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Riassunto "La presenza degli dei" di Francesco Cattaneo., Sintesi del corso di Estetica

Riassunto La presenza degli dei di Francesco Cattaneo.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 24/10/2021

Anoniwo
Anoniwo 🇮🇹

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Scarica Riassunto "La presenza degli dei" di Francesco Cattaneo. e più Sintesi del corso in PDF di Estetica solo su Docsity! LA PRESENZA DEGLI DEI Egli propone di indicare la direzione per una trasformazione della cultura tedesca. Tale trasformazione passa attraverso una riflessione sulla cultura greca, di cui N ritiene di poter precisare il senso tramite la messa a fuoco del significato dell’arte greca e in particolare del genere tragico, considerato la massima espressione non solo dell’arte ma della cultura ellenica. “la vita è degna di essere vissuta, dice l’arte la più bella seduttrice; la vita è degna di essere conosciuta dice la scienza”. La Nascita della tragedia parla chiaro: si tratta della visione metafisica di Schopenhauer, autore per cui N aveva cominciato a nutrire, sin dalla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione nel 1875, una profonda ammirazione, peraltro condivisa con Wagner. Chiarire in che senso l’arte sia “l’attività propriamente metafisica” della vita umana va di pari passo con la comprensione del mondo i cui N intende il mito greco e l’esperienza greca del divino. Per affrontare questi ultimi egli nel terzo capitolo della NDT prende strategicamente le mosse della figura del Sileno, dio silvestre figlio di Pan e di una ninfa, precettore del giovane Dionisio. Costui catturato da Mida, leggendario re di Frigia, e indotto a rivelare quale sia “la cosa preferibile e il bene supremo per gli uomini”, erompe in una stridula risata e pronuncia la celebre sentenza “Misera stirpe caduca, figlia del caos e dei tormenti, perché mi costringi a dirti ciò che per te sarebbe più vantaggioso non dire? Il bene più grande è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, non essere nulla. Ma immediatamente dopo il bene più grande per te è morire presto”. Il motto del Sileno, la cui saggezza si riverbera nella tragedia, costituisce per N la prova inequivocabile del pessimismo proprio dei greci, popolo della “sensibilità viva, dai desideri impetuosi, così unico nella capacità di soffrire”. Collocando il pessimismo al centro dell’esistenza e della cultura greca, N getta di fatto u ponte verso Schopenhauer. In un’operazione densa di conseguenze, il pessimismo greco viene pertanto spiegato alla luce di quello schopenhaueriano e dei sui assunti metafisici. Il portato di questa impostazione viene espressamente illustrato all’inizio del quarto capitolo della NDT , laddove N espone la sua ipotesi metafisica. Egli ricorrendo a un concetto di chiara ascendenza schopenhaueiana, concepisce quale principio della realtà la volontà definita “ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eternamente sofferente e pieno di contraddizioni”. Alla volontà come uno originario, come indivisa, che costituisce il piano del vero, si contrappone il molteplice sensibile, che costituisce invece il piano dell'illusione, dell’apparenza. Se la nostra “realtà” viene riconosciuta nel suo carattere di apparenza potremmo definirla un’apparenza di primo grado, se cioè assumiamo che la nostra esistenza e quella del mondo in generale siano una rappresentazione prodotta in ogni momento dall’uno originario, allora il sogno non può che costituire un’apparenza dell’apparenza, o un’apparenza di secondo grado. Qui N riprende la declinazione schopenhaueriana della coppia verità/illusione nei termini della coppi volontà/rappresentazione (volontà come fondamento metafisico, rappresentazione come apparenza, come velo di Maya dominato dal principium individuazionis) ma lo fa a modo suo. A partire dalla constatazione del ruolo dell’apollineo e del dionisiaco quali onnipotenti istinti artistici della natura, nei quali si scorgerebbe una fervida aspirazione dell’apparenza, N giunge alla congettura secondo cui l’uno originario, proprio al fine di redimere l'eterna sofferenza che lo attraversa, avrebbe bisogno della visione beneficante e della gioiosa apparenza (l'apparenza di primo grado cioè la nostra esistenza e quella del mondo) ragion per cui il sogno, e con esso l’arte apollinea, costituirebbero un appagamento ancora superiore della brama originaria di apparenza. L’uno originario può essere legittimamente definito, di conseguenza, l’artista originario del mondo e l’arte a sua volta un complemento e un completamento dell’esistenza che può sedurci alla vita. L’arte ingenua, e specialmente l’arte omerica in quanto arte ingenua per eccellenza, reca, ad avviso di N, il segno della più alta influenza della cultura apollinea: che per prima cosa avrà sempre da abbattere un regno dei Titani e da uccidere dei mostri per riportare infine la vittoria attraverso possenti miraggi e gioiose illusioni su una visione del mondo di terribile profondità e sulla più eccitabile disposizione alla sofferenza. Il vero scopo da raggiungere per la “volontà”, anche qui come spesso accade nella NDT, N pone la parola “volontà” tra virgolette, a segnalare come il significato a essa attribuito si discosti da quello comune, consiste nella propria glorificazione. Essa richiede che i Greci si vedano trasfigurati in una sfera di superiore perfezione, la sfera dei propri dei: anelandovi, si trovano in realtà a desiderare la vita, la quale per tale via afferma se stessa. La concezione dell’ingenuità omerica fin qui illustrata fornisce una chiara indicazione circa la via seguita da N nella sua elaborazione dell'immagine” rivoluzionaria” della cultura greca, immagine che, in forza della scoperta del lato scuro della grecità, si discosta ora radicalmente dal classicismo umanistico di Schiller Goethe e Winckelmann. Il classicismo interpreta la serenità greca, l’armoniosa unità di uomo e natura, nei termini di qualcosa di semplice, che si realizza da solo, che è per così dire inevitabile, e che dovremmo incontrare alla soglia di ogni civiltà come un paradiso, e qualifica tale condizione come “ingenua” nella misura in cui scaturirebbe immediatamente dalla spensierata forza giovanile del popolo greco, secondo il topos per cui la Grecia antica costituirebbe la giovinezza (la primavera) dell’umanità. Per N, al contrario, l’ingenuità greca deriva da una profonda e pessimistica esperienza di vita e consiste nella capacità, nonostante tutto, di abbandonarsi alle proprie illusioni, pur senza smettere di avvertirne il carattere illusorio. La più autentica vittoria della “volontà” ellenica è stata quella di riuscire, partendo da una visione del mondo disincantata e cupa, a restituirli il suo incanto attraverso le splendide figure degli dei e a rovesciare una totalità emotiva di fondo improntata alla disperazione in un'affermazione della vita. In una libera ripresa della metafisica pessimistica di Schopenhauer, il dolore connesso alla volontà trova una redenzione nell’arte, intesa non come una dimensione di rinuncia o di sospensione contemplativa della vita, bensì il suo rinvigorimento. L’innegabile merito di tali autori (Schiller, Goethe...) in altre prole, porta con sé un altrettanto innegabile limite, che N individua nella concezione monodimensionale dell’’ingenuità” e della “serenità” greca propria dell'immagine neoclassica dell'antichità. È precisamente tale limite, ad avviso di N, ad aver determinato il fallimento ultimo dei tentativi dei neoclassicisti di riformare la cultura tedesca. Le belle parvenze omerico-apollinee s'impongono come un velo gettato sulla sofferenza, sulla contraddizione e perciò sull’abissalità dell’uno originario. N concepisce gli dei olimpici come la risposta ad un'esigenza immane, l’esigenza di rendere l’esistenza non solo sopportabile, ma desiderabile. Pertanto, sono presentati come creazioni artistiche umane, in cui si esprime nel modo più compiuto l’impulso apollineo. Essi operano una trasfigurazione dell’orrore della natura, mediante cui la “volontà” riesce ad affermare sé stessa. Com’è manifesto tra le figure divine Apollo ha un ruolo eminente. In lui ha preso forma concreta uno dei due impulsi estetici fondamentali. Nella superiore sfera della bellezza i greci vedevano le loro immagini riflesse, gli dei olimpici. Se gli dei riprendono naturalisticamente i tratti e i comportamenti degli uomini, ciò vuol dire che questi dei, anziché condannare ciò che è più umano, lo celebrano e santificano. Gli dei greci non costituiscono un imperativo o un rimprovero nei confronti della vita, non impongono una visione morale, non danno voce a un dover essere (come accade per il Dio cristiano, o per ogni fedele che si richiami a una trascendenza); al contrario, essi giustificano la vita degli uomini vivendola essi stessi, l’unica teodicea in grado di soddisfarci, secondo N. Questa formula merita qualche considerazione aggiuntiva. Coniato da Leibniz all’inizio del settecento mediante la fusione delle parole greche theos e dike, il termine “teodicea” viene da lui impiegato nel senso generale di dottrina della giustificazione dell’operato di Dio, in particolare per quanto concerne la presenza del male nel creato. Nella visione del mondo dionisiaca N offre una precisazione molto incisiva a riguardo, poi non ripresa nella NDT. Egli spiega che il luminoso mondo olimpico si è imposto perché attraverso le figure lucenti di Zeus, di Ermes, di Apollo, si doveva nascondere l'oscuro dominio della moira, la quale determina la morte precoce di Achille e l'unione nefasta di Edipo. La moira costituisce dunque lo sfondo inesorabile delle vicende divine e umane. È a partire da essa, e in risposta ad essa, che il genio artistico del popolo greco ha creato gli dei. Pertanto, conclude N, una teodicea non è mai stata un problema greco: ci si guardò dall’imputare agli dei l’esistenza del mondo e di conseguenza la responsabilità per la natura di quello. Proprio perché il dio monoteistico sta all’origine del mondo, a lui fa capo tutto ciò che esiste e il modo in cui esiste, con la conseguenza che il male s'impone come uno scandalo inaggirabile. Se il politeismo greco costituisce l’unica teodicea in grado si soddisfarci, ciò accade a ben vedere perché esso svuota la teodicea, la destituisce di fondamento, consentendo così uno sguardo sulla vita che prende le compimento). Il sorgere di una civiltà accade in quanto commozione o intuizione emotivo- aurorale. La cultura presenta alla sua origine un carattere demonico-creativo. Tale carattere proprio della fase primitiva trova poi espressione nel linguaggio e nell’arte, inaugurando la piena fioritura della fase monumentale, cui appartengono, secondo la ricostruzione di Frobenius, anche le elaborazioni mitiche strutturate e coerenti (le cosmogonie e le cosmologie). Infine i démoni e gli ideali lasciano spazio ai fatti, all’utilizzazione. Al posto dell’organico sentimento di forza entra la consapevolezza di una forza meccanica utilizzabile; al posto del sentimento dello spazio, uno spazio calcolabile razionalmente, e infine, al posto dell'essere come sentimento di destino, il tempo misurabile con l'orologio. Nella concezione di Frobenius, invece, il mondo non è l’oggetto di uno sguardo scientifico-razionale definito in base a criteri a-storici: il mondo accade, sorge nell’organicità di una cultura in virtù di quel vero e proprio principio genetico-metafisico delle civiltà che è il paideuma. Nella morfologia storica che ne consegue, non è più possibile parlare di un'unica ragione, ma semmai di un’unica pluralità di ragioni, quelle legate al sorgere e trasformarsi di ciascuna forma culturale. Le cose e i nessi tra le cose si fissano, si irrigidiscono, di modo che, su tale base, si impone la dimensione del calcolo, del controllo, della previsione. Il mito, non appartiene per Otto, a un passato remoto che abbiamo ormai superato grazie alla nostra capacità di pensare e di osservare più acutamente; esso continua a testimoniare una dimensione altra. Nel suo presunto progresso l’uomo moderno ha in realtà perduto la capacità di relazionarsi a tale dimensione: è venuto meno il contatto con il dio. Non è l’uomo che, mediante l’affinamento delle sue razionalità, supera il manifestarsi del divino relegandolo al superstizioso; al contrario è il dio che fugge, si ritira per via della sopraggiunta sordità umana. Non c’è possibilità alcuna di “conoscere” la teofania se non si partecipa direttamente ad essa, se non si incontra il dio. La teofania non è l’opposto della ragione, ma è la sua sorgente, ciò che le consente di dispiegarsi e di assumere le proprie coordinate di riferimento, i propri criteri e i propri indirizzi. Goethe intende le idee in modo immanente: esse costituiscono quella matrice immateriale, il fenomeno originario o archetipo, che consente all'uomo di cogliere il dispiegarsi dei fenomeni nella loro molteplicità concreta di forme. Il fenomeno originario, dunque, dà ordine alla nostra percezione. Goethe chiama “giudizio intuitivo” la capacità di immergersi dentro l’essenza delle forme, non astraendola dagli oggetti. Soprattutto non si cerchi nulla dietro ai fenomeni: essi sono la teoria. La teofania consente il dischiudersi di un mondo: o meglio, è quella manifestazione fondamentale a partire da cui è possibile intuire la varietà dell’essente. Il discorso di Otto si richiama alla logica e conoscenza intuitiva della figura, mediante la quale la vita viene colta nel suo darsi essenziale. L'esperienza della figura prende certamente voce nel mondo del poeta, che da essa trae la sua più intima forza di persuasione e la sua capacità di conferire all'esistenza una superiore luminosità e dignità. Tuttavia, tale esperienza trova la sua espressione più originaria, venerabile e nobile del mito, e nel suo complemento: il culto. Il mito è il luogo elettivo della teofania. Essa, per Otto, non è altro che il darsi del mondo umano nel modo più pieno e concentrato. Senza la teofania, la ragione non avrebbe letteralmente terreno sotto i piedi: si ridurrebbe ad una astrazione sradicata, priva di orientamenti e prospettive, fluttuante nel nulla. La divinità insieme col suo mondo, è miracolosa, è anzi il miracolo stesso, non per il fatto che contraddice le leggi della natura, ma perché appartiene a una sfera dell’essere diversa da quella cui appartiene tutto ciò che può essere fatto oggetto del pensiero della scienza. In relazione alla teofania così intesa non si tratta di negare la “logica”, ma di farne un’esperienza più ampia e ricca, meglio ancora, più aperta, calata nella vastità del darsi mitico del mondo (ancora: solo a partire dal mito, cioè dalla teofania, si dà mondo). N, al pari di Rohde adottava le coordinate fondamentali messe a punto da Edward Taylor in Primitive Culture, il concetto di un’evoluzione da fasi più arretrate a fasi più sviluppate, che si ripresenterebbero uniformemente in tutte le civiltà; infine l’idea, di stampo utilitaristico, che la nascita della cultura sarebbe determinata da esigenze di carattere materiale. La riflessione di Otto nella prima parte di Dionisio muove da una critica al mondo in cui, all’inizio del Novecento, tanto gli antropologi e gli etnologi, quanto i filologi e gli antichisti concepivano il fenomeno religioso, soprattutto quello ellenico. L’etnologia del suo tempo poggiava su due assi portanti. Il primo era l’idea che i popoli nel dispiegare i loro culti e le loro culture, procedevano da forme elementari per poi articolare in strutture più complesse (principio evoluzionistico). Tylor, influenzato da Comte e Spencer, riteneva a questo proposito che vi sia uno sviluppo diacronico della sfera religiosa all’insegna di una crescente complessità: all’animismo seguono il culto degli antenati, il feticismo, l’idolatria, il politeismo e il monoteismo, per arrivare infine alla scienza, con cui si interrompe il meccanismo di attribuzione di senso al mondo basato su false idee anziché su evidenze empiriche. Il secondo asse portante consisteva nella convinzione che popoli di epoche e luoghi diversi passino, nel loro sviluppo, attraverso tappe analoghe, rendendo così possibili non solo la spiegazione delle loro somiglianze, ma anche la ricostruzione delle fasi arcaiche di civiltà sviluppate per mezzo del confronto con i primitivi moderni (principio di comparazione). Tuttavia Otto nota come, al di là di questa divergenza, le due scuole abbiano, per quanto inconsapevolmente, un comune denominatore, vale a dire quel concetto evoluzionista che trae le sue origini dalla biologia. Come la biologia ha ritenuto di poter individuare un’evoluzione che dagli organismi più elementari conduce a quelli più complessi, allo stesso modo la scuola etnologica e quella filologica pongono all’inizio del processo di sviluppo del pensiero religioso concezioni così dette semplici da cui, per trasformazioni graduali, si sarebbero andate foggiando le grandiose rappresentazioni degli dei del periodo della massima fioritura. La demitizzazione presuppone una rivelazione mitica. È quest’ultima a con-figurare l’esperienza umana, dandole orientamento e indirizzo. La demitizzazione pretende di espugnare il divino in quanto mera “superstizione”, le cui “spiegazioni”, pur sempre utilitaristiche ma ingenue, sarebbero state irreparabilmente smentite dalle scoperte successive. Otto comprende l’origine nei termini dell’elemento creativo. Le forme divine sono ciò che è effettivamente operante e massimamente produttivo, più ancora, costituiscono la forza creatrice suprema, che alimenta l’attività creatrice dell’uomo e ne garantisce la fecondità. La risposta creativa primaria alla rivelazione della divinità risiede nel mito e nel culto, intesi da Otto come intuizioni grandiose. Otto accomuna mito e culto nel segno di una forza creativa sovra individuale. Tra mito e culto vige un nesso intimo e costitutivo, al punto che non è possibile stabilire un ordine di precedenza dell’uno sull’altro. Mito e culto sono l stessa identica cosa. È necessario tener presente che Otto impiega il concetto di “mito” in due accezioni non coincidenti. La prima accezione è più ampia: in essa per “mito” si intende la manifestazione sensibile della verità, che divina, vuole dimorare in concretezza di forme nel visibile. Il divino, infatti esige l’incarnazione. Questo auto testimoniarsi mitico della divinità può essere suddiviso in tre gradi, o forme, di decrescente immediatezza. La seconda accezione è più circoscritta: in essa “mito” viene inteso in senso stretto come “parola”. Il culto, pertanto, diviene la necessaria forma manifestativa del mito. Oppure, ancora meglio: lo specifico comportamento dell’uomo in cui il mito, nell'uomo stesso, diviene forma. Rispondere immediatamente al dio comporta l’instaurazione di un rapporto mimetico: l’azione e l’effetto del dio vengono rivissuti e limitati al livello umano. Il primo grado dell’auto testimoniarsi mitico della divinità è il rivelarsi del divino nell’uomo, il mito stesso fattosi manifesto. Al secondo grado della manifestazione mitica appartengono espressioni culturali connesse alla forma del movimento e dell’agire dell’uomo. Nel rito culturale l’uomo si fa figurazione vivente del dio. A ciò si affiancano, sempre nell’ambito del culto, le opere della mano dell’uomo: scultura, architettura incarnano esse stesse il rivelarsi del divino. Il terzo grado è costituito dal mito in senso stretto, cioè dal manifestarsi del divino nella parola: esso rappresenta l'evento massimo del mito. Viene meno l'immediatezza fisica del culto, ma al suo posto subentra la duttilità e la chiarezza della parola. Otto conclude che nel culto è l’uomo che si innalza al divino, vive e agisce in comunione con gli dei; nel mito è il divino che scende e si fa umano. Il fenomeno creatore propriamente inteso si ricollega a qualcosa che eccede alle umane capacità: esso non appartiene all'ordine della volizione (o del desiderio), quanto piuttosto a quello dell’accoglimento e della ricettività; non all’ordine del dimostrabile, del calcolabile o del prevedibile, ma a quello della maturazione di una consona esposizione al divino. Si tratta di un evento miracoloso che accade all’uomo, che lo coinvolge e implica, che dispone di lui e così lo dispone, determinando la sua figura e conferendo un'impronta comune ai sui bisogni, alle sue necessità ai suoi modi di pensare, ai suoi desideri e alle sue finalità ideali. Distinzione fondamentale: quella tra rivelazione dogmatica e una rivelazione a-dogmatica. La prima è connessa alle religioni abramitiche o religioni del libro, le quali concepiscono una divinità che trascende il mondo, una divinità onnipotente che sta in un altrove innominabile. Dal momento che tra questa divinità abissale da una parte e la natura e l’uomo dall’altra vige un'estrema eterogeneità e asimmetria, l’uomo non può sperare di incontrare la divinità nella sua esperienza della natura. La rivelazione dogmatica richiede un atto di fede, l’accettazione incondizionata di una verità che sta al di là di tutto ciò che si può conoscere e sperimentare. È a partire da qui che si può misurare fino in fondo la divaricazione insuperabile tra il Dio dei filosofi e il Dio dei teologi, o, per dirla con una terminologia settecentesca, tra il deismo e il teismo. Laddove i filosofi pretendono di poter risalire all’idea di Dio attraverso l’indagine razionale, alcuni illuministi, per esempio Voltaire, assumevano a priori l’esistenza di un essere supremo, creatore e regolatore delle leggi dell'universo, in quanto indispensabile a spiegarne l’ordine, l'armonia e la regolarità, i teologi, di contro, riflettono a patire dal fatto della rivelazione e quindi della devozione che esso esige. La seconda rivelazione a-dogmatica, è bensì una rivelazione che eccede l’uomo e lo afferra in attimi eccezionali, ma si tratta di una rivelazione in cui a mostrarsi è la natura nella sua massima pienezza, o meglio: la natura nella sua forma più spirituale. L'esperienza greca della divinità costituisce l'esempio più grandioso di una religione assolutamente a-dogmatica. Se è vero, infatti, che la teofania greca, al pari di ogni teofania, appartiene all’ordine del miracoloso, in quanto è quel massimamente sublime che afferra l’uomo, il miracolo che in essa accade non implica un sovvertimento delle leggi naturali, ma costituisce l’espressione più intensa e luminosa della natura medesima: in tale miracolo, la natura si rivela il suo essere. Come testimoniato dalla dovizia dei loro dei, i greci hanno saputo riconoscere il divino nelle svariatissime forme dell'essere naturale, mostrando una sensibilità particolarmente viva e aperta. Otto si sofferma con grande attenzione e acume su numerosi episodi dell’iliade e dell’odissea che illustrano in modo eloquente come l'intervento della divinità coincida pressochè sempre con l'emergere più nitido possibile di qualcosa che appartiene a una situazione: quando, improvvisamente, all’eroe risulta chiaro ciò che è opportuno fare, ebbene lì, in quel momento di illuminazione, egli avverte la presenza del dio. Il dio non dà l’illuminazione; il dio piuttosto è illuminazione stessa in cui la natura si rivela secondo un’evidenza superiore. È emblematico, in questo senso, che il dio spesso e sovente si presenti all’eroe assumendo le sembianze di figure a lui familiari. Le divinità, forme originarie dell’esistenza vivente testimonino non il totalmente altro, ma proprio questo, vale a dire proprio ciò che ci circonda, ciò in cui viviamo e respiriamo, ciò che ci afferra, facendosi figura nella chiarità nei nostri sensi e nel nostro spirito. Il divino è onnipotente. Sono le figure divine a rivelare tutto quello che è essenziale e vero. Il così detto antropomorfismo (non solo il fatto che gli dei potessero assumere volto umano, ma anche che mutuassero comportamenti e modi di fare degli uomini) è stato, sin dai tempi antichi, la principale fonte delle critiche e delle obbiezioni mossi contro la religione olimpica, non solo dagli scritti diatribici dei cristiani, ma ancor prima da voci interne alla cultura ellenica stessa, in particolare dai filosofi. Otto ricorda la celebre massima di Senofane secondo la quale se buoi e cavalli avessero mani e potessero disegnare, rappresenterebbero gli dei come buoi e come cavalli. Otto vuole rimarcare che gli uomini vanno considerati nella loro peculiarità, la quale viene così caratterizzata: fra tutti gli esseri viventi l’uomo è il solo per la natura capace di percepire “figure”, il solo destinato a questo. Di qui, da tale specifica natura, il rapporto che lo lega alle figure dell’essere, alla loro gerarchia fino alla figura del divino. La figura dell’uomo racchiude la vicinanza al divino, la capacità di incontrare il numinoso e di farne esperienza. Sebbene vi sia qui un’indubbia analogia con il Cristianesimo, Otto precisa che l’uomo non viene creato a immagine e somiglianza di Dio piuttosto il greco, appena conobbe sé stesso, ha guardato l’uomo quale forma eterna nella divinità. Insomma non è l’uomo che abbassa a sè la divinità, proiettando in essa, magari con grande inventiva poetica, i suoi caratteri umani, ma al contrario è il dio che innalza a sé l’uomo, di modo che egli possa discernere quanto ha già in sé di numinoso e così riconoscere sé stesso. Nella prospettiva mitica, al contrario, l’uomo viene a essere insieme al dischiudersi del mondo, e quindi viene a essere nell'incontro col dio. Il divino abita già nell'uomo, ma l’incontro con esso avviene solo tramite l’invocazione: l’invocazione originaria è il colloquio dell’uomo col si distingue dall’unità intesa monoteisticamente e metafisicamente. I singoli dei hanno una loro irrevocabile autonomia. Ciascuno degli dei principali del pantheon omerico esprime in una figura determinata la totalità dell’essere divino. Sono figure distinte e irriducibili, in ognuna delle quali, però, si concentra ogni volta di nuovo il tutto che le accomuna (unità). La figura di Zeus è del tutto singolare, dal momento che essa è insieme una figura tra le altre e la figura, la forma delle forme, che rimanda all’armoniosa unificazione che tutte le raccoglie e tiene insieme, per quanto in modo indescrivibile. Nella terza parte degli dei della Grecia, laddove Otto passa in rassegna le principali figure degli dei olimpici, leggiamo i tratti di Atena, Apollo, Artemide, Afrodite e Ermes. Curiosamente Zeus rimane escluso. Nella premessa della terza parte, Otto spiega che Zeus, il maggiore degli dei, il compendio stesso del divino, manca perché in lui convengono tutte le linee e nessuna questione può essergli estranea. La scelta di Otto mira certamente ad evitare il rischio di una sintesi monoteistica. Ma Otto prende atto che la grandezza di Zeus cresce all'infinito e sfocia nell’inconcepibile: l’unità del divino, infatti, non è più intuibile in nessun modo, non è più forma. La figura del Cronide si espande in modo imperscrutabile, fino a sfiorare l’amorfo. Con essa ci si sporge sulla genesi della forma, la quale, nello stesso stagliarsi del suo profilo, implica una de- limitazione, uno staccarsi dallo sfondo innominabile da cui proviene. Questo sfondo, con cui avvolte Zeus si identifica, è indicato da Otto nella Moira (il destino), intesa come la legge che sta al di sopra della vita e fissa e impartisce ad ognuna la sua sorte, ossia rovina e morte. La moira non è persona, piuttosto, significa il negativo nel mondo della vita, mentre la divinità ne rappresenta il positivo. Vengono così contrapposti due regni, l’uno estraneo all’altro: il regno della vita, dello sviluppo, del sì, e il regno della morte, dell’insurrezione, del no. Solo il primo è formato, attivo, personale; il regno della negazione non ha forma né personalità: pone soltanto confini e con questi taglia bruscamente lo svolgimento e la vita. Nella caratterizzazione i Otto, la Moira non è un'entità autonoma che subordina a sé gli dei; non rimanda neppure ad alcuna forma di fatalismo. Essa è il rovescio del vivente, 1 dimensione delle ombre e del ricordo. Gli dei cantati da Omero lasciano l’oscurità della terra, cui appartengono le divinità arcaiche. Essi abitano l’etere, e possono essere detti a giusto titolo i “celesti”. Quello di Zeus (e di Apollo), è un regno della luce. Laddove le divinità ctonie erano legate agli elementi e al sangue, si caratterizzavano per l'immediatezza della presenza (una vera e propria irruzione travolgente) ed erano prevalentemente di sesso femminile, gli dei omerici sono invece figure che esprimono la grandiosa libertà dello spirito: sono luminose, agiscono a distanza e sono prevalentemente di sesso maschile. Zeus, Apollo e Atena costituiscono la triade dello splendore celeste e della chiarezza spirituale. Le figure divine di Omero si presentano sempre nella più radiosa giovinezza. A esse appartengono una pienezza di vita e un vigore di azione che si contrappongono frontalmente dal regno dell'oscurità e del trapasso. Divinità come Ade e Persefone, prìncipi delle ombre, sono relegate in secondo piano nella religione omerica. Gli dei arcaici, connessi alla terra, al sangue, alla notte e alla morte, furono inondati dalla luce splendente degli dei nuovi, ma non maledetti o banditi, come accadde in altri popoli allorché le nuove divinità trionfarono sulle vecchie. Il rapporto di Dionisio con gli dei omerici assume nella riflessione di Otto, soprattutto a partire dal volume Dionisio un ruolo decisivo. Egli tenta di comprendere, per la precisione, in che modo quest’anomalo figlio di Zeus si collochi accanto agli dei omerici e per quale ragione possa coesistere con essi. Otto sottolinea come nell’Iliade e nell’Odissea ci siano chiare prove della conoscenza, da parte di Omero, del mito e del culto dionisiaco. Omero, inoltre, non fa mai il minimo accenno al fatto che il suo culto fosse considerato come nuovo, come originariamente straniero. In primo luogo, come detto, Dionisio è alieno nell’ambito olimpico. Omero, pur conoscendone la figura, lo nomina a stento, come fa anche con altre divinità arcaiche, legate al mondo dei morti (si pensi a Demetra, Persefone, Ade). In secondo luogo, Otto considera Dionisio una divinità pienamente greca. In terzo luogo, Otto interpreta Dionisio scollegandolo tanto dai misteri eleusini, quanto dai misteri orfici e dalla loro dottrina della salvezza. Per N Dionisio diventa una chiave interpretativa fondamentale proprio a partire dal retroterra orfico, che egli rievoca non nel senso cristiano-simbolico del romanticismo, ma come un’allegoria da intendersi alla luce della filosofia schopenhaueriana della volontà. Otto in definitiva, smarca Dionisio tanto dal lato orientale quanto da quello orfico-misterico, e differenzia la propria lettura sia rispetto alla tradizione romantica che rispetto a N. Ma il dio si distingue anche da tutti coloro che avevano avuto madri mortali, perché egli solo fu partorito una seconda volta dal corpo stesso di Zeus; perciò è un dio nel senso più augusto e più completo, è il dio della duplicità, come esprime in forma così bella e così vera il mito della nascita. Dionisio è una figura divina a tutti gli effetti, capace di rivelare ciò che è, di dischiudere un mondo completo: si tratta del mondo visto secondo la duplicità. Un passaggio chiave in tal senso è la trattazione che Otto dedica alla maschera in quanto simbolo più eloquente dell’ambivalenza e della compresenza degli opposti. Essa è caratterizzata dalla frontalità, da occhi sbarrati e fissi a cui si rimane come inchiodati. Non a caso, osserva Otto, le divinità e gli spiriti primigeni sono stati spesso rappresentati in forma di maschere: rientra nella loro natura che essi si facciano incontro ai loro fedeli con una immediatezza travolgente, ben diversa dalla distanza spirituale degli dei omerici. Tanto nel mito quanto nel culto egli è il dio che irrompe in modo irresistibile e repentino, per poi scomparire altrettanto improvvisamente: è il dio della più immediata presenza. La maschera, in quanto mera superficie, è la più forte immagine della presenza. Qui non sussiste che un incontro cui l’uomo non può sottrarsi, che è impossibile rimuovere o esorcizzare. Nel suo essere incontro e soltanto incontro, la maschera non ha altro che frontalità, non ha nulla dietro di sé, non ha quindi un'esistenza completa, ma è simbolo e manifestazione di ciò che è e allo stesso tempo non è: immediata presenza, in uno con l’assoluta assenza. Il Dionisio di Otto, visto al di fuori dell’orizzonte dei misteri e in stretta connessione con le divinità omeriche, è il testimone perenne di quelle profondità abissali da cui la stirpe degli dei olimpici è essa stessa emersa. Otto arriva a riabilitare quell'immagine neoclassica della Grecia da cui N non solo aveva preso congedo, ma che anzi riteneva di aver scosso dalle fondamenta e rivoluzionato irreversibilmente. Lo stesso capolavoro Gli dei della Grecia, riprende in modo programmatico il titolo dell'omonima poesia di Schiller, una ripresa che, tuttavia, reca con sé una sfida più radicale: per Schiller gli dei greci erano solo esseri belli di un mondo di fiaba, mentre ora si faceva avanti qualcuno che sembrava affermare sul serio la loro realtà. Gli dei, nella loro sostanzialità, costituiscono l’essenza immutabile della natura. L'uomo nobile, partecipando alla loro manifestazione, viene elevato e raggiunge una più alta serenità. Egli non ha nulla da chiedere alle divinità, né da essa si aspetta alcunché: si limita ad ammirare la perfezione con cui, al suo apparire, si schiude il mondo. L’ uomo è pervaso da un meraviglioso amore per l’essente. Il dionisiaco, rispetto a cui l’apollineo diventa l’ambito della “bella parvenza”, porta con sé la lacerazione del principium individuationis e dunque la dissoluzione della forma, che può poi essere recuperata semmai nei termini di momento interno dell’affermazione della vita e della sua giustificazione estetica. Il Dionisio di Otto, al pari degli altri dei, non è un’allegoria, costituisce una sostanzialità, una delle essenze del mondo. Con la sua duplicità, Dionisio continua a testimoniare la dimensione arcaica e ctonia. Il rapporto con Wagner è stato cruciale perché in lui N ha incontrato l’arte nel suo completo darsi. La potenza della sua esperienza al cospetto dei greci ha portato N a vedere alla base della loro cultura un conflitto fondamentale tra principi opposti, che egli, in modo genuinamente ellenico, ha designato con nomi divini: con i nomi Apollo e Dionisio. N ha audacemente constatato che il mondo delle forme apollinee si è manifestato tanto più chiaramente e luminosamente quanto più era cupo e profondo lo scuotimento operato dalla smisuratezza del dionisiaco. Il trionfo della volontà dionisiaca porta alla nascita della forma, vale a dire la nascita del mito. La forma (il mito) rovescia la negazione dell’esistenza in affermazione. La rassegnazione di Schopenhauer viene superata dall’interno del pessimismo stesso, nella misura in cui colui che è chiamato a creare ha riconosciuto che la vita, in relazione alle sue questioni più oscure e difficili, non aspetta alcuna sentenza o alcun rifiuto, ma l’azione e la creazione.
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