Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto La scuola al bivio, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto completo del libro "La scuola al bivio" utilizzato per l'esame Pedagogia dei contesti educativi e formativi.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 06/07/2022

Numa_
Numa_ 🇮🇹

4.3

(76)

22 documenti

1 / 30

Toggle sidebar

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto La scuola al bivio e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PEDAGOGIA DEI CONTESTI EDUCATIVI E FORMATIVI LA SCUOLA AL BIVIO INTRODUZIONE La scuola si trova oggi di fronte ad un bivio: da una parte il mercato, con i suoi meccanismi concorrenziali e i suoi imperativi d’efficienza sociale; dall’altra la democrazia, con il progetto d’emancipazione umana. La scuola si trova a dover compiere una scelta storica in questa situazione di crisi sociale e educativa. Lo stato di crisi implica inoltre una condizione di instabilità nella quale ogni piccola modifica può portare ad esiti totalmente diversi. Per questo motivo la responsabilità che deriva da questa scelta è molto grande e non si può fare a meno di decidere. La metafora del bivio, utilizzata nel testo per connotare la situazione della scuola, riprende intenzionalmente quella usata da Maritain nella sua opera “Education at the Crossroads”, un’opera che si situava nell’epoca di una grave crisi mondiale, e il bivio che l’autore prospettava era quello tra democrazia e totalitarismo. Oggi la democrazia è di fronte a una nuova forma di totalitarismo sicuramente più morbida e seducente di quelle di allora, ma nondimeno tale: la dittatura del mercato, legittimata grazie all’egemonia politico-culturale dell’ideologia neoliberista. Pertanto, oggi come allora la scuola si trova a dover scegliere da che parte stare, scegliere se formare un uomo a una sola dimensione, il produttore competente ma politicamente indifferente e disimpegnato e conformista, oppure l’uomo completo, cittadino partecipe e riflessivo, e produttore al tempo stesso. Il volume si divide il tre parti: nella prima viene analizzato il rapporto tra scuola, politica e pedagogia; nella seconda vengono presentati due significativi modelli, quello fornito dal pensiero di Dewey e quello inerente al pensiero di Gramsci; nella terza vengono messi a fuoco alcuni problemi concreti della formazione scolastica. Nel suo insieme il volume tende a mostrare che, pur con i condizionamenti che possono venire dalla politica, la scuola può mantenere spazi d’autonomia sufficienti per prendere posizione rispetto a questa alternativa formativa. PARTE PRIMA Scuola, politica e pedagogia Il rapporto tra scuola, politica e pedagogia costituisce un nodo complesso e problematico, ma anche necessario perché nella questione scolastica s’intrecciano inevitabilmente questioni pedagogiche e questioni politiche. Il rapporto tra pedagogia e politica definisce l’autonomia o l’eteronomia della pedagogia, ed è ciò che si intende analizzare in questa prima parte. Occorre però evitare soluzioni semplificanti e unilaterali, dobbiamo quindi respingere da un lato la tesi di una completa eteronomia della pedagogia, ridotta a un’espressione dell’ideologia dominante, dall’altro dobbiamo respingere l’idea di una completa autonomia della stessa, che appare come un’idealizzazione o un’illusione. Si intende quindi analizzare il rapporto tra pedagogia e politica su tre piani: il piano epistemologico, il piano culturale e il piano sistemico. Il rapporto verticale tra questi piani vede il piano culturale porsi tra quello epistemologico e quello sistemico, i quali non hanno collegamenti diretti essenziali, il loro rapporto avviene attraverso la mediazione del piano culturale. CAPITOLO 1 Il rapporto tra pedagogia e politica 1. Il rapporto sul piano epistemologico Il piano epistemologico è inerente all’organizzazione interna di una disciplina e si esprime in una specifica ontologia regionale, ossia il sistema che una disciplina adopera per cogliere e interpretare l’esperienza inerente al proprio campo di indagine. Così la politologia come scienza della politica e la pedagogia come scienza dell’educazione presentano i propri particolari sistemi concettuali tramite i quali danno forma al proprio oggetto di indagine, la politica e l’educazione. Si tratta di concetti legati da relazioni, possiamo infatti parlare anche di rete o struttura concettuale della disciplina. Da questo punto di vista politologia e pedagogia sono autonome in quanto esibiscono proprie distinte ontologie regionali, ma quale rapporto intercorre tra queste ontologie? A questo punto emerge il problema della incommensurabilità e della traducibilità tra questi due linguaggi scientifici. La tesi dell’incommensurabilità sostiene l’inesistenza di criteri di confronto tra due teorie scientifiche rivali in quanto il significato dei termini rispettivamente usati dipende dal loro specifico contesto storico. Tuttavia, nel nostro caso non parliamo di due teorie rivali entro una medesima disciplina, bensì parliamo di due linguaggi scientifici di due discipline differenti, quindi sembra cadere il carattere dell’incommensurabilità, lasciando posto più che altro ad un problema di traduzione. La tesi della traducibilità poggia sull’assunto generale della nostra capacità di traduzione linguistica, che rende sempre possibile una comunicazione tra culture e comunità linguistiche diverse. È sempre possibile tentare di tracciare e migliorare delle traduzioni, anche se ciò può risultare a volte complesso e limitarsi soltanto ad ambiti parziali. Questa posizione implica che tra il linguaggio della politologia e il linguaggio della pedagogia possa sussistere almeno una parziale traducibilità, limitata ad alcune aree. Tuttavia, l’operazione dell’effettiva traduzione di un termine concettuale dall’uno all’altro universo linguistico richiede una familiarità dell’interprete con entrambe le reti concettuali, per evitare di operare una riduzione da un concetto di una disciplina al concetto di un’altra disciplina. 2. Le categorie della politica Per esplorare la possibile traducibilità tra le ontologie regionali della pedagogia e della politica bisogna prima partire dall’identificazione di alcune categorie della politica. Schmitt ha individuato la categoria reggente del politico nella coppia nemico-amico: un contrasto sociale diventa politico quando assume un grado di intensità tale da raggruppare gli individui in amici e nemici. Tuttavia, questa caratterizzazione tiene conto soltanto di una modalità della politica, quella conflittuale basata sull’uso della forza, trascurando la modalità dell’accordo e della regolazione pacifica. Per i nostri scopi muoveremo piuttosto dalle categorie elaborate da Gramsci, le quali, oltre alla modalità della forza, riprendono anche dimensioni dell’accordo e del consenso. Gramsci suddivide tra governanti e governati, gruppi dirigenti e gruppi subordinati. Il rapporto tra governanti e governati è concepito alla luce di un concetto politico e sistema educativo sembrerebbe improntato a una sostanziale eteronomia del sistema educativo rispetto a quello politico: il sistema educativo si presenta come soggetto capace di esprimere una richiesta verso il sistema politico, ma allo stesso tempo si presenta come destinatario di decisioni politiche imperative che lo riguardano a vario titolo. A questo punto possiamo raccordare il quadro di Easton con l’impostazione categoriale gramsciana: la prima e la terza categoria del sistema politico sembrano connesse con la questione dell’egemonia, mentre l’effettivo carattere autoritativo delle decisioni corrisponde alla questione dell’egemonia in senso largo, ossia alla direzione basata sul consenso e sulla coercizione: il governo tende a fondarsi su una combinazione di forza e consenso. L’impostazione di Gramsci del sistema politico si bassa sulla figura dell’integrazione dialettica. Il riferimento culturale di Gramsci sembra essere i Lineamenti di filosofia e del diritto di Hegel, e quindi la distinzione tra società civile e Stato. Ma Gramsci distingue tra lo Stato in senso stretto (società politica) e Stato allargato o integrale (unità dialettica tra società politica e società civile). Questa integrazione tra società civile e società politica acquista un profilo ancora più pregnante attraverso il concetto gramsciano di ‘apparato egemonico’. Con questo concetto lo studioso si riferisce all’insieme di strutture materiali dell’ideologia, colte nella loro concretezza storico-sociale. La diffusione di un’ideologia necessita di un’attività di comunicazione sociale, grazie alla quale tale ideologia può incidere sul senso comune delle masse, e diventare così una forza che agisce nella storia. Tale funzione viene compiuta dalle agenzie dell’apparato egemonico: i partiti, i sindacati, i movimenti sociali, l’associazionismo culturale, la stampa, la radio, l’editoria, la produzione cinematografica ecc.. 2. Il punto di vista del sistema educativo Il termine “sistema educativo” viene usato per indicare genericamente il complesso scolastico, considerando l’insieme delle agenzie formative scolastiche ed extrascolastiche. Dal punto di vista della teoria dei sistemi, la definizione di sistema implica l’esistenza di relazioni significative tra le unità del sistema stesso e la possibilità di tracciare un confine con l’ambiente. Per quanto riguarda il sistema scolastico si può osservare che le differenti unità del sistema interagiscono tra loro nel determinare gli esisti formativi nei comuni destinatari, hanno di fatto delle relazioni. Mentre per quanto riguarda il modo di tracciare un confine tra sistema educativo e ambiente scolastico possiamo distinguerne due tipi: 1. criterio funzionale : si includono nel sistema educativo le interazioni sociali che producono effetti formativi senza averne necessariamente l’intenzione. In questo caso parliamo di sistema formativo allargato (scuola, famigli, associazionismo culturale, mezzi di comunicazione di massa, gruppo dei pari, ecc…); 2. criterio fenomenologico : si vedono come pertinenti al sistema educativo solo quelle interazioni sociali che sono intenzionalmente educative. In questo caso parliamo di sistema educativo in senso stresso (scuola, famiglia, chiesa, associazionismo). All’interno del sistema educativo possiamo quindi distinguere tre sottosistemi: il sottosistema formale, corrispondente alla scuola che ha una funzione educativa e un modo intenzionale; il sottosistema non formale che include agenzie la cui funzione non è principalmente educativa ma che sono connotate da un certo grado di intenzionalità; e il sottosistema informale, costituito da agenzie che pur non avendo direttamente una funzione formativa, tendono a produrre effetti formativi senza una vera e propria intenzionalità. Mentre il sistema formativo allargato tende a coincidere di fatto con l’intera società, il sistema scolastico è nato da un processo storico di differenziazione funzionale ha portato la società ad articolarsi in una serie di sistemi parziali, tra i quali quello educativo-scolastico. Il processo di differenziazione funzionale genera una complessità che rende necessario un certo grado di autonomia dei sistemi parziali, e tale complessità è prodotta anche dalla moltiplicazione dei riferimenti sistemici entro cui si trova un sistema parziale. Luhmann ne distingue di tre tipi: il rapporto con il sistema complessivo (la società), che si esprime in una funzione sociale; le relazioni tra i vari sistemi parziali, descrivibili in termini di prestazioni che uno richiede o fornisce all’altro; il rapporto del sistema parziale con sé stesso, configurabile nella forma della riflessione. Il sistema educativo-scolastico svolge una funzione educativa nei confronti del sistema sociale complessivo; tale funzione è definita attraverso la mediazione di una formula pedagogica; la quale è il frutto di una riflessione interna del sistema educativo. Il punto chiave nell’impianto analitico luhmanniano è rappresentato dalla richiesta di prestazioni del sistema politico al sistema educativo. Potrebbe trattarsi di una richiesta direttamente connessa a esigenze del sistema politico stesso (la formazione del cittadino), ma anche di una richiesta legata ad esigenze di altri sistemi parziali, ad esempio quello economico, di cui il sistema politico di fa interprete. Siccome il sistema politico ha la funzione di realizzare una distribuzione imperativa di risorse (economiche, normative, ecc…), le prestazioni da parte di tale sistema possono essere non solo richieste, ma pretese in modo imperativo, sia in forma diretta attraverso leggi e normative, sia in forma indiretta attraverso la cosiddetta politica degli incentivi e delle quote premiali. Arrivati a questo punto emergono i limiti: per ottenere l’effettivo svolgimento delle prestazioni pretese dal sistema politico, esso deve conseguire un’egemonia politica ma anche etico-culturale sul sistema educativo-scolastico, il quanto esso conserva una propria autonomia. Il concreto svolgimento della funzione educativa non è interamente predeterminabile attraverso leggi e normative, le quali possono normare l’azione educativa, limitare la sua libertà, ma vi sarà sempre un margine interpretativo, una certa possibilità di gioco entro il quadro normativo imposto. Se il sistema politico, accogliendo una domanda del sistema economico, chiedesse alla scuola una prestazione centrata sulla formazione dei nuovi produttori, ponendola in termini meramente impositivi, il sistema scolastico potrebbe opporre forme di resistenza passiva che renderebbero inefficaci lo svolgimento di tale prestazione. Per assicurarsi l’effettivo svolgimento di tale prestazione, il sistema politico dovrebbe realizzare un’egemonia etico- polito-culturale sul sistema educativo, ossia dovrebbe persuadere gli attori di tale sistema della bontà e legittimità etica e culturale di tale prestazione, in poche parole dovrebbe modificare la cultura dell’educazione e il senso comune didattico. Per conseguire un’egemonia etico-culturale sul sistema educativo, il sistema politico è indotto a chiedere una specifica prestazione riflessiva al sottosistema pedagogico, ma per ottenerla il sistema politico non può ricorrere all’imposizione. L’ideazione di una formula pedagogica conforme ai propri desideri può essere ottenuta dal sistema politico solo col consenso del sottosistema pedagogico, si tratta cioè di persuadere gli attori di tale sottosistema a collaborare al progetto politico. Ciò può essere ottenuto in vari modi: rivolgendosi ai pedagogisti il cui pensiero sia già in sintonia con tale progetto; conferendo ai pedagogisti coinvolti determinate risorse, sia di status sia tangibili. Una riforma della funzione educativa del sistema scolastico può avere successo soltanto se l’egemonia culturale raggiunge un livello tale da indurre una trasformazione della cultura pedagogica dei docenti e del loto senso comune didattico. Si tratta cioè di modificare le loro credenze pedagogiche, i loro abiti mentali e le loro abitudini professionali, Pertanto, una riforma educativo per riuscire richiede una certa quantità di tempo. Inoltre, la richiesta di modificare la formula di legittimazione del sistema scolastico tende a generare una lotta egemonica: se una parte del sottosistema pedagogico, per convinzione o convenienza, accetterà di collaborare, un’altra parte tenderà a rimanere neutrale, e un’altra ancora assumerà una posizione più o meno critica e talvolta di aperta diffidenza. Tale lotta tenderà a espandersi al sistema formativo allargato e all’apparato egemonico complessivo. 3. Il punto di vista meta-strutturale La meta-struttura relazionale considera l’intera trama dei rapporti tra il politico e l’educativo, comprende così quattro forme di rapporto: a) Il rapporto tra il sistema politico in senso stretto e il sistema educativo in senso stretto: rappresenta la forma di rapporto di cui ci siamo occupati sino ad ora. Se il sistema politico intende promuovere con successo un mutamento della funzione del sistema educativo includendovi una nuova prestazione deve rinunciare a un’impostazione meramente impositiva e impegnarsi in una campagna egemonica organica e tenace. Se il sistema educativo-scolastico non è convinto della legittimità e della validità pedagogica della prestazione richiesta dal sistema politico, dispone di alcune risorse per resistere alla sua attuazione, promuovendo una lotta culturale contro-egemonica volta a impedire che la nuova formula pedagogica conquisti la supremazia, modificando così il senso comune dei docenti. Quanto detto è valido indipendentemente dalla valutazione del carattere della richiesta posta dal sistema politico al sistema educativo. Vale a prescindere dal fatto che tale richiesta abbia un carattere politico-pedagogico progressivo o regressivo. b) Il rapporto tra il sistema politico in senso stretto e il sistema formativo allargato: quest’ultimo tende a coincidere con l’intera società civile, in quanto comprende sia le agenzie non formali che quelle informali. In un primo momento il rapporto tra Stato e società civile potrebbe essere inteso come un rapporto egemonico, ma bisogna ricordare che ogni rapporto egemonico è a sua volta un rapporto pedagogico: lo Stato assume il ruolo di educatore della società civile, lo Stato educa la società civile che a sua volta educa gli individui umani. Quindi non bisogna cadere nell’errore di dividere la società in due parti: società politica e società civile, mettendo una (la società politica) sull’altra (la società civile). Il rapporto pedagogico va concepito come un rapporto reciproco e attivo, entro il quale l’educato educa a sua volta il proprio educatore. La società civile non è termine passivo del modellamento operato dallo Stato educatore, ma reagisce e agisce attivamente sullo Stato stesso, educando a sua volta il proprio educatore. Questo quadro assume una fisionomia inquieta e conflittuale non appena si rammenta che la regola del processo egemonico è quella della lotta egemonica, si hanno più educatori sociali, sia nella società politica che nella società civile, ciascuno dei quali cerca di imporre le proprie concezioni e di influenzare gli altri educatori, nonché le masse sociali. c) Il rapporto tra il sistema politico allargato (o Stato integrale) e il sistema educativo in senso stretto: lo Stato integrale comprende la società politica più la società civile, e quindi anche il sistema educativo-scolastico. Il quadro che ne emerge è quello di una del mondo si danno entro l’orizzonte di una lotta egemonica per la loro affermazione, pertanto, vi sarà un’ideologia dominante, egemone rispetto a ideologie subalterne e in conflitto con ideologie contro-egemoniche. Così, traducendo queste diverse ideologie in termini pedagogici, si possono avere formule che riflettono la visione del mondo egemone, altre che rispecchiano concezioni subalterne, altre in posizioni contro- egemoniche. Ne segue un’esclusione della neutralità della pedagogia. ii. Lato socio-strutturale. L’inerenza dell’ideologia alla pratica sociale implica una progettazione sociale carica di effetti pratici: ogni ideologia coinvolge un progetto di società e una conseguente forma d’azione sociale. A questo proposito possiamo suddividere le ideologie in due grandi categorie: quelle “conservatrici” che tendono a giustificare lo status quo del mondo e quindi a mantenerlo identico; e quelle “innovatrici”, inclini a criticare lo stato presente delle cose e quindi a mutarlo. Lo stesso si può dire della formula pedagogica. L’inerenza della formula pedagogica alla prassi educativa implica la possibilità di trattarla come una forma astratta di progettazione educativa verso l’organizzazione di tale agenzia e della sua prassi educativa. A questo proposito le formule pedagogiche possono essere ripartite in due grandi categorie: quelle “formali”, secondo le quali l’educazione deve andare oltre alla relatività storica, caratterizzandosi come universale e perenne; e quelle “realiste”, secondo le quali l’educazione deve mettere in grado l’individuo di far fronte alla propria realtà sociale, quindi, l’educazione deve mutare in funzione delle differenti fasi storiche. Sulla base di questi assunti, il problema diventa allora quello del rapporto tra la progettazione sociale espressa nell’ideologia e la progettazione educativa codificata nella formula pedagogica. PARTE SECONDA Scuola e modelli politico-pedagogici In questa parte saranno analizzati i modelli filosofico-pedagogici di Dewey e Gramsci, dove il nesso tra pedagogia e politica si presenta significativo. Entrambi i pensatori sono critici verso la realtà sociale e scolastica, concepiscono la pedagogia come dotata di un significato politico, senza per questo subordinarla alla politica. Vediamo alcune analogie e differenze degli auturi: o paradigmi politico-culturali differenti: Dewey si muove in una cornice di carattere liberal- democratica; Gramsci si muove nel quadro del marxismo critico; o pensiero filosofico: entrambi gli autori hanno una solida radice hegeliana, le loro filosofie si possono considerare come modelli di “filosofia della praxis”, con un atteggiamento attivo verso il mondo, volto a trasformalo. In Dewey la filosofia della praxis diviene un atteggiamento volto a far fronte ai problemi del mondo considerati come ostacolo superabile attraverso il metodo dell’intelligenza. Intende operare cambiamenti nel sistema sociale, con una strategia riformista-migliorista di breve-medio termine. In Gramsci la filosofia della praxis diviene invece un atteggiamento volto a risolvere le contraddizioni della realtà sociale, trasformandola per le esigenze storiche oggettive dell’uomo. Intende realizzare un cambiamento del sistema sociale, con una strategia rivoluzionaria a lungo termine; o piano pedagogico: entrambi cercano di elaborare un principio educativo unitario attraverso un’analisi della propria epoca storica. Fautori entrambi di un’educazione estesa democraticamente a tutti i cittadini; o senso comune: entrambi assumono tra i loro riferimenti privilegiati la questione del senso comune. Dewey vede l’educazione come un raffinamento di un processo che è già presente nel pensiero comune, volto a renderlo più vigile e sorvegliato; Gramsci ritiene che il senso comune è infiltrato dall’ideologia dominante e perciò va riformato attraverso un’attiva lotta contro le credenze di cui è intessuto. CAPITOLO 1 Scuola e democrazia in Dewey 1. Lo sviluppo del pensiero di Dewey tra educazione e politica Le idee scaturite dalla lunga ricerca di Dewey non furono meramente teoriche, ma sono state il frutto del tentativo di approntare prospettive culturali e strumenti intellettuali per far fronte ai problemi storico-culturali del suo tempo. Il pensiero di Dewey è complesso e articolato, porremo quindi l’attenzione a tre momenti paradigmatici a cui corrispondono tre opere fondamentali, tre fasi fondamentali dell’autore e tre fasi storiche: 1. Etica della democrazia (1888), giovane Dewey, età dorata; 2. Democrazia e educazione (1916), la sua maturità, età del progressismo; 3. Liberalismo e azione sociale (1935), la sua fase tarda, l’età del New Deal. L’Etica della democrazia prende forma in un periodo storico denso di contraddizioni sociale. Il periodo viene appunto definito ironicamente dallo scrittore Mark Twain, l’età dorata, per indicare una patina di lucentezza che nascondeva gravi problemi. Gli Stati Uniti conoscono uno sviluppo industriale impetuoso guidato da un capitalismo selvaggio, ma al forte sviluppo economico di accompagnano gravi disparità sociali che vedono una ristretta minoranza (1%) detenere oltre la metà della ricchezza nazionale, e milioni di individui sotto la soglia della povertà. Queste disuguaglianze vengono giustificate attraverso il ricorso del darwinismo sociale e il mito dell’individualismo americano (american dream). Secondo queste ideologie la posizione sociale individuale deriva da una competizione simile alla lotta naturale per la sopravvivenza, per cui può arricchirsi e raggiungere il successo chi è capace e chi lavora duramente. Ne segue un duro sfruttamento dei lavoratori e una disoccupazione che senza scampo porta all’indigenza. Ad aggravare la situazione di disparità delle risorse sono anche i pregiudizi raziali. L’opera di Dewey è mossa da alcune tesi sostenute da Maine, un giurista conservatore inglese, il quale afferma che la democrazia è solo una forma di governo e quindi deve essere valutata come tale, e che si dimostra essere la forma di governo più instabile. A ciò Dewey risponde innanzitutto che la democrazia non è solo una forma di governo, ma anche un sentimento, un sentire condiviso della società. L’etica della democrazia consiste nel dare modo a tutti e a ognuno di sviluppare pienamente la propria personalità, fornendo a ognuno, sul piano economico, le stesse possibilità di realizzarsi come essere umano. E considera la democrazia come la più stabile forma di governo in quanto garantisce una volontà comune la cui realizzazione è basata sulla formazione di una maggioranza attraverso una libera discussione, entro la quale sono considerate anche le idee delle minoranze, realizzando il massimo consenso possibile. Emergono alcuni limiti nell’opera: una certa tendenza a idealizzare la democrazia, probabilmente questa forzatura aveva una funzione di argomentazione polemica contro le tesi di Maine e perciò va vista in quest’ottica; non chiara definizione del concetto di “democrazia industriale” e come essa favorisca lo sviluppo della personalità e l’unità tra gli uomini, probabilmente non è stato chiarito a causa della possibilità di una censura. L’opera Democrazia e educazione che prendiamo in considerazione come secondo momento paradigmatico è la più compiuta espressione del pensiero di Dewey, opera della maturità che converge le riflessioni politiche iniziate con Etica della democrazia, l’interesse pedagogico sviluppato nel periodo di Chicago attraverso diversi saggi e le sue indagini sulla scienza e la logica strumentalista. Il momento storico in cui appare quest’opera è al culmine dell’età del progressismo, un movimento politico-culturale iniziato alla fine dell’Ottocento in seguito al movimento populista. Anche in questa fase non mancano però le contraddizioni, soprattutto legate alla visione razzista e alle simpatie dei presidenti Theodor Roosevelt e Woodrow Wilson, preoccupati di salvaguardare la razza anglosassone dalla contaminazione degli immigrati, nonché all’estensione della politica imperialista statunitense. Si trattava quindi di una modernizzazione sociale e culturale limitata. Questo periodo si può considerare terminato nel 1917 con l’entrata in guerra degli Stati uniti nel primo conflitto mondiale, giustificata da Wilson come diretta a difendere e diffondere la pace e la democrazia. Dewey darà la propria adesione all’intervento, tornando su posizioni pacifiste nel dopoguerra, deluso dal Trattato di pace, posizioni che non abbandonerà più. Il rapporto di Dewey con il progressismo va visto come improntato a una distanza critica: per il filosofo l’atteggiamento scientifico-sperimentale non deve essere appannaggio di una casta di esperti ai quali delegare le decisioni sociali, ma deve essere assicurato a tutti i cittadini in modo da estendere la partecipazione alla vita democratica. Infatti, l’opera Democrazia e educazione può anche essere letta come una critica indiretta alla deriva tecnocratica dell’età progressista, in quanto, Dewey lega l’atteggiamento scientifico alla democrazia attraverso l’educazione, anziché ritenerlo un appannaggio esclusivo di una corporazione di esperti. L’intento di Dewey in quest’opra è chiarito già dalla Prefazione: applicare all’educazione le idee di una società democratica. Tra educazione e democrazia vi è un’implicazione reciproca: l’educazione assicura la massima estensione del numero di individui capaci di partecipare pienamente alla vita democratica; la democrazia garantisce la liberazione delle facoltà dell’individuo e quindi la piena educazione di tutti. Senza l’una non può darsi pienamente l’altra e viceversa. Dewey inoltre istituisce anche un nesso tra il metodo scientifico- sperimentale e la democrazia, tale metodo corrisponde al metodo dell’intelligenza, si tratta cioè di affrontare tali problemi con un atteggiamento sperimentale, attento alle conseguenze effettive delle soluzioni attuate, e tramite la libera discussione. Pur prendendo atto delle difficoltà dell’affermazione di una democrazia partecipativa nella grande società industriale, cercava di individuarne le possibilità e le condizioni, tra le quali all’educazione era attribuita una funzione fondamentale. Rimaneva però nuovamente taciuta la strategia politica per realizzare tali condizioni. L’influenza di Dewey trova una grande espansione, ma nel panorama psico- pedagogico inizia a diffondersi un’altra linea culturale: il comportamentismo. Si tratta di Nel secondo dopoguerra i maggiori interpreti del pensiero di Dewey in Italia sul versante filosofico sono stati Preti e Abbagnano, mentre su quello pedagogico Borghi e Visalberghi, il quale definiva Dewey il “filosofo della democrazia”. Nell’attuale situazione storica diviene essenziale la tensione tra l’ideale democratico e il liberalismo reale, che richiede una riattivazione del lato critico del pensiero deweyano. Mentre Dewey si ritirava dall’impegno politico diretto, Walter Lippmann, nel 1938, organizzava a Parigi un Convegno mirato alla fondazione del liberalismo, nacque così il cosiddetto neo-liberismo. In tale convegno si confrontano due orientamenti: quello del ritorno al liberalismo laissez faire e quella del cosiddetto ordoliberalismo. Orientamenti distinti dal liberalismo deweyano. Il neoliberismo tende a conformare tutta la società secondo i propri dogmi e pertanto è proteso a omologare tutti i sistemi scolastici occidentali. Dal suo punto di vista, la scuola viene concepita come una fabbrica del capitale umano necessario per la produttività del sistema socio-economico, e come un’agenzia di socializzazione allo spirito competitivo. In altre parole, la sua funzione è quella di formare produttori competenti e dotati di una mentalità concorrenziale, dimenticando la formazione dei futuri cittadini. La stessa scuola viene vista come un’azienda, e gli istituti scolastici vengono messi in concorrenza tra loro entro una sorta di mercato della formazione. Se per il neoliberismo è la democrazia che si deve inchinare alle necessità dei mercati, per Dewey è il liberalismo a doversi modellare secondo le esigenze della democrazia, è la democrazia ad avere la priorità in quanto ideale etico e modo di vita associata capace di assicurare a tutti la piena crescita umana. Così il pensiero di Dewey continua a rappresentare uno strumento intellettuale vitale per dare forma ai nostri problemi. E il suo progetto di una democrazia radicale non è fallito, è un compito tutt’ora aperto. CAPITOLO 2 Scuola, egemonia e subalternità in Gramsci Il nesso tra pedagogia e politica di presenta particolarmente stretto in Gramsci. Politica e pedagogia appaiono come due livelli della trasformazione del mondo, ma la forma del rapporto sociale che interviene ai due livelli è analoga: si tratta sempre di una relazione attraverso cui l’uomo da l’uomo, ossia tramite la quale un agente tende a influenzare un altro soggetto. In questo capitolo analizzeremo il lato pratico del nesso tra pedagogia e politica. 1. Uno schizzo del pensiero di Gramsci in carcere Il passaggio dalla sua produzione giornalistica a quella dei Quaderni del carcere si compie nel contesto della sconfitta del movimento proletario e dell’avvento del fascismo. La cerniera tra le due fasi è rappresentata dal saggio sulla Questione meridionale. Il problema che Gramsci intende affrontare nella sua riflessione carceraria è il problema del passaggio del proletariato da gruppo subalterno a gruppo dirigente della società italiana. La soluzione prospettata da Gramsci è quella della conquista dell’egemonia attraverso la strategia della guerra di posizione. E il presupposto generale per realizzare questo disegno è quello dell’organizzazione di un partito attrezzato allo scopo. Secondo Gramsci, il potere dei gruppi dominanti si dà sempre nell’ambito di un blocco storico, connessione tra struttura socio- economica e un’ideologia, quest’ultima rappresenta il cemento che tiene insieme il blocco storico ed è il fondamento dell’egemonia dei gruppi dominanti. Tale egemonia costituisce un esercizio del potere affidato non solo alla forza coercitiva, ma anche e soprattutto alla capacità di creare consenso. Il gruppo egemone può governare col consenso dei subordinati se riesce a diffondere tra questi la propria ideologia, radicandola nel loro senso comune. In questo modo i subordinati tendono a condividere la visione del mondo dei gruppi dominanti, rendendo legittimo e naturale lo stato delle cose esistente. Quanto, però, il gruppo dominante perde la capacità di cementare il blocco storico attraverso la propria ideologia, si verifica una crisi d’egemonia che può condurre a una situazione potenzialmente rivoluzionaria, in quanto il dominio del gruppo dominante rimane ma perde la sua capacità di dirigere veramente. A questo punto gioca un ruolo decisivo il grado di maturità soggettiva dei gruppi subordinati e la capacità di unificarli e dirigerli secondo un disegno politico antagonista. A differenza di una situazione come la rivoluzione bolscevica in Russia dell’ottobre 1917, in Occidente, di fronte alla struttura di uno stato allargato (Stato politico + società civile), occorre rinunciare a una guerra di movimento per una guerra di posizione, la quale richiede d’impegnarsi in una lotta culturale di ampio respiro e di lungo periodo, fino ad assicurare al proletariato una posizione egemonica nella società civile tale da consentirgli di porsi come gruppo dirigente già prima di arrivare al potere. Tale disegno politica presenta delle implicazioni: o elaborare una nuova ideologia, alternativa a quella dominante; o produrre una trasformazione della mentalità dei gruppi subordinati, favorendo la diffusione di tale ideologia; o conquistare gli intellettuali alla causa del proletariato; o organizzare un soggetto politico, il partito, capace di realizzare le suddette condizioni. Ai fini della guerra di posizione, la filosofia della praxis si deve diffondere al popolo e deve diventare il fattore di una riforma intellettuale e morale delle masse. Il senso comune popolare si presenta ampiamente infiltrato dall’ideologia dominante, le masse divengono subito inclini al consenso verso il dominio, ma per quale motivo? Con questo interrogativo Gramsci di aggancia alla formazione scolastica. Il sistema scolastico all’epoca di Gramsci ha un’organizzazione che tende a riprodurre la separazione tra classe dirigente e ceti subalterni: o La scuola elementare vede la religione cattolica posta a proprio fondamento e coronamento, favorendo la cristallizzazione di una mentalità statica e dogmatica. In questo modo, i soggetti d’estrazione popolare restano inclini ad assorbire acriticamente gli elementi dell’ideologia dominante che permeano l’ambiente sociale. o La scuola secondaria si presenta divisa in senso classista tra un ramo riservato alla classe dirigente (Ginnasio-Liceo) dove la presenza del latino e della filosofia permettono l’emancipazione dal dogmatismo indotto dall’insegnamento religioso, e un ramo destinato ai gruppi subalterni a carattere meramente professionale, che non favorisce l’approdo al pensiero critico. In questo modo, sprovvisti di una forma di pensiero critico e coerente, i soggetti d’estrazione popolare sono indifesi rispetto all’ideologia dominante. Per questo è indispensabile operare sul fronte scolastico, mirando a una scuola di base unitaria, bisogna superare la differenziazione tra i percorsi per il ceto dirigente e quelli per i gruppi subalterni, optando democraticamente per formare tutti gli uomini come potenziali dirigenti. Perciò, in una prima fase, la filosofia della praxis è volta alla critica del senso comune, con lo scopo di rimuovere gli elementi che determinano l’atteggiamento passivo e subalterno dei gruppi subordinati, il proletariato va emancipato dalla mentalità subalterna e formato secondo una mentalità da dirigente politico, così che possa diventare soggetto attivo della storia, anziché subirla passivamente. Attraverso la guerra di posizione, la filosofia della praxis deve perciò forgiare un nuovo senso comune delle masse. Ruolo cruciale nella guerra di posizione è quello svolto dagli intellettuali che per Gramsci non si identificano soltanto nell’elaborazione dell’alta cultura, ma sono legati a tutte le funzioni dirigenziali e organizzative. Essi si dividono in intellettuali tradizionali, i quali si identificano come eredi di studiosi dei periodi storici precedenti; e intellettuali organici, capaci di dirigere la attività politiche del proprio gruppo di appartenenza e dunque del partito che lo rappresenta. Anche in questo caso la scuola svolte un ruolo strategico nella formazione degli intellettuali, di soggetti in grado di dirigere altri uomini. Solo grazie a una schiera di intellettuali organici rinforzata da intellettuali tradizionali, il proletariato e il suo partito possono combattere vittoriosamente la guerra di posizione. Infine, il partito è il soggetto politico in grado di realizzare le condizioni necessarie per la conquista dell’egemonia, viene descritto come in moderno Principe (in riferimento a Machiavelli): l’intellettuale collettivo che ha il compito storico di dirigere il proletariato, illuminandone la coscienza e unificandone la volontà. Gramsci non si limitò a sviluppare questo vasto quadro teorico-politico su un piano meramente astratto, egli lo elaborò in stretta connessione con la concreta analisi storia della realtà italiana. Tale ricerca inizia nello scritto sulla Questione meridionale per poi svilupparsi nei Quaderni del carcere ed è legata all’esigenza di comprendere i motivi dietro alla sconfitta del proletariato e dell’avvento del fascismo. Questo duplice grandioso sforzo, teorico e storico, fa del pensiero di Gramsci non solo un “classico”, ma un riferimento ancora vitale per pensare i problemi attuali. 2. Un concetto chiave: lo spirito popolare creativo Per passare dal quadro generale alla dimensione pedagogica, ci serviremo di un concetto-chiave della riflessione gramsciana: quello di “spirito popolare creativo”. Tale espressione ha da un lato un connotato anti-idealistico, nella misura in cui ascrive al popolo una capacità creativa, anziché riservarla ai soli spiriti elettivi; dall’altro ha un connotato anti-volgare, in quanto evita di chiudere il popolo in una forma di vita inerte e immutabile, poiché il termine “creativo” evoca qualcosa d’attivo e capace d’inventiva. Cosa s’intende con “popolare” in questa espressione? Ci si riferisce al popolo come stato subalterno rispetto a gruppi dominanti e non popolo inteso come nazione. Con “spirito popolare” si potrebbero quindi designare le manifestazioni culturali tipiche dello strato sociale subordinato: il senso comune popolare o il folklore, ossia i modi di sentire, di vedere le cose e di pensare propri dei subalterni. Quale senso acquista tale espressione con l’aggiunta del termine “creativo”? Gramsci usa questo termine come sinonimo di “attivo”, ossia di un aspetto che si manifesta tendenzialmente in tutti i momenti della vita sociale ed è il fondamento della sua storicità. Il fatto che lo spirito popolare sia creativo, o abbia in sé un momento di creatività, può significare che lo sviluppo storico del folklore presenta anche un momento attivo, ossia che non si compie in modo meramente passivo, subendo la pressione dell’ideologia dominante, ma reagisce a essa e tende a operare in senso auto-trasformativo. PARTE TERZA Problemi politico-pedagogici della scuola CAPITOLO 1 La realizzazione incompiuta della Scuola della Costituzione Per illuminare i cammini della politica scolastica e dello stesso fare scuola è necessaria un’idea di scuola chiara e coerente che nel nuovo millennio è stata assente. A questo proposito il nucleo fondamentale di una tale idea è ravvisabile nella nostra Costituzione. In questo capitolo analizzeremo in primo luogo l’idea di una Scuola della Costituzione, poi esamineremo la parabola storica della scuola italiana nei termini di una realizzazione incompiuta, e infine ci interrogheremo sulle possibilità di portare a compimento una scuola rispondente al disegno costituzionale. 1. L’idea di una scuola della Costituzione Per “idea di scuola” intendiamo una concezione elaborata in senso storico e filosofico dei compiti e del significato dell’istituzione scolastica in un certo periodo storico-sociale. Si tratta di un’ida interamente coerente e accompagnata da consapevolezza storica e coscienza critica (proprio come le idee di scuola di Dewey e Gramsci). Il riferimento per concepire un’idea di scuola per la nuova epoca è senza dubbio individuabile nella Costituzione del 1948. Nei principi e nei valori espressi dalla Carta costituzionale possiamo trovare il nucleo di una nuova idea di scuola: il lavoro, la democrazia, la giustizia sociale, la centralità dello sviluppo della persona umana. Per certi versi riecheggia il principio deweyano secondo cui soltanto la democrazia fornisce un contesto sociale che rende possibile la piena crescita umana dell’individuo; solo la dedizione all’educazione rende possibile il pieno sviluppo della persona umana. L’insegnante di una scuola della Costituzione ha quindi il compito di promuovere il pieno sviluppo della persona umana concepita non in modo astratto, ma in termini storici e sociale, quindi nel senso della formazione del produttore e del cittadino, e più in generale di individui capaci di autonomia di crescita, intellettuale e politica. 2. La parabola della scuola italiana Nell’immediato dopoguerra, l’Italia era una realtà prevalentemente rurale, segnata da una diffusa povertà, i costumi affondavano le radici nella tradizione cattolica e vi erano basso livelli di scolarità e persistenti tassi d’analfabetismo. Oggi, invece, nel Paese predomina il settore terziario, i costumi si sono secolarizzati e hanno virato verso un diffuso edonismo, i livelli di scolarità sono aumentati e l’analfabetismo è pressoché scomparso. Tuttavia, ciò è avvenuto in un quadro di marcato ritardo della classe politica rispetto alle dinamiche della società civile. Così lo sviluppo economico sociale non è stato governato e si è verificato in modo tanto  Art. 1 il lavoro e la democrazia come fondamenti della Repubblica italiana;  Art. 2 la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo;  Art.3 il compito dello Stato circa la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla vita sociale e politica;  Art. 9 la promozione della cultura e della ricerca;  Art. 33 la libertà dell’arte, della scienza e dell’insegnamento. impetuoso quanto disordinato. Il Paese ha conosciuto una radicale modernizzazione sociale senza lo sviluppo di una modernità culturale, senza una vera emancipazione etico-civile. In questo quadro è cresciuto lo scarto tra la democrazia ideale implicata dalla Costituzione e le dinamiche della democrazia reale. La vicenda della scuola ha un ruolo fondamentale in questo quadro. La partecipazione politica prevede almeno due condizioni: un’informazione libera e pluralista; e cittadini dotati di adeguate competenze culturali. Entrambe risultano realizzate in forme inadeguate. La scuola non è stata messa nelle condizioni di adempiere all’articolo 3 della Carta costituzionale e l’attuazione della Costituzione per quanto attiene all’eguaglianza sostanziale dei cittadini, dunque, è stata solo parziale, e la realizzazione di una scuola della Costituzione è ancora incompiuta. Per quanto riguarda la periodizzazione storica, la pluralità di tempi storici rende impossibile far coincidere in modo puntuale gli snodi del cambiamento scolastico con quelle delle trasformazioni sociali e politica; pertanto, adotteremo a titolo di mera ipotesi di lavoro una periodizzazione di tre grandi fasi: La fase della scuola bloccata (dalla formazione della Repubblica alla fine degli anni Cinquanta): fase a netto predominio della Democrazia cristiana che influisce anche sulla scuola, dove gli insegnanti sono socialmente imbevuti dell’antropologia cattolica e serbano i tradizionali aiti mentali cattolico-moderati. Permane l’ordinamento duale finalizzato alla riproduzione della stratificazione sociale esistente e alla conservazione dell’egemonia dei gruppi sociali dominanti: un canale per le classi dirigenti e uno per le classi subalterne. Per altro fino alla metà degli anni Cinquanta le forze progressiste, assorbite dai gravi problemi della ricostruzione e dalla difesa degli spazi democratici, non individuano nella scuola una priorità. Per questo motivo prevale l’immagine di una scuola bloccata, che non si muove ancora secondo gli ideali di emancipazione cultura e sociale inscritti nella Costituzione; La fase del riformismo scolastico e contraddittorio (dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Novanta): si produce una duplice svolta nella storia repubblicana. Da un lato, il Paese conosce un impetuoso sviluppo economico-industriale; dall’altro, risulta evidente che il blocco politico moderato degli anni del centrismo non ha il consenso sociale necessario per governare questa nuova fase. Nasce così il Centro-sinistra, con l’ingresso del Partito socialista nel governo. Si apre una fase riformista. Dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta il miracolo economico innesca rapidi mutamenti sociali, erano necessari titoli di studi elevati per sostenere lo sviluppo economico, ne segue un ripensamento della funzione della scuola. Nonostante le difficoltà, le battaglie per la riforma scolastica producono importanti risultati: la scuola media unica del 1962; l’istituzione della scuola materna statale del 1968; il tempo pieno del 1971; la gestione sociale della scuola dei Decreti delegati del 1974; e infine la Legge 517/77 sulla programmazione e valutazione e l’integrazione degli alunni diversamente abili. Fondamentale sarà la contestazione dei Sessantotto come matrice di ulteriori cambiamenti. Dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta il riformismo scolastico entra nella fase discendente caratterizzata da un cambiamento della sua forma e dall’acuirsi delle sue contraddizioni. Per la modernizzazione si sceglie la strada dell’ammodernamento dei Programmi scolastici. Tuttavia, permangono i forti limite del sistema scolastico come, ad esempio, l’assenza dell’obbligo e la presenza di un unico maestro nella scuola elementare. A quest’ultima contraddizione si pone rimedio nel 1990 con i nuovi Ordinamenti per la scuola elementare che istituiscono il “modulo organizzativo”, basato sulla pluralità di docenti e la diversificazione delle loro competenze culturali. Agli inizi degli anni Novanta, però, il sistema politico è ormai affetto da una degenerazione partitocratica e da una vasta corruzione, il potere pentapartitico viene travolto da un’ondata di scandali e dalle inchieste giudiziarie. Così’, la Prima Repubblica termina senza aver espresso un riformismo scolastico coerente, capace di ridisegnare organicamente il sistema scolastico in armonia con l’idea di una Scuola della Costituzione; La fase della scuola neoliberista (dalla seconda metà degli anni Novanta ad oggi): i presupposti di un’egemonia politico-culturale dell’ideologia neo-liberista avanzano. L’ontologia sociale neo-liberista riduce tutte le realtà sociali al concetto d’impresa, siano esse nazioni, istituzioni o persone, eleggendo la concorrenza a motore primo dell’efficienza del sistema, e quindi a principio di ogni sfera sociale. E in un’economia basata sulla conoscenza, il principale fattore di competitività dei sistemi-impresa è individuato nel “capitale umano”, nello stock di conoscenze e competenze incorporato dai soggetti produttori durante i percorsi d’istruzione. Nella concezione neo-liberista, la scuola si pone come una fabbrica di capitale umano, come una palestra di competizione. La scuola neoliberista non mira all’educazione di cittadini democratici, ma alla formazione di produttori efficienti e competitivi. Nel nostro Paese, la fase della scuola neoliberista ha iniziato a muovere i primi passi con gli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un inedito bipolarismo e dall’alternanza dei governi. Fin dal programma elettorale di Silvio Berlusconi, le famose “tre I” (impresa, inglese, internet) annunciavano un disegno di modernizzazione della scuola secondo i dettami dell’aziendalismo neo-liberista, fino alla cosiddetta Riforma Berlinguer, che può essere vista come l’unico tentativo di una riforma complessiva del sistema scolastico compiuta nell’età repubblicana (Legge 30/2000). Tuttavia, essa non è esente da limiti e compromessi che mostrano significativi arretramenti rispetto ai disegni iniziali. In una prima fase, quella dei ministri Moratti e Gelmini, la ristrutturazione neoliberista è intrecciata con una prospettiva di controriforma. Da una parte l’ispirazione neo-liberista del Ministro Moratti si esprime nella Legge 53/2003 o Riforma Moratti, e nei suoi Piani di studio personalizzati. Dall’altra parte, questi aspetti si intrecciano con un’ideologia tradizionalista che celebra il primato della famiglia sulla scuola, e si richiama al merito e alla serietà come valori compromessi dalle politiche di sinistra. Col Ministro Gelmini, questa tendenza contro-riformista diviene particolarmente marcata: dal ritorno dei voti numerici, al cinque in condotto, al grembiulino, fino alla riesumazione del maestro unico nella scuola elementare. Ma questa fase di liberalismo mascherato da ritorno alla “sana” tradizione di esaurisce con la fine dei governi di Centro-dentro nel 2011. Da qui in poi la ristrutturazione neoliberista si presenta forte della raggiunta egemonia politico-culturale, consolidata dalla grande crisi economica esplosa nel frattempo. La Buona Scuola del Governi Renzi rappresenta il compiuto allineamento della concezione della scuola alle posizioni neoliberiste. La scuola è vista in un’ottica prettamente funzionalista, come subordinata al sistema economico-aziendale: deve servire alle imprese e farsi impresa essa stessa. Tende a svanire la preoccupazione per la formazione di cittadini democratici e capaci di pensare autonomamente in modo critico. Ciò che conta è formare buoni produttori. 3. Il compito di una Scuola della Costituzione È ancora possibile l’idea di una Suola della Costituzione? La sua realizzazione non è fallita, bensì incompiuta. Si tratta di un compito etico-politico che è tutt’ora di fronte a noi, così come CAPITOLO 3 Scuola, cittadinanza e nuovi media Oggi viviamo in quella che è stata definita la società della conoscenza. Il sapere diviene fondamentale ed è soggetto a un rapido invecchiamento che rende necessario per l’individuo una continua riorganizzazione del proprio sapere. In questo quadro giocano un ruolo fondamentale le tecnologie della comunicazione e i media che hanno già prodotto un cambiamento nel curriculo scolastico. In questo capitolo analizzeremo la strada di una pedagogia critica e problematica nei confronti dei media, consapevole degli aspetti sottolineati dai cosiddetti apocalittici, per cui il nuovo Grande Educatore è in realtà una maschera del Grande Fratello orwelliano capace di produrre un’omologazione totale delle menti; e dai cosiddetti integrati, per cui questo nuovo sistema dei media rappresenta una grande opportunità di sviluppo delle capacità umane. 1. I media e la pedagogia del curricolo Nell’istruzione scolastica, l’apprendimento tende a non essere diretto (semplice interazione dell’organismo con l’ambiente), ma mediato da artefatti culturali: i media. Il medium centrale dell’istruzione è stato identificato nel linguaggio verbale, e nella forma scritta del libro. La parola dell’insegnante e il libro sul quale lo studente studia sono stati utilizzati da sempre come mezzi fondamentali dell’istruzione scolastica. La centralità del libro come medium, tuttavia, non è naturale, ma è un evento storico-culturale e perciò è in continuo divenire. Al giorno d’oggi stiamo infatti assistendo ad una trasformazione rivoluzionaria, ossia al passaggio dalla forma-libro alla forma-schermo, specifica dei personal-media. In questa situazione si sarebbe prodotta un’autentica mutazione antropologica dei destinatari del servizio scolastico, i nativi digitali, caratterizzati da forme di funzionamento cognitivo inedite, tali da richiedere una ristrutturazione delle mediazioni dell’istruzione scolastica, che altrimenti potrebbero rivelarsi inefficaci. I media devono essere intesi come ambienti formativi e non come semplici mezzi dell’istruzione. Dobbiamo quindi prima fare una differenza tra l’apprendimento attraverso il medium, dove viene visto come mezzo che veicola contenuti culturali da apprendere; e l’apprendimento del medium, dove il medium stesso diviene oggetto d’apprendimento. La competenza in un medium condiziona l’efficienza e l’efficacia del processo di apprendimento attraverso quello specifico medium. Con l’apprendimento di primo livello si acquisiscono conoscenze e avviene necessariamente entro un certo medium che ne costituisce l’ambiente formativo, parallelamente si struttura un apprendimento di secondo livello, con la formazione di abiti mentali inerenti a tale medium che determinano la competenza nell’uso dello stesso. Pertanto, l’adozione di un certo sistema di media dell’istruzione, a lungo andare, tenderà a produrre certe forme di mentalità negli studenti. Tre livelli dell’apprendimento di Bateson: apprendimento 1 – modificazione del comportamento e della struttura cognitiva del soggetto (apprendimento comunemente inteso); apprendimento 2 – cambiamento dell’apprendimento 1 che ne modifica il successivo decorso rendendolo più rapido (imparare ad apprendere, acquisizione di abiti mentali); apprendimento 3 – modificazione dell’apprendimento 2 che diventa più rapido e maggiormente flessibile (formazione di abitudini ed eventuali modifiche). Perciò è importante analizzare in modo critico lo sviluppo e la rivoluzione del sistema formativo nell’utilizzo dei nuovi media. La forma mentis dei nativi digitali è quella della forma-schermo, tuttavia, dobbiamo considerare tale forma mentis come il punto di partenza e non il punto d’arrivo. Non bisogna, cioè, considerare unicamente i nuovi media come ambiente formativo per i nativi digitali. Lo scopo della formazione scolastica deve esse sempre quello della trasformazione degli abiti e delle mentalità socialmente indotto, garantendo una maggiore versatilità cognitiva e una più ampia apertura intellettuale. Possiamo considerare la forma mentis-schermo come il dato iniziale da cui muovere verso l’obiettivo di una mentalità flessibile e poliedrica, in cui sia integrata anche la forma mentis-libro. Anzi, quest’ultima dovrebbe mantenere una sua centralità nella formazione scolastica, in quanto tutti gli studenti devono essere formati come potenziali dirigenti e senza le strategie del pensiero logico-verbale tipiche della forma-libro non si acquisiscono gli abiti mentali da dirigente, e si resta perciò in una condizione di subalternità. Consideriamo l’allargamento della formazione scolastica ai nuovi media una necessità storica, tuttavia, questo non deve portare alla pericolosa tentazione di sostituire la centralità del libro con quella dei media elettronici. Si tratta, invece, di concepire un sistema integrato, una rete tra i vari media di cui il libro rimanga però il centro d’annodamento. 2. Una pedagogia sociale dei media I nuovi media, intesi come strumento di comunicazione ed educazione a livello sociale, possono anche avere un’influenza sulla formazione del senso comune, che a sua volta condiziona gli orientamenti esistenziali, sociali e politici degli individui. Al giorno d’oggi la cultura di massa diffusa dai mezzi di comunicazione sociale è un efficace dispositivo di formazione del senso comune, e secondo le teorie critiche questo processo agisce nel senso di promuovere il conformismo da parte della classe dominante e ottundere la capacità di riflessione critica. La formazione del senso comune, in questo modo, diventerebbe un congegno di controllo sociale e di consolidamento dell’egemonia dei gruppi sociali dominanti. Questi studi, però, rischiano di dipingere la situazione come una gabbia senza via d’uscita, trascurando alcuni elementi che portano a delineare un quadro diverso, entro il quale assume senso e prospettiva una pedagogia sociale dei media, la quale diviene possibile grazie al carattere pluralistico e conflittuale del sistema dei media, dove i messaggi che possono circolare veicolano idee differenti e spesso in contrasto; e grazie al ruolo attimo esercitato dall’utente, il quale non rimane in uno stato ipnotico, passivo, ma si comporta come un destinatario attivo: seleziona media e trasmissioni e li usa in funzione dei propri bisogni e interessi. Il carattere pluralistico e conflittuale del sistema dei media e il ruolo attivo dell’utente nella decodifica dei messaggi e nell’attribuzione di significati aprono lo spazio di una possibile emancipazione dal potere egemonico e manipolativo dei media. Tuttavia, questa rimane una mera possibilità destinata a restare latente se non interviene una mediazione pedagogica a catalizzare il processo d’emancipazione. I frutti di una mediazione pedagogico sistematica sarebbero apprezzabili soprattutto nel lungo periodo, nei termini di una riforma del senso comune in direzione critica e riflessiva. Se affiancato da una vasta e sistematica campagna di mediazione pedagogica, il sistema dei mass media, invece di una Grande fratello, potrebbe allora diventare uno spazio per la formazione di abiti mentali critici nei cittadini. CAPITOLO 4 La scuola neoliberista e la formazione di competenze 1. L’ipotesi di curricoli centrati sulle competenze Una delle questioni fondamentali del dibattito sulla scuola è muoversi verso un curriculo basato sulle competenze per superare la tendenza a ridurre l’apprendimento scolastico alla mera ripetizione di nozioni, senza saper usare le conoscenze. Tale curriculo metterebbe al centro la capacità di usare effettivamente le conoscenze apprese, e non solo all’interno dei contesti scolastici ma anche nei contesti sociali extrascolastici. L’apprendimento diventerebbe attivo e trasferibile alla vita. Tuttavia, questa ipotesi non è priva di rischi. Il punto è che il costrutto della competenza si è affermato inizialmente nell’ambito della formazione professionale, e si presenta perciò con un alone di tipo produttivistico, evocando una subalternità della scuola al mondo delle imprese. Occorre pertanto una critica dell’uso economicistico del concetto di competenza, che restituisca legittimazione pedagogica alle conoscenze e al pensiero critico, difendendo la formazione culturale generale e disinteressata. 2. Le cornici culturali delle competenze Il significato formativo delle competenze dipende dalla cornice culturale entra cui esse vengono collocate. Distinguiamo due cornici o paradigmi: o La cornice neoliberista: centrata sul capitale umano, ossia lo stock di conoscenze e competenze incorporato dall’individuo e utilizzabile nel processo di produzione. Pertanto, la svolta verso curricoli basati sulle competenze risponde all’esigenza di fare della scuola una fabbrica di capitale umano capace di sostenere il sistema produttivo. La scuola viene vista come del tutto subalterna al sistema delle imprese economiche, e la formazione scolastica subisce una mutilazione che la rende unilaterale, riducendola alla formazione del produttore. Viene cioè trascurato il compito di formare cittadini democratici e soggetti critici, capaci di pensare con la propria testa. L’uomo, da fine dell’educazione, diventa mezzo per lo sviluppo economico; o La cornice democratica: basata sullo sviluppo umano. L’uomo non può essere ridotto a un mezzo per lo sviluppo economico, è l’economia che va vista come un mezzo per promuovere lo sviluppo umano. Ciò che conta è tutelare e promuovere le libertà sostanziali dell’individuo, le sue effettive possibilità di scegliere e realizzare i propri progetti di vita (concetto di capability – Sen e Nussbaum). Se si interpretano le competenze non solo e non tanto per la loro utilizzabilità nella produzione economica, ossia come capitale umano, bensì come condizione per avvalersi delle opportunità di vita, e quindi come condizioni per l’espansione delle libertà sostanziali dell’individuo, il loro significato formativo cambia completamente. Non sono le competenze da produttore a venire in primo piano, ma le competenze da cittadino democratico impegnato nel campo dei diritti e delle libertà. A questo proposito la formazione delle competenze nella prospettiva della cittadinanza si riverbera indirettamente anche sulle capacità produttive dell’individuo. 3. Il profilo formativo della competenza Per quanto riguarda la definizione dei “competenza”, nella letteratura non vi è una definizione standard comunemente accettata, ma per sfuggire alla tendenza produttivistica di ridurre la
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved