro le non potenze incapaci di difendersi. Questa nuova guerra diventa possibile solo come manifestazione della “confessione del mercato”, che non può tollerare grumi territoriali: i nemici e gli amici vengono individuati in relazione a chi accetta o rifiuta un sistema ideologico ed economico. Lo scopo della guerra è l’annientamento del nemico: non è più un simmetrico esercizio di azioni e reazioni tra due contendenti alla pari, ma una guerra a senso unico con la possibilità di un conflitto asimmetrico ed irrazionale. La guerra globalizzata nata per combattere il terrorismo lo trasforma in una condizione permanete. 2) IL SOGGETTO: GLI STORICI La storia è globale e di massa, ma chi sono gli storici di questo mondo? I vari tipi di storico sono distinguibili per il rapporto che intrattengono con lo spazio e con il tempo, le due coordinate che ci consentono di definire la soggettività dello storico, partendo dai ruoli e dalle funzioni che ha dovuto interpretare. ➡ Prima ci fu lo “storico-vampiro”, tra 800 e 900, guidato da un sentimento sepolcrale del passato. Di fronte ai timori dell’accelerazione del tempo, lo storico vampiro si aggrappò al positivismo, nel tentativo di congelare il passato. ➡ Dopo la prima guerra mondiale ci fu lo “storico-cerusico”, con un sentimento sperimentale del passato; erano crollate le certezze del’800 (marxismo, positivismo, storicismo), e con l’irruzione degli Annales nello statuto scientifico alla linearità del tempo del progresso si sostituì la durata e nello spazio fece irruzione il paesaggio. ➡ Post seconda guerra mondiale ci fu lo “storico-cacciatore”, con un sentimento differenziale del passato, che utilizzava i metodi quantitativi e le tecniche d’indagine mentale. Il tempo dello storico coincide ora con l’evento mediatico. ➡ Fine 900, lo “storico-antropofago”, con un sentimento esotico del passato, e “storico” adesso è tutto quello che fa parte di un’epoca diversa da quella in cui si vive, in un altrove estraneo ma conosciuto. ➡ Poi fu la volta dello “storico-antiquario”, che si interessa ai fatti storici senza essere interessato alla storia e per cui ogni particolare del passato è ugualmente importante.
 Si è insistito anche sull’idea di somiglianza tra il mestiere dello storico e il lavoro dell’investigatore-giudice, che utilizzando tracce ed indizi prova ad avvicinarsi alla realtà di ciò che è accaduto. • il giudice è pronto a condannare il male ed a esultare per il bene, convinto di avere una scala di valori adatta per tutte le epoche; Pagina di 7 35 della storia è implicito nella stessa disciplina. Fin dall’antica Grecia, gli storici sono stati coinvolti nella gestione dello Stato e nel potere politico, rapporto che ha incoraggiato gli storici a scrivere la storia gradita alle classi dominanti. Non c’è dubbio che il “fare storia” nell’accezione moderna del termine si costruisce come una disciplina autonoma tra il 16esimo e il 18esimo secolo, grazie a quelli storiografi che operarono a stretto contatto con il potere politico. 3.3 La grande arena mediatica Tra gli anni 20 e 30 del 900 si creò una gigantesca arena nella quale confluirono i mezzi di comunicazione di massa: le arti, la letteratura; luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti, gli spazi urbani, istituzioni; le aziende e altri soggetti economico-finanziari, tutti pronti a fornire una lettura della storia a partire dalla memoria del gruppo rispettivo. In quell’arena entrarono figure inedite di storico (storico-consulente, o lo storico su commissione), che coniugarono la conoscenza del passato con le esigenze del mercato. La storia accademica fu così condizionata delle richieste della società e del mercato. 3.4 Il supermarket della storia Nel 900 le sollecitazioni che vengono dalla politica sono segnate dal volere utilizzare le immagini del passato per influenzare i contemporanei, poiché molto efficaci. Tra tutte queste immagini, il peso più rilevante lo hanno quelle diffuse dalla televisione. La grandezza del pubblico dei media è inedita; e se i vecchi centri di potere che controllavano il sapere storico potevano essere agenti di storia, la televisione ha costruito una comunità illimitata. Un processo di simile grandezza non può essere controllato dall’alto e da un unico centro di potere; è impossibile costruire per i media statuti granitici come quelli che in passato erano collegati allo Stato, alla Chiesa, al Partito: erano questi prima gli agenti di storia che imponevano il loro potere sulle fonti e sulle tesi interpretative. C’è la possibilità che si avvii un processo di complessiva democratizzazione della diffusione della conoscenza storica. 3.5. La storia dei quotidiani Le modalità dei media per la costruzione dei discorsi storici vanno confrontate da un lato con quelle impiegate dallo “storico narratore”, con il quale quei discorsi concorrono con la trasmissione del sapere storico; e dall’altro con quelle degli altri agenti di storia; che nel mondo della politica hanno lasciato il segno nell’uso pubblico della storia. I media che si sono sostituiti ai soggetti forti del passato sono deboli, ma è questa loro debolezza che li rende funzionali ad una visione revisionista della storia. Coniugato con i media, il revisionismo storiografico insegue obiettivi immediati e politici, per modellare le priorità della trasmissione della conoscenza storica. Nel 1988, quando in Germania scoppiò il caso Jenninger, anche i giornali italiani furono coinvolti in quelle polemiche, e da una prima reazione (i tedeschi sono tutti razzisti e Jenninger è il loro rappresentante), si rimbalzò ad una seconda, opposta all’altra, ma comunque lontana dalla realtà. 
 Da allora i casi giornalistici sono aumentati, come la pubblicazione dei taccuini di Pavese, che scatenò un dibattito tra chi la considera lo scrittore un traditore e chi approfittava del caso per denunciare l’inconsistenza politica e l’esiguità numerica dell’antifascismo.
 La stessa cosa successe alla pubblicazione da parte di “Panorama”, della lettera di Bobbio a Mussolini, il cui clamore non aggiunse niente alle acquisizioni storiografiche. Pagina di 10 35 Prendiamo in considerazione il rapporto tra le tesi storiografiche e il modo in cui esse affiorano sulle pagine dei nostri quotidiani nel caso italiano. Il discorso si limita ai giornali, lo scenario storico di riferimento è quello dell’ultimo decennio del 900 che in Italia coincide con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. In precedenza, con la democrazia parlamentare, la memoria storica collettiva era all’interno della forma partito: soprattutto negli anni settanta, questo intreccio si era affermato con una forza dirompente. Con la crisi dei partiti della prima repubblica e svincolato dall’esigenza di produrre i “monumenti” per i partiti politici, l’uso pubblico della storia ha prodotto una sorta di liberalizzazione del mercato della memoria. I casi giornalistici all’inizio del decennio sono sempre più frequenti, così che alla fine hanno assunto le proporzioni di una valanga impossibile da censire. Esempio Porzus, riemerso dopo tanto tempo senza nessuna nuova documentazione; per far comparire l’evento sul Corriere della Sera dell’agosto 1997, bastò la presentazione al Festival di Venezia di un film che ricostruiva l’intera vicenda. Il giornale pubblicò tantissimi articoli che culminarono nell’accusa a Togliatti. Il mondo autoreferenziale del giornalismo sembrava ingoiare la storia, ritenendo fatti storici solo quelli che venivano dal suo interno. 3.6 Revisionismo e progetti politici Quella dei quotidiani sembra un’altra storia rispetto a quella del reale, il vero problema è quello della congruenza tra i metodi e i fini di uno specifico discorso storiografico. Alla pedagogia autoritaria dei vecchi partiti e dei grandi agenti di storia del passato si sostituisce l’obiettivo di incidere sul senso comune attraverso la revisione del giudizio sugli eventi storici recenti. I giornali quotidiani sono nuovi agenti di storia. Ricordiamo inoltre che fino agli anni ’80 la Repubblica, il Corriere della Sera e la Stampa avevano una loro identità storiografica, che non riuscì a resistere alle tensioni politiche degli anni 80. Interessante è il caso del Corriere della Sera che dimostra un approccio storiografico con una valenza politica capace di declinare in modo originale l’uso pubblico della storia. Per gli articoli pubblicati nel 1997 riguardo al caso Porzus, il loro tratto riconoscibile fu quello dell’enfasi nei titoli e negli articoli, nell’inseguire il nuovo. Si trattava in realtà di un artificio retorico che si affidava esclusivamente alla ripetitività del “nuovo”, in una categoria onnicomprensiva. A tutti gli interrogativi strampalati, il “Corriere della Sera” si rispondeva da solo, e così la questione si sviluppava e si autoalimentava. Le pagine culturali del Corriere ospitavano anche altri contribuiti, ma per tutto il 1997 sono stati apporti secondari. Quello che emergeva chiaramente era una lettura del passato per singoli brandelli di storia, decontestualizzati, utilizzati a seconda del momento. 3.7 Tra prima e seconda repubblica Proviamo a capire chi erano i bersagli della polemica revisionista così come si è snodata giorno per giorno nel 1997 sul Corriere della Sera. Emerge un filo che lega le affermazioni grottesche con le posizioni mediate, improntato ad una visione parentetica della storia d’Italia. Per fermare il tempo all’Italia giolittiana c’è sempre stato un risvolto di attualità, legato a come è stato sottolineato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Ci si confronta con quella fase politica che aveva l’esigenza di fondare un nuovo ordine che trovasse la sua legittimazione storica nella lettura revisionata del passato più recente, una lettura per la delegittimazione degli “uominI”, dei “partiti” e dei “paradigmi identitari” della prima repubblica. Il progetto per la “sostituzione degli uomini” erano emerso nella polemica dell’azionismo. La posta in gioco era la leadership corporativa degli intellettuali, unita con la resa dei conti giornalistica tra Corriere della Sera e Repubblica. È lungo Pagina di 11 35 questo percorso che l’intransigenza del PdA è diventata secondo Loggia “un modo riuscito di coprire l’assenza di una vera e propria politica, e sopratutto: Si trattava del tentativo di creare l’ideologie di un elitismo cetuale: quello di molti intellettuali italiani, nemici, in nome della propria tradizione culturale e della tutela del proprio status, dei medesimi processi di organizzazione e di mobilitazione politica a sfondo piccolo borghese, demagogico-professionistico, comuni tanto al regime fascista quanto a quello parlamentare. All’immagine della piovra gramsciazionista che aveva messo i suoi uomini nei posti chiave dell’editoria, dei giornali, dell’università, dei mezzi di comunicazione; si contrapponeva così un organico tentativo di riprodurre un assetto egemonico altrettanto articolato che potesse costituirsi come ambito culturale privilegiato per la costruzione di una nuova classe dirigente. Era un’esplicita rivendicazione di potere. Dalla sostituzione degli uomini a quella dei partiti. Questa seconda parte del progetto politico del revisionismo si è nutrita di una battaglia a tutto campo contro quella che fu definitiva la “tara genetica partitocratica” della prima repubblica. La polemica contro la partitocrazia è stato un contenitore dentro cui sono stati selezionati, però, bersagli più mirati e riconoscibili. In assoluto, fra tutti i partiti della prima repubblica, è stato il PCI a essere il maggiore imputato, mentre un silenzio molto eloquente ha circondato l’intera vicenda democristiana. Il ruolo del comunisti nella storia d’Italia è stato il tema ricorrente delle pagine culturali del “Corriere della Sera”, in una sorta di pulsione accusatoria. Il vero peccato dell’antifascismo consisterebbe nella lotta contro le radici, contro la tradizione italiana, nella sua carica dissolutiva delle aggregazioni fondamentali di patria e famiglia.
 Questo è il punto, ed è stato qui che il revisionismo di fase, quello espresso dai giornali nel vivo della transizione italiana, ha intercettato la corrente del revisionismo storiografico, scaturita dalle macerie dello stato e della politica novecentesca e nata dall’intento di liquidare in tutto l’Occidente l’eredità della cultura rivoluzionaria consolidatasi nel ciclo storico che dal 1789 conduce al 1917. La carica dell’artificialismo politico risulta oggi ingombrante e rigida per una seconda repubblica che si vuole fondare sul trionfo delle appartenenze naturalistiche e sulla spontaneità del mercato. Alla “storiografia del disagio” si è portati ad opporre una “storiografia del compiacimento”. È un percorso in cui l’insofferenza per le minoranze si intreccia con l’aspirazione costante, ribadita da De Felice, a farsi “storici della gente”, identificando i proprio nemici in un ceto intellettuale. I revisionisti italiani si sono proposti di parlare in nome di questo popolo, assecondandone umori, comportamenti, pulsioni. È un intento che è affiorato nei loro stessi percorsi metodologici segnati dall’eliminazione di ogni filtro teorico, da una storia che spesso è scritta “a livello delle fonti”, come pura parafrasi dei documenti. Non più quindi lo storico che si identifica in una scuola o in un partito, ma lo storico che - attraverso i giornali - si rivolge direttamente alla gente, senza mediazioni. Il revisionismo va incontro alla domanda del pubblico ed è preoccupato solo dall’immediata attualità che garantisce il consumo dei suoi prodotti, concepisce la storia dal punto di vista della sua fine, di un presente assoluto in cui il rapporto con il passato è piegato alle leggi dello spettacolo. 3.8 I ragazzi di Salò Esemplare è la vicenda di Gianpaolo Pansa, il cui ultimo libro, Il sangue dei vinti, ha avuto uno straordinario successo. Pansa descrive le violenze commesse dagli antifascisti dopo il 25 aprile 1945, in un viaggio dell’orrore. Molti fascisti che andarono a Salò a cercare “la Pagina di 12 35 Particolarmente significativo è il lavoro di Renzo De Felice. De Felice si presta benissimo a esemplificare la circolarità esistente tra gli ambiti della storiografia accademica e quelli dell'uso pubblico della storia. Egli ha cercato soprattutto di identificare i propri nemici sul piano politico e storiografico: i primi erano i comunisti e gli azionisti; molto più nebulosi erano i contorni dei secondi. Il suo bersaglio polemico era infatti una vulgata storiografica sempre citata ma mai definita nei suoi elementi costitutivi: percorsi di ricerca, modelli narrativi, ipotesi interpretative, approcci metodologici, criteri di uso delle fonti. Con imbarazzante disinvoltura su quella vulgata si scaricava così un insieme di accuse e di rimproveri. Per lottare contro questo groviglio di posizioni contraddittorie De Felice si proponeva di “emancipare la storia dall’ideologia e di scindere le ragioni della verità storica dalle esigenze della ragion politica” e, sul piano storiografico, di affrontare la crisi italiana indotta dalla Resistenza dalla guerra civile studiando soprattutto la condizione umana di quegli anni. I risultati di questo progetto di ricerca sono stati però francamente deludenti. Lo studio della condizione umana era confinato nella dichiarazione di intenti iniziale; per il resto il libro inseguiva obiettivi di tutt'altra natura. Nella sua foga dissacratoria, De Felice aveva in pratica azzerato l'intero dibattito storiografico che sulla Resistenza che si era sviluppato dall'inizio degli anni 80. Nel libro c'erano soltanto due riferimenti al vissuto degli italiani: il primo relativo alla strategia della sopravvivenza che ne segnò allora i progetti esistenziali; il secondo alla solidarietà contadina manifestata, dopo l'8 settembre, nei confronti dei soldati sbandati. De Felice si era preoccupato di rendere riconoscibili sul piano storiografico le proprie tesi. Tutto sembrava più approssimativo e confuso, sostenuto da una sorta di arroganza intellettuale. È come se, nell'Italia del 1995, De Felice si fosse sentito in sintonia con quella congiuntura politica e con il clima intellettuale che ne è derivato. Era andato così progressivamente elaborando una storiografia della normalizzazione assolutamente funzionale a un discorso strategico ancora oggi egemone sul piano politico. Aveva rotto gli indugi in direzione di una esplicita rottura in quelle che tradizionalmente sono state le coordinate in cui si è sviluppato il rapporto tra gli storici di mestiere e l'uso pubblico della storia. È precisamente con questo “storico della gente” che il nostro “storico narratore” deve competere nell'arena dell’uso pubblico della storia. E la strada con cui può riaffermare la propria diversità - se non la propria superiorità - è quella del ritorno alle fonti, con l'accentuazione del ruolo strategico delle prove. Lo “storico narratore” non può assumersi altro compito che quello di “ liberare la società dai miti che essa stessa ha creato”, di ridurre “ lo iato tra la coscienza storica della società e la scienza storica professionale”. Ci vogliono per questo gli “storici iconoclasti”, che insegnano la storia attraverso la Sacra Scrittura. Una storia non più esaltazione di un passato congeniale agli equilibri politici di fase, ma analisi e “ricostruzione dei rapporti fra uomini che vivono, amano e odiano, lavorando, sognando e fantasticando, lottano e riposano”, una concezione della ricerca “non implicata nella gestione del potere, in qualche modo disinteressata, anziché tende a demitizzare perfino a dissacrare le oleografie dei potenti e le loro invisibili strutture”. 4. LE FONTI 4.1 Nuove fonti, nuovi bisogni Per lo storico le fonti nascono dalle domande e dalle inquietudini del suo tempo. Ogni epoca si dà le fonti necessarie ai propri bisogni, e a seconda del progetto e dell’epoca in Pagina di 15 35 cui vive, lo storico sceglie di conseguenza le fonti. Il confronto con le fonti è l’essenza della conoscenza storica: l’oggetto della conoscenza storica è una realtà che non esiste già, non è conoscibile direttamente ma solo attraverso la mediazione delle fonti. Ma la nostra storia è solo quella che conosciamo. La nostra è l’età del cambiamento, e perciò bisogna confrontarsi con i comportamenti di miliardi di uomini. La vastità di questo oggetto ci porta ad una prima caratteristica delle fonti: si tratta di un corpus documentari variegati e qualitativamente molto eterogenei che gli storici hanno cominciato ad utilizzare allontanandosi dalle vecchie forme di documentazione. La nuova storia è caratterizzata da questa capacità illimitata di utilizzare materiali e fonti nuove. 4.2 La tradizionale critica delle fonti Ma un secolo fa, nel positivismo ottocentesco, l’obiettivo era la scoperta di fatti nuovi e l’eliminazione del terrore attraverso l’esercizio della critica delle fonti; le tracce prese in considerazione erano essenzialmente oggetti materiali, che erano considerate come qualcosa di già formato. La fase dell’ordinamento del materiale si esauriva nell’accumulazione delle fonti: dopo la raccolta dei fatti, la ricerca delle cause. Sembrava che fosse possibile per lo storico disporre di tutta la documentazione, ma non era così. Altra caratteristica della ricerca positivista era la critica delle fonti come verifica dell’autenticità, volta a determinare se quel documento era veramente quello che veniva ritenuto; e una verifica dell’esattezza, per verificare se era esatto al momento della sua confezione. Il lato positivo di questo metodo era che concentrandosi sull’ordinamento critico dei materiali e rinunciando alla soggettività dello storico, i positivisti finirono per creare metodi raffinatissimi di ricerca e di critica delle fonti, ma la storia così concepita non veniva scritta a livello delle fonti, ma dal punto di vista dei contemporanei.
 Si trattava quindi di una netta subordinazione al passato, evidenziata dalla classica distinzione tra monumento e documento, le uniche fonti dei positivisti: il primo era caratterizzato dall’intento di far ricordare e di sfidare il futuro; il documento era una testimonianza scritta e veniva considerato come una prova obiettiva del passato e fondamento del fatto storico. Lo storico era vincolato da due scelte: la prima era quella di chi aveva selezionato il documento da tramandare; la seconda operata nel presente e che comporta l’obbligo di cercare nelle fonti soltanto le prove per la costruzione di grandi avvenimenti o di quelli resi tali dall’abbondanza della documentazione. 4.3 La storia come “conoscenza degli uomini” Nel culto dell’oggettività era insito il rischio di ridurre la ricerca storica ad una continua caccia al falso e all’errore, restringendo drasticamente gli argomenti e i temi dei propri studi a quei pochi ambiti in cui la verità poteva essere certificata. Sembrava che la storia non potesse essere nient’altro che una professione artigiana specialistica, con gli “storici vampiri” destinati ad annegare in un oceano di fatti accatastati l’uno sull’altro. Ma già negli anni 30 questo atteggiamento di passività nei confronti delle fonti cominciò ad incrinarsi. L’assenza di documenti non venne più vista come un ostacolo, ma come uno stimolo per lo storico-cerusico: rompendo l’equazione documento=fonte, alla storia si indicò come campo delle sue ricerche un territorio vastissimo: tutto era fonte (lingua, segni, paesaggi ecc). La rottura tra la storia positivista “scienza del passato” e la nuova visione della storia come “conoscenza degli uomini” determinò la nuova importanza dello sforzo intellettuale e personale dello storico. Cambiava il rapporto dello storico sia con il passato che con le fonti; la tradizionale critica delle fonti era ancora utile per stabilire la falsificazione del documento, ma per il resto era del tutto insufficiente. La validità delle fonti derivava adesso dalla capacità dello storico di Pagina di 16 35 saperle interrogare. Ricoeur in questo senso passa dalla parola fonte alla parola testimonianza, proprio per inserirle nel nuovo contesto di soggettività dello storico. Ma in qualsiasi modo le si vogliano chiamare, prima però lo storico orco farebbe bene a confrontarsi con le rovine che favoriscono nello storico il sorgere di un prerequisito indispensabile alla ricerca, cioè il senso del tempo puro. Il tempo puro è un tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrigli una fugace intuizione; per lo storico è come se la consolazione di quelle rovine che hanno ormai smarrito ogni tipo di funzionalità utilitaristica lo aiutino a recuperare un senso del tempo indispensabile per il suo mestiere. 4.4 La “nuova storia” Ogni documento è monumento: non esiste un documento oggettivo, perché è sempre il risultato dello sforzo della società di imporre al futuro un’immagine di sé stessa. La storia oggi ha cambiato posizione nel confronto del documento: il compito principale non è l’interpretazione, ma l’elaborazione. Per la storia il documento non è più una materia inerte, e lo storico viene chiamato a costruire le sue nuovi fonti: è questa la “nuova storia” in cui, più che ad una sistematica teoria delle fonti, gli storici appaiono oggi vincolati esclusivamente alla congruenza tra l’oggetto-argomento delle proprie ricerche e le fonti, selezionata sulla base della funzionalità relativa al programma di studi. C’è un taglio netto con l’800: finita l’epoca della certezza, nella nuova classificazione delle fonti ciò che conta è il grado di adesione all’evento, cioè il rapporto con il fatto originario. 4.5. La concezione dinamica delle fonti Si passa ad una “concezione dinamica delle fonti”, intesa come conoscenza storica che crea il passato attraverso l’uso di ipotesi che consentono alla storico di interagire con un tempo che non c’è più, dandoli vita partendo dalla propria coscienza e sensibilità: lo storico mette in campo la propria persona fin dall’inizio della ricerca, così da creare le fonti nel vivo del processo conoscitivo. La vera innovazione è da ricercarsi nella novità della ricerca fondata non più sul binomio tradizionale storico-fonte, ma sul nuovo trinomio storico-fonte-rapporto tra i due. Questa concezione dinamica segna il superamento dell’oggettivismo del positivismo e del soggettivismo dell’idealismo, ma è molto importante che alle fonti sia garantita una presenza forte: lo storico deve ascoltare l’oggetto della sua ricerca. A una fonte forte deve corrispondere un’interrogazione altrettanto forte, perché uno storico incapace di padroneggiare le proprie fonti difficilmente riuscirà a stabilire quella relazione che alimenterà il suo lavoro. 4.6 L’interdisciplinarità Prima il concetto di interdisciplinarità era inteso come uno rapporto di scambio che lasciava però intatti i rispettivi statuti disciplinari protagonisti; adesso però si devono rompere i compartimenti stagni tra i vari saperi, in una pratica che utilizzi la capacità delle altre discipline di contribuire all’elaborazione del questionario con cui si prepararono le domande da rivolgere alle fonti. 4.7 La rivoluzione quantitativa L’ingresso dell’informazione e delle reti nei processi di costruzione delle fonti ha messo in discussione la distinzione tra strumenti tecnici, ritenuti neutri rispetto ai contenuti, ed i contenuti stessi. Intanto, l’illusione positivista di raccogliere tutti i documenti è crollata, e adesso si presenta il problema opposto rispetto agli storici che scarseggiavano di fonti: la sensazione di una incompiutezza della ricerca dovuta alla sovrabbondanza del materiale Pagina di 17 35 Ma solo il confronto con le altre fonti e documenti e la corretta ricostruzione di ciò che ha portato alla loro realizzazione rendono utilizzabili le immagini come fonti. Da qui la grande importanza attribuita alla mediazione dei percorsi interdisciplinari, in particolare quelli della semiologia e dell’iconologia. L’opera d’arte va indagata sia nella sua realizzazione sia nel suo contenuto. Gli esempi di ricerche fondate sulle immagini si sono moltiplicati, arrivando a toccare anche temi come la nascita e la morte, poi lo Stato e il lavoro. 5) I CORPI DEL NOVECENTO 5.1. Biologia e storia I corpi che ci restituiscono le immagini sono corpi rappresentati, ma ci avvicinano ai corpi veri che sono la preda degli storici-orchi. Si tratta di un corpo storico dai contorni diversi da quelli del corpo biologico. È un corpo medium, che esiste nella sua capacità di relazionarsi con l’esterno. Prima del 900 le immagini di persone morte erano un antidoto pacifista, ma andando oltre al 900 le stesse immagini producono solo assuefazione. L’uomo dei consumi divora la morte, e l’unica alternativa all’apatia sembra essere l’odio. Ma allora serve mostrare quelle fotografie? Forse sì. I corpi dei nemici uccisi sono documenti, non di sé stessi, ma dei profili e della visione dei loro aguzzini, diventando in questo senso documenti e fonti. ✦ Esiste una collezione di 6.000 fotografie scattate tra il 1975 e il 1979 in una prigione cambogiana dove vennero sterminati 14mila rivoluzionari, tutti ripresi prima della morte. Emerge un’incontrollabile pulsione burocratica dei regimi totalitari di schedare e controllare i proprio nemici anche da morti. ✦ Le foto dei cadaveri dei figli maschi di Saddam lasciano affiorare anche un pregiudizio razziale permanente nel modo in cui l’uomo bianco si è rapportato con l’uomo nero. ✦ In un’altra collezione di foto sono ritratti i neri vittime di linciaggio in alcune cittadine degli Stati Uniti, tra gli anni 90 del 19 secolo e gli anni 30 del 20esimo; le foto sono scattate come souvenir. ✦ Ma i corpi-documenti appartengono anche a contesti vicino a noi: i familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine spiavano nei corpi dei loro cari le tracce dei loro ultimi giorni, per capire cosa fosse accaduto. 5.3 La guerra civile Lo storico orco non deve più chiedere l’aiuto del medico per interrogare i corpi, perché ci hanno già pensato i carnefici a trasportarli nel suo laboratorio. Nelle guerre civili è implicito un eccesso di orrore ingiustificato: perché ci si uccida tra connazionali non basta dichiararsi nemici, ma occorre negare la condizione umana, rendendo l’altro animale. È questa ferocia la causa della rimozione della guerra civile dalla memoria collettiva. La prima morte appartiene alla guerra, la seconda alla guerra civile come fu inventata dai fascisti. Il passaggio dalla morte celata a quella esibita fu traumatico, poiché riaffiorava la retorica razzista dei morti che aprono la marcia delle legioni vittoriose, ma non è solo questo. Ma allora perché quelle pubbliche esposizioni di cadaveri? Da un lato, si trattava di assecondare il tentativo di rescindere ogni legame tra residenti e popolazione civile, dall’altro di lasciar affiorare le pulsioni soggettive dei carnefici. I cadaveri degli uccisi Pagina di 20 35 devono restare evidenti, visibili agli uccisori e non solo al popolo, perché servono agli uccisori come monito e conferma della propria potenza. Il tentativo della RSI di dotarsi di una propria forza armata autonoma si era arenato. I tedeschi si erano affermati come l’unico potere reale sul territorio italiano, e si scelse di trasferire sui corpi dei nemici uccisi l’unico fondamento della propria credibilità istituzionale e della propria autorità statuale. La legittimazione della RSI veniva costruita con i corpi esibiti dei nemici uccisi. 5.4 Il corpo del duce Il Duce venne ucciso due volte: la prima in effigie e la seconda a piazzale Loreto. Le mille rappresentazioni che egli diede di sé stesso sono le tracce del culto della personalità patetico e grottesco. Al potere Mussolini prestò la sua voce, volto e corpo. I dati quantitativi utilizzati per illustrare la sua attività da statista e il ricorso alle metafore meccaniche sono l’inizio di un processo alla fine del quale il duce avrebbe preso il sopravvento sull’uomo. 5.5 La guerra dei corpi Per spiegare l’evento di Piazzale Loreto bisogna usare un prima, un durante e un dopo. (d) Il prima era legato alla passione e alla fede addensate su quel corpo nei 20 anni di regime. Oggetto di culto direttamente nella sua fisicità, il corpo del Duce divenne oggetto di disprezzo ancora direttamente nella sua fisicità. (e) Il durante ha come primo elemento l'applicazione della legge del taglione (tipica della guerra civile): si trattava essenzialmente di vendicare i 15 partigiani fucilati e mostrati a piazzale Loreto il 15 agosto 1944. (f) A questi comportamenti dell'Italia antifascista si intrecciano altri percorsi che appartengono contemporaneamente a molte altre “Italia”: l’Italia profonda della zona grigia, l'Italia fascista, l'Italia contadina e rurale, l'Italia delle minoranze eroiche del partito d’azione, l'Italia dei comunisti. (g) Il dopo coincide con la storia del corpo morto, che prende spunto dalla narrazione del trafugamento della salma di Mussolini nel 1946 e dalle vicende che ne seguirono. Ci fu una vera e propria guerra dei corpi in quel lontano dopoguerra italiano. Per raccontarla è necessario introdurre la figura di Nicola Grosa, partigiano, che a partire dalla metà degli anni 50 cominciò a ricomporre i cadaveri dei suoi compagni caduti nella lotta di resistenza. Complessivamente recuperò 900 salme, ricomposte nel Campo della Gloria a Torino. Erano ormai passati più di vent'anni dalla fine della guerra partigiana.
 Nell'Italia degli anni 50 tutto ciò che ricordava la guerra partigiana veniva guardato con sospetto. I corpi dei partigiani recuperati da Nicola alimentavano una memoria separata rispetto a quella ufficiale. Forse solo quel poco di antifascismo che era riuscito a passare nelle istituzioni repubblicane non permise la riabilitazione del Duce. Ritornando alla salma di Mussolini, lo slogan che riempì i cortei nel 1968 “a Piazzale Loreto c'è ancora posto” è solo un grido di sconfitta, che indica la continuità tra fascismo e Italia repubblicana. 5.6. Il corpo e lo Stato Il corpo del Duce ripropone la teoria del potere fondata sulla centralità del corpo del re. Il corpo del Duce e i corpi dei partigiani ripropongono i termini del conflitto e della guerra di corpi a cui appartiene quello che abbiamo definito l’orizzonte biopolitico della modernità. Fu il nuovo nazionalismo con la sua concezione del mondo ad introdurre la violenza come uno degli elementi agenti nella vita democratica, e l’associazione del corpo alla politica fu una delle conseguenze. Da quel momento e per tutto il 900 sarebbe stato impossibile restringere gli ambiti della politica alla dimensione ottocentesca, poiché nella politica sarebbe precipitato direttamente il corpo. È in gioco la ridefinizione della morte: dal 1968 Pagina di 21 35 è stata introdotta la brain death, la morte celebrale, che trasforma la morte in politica ed in un esercizio di potere statuale. Quello incontrato fino ad ora era uno Stato nazionale “ritirato”, a cui ora invece si affida il potere di determinare la vita e la morte. 5.7 Il corpo al lavoro Quanto è avvenuto nella politica si è ripetuto nella produzione. Nel 900 il lavoro si è impadronito dei corpi sani e malati, che hanno trovato negli orrori del lager la loro immagine più rappresentativa. Oggi, quell’immagine alimenta un’interpretazione che vede il campo come il disvelamento definitivo dei meccanismi del gigantismo industriale del 900: l’utilizzo massiccio del lavoro dei detenuti per lo sviluppo della Germania e l’interdipendenza produttiva tra il mondo dei prigionieri e quello dei liberi cittadini sembrano sostenere la tesi che sottolinea il valore emblematico della scritta d’ingresso degli stessi campi: “il lavoro rende liberi”. In realtà il lavoro del campo era fine a sé stesso: agli aguzzini non importava che i detenuti lavorassero, volevano solo la loro sofferenza. Questi uomini erano prima prigionieri e poi lavoratori; un accidente storico, cioè l’estensione della guerra su scala mondiale, aveva determinato l’assetto produttivo del campo. Ma il lavoro si sovrappose alla struttura intima del campo: quando non c’era più niente da fare si distruggeva il già fatto, e si ricominciava di nuovo. Alla fine il lager è lo scenario sintesi dell’intera vicenda novecentesca: la biopolitica è l’essenza di fondo dello Stato moderno, ed è il lager a rivelarlo. Prima dell’orrore si facevano sparire tracce e documenti e si distruggevano i corpi; ma molti di quei corpi restano, e furono loro a vincere alla fine, trasmettendoci il dovere di non dimenticare mai. 6) LA CRITICA DELLE FONTI 6.1 Ingenuità iniziali Il primo impatto dei media con lo statuto disciplinare iniziò con una scarsa consapevolezza della loro portata innovativa e della necessità di affrontarli con nuovi percorsi metodologici. Erano ancora più riduttive le posizioni dell’insegnamento della storia: si trattava di utilizzare i media per raccontarla con diffidenza, ma mai di utilizzare i media come fonti. 6.2 Entusiasmi e problemi: gli archivi A partire dagli anni 80 del 900, con la nuova storia questo quadro cambiò del tutto. L’assenza di consolidati paradigmi di riferimento obbliga lo storico della contemporaneità ad una cautela e criticità che non consentono alcuna ingenuità metodologica. Archivi e materiali televisivi diventano fonti storiche e depositi di memoria: si tratta di strutture molto costose create dalle emittenti televisive pubbliche e private, ed in questo modo i criteri di scelta di conservazione rispondono alle logiche produttive. Negli ultimi anni si è cercato di favorire la creazione di archivi meno precari ed una spinta è venuta dal mercato, e si sono scoperti documenti dimenticati con il salvataggio sistematico di nuovi documenti. Un lavoro che interessa soprattutto la RAI, poiché la maggior parte dei documenti appartengono alla sua storia. Il problema si è acuito per i programmi radiofonici, ma con la rete web si potrà sopperire alla mancanza della rete di vendita. Anche a livello istituzionale qualcosa sta cambiando: negli Stati Uniti d'America sta nascendo un vero e proprio museo dei suoni. Pagina di 22 35 deve lasciarsi invadere dall'effetto cinema, unendo l’aspetto dello spettatore con il critico storico in un’unica relazione. (esempio film “Il principe e il povero”, che dice molto di più sull'America di Roosevelt che sull'Inghilterra di Enrico VIII). 6.4.5 La televisione La conoscenza del modo in cui tutti i media si costituiscono come documenti è indispensabile, e il loro contesto tecnologico è importante almeno quanto quello dello storico: un’intervista in diretta e un documento sonoro possono essere manipolati, ma un antidoto alla tentazione del falso è la credibilità del programma. I problemi con la televisione derivano dalla sua tecnologia. Solo verso la metà del 900 con il sistema ampex fu possibile la registrazione elettronica su supporto magnetico di immagini e suoni. La televisione opera una sorta di sovraesposizione audiovisiva dei fatti che appartengono alla contemporaneità attribuendo loro un carattere di verità fondato sull’icasticità del medium. Questa distorsione è accompagnata da intenzionali progetti di falsificazione: niente sembra più vero degli eventi raccontati in diretta, eppure anche quelle immagini sono spesso dei falsi (esempi giornalista SKY, pellicano e donna del Kuwait). Guerra e televisione costituiscono un binomio che oscilla tra l'informazione e la menzogna, e da qui la necessità che anche lo storico orco possa utilizzare la storia della televisione per confrontarsi con la manipolazione dei documenti televisivi. Guardiamo 3 esempi (che presentano tutti degli elementi fallaci) studiati da Sorlin in relazione alla guerra del Golfo 1991: ✤ il primo si riferisce alle immagini della popolazione del Dahran, costretta ad indossare maschere antigas; ✤ il secondo riguarda lo stesso evento, e sono immagini di bambini e donne arabe che in una stanza parlano e cantano (perché Saddam vincerà); ✤ il terzo esempio riguarda l’annuncio del lancio di sette missili lanciati dagli iracheni contro Israele. Anche quando non esistono immagini dell’evento raccontato, la televisione può attribuire veridicità all’evento usando immagini virtuali e il repertorio disponibile. 6.5 L’intenzionalità La verifica dell’intenzionalità si compone di due operazioni:
 ‣ si tratta di riconoscere le intenzioni dell’autore, ma anche..
 ‣ far parlare i documenti malgrado se stessi, valorizzandone gli elementi non intenzionali. 6.5.1 La radio La radio fu l’assoluta protagonista del periodo tra le due guerre mondiali, non a caso il suo declino come fonte coincide con l’introduzione della televisione. La radio ripropone una storia con una dimensione del tempo che non è lineare, ma accidentata come quella del ricordo e della memoria, dal sapore evocativo che lo storico deve cogliere.
 Proprio nella radio l’intenzionalità intesa come sfida al futuro per imporre la propria versione è massima nei discorsi radiofonici dei grandi leader politici. 6.5.2 Le fotografie È un percorso comune anche alle fotografie. Quanto più sono pubbliche, ufficiali, destinate alla comunicazione, tanto più la loro intenzionalità è esplicita, dichiarata al punto tale da costituire essa stessa un’informazione a sé stante racchiusa nel documento Pagina di 25 35 fotografico; viceversa, più si caratterizzano in un ambito familiare, più cresce la loro capacità di documentare oggettivamente. Gli intenti celebrativi sono un nemico per l’oggettività dell’evento, pericolo che non si corre nelle foto comuni, di tutti, che corrono meno rischi non solo per l’inadeguatezza dei mezzi tecnici, ma perché l’unica intenzione che ne guida gli autori è quella di garantire nitidezza. Non si tratta quindi solo di distinguere tra sfera pubblica e privata. Ha scritto Sontag: la fotografia è l’unica tra le arti maggiori in cui la formazione professionale e gli anni di esperienza non garantiscono un vantaggio incolmabile su chi è impreparato o inesperto. 6.6 La congruenza con l’oggetto Al centro dell’attenzione dello storico è la mediazione che si stabilisce tra la creazione estetica e l’universo sociale. Ritroviamo quindi l’equivalenza strategica tra mediazione ed interpretazione, alludendo al passaggio da un campo disciplinare all’altro, attraverso la garanzia dello storico che in quel passaggio non deve distorcere alcun significato. 6.7 Agenti di storia Nella nuova critica delle fonti i media vanno valutati per la loro capacità di incidere sui comportamenti collettivi e di determinare gli eventi storici. Esemplare è il caso della radio, che creò i primi eventi mediali. Il 2 luglio 1921 l’incontro di pugilato tra Dempsey e Carpentier fu seguito in diretta da più di 300.000 mila persone; con un trasmissione radiofonica Orson Welles terrorizzò gli Stati Uniti nel 1938; un’uguale reazione di panico fu ottenuta dal radiodramma Maremoto, tramesso dall’emittente francese Radio Paris. Non si tratta solo di eventi ed episodi. Inoltrandosi nel 900, il ruolo dei media come agenti di storia si è enormemente dilatato, ed intervengono direttamente nelle guerre e nella formazione della classe politica. A “ fare gli italiani”, a plasmare gusti, abitudini, comportamenti è poi intervenuto anche il mercato, nella sua capacità di far coincidere i consumi con le identità. Oggi, il grande spazio pubblico della storia nazionale viene definito anche e soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa. Prima la stampa, poi la fotografia, il cinema, la radio, ed infine la televisione e le reti telematiche hanno scandito l'esistenza collettiva degli italiani avviandone una nazionalizzazione tumultuosa, gonfia di umori, di moda e di accensione improvvisa, tuttavia in grado di scardinare tutti i tradizionali riferimenti culturali dell'800. Il caso italiano va sottolineato perché la televisione ha dispiegato interamente la sua potenza di agente di storia, intervenendo nella sfera politica. Dagli anni ’80 la televisione pubblica o privata ha assunto compiti prima esclusivi dello Stato, e si è annullata la distanza tra la politica e vita privata dei cittadini. In questo nuovo rapporto politica- televisione nasce la figura di Silvio Berlusconi. L’impero di Mediaset si presta a rispecchiare i comportamenti dell’Italia. Berlusconi non ha bisogno di costruire consenso: il suo potere politico e televisivo si presenta naturalmente come il riflesso di una società già televisiva, e da qui la grande efficacia della sua proposta nazionale. Berlusconi si riferisce a due forti elementi di aggregazione:
 ‣ l’unificazione del mercato nazionale della forza lavoro degli anni 60;
 ‣ la corsa al benessere degli anni 80.
 Sul ruolo dei media come agenti di storia, ricordare non significa richiamare alla mente una storia, bensì evocare un’immagine. Pagina di 26 35 7) TELEFONI, CAMPI DI CONCENTRAMENTO ED “ETERNA GIOVINEZZA” 7.1 I “telefoni bianchi” Questo termine è stato utilizzato per indicare tutto il cinema del consumo. In anni più recenti tuttavia, strumenti di analisi più efficaci hanno permesso di definire questo concetto con più esattezza: con “telefoni bianchi” si identifica un corpus di film tra il 1938 e il 1943 che evidenzia specifiche caratteristiche all’interno del genere della commedia italiana: la più importante è l’ambientazione in favolosi ed inventati scenari ungheresi, ma anche la rarefazione delle caratteristiche degli interni e l’intreccio basato sui personaggi dell’alta borghesia o aristocrazia. Ricordiamo che, per lo storico, tutti i film sono importanti. Il cinema popolare offre un prodotto accessibile a tutte le classi sociali, efficace nel creare un pubblico allargato ed omogeneo. Pensiamo al “cinema dei telefoni bianchi” usato come fonte per lo studio del fascismo: se usato per una storia politica, non ci servirà, mentre se cambiamo oggetto della ricerca, gli stessi film sono straordinari documenti. Il tentativo del fascismo di produrre un’idea della nazione italiana come una comunità naturale avente origine e destino comune non funzionò, ma a rimodellarne l’esistenza collettiva furono alcuni meccanismi sociali ed istituzionali. Il ruolo del cinema in questo processo fu importantissimo e sottolineò la progressiva espansione del pubblico cinematografico in quel periodo. 7.1.1. Il rispecchiamento Il cinema per la sua diffusione fu in grado di rappresentare la società italiana in due sensi: mettendola in scena; e rispecchiandone i gusti, le tendenze e i comportamenti. Le recensioni cinematografiche su “La Stampa” e “La Gazzetta del Popolo” del 1933-1943 registravano una prevalenza dei film stranieri e dei film del disimpegno, che indicano quanto il fascismo si sia piegato al mercato. La rappresentazione illusoria del benessere voleva enfatizzare il consumismo ed esorcizzare la guerra, ma gli indicatori dei livelli di consumo indicavano la distanza abissale tra le condizioni reali e il sogno del cinema. Più in generale, l’immagine del mondo del lavoro che forniva il cinema fascista non era piramidale, quanto piuttosto un cilindro sottile alle due basi ed enormemente rigonfio al centro. In basso, per esempio, assolutamente trascurabile è il numero degli operai e dei contadini; enorme invece era la subalterità domestica, come autisti, camerieri, segreterie. In alto la presenza rarefatta di figure imprenditoriali. Era la fascia centrale ad essere più popolosa, alla quale il cinema restituiva un protagonismo, come invece non accadeva nella sfera politica e produttiva. Al centro della rappresentazione c’è il piccolo mondo della famiglia italiana, con la struttura patriarcale e l’amore per la madre. Il ménage a trois era un elemento di stabilizzazione, purché tutti rimanessero al proprio posto. 7.2 La vita è bella Film di Roberto Benigni, molto drammatico che sa trasmettere tutta la pena e il dolore dell’Olocausto, ma anche donare ottimismo e speranza. 7.2.1 Il confronto con il passato La vita è bella si può leggere come uno strumento per raccontare la storia se ci confrontiamo con il passato del film; o come fonte per far conoscere la storia, confrontandoci con il presente in cui il film appare. Il film è comunque documento. Il film propone due parti distinte, la prima ambientata in una tranquilla cittadina toscana degli anni 30; la seconda in un lager nazista. Ma non si tratta di un’espediente narrativo, bensì di una straordinaria ricostruzione storica. Nella cittadina la vita è bella, piena di Pagina di 27 35 I risultati della rivolta giovanile si registrano soprattutto nella sfera della cultura e del tempo libero. Fu alla base di questo anticonformismo che i giovani si orientarono verso sinistra, ma la politica è in realtà un aspetto secondario nel complesso delle loro rivendicazioni: l’obiettivo reale era la proclamazione dei sentimenti privati. 
 7.3.5 Gioventù ieri e oggi 
 L’intreccio tra dimensione politica e fermenti generazionali si è proposto con forza in tutto il Novecento, anche prima del ’68. Anche se i suoi aspetti furono inediti, vale la pena soffermarsi anche sui risvolti qualitativi. In questo senso la biografia di Nizan è molto utile. Alla generazioni di militanti di sinistra successive Nizan ha offerto la propria esperienza per studiare le modalità di sviluppo di una scelta orientata verso la totalizzante militanza politica. Nizan rinnega le sue origini borghesi; demistifica e rifiuta il sapere accademico della sua formazione, lasciandosi travolgere dal rancore. Interpreta il suo essere a sinistra come una condizione di estraneità a tutto ciò che rappresenta il potere. La sua adesione al comunismo ha quindi forti valenze prepolitiche.
 Nel movimento del ’68 l’esperienza di Nizan sarà chiamata a confrontarsi con quella di un’altra generazione di militanti politici, che legherà la propria identità collettiva a due elementi specifici: la crucialità del conflitto come ambito della propria legittimazione e la definizione del proprio apparato concettuale esclusivamente sul terreno della pratica. Prima della svolta del dicembre 1969 l’organizzazione politica si definiva esclusivamente come “movimento permanente”. Le contraddizioni potevano essere sciolte solo nell’indeterminabilità del movimento. La definizione di una propria identità compiuta veniva come rinviata ad una sfida al futuro. Ogni stato di equilibro andava destabilizzato, per preservare l’organizzazione dalla sclerosi burocratica e della gestione amministrativa del potere. L’altro aspetto, con l’irruzione della vita quotidiana nella politica, sconvolgeva l’atomismo della società borghese, imponeva una dimensione collettiva che ridefiniva ruoli personali e collocazioni politiche. Far parte del movimento significava agire in prima persona, impegnarsi direttamente; non veniva riconosciuto nessun diritto di parola a chi non era presente. “Sei quello che fai” contrapposto al “sei quello che pensi”, fu lo slogan più efficace del ’68, quello in cui Nizan avrebbe potuto riconoscere la sua eredità più significativa. 7.3.6 Politica e giovinezza Per i giovani del 68 tutto è dilatato nel tempo, ed è proprio questo il punto: sia la concezione politica che l’interpretazione del proprio vissuto confluivano in un unico percorso segnato dalla totale indeterminatezza dell’obiettivo finale. I giovani del 68 non sapevano come dire addio alla loro giovinezza, e sembrano condannati ad un passato che non passa. Anche sul piano politico, non si sa se il 68 ha vinto oppure perso. Hobsbawn ha le idee chiare: il 68 non ha interesse per le vittorie politiche, il suo progetto era il trionfo dell’individuo e ciò si è completamente realizzato. In realtà non si può dire che il 68 abbia perso del tutto nella politica. Tutto questo contribuisce a dare al 68 una persistente attualità, e ai giovani di allora una familiarità con il presente che non dovrebbe esserci data la loro età. Questo mancato distacco fa sì che la generazione del 68 si riconosca oggi per la sua incapacità di rendere conoscibile la sua esperienza. In questo “La meglio gioventù” dimostra la sua efficacia: quel passato eterno viene aiutato a passare; i personaggi del film sembrano non invecchiare mai ma questa eterna giovinezza viene disancorata dei suoi riferimenti narcisistici, per essere raccontata con il distacco necessario per renderla storicizzabile. Pagina di 30 35 8) RACCONTI 8.1 La scuola I media scolastici hanno sconvolto il modo di far conoscenza: in passato le conoscenze dello studente derivavano dalla famiglia e dal luogo in cui viveva; ma la televisione, il cinema e la radio hanno immerso i giovani in un flusso continuo di informazioni, di immagini e di suoni intrecciati con la storia. Ma i media hanno modificato anche la stessa funzione sociale svolta dalla scuola, di cui i tratti fondamentali sono sempre stati determinati dal rapporto con la stampa. L’istituzione scolastica si affermò nell’Inghilterra del XVII secolo a partire dalla moltiplicazione dei volumi a stampa: la scuola fu chiamata a governare la tradizione, tramandando le opere più significative ed eliminando quelle più inutili. Oggi, in un fase in cui la stampa è un segmento minoritario della mole di informazioni che passa dai media, la scuola sembra stia smarrendo questa funzione, così da vedere minacciata la sua stessa esistenza. La televisione può portare gradatamente alla fine della carriera degli insegnanti, poiché la scuola è un’invenzione della stampa e continuerà ad esistere a seconda dell’importanza che avrà la parola stampata. Per secoli gli insegnanti hanno fatto parte del monopolio della conoscenza, e ora assistono al crollo dell’universo della stampa. Non c’è da stupirsi se il rapporto tra i media e la didattica della storia è sempre stato vissuto con diffidenza: i nuovi media venivano vissuti come un nemico; ed era un problema didattico e culturale. Non c'è da stupirsi quindi se il rapporto tra i media e la didattica della storia è sempre stato vissuto con diffidenza: i nuovi media venivano veramente vissuti come un nemico potenzialmente mortale degli insegnanti: i nuovi media hanno spostato il baricentro dalla cultura all'immagine e verso nuove forme di oralità. I media incidono sulla conoscenza, rendendola veloce a complessa; ma proprio questo li rende graditi ai giovani. Il dibattito dell'uso pubblico della storia ha portato al coinvolgimento dei giovani, prima esclusi dalla comunicazione scritta. In questo senso la scuola non può solo accettare la sfida dei media, ma può utilizzarli come una risorsa. Deve essere una scuola che abbia ormai interiorizzato la rivoluzione culturale dei nuovi alfabeti mediatici. 8.2 La lezione di storia L’insegnante di storia deve essere capace di fare sue le funzioni dello storico narratore: la mediazione e la trasmissione del sapere devono avvenire concretamente con gli allievi. Le attività educative sono uno scambio che tutti i giorni si deve condividere per il fatto di fare parte di un preciso contesto. Quando ci furono i primi incontri tra i media e la scuola, i media non si costituirono come agenti di storia, ma come strumenti per la narrazione storica, poiché il modello di narrazione della scuola era forte e la radio e la televisione si adeguarono alle regole. Una didattica radiofonica fu avviata negli anni tra le due guerre mondiali, le emittenti radiofoniche, sopratutto pubbliche, risposero alle esigenze educative dando vita a “programmi seri”, che attirarono diverse critiche; nell’Italia fascista sono note le vicende di Radio Rurale nata per educare secondo i dettami della dottrina fascista. Nel 1942 fu varata Radio Scuola. Queste trasmissioni erano racconti di storia che rimbalzavano sui racconti fatti in classe dall’insegnante. Oggi si parla molto di televisione pedagogica, alludendo alla dimensione politica che la TV assume nei primi decenni di vita Pagina di 31 35 in Italia, quando la sua funzione fu quella di rafforzare i valori e la cultura del potere politico democristiano. Lo sviluppo si divide in 3 fasi: • la prima è quella in cui la tv non ha fatto altro che trasmettere scuola. La scuola trattava la televisione assumendola come tecnologica con cui riprendeva le lezioni scolastiche; • nella seconda fase ricordiamo “Non è mai troppo tardi”; la trasmissione del 1961: la televisione iniziò ad elaborare un linguaggio autonomo; • la terza fase è segnata dall’avvento delle televisioni commerciali e della fine del monopolio statale. La discontinuità fu netta, e cambiò la considerazione del pubblico televisivo, ora potenziale consumatore. 
 Nelle finalità dei media c’è quella di allenare i giovani ad una vigilanza nei confronti di immagini e suoni che la nostra società produce ossessivamente. Non si deve solo favorire la comprensione storica, ma creare consapevolezza critica nei confronti della fruizione dei media, consentire l'acquisizione di capacità in grado di spezzare la passività del rapporto tra il pubblico e gli audiovisivi. 
 8.3 Oltre la scrittura 
 Dal 15esimo secolo la storiografia moderna prese le distanze dall’oralità per creare un legame tra storia e scrittura indissolubile. Questo rapporto però non toccò i vari racconti dell’uso pubblico della storia. Le immagini del cinema e delle fotografie servono alla memoria più delle parole e delle pagine scritte per tracciare una mappa dei propri ricordi. Gli storici hanno sempre ordinato il materiale seguendo le tre tecniche di descrizione, narrazione ed analisi utilizzate per interpretare il passato. Alla descrizione si è attribuita la capacità di evocare il passato, alla narrazione di raccontarlo e spiegarlo attraverso il binomio causa-effetto, ma in realtà il momento della spiegazione è sincronico. Lo storico-orco che vuole sviluppare il racconto attraverso i media dell’occhio e dell’orecchio deve avere la consapevolezza che il passaggio tra forme narrative non è semplice, ma può diventarlo se la scrittura impone la proprio egemonia sui racconti che usano le immagini e i suoni. In alcuni casi però questi rapporti si capovolgono. 
 8.4 La fotografia 
 Le maggiori critiche riguardano il tempo congelato della fotografia e la sua impossibilità di fornire un racconto storico efficace. La fotografia si appiattisce sull’immagine, spezzando il continuum storico. Essa sarebbe quindi subordinata alla parola scritta anche per la sua narrazione: per quanto neutra possa essere una didascalia, è comunque indispensabile per permettere alla foto di farsi capire. In realtà lo storico della contemporaneità ha imparato a convivere con un andamento non diacronico del suo racconto, e questo è l'ambito di maggior originalità della storia fotografica: uno storico è abituato a spiegare un evento utilizzando il prima e il dopo, ma nella foto si tratta di confrontarsi con quello che c’è sotto. È vero che la bambina colpita dal napalm non serve per raccontare la guerra del Vietnam nel suo svolgimento politico-militare, ma lo storico orco divide soggetto e sfondo, e la fotografia racconta la sua storia nascosta. 
 8.5 La radio Anche la radio non ordina i fatti e il suo modello di racconto appare piuttosto fondato sul “Ti ricordi che..”: l’evocazione prevale sull’interpretazione. Il linguaggio radiofonico non ha una dimensione spaziale e permette il sovrapporsi di contenuti diversi. Nella radio c’è il potere della suggestione, dovuto al fatto che il cervello umano risponde meglio all’orecchio che all’occhio. La fotografia ha prodotto uno spostamento dalla mano Pagina di 32 35
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