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Riassunto "La responsabilità civile", Salvi, 3^edizione, Sintesi del corso di Diritto Civile

Riassunto completissimo del manuale di diritto civile edizione 2019.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 24/05/2020

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Scarica Riassunto "La responsabilità civile", Salvi, 3^edizione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Civile solo su Docsity! Capitolo 1 – Struttura e funzioni del giudizio di responsabilità - 1. Premesse La disciplina generale della responsabilità extracontrattuale è contenuta negli artt.2043 – 2059 cc. La rubrica dell’art.2043 cc (“risarcimento per fatto illecito”) richiama la nozione di illecito e quella, parallela, di sanzione (conseguenza che l’autore dell’illecito deve subire). Queste espressioni non corrispondono alla sostanza e alla funzione del giudizio di responsabilità, né lo caratterizzano rispetto ad altre figure e istituti di diritto civile: infatti, gli artt.2043 ss cc contengono norme che individuano le ipotesi in cui sorge l’obbligazione risarcitoria, obbligazione peculiare nascente come conseguenza di un fatto, indipendentemente dalla preesistenza di una relazione giuridicamente rilevante tra il titolare del diritto al risarcimento e il soggetto obbligato. Questa è in sintesi la sostanza della responsabilità civile extracontrattuale. In prima approssimazione ciò che caratterizza la responsabilità civile, distinguendola da altre tecniche civilistiche di tutela degli interessi, è la funzione di stabilire se un evento dannoso debba restare a carico di chi lo ha subito o se, invece, debba essere trasferito a carico di un altro soggetto.→non è caratterizzata dalla sanzione dell'illecito ciò che la caratterizza e la distingue da altre tecniche civilistiche di tutela degli interessi. Il responsabile viene individuato in base alla ricorrenza in concreto di uno dei criteri di imputazione previsti dalla legge (dolo, colpa, ipotesi di cd responsabilità oggettiva). →Il giudizio di responsabilità può essere descritto come una sequenza che muove dall'accertamento dell'esistenza di un danno giuridicamente rilevante, verifica poi la sussistenza di una relazione causale tra l'evento dannoso e una delle ipotesi normative di responsabilità e si conclude con l'imputazione dell'obbligazione risarcitoria.→elementi essenziali della responsabilità extracontrattuale:  danno  imputazione              tra di loro sussiste una stretta interrelazione  nesso causale                                 risarcimento In base a tali osservazioni si può delimitare la sfera operativa della responsabilità civile. Innanzitutto essa ha la funzione di riparare i danni, la quale distingue l’istituto da altre tecniche di tutela civile degli interessi, aventi finalità diverse (es, tutela inibitoria, restitutoria, cessatoria). Nell'ambito del risarcimento, la tutela di cui agli artt.2043 ss cc si distingue da quella apprestata dagli artt.1218 ss cc, 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 nei confronti di un rischio specifico di danno, creato da una relazione tra la vittima e il responsabile, preesistente al verificarsi dell'evento dannoso (responsabilità contrattuale). La responsabilità civile ha altresì la funzione di ripartire il costo del danno e di compensare le vittime. Per i suoi tratti tipici si differenzia da istituti contrattuali (assicurazione) o pubblicistici (sicurezza sociale). Questa impostazione si richiama alla revisione critica, da parte della dottrina, della concezione tradizionale dell’illecito civile, la quale, concependo il risarcimento come sanzione di un illecito, identifica la funzione della responsabilità civile nella riparazione del danno ingiusto. Tale revisione critica è l’esito di un processo storico di trasformazione dell’istituto da mezzo di prevenzione e di repressione del comportamento riprovevole dell’agente, a strumento che consente di risarcire, nel maggior numero di casi, la vittima del danno. Sebbene ponendo al centro della responsabilità    civile la riparazione del danno,    la revisione critica colga un elemento essenziale per la moderna visione dell’istituto (aspetto riparatorio), essa non basta a esaurire la spiegazione dell’istituto: infatti, non tutti i danni sono in concreto risarcibili, giacché la legge subordina il risarcimento alla ricorrenza di uno dei criteri di imputazione.→necessità che l'esigenza di riparare il danno ingiusto si accompagni alla sussistenza di una ragione ulteriore, che ne giustifichi la traslazione a un soggetto diverso dalla vittima. →problema odierno della responsabilità civile = assenza di una chiara e generalmente condivisa individuazione della/e ragione/i che giustificano il risarcimento e che spiegano il perché il danno ingiusto non è sempre risarcito; a fronte del grande ampliamento del campo applicativo e della crescente importanza dell’istituto come tecnica di mediazione dei conflitti e di tutela dei diritti nelle società contemporanee.→incertezza funzionale determinante difficoltà interpretative: infatti, la disciplina sub artt.2043ss cc, da un lato è composta per lo più da norme generali, che consentono un’ampia gamma di scelte interpretative; dall’altro, è formata da un materiale normativo disomogeneo, giacché frutto della successiva sedimentazione di scelte non ricomposte in equilibrio, e non facilmente riorganizzabili intorno a principi chiari e unificanti, in particolare per quanto riguarda l’imputazione della responsabilità (es, dilemma sull’esistenza di un principio generale di responsabilità oggettiva). E’ importante il ruolo crescente che è stato attribuito dalla giurisprudenza, nell’applicazione normativa, ai principi costituzionali; i quali, però, non si prestano a letture univoche. 2. Responsabilità per danni e illecito civile 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 Nella responsabilità extracontrattuale il fatto è preso in considerazione come accadimento già concluso (ancorché le conseguenze si protraggano nel tempo); nella tutela inibitoria, il fatto rileva come situazione attualmente lesiva di un diritto.→nella responsabilità extracontrattuale, il problema dell’imputazione soggettiva del fatto lesivo ha un ruolo centrale, perché occorre stabilire quale soggetto debba accollarsi le conseguenze di ciò che è accaduto; mentre, nella tutela inibitoria, il problema dell’imputazione soggettiva del fatto lesivo ha un ruolo meno rilevante, perché si tratta di impedire che continui, o si ripeta, o abbia inizio, il fatto lesivo. Al contrario, il criterio di qualificazione di un danno come ingiusto (e quindi potenzialmente risarcibile) deve ritenersi meno rigoroso di quello che conduca ad accertare la violazione del diritto come presupposto della tutela inibitoria (al di fuori delle fattispecie legali in cui questa sia espressamente prevista), per il diverso peso da dare, nelle due ipotesi, all’esigenza di protezione della libertà del convenuto. In altri termini la tutela inibitoria ha una valenza altrettanto generale della tutela contro i danni, ma è autonoma sul paino dei contenuti, della funzione e dei presupposti: infatti, il presupposto per la concessione della tutela inibitoria deriva dall’esigenza di reagire a una fattispecie lesiva, che assume rilevanza ai fini del rimedio in quanto la lesione sia in atto e destinata a protrarsi o a ripetersi in futuro. →non è il danno ingiusto il presupposto della tutela, se della formula si assume la nozione giuridicamente precisa del fatto che dà luogo alla tutela risarcitoria. Non ogni danno ingiusto dà luogo a tutela inibitoria e non sempre la lesione del diritto che conduce all'ordine di cessazione implica il risarcimento del danno che ne sia derivato: ad esempio, perché non ricorre in concreto il carattere doloso o colposo dell'atto. Anche per tale ragione non sembra persuasiva la riconduzione del rimedio all’art.2058 cc (che costituisce una tutela apprestata nei confronti non della violazione del diritto, ma del danno ingiusto da risarcire). Queste considerazioni valgono altresì in ordine alla soluzione da dare ai quesiti concernenti il fondamento normativo e la portata più o meno generale o meno della tutela inibitoria. Quanto al primo, appare persuasiva la tesi per cui il fondamento normativo risiede nell'applicazione analogica delle fattispecie espressamente previste; essendo il ricorso all'analogia consentito e anzi richiesto dal principio costituzionale dell'effettività della tutela, e di una tutela congrua alla natura dell'interesse protetto. Se si ritenesse invece che alla tutela inibitoria possa darsi luogo solo in presenza di una norma che specificamente e espressamente la preveda, si determinerebbe l’esito per cui alcuni diritti, a differenza di altri, sarebbero muniti della sola tutela per equivalente monetario, e che pertanto quei diritti, in ipotesi di violazione, da diritti sul bene si trasformerebbero in pretese all’equivalente monetario, con una sorta di espropriazione, che l’ordinamento costituzionale consente e delimita solo con riferimento ai diritti aventi contenuto economico. 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 Alla luce di tale ordine di ragionamento, si comprende altresì che l'atipicità della tutela inibitoria richiede al giudice un accertamento diverso rispetto a quello di cui all'art 2043. Si tratta infatti di accertare se nei confronti della concreta fattispecie lesiva ricorra il medesimo bisogno di tutela che ha indotto il legislatore a prevedere espressamente il rimedio con riferimento al diritto di proprietà e agli altri per i quali sussista la fattispecie normativa tipica. Che quella qui indicata sia la soluzione più conforme ai principi generali dell’ordinamento è confermato dal crescente numero di ipotesi in cui negli ultimi anni il legislatore ha ritenuto di predisporre, di fronte a diritti rispetto a cui pare prevalente la funzione non patrimoniale della tutela, il rimedio inibitorio; nonché di distinguerlo nei presupposto, oltre che nel contenuto, dalla tutela contro i danni; di prevedere infine, in alcune ipotesi, adeguati strumenti coercitivi dell’ordine di cessazione. Va segnalata la figura dell’azione inibitoria collettiva (l.31/2019) nella nuova disciplina dell’azione di classe. L’art.840sexiesdecies cpc prevede che “chiunque abbia interesse” possa agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione di una condotta che rechi pregiudizio “a una pluralità di individui o enti”. Legittimati attivi e passivi sono gli stessi dell’azione di classe risarcitoria, ma quando le due azioni sono proposte congiuntamente, il giudice dispone la separazione delle cause→confermata l’autonomia di quella inibitoria dalle altre tecniche di tutela civile. Il più recente quadro normativo dà conforto alla tesi del carattere generale della tutela inibitoria, a protezione di diritti il cui godimento è assicurato da obblighi durevoli di non fare, sulla base dell'accertamento in concreto della eadem ratio, rispetto ai rimedi previsti in via tipica e generale dal legislatore. Funzione parallela a quella della tutela inibitoria è svolta dall’art.614bis cpc che stabilisce che col provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice può fissare una somma di denaro dovuta dall’obbligato per violazioni successive o per ritardi nell’esecuzione del provvedimento, La norma è dichiarata inapplicabile alle controversie di lavoro. Si può trarre una duplice conclusione: 1) conferma di quanto già si osservava sulla scarsa utilità di una figura generale dell'illecito civile, costruita astraendo dalle specifiche tecniche di tutela attivabili contro i fatti lesivi: variano, infatti, i presupposti oggettivi e soggettivi che il fatto deve presentare perché possa darsi luogo alle differenti forme di protezione degli interessi lesi 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6 2) l'abbandono dell'idea della responsabilità civile come unica forma generale di protezione degli interessi consente di concentrare più proficuamente l'attenzione sulle sue specifiche funzioni, senza costringerle in una figura generale di illecito civile. 4. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale La contrapposizione, o quanto meno la distinzione, tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale appartiene a tutte le esperienze giuridiche contemporanee, oltre che al dato legislativo e alla tradizione. E’ vero che il criterio discretivo a volte è poco chiaro e dà, in certe zone di confine, esiti incerti; nonché che si è diffusa la tendenza a considerarne favorevolmente l’attenuazione, se non la soppressione. Tuttavia, l’obiettiva pare impraticabile. La tendenza a rivedere e ridimensionare la logica tradizionale della differenziazione è significativa, perché frutto di una trasformazione del modo di intendere i fatti costitutivi delle due figure di responsabilità. Qui incidono processi di ampia portata, riassumibili nel passaggio dalla cultura giuridica dello Stato liberale (in cui obblighi e doveri del privato sono solo quelli rigorosamente riconducibili alla duplica fonte dell’atto di autonomia o della norma di legge generale e astratta) a quella dello Stato sociale, segnata dalle esigenze di protezione dei consociati e dalla più ampia fiducia nelle tecniche giudiziali di controllo sull’attività dei privati. Ne discende un diverso modo di considerare i fatti costitutivi della responsabilità, in entrambi i campi. L’obbligazione nascente dal contratto tende a presentarsi non più come rapporto elementare (limitato alla prestazione dovuta in senso stretto), ma come struttura complessa, caratterizzata da una serie di obblighi accessori, coordinati al primo in un nesso funzionale unitario. La tutela si estende così alla violazione di obblighi ulteriori, rispetto alla prestazione dedotta nel rapporto, e che possono quindi apparire, piuttosto, manifestazioni di un generale dovere di non ledere la sfera giuridica altrui. Sull'altro versante, lo schema del diritto assoluto non è più sufficiente a delimitare l'ambito della tutela aquiliana, che si spinge fino a comprendere interessi connessi con attività contrattuali. La tradizionale distinzione tra le due figure di responsabilità, fondata sull'alternativa tra il generale divieto di alterum laedere (tutela dei diritti assoluti) e l'esigenza di rispettare un obbligo specifico nei confronti di un soggetto predeterminato (tutela dei diritti relativi), sembra dunque sfumare. Inoltre l'estendersi di zone di confine ha indotto a dubitare sia del valore concettuale, sia dell'opportunità legislativa della distinzione. Il principio del cumulo o concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale è affermato dalla nostra giurisprudenza, allorquando il fatto, che dà luogo all'inadempimento, produca altresì la lesione di un diritto assoluto della vittima. Alla luce del superamento, da parte della giurisprudenza, 7 7 7 7 7 7 7 7 7 7 7 7 →pare aprirsi il terreno per il ritorno in campo dell’antica categoria del quasi contratto (riconducibile alla terza categoria di fonti dell’obbligazioni sub art.1173 cc), dovendosi però poi individuare rigorosamente (non sempre presente) il criterio per cui il contatto sociale, di natura non negoziabile, appaia così significativo, da dar luogo all’obbligazione, e si parlerà allora di contatto sociale qualificato. E ci si può chiedere se basti a tal fine il generico richiamo ai principi dell’affidamento e della buona fede, desunti dalle norme sulla responsabilità precontrattuale, le quali però configurano pur sempre fattispecie normative tipiche. Le ragioni di tale orientamento giurisprudenziale risiedono, secondo ina generale tendenza, nella volontà di estendere l’area della risarcibilità del danno. Il trasferimento di fattispecie concrete dall’area aquiliana a quella della responsabilità da contratto comporta infatti l’eliminazione del controllo (artt.2043 e 2059 cc) sull’ingiustizia del danno, dal momento che l’antigiuridicità deriva direttamente dall’inosservanza del preteso vincolo sociale. Si comprendono quindi le critiche della dottrina che segnala, tra l’altro, i rischi per l’area di libertà propria dei fatti di autonomia privata. 4.2. La responsabilità sanitaria In giurisprudenza, la responsabilità da contatto sociale è nata nell’ambito della responsabilità del medico e della struttura sanitaria in cui egli operi. Fino a Cass.589/1999. La soluzione adottata era quella della convergenza di forme diverse di responsabilità:  contrattuale per la casa di cura di cui il medico è ausiliario dell’adempimento  extracontrattuale per il medico (artt.2043 e 2059 cc), considerato soggetto terzo rispetto al rapporto contrattuale tra la prima e il paziente. Con Cass.589/1999, la giurisprudenza ha avviato il nuovo orientamento, per il quale, pure in assenza di un formale rapporto derivante da un contratto, intercorre tra il medico e il paziente, per effetto del contratto sociale qualificato che di fatto si determina tra loro, un fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art.1173 cc. Da tale contatto derivano non obblighi di prestazione ma obblighi di protezione, riconducibili a una responsabilità prossima a quella contrattuale, e disciplinati secondo la regola dell’obbligazione da contratto. Su tale situazione è intervenuto il legislatore, sollecitato dalla classe medica. Dopo un 1°tentativo di affermare per legge la riconduzione della responsabilità del medico all’art.2043 cc (l.189/2012), fallito per l’esplicito rifiuto di prenderne atto da parte dei giudici è stata approvata la l.24/2017 (legge Gelli). L’art.7 l.24/2017 stabilisce che la struttura sanitaria risponde contrattualmente anche delle condotte dolose o colpose del medico, ancorché non dipendente dalla struttura e scelto dal paziente, ex artt.1218 e 1228 cc. 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 L’esercente la professione sanitaria invece risponde del proprio operato ex art.2043 cc, salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta col paziente. Si è così abrogata la responsabilità da contatto sociale, e si è alleviata la posizione del medico (in particolare in ordine all’onere della prova della causalità e della colpevolezza e alla prescrizione). 5. Il dibattito sulle funzioni della responsabilità civile Tratto essenziale del processo di trasformazione della responsabilità civile nel corso dell'ultimo secolo è il passaggio dallo schema classico, nel quale il risarcimento è sanzione di un comportamento vietato, a un modello che pone al centro dell'istituto il fatto dannoso e la funzione riparatoria. 5.1. Dal risarcimento come eccezione alla centralità della riparazione del danno (1800-1960): Alle origini del modello normativo del cc è l'opera di riorganizzazione concettuale svolta dai giusnaturalisti e dalla dottrina francese tra i 17° e il 18° secolo. La riconduzione a unità del materiale offerto dalle fonti romanistiche, e l'innesto su esso dell'idea di responsabilità etico-comportamentale che pervade il diritto canonico, conducono all'elaborazione di una figura generale di "delitto" civile, fondata sugli elementi della riprovevolezza etica del comportamento (culpa), della perdita economica (damnum), della lesione dell'altrui proprietà (iniuria). La condanna risarcitoria consente di restaurare l'equilibrio economico preesistente e la funzione preventiva e sanzionatoria si attiva solo se un danno (come lesione della sfera giuridico-patrimoniale) vi sia stato, e su quello si commisura. In questo modo è definitivamente distinta la funzione privata dell’azione aquiliana dalla funzione punitiva pubblica, nel quadro della più ampia opera di delimitazione-contrapposizione tra diritto privato e diritto pubblico, che caratterizza l’affermarsi del diritto moderno. Di regola, in questo modello, il risarcimento ha luogo solo se al convenuto possa personalmente imputarsi una responsabilità per la riprovevolezza del suo comportamento. Le ipotesi di responsabilità differenti dalla colpa, che variamente il diritto comune aveva elaborato, vengono organizzate normativamente come eccezioni alla regola, da interpretare restrittivamente e comunque alla luce del principio della colpa. Questa disciplina è adeguata a una fase in cui l’istituto svolge un ruolo sostanzialmente secondario, di garanzia esterna delle regole appropriative, in modo congruo a un’economia in cui già è dominante il mercato come forma generale dei rapporti economici, ma è ancora prevalente il godimento statico dei beni, e le fattispecie dannose coinvolgono per lo più omogenei ed uguali interessi alla sicurezza proprietaria e personale. 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 I termini del problema mutano con il grande incremento delle occasioni di danno derivante dal processo di industrializzazione e dallo sviluppo dei trasporti. Gli interessi tipicamente sottostanti alle fattispecie dannose non sono più omogenei; al contrario la disciplina aquiliana è chiamata a mediare il conflitto tra libertà di svolgimento delle attività produttive e sicurezza individuale e proprietaria. La nozione etico-comportamentale di responsabilità non appare più adeguata a svolgere tale mediazione, che richiede piuttosto una logica ordinatoria di tipo economico e sociale, essendo coinvolta, nella definizione dei criteri per la sopportazione del danno, la ripartizione tra i diversi ceti sociali dei costi dello sviluppo industriale. Nella fase della prima industrializzazione, la soluzione prevalentemente adottata consiste nella conferma, come regola generale di imputazione della responsabilità, del principio della colpa, il quale viene però progressivamente ad assumere un contenuto in parte diverso e più adeguato alle nuove esigenze. La nozione di colpa viene infatti progressivamente depurata dagli elementi etico- individuali per configurarsi in termini oggettivi, come difformità del comportamento dell'agente rispetto a parametri che esprimono il grado di tollerabilità sociale del rischio introdotto dalla condotta dell'agente. Questo processo può essere colto con particolare chiarezza nel diritto degli USA, anche perché in esso l’elaborazione del tort of negligence come categoria generale (simile alla nostra di illecito civile) avviene solo a fronte dei problemi posti dall’industrializzazione. La nuova nozione "oggettiva" della colpa (che sostituisce quella soggettiva fondata sull’atteggiamento psicologico dell’agente) si accompagna alla sottolineatura del carattere "eccezionale" del risarcimento. La "regola" è che le perdite rimangano dove cadono, se non esiste una ragione socialmente valida che giustifichi l'attivazione del procedimento diretto a trasferirle dalla vittima all'agente. E tale ragione è appunto, di regola, la colpa: solo la difformità della condotta dalla "norma" giustifica il risarcimento, che funge così da sanzione e da tecnica di prevenzione dei comportamenti socialmente anomali. E' questo un modello di responsabilità ispirato a un principio liberalista, che esalta appunto la libertà dell'agire economico e porta ad escludere che chi svolge attività economiche, ancorché rischiose, in modo conforme a parametri socialmente accettabili sia tenuto ad addossarsene le conseguenze dannose. Le regole aquiliane si pongono come limite alla responsabilità di chi svolge attività rischiose. Negli USA l’affermarsi del tort of negligence come principio generale ha svolto la funzione storica di protezione dello sviluppo industriale, mediante l’individuazione di un limite ben definito alla ipotesi di risarcibilità dei danni da esso provocati. I risultati dell’analisi esperienza statunitense non possono essere trasferiti automaticamente nell’Europa continentale. Tuttavia, anche qui l’equilibrio tra ragioni della proprietà ed esigenze della 12 12 12 12 12 12 12 12 12 12 12 12 e funzioni della responsabilità civile. Il processo di estensione dell'area coperta dal rimedio aquiliano assume dimensioni e rilievo in precedenza impensati. Nella stessa direzione assume poi particolare rilievo la tendenza a ricorrere alla responsabilità extracontrattuale per fini che sono di tutela dei diritti e degli interessi, spesso indipendentemente dal verificarsi di un danno avente rilevanza economica. Particolarmente rilevanti da noi, in una prima fase, sono state l'evoluzione della giurisprudenza sulla cd identità personale e sul danno biologico, e l'innovazione legislativa in materia di danno all'ambiente. La nozione giuridica di danno è stata progressivamente estesa fino a dare rilievo autonomo a figure differenti da quella tradizionale del danno patrimoniale. La regola dell'art.2059 cc è stata poi profondamente modificata dalla giurisprudenza, che ammette oggi il risarcimento del danno non patrimoniale ogni qualvolta ci sia stata lesione di una situazione soggettiva riconducibile al valore della persona ai sensi della Costituzione. 5.2. Le critiche alla concezione solidaristica della responsabilità (1970-2000) Lo spostamento di attenzione dall'autore alla vittima del danno incontra un limite nella logica intrinsecamente bilaterale della responsabilità civile. Per effetto di questa, il danno non è eliminato, ma trasferito a un altro soggetto. Perché la traslazione abbia luogo, non è dunque sufficiente che il danno sia ingiusto: occorre altresì che nella fattispecie concreta ricorrano gli estremi di uno dei criteri normativi di imputazione nei quali si esprimono le ragioni che inducono l'ordinamento ad intervenire al fine di trasferire il costo dell'evento dannoso dalla vittima a un altro soggetto. Muovendo da tale premessa, si è detto che una spiegazione attenta solo al profilo riparatorio non è in grado di dare conto delle varie ragioni per cui si è resi responsabili e della possibile evenienza che un danno ingiusto non sia in concreto risarcibile, per difetto di una di quelle ragioni. I principi solidaristici non sono considerati sufficienti a superare tale limite, perché nel giudizio di responsabilità la protezione delle vittime dei danni è conseguita ponendone il costo a carico di un altro consociato, e non può quindi assorbire la funzione sociale dell’istituto; come invece può accadere con sistemi compensativi posti a carico dell’intera collettività. Gli sviluppi più recenti del dibattito sono segnati da una ripresa di attenzione sul quesito circa le ragioni della responsabilità e diffuso è l'orientamento che ritiene di individuarle in una funzione di efficienza del sistema economico. Si osserva che l’esito delle regole risarcitorie (di determinare se sia la vittima, o un altro soggetto variamente identificato, a dovere sopportare il costo del danno) non è definitivo. Il danno è poi per lo più trasferito (con i meccanismi assicurativi e comunque a seguito della sua riconduzione all’interno 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 dei costi del soggetto chiamato a sopportarlo, sia questi la vittima o un terzo), in tutto o in parte, su altri soggetti. Si apre così la via a complesse analisi sugli effetti economici delle regole risarcitorie; dalle quali si tenta di trarre elementi per definire un modello aquiliano idoneo a conseguire effetti economici ottimali. A questo punto i percorsi divergono. L’attenzione agli effetti economici della tutela aquiliana non è di per sé in contrasto con la centralità assegnata al momento riparatorio dalle teorie solidaristiche. Queste identificano il danneggiato con la parte tipicamente debole, da tutelare prioritariamente, che il responsabile possa poi redistribuirne il costo sulla collettività non è considerato contraddittorio: vedendosi nella riparazione il fine dell’istituto, una ripartizione sociale del costo dei danni può essere considerata esito positivo, in quanto consente di renderli insensibili per i singoli danneggiati. L’esigenza di tutela del danneggiato si coordina, in questa prospettiva, con quella di una più ampia distribuzione sociale dei rischi. Depurato da ogni rilievo di finalità redistributive o di tutela della parte debole, l’interesse generale che fonda le ragioni della responsabilità è identificato con l’allocazione delle risorse più efficiente, in quanto tale da rendere massima la ricchezza complessiva del sistema economico. E’ dubbio che attraverso l’analisi economica della responsabilità civile possa giungersi, almeno nel nostro sistema, a consistenti risultati di ordine sia descrittivo sia prescrittivo. Anzitutto, le difficoltà e i contrasti, sorti all’interno delle dottrine economicistiche, circa il sistema ottimale di imputazione della responsabilità, sembrano mostrare i larghi margini di opinabilità della metodologia adottata e comunque seri dubbi sulla possibilità di definire un sistema di regole che consenta effettivamente di ricondurre il costo dei danni all’interno dei costi economici dei soggetti che hanno il controllo sulle condizioni di sicurezza delle attività dannose. In realtà, sia la distribuzione sociale dei rischi che la massimizzazione della ricchezza complessiva possono essere considerata finalità non primarie, ma piuttosto secondarie e indirette, della normativa aquiliana; che è strutturata intorno alla funzione individuale e specifica di ristorare (o meno) la vittima di un concreto accadimento dannoso: ed è dunque solo indirettamente, e nei limiti di tale funzione, che la riparazione del singolo danno diviene costo dell’attività rischiosa. Si può identificare l’interesse generale, che sorregge le regole di responsabilità, con la più efficace allocazione delle risorse economiche solo con un giudizio di valore, che richiede, nel nostro sistema, una fondazione normativa, che pare opinabile già a prima vista. Considerazioni di tipo economico, sul versante dell'esigenza di tutelare il candidato responsabile rispetto al rischio di risarcimenti di ammontare ritenuto troppo elevato, sono poi alla base degli orientamenti che ai profili teorici di critica alla concezione solidaristica della responsabilità, tendono ad accompagnare o a sostituire considerazioni di segno diverso, finalizzate a indicazioni di politica del 16 16 16 16 16 16 16 16 16 16 16 16 diritto, accomunate dalla prospettiva di rimettere in discussione un'idea-base della tutela aquiliana, quella della riparazione integrale del danno. 5.3. I termini attuali del dibattito L'impossibilità di esaurire la spiegazione dell'istituto nella riparazione del danno e le perplessità suscitate dalle ricostruzioni incentrate intorno all'efficienza economica, hanno riportato l'attenzione su profili che sembravano ormai definitivamente superati dall'evoluzione del diritto moderno (come quelli della punizione o del "rendere giustizia") e alla riconsiderazione del significato di altri (come quello del controllo sociale). Una prima distinzione va posta tra le dottrine che accentuano le funzioni sociali dell'istituto e le ragioni di interesse generale che giustificano la traslazione del danno, e quelle che tendono piuttosto a ricondurre la responsabilità aquiliana a una dimensione eminentemente individuale. Nel primo campo può segnalarsi anzitutto la sottolineatura di una funzione che già la concezione tradizionale assegnava al giudizio di responsabilità, quella cioè di prevenire gli eventi dannosi. Nelle teorie economiche l'idea della prevenzione è così intesa: l'effetto deterrente è ricollegato non al peso della minaccia della responsabilità rispetto a specifici comportamenti dannosi, ma all'incidenza delle regole risarcitorie sull'allocazione delle risorse attraverso il mercato. Si parla perciò di deterrenza "generale", come conseguenza di un sistema che imponga la responsabilità al soggetto che sia nelle migliori condizioni per effettuare l'analisi costi-benefici tra i costi dell'incidente, e quelli che consentono di evitarlo. In tal modo si dovrebbe realizzare una riduzione complessiva dei costi sociali degli incidenti. Questo tipo di analisi presenta tali complessità, da renderne dubbie le possibilità applicative, se non in modo approssimato e grossolano, in particolare se se ne postuli la portata generale. Limitata invece alla responsabilità dell’impresa, la teoria della deterrenza generale offre utili elementi di comprensione e direttive interpretative. Anche in questo campo resta tuttavia l’intrinseco limite derivante dalla circostanza che le regole aquiliane possono assicurare solo la compensazione di singoli e specifici danni; laddove il danno, dal punto di vista dell’interesse generale, dovrebbe essere evitato, e non solo compensato. Negli orientamenti più recenti, alla responsabilità civile dell’impresa si tende infatti ad attribuire una funzione ausiliare, rispetto a un sistema di prevenzione specifica organizzato mediante prescrizioni normative. Molto discussa è poi l'idea tradizionale della finalità preventiva come fondamento generale della responsabilità per colpa. Le cause fisiologiche e psicologiche dei comportamenti dannosi più diffusi non sembrano superabili con la minaccia della responsabilità, ma soprattutto si osserva, contro l'idea 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 sistema, e anzi, quando l’ammenda è attribuita a un soggetto diverso dalla vittima del danno è del tutto estranea all’istituto della responsabilità. Così individuati, nelle linee generali, i termini del dibattito attuale sulle funzioni della responsabilità civile, è ora necessario misurarli con l’analisi del sistema del diritto positivo italiano, quale risulta dalla normativa degli artt.2043 ss cc, dalle altre norme che regolano ipotesi peculiari di responsabilità, dall’interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza. Materiale da esaminare alla luce dei principi costituzionali. 6. Principi costituzionali e responsabilità civile La tendenza espansiva al ricorso alla responsabilità civile, con la crescita sia delle ipotesi nelle quali un soggetto è chiamato a rispondere indipendentemente da una sua "colpa" in senso proprio, sia dell'area del danno risarcibile, si è espressa nel nostro ordinamento prevalentemente attraverso il ricorso ad argomenti dedotti dal testo della Costituzione. Funzione unitaria, ancorché non esaustiva, della responsabilità nel sistema del cc è quella di determinare il soggetto sul quale ricada il costo del danno, sulla base di criteri che attengono sia alla qualità dell'interesse leso (ingiustizia del danno), sia a un fatto o una situazione del responsabile (fattispecie di imputazione). Il giudizio di responsabilità ha quindi, nel sistema del cc, un'intrinseca connotazione individuale e patrimoniale. Esso è tuttavia già permeato da valutazioni che in una certa misura trascendono una considerazione meramente "privata" della posizione delle parti. La dimensione dell’interesse generale assume in effetti strutturalmente, nella responsabilità civile, un peso maggiore che in altri settori del diritto privato. Un motivo di "interesse generale" va posto alla base sia della traslazione del danno dalla vittima a un altro soggetto (problema dell'imputazione), sia della valutazione dell'interesse leso, anche nella comparazione con quello sottostante l'attività lesiva (problema dell'ingiustizia del danno). Sia per questa ragione, sia per il caratteri della disciplina (che ricorre ampiamente a clausole o norme generali), si è diffusa nella nostra esperienza la tendenza a ricorrere ai principi costituzionali per rinnovare e talvolta per contestare la normativa del cc: onde ridurre il ruolo della colpa a favore della cd responsabilità oggettiva, arricchire il novero degli interessi rilevanti ai fini della qualificazione di ingiustizia del danno, porre in discussione il connotato della patrimonialità come requisito generale di risarcibilità del danno. Per tale via si è dato quel rilievo alla normativa costituzionale che è, in genere, una delle più significative acquisizioni dell’esperienza giusprivatistica italiana. Ai "doveri inderogabili di solidarietà" (art 2 Cost) si è efficacemente fatto ricorso per fondare quello "spostamento di attenzione" dall'autore alla vittima del danno, che caratterizza una moderna visione 20 20 20 20 20 20 20 20 20 20 20 20 dell'istituto. Il principio solidaristico opera come criterio di integrazione della disciplina, quando occorra esprimere una valutazione del comportamento o dell'interesse protetto delle parti.→va condiviso il recente orientamento della Cassazione in tema di danno non patrimoniale, quando afferma che il principio di solidarietà può valere pure per limitare il diritto al risarcimento della pretesa vittima di un danno. Il giudizio aquiliano non può invece farsi integralmente carico dell'interesse dei singoli alla sicurezza, per il quale controparti della vittima sono se mai lo Stato e l'insieme di consociati, e non un altro soggetto privato, se non sussista una ragione normativa (ulteriore rispetto alla garanzia della sicurezza del danneggiato), che giustifichi la traslazione del danno. Attraverso il risarcimento, si determina una perdita economica per il responsabile, e non solo l’eliminazione del danno per la vittima. La solidarietà per la seconda non giustifica, di per sé sola, l’attivazione della tutela dovendosi altresì tenere conto della posizione del primo. Il principio solidaristico assume un peculiare rilievo quando venga fatto valere con riferimento a conflitti socialmente tipici, nei quali la vittima appare meritevole di maggiore protezione per il valore sociale del bene leso (danno alla persona), o il dovere di solidarietà attenga allo svolgimento di un'attività qualificata (danno d’impresa). Sotto il secondo profilo, la formula costituzionale della "utilità sociale" come limite delle attività economiche, sembra giustificare un'interpretazione dei criteri di imputazione della responsabilità che favorisca il principio per il quale la legittimazione delle attività economiche sia subordinata all'attitudine ad accollarsi il costo dei danni cagionati dal processo produttivo. Per quanto concerne la funzione di protezione della sfera personale, il principio dell'art.2 Cost è dotato di indubbia potenzialità incisiva nell'interpretazione tanto della clausola di ingiustizia del danno quanto della regola ex art 2059. Da solo (nel campo dei diritti della personalità), o insieme all’art.32 Cost (per il danno alla salute), è anzi questa l’area in cui più incisivo è stato il ruolo dei principi costituzionali, fino all’esito recente che ha determinato una sorta di abrogazione dell’art.2059 cc per via giurisprudenziale, e l’assunzione dell’art.2 Cost come norme che giustifica in via generale il risarcimento del danno non patrimoniale alla persona. Sarebbe eccessivo trarre dal valore costituzionale della persona umana la conseguenza che ogni compressione di un interesse della persona comporti necessariamente l'attribuzione della tutela risarcitoria. Non c’è ragione per ritenere che il diritto a una somma di denaro debba essere necessaria conseguenza della lesione di un bene costituzionalmente protetto. Rispetto al dato costituzionale, la tutela civile più congrua è anzi quella che attiene essenzialmente al bene nella sua specificità, e non la mera sostituzione con l'equivalente monetario. Alla conclusione estensiva (a fronte della scelta 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 legislativa sancita nell’art.2059 cc) può giungersi peraltro dimostrando che la mancanza della tutela risarcitoria, per i beni personali, renda in determinate tipologie di lesioni non sufficientemente effettiva la protezione che l’ordinamento appresta per quel bene. Questa è la conclusione a cui è giunta la Cassazione nella rilettura dell’art.2059 cc, quando ha affermato che quella risarcitoria deve considerarsi la tutela minima a presidio di diritti di rango costituzionale, per i quali non sia rinvenibile nell’ordinamento altra forma di protezione. Per quanto concerne il principio di eguaglianza di cui all'art 3 Cost, non può desumersi immediatamente da tale norma che tutte le vittime di un eguale danno abbiano eguale diritto a essere risarcite. Il giudizio di responsabilità è infatti strutturato in modo tale, che la responsabilità discende anche da ragioni estranee alla natura del danno e alla posizione della vittima, e che sono connesse invece con la posizione del soggetto chiamato a rispondere. E' quindi la logica intrinsecamente bilaterale dell'istituto a determinare come possibile l'esito, quanto all'an del risarcimento, di una disparità di trattamento tra le vittime di danni eguali. Il principio di eguaglianza rileva però sotto il profilo della razionalità di scelte legislative in ordine al titolo di imputazione idoneo ad attivare la responsabilità, ovvero alla tipologia dei danni risarcibili, ovvero ancora a eventuali limitazioni quantitative del risarcimento, previste talvolta da norme speciali. Possono ora trarsi certe considerazioni d’insieme. Se è vero che non ogni ampliamento dell’ambito operativo della responsabilità civile pare congruo ai (o imposto dai) principi costituzionali, è altrettanto vero che essi richiedono una riconsiderazione della disciplina del cc, particolarmente per quanto attiene all’imputazione all’impresa della responsabilità e alla protezione dei beni della persona. In ogni caso, appare difficilmente configurabile un'applicazione diretta delle norme costituzionali nella materia. Quando talvolta si parla, ad es, di applicazione diretta dell’art.32 Cost ì, per fondare la risarcibilità del danno biologico, si dice che dalla norma costituzionale possono trarsi gli elementi per un’interpretazione rinnovata degli artt.2043 e 2059 cc; ma sono queste norme ad essere poi applicate, e non direttamente l’art.32 Cost. Del resto, a questa conclusione è giunta la giurisprudenza tedesca. Ciò è reso più evidente dicendo che la lesione sofferta dal singolo può dare luogo a riparazione in senso tecnico solo quando sussistono i presupposti e le condizioni della responsabilità aquiliana. E’ sulla normativa che definisce tali presupposti e condizioni che i principi costituzionali incidono, come direttive per l’interpretazione delle norme del cc, come criteri di integrazioni del contenuto di clausole generali, come fondamento del ricorso all’analogia, come ragioni di incostituzionalità. 7. Le funzioni della responsabilità 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 Dal punto di vista dei criteri di imputazione entrano in gioco, anzitutto, la posizione del responsabile e le ragioni che con riferimento a essa giustifichino l’imputazione dell’obbligo risarcitorio; e, più complessivamente, le ragioni di interesse generale che giustificano l’intervento normativo, diretto alla traslazione del danno. Nell’evoluzione storica del moderno diritto civile, le ragioni della traslazione del danno dalla vittima a un responsabile divengono sempre più complesse, nella misura in cui all’istituto è fatto carico di finalità in larga misura nuove rispetto a quelle che ne erano originariamente alla base. Si vengono così enucleando nell’elaborazione della giurisprudenza e in specifiche fattispecie legislative, figure in un certo senso tipiche di accadimenti dannosi, che non sempre coincidono con le categorie generali. Il giudizio di responsabilità si mostra segnato da un processo di diversificazione; che tuttavia incontra in limite nella funzione unitaria, e che normativamente tutti li caratterizza: il risarcimento del danno come compensazione patrimoniale (dal punto di vista della vittima) e come amministrazione dei costi economici (dal punto di vista dell’ordinamento). 7.2. Il danno non patrimoniale: solidarietà, soddisfazione, punizione Il discorso e le conclusioni sono diversi per la responsabilità per danno non patrimoniale: infatti, qui non si può parlare di funzione compensativa in senso proprio; perché il danno non patrimoniale, per definizione, non può essere misurato secondo il criterio (dell’equivalenza con la perdita economica subita dalla vittima) che vale per il danno patrimoniale. Per quest’ultimo la funzione compensativa non indica una generica istanza riparatoria, ma la traslazione della perdita economica della vittima al responsabile. Non è così per il danno non patrimoniale. Ciò non vuol dire peraltro che un più ampio profilo riparatorio sia estraneo al danno non patrimoniale. Ma è diversamente connotato. Effettivamente, il risarcimento in questo caso determina un arricchimento economico della vittima (esito precluso dalle regole che disciplinano l’altra figura); sul piano funzionale, risponde quindi ad una finalità che ben può essere definita satisfattiva della vittima. L’idea della soddisfazione come base del risarcimento del danno non patrimoniale presuppone il rifiuto della tendenza ad ammettere una fittizia equivalenza tra un danno economicamente irrilevante e una somma di denaro. Non avere considerato tale aspetto ha condotto la giurisprudenza recente a esiti non chiari e soddisfacenti nella determinazione dei criteri per il quantum da liquidare, avendo adottato categorie (la riparazione integrale, il divieto di duplicazione risarcitoria, la confusione tra il danno evento e il danno conseguenza) che sono proprie del danno patrimoniale, ma prive di senso per quello non patrimoniale. Partendo dall’idea di soddisfazione, occorre invece intendere le ragioni per 25 25 25 25 25 25 25 25 25 25 25 25 cui l’ordinamento dà luogo, in casi determinati, a una forma di tutela che si traduce nell’arricchimento della vittima. Se si considerano i dati dell’esperienza giuridica ci si accorge che tali ragioni sono differenti, a seconda delle diverse ipotesi normative. In alcune, la soddisfazione si spiega esaustivamente con un’esigenza solidaristica. La valutazione normativa è che la vittima debba ricevere un beneficio economico, che esprima la solidarietà nei suoi confronti del soggetto cui il danno sia giuridicamente riferibile. A tale funzione risponde soprattutto il danno biologico: la lesione dell’integrità fisica del soggetto è considerata meritevole di riparazione indipendentemente da considerazioni attinenti alla riprovevolezza della condotta lesiva. In un secondo campo (e particolarmente nella tutela dei diritti della personalità), la soddisfazione assume il più pregnante significato di riconoscimento del diritto della vittima, offeso dal comportamento lesivo. L’elemento punitivo e preventivo assume poi un ruolo caratterizzante, quando la riprovevolezza del comportamento lesivo costituisce, da un lato il criterio esclusivo per l’imputazione e, dall’altro, il parametro principale per la quantificazione del risarcimento: che è ciò che avviene nella responsabilità civile da reato e in altra ipotesi a questa assimilabile. Anche in questi casi, però, la funzione punitiva non può considerarsi assorbente. Anzitutto perché la tutela si incentra poi sempre sulla vittima, garantendone l’arricchimento; ma pure perché importanti aspetti della disciplina (come la responsabilità vicaria, l’assicurabilità, l’autonomia del giudicato civile da quello penale) non si lasciano intendere se non si ammette l’esistenza, accanto alla finalità punitiva, anche della funzione satisfattiva per il soggetto leso. A tale eterogeneità funzionale corrisponde l’impossibilità di una definizione unitaria del danno non patrimoniale. Questo non si lascia definire né come lesione di un bene non patrimoniale, né come conseguenza soggettiva (dolore, perturbamento d’animo, peggiorata qualità della vita) dell’illecito: sono, entrambe, definizioni parziali e unilaterali. Il tratto che caratterizza il danno non patrimoniale è la valutazione normativa, che alla lesione di un interesse (considerata indipendentemente da eventuali conseguenze economiche) reagisce con l’attribuzione, al titolare di quell’interesse, del diritto a una somma di denaro. In conclusione, il giudizio di responsabilità non svolge una funzione unica o unitaria; ma non ha neppure una generica natura polifunzionale, dalla quale prendere a prestito ciò che serve alla soluzione del caso concreto. Per il danno patrimoniale, unitaria è la funzione compensativa del risarcimento, alla quale corrispondono diversi criteri normativi (e quindi funzioni) dell’imputazione al responsabile. 26 26 26 26 26 26 26 26 26 26 26 26 La responsabilità per danno non patrimoniali a sua volta esprime una forma di tutela differenziata rispetto all’altra non solo nei presupposti normativi, ma anche nella funzione; che si rivela poi eterogenea, oltre il dato unitario costituito dalla circostanza che la riparazione si presenta come peculiare tecnica di tutela successiva nei confronti della lesione di interessi protetti. Capitolo 2 – Il danno risarcibile – Parte 1 – Dal sistema del cc al diritto giurisprudenziale vivente - 1. Il problema della nozione giuridica di danno. Patrimonialità e ingiustizia. Presupposto della responsabilità = esistenza di un danno risarcibile. Non esiste una definizione normativa del termine. Le varie concezioni del danno, che l’esperienza giuridica conosce, muovono dal dato comune che tale nozione (come quella, strettamente correlata, di risarcimento) attiene alla tutela da apprestare nei confronti di un accadimento già concluso onde eliminare le conseguenze sfavorevoli che si sono prodotte per un determinato soggetto (in danneggiato). Nelle diverse fasi storiche e nelle diverse esperienze muta, però, la descrizione normativa dell’accadimento (danno) idoneo ad attivare la tutela risarcitoria; e quindi mutano i presupposti, il contenuto e la funzione del risarcimento. In modo schematico possono individuarsi tre concezioni del danno: 1. danno = modificazione della realtà materiale (e dunque come alterazione o soppressione di un bene) 2. danno = diminuzione del patrimonio della vittima 3. danno = lesione di un interesse protetto conseguente al contrasto tra un accadimento e le regole del diritto. Questi modi di rappresentare il danno possono collocarsi in una progressione storica. Il passaggio dalla concezione materiale a quella patrimoniale accompagna la formazione del moderno diritto della responsabilità, in modo funzionale all’economia di mercato. In questo contesto il danno non patrimoniale si presenta come figura subordinata, riassumibile nella formula del danno morale- soggettivo, risarcibile in base alla fittizia equivalenza tra diminuzione del patrimonio e diminuzione del benessere psico-fisico; equivalenza che è ben espressa dall’idea del pretium doloris, La concezione materiale o reale del danno del diritto premoderno continua a percorrere il dibattito e la stessa 27 27 27 27 27 27 27 27 27 27 27 27 Il sistema delineato dal titolo IX del libro IV del cc accoglie una nozione di danno come perdita economica. Nell'art 2043 il danno costituisce al tempo stesso il presupposto e il contenuto della tutela, che consiste appunto nell'obbligo di risarcirlo. Il risarcimento è governato dal principio della cd riparazione integrale, che esprime la tendenziale coincidenza tra danno giuridicamente cagionato dal responsabile, e danno da risarcire; e quindi muove dall’idea che è giuridicamente rilevante solo il danno determinante perdite economiche. E’ questo un principio di diritto positivo, che si ricava dalle regole disciplinanti il risarcimento (ex art.2056 cc) e non imposto da astratte esigenze logico- giuridiche. Nella redazione del cc, la scelta di limitare la risarcibilità ex artt.2043 ss cc ai danni patrimoniali fu consapevole e politica. Il codificatore ritenne di seguire il sistema tedesco, che limita il risarcimento del danno non patrimoniali alle ipotesi tipicamente previste dalla legge, anziché quello francese, in cui secondo un’antica e consolidata interpretazione giurisprudenziale anche i danni morali vanno ricondotti alla clausola generale della responsabilità civile. L’art.2059 cc parta di danno non patrimoniale, non di danno morale, confermando che il senso dell’alternativa tra le due figure si fonda sul connotato della patrimonialità. Del resto, la differenza tra le due categorie attiene al diverso contenuto della nozione di danno e alla differente funzione della tutela risarcitoria.    Come intendere, dunque, la bipartizione posta dall'art 2059? In primo luogo, ciò che rileva è il carattere patrimoniale o meno del danno e non del bene leso del fatto dannoso. Il danno è patrimoniale in quanto il fatto lesivo determini conseguenze economiche negative per la vittima. Alla lesione di un bene non patrimoniale possono accompagnarsi conseguenze economiche negative, e quindi danno patrimoniale, risarcibili secondo le regole ordinarie; così come la lesione di un bene patrimoniale può risultare economicamente indifferente, restando quindi preclusa la tutela aquiliana. Per spiegare la prima evenienza non vi è alcuna ragione di ricorrere, come fa chi riferisce la patrimonialità al bene leso invece che al danno, a una figura di "danno patrimoniale indiretto", la quale suscita molti dubbi, alla luce della regola che limita la risarcibilità ai danni diretti (art.1223 cc). Le perdite patrimonialmente rilevanti, purché riconducibili secondo le regoli causali al fatto che fonda la responsabilità, e ancorché questo abbia inciso su un bene personale, sono danno "diretto". In definitiva, nel sistema del cc il danno risarcibile di cui parla l'art.2043 cc è il danno patrimoniale: solo ad esso è applicabile direttamente la disciplina del cc, che del resto solo a quel tipo di danno si attaglia. L'art.2059 cc, nello stabilire che il "danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi stabiliti dalla legge", pare pertanto una coerente conferma dell’estraneità al sistema del cc di una nozione di danno che non sia commisurata sull’an, prima che sul quantum, della rilevanza economica 30 30 30 30 30 30 30 30 30 30 30 30 negativa per la vittima dell’evento lesivo; e impone di cercare fuori dal cc le ragioni e l'ambito del risarcimento del danno non patrimoniale. 3. L’evoluzione del diritto giurisprudenziale: il superamento, alla luce della Costituzione, del limite di cui all’art.2059 cc Dopo l'entrata in vigore del cc del 1942 non si dubitò a lungo del fatto che per danno non patrimoniale dovessero intendersi, secondo la tradizione, le sofferenze psicologiche e il dolore fisico causati dal fatto lesivo (danno morale-soggettivo) e che l'art.2059 cc prevedesse un principio di stretta tipicità, nel senso che il risarcimento di tale figura di danno fosse ammissibile solo se espressamente prevista dalla legge e, quindi, nell'ipotesi di reato ex art 185 cp e nelle altre pochissime fattispecie normative del medesimo tenore. Oggi l’interpretazione della norma è completamente cambiata- Ciò in ordine sia alla nozione di danno non patrimoniale (col superamento dell’identificazione col danno morale), sia all’interpretazione del principio di tipicità ex art.2059 cc, che non è più limitato all’espressa previsione legislativa. Il nuovo diritto giurisprudenziale lascia aperte delle questioni, sotto entrambi i profili. L’attuale orientamento giurisprudenziale pare corretto sia sul piano concettuale (conferma il carattere bipolare del sistema risarcitorio, che non ammette tertia genera tra il danno patrimoniale e quello non patrimoniale) sia su quello della congruità ai principi costituzionali. Le questioni aperte e l’iter giurisprudenziale (non ancora conclusosi) derivano da due circostanze: 1) Nella sua evoluzione, la giurisprudenza ha continuato a sovrapporre la questione della nozione giuridica di danno non patrimoniale e quella dell’ambito di risarcibilità dello stesso. 2) La giurisprudenza non ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.2059 cc che è in realtà il fondamento (implicito) dell’evoluzione giurisprudenziale. Al nuovo diritto vivente si è giunti, infatti, per vie tortuose. Da un lato si è scarnificata la fattispecie sub art.185 cp, eliminando progressivamente la rilevanza di elementi (come imputabilità, prova della colpevolezza) necessari per la qualificazione del fatto come reato, e non invece, secondo questo orientamento, a quelli del risarcimento del danno non patrimoniale. Sul più impegnativo versante del rapporto tra l'art.2059 cc e la Costituzione occorre muovere dalla sentenza della Corte costituzionale che, con riferimento al danno alla salute, e alla questione della risarcibilità del danno biologico (= lesione della salute indipendentemente da perdite economiche), ne affermava la risarcibilità in via generale ex art.2043 cc, sulla base dell'art.32 Cost (Corte cost.184/1986). Tale sentenza definiva danno biologico come un tertium genus di danno rispetto al danno patrimoniale e a quello morale, caratterizzato dalla rilevanza risarcitoria dell'evento lesivo 31 31 31 31 31 31 31 31 31 31 31 31 indipendentemente dalle conseguenze (patrimoniali o morali) che ne fossero derivate (teoria del danno-evento). La debolezza della teorizzazione posta a base della giusta decisione a favore della risarcibilità in via generale del danno biologico emergeva quando, davanti alla medesima Corte costituzionale, era posto il tema della risarcibilità del danno sofferto dal congiunto della vittima primaria. Ancora una volta la Corte costituzionale seguiva la strada non della declaratoria di incostituzionalità dell'art.2059 cc, ma dell'interpretazione estensiva del sistema. Abbandonava però la concezione del danno-evento e riconduceva il danno alla salute nell'ambito normativo dell'art.2059 cc, ammettendone peraltro la risarcibilità alla luce dei preminenti valori costituzionali (Corte cost.372/1994). La via così aperta veniva generalizzata da omogenee decisioni dei giudici di costituzionalità e di legittimità intervenute nel 2003. La Cassazione, con le sentenze 31 luglio 2003 n 8827 e 8828 e altre coeve o successive, ha affermato che la nozione giuridica di danno non patrimoniale è più ampia del danno morale-soggettivo, e dello stesso danno biologico (definito come lesione dell'integrità psico- fisica sulla base di criteri medico-scientifici), comprendendo ogni ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica. Tale tesi implica che il danno risarcibile ex art.2059 cc non è in re ipsa (secondo la superata teoria del danno-evento), ma va allegato e provato in giudizio. Parallelamente, la Corte costituzionale (Corte Cost.233/03) aveva ribadito la costituzionalità dell’art.2059 cc, alla luce della giurisprudenza di cassazione che semplifica la fattispecie di reato ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art.185 cp. La decisione dei giudici di costituzionalità rileva però soprattutto perché ha argomentato la mancata declaratoria di incostituzionalità, in quanto ritenuta superata dalla giurisprudenza di Cassazione menzionata. 4. Il danno non patrimoniale nella legislazione recente Alcuni testi legislativi recenti prevedono esplicitamente la risarcibilità del danno anche non patrimoniale, a tutela di interessi di rilievo costituzionale connessi al valore della persona. Questo indirizzo legislativo conferma sia il carattere bipolare del sistema risarcitorio sia la tendenza dell'ordinamento ad ampliare il novero delle ipotesi di danno patrimoniale risarcibile. Già la l.117/1988 sulla responsabilità dei magistrati ha previsto il risarcimento del danno non patrimoniale per l’ipotesi in cui l’illecito del magistrato abbia comportato la privazione della libertà personale dell’attore. 32 32 32 32 32 32 32 32 32 32 32 32 non ai criteri o bisogni propri di questi come individuo. E’ quindi sempre un interesse socialmente ed economicamente tipico (suscettibile pertanto di valutazione oggettiva) a determinare l’esistenza e la dimensione di un danno patrimoniale. Questa indicazione va generalizzata. Il carattere patrimoniale (e dunque la risarcibilità, ma pure la misura) del danno discende non dall’accertamento contabile di un saldo negativo nello stato patrimoniale della vittima (come nella versione originaria della teoria della differenza); ma dall’idoneità del fatto lesivo, secondo una valutazione sociale tipica, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre. La valutazione suddetta va peraltro operata con riferimento non alla natura del bene leso, ma alle conseguenze della lesione: il requisito normativo della patrimonialità attiene al danno, e non al bene leso dal fatto dannoso. La lesione di un diritto della persona, se dà luogo a perdite economiche nel senso ora detto, è danno patrimoniale; di converso, la lesione di un diritto patrimoniale può dar luogo a danno non patrimoniale risarcibile, ricorrendo i requisiti di legge (così l’interesse di affezione su un animale o cosa ex art.185 cp). La patrimonialità del danno non implica quindi necessariamente diminuzione di prezzo o di reddito, né tanto meno sborso monetario da parte della vittima; essendo sufficiente la perdita, o la mancata acquisizione, di utilità o valori, suscettibili di commisurazione in denaro, secondo una valutazione sociale tipica. Non pare che la revisione della concezione patrimoniale del danno possa spingersi oltre tali confini. In particolare, ad esse sono estranee considerazioni di tipo equitativo, finalità punitive nei confronti dell’autore del fatto lesivo o solidaristiche verso la vittima; che piuttosto attengono al problema del superamento dei rigidi confini dell’art.2059 cc, con l’obiettivo di apprestare una tutela più adeguata a beni non patrimoniali. Nell’ambito del danno patrimoniale resta prevalente la considerazione economica (e non etico- personalistica, sociale, ecc), e la responsabilità civile mantiene la funzione di strumento per l’amministrazione dei costi, sul presupposto di una diminuzione di utilità economica per la vittima. Congruo a tale nozione di danno patrimoniale è il principio normativo della riparazione integrale del danno, che sia riconducibile al danneggiato secondo le regole della causalità giuridica (art.2056 cc). Il senso del nesso tra patrimonio e danno muta (e la nozione di differenza patrimoniale in senso stretto non è applicabile) quando l’interesse leso attiene a un bene a cui possa riconoscersi, con valutazione sociale tipica, un valore economico, ma che non riveste la forma di merce, o non rileva solo come tale. E’ questo il caso dell’integrità psico-fisica come distinta dal valore della forza lavoro: per la quale però il senso di una configurazione patrimoniale del danno va pur sempre ricondotto alla 35 35 35 35 35 35 35 35 35 35 35 35 diminuita capacità del soggetto di svolgere attività economicamente rilevanti. La perdita di utilità non economiche, così come la mera lesione biologica, non rivestendo tale carattere, rientrano nello schema del danno non patrimoniale, quale che sia poi l’ambito di risarcibilità che si voglia a questo riconoscere. Un problema non dissimile si pone per la perdita di valore economico delle risorse collettive e dei beni liberi; la questione centrale, qui, attiene alla possibilità di imputare tali beni, ai fini della tutela risarcitoria, a un soggetto determinato, pur in assenza di un diritto soggettivo o comunque di una situazione soggettiva di tipo appropriativo. In questa direzione muove la disciplina legislativa del danno ambientale. Nell'ambito del danno patrimoniale si pone poi la tematica delle conseguenze economiche negative, successive all'evento lesivo. La rilevanza di tali perdite ai fini del risarcimento potrebbe apparire in contrasto con la nozione di danno come accadimento già concluso. Ma quando si parla di "danno permanente" ci si riferisce in realtà alla permanenza del fatto lesivo, che continua giorno per giorno a produrre danno (altrimenti, di ogni danno si dovrebbe dire che è permanente, perché non è eliminato col risarcimento). Se il fatto illecito, la condotta lesiva, permane nel tempo, ai fini della tutela risarcitoria rileva infatti solo il danno che si è già prodotto, nel momento preso in considerazione ai fini del giudizio. Si spiega così la giurisprudenza sulla prescrizione, che limita il risarcimento, pro rata temporis, ai 5 anni precedenti alla proposizione della domanda giudiziale (diversa questione è quella della risarcibilità del danno futuro). E l’assunto non è contraddetto, bensì confermato, dalla regola giurisprudenziale che considera rilevante, ai fini della quantificazione, il momento della sentenza, e non quello in cui si era verificato l’evento lesivo. Infatti, il principio che regola il risarcimento fa riferimento alle conseguenze effettivamente subite dalla vittima, e non al danno come modificazione materiale della realtà.    E’ per questo che, ad es, si considera rilevante ai fini del risarcimento del danno subito dal lavoratore dipendente, non la retribuzione percepita al tempo dell’illecito, ma al momento della liquidazione. La soluzione è coerente col sistema processuale: infatti, ex art.345, 1°comma cpc, il danneggiato può chiedere in appello il risarcimento per i danni sofferti dopo la pronuncia della sentenza di 1°grado. La disciplina presuppone il perfezionamento del fatto lesivo in un momento storico dato, e ai soli fini della determinazione concreta della liquidazione valuta l’insieme delle conseguenze negative determinate dalla lesione fino al momento della sentenza. 36 36 36 36 36 36 36 36 36 36 36 36 Diversa questione è quella riguardante la prescrizione del danno permanente. Qui la prescrizione decorre ogni giorno successivo a quello in cui il danno si produce; quindi può essere risarcito solo il danno prodottosi nei 5 anni anteriori alla data in cui il diritto al risarcimento è fatto valere. Quando viene in considerazione non l’esigenza di reagire al danno prodotto da un fatto lesivo, ma al fatto lesivo in quanto tale, si è al di fuori dell’ambito di azione della tutela risarcitoria, per entrare in quello della tutela di cessazione; non rileva più qui la nozione giuridica di danno, ma quella di violazione del diritto.→saranno esperibili, ad es, i rimedi sub art.949 cc (a tutela della proprietà), o art.2599 (per illecito concorrenziale=, e non quello risarcitorio, neppure nella forma dell’art.2058 cc. 6. Il danno non patrimoniale come lesione dell’interesse protetto. Danno morale, danno biologico, danno esistenziale. Il problema della prova. La questione dell'ubi consistam del danno non patrimoniale può essere affrontata partendo dalla conferma del carattere bipolare del sistema risarcitorio, riconducibile alla dicotomia tra l'art.2043 cc e l'art.2059 cc. Il tema della nozione giuridica di danno non patrimoniale va tenuto distinto da quello dell’ambito in cui lo stesso va risarcito. Il senso dell'alternativa tra le due figure si fonda sulla presenza o meno del connotato della patrimonialità, e non su una definizione positiva del danno non patrimoniale. La differenza tra le due categorie attiene al diverso contenuto della nozione di danno e alla differente funzione della tutela risarcitoria. Come intendere, dunque, la nozione di danno non patrimoniale di cui all'art 2059? In primis, ciò che rileva è il carattere patrimoniale o meno del danno, e non del bene leso dal fatto dannoso. La natura di tale bene è di per sé estranea a quella nozione. Alla lesione di un bene non patrimoniale possono accompagnarsi conseguenze economiche negative, e quindi il danno patrimoniale, risarcibili secondo le regole ordinarie; così come la lesione di un bene patrimoniale può risultare economicamente indifferente, restando quindi preclusa la tutela aquiliana. La giurisprudenza è andata peraltro alla ricerca di una nozione ontologica di danno non patrimoniale; ed è stata questa la causa della confusione e delle incertezze che ne sono derivate. Con le sentenze delle Sezioni Unite del 2008 (26972 – 26975), infatti, la Cassazione ha affermato il carattere unitario del danno non patrimoniale, non suscettivo di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate; ma ha poi affermato anche la rilevanza, sebbene ai soli fini della determinazione del quantum risarcitorio, di diverse forme di danno; in particolare, le sofferenze fisiche e psichiche e i pregiudizi di tipo esistenziale. 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 37 Effettivamente non è diversa la struttura della situazione nelle evenienze che dottrina e giurisprudenza definiscono come danno morale, o esistenziale o alla persona. In tutti questi casi, infatti, presupposto della tutela è la lesione del diritto, non il dolore, ovvero il peggioramento della qualità della vita. Chiarito che il danno alla persona è sottratto all’interpretazione restrittiva dell’art.2059 cc, si può rilevare che una serie di problemi, che hanno dato luogo ad ampi dibattiti, non ha ragion d’essere. Che il danno alla vita di relazione (= impossibilità o difficoltà per la vittima, a seguito del fatto lesivo, di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli a un livello normale; il quale trova le sue più rilevanti espressioni nel danno estetico e nel danno alla sfera sessuale) sia assorbito o meno, o sia assorbito in parte nel danno biologico è questione irrilevante ai fini della nozione di danno, e normativo, mentre lo è per la determinazione del quantum . La nozione di danno non patrimoniale appare tale, da ricomprendere tutte le ipotesi in cui l’ordinamento preveda la tutela risarcitoria pur in assenza di perdite economiche, così diviene cruciale il profilo del significato dell’attuale principio di tipicità. Si pensi alla questione della prova del danno non patrimoniale: al di là delle affermazioni in contrario ricorrenti nella giurisprudenza, ciò che effettivamente è chiesto alla vittima è di provare la lesione della situazione giuridica, non di avere sentito dolore, ovvero di avere concretamente subito un peggioramento della qualità della vita; laddove per il danno patrimoniale è la perdita economica che deve essere provata dall’attore, e non solo l’ingiustizia del fatto lesivo. Si spiegano così le ricorrenti affermazioni giurisprudenziali secondo cui la prova del danno non patrimoniale è in re ipsa. L’impossibilità di provare il danno morale fu usata, prima dell’entrata in vigore degli artt.185 cp e 2059 cc, come argomento per negare la risarcibilità del danno non patrimoniale, nel silenzio dei testi legislativi precedenti. La soluzione della giurisprudenza era talvolta di affermare la non necessità della prova, talaltra e più spesso di ritenere applicabili le ordinarie regole probatorie (per cui spetterebbe all’attore allegare e provare il danno morale), ma temperandole fortemente con l’argomento presuntivo basato sull’id quod plerumque accidit. La giurisprudenza più recente argomenta nello stesso senso, con riguardo alla più ampia nozione di danno non patrimoniale alla persona risarcibile ex art.2059 cc costituzionalmente reinterpretato. Si afferma, quindi, che il danno non patrimoniale non è mai danno-evento e che, quindi, il risarcimento non è mai conseguenza automatica dell’illecito→spetta all’attore fornire le prove che il fatto lesivo ha determinato conseguenze pregiudizievoli per lui, diverse dalle perdite economiche; ma anche che tale prova può esaurirsi nella circostanza determinata da quel tipo di fatto lesivo, in chi ne è vittima, 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40 secondo il comune giudizio sociale, sofferenze, peggioramento della vita di relazione, perdita di immagine, di prestigio, ecc. Il convenuto può dimostrare che non è così: ad es, perché nel caso la vittima è stata vista festeggiare ed esprimere giubilo per quel fatto, rispetto al quale pretende di essere risarcito. Ciò che rileva anche solo per il profilo probatorio è sempre la lesione della situazione giuridica. Nel caso di danno non patrimoniale reclamato dal congiunto della vittima primaria, la situazione dedotta è il legame affettivo esistente fra loro. Sicché, nell’esempio paradossale appena fatto, ciò che il convenuto intende provare è che un legame affettivo nel caso concreto non erta stato affatto leso. Questa conclusione pare valida sia per le sofferenze e il dolore (danno morale-soggettivo), sia per la più ampia nozione di danno non patrimoniale alla persona affermata dalla giurisprudenza; sicché, anche sotto tale profilo, non emerge ina differenza qualitativa tra il 1° e il 2°. Solo apparentemente diversa è la situazione per il danno biologico. La definizione giurisprudenziale di tale figura come lesione della salute psicofisica accertata secondo i canoni della scienza medica (definizione accolta dal legislatore), infatti, comporta che la prova concernente l’esistenza del danno è quella che risulta dall’accertamento medico-scientifico, che è ciò che la vittima deve dedurre per ottenere il risarcimento. Ma non muta la struttura giuridica rispetto alle altre figura di danno non patrimoniale: la lesione è sufficiente a dare luogo al risarcimento, ma va provata, provandone contestualmente la consistenza. Si conferma quindi che l’estensione giurisprudenziale e legislativa delle ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale non altera il dato di fondo: la nozione di danno non patrimoniale esprime solo, di per sé, un tipo di tutela, e non un fenomeno ulteriore rispetto all’evento lesivo. La parola danno finisce, a differenza che per il danno patrimoniale, per essere sinonimo di antigiuridicità: è però necessaria una previsione normativa tipica (sia espressamente indicata dalla legge, sia enucleata dalla giurisprudenza) perché possa farsi luogo alla tutela risarcitoria, pur in assenza di una perdita patrimoniale. 7. Il danno da reato La più rilevante tra le espresse previsioni legislative cui rinvia l'art.2059 cc è l'art 185 cp, per cui "ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento". Il risarcimento del danno non patrimoniale da reato (art.185 cp) trova, nel suo rapporto con l’art.2059 cc, una giustificazione razionale: l'ordinamento appresta in tale ipotesi la particolare tecnica di tutela che è il risarcimento del danno non patrimoniale, perché il fatto lesivo assume caratteri di particolare gravità. E ciò sul duplice piano della portata sociale del bene leso, identificato dalla norma 41 41 41 41 41 41 41 41 41 41 41 41 incriminatrice (funzione satisfattiva), e delle modalità della condotta lesiva (funzione punitiva), la cui rilevanza (dolo generico o specifico, colpa) è anch'essa quella definita dalla fattispecie di reato. Se per il danno patrimoniale la funzione dell'art 185 cp è, infatti, di individuare i casi in cui il danneggiato può esercitare l'azione civile nel processo penale (giacché l'esistenza di una norma penale a protezione dell'interesse leso sarebbe comunque sufficiente a integrare l'ingiustizia del danno ex art.2043), più pregnante è quella svolta per il danno non patrimoniale. Qui l'art 185 cp funge da criterio di tipizzazione della fattispecie di tutela. In sostanza, si può dire che il principio di tipicità si realizza, nel danno da reato, mediante un duplice rinvio: dall'art 2059 cc all'art 185 cp e da questo alle singole fattispecie di reato. Le norme incriminatrici identificano sia i beni protetti che i criteri per l'imputazione della responsabilità (colpa, dolo generico o specifico). Non appare invece persuasivo l'orientamento per il quale per "reato" non deve intendersi il fatto punibile, ma solo l'elemento oggettivo o materiale. Secondo tale tesi, la lesione del bene penalmente protetto sarebbe sufficiente a dar luogo al risarcimento del danno non patrimoniale ex art 185 cp, essendo irrilevanti l'imputabilità e il peculiare grado di colpevolezza richiesto, in ipotesi, dalla norma incriminatrice, come in ordine all'applicazione dell'art.2054 cc. In realtà, tale orientamento giurisprudenziale ha svolto la funzione di estendere la risarcibilità del danno non patrimoniale, aggirando, per così dire, il principio di tipicità, attraverso l'allargamento delle fattispecie riconducibili all'art 185 cp; e del resto è seguendo tale scorciatoia che la Corte costituzionale (s.233/03) ha potuto esimersi ancora dal dichiarare l’incostituzionalità dell’art.2059 cc, non c’è ragione per non riconoscere la specificità della tutela prevista dalla norma del cp, che risiede sia nell’ambito della tutela (ci sono interessi potenzialmente lesi da un reato, non riconducibili al valore costituzionale della persona: si pensi all’interesse di affezione su un bene patrimoniale), sia nei criteri per la determinazione del quantum risarcitorio. Pertanto va ribadita l’autonomia della nozione di danno da reato in senso proprio. In altri termini, la tesi che identifica il reato con il solo elemento oggettivo e materiale pare non solo il contrasto col dato testuale dell’art.185 cp (che parla di colpevole e di reato e non di colui che ha commesso il fatto e di fatto previsto dalla legge come reato, che sono le espressioni usate quando il reato viene in questione solo sotto il profilo oggettivo), ma altresì distorcente rispetto alla funzione della norma. E’ solo la presenza in concreto di tutti li elementi, oggettivi e soggettivi, che rendono il atto punibile, a giustificare l’attivazione di una tutela caratterizzata dalla ratio punitiva, e che per tale aspetto si distingue nettamente da altre ipotesi in cui pure è risarcibile il danno non patrimoniale, e in particolare dal danno biologico. 42 42 42 42 42 42 42 42 42 42 42 42 Nel nuovo diritto giurisprudenziale il principio di tipicità è trasferito dalla legge al giudice, dal momento che i diritti delle persone, la cui lesione dà luogo al risarcimento, non sono quelli nominati dalla Costituzione (libertà, salute, rapporti familiari), comprendendo (attraverso la clausola aperta dell’art.2 Cost) tutti gli interessi emersi nella realtà sociale che, secondo il giudice, attengono a posizioni inviolabili della persona, restando il solo limite della gravità della lesione. In tal modo, da un lato, il danno esistenziale riacquista una sua autonomia; dall’altro si opera una unificazione dei problemi del danno alla salute e della tutela risarcitoria dei diritti della persona, che non sembra persuasiva. Il principio di tipicità, ancorché affidato al giudice, non implica infatti che l’esistenza di un solo tipo di danno non patrimoniale. I tipi per cui oggi è ammesso il risarcimento non sono unificabili, perché rispondono a funzioni diverse: solidaristiche per il danno biologico, satisfattorio-deterrente per i diritti della personalità, e anche punitivo, in altri caso, come il danno da reato. E infatti diversi sono altresì in concreto, i criteri per la quantificazione del risarcimento (anche se la Cassazione afferma che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole e ai medesimi criteri risarcitori.”) In realtà una ragione ontologica, e quindi unitaria del danno non patrimoniale non esiste. La figura riassume le ipotesi in cui l’ordinamento, per ragioni che possono essere e so no diverse, prevede la tutela consistente nell’attribuzione di una somma di denaro alla vittima di un evento lesivo pure in assenza e comunque indipendentemente da una perdita economica. Alla “somma confusione” concorre la circostanza che la giurisprudenza intende il ricordato principio di risarcimento integrale come applicazione delle stesse regole (artt.1223, 1226, 2056 cc) previste per il danno patrimoniale; quelle regole sono però volte a stabilire l’entità della perdita economica da trasferire secondo il criterio dell’equivalenza patrimoniale. Esse sono quindi prive di senso per il danno non patrimoniale, dove manca per definizione il presupposto, che è la perdita economica subita dalla vittima. I recenti tentativi giurisprudenziali di riproporre organici quadri di regole, anche con alcune acrobazie (come l’equiparazione del danno esistenziale al lucro cessante), non sembrano tuttavia raggiungere gli auspicabili obiettivi di chiarezza (e certezza del diritto). Probabilmente a tal fine sarebbe necessaria la revisione di certi presupposti della giurisprudenza recente: e soprattutto la ricerca di una nozione ontologica di danno non patrimoniale, e l’idea del risarcimento integrale secondo criteri desunti dal parallelismo col danno patrimoniale, che è invece priva di senso per quello non patrimoniale.    Parte III 45 45 45 45 45 45 45 45 45 45 45 45 Il danno ingiusto 9. L’ingiustizia del danno In base all'art 2043 è risarcibile il danno "ingiusto". Nell'opinione tradizionale, tale attributo era inteso nel senso di una delimitazione del novero degli interessi meritevoli di tutela aquiliana, tale da comprendere solo quelli sussumibili nello schema del diritto soggettivo assoluto. Per tale via si riduceva l'area del rimedio aquiliano a:  interessi della persona dotati di tutela oggettiva e tipica, civile o penale (diritti della personalità)  interessi patrimoniali formalizzati nello schema del diritto reale  poche altre ipotesi nelle quali sussistesse una norma espressamente attributiva del diritto al risarcimento (es, art.2600 cc) oppure la giurisprudenza giungesse in via eccezionale a riconoscere i presupposti della tutela. Da tempo la dottrina, e poi la giurisprudenza, hanno però superato esplicitamente l'identificazione del danno ingiusto con la lesione del divieto soggettivo assoluto (per entrambe è stato decisivo l’esame del tema della lesione extracontrattuale dei diritti di credito); meno chiaro è il criterio che si possa sostituire a quello tradizionale. L’identificazione dell’ingiustizia con la lesione del diritto assoluto rispondeva a motivazioni precise (oggi superate), che ne spiegano la persistenza in qualche affermazione giurisprudenziale ormai marginale. La delimitazione dell’area del danno risarcibile alle ipotesi di lesione di diritti reali o di beni oggettivamente protetti (vita, integrità fisica altri diritti della personalità), rispondendo a un assetto della ricchezza plasmato sul godimento proprietario, si giustificava altresì come criterio formale coerente, fondata sull’oggettiva e strutturale idoneità di quelle situazioni a essere ingiustamente lese a comportamenti altrui, in quanto costruite intorno all’attribuzione di un bene al titolare in via immediata e potenzialmente esclusiva. Il problema si è posto in termini nuovi quando le trasformazioni delle strutture economiche hanno condotto al superamento della assoluta prevalenza, tra l’insieme dei valori e delle utilità di cui il soggetto può disporre o su cui conta, di quelli consistenti nei beni a lui attribuiti come oggetti di godimento esclusivo (diritti assoluti). Tale problema non può essere superato ragionando in termini di diritto soggettivo all’integrità del patrimonio, o di risarcibilità del danno puramente economico. La prima formulazione è uno stratagemma a cui ricorre talora la giurisprudenza per ammettere l’ingiustizia del danno nel caso 46 46 46 46 46 46 46 46 46 46 46 46 concreto, pur in assenza della lesione di un diritto soggettivo, nel tentativo tuttavia di salvaguardare la tradizionale definizione. Quanto al danno puramente economico, si tratta di un’espressione di uso frequente in altri sistemi giuridici in cui, peraltro, si discute poi di quando un danno provocato da un fatto che non possa dirsi lesivo di un diritto, possa dar luogo al risarcimento, Problema che da noi può essere affrontato e risolto attraverso l’analisi della nozione di ingiustizia del danno. In effetti, la responsabilità civile non tutela il patrimonio nel senso del riconoscimento di un diritto alla reintegrazione delle perdite economiche; ma in quello, differente, che in presenza di una perdita patrimoniale si attiva il procedimento valutativo che consente di affermare o negare l'ingiustizia del danno. A tal fine la lesione del patrimonio non ha più nulla da dire, giacché essa è solo il presupposto rispetto al problema dei criteri obiettivi che (con quelli attinenti alle modalità del fatto sul versante dei soggetti chiamato a rispondere) giustificano la traslazione del costo dell’accadimento dannoso. Tali criteri non sono riassumibili in formule di comodo. In particolare, poco appagante è la sostituzione della figura del diritto assoluto con quelle del diritto soggettivo tout court, o della situazione soggettiva rilevante, o dell’interesse giuridicamente protetto. A differenza della prima, le seconde non indicano infatti schemi formali di tutela a cui la protezione contro l’attività lesiva di terzi possa considerarsi intrinsecamente connessa, sul solo presupposto della rilevanza giuridica. La qualificazione di ingiustizia è procedimento valutativo che può essere unitariamente e sinteticamente descritto solo per quanto attiene ai caratteri logico-funzionali dell'operazione che l'interprete è chiamato a compiere nell'applicazione della norma; e non attraverso l’enunciazione di regole che sostituiscano (con la stessa pretesa di esaustività) la tradizionale formula della violazione del diritto assoluto. In tal senso la formulazione più compiuta e condivisibile da parte della giurisprudenza è quella adottata con Cass.Sez.Un.500/1999 dalle sezioni unite della Cassazione , con la quale è stata abbandonata l'ultima trincea dell'identificazione tra danno ingiusto e lesione del diritto soggettivo, che era costituita dall'irrisarcibilità della lesione dell'interesse legittimo; nella quale l’argomentazione (sulla funzione della responsabilità come riparazione del danno ingiusto, e non come tutela del diritto soggettivo) e le conclusioni (per l’ingiustizia del danno come comparazione tra interessi giuridicamente rilevanti aliunde) sono consonanti con le tesi sostenute nel libro. La ragione dell'impossibilità di sostituire al criterio della violazione del diritto assoluto una formula altrettanto sintetica ed esaustiva risiede in un dato: nella responsabilità civile, la reazione dell'ordinamento non si traduce nella reintegrazione di un diritto leso, o nella sanzione per la violazione della norma protettiva, ma nella compensazione economica (dal punto di vista della 47 47 47 47 47 47 47 47 47 47 47 47 dei precedenti (common law). Nei primi opera la tendenza a tipizzare figure di responsabilità, soprattutto tramite l’elaborazione della giurisprudenza; nei secondi, la definizione di alcune fattispecie è così ampia da lasciare spazi notevoli alla valutazione del giudice. Si è dubitato che la formula normativa del danno ingiusto possa essere configurata come clausola generale, nel senso di attribuzione al giudice di poteri sostanzialmente normativi. La protezione aquiliana presuppone la rilevanza giuridica aliunde dell’interesse leso; e la comparazione giudiziale degli interessi configgenti non può prescindere dai parametri normativi di riferimento. La formula del danno ingiusto implica un’eterointegrazione normativa; rispetto a cui pare proprio parlare di una diversa direzione del principio di tipicità, nel senso che la eterointegrazione dell’art.2043 cc va operata con riferimento a una disciplina più complessa, rispetto a quella sola attributiva di diritti assoluti. La questione è comunque in larga misura terminologica. L’ambito rimesso alla valutazione dell’interprete è ampio, e garantisce la correttezza delle interpretazioni che estendono la qualificazione di ingiustizia a fattispecie in cui manchi una norma che espressamente attribuisca un diritto soggettivo assoluto, o che specificamente preveda, per il tipo di fattispecie in questione, la tutela risarcitoria. D’altra parte, la selezione degli interessi avviene (ed è questo il significato minimo dell’art.2043 cc, nella previsione dell’ingiustizia come connotato del danno risarcibile) secondo parametri interni, e non esterni, all’ordinamento; e conduce alla fine, nell’evoluzione pratica dell’istituto, alla riduzione dei cosiddetti illeciti a tipi. E’ questo ciò che effettivamente fa la giurisprudenza; anche se quasi sempre, poi, preferisce definire l’esito del procedimento valutativo compiuto in termini di individuazione di un diritto: esito di per sé innocuo, se non portasse a una proliferazione di diritti nuovi, e talvolta bizzarri, laddove si tratta solo di riconoscere, sulla base della valutazione degli interessi configgenti in una determinata fattispecie, che un determinato fatto dannoso merita la qualifica di ingiusto. 10. Le cause di giustificazione L'esercizio del diritto non costituisce nella responsabilità civile (a differenza che in quella penale) una causa di giustificazione in senso proprio, giacché stabilire se l'atto dannoso sia da considerare esercizio di un diritto è possibile solo mediante una valutazione comparativa con l'interesse leso, che è la sostanza stessa del giudizio concernente la qualificazione di ingiustizia del danno. Costituiscono invece cause di giustificazione in senso proprio la legittima difesa e lo stato di necessità che, ex artt.2044 e 2045 cc, esonerano dalla responsabilità o ne riducono l'entità, pur in presenza di un danno ingiusto. 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 In base all'art 2044, "non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri": espressione più sintetica di quella usata dall'art.52 cp. La riforma ella disciplina penalistica della legittima difesa ha ritenuto di aggiungere due commi all’art.2044 cc. Il secondo è inutile, perché ripete che la responsabilità è esclusa “nei casi all’art.55, 2°, 3° e 4°comma cp”, che concorrono alla nuova definizione della figura penalistica. Il 3°comma prevede, per il caso di eccesso colposo, un’indennità equitativa, analoga a quanto previsto per lo stato di necessità. L’aspetto più discusso della norma concerne il requisito per cui la difesa, per essere legittima. Deve essere proporzionata all’offesa, oscillando la giurisprudenza tra la tesi per cui il raffronto va operato tra i mezzi difensivi dell’aggredito e i mezzi offensivi usati dall’aggressore, e la tesi per cui la proporzionalità va invece stabilità tra il diritto minacciato e quello leso. In caso di errore (legittima difesa putativa), si è ritenuta applicabile per analogia la norma sullo stato di necessità, col conseguente diritto della vittima a un’indennità. Quando chi ha cagionato il danno c’è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (non volontariamente causato da lui né altrimenti evitabile), al danneggiato è dovuta un’indennità, determinata equitativamente (art.2045 cc). La norma riproduce quasi integralmente l’art.54, 1°comma cp; ma mentre nel diritto penale lo stato di necessità esclude la punibilità, nella responsabilità civile l'effetto è quello di incidere solo sul quantum del risarcimento. Si intende la ragione della diversa rilevanza, ai fini civilistici, rispetto alla legittima difesa: in questa, la reazione è rivolta contro l'aggressore; nello stato di necessità, invece, la vittima è estranea alla causazione del pericolo di danno. Caratterizza lo stato di necessità il pericolo di un danno grave alla persona: alla vita, all'integrità fisica, alla libertà e, secondo l'opinione preferibile, a ogni diritto della personalità riconducibile all'art 2 Cost. Ancorché l’art.2045 cc (a differenza dell’art.54 cp) non lo preveda espressamente, si ritiene altresì che per l’applicazione dell’esimente occorra pure che il danno sia proporzionato al pericolo. Si è discusso, e sono state proposte varie soluzioni, dell’inquadramento di questa peculiare fattispecie di responsabilità. Pare preferibile l’opinione che conduce il fatto necessitato all’ordinaria struttura del fatto produttivo di responsabilità (e quindi alla sequenza che dal danno ingiusto porta al responsabile, obbligato al risarcimento). La comparazione normativa tra gli interessi confliggenti non conduce a escludere il carattere ingiusto del danno, ma solo a ridurre l’ammontare della responsabilità, attraverso un giudizio di responsabilità, ma introduce un’eccezione al principio della riparazione integrale del danno, di cui agli artt.2056 e 1223 cc. 51 51 51 51 51 51 51 51 51 51 51 51 11. In danni ingiusti: a) i danni personali Nella concezione tradizionale, che identifica l'ingiustizia del danno con la lesione del diritto soggettivo assoluto, l'area del rimedio aquiliano era circoscritto agli interessi della persona dotati di tutela oggettiva e tipica, civile o penale; e alle ipotesi nelle quali la giurisprudenza giungeva in via eccezionale a riconoscere i presupposti della tutela (come per i familiari nel caso di morte del congiunto). Le tendenze espansive dell'ultimo trentennio hanno superato tale limite. Tuttavia, si rende necessario un inquadramento rigoroso del profilo dell'ingiustizia, a fronte del ritorno alla tendenza ad affermare o negare l'esistenza di "diritti soggettivi" della persona, al solo fine di dedurre elementi in ordine al giudizio sulla risarcibilità del danno. Piuttosto che seguire la via della proliferazione dei diritti, conviene pertanto muovere dal dato costituzionale che fonda la rilevanza ampia del valore giuridico della persona, e cioè l’art.2 Cost. I diritti inviolabili della persona di cui parla la Costituzione e su cui la giurisprudenza viene esercitandosi, possono ricondursi a 4 categorie: 1. vita 2. salute (comprensiva del diritto di autodeterminazione) 3. rapporti familiari e parentali 4. dignità e valori morali ai quali sono riconducibili i diritti della personalità. 11.1 Il danno da morte. La vittima e i congiunti Non si è mai dubitato del fatto che la morte di una persona dia luogo a un danno ingiusto. Il problema giuridico è di stabilire se tale danno sia ingiusto solo per la vittima o pure per altri soggetti. Pur in assenza di regole legislative, la giurisprudenza ha sempre affermato che i parenti della vittima hanno diritto al risarcimento per il danno derivate dalla morte del loro congiunto; e che per il danno patrimoniale, la legittimazione (e l'ammontare) al risarcimento sussiste indipendentemente dalla preesistenza di un diritto agli alimenti o all'assistenza economica. In effetti, la situazione giuridicamente lesa dalla morte del congiunto NON è il diritto alla prestazione economica derivante dal rapporto familiare, bensì il rapporto in quanto tale: è la lesione del rapporto familiare a rendere ingiusto il danno, ancorché degli aspetti patrimoniali (in atto o prevedibili per il futuro) di quel rapporto si debba tener conto, ai fini della quantificazione del danno patrimoniale; così come della sussistenza in concreto di un vincolo affettivo dovrà tenersi conto per il danno non patrimoniale. Per questa ragione è da condividere la giurisprudenza prevalente, che parla di risarcimento iure proprio, rispetto alla tesi del risarcimento iure hereditario (cioè in quanto eredi della vittima, che sarebbe il titolare primario del risarcimento); essendo quindi irrilevante, ai fini della legittimazione, la 52 52 52 52 52 52 52 52 52 52 52 52 tutela non è più limitata al valore patrimoniale della salute per il danneggiato, come nel sistema tradizionale, nel quale rilevava essenzialmente l’incidenza sull’attività reddituale del danneggiato, suscettibile di scambio e quindi di valutazione economica sul mercato. Il 2°versante risiede nell'ampliamento del contenuto del bene protetto (operato dalla giurisprudenza e in parte dalla legge, con la tecnica delle voci di risarcibilità). Il danno alla salute comprende oggi: danno biologico = lesione dell’integrità psicofisica danno patrimoniale = conseguenze economiche negative (per la salute presenta una problematica peculiare) danno esistenziale = perdita di utilità non economiche danno morale-soggettivo = dolore e sofferenza. La scomposizione per tipi del contenuto del danno alla salute non è più necessaria per stabilire se sia applicabile o no l’art.2059 cc; essa è comunque utile ai fini del problema operativo più importante: individuazione dei criteri per la quantificazione del risarcimento. A quella del danno alla salute va ricondotto il tema del danno da procreazione. Per quanto concerne l’ipotizzato diritto a nascere sano, il danno subito dal bambino, che per ragioni imputabili a terzi nasca malformato o malato, rileva giuridicamente come danno subito dalla persona umana, che viene ad esistenza con la nascita. Ai fini del risarcimento del danno aquiliano non rileva che il fatto colposo sia stato commesso prima della nascita, giacché ciò che solo occorre è la sussistenza del rapporto di causalità giuridica, che non richiede contestualità tra condotta illecita ed effetto dannoso. Tanto meno esiste un diritto a non nascere. Sotto tale tema si riconducono due questioni diverse: 1. la nascita del bambino non desiderato dai genitori: nel caso di gravidanza indesiderata, dovuta a colpa di un terzo, pare da condividere l’orientamento per cui è sufficiente, per la qualificazione dell’ingiustizia del danno, la lesione della libertà di autodeterminazione della donna, che comprende in sé le ragioni della tutela senza che occorra provare la sussistenza, per effetto della nascita non voluta, di un danno alla salute della madre. Nel nostro sistema, infatti, la libertà di autodeterminazione della donna è la via attraverso cui l’ordinamento ne tutela il diritto alla salute. 2. la nascita di un bambino malformato che la madre avrebbe evitato se avesse saputo dell’handicap (ricorrendo alla legge sull’aborto o evitando il concepimento): la mancata diagnosi di malformazioni fetali comporta danno ingiusto per la madre, ricorrendo la colpevolezza dell’autore dell’errata informazione, sotto il profilo della lesione del diritto della 55 55 55 55 55 55 55 55 55 55 55 55 donna all’interruzione di gravidanza. E’ controverso se ne derivi un danno ingiusto anche per il bambino, come ritenuto dalla giurisprudenza francese, ma non dalla nostra. Negli ultimi anni ha acquisito autonoma rilevanza una manifestazione del diritto alla salute, ossia il diritto all’autodeterminazione del paziente, la cui lesione dà luogo al risarcimento anche in assenza di un danno alla salute. L’autodeterminazione terapeutica è considerata un diritto fondamentale di libertà, sulla base della lettura congiunta degli artt.2, 13 e 32, 2°comma Cost (Corte cost.438/08 e m.253/09). A tale diritto corrisponde l’obbligo, da parte del medico, di informare il paziente sulle sue condizioni di salute e sui possibili trattamenti di cura, e di acquisire il consenso prima di procedere (salvi gli interventi immediati di urgenza e i trattamenti sanitari obbligatori ex art.32 Cost). Il malato può rifiutare le cure anche quando siano necessarie per salvargli la vita: infatti, non ha senso una valutazione comparativa degli interessi (vita e autodeterminazione) quando di entrambi è titolare lo stesso soggetto. La giurisprudenza recente sottolinea quindi l’autonoma rilevanza del diritto all’autodeterminazione: la sua lesione dà luogo al risarcimento anche se non ne sia derivata una lesione della salute, o quest’ultima non sia causalmente riconducibile all’inadempimento dell’obbligo del consenso informato. Il vero problema riguarda le situazioni in cui il paziente si trovi in condizioni di incapacità. Emerso col caso Englaro, un tentativo di soluzione è nella l.219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento, di cui occorrerà valutare l’effettiva portata. 11.3. La lesione dei diritti della personalità: reputazione, riservatezza, dati personali, identità personale. Il nome e l’immagine. Il danno intrafamiliare. Per quanto concerne la qualificazione di ingiustizia per il danno arrecato alla persona, considerata non sul versante dell'integrità psico-fisica (vita e salute), ma su quello dell'insieme di valori morali che vengono ricondotti alla categoria dei cd diritti della personalità, decisivo è stato il ruolo della dottrina e della giurisprudenza, attraverso la rilevanza data ai principi costituzionali, in particolare all’art.2 Cost. Nel sistema tradizionale la dimensione personale del diritto privato era irrilevante o secondaria. Il cc del 1865 non conteneva una norma in proposito; il cc vigente contiene alcune prime innovazioni. Le norme sulla protezione del nome (artt.6-9) superano la concezione del nome come strumento identificativo nell’interesse pubblico, per configurarlo come diritto soggettivo. La protezione contro l’abuso dell’immagine altrui (art.10) è legata al diffondersi della possibilità della riproduzione fotografica, ecc. e concerne l’immagine fisica, non morale, della persona. Per entrambi i diritti sono previste la tutela inibitoria e risarcitoria. 56 56 56 56 56 56 56 56 56 56 56 56 La tutela dell’onore e della reputazione rimaneva affidata al diritto penale (es, reati di ingiuria e diffamazione) e le conseguenze privatistiche erano indirette (risarcimento del danno da reato e, quindi, anche non patrimoniale). Sulla base delle norme costituzionali, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, la dottrina ha ricostruito un’ampia tutela civilistica della personalità; per alcuni attraverso un unico diritto, che ha diverse manifestazioni, per altri attraverso figure specifiche, tutte riconducibili al principio generale dell’art.2 Cost. Tale impostazione è stata progressivamente accolta dalla giurisprudenza, che ha dapprima riconosciuto il diritto alla riservatezza, poi il diritto all’identità personale, affermando la risarcibilità della lesione anche per il danno non patrimoniali, e poi dalla legge, che ha previsto altresì il diritto alla protezione dei dati personali (prima la l.675/1996 e poi dlgs.196/03). Oggi per la giurisprudenza il catalogo dei diritti e della persona meritevoli di tutela civile è aperto: spetta all’interprete valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano di rango costituzionale, attenendo a posizioni inviolabili della persona umana. La giurisprudenza fonda così l’individuazione dei diritti sulla costituzione. Sotto tale profilo, la giurisprudenza trova così un punto di incontro con un dato apparentemente convincente della recente riflessione teorica sui diritti della personalità, che cioè la persona umana rileva essenzialmente come valore giuridico unitario, e che può essere riconosciuta la rilevanza giuridica di espressioni della personalità, differenti da quelle tipicamente previste dalla legge. In particolare, non è necessaria un’espressa previsione normativa per rendere ingiusto il danno. Ciò è vero in via generale; tanto più nella materia qui considerata, di fronte all’indicazione dell’art.2 Cost., che davvero non si presta a interpretazioni restrittive. Ed effettivamente la fondazione della tutela civile della personalità è nella costituzione, non nel cc, nel nostro sistema come del resto in altri (es, il diritto alla riservatezza negli USA). Ciò non significa che sia superfluo, o utile solo a fini restrittivi, l’approfondimento della persona umana o dei diversi diritti della personalità. Al contrario, una considerazione per tipi è necessaria nella fase di individuazione delle diverse tecniche di tutela attivabili con riguardo alle varie espressioni del valore della persona umana. Una considerazione per tipi si rende in particolare necessaria per la valutazione comparativa, che costituisce tratto essenziale del giudizio sull’ingiustizia, al fine sia di accertare l’intensità della protezione data all’interesse coinvolto nella concreta fattispecie dannosa (è difficile dubitare, ad es, che la reputazione merita una protezione più intensa dell’identità personale), sia di comparare l’interesse della vittima con quella dell’autore della condotta potenzialmente lesiva, che può essere di omologo rilievo costituzionale ex art.21 Cost. 57 57 57 57 57 57 57 57 57 57 57 57 L’art.79 Reg. prevede il diritto di proporre un ricorso giurisdizionale effettivo (o inibitorio?) se l’interessato ritenga violati i suoi diritti previsti dal regolamento. Per il danno non patrimoniale la Cassazione ha precisato, nel 2014, che ai fini del risarcimento non è sufficiente la mera violazione di una norma in materia; occorre altresì verificare la gravità della lesione e la serietà del danno; secondo i criteri posti in via generale dalle Sezioni Unite nel 2008. Dal riconoscimento del diritto alla protezione dei dati personali la giurisprudenza trae implicazioni ulteriori a quella espressamente prevista. Significativo è il diritto all’oblio, cioè a cancellare informazioni o a modificarle alla luce di eventi sopravvenuti, oggi previsto dall’art.17 Reg. Sul bilanciamento tra diritto di cronaca e il diritto all’oblio la Cassazione ha richiesto, nel 2018, l’intervento delle Sezioni Unite. Ci si può chiedere se sia davvero possibile garantire concretamente il diritto alla protezione dei dati personali con gli strumenti finora apprestati. Come dimostrano gli eclatanti fatti resi noti dalla cronaca, la realtà planetaria va in senso opposto: sul diritto a controllare i dati personali che ci riguardano pare prevalere il potere dei proprietari dei big data e delle agenzie di sicurezza degli Stati. Il Reg. Ue si inserisce in questa tendenza; infatti, l’art.33 prevede la possibilità di limitare i diritti di una persona nella rete per una serie di ragioni (per motivi di rilevante interesse generale), tra cui quelli attinenti alla materia monetaria, di bilancio e tributaria, nonché alla sicurezza pubblica. La tutela del diritto al nome e all'immagine è espressamente prevista dagli artt. 7 e 10 cc, nonché dagli artt.96 e 97 della legge sul diritto d'autore. L'abuso dei segni di identificazione della persona determina danno ingiusto, senza che occorra procedere a valutazioni comparative con l'interesse sottostante la condotta lesiva. Alle stesse conclusioni giunge la giurisprudenza dominante per l’altra manifestazione dei valori personali, ancorché priva di espressa previsione normativa che è rappresentata dalla riservatezza. Qui la protezione è concessa nei confronti di tutte le invasioni della sfera privata, personale e familiare, che (anche se compiute con mezzi leciti e senza offesa per la reputazione) non siano giustificate da interessi preminenti. La giurisprudenza ha a lungo considerato la seduzione con promessa di matrimonio un illecito civile, affermando che chi si avvale del fidanzamento ufficiale per ottenere dalla donna l’assenso all’amplesso è tenuto al risarcimento dell’ingiusto danno sofferto dalla donna. Oggi l’idea pare abbandonata. La pretesa rilevanza aquiliana oltre alle previsioni di legge (art.81 cc) dei rapporti prematrimoniali è riemersa peraltro in Cass.9801/05 che ha affermato la responsabilità di un marito che, prima del matrimonio, aveva nascosto alla donna la propria impotenza, con la motivazione dell’esistenza di un diritto all’informazione prematrimoniale di ogni circostanza inerente alla 60 60 60 60 60 60 60 60 60 60 60 60 condizione psicofisica e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale dei promessi sposi. La sentenza ha aperto la strada alla tematica del danno intrafamiliare. Uno dei postulati della specificità del diritto di famiglia era il principio di immunità dall’art.2043 cc., il diritto di famiglia avendo al suo interno gli strumenti specifici per dirimere i contrasti tra i membri della famiglia. La tendenza neoindividualistica contemporanea attribuisce nei rapporti familiari più rilievo ai diritti individuali che alla famiglia come comunità sociale. Si è delineato così in orientamento giurisprudenziale per cui, accanto ai rimedi tipici previsti dal diritto di famiglia, può darsi luogo, per gli stessi fatti idonei ad attivare quei rimedi, al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. Così, in particolare, in caso di separazione, possono coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno. Si parla in tal senso di danno intrafamiliare o endofamiliare, inteso come violazione dei doveri parentali e coniugali da parte di altro componente della famiglia, che costituisce danno ingiusto autonomamente risarcibile, ex artt. 2043 e 2059 cc. Particolare rilievo assume in questa prospettiva il danno da deprivazione del rapporto genitoriale: l’abbandono del figlio da parte del genitore o i comportamenti che sottraggono un genitore alla propria funzione (da parte di un altro genitore). In questa prospettiva è inquadrato l’art.709ter cpc, che prevede che il giudice potrà disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro, in caso di atti che arrechino pregiudizi o ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento. 12. B) I diritti patrimoniali. Profili generali. Critica del danno meramente patrimoniali. Nell'applicazione della tutela aquiliana a interessi patrimoniali non riconducibili negli schemi del diritto di proprietà si esprime l’estensione della logica proprietaria alle nuove forme di ricchezza prevalenti nell'economia contemporanea. Per inquadrare le ipotesi in cui oggi si riconosce l’ingiustizia del danno anche in assenza della lesione di un diritto soggettivo assoluto, si tende al ricorso a figure generali, che rischiano di rivelarsi generiche e perciò inutili. Il riferimento è alla categoria dei danni meramente economici o patrimoniali (usata in dottrina) e a quella del diritto all'integrità del patrimonio, quale presupposto dell'ingiustizia del danno (vi fa riferimento la giurisprudenza). Le due figure non sono idonee a dare indicazioni operative, anzi sono fuorvianti. La prima pecca per difetto: per essere preso in considerazione ai fini della tutela aquiliana un danno deve effettivamente essere patrimoniale, nel senso di avere determinato conseguenze economiche negative per la vittima (salve naturalmente le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale); ma 61 61 61 61 61 61 61 61 61 61 61 61 ciò non basta: perché un danno sia risarcibile, occorre anche che sia ingiusto, ed è sotto questo decisivo profilo che il concetto di "danno meramente economico" nulla dice. La seconda figura pecca per eccesso, in quanto svuota di significato sia la nozione di diritto soggettivo che quella di danno ingiusto, al fine di ricondurre l'interpretazione giurisprudenziale del conflitto di interessi, che si concluda con l'affermazione della prevalenza di quello dell'attore, nell'ambito della tradizionale e rassicurante formula della lesione del diritto soggettivo. Se in effetti si dovesse ritenere davvero esistente un "diritto" all'integrità del proprio patrimonio, tutti i danni meramente patrimoniali, cioè tutte le conseguenze economiche negative derivanti dal fatto di un terzo, dovrebbero essere risarcibili, purché derivanti da dolo o colpa, o da uno dei criteri di responsabilità cd oggettiva. In tal modo si svuoterebbe di ogni significato il criterio dell'ingiustizia del danno, che presuppone la rilevanza giuridica dell'interesse leso. Si tratta di individuare quali siano, oltre i diritti assoluti, le situazioni soggettive la cui lesione possa dar luogo a danno ingiusto, e quindi, con il concorso degli altri elementi di cui agli artt.2043 ss cc, al risarcimento delle perdite economiche subite dall'attore. 12.1. Il danno alla proprietà. Il danno non patrimoniale. Le immissioni. L'archetipo del danno aquiliano è la lesione della proprietà (alla quale sono assimilabili i diritti reali minori). La formula identificante l’ingiustizia del danno con la lesione di un diritto assoluto era modellata sulla lesione della proprietà o di un altro diritto reale. Ciò non toglie che la qualificazione in concreto del danno alla proprietà come ingiusto possa presentare problemi interpretativi, anzitutto ogni qualvolta si sia in presenza di un conflitto interproprietario (quindi tra due situazioni parimenti meritevoli di tutela), e manchi una norma che risolva il conflitto con specifico riferimento alla tutela risarcitoria (come fanno gli artt.872, 2°comma; 917, 2°comma e 1079 cc.) In tali casi è la giurisprudenza a stabilire se, ferme altre eventuali tecniche di tutela, ricorrano altresì gli estremi del danno ingiusto, ai fini del risarcimento ex artt.2043 ss cc. Così, in particolare, la costruzione di un edificio in assenza o in difformità della concessione edilizia di per sé non è considerata tale da rendere ingiuste le conseguenze pregiudizievoli arrecate al vicino, se non risulti al contempo violata un’altra norma, in tema di disciplina delle costruzioni, o di tutela del paesaggio, ecc. Secondo Cass.Sez.Un.26972/08 che ha dettato la linea della nuova interpretazione dell’art.259 cc, la proprietà non rientra tra le situazioni la cui lesione determini risarcimento del danno non patrimoniale; perché la proprietà non rientra tra i diritti inviolabili delle persone riconosciuto dalla 62 62 62 62 62 62 62 62 62 62 62 62 consumatori (ad es, messaggio pubblicitario ingannevole), alla carenza di controllo da parte di un soggetto pubblico. Per l’inquadramento generale, particolare interesse rivestono la lesione del credito e quella del contratto. La formula della lesione extracontrattuale del credito è utilizzata per indicare le ipotesi in cui si riconosce il carattere ingiusto, per un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, del danno derivante dalla lesione di un diritto relativo. Il diritto di credito viene così tutelato non solo verso il soggetto obbligato all'adempimento (art.1218 cc), ma anche verso quei terzi che cagionino un pregiudizio patrimoniale negativo al creditore. E’ proprio argomentando in termini di ammissibilità della tutela aquiliana del credito (e successivamente, anche di violazione del contratto da parte del terzo) che fu per la prima volta superato dalla giurisprudenza il criterio dell’identificazione del danno ingiusto con la lesione (solo) del diritto assoluto. Il problema giuridico non è quello dell’ammissibilità in astratto della tutela assoluta di un diritto relativo, ma è quello di stabilire in quali ipotesi l'interferenza del terzo, che abbia determinato conseguenze economiche negative per il creditore, debba considerarsi ingiusta, e dar luogo quindi al diritto al risarcimento. A tal fine la formula generale non serve più, e conviene far riferimento alla pluralità di ipotesi che, nella progressiva estensione giurisprudenziale dell'area del danno ingiusto, sono state ricondotte al titolo della lesione extracontrattuale del credito o del contratto. In queste diverse ipotesi la tutela del credito gioca un diverso ruolo, rendendo opportuna una considerazione per tipi della fattispecie riconducibile alla lesione del credito. La giurisprudenza ha progressivamente rimosso gli impedimenti di ordine generale alla risarcibilità della lesione del credito, individuando piuttosto criteri concernenti specifici conflitti di interesse. Non è più richiesto, infatti, che dal fatto derivi la estinzione del credito e una conseguente perdita definitiva ed irreparabile del creditore, data dall’insostituibilità della prestazione di fare cui era tenuto il debitore (come invece affermato dalla Cassazione nella sentenza “Meroni”, in cui per la prima volta fu riconosciuta apertamente la tutela extracontrattuale del credito). E' stata ammessa l'ingiustizia del danno anche quando vi sia impossibilità temporanea della prestazione; si è detto che l’insostituibilità della prestazione rileva ai fini del quantum, e non dell'an del risarcimento; e si è considerato ingiusto, per il datore di lavoro, il danno consistente nella mancata prestazione lavorativa del dipendente durante l'invalidità temporanea, derivante dall'infortunio cagionato dal terzo, che è pertanto tenuto al risarcimento. 65 65 65 65 65 65 65 65 65 65 65 65 Con quest'ultimo esempio, il tema della lesione del credito si mostra sovrapponibile a quello della violazione del contratto da parte del terzo; anche se a tale categoria si tende a ricondurre, nella letteratura, le figure nelle quali la giurisprudenza riconosce l'ingiustizia del danno solo se cagionato dal terzo dolosamente, o con colpa grave, o in malafede. Così è nelle varie ipotesi riconducibili all'induzione all'inadempimento (storno del dipendente, complicità nella violazione del patto di esclusiva); nella divulgazione di informazioni menzognere, considerata sotto il profilo della lesione non della reputazione del soggetto denigrato, ma della libertà contrattuale del destinatario dell'informazione, coartata per effetto della notizia non veritiera; nella doppia vendita immobiliare, dove la responsabilità dell'acquirente, che avendo acquistato per secondo abbia trascritto per primo, viene riconosciuta in via aquiliana nei confronti del primo acquirente, purché ricorra il dolo o la malafede del convenuto. Possono comunque identificarsi, nell'ambito della cd responsabilità extracontrattuale da contratto, due modelli generali. Nel primo, il comportamento lesivo consiste in un'illecita interferenza nel rapporto contrattuale (in particolare, attraverso la conclusione di un contratto col debitore consapevolmente incompatibile con l’adempimento di una preesistente obbligazione contrattuale). Nel secondo modello, la lesione della libertà contrattuale si concretizza nella diffusione di informazioni false o inesatte, tali da ingenerare un affidamento produttivo di danno. In ogni caso, la considerazione di ciascuna delle figure, variamente elaborata per cercare di inquadrare nuovi criteri di selezione degli interessi meritevoli di tutela aquiliana, porta a confermare che la valutazione dell’ingiustizia del danno implica il giudizio su un conflitto di interessi, affidato (se non già risolto direttamente dalla legge) alla mediazione del giudice, che dovrà operare secondo indici interni, e non esterni, all’ordinamento, sulla base dei criteri sub par.9. Una fattispecie tipica legislativa è stata introdotta dal dlgs.3/2017, in tema di tutela della concorrenza. Ex art.1, 1°comma “chiunque abbia subito un danno a causa della violazione di una norma antitrust ha diritto al risarcimento che comprende il danno emergente, il lucro cessante e gli interessi e non determina sovracompensazione.” La formulazione della norma conferma la tesi (già accolta dalla Cassazione con riferimento alla precedente disciplina antitrust) che la tutela non è riservata alle imprese concorrenti ma a chiunque (come il consumatore) abbia interesse alla conservazione del carattere competitivo del mercato, e abbia subito uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Tale soluzione rende particolarmente rilevante il problema del nesso di causalità; sul quale la normativa tace. Non ha autonomia giuridica, come situazione suscettibile di tutela aquiliana, la chance, cioè l’aspettativa di conseguire un determinato bene o risultato. All’espressione perdita di chance, mutuata 66 66 66 66 66 66 66 66 66 66 66 66 dall’esperienza francese, ricorre talvolta la giurisprudenza più recente per consentire il risarcimento del danno futuro, con maggiore larghezza rispetto all’impostazione tradizionale, sotto il profilo della certezza e delle dimensioni economiche delle conseguenze future di un fatto lesivo (ad es, il calciatore dilettante costretto a interrompere la carriera a seguito di un incidente automobilistico, che fa valere l’autonoma posta risarcitoria consistente nella perdita della possibilità di intraprendere l’attività di calciatore professionista). Per perdita di chance la giurisprudenza intende infatti la perdita di una concreta ed effettiva occasione di conseguire un determinato bene o risultato utile, sul presupposto peraltro che la perdita derivi dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto. Il riconoscimento di tale voce di danno avviene in modo crescente soprattutto nel campo delle conseguenze di attività illegittime della PA (concorsi, selezioni per l’assunzione e la promozione ecc), e in quello dell’errore terapeutico (dove non va confusa con la lesione della libertà di autodeterminazione). La rilevanza o meno dell’interesse dell’attore al conseguimento in futuro di un risultato favorevole non va comunque posta sul piano della qualificazione di ingiustizia, ma su quello della quantificazione del danno, e rinvia quindi alle tematiche del danno patrimoniale futuro e del lucro cessante. La perdita di chance non è una figura peculiare di danno ingiusto, giacché presuppone la lesione di una situazione soggettiva che non può essere la chance stessa. 12.4. L’interesse legittimo La formula, spesso usata dalla giurisprudenza, che definisce il danno ingiusto come lesione del diritto soggettivo ha per lo più valore di mera clausola di stile, nel senso che la giurisprudenza la usa a posteriori, per affermare cioè la presenza di un diritto, ogni qual volta ritiene sussistente gli elementi dell'ingiustizia. Dove, invece, quella formula ha conservato a lungo una forte valenza operativa è stato nell'area della tutela aquiliana nei confronti della PA. Fino a tempi recenti è restata infatti salda la posizione giurisprudenziale che affermava l'irrisarcibilità in via generale della lesione di interessi legittimi e, quando ammetteva il risarcimento, lo faceva affermando che dove si credeva di aver visto un interesse legittimo, esisteva invece un diritto soggettivo. La svolta giurisprudenziale, che ammette invece la tutela aquiliana dell'interesse legittimo (Cass.Sez.Un.500/1999), ha grande rilievo ai fini del superamento della predetta impostazione, fornendo pure gli elementi corretti di una moderna nozione di danno ingiusto (v.par.9). La sentenza muove da un’esplicita critica del procedimento che ammetteva la risarcibilità di varie posizioni che del diritto soggettivo non avevano a consistenza ma che la giurisprudenza di volta in 67 67 67 67 67 67 67 67 67 67 67 67 riferibile direttamente alla PA, da accertare valutando il comportamento complessivo della PA come apparato, oltre le ipotesi di dolo o colpa del funzionario. Lungo la stessa tendenza si inseriscono le pronunce della Corte costituzionale che dichiarano illegittime le norme di leggi speciali che restringono irrazionalmente la tutela aquiliana nei confronti della PA (da ultima, in tema di responsabilità per mancato recapito del telegramma). Conviene intanto segnalare come l’estensione dell’area sottoposta alla valutazione di ingiustizia del danno, ai fini dell’attivazione della tutela ex artt.2043 ss cc, vada oltre la tematica tradizionale della responsabilità della PA, per coinvolgere potenzialmente ogni forma di esercizio di un pubblico potere, compreso quello legislativo. Il punto di partenza in materia è nell’art.28 Cost, che afferma la responsabilità diretta (penale, civile e amministrativa) del pubblico dipendente per gli atti compiuti in violazione di diritti, e prevede poi l’estensione della responsabilità civile in tali casi allo Stato e agli enti pubblici. La portata innovativa della norma sotto il profilo della qualificazione di ingiustizia del danno era peraltro irrilevante come conferma la circostanza che la sua introduzione non aveva innovato la tradizionale concezione che limitava la tutela aquiliana all’attività materiale della PA, sulla base del principio tralatizio dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi. L'art 28 Cost è stato posto a fondamento del principio della responsabilità diretta della PA per l'operato dei propri dipendenti, analogamente del resto a quanto per il rapporto di lavoro privato è previsto dall'art.2049cc. E successivamente per alcune categorie (magistrati, insegnanti) apposite leggi speciali hanno anzi escluso la responsabilità diretta del dipendente. L'innovazione più rilevante che emerge dalle recenti tendenze riguarda peraltro l'estensione del rimedio aquiliano ben oltre l'ambito non solo dell'attività materiale, ma anche dell'attività dello Stato- amministrazione in quanto tale. Per il vero già il principio per cui anche un provvedimento non annullato dal giudice amministrativo può integrare gli estremi del danno ingiusto costituisce una rilevante novità sistemica; si riconosce il credito risarcitorio pure a fronte di un atto amministrativo che, non essendo stato annullato, continua a produrre gli effetti suoi propri. Evenienza che conferma, peraltro, che cioè la funzione della responsabilità civile non è comprimibile nell’alternativa liceità/illiceità del fatto lesivo. Non meno innovativa e rilevante è l'affermazione del principio per cui il mancato o non adeguato esercizio di poteri di controllo e vigilanza è fonte di responsabilità civile per i soggetti pubblici preposti. Così, è danno ingiusto quello cagionato dalla CONSOB per omessa o insufficiente vigilanza sulla veridicità, delle informazioni diffuse nel mercato mobiliare. Per i controlli e le valutazioni 70 70 70 70 70 70 70 70 70 70 70 70 economiche e finanziarie, la responsabilità (di BI, CONSOB, IVASS, AGCOM, CONSIP) è limitata al dolo e alla colpa grave. 13.1. L a responsabilità civile da attività legislativa L’ultimo spazio coperto dall’immunità aquiliana del pubblico potere viene meno col riconoscimento della tutela risarcitoria nei confronti dello Stato per il danno causato dall’attività legislativa. Il principio è stato introdotto dall’affermazione, da parte della CdG, della responsabilità civile dello Stato per mancata attuazione, o attuazione difforme, di una direttiva, da cui derivino diritti soggettivi chiaramente individuabili; e ciò quando sussista il nesso causale tra l’inadempimento dello Stato e in danno subito dal singolo. Il principio, affermato nel caso Francovich del 1991 e ribadito nel caso Brasserie du Pecheur del 1996, è ormai ius receptum. Si capisce lo sbalordimento iniziale della giurisprudenza italiana che si chiede come possa ritenersi sussistente il diritto del singolo all’esercizio della funzione legislativa. Tanto più che è difficile rinvenire nei testi dei Trattati il fondamento normativo del principio affermato dalla giurisprudenza UE. Subito dopo però i nostri giudici si sono adeguati, e oggi parlano di obbligazione indennitaria per attività non antigiuridica, che nasce ex lege nei confronti del danneggiato. Il cerchio si era chiuso quando la CdG, nel 2003, aveva affermato che il rifiuto da parte dei giudici nazionali di applicare il principio della tutela risarcitoria, sancito con sentenza passata in giudicato, dava luogo a violazione del diritto comunitario, risarcibile alla luce dei criteri fissati a partire dal caso Francovich.→operatività del rimedio aquiliano per violazione del diritto comunitario non solo nei confronti dell’attività legislativa, ma pure di quella giurisdizionale dello Stato che non attui la pretesa risarcitoria ritenuta fondata dalla giurisprudenza comunitaria. Ancora una volta, l'identificazione del danno risarcibile con la lesione del diritto soggettivo si rivela improduttiva ai fini del corretto inquadramento del sistema. Non solo, infatti, è difficilmente configurabile un diritto soggettivo all'esercizio dell'attività legislativa; ma va anche aggiunto che la giurisprudenza comunitaria concerne proprio le ipotesi in cui il diritto soggettivo non esiste: le ipotesi, cioè, nelle quali la norma comunitaria non sia immediatamente attributiva del diritto. La lesione da parte dello Stato risiede appunto in ciò, che è stata omessa quell'attività normativa che avrebbe fatto sorgere il diritto: da qui il danno. Un danno che può qualificarsi ingiusto, solo alla luce della difformità tra la normativa comunitaria e la normativa ordinaria. L'ingiustizia risiede appunto nella circostanza che il singolo ha subito una perdita economica che non vi sarebbe stata, ove la normativa ordinaria fosse stata conforme al diritto (superiore, id est comunitario). 71 71 71 71 71 71 71 71 71 71 71 71 Alla luce di questa considerazione, è possibile intendere subito come si apra la via ad almeno un'altra ipotesi di responsabilità extracontrattuale dello Stato per attività legislativa, quella cioè concernente il danno cagionato al singolo da una norma di legge contrastante con la Costituzione, dopo che sia stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. La giurisprudenza non ha però compiuto questo passo ulteriore e continua ad affermare che l’insindacabilità dell’attività legislativa, dovendosi pertanto escludere la responsabilità, nel caso della Regione, per i danni conseguenti all’adozione di norme successivamente dichiarate incostituzionali. Resta da capire il perché l’illecito del legislatore per violazione di una norma europea dà luogo a responsabilità e non invece per violazione di una norma costituzionale. 13.2. La responsabilità dello Stato per l’attività giudiziaria Del processo di espansione della responsabilità civile dei pubblici poteri fa parte la responsabilità dello Stato per il cattivo esercizio dell'attività giudiziaria o giurisdizionale. A questo capitolo sembrano dover essere ricondotte le normative concernenti la responsabilità civile del magistrato, la riparazione per ingiusta detenzione (artt 315 e 643 cpp) e la violazione del diritto alla durata ragionevole del processo (legge Pinto). Tali ipotesi sono accomunate dall’affermazione della responsabilità oggettiva dello Stato, mentre la responsabilità soggettiva del magistrato diviene evanescente (nel 1°caso) o irrilevante (nel 2° caso). Prima dell'entrata in vigore della l.117/1988 la responsabilità civile dello Stato derivava ex art 28Cost da quella del magistrato, disciplinata dagli artt 55,56 e 74 cpc. Cadute tali norme a seguito del referendum abrogativo, la l.117/1988 è intervenuta limitando ulteriormente (rispetto alle norme abrogate) la responsabilità del magistrato, che subentra sempre solo in seconda battuta (se si è formato il giudicato penale che definisca reato il fatto del magistrato, o in sede di azione di rivalsa in caso di dolo; per il fatto non doloso, l’azione di rivalsa pare più una misura disciplinare che strumento civilistico, dato il limite del quantum dovuto dal magistrato). L'art 12 della legge 117/1988 limita, infatti, la responsabilità civile del magistrato secondo "le norme ordinarie" all'ipotesi in cui "il fatto dannoso costituisca reato". In tale evenienza, sussiste la responsabilità solidale dello Stato, in base all'art 28 Cost (ha ad oggetto l’attività degli uffici sia amministrativi sia giudiziari). Quando il danno non derivi, invece, da un fatto costituente reato, la l.117/1988 tipizza fattispecie di responsabilità per le quali, tuttavia, per il magistrato risponde in via esclusiva lo Stato, che ha una limitata azione di rivalsa. 72 72 72 72 72 72 72 72 72 72 72 72 14. C) Diritti o interessi collettivi. Profili generali La riconducibilità alla nozione normativa del danno ingiusto (e quindi la risarcibilità) della lesione arrecata a interessi collettivi o diffusi è tema di complesso e di non agevole inquadramento nello schema aquiliano. Occorre anzitutto distinguere tra ipotesi differenti sul piano strutturale, anche se spesso ricondotte invece alla stessa matrice. La prima concerne il danno arrecato a un soggetto collettivo: persona giuridica o associazione. Per quanto concerne il danno patrimoniale, la soluzione è agevole: tali soggetti collettivi sono titolari del proprio patrimonio, ben distinto da quello dei singoli che ne fanno parte. Si applicheranno pertanto le ordinarie regole aquiliane. Più complesso è invece il problema della risarcibilità del danno non patrimoniale, soprattutto alla luce del superamento giurisprudenziale del principio di tipicità legislativa ex art.2059 cc, che impedisce di continuare a identificare il problema della risarcibilità con quello della titolarità dell’azione civile nel processo penale ex art.185 cp. La seconda ipotesi si ha quando una pluralità molto ampia di individui sia danneggiata dal medesimo evento lesivo (danni di massa e "responsabilità da disastro"). Qui siamo in presenza di una serie di danni individuali, unificati dall'identità del fatto causativo, o anche solo dalla diffusività del tipo di accadimento dannoso. In questa ipotesi, il problema giuridico non concerne la struttura del danno (che resta individuale), ma è in primo luogo operativo, e si traduce sostanzialmente nella delineazione di ipotesi di riforma, che attribuiscono rilievo in sede processuale alla dimensione diffusa del fenomeno, secondo tecniche conosciute in altri sistemi. Diversa ancora è la tematica concernente la risarcibilità di beni indivisibili e nemmeno appropriabili, ai quali pare corretto riservare la denominazione giuridica di interessi collettivi. Il quesito concerne la rilevanza giuridica, e in particolare aquiliana, delle lesioni arrecata a tali interessi, considerati come sussumibili in schemi aggregativi, ma oggettivamente rilevabili, indipendentemente dall'esistenza o meno di una o più associazioni che intendono farsene carico. La tripartizione indicata non concerne differenti beni della vita, ma differenti profili di qualificazione normativa, che in ipotesi possono concernere anche il medesimo bene. Si pensi all’ambiente. Esso può assumere rilievo sotto il profilo della lesione che il deterioramento ambientale abbia arrecato a situazioni soggettive di singoli, sia sotto il profilo della lesione della risorsa collettiva in quanto tale. La distinzione può apparire ovvia, tuttavia il rischio di confusione è alto. 14.1. Il danno non patrimoniale a soggetti collettivi 75 75 75 75 75 75 75 75 75 75 75 75 Nell'impostazione tradizionale, riusciva difficile intendere come una persona giuridica o un'associazione potesse chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo questa nozione identificata con il danno morale-soggettivo: dolore, sofferenza, turbamento d’animo = effetti che si ripercuotono sulla singola persona umana, non sulla collettività; la quale, invece, dispone, in quanto tale, di un suo proprio patrimonio, distinto da quello dei singoli associati, e quindi può subire un danno patrimoniale e chiederne il risarcimento. Analogamente, un soggetto collettivo può essere titolare di diritti personali, idonei ad essere ingiustamente lesi, come il diritto al nome, alla reputazione, alla riservatezza, distinto dall'analogo diritto esistente in capo ai singoli associati e strutturalmente simile a quelli spettanti alla persona fisica; come tali, quindi, idonei ad essere ingiustamente lesi. L'interpretazione tradizionale dell'art.2059 cc portava all'identificazione del problema della tutela risarcitoria degli interessi collettivi o diffusi non patrimoniali, per il tramite dell'art 185 cp, con quello della possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale, essendo altresì tale norma l'unica che consentisse la presenza nel processo penale di soggetti diversi dalla pubblica accusa e dall'imputato. La tendenza ad introdurre in tale processo soggetti idonei, per la loro adesione ideale o morale agli interessi collettivi pregiudicati dal reato, ad assicurarne una più adeguata protezione, poteva concretarsi solo in quanto si ammettesse che il reato determinava un danno non patrimoniale per l'associazione. La riforma del cpp è intervenuta per razionalizzare il sistema, distinguendo tra la costituzione di parte civile (alla quale ha titolo "il soggetto al quale il reato ha recato danno") e l'intervento nel processo penale degli enti ed associazioni "rappresentativi di interessi lesi dal reato" (art 91 cpp), che possono esercitare, a determinate condizioni, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato. La norma, ammettendo la partecipazione al processo penale dei soggetti ai quali siano "riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato", avrebbe dovuto consentire di distinguere nettamente il profilo del danno non patrimoniale, da quello della presenza nel processo penale dell'ente esponenziale dell'interesse collettivo leso dal reato. La giurisprudenza di merito e di legittimità non sembra però aver colto l'occasione per mettere a punto una nozione di danno collettivo, riconducibile all'art 185 cpp.→si continuano a configurare ipotesi evanescenti di danno, per consentire la costituzione di parte civile di associazioni aventi per fine statutario la difesa di interessi diffusi o collettivi. →L’ipotizzata semplificazione non si è verificata. Da un lato sono parsi riduttivi i poteri processuali derivanti dall’applicazione dell’art.91 cpp e la giurisprudenza penale si è mostrata sensibile alle spinte di associazioni che chiedono di potersi 76 76 76 76 76 76 76 76 76 76 76 76 costituire parte civile →riproposizione del problema del fondamento del danno non patrimoniale collettivo. Dall’altro lato, gli interventi legislativi recenti non hanno concorso a definire un indirizzo chiaro. Per quanto riguarda la tutela ambientale il TU 152/06 ha abrogato il potere delle associazioni di protezione ambientale di proporre azioni risarcitorie; la giurisprudenza ne ammette la costituzione di parte civile, con conseguente applicazione dell’art.185 cp e dell’art.2059 cc. Gli artt.139 e 140 del codice del consumo attribuiscono la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi in capo alle associazioni dei consumatori e degli utenti con riferimento solo alla protezione inibitoria e alla pubblicazione del provvedimento giudiziale. Diversamente la l.104/1992 ammette la costituzione di parte civile dell’associazione a cui è iscritto l’handicappato offeso dal reato; la l.108/1996    ammette la costituzione di parte civile delle associazioni per la prevenzione dell’usura e la l.383/00 attribuisce alle associazioni di promozione sociale la legittimazione a intervenire in giudizi civili e penali per il risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi collettivi concernenti le finalità generali perseguite dall’associazione. La sostanziale disapplicazione del nuovo sistema processualpenalistico e le incongruità legislative derivano anche dall'insufficiente elaborazione giurisprudenziale della nozione giuridica di danno collettivo. Si individua spesso la situazione lesa nel diritto alla personalità "connesso alle specifiche finalità statutarie dell'associazione", e il danno non patrimoniale nella "frustrazione e afflizione" degli associati, conseguente al reato. Da un lato, in tal modo, è però perpetuata l'idea che il danno non patrimoniale si identifichi con il danno morale-soggettivo, inteso come dolore o perturbamento d'animo della vittima. Dall'altro, si trascura che, perché un danno sia ingiusto per un determinato soggetto, occorre che vi siano indici normativi che riferiscano l'interesse leso al soggetto che agisce in giudizio. Perché sorga il diritto al risarcimento ex art 185 cp, occorre che il reato integri un danno ingiusto per l'attore. Ciò non implica necessariamente la lesione di un diritto soggettivo: è sufficiente, ma necessaria, la rilevanza (in base a criteri giuridico-normativi) dell'interesse dell'attore al bene protetto dalla norma incriminatrice. Decisiva dovrebbe essere pertanto la logica dell'ordinamento, non essendo sufficiente l'autoattribuzione della legittimazione da parte di un gruppo o di un ente. Gli esempi del Comune per i reato ambientali o per quello di associazione per delinquere di stampo mafioso, del sindacato per le violazioni delle leggi di sicurezza sociale (in proposito la giurisprudenza parla di danno da perdita di credibilità), del partito per gli attentati alla democrazia, dello Stato per i, danno non patrimoniale da Tangentopoli indicano ipotesi di lesione di un interesse collettivo che può dare luogo a danno non patrimoniale giuridicamente rilevante e come tale risarcibile. 77 77 77 77 77 77 77 77 77 77 77 77 possibili fonti alternative del danno, e nell’impossibilità di provare quale di essa abbia effettivamente cagionato lo specifico danno dedotto in giudizio, l’applicazione delle regole tradizionali comporterebbe la liberazione di tutti i convenuti. Negli USA si è proposto di ripartire in tali casi la responsabilità tra gli ipotetici coautori, mediante un criterio probabilistico: la responsabilità sarebbe suddivisa secondo la probabilità di causazione che si possa assegnare a ogi potenziale fonte di danno. 14.3. Il danno all’ambiente Di danno collettivo in senso proprio può parlarsi con riferimento al danno all'ambiente, e in particolare alla possibilità di considerare danno patrimoniale le perdite economiche connesse al degrado di risorse collettive e beni "liberi" come quelli ambientali. Si tratta di beni non appropriabili (non fanno parte di un patrimonio pubblico o privato), in quanto su essi insistono non diritti soggettivi, ma poteri pubblici di gestione e interessi semplici alla fruizione da parte dei singoli componenti la collettività. Svincolata da una concezione aritmetico-contabile, la patrimonialità del danno collettivo all'ambiente discende dalla rilevanza economica che la distruzione o l'alterazione dei beni liberi riveste, e che si riflette sul complesso delle risorse economiche di cui la collettività può disporre. Questa è l’interpretazione data alla normativa dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione, per la quale il risarcimento spetta allo Stato. Si intende come titolare del diritto al risarcimento non possa essere, in via di principio, che il soggetto portatore dell'interesse all'equilibrio "ecologico, biologico e sociologico" del territorio, e quindi l'ente pubblico territoriale. Scelta confermata dalla recente riforma. Altra questione è che lo stesso fatto, che causa il degrado ambientale, possa contestualmente dare luogo a danni ingiusti per singoli membri della collettività, incidendo, su beni propri di costoro (es, salute, proprietà, diritti di godimento). Conferma della ricostruzione del danno all’ambiente quale danno intrinsecamente collettivo si à avuta dalla decisione della Cassazione relativa al disastro dell’Icmesa di Seveso, che afferma la reciproca autonomia tra la tutela del bene unitario dell’ambiente, di cui è titolare la collettività, e la tutela di quei singoli che, per la loro relazione con l’habitat colpito, patiscono una lesione alla loro sfera individuale, con la conseguente risarcibilità del danno patrimoniale e non patrimoniale, secondo i relativi principi. Capitolo 3 – L’imputazione della responsabilità – 1. Colpa e responsabilità oggettiva. Il sistema delle imputazioni della responsabilità. 80 80 80 80 80 80 80 80 80 80 80 80 Perché il danno ingiusto dia luogo all'obbligazione risarcitoria, occorre che l'evento lesivo sia sussumibile in una delle fattispecie normative di responsabilità. Secondo il cc, si risponde del:  proprio "fatto doloso o colposo"  fatto di altre persone: se ricorrono i presupposti descritti nelle norme concernenti il sorvegliante dell'incapace (art.2047cc), i genitori, i tutori, i precettori e maestri d'arte (art 2048), i padroni e i committenti (art 2049). Nelle prime due ipotesi è possibile liberarsi provando "di non aver potuto impedire il fatto".  danno cagionato nell'esercizio di un'attività pericolosa (art.2050 cc): è ammessa la prova liberatoria  danno prodotto dalla circolazione di un veicolo (art.2054, 1° e 3°comma cc): è ammessa prova liberatoria  danno cagionato dalla cosa con la quale sussista un peculiare rapporto, variamente definito dagli artt.2051 – 2054, 4°comma cc. Nelle ipotesi sub artt.2051 e 2052 cc è ammesso l'esonero mediante la prova del caso fortuito. La sistemazione e semplificazione di tale disciplina è uno dei temi più complessi e controversi in materia, anche perché strettamente legato al dibattito sulla funzione o le funzioni del giudizio di responsabilità. Il sistema è stato letto a lungo secondo le linee largamente prevalenti (nonostante significative eccezioni) nella cultura giuridica formatasi sul cc abrogato. Coerentemente all'idea del risarcimento come sanzione dell'illecito, il principio generale era individuato nella responsabilità per atto colpevole (doloso o colposo). Le ipotesi "speciali" venivano ricondotte anch'esse al principio della colpa, intendendo la prova liberatoria come concernente l'assenza di colpa: la deroga era limitata pertanto all'inversione dell'onere probatorio. Le poche norme che non consentono prova liberatoria erano considerate fattispecie eccezionali di responsabilità oggettiva. Questa linea ricostruttiva si è rivelata però in contrasto con la tendenza ad estendere il ruolo e il peso delle ipotesi di responsabilità differenti dalla colpa, fino a negare a questa il carattere di unico principio ordinante e ad affermare la portata generale di un criterio di responsabilità oggettiva. Le vie seguite nei vari sistemi sono state diverse, ma comune è l'enucleazione, muovendo da regole che ne prevedono solo specifiche e ristrette manifestazioni, di un principio generale, parallelo a quello della colpa, fondato per lo più sul rischio creato dalle attività economiche. Fino a tempi recenti pareva difficile contestare l’idea della costruzione della responsabilità attorno ai due poli della colpa e del rischio come chiave di volta per definire un nuovo e stabile assetto del diritto della responsabilità civile. Oggi il quadro è così complesso da rendere difficilissima tale costruzione. 81 81 81 81 81 81 81 81 81 81 81 81 Vanno segnalate in primis le tendenze a restituire un ruolo centrale e ordinante al criterio della colpa, motivate con ragioni e basi diverse, ma convergenti nella critica alla logica complessiva che sottende l’idea della responsabilità oggettiva come principio generale. La responsabilità oggettiva, del resto, non pare riuscire a trovare un preciso e coerente fondamento, a partire dall’incerta definizione dell’ambito operativo del criterio del rischio, tra una nozione ampia e vaga di attività economica e una più tipica e circoscritta (difficilmente conciliabile col dato positivo) che lo limita all’impresa in senso proprio. Soprattutto è la contrapposizione stessa ad apparire discutibile. La differenza tra un criterio della colpa sempre più ancorato a canoni rigidi e oggettivi (e comunque diversificato al suo interno) e le ipotesi di responsabilità oggettiva, a loro volta differenziate e non prive di profili di rilevanza attinenti alla condotta del responsabile, pur non potendo essere negata, non pare tale da fondare sistematicamente un modello bipolare. Tale discussione manifesta l’incertezza sui profili funzionali dell’istituto. 1.1. La tesi della colpa come profilo generale La lettura tradizionale del sistema dell'imputazione, riproposta in versione aggiornata e più convincente, privilegia il carattere di principio o regola generale dell'art.2043cc, nella parte in cui fonda la responsabilità sul "fatto doloso o colposo" dell'autore del danno. Secondo questa lettura, le fattispecie degli artt.2047 ss cc costituiscono ipotesi , se non eccezionali, tipiche e speciali . Inoltre, solo alcune di esse (artt.2049, 2053 e 2054, 4°comma cc) possono considerarsi tali da fondare una responsabilità oggettiva, in quanto prescindono del tutto da una valutazione della condotta del soggetto a cui il danno è imputato . →abbandonata l’antica finzione della presunzione di colpa. Ogni qual volta sia ammessa una prova liberatoria, la colpa torna invece ad assumere rilievo ai fini dell'esclusione della responsabilità. Si fa infine notare che nelle ipotesi di responsabilità per fatto altrui, la colpa rilieva comunque come criterio di valutazione della condotta dell'autore materiale del danno, diverso dal soggetto responsabile (il minore nell’art.2048 e il dipendente nell’art.2049). Questa lettura contiene certamente elementi utili a rettificare il tiro rispetto alla tendenza a ricondurre tutte le ipotesi di responsabilità diverse da quella ex art.2043cc al campo dell'assenza di colpa e della responsabilità oggettiva. Effettivamente è vero che in alcuni casi la prova liberatoria ha ad oggetto elementi in qualche modo concernenti la qualità della condotta del responsabile (artt.2047, 1°comma; 2048 e 2050 cc). In altre ipotesi, però, così non è. In particolare quando il limite della responsabilità è posto nel caso fortuito (artt.2051 e 2052 cc), da intendere , secondo l'interpretazione oggi prevalente, in accezione rigorosa e oggettiva , si è in presenza di un elemento 82 82 82 82 82 82 82 82 82 82 82 82 affermabile (mediante l’applicazione analogica dell’art.2049 cc e in base al principio generale desumibile dalla Cost) la vigenza nel, nel nostro sistema, del principio per cui risponde del danno chi può più adeguatamente condurre l’analisi costi-benefici; cioè chi può accertare la convenienza di evitare il danno, sulla base del confronto tra il costo del danno e quello necessario a evitarlo. E’ molto dubbio che l’art.2049 cc possa costituire il fondamento di una figura generale di responsabilità, le cui caratteristiche e la cui portata operativa paiono andare oltre gli spazi dell’analogia. Le difficoltà di diritto positivo sono avvalorate dai più generali dubbi sull’effettiva consistenza unitaria della figura della responsabilità oggettiva, al di la dell’elemento meramente negativo dell’irrilevanza della colpa. Va ricordato che tra i poli della colpa soggettiva e della responsabilità assoluta, cioè fondata sulla mera causalità (es, danni causati da incidenti nucleari o da oggetti spaziali) ci sono figure intermedie, variamente caratterizzate, tra cui si collocano le ipotesi prima ricordate. Gli esiti del dibattito sulla responsabilità del produttore sembrano deporre in tal senso. La responsabilità oggettiva appare così formula descrittiva di una serie di ipotesi in cui l'imputazione non si fonda, quanto meno direttamente, sulla colpevolezza del comportamento dannoso. I dubbi sula consistenza di un autonomo principio governatore della responsabilità dell’impresa non possono spingersi fino a negare rilevanza al carattere imprenditoriale dell’attività danno sa ai fini dell’interpretazione delle singole fattispecie di imputazione o dell’ammissibilità dell’analogia. In 1°luogo i principi costituzionali (in particolare quello di solidarietà e il limite dell’utilità sociale posto alla libertà di iniziativa economica) sono un sostegno adeguato per le interpretazioni volte a estendere l’area della responsabilità d’impresa. In 2°luogo, la riflessione sui profili economici del giudizio di responsabilità può dare utili elementi per la soluzione di certi difficili problemi, che si pongono in particolare in sede di applicazione dell’art.2049 cc. Non pare che il sistema positivo permetta di fondare un’autonoma categoria dell’illecito o della responsabilità dell’impresa, organizzata attorno a un principio diverso e contrapposto a quello operante per i fatti dannosi estranei ai processi produttivi. Semmai è all’interno delle singole fattispecie di imputazione (colpa compresa) che la peculiarità della fonte del danno può operare per l’ampliamento dei casi in cui i danni causati dall’esercizio dell’impresa siano ricondotti all’interno dei costi di essa. 1.3. La tesi della pluralità dei criteri di imputazione Tirando le fila di quanto si è fin qui osservato, si può giungere a una prima conclusione: rileggere la problematica odierna della responsabilità in termini di conflitto o alternativa tra due principi, la colpa e l'imputazione oggettiva, rischia di essere improduttivo. 85 85 85 85 85 85 85 85 85 85 85 85 Soprattutto, poi, le varie ipotesi di responsabilità, per come definite dalla legge e per come concretamente intese dalla giurisprudenza, si collocano non intorno a due poli contrapposti, ciascuno nel proprio ambito unitario, ma in una scala molto ampia e graduata, all'interno della quale l'apprezzamento del comportamento dannoso del responsabile assume un rilievo progressivamente decrescente, senza però che sia dato riscontrare una precisa e netta cesura. A un estremo si colloca il dolo, nel quale l'imputazione si fonda sull'intenzionalità del comportamento; all'estremo opposto le ipotesi eccezionali, ed esterne alla disciplina del cc, di responsabilità cd assoluta. Lo stesso criterio della colpa è elastico, consentendo un apprezzamento nel quale la considerazione dell'esigibilità varia a seconda delle caratteristiche dell'agente e dell'attività dannosa, fino a divenire estremamente rigorosa a fronte del danno da impresa. La responsabilità non fondata sulla colpa, a sua volta, è variamente costruita a seconda della ratio dell'imputazione, che può essere (e di fatto è) differente, nelle varie ipotesi (responsabilità del genitore, del committente, del custode della cosa...), e che non sempre prescinde dall'apprezzamento del comportamento del convenuto. Con tali considerazioni si vuole rilevare l’impossibilità di ricostruire le varie figure di responsabilità intorno sia al criterio della colpa, che alla contrapposizione tra colpa e responsabilità oggettiva; e l’esigenza di considerare piuttosto analiticamente i presupposti, i contenuti e le rationes della responsabilità nelle diverse fattispecie di imputazione. La ricostruzione più adeguata del sistema pare dunque ancora quella prospettata dalle dottrine che hanno sottolineato come il giudizio di responsabilità si articoli intorno ai due momenti del danno e dei criteri per l'imputazione a un determinato soggetto dell'obbligo di risarcirlo; e come al carattere unitario del criterio di qualificazione del danno (l'ingiustizia) si accompagni la molteplicità dei criteri di imputazione. Il danno ingiusto è trasferito a un terzo se la fattispecie concreta è sussumibile in uno, tra i differenti criteri previsti a tal fine dall'ordinamento; fra questi è qualitativamente non diverso dagli altri la colpevolezza della condotta dannosa. Si è obiettato che così si smembrerebbe artificiosamente l’art.2043 cc, attribuendo valore generale solo alla parte della norma che obbliga a risarcire il danno ingiusto, e negandolo all’elemento della colpevolezza. Lo stesso carattere unitario dell’elemento soggettivo sub art.2043 cc è però difficilmente sostenibile, essendo dubbia l’effettiva portata della cd equivalenza tra dolo e colpa; soprattutto, va sottolineato che il risarcimento del danno ingiusto è effettivamente l'elemento che accomuna tutte le fattispecie di responsabilità previste dagli artt.2043 ss cc, essendo per ciascuna di queste eguale tanto il presupposto (l'esistenza di un danno ingiusto) quanto il contenuto (il risarcimento come regolato dagli 86 86 86 86 86 86 86 86 86 86 86 86 artt.2056ss cc) della tutela. E’ la tecnica legislativa a dare un diverso ambito operativo alle espressioni contenute nell’art.2043 cc. Si è dubitato del valore costruttivo del suddetto schema, in quale è parso descrittivo e non costruttivo di un sistema. Sottolineare l'unitarietà del momento del danno, e la pluralità diversificata di quello dell'imputazione, significa però scegliere un sistema che pone al centro dell'istituto la riparazione del danno ingiusto, ritenendo inadeguate le prospettive che lo costruiscono invece intorno alla struttura delle fattispecie di responsabilità. Tale scelta risponde all’evoluzione dell’istituto negli ordinamenti contemporanei e appare preferibile. Il giudizio di responsabilità appare segnato da una funzione centrale, e sempre sussistente, che è la compensazione del danno, la quale poi diventa concreta quando sussistono ragioni per la traslazione del danno dalla vittima a un altro soggetto. E si è pure notato come tali ragioni siano appunto molteplici, e sempre più anzi tendano a divenirlo, nel crescente carico di finalità che all'istituto aquiliano viene assegnato nelle esperienze contemporanee. Lo schema, che individua nel fatto dannoso il dato costante, cui corrisponde un'articolata molteplicità di criteri di imputazione, descrive quindi adeguatamente l'odierna realtà della responsabilità civile, in cui alla funzione unitaria della riparazione dei danni corrispondono molteplici funzioni dell'imputazione, perché molteplici sono le ragioni per cui l'ordinamento garantisce la traslazione del danno e ne presceglie il destinatario. Sulla base di tali rilievi, pare altresì possibile porre i termini del problema operativo più rilevante in questo campo, che è quello dell'ammissibilità di un'applicazione analogica, o di un'interpretazione estensiva delle figure di responsabilità differenti dalla colpa. L'opinione tradizionale non può non propendere per la risposta negativa, dato che la colpa è considerata il principio generale cui si contrappongono specifiche eccezioni. Abbandonata tale concezione, e accolta quella della molteplicità delle fattispecie di imputazione, viene meno ogni preclusione di carattere generale, e la soluzione non può essere rinvenuta che caso per caso, con riferimento alle varie ipotesi prospettabili per le differenti figure di imputazione. 2. Colpevolezza e imputabilità. La responsabilità dell’incapace Iniziando l’esame dei criteri di imputazione della responsabilità, viene anzitutto in questione il "fatto doloso o colposo" sub art.2043 cc. La fattispecie è suscettibile di un'articolazione interna alla luce soprattutto delle peculiarità dell’imputazione per dolo. Essa presenta tuttavia tratti unitari, connessi al rilievo che assume l'elemento costituito dal comportamento. Infatti, la responsabilità ex art.2043 cc sorge se: 87 87 87 87 87 87 87 87 87 87 87 87 E’ opinione generalmente condivisa che il dolo, rilevante ai fini della responsabilità extracontrattuale, si identifica con la nozione penalistica del dolo generico (art.43cp), che prescinde da elementi specifici di intenzionalità o di frode, risolvendosi nella volontà di cagionare il danno. Il dolo deve ritenersi escluso nei casi in cui sia mancata, per un errore di fatto o di diritto, la consapevolezza dell'ingiustizia del danno. Si ritiene poi di solito operante, nel nostro ordinamento, la regola della cd equivalenza tra dolo e colpa, nel senso che l'an e il quantum della responsabilità sussistono immutati, sia che il comportamento riceva la qualificazione in termini di colpa, sia che riceva quella di dolo. Tuttavia a volte l’identificazione del dolo extracontrattuale con il dolo generico, e la regola dell’equivalenza tra dolo e colpa non descrivono adeguatamente il sistema: infatti, esistono numerose ipotesi, sancite legislativamente (es, la responsabilità del proprietario per atti emulativi ex art.833cc), o elaborate dalla giurisprudenza (es, ipotesi di induzione all'inadempimento e di contratto in frode ai terzi), nelle quali la responsabilità sorge solo in presenza di una qualità peculiare della colpevolezza, in termini di colpa grave, o di dolo, ovvero di una particolare intensità e direzione del dolo (come nel cd animus nocendi di cui all'art.833cc, o in certe figure giurisprudenziali di illecito concorrenziale). Si è anzi prospettata la tesi che non si tratti di un insieme di ipotesi disomogenei ed eccezionali, ma di figure riconducibili a un generale e autonomo principio per cui il danno causato da un comportamento doloso deve considerarsi risarcibile anche quando l’ordinamento assicurerebbe invece (in assenza di dolo) la prevalenza dell’interesse dell’agente su quello pur rilevante del danneggiato. Quel che pare certo, quale che sia la portata che si voglia in concreto riconoscere al principio dell'equivalenza tra colpa e dolo, è che talvolta il dolo incide sulla stessa qualificazione di ingiustizia del danno, nel senso di rendere risarcibili danni che, altrimenti, non potrebbero ricevere tale qualifica, perché cagionati attraverso un'attività che costituisce attuazione di un interesse di per sé prevalente rispetto a quello del danneggiato. Si pensi agli atti emulativi del proprietario, o alle ipotesi giurisprudenziali di responsabilità da contratto concluso in frode a terzi, In questi casi, l’elemento soggettivo rileva ai fini dell’esito del giudizio comparativo degli interessi confliggenti (in cui si sostanzia la qualificazione di ingiustizia del danno), nel senso che il carattere doloso del comportamento impedisce di ritenerlo attuativo di una situazione, altrimenti tutelata in via prevalente. Più circoscritto pare il rilievo peculiare dell’imputazione a titolo di dolo per la quantificazione del risarcimento, governato in via di principio dal criterio della riparazione integrale; mentre la natura dolosa della responsabilità incide ai fini del giudizio sul nesso causale. 4. La colpa 90 90 90 90 90 90 90 90 90 90 90 90 Mentre nella responsabilità per dolo l'imputazione si fonda sull'accertamento della volontà causativa dell'evento, la responsabilità per colpa richiede un giudizio più complesso: si tratta di individuare quali, fra gli eventi causati ma non voluti dall'agente, gli vadano imputati. Negli ordinamenti contemporanei è largamente prevalente la concezione che deduce la colpa non da un giudizio sulla riprovevolezza soggettiva del comportamento (dall’esame dell’atteggiamento psicologico dell’agente e delle sue doti personali di intelligenza e prudenza), ma dal rapporto tra il comportamento dannoso e quello richiesto dall'ordinamento, nelle stesse circostanze concrete, al fine di evitare la lesione di interessi altrui. In base alla defizione su art.43 cp si suole distinguere tra:  COLPA SPECIFICA (o propria): quando è lesa regola espressa  COLPA GENERICA: quando manca l’espressa previsione di una regola che si assume violata. In un caso e nell'altro, in realtà, la colpa è difformità da una regola di condotta, finalizzata alla prevenzione di danni. Per quanto concerne poi le fonti da cui desumere il parametro di valutazione della condotta, assumono rilievo anzitutto le statuizioni normative che prevedano regole di condotta finalizzate alla prevenzione di danni; ma il loro richiamo è insufficiente, perché l’area del principio della colpa è più ampia di quella degli specifici doveri di condotta. In sostanza, è in colpa chi adotta un comportamento contrastante con le regole di diligenza, prudenza e perizia che in un determinato contesto sociale si considerano idonee a prevenire i danni: nozione che l'esperienza giuridica esprime con i parametri del buon padre di famiglia (art.1176 cc), dell'uomo ragionevole di ordinaria prudenza. In tal senso di parla di una concezione sociale o oggettiva, di un apprezzamento in astratto, della colpa: che resta distinta dalla responsabilità oggettiva, nella quale l'imputazione prescinde dall'apprezzamento valutativo della condotta, e talvolta dalla circostanza stessa che vi sia stato un "comportamento" del responsabile. L’uso terminologico delle espressioni “colpa oggettiva” e “colpa soggettiva” assume altro significato, quando lo si adotta per individuare certe circostanze concrete, rilevanti per la valutazione della colpevolezza. Il modello di comportamento richiesto non può non definirsi con riferimento alle condizioni concrete in cui la condotta dannosa è tenuta: infatti, la nozione di colpa, pur essendo per sua natura unitaria, è dotata di un forte coefficiente di elasticità, che ne consente specificazioni adeguate al variare di determinate caratteristiche della fattispecie concreta. In questo senso assumono rilievo anzitutto elementi oggettivi, come la natura dell'attività lesiva e del bene colpito. Attività specializzate, che richiedono particolari competenze professionali, implicano il 91 91 91 91 91 91 91 91 91 91 91 91 raffronto con un modello di condotta a esse adeguato, così come l'elevata qualità del bene esposto al pericolo della condotta potrà indurre a richiedere un grado corrispondente di diligenza. Più discussa è la rilevanza, allo stesso fine, degli elementi soggettivi connessi alle caratteristiche personali dell'agente. Ed è a questo proposito che si ripropone l'alternativa tra colpa oggettiva e soggettiva, che però assume qui il significato del possibile rilievo delle qualità del convenuto al fine della determinazione del parametro al quale raffrontare la condotta concreta. Si tende generalmente, ad es, ad attribuire rilievo alle qualità fisiche dell'agente: ad es il comportamento del portatore di handicap sarà valutato con riferimento a quello esigibile da una persona ragionevolmente prudente che soffra della medesima disabilità. Si esclude invece, secondo l'opinione prevalente, che assumano rilievo le doti morali o intellettive del convenuto, siano esse superiori o inferiori alla media. La valutazione del rilievo da dare alle qualità fisiche e psichiche dell’autore del danno, con riferimento alla superiorità o inferiorità di lui rispetto all’uomo medio, non conduce a revocare in dubbio il superamento della concezione psicologico-morale della colpa. Il principio costituzionale di solidarietà può condurre a modelli di valutazione della condotta che di quelle qualità tengono conto; ma si tratterà di modelli di valutazione in astratto, cioè potenzialmente applicabile alla serie di individui che appartenenti alla stessa categoria soggettiva, E neppure per tale via si incide sul carattere sostanzialmente unitario della colpa, nel senso prospettato dalla superata teoria della graduazione dei tipi di colpa. La rilevanza giuridica di un grado di colpa differente da quello ordinario è espressamente disposta in alcune ipotesi, che per lo più si riferiscono alla colpa grave. Qui l'ordinamento richiede, per l'imputazione della responsabilità, la difformità del comportamento dell'agente non dal parametro ordinario di valutazione della colpa, ma da una misura minima di diligenza, prudenza, perizia. La ratio di queste ipotesi è varia: talvolta è quella di evitare remore all'esercizio di attività difficili e potenzialmente dannose, quali deriverebbero dal rischio di rispondere dei danni derivanti da errori non gravi (es, responsabilità del professionista intellettuale); altre volte la ratio risiede nell’esigenza di evitare l’irresponsabilità di chi versi in dolo, causata dalla difficoltà di provare tale elemento; tuttavia la colpa grave conserva la sua autonomia dalla nozione di dolo (e non ha quindi valore di principio la cd equiparazione tra dolo e colpa grave), essendo insufficiente, per l’esonero della responsabilità, la prove dell’assenza della volontà di causare l’evento dannoso. 4.1. La colpa omissiva Il problema della colpa omissiva non concerne le ipotesi in cui un'attività sia stata intrapresa senza le cautele idonee a evitare danni: infatti, qui è il comportamento commissivo a risultare colposo, in 92 92 92 92 92 92 92 92 92 92 92 92 Per la giurisprudenza prevalente, il danno si considera cagionato dalla cosa quando è prodotto da essa per effetto di un "dinamismo" intrinseco alla cosa, o dell'insorgere in essa di un agente dannoso anche proveniente dall'esterno, ma al di fuori di un'azione diretta dell'uomo; mentre l'art.2043cc sarebbe applicabile ogni qual volta i danni derivino non "dalla res in sé, ma da un comportamento, anche omissivo, del detentore". Sembra però che l'elemento discretivo debba essere individuato, più che nell'assenza di qualsiasi comportamento umano nella vicenda dannosa, nell'individuazione del profilo preminente sul piano causale: infatti, il tenore della norma richiama il profilo della causalità tra cosa e danno; e la formula giurisprudenziale del dinamismo va in effetti intesa come sinonimo della causalità→può ritenersi applicabile l'art.2051cc anche nelle ipotesi in cui la cosa produca danno, mentre è azionata direttamente dal custode, ma per un'anomalia di funzionamento, derivante da guasto o da altre cause accidentali, idonee a interrompere il nesso causale tra il fatto dell'uomo e il danno. Responsabile del danno cagionato dalla cosa è chi l’ha in custodia. Il termine non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, analogo a quello previsto, ad es, in tema di contratto di deposito. La funzione della norma, di imputare la responsabilità a chi si trovi nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, porta a escludere che custode sia necessariamente il proprietario in quanto tale, o chi si trovi al momento del fatto dannoso in una relazione diretta con la cosa, e per ciò solo o chi tragga da essa vantaggio. Custode è invece chi di fatto controlli le modalità di uso e di conservazione della cosa, e abbia pertanto il governo della cosa. In tale posizione è chi abbia la disponibilità giuridica delle condizioni di uso e di conservazione (non, quindi, il dipendente). La figura che più si avvicina, pur senza esaurirla, alla custodia ex art.2051 cc è quella del detentore nell’interesse proprio, o del detentore dell’interesse altrui, ma per l’adempimento di un obbligo proprio. E’ questa relazione tra il soggetto e la cosa, caratterizzata dal potere di effettiva ingerenza, gestione e intervento sulla cosa medesima nel momento in cui si è prodotto il danno, a fondare la responsabilità del soggetto in questione, in quanto "custode". Se e come la "custodia" sia stata in concreto esercitata è invece, questione priva in sé di rilevanza ai fini dell'imputazione della responsabilità. L’imprenditore sarà custode degli strumenti produttivi, quale che sia il titolo per cui ne dispone. L'individuazione del custode va comunque operata con riferimento alle concrete circostanze dello specifico evento dannoso. Si intende così la giurisprudenza che, superando la tesi tradizionale tendente a riconoscere sempre (ed eventualmente in via solidale col conduttore) la responsabilità del proprietario della cosa locata, ha individuato recentemente il soggetto responsabile, in via esclusiva, nel locatore o invece nel conduttore, a seconda della disponibilità in concreto delle cose che 95 95 95 95 95 95 95 95 95 95 95 95 specificamente hanno cagionato il danno. Considerazioni analoghe valgono per la cosa affidata all’appaltatore per la realizzazione dell’opera. Né può escludersi che la responsabilità sorga solidalmente nei confronti di più soggetti, perché ai medesimi sia congiuntamente riferibile, anche a titoli diversi, la custodia della cosa. 5.1. Le figure speciali: il danno cagionato dall’animale, dalla rovina dell’edificio, dal vizio del veicolo Figure speciali di danno da cosa sono regolate dagli artt.2052, 2053 e 2054, 4°comma cc, che dettano una disciplina per alcuni aspetti peculiare, alla luce dei caratteri particolari della cosa dannosa. Per il danno cagionato dall'animale, l'art.2052cc prevede un criterio di imputazione non coincidente con il rapporto di custodia di cui all'art.2051cc. "Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito". Responsabile è il proprietario, a meno che dell'animale si serva un soggetto diverso, che risponderà "per il tempo in cui lo ha in uso"; inoltre è espressamente previsto che la responsabilità sussista anche nel caso di smarrimento o fuga. Rispetto alla norma generale sul danno da cosa, pertanto, la peculiarità della fattispecie in esame risiede in ciò, che il rischio, dal quale discende la responsabilità, non è connesso al potere di governo della cosa, ma a quello di utilizzazione. Probabilmente dato che in passato l’art.2052 cc era inteso come antica e specifica ipotesi di responsabilità oggettiva (nella società preindustriale era la cosa pericolosa per eccellenza), la giurisprudenza è sempre stata incline in questo caso, a differenza che per il danno da cosa, a riconoscere la natura oggettiva dell’imputazione, ancorché sotto tale profilo nessuna differenza sussista con l’art.2051 cc, incontrando la responsabilità in entrambe le ipotesi il limite del fortuito, con onere probatorio a carico del convenuto. La giurisprudenza esclude dall'ambito operativo dell'art.2052 cc i danni cagionati da animali selvatici che sono ricondotti all'art.2043cc, e imputati, in base a tale norma, e quindi previo giudizio di colpevolezza, alle Regioni, a cui sono state trasferite le funzioni concernenti la tut4la della fauna e la disciplina della caccia, e alle riserve di caccia, se concessionarie ex lege. In verità, l’art.2052 cc dovrebbe essere ritenuto applicabile ai danni cagionati dalla fauna protetta, dopo l’entrata in vigore della legge quadro sulla caccia per la quale la fauna selvatica italiana costituisce patrimonio indisponibile dello Stato. Vista la competenza in materia della Regione, è a tale ente che va in effetti ricondotta la responsabilità per i danni arrecati dalla selvaggina a persone o cose. Gli artt.2053 e 2054, 4°comma cc contemplano l'ipotesi di un danno cagionato da vizio di costruzione o difetto di manutenzione, rispettivamente, dell'edificio, la cui rovina ha dato luogo all'evento lesivo, e 96 96 96 96 96 96 96 96 96 96 96 96 del veicolo in circolazione. In entrambe le fattispecie, la sussistenza del rapporto causale tra il vizio o difetto e il danno è sufficiente a dar luogo alla responsabilità a carico del soggetto individuato dalle norme medesime. La differenza tra esse riguarda l’onere probatorio sulla causalità. Ex art.2053 cc, al danneggiato sarà sufficiente provare il nesso eziologico tra rovina e danno, spettando al proprietario dimostrare la ricorrenza di una causa della rovina diversa dal vizio di costruzione o dal difetto di manutenzione. Tanto della rovina, quanto dell’edificio, la giurisprudenza dà nozioni ampie, applicando ad es l’art.2053 cc anche alla caduta di elementi accessori e ornamentali dell’edificio, e comprendendo poi in questo le opere connesse al suolo, anche provvisoriamente, indipendentemente dalla funzione che sono destinate a svolgere. Si può condividere l’affermazione della giurisprudenza per cui il caso fortuito, ancorché non espressamente previsto dall’art.2053 cc, è tuttavia ragione di esonero dalla responsabilità. Una previsione espressa sarebbe stata infatti superflua, giacché la prova del fortuito si identifica appunto con la prova di un elemento esterno, prevalente sul piano causale rispetto al vizio intrinseco dell’edificio. Nell’art.2054 cc, invece, è a carico del danneggiato la prova dell’intera fattispecie dannosa, compreso il nesso causale rispetto al vizio di costruzione o di manutenzione del veicolo. In sostanza, entrambe le norme costituiscono ipotesi di specie rispetto all’art.2051 cc, e di questa condividono la natura oggettiva della responsabilità e il limite del fortuito. Ciò è del tutto chiaro per il vizio di costruzione, che non può addossarsi a colpa del proprietario. Il difetto di manutenzione può piuttosto evocare l’idea di una negligenza di questi; ma anche qui l’esistenza o meno in concreto della colpa nella manutenzione non rileva ai fini della responsabilità, che sorge sulla base del mero nesso causale tra difetto e danno. Altra questione è che con la responsabilità del proprietario possa concorrere quella del costruttore (o dell’incaricato della manutenzione) dell’edificio o del veicolo, che risponderà però ad altro titolo (artt.2043 o 2049 cc). In tal caso, il proprietario potrà agire in regresso, secondo i principi della responsabilità solidale. Il proprietario dell'edificio potrà altresì agire in regresso nei confronti dell'appaltatore, esercitando l'azione dell'art.1669cc, ricorrendo i presupposti di tale norma. In caso di concorso del danneggiato, potrà poi applicarsi l'art.1227cc, fino all'esonero dalla responsabilità. In entrambe le ipotesi, l'imputazione sorge in base non a una relazione di fatto, come la custodia di cui all'art 2051 o l'utilizzazione di cui all'art 2052, ma di diritto. Per l'articolo 2053 responsabile è il proprietario dell'edificio al tempo della rovina. E' ritenuto altresì responsabile in solido con il proprietario il titolare di un diritto reale minore che comporti dovere di manutenzione dell'edificio. E' 97 97 97 97 97 97 97 97 97 97 97 97
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