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Riassunto:La storia antica. Metodi e fonti per lo studio di G. Poma, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto dei seguenti capitoli de La storia antica. Metodi e fonti per lo studio di G. Poma: 1-2-3-4-6-8-10-11-12

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 29/08/2023

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Scarica Riassunto:La storia antica. Metodi e fonti per lo studio di G. Poma e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Capitolo 1 Riflessioni sulla storia antica l. Che cosa è la storia Parliamo di storia (storia antica), secondo quella tradizionale ripartizione cronologica (antica, medievale, moderna e contemporanea) che svolge la funzione di dare un orientamento su larga scala nella scansione del passato, ma che rivela i suoi limiti quando ci si avvicina di più ai contenuti e, ad esempio, si affronta un tema quale la continuità o la discontinuità dei processi storici e culturali. In genere si inizia con dei quesiti: che cosa è la storia? Come si scrive la storia? Perché si studia la storia? Qual è il compito della storia?. Da secoli, sono stati molti i modi di intendere e di scrivere la storia, molte e diverse le maniere di studiarla, continuo è il confronto su metodi e contenuti, e non è neppure mancato chi decretò che non c'era più bisogno di storia: un economista, giapponese-statunitense, Francis Fukujama, sostenne che ormai non restava altro, visto il trionfo del liberismo e della globalizzazione, che governare l'esistente. Profezia smentita dai fatti. Tutto ci riconduce alla storia; e non solo perché innovazioni, dall'informatica alla genetica, dalla biotecnica alla telematica, ci offrono nuovi strumenti di lavoro e aprono nuovi orizzonti di ricerca nel territorio dello storico, ma anche perché in questi momenti si impone una riflessione sul passato, che orienti il presente e il futuro. Attraverso la storia una società ripensa se stessa e guarda avanti. Ora il problema che si pone è quello di un allargamento degli orizzonti della storia, perché si sta affacciando nel nostro ambito politico e culturale antico-occidentale, che ha considerato per secoli l'Europa e la sua cultura il centro del mondo, una pluralità di altre storie. Che cosa è la storia? La storia, risponde Aristotele (che viveva là dove la storia era nata, in Grecia), è un inutile soffermarsi sul particolare, e il particolare sarebbero (in questo caso) le azioni compiute da Alcibiade, uno dei protagonisti della vita politica ateniese nel V secolo a.C. Ciò che vale è mirare all'universale, che solo la poesia può attingere: essa è più filosofica e più elevata della storia, che non stabilisce verità ma ci dice solo “le azioni che compì Alcibiade e i casi che gli capitarono”. Ha chiarito lo storico Moses Finley, che il filosofo greco per poesia intendeva l'epica, la tragedia, la lirica che rievocavano “i grandi personaggi e i grandi eventi del passato”. La poesia epica o tragica, esaltando le vicende degli eroi mitologici, rendeva il passato “una comprensibile fonte di regole di vita e di moralità”. Tra questi due modi di rievocare il passato, il racconto storico e la poesia, fino al tramonto del V secolo a.C. vinse il mito, ma il mito non è storia perché gli eroi non agiscono in nessuna dimensione temporale. L'Atene in cui andavano in scena le tragedie era la stessa in cui Erodoto inventava la parola storia: historia, che ha nella sua etimologia (indago, ricerco) il senso profondo dell'indagine, della ricerca. La storia è fin dal suo nascere, ricerca. Erodoto ricercò le ragioni della guerra tra Greci e Persiani di cui aveva sentito parlare durante la sua infanzia; si fece una serie di domande (a quando risaliva l'inimicizia tra Greci e popoli dell'Asia, quali erano i modi di vita dei Persiani, quale l'o rigine della loro potenza, quali le tappe della loro espansione territoriale e così via) e cercò di dare una serie di risposte, approdando a una narrazione continua, le sue Storie. La storia è ricerca che si traduce in narrazione. Gli storici moderni si sono chiesti: su quali basi Erodoto procedette nella sua indagine sul passato, quali erano i materiali a sua disposizione, quale la loro validità? Ma non era questa la preoccupazione di Erodoto, a egli bastava l'esperienza diretta, visiva (l'autopsia) delle cose di cui narrava e la fiducia nella “veridicità” della tradizione mitica. Questa preoccupazione è un problema dell'età moderna, che ha visto una contrastata riflessione sui fondamenti della ricerca storica, giungendo infine a fissare un principio inderogabile: non si fa storia senza documenti. 2. Nel laboratorio dello storico Nel laboratorio dello storico i documenti dominano sovrani. Se la storia è una scienza (ma su questo ancora si discute), è una scienza molto particolare che ha come strumenti le fonti. Che cosa si intende per fonti? Abbiamo 2 risposte: - una classica, su cui a lungo si è concordato: come fonte per la storia del mondo antico deve valere in senso lato tutto ciò che si è conservato dall'antichità: i testi scritti di carattere documentario e letterario, i monumenti, gli oggetti della produzione artistica, della cultura intellettuale e materiale, tutto ciò che faceva parte della vita dell'uomo antico. - Una esemplificava: es. le piramidi dell'Antico Regno egiziano, i monumenti dell'Atene di Pericle, l'Ara Pacis di Augusto, i libri dell'Antico Testamento VI è una distinzione inoltre tra: Capitolo 1 Riflessioni sulla storia antica l. Che cosa è la storia Parliamo di storia (storia antica), secondo quella tradizionale ripartizione cronologica (antica, medievale, moderna e contemporanea) che svolge la funzione di dare un orientamento su larga scala nella scansione del passato, ma che rivela i suoi limiti quando ci si avvicina di più ai contenuti e, ad esempio, si affronta un tema quale la continuità o la discontinuità dei processi storici e culturali. In genere si inizia con dei quesiti: che cosa è la storia? Come si scrive la storia? Perché si studia la storia? Qual è il compito della storia?. Da secoli, sono stati molti i modi di intendere e di scrivere la storia, molte e diverse le maniere di studiarla, continuo è il confronto su metodi e contenuti, e non è neppure mancato chi decretò che non c'era più bisogno di storia: un economista, giapponese-statunitense, Francis Fukujama, sostenne che ormai non restava altro, visto il trionfo del liberismo e della globalizzazione, che governare l'esistente. Profezia smentita dai fatti. Tutto ci riconduce alla storia; e non solo perché innovazioni, dall'informatica alla genetica, dalla biotecnica alla telematica, ci offrono nuovi strumenti di lavoro e aprono nuovi orizzonti di ricerca nel territorio dello storico, ma anche perché in questi momenti si impone una riflessione sul passato, che orienti il presente e il futuro. Attraverso la storia una società ripensa se stessa e guarda avanti. Ora il problema che si pone è quello di un allargamento degli orizzonti della storia, perché si sta affacciando nel nostro ambito politico e culturale antico-occidentale, che ha considerato per secoli l'Europa e la sua cultura il centro del mondo, una pluralità di altre storie. Che cosa è la storia? La storia, risponde Aristotele (che viveva là dove la storia era nata, in Grecia), è un inutile soffermarsi sul particolare, e il particolare sarebbero (in questo caso) le azioni compiute da Alcibiade, uno dei protagonisti della vita politica ateniese nel V secolo a.C. Ciò che vale è mirare all'universale, che solo la poesia può attingere: essa è più filosofica e più elevata della storia, che non stabilisce verità ma ci dice solo “le azioni che compì Alcibiade e i casi che gli capitarono”. Ha chiarito lo storico Moses Finley, che il filosofo greco per poesia intendeva l'epica, la tragedia, la lirica che rievocavano “i grandi personaggi e i grandi eventi del passato”. La poesia epica o tragica, esaltando le vicende degli eroi mitologici, rendeva il passato “una comprensibile fonte di regole di vita e di moralità”. Tra questi due modi di rievocare il passato, il racconto storico e la poesia, fino al tramonto del V secolo a.C. vinse il mito, ma il mito non è storia perché gli eroi non agiscono in nessuna dimensione temporale. L'Atene in cui andavano in scena le tragedie era la stessa in cui Erodoto inventava la parola storia: historia, che ha nella sua etimologia (indago, ricerco) il senso profondo dell'indagine, della ricerca. La storia è fin dal suo nascere, ricerca. Erodoto ricercò le ragioni della guerra tra Greci e Persiani di cui aveva sentito parlare durante la sua infanzia; si fece una serie di domande (a quando risaliva l'inimicizia tra Greci e popoli dell'Asia, quali erano i modi di vita dei Persiani, quale l'o rigine della loro potenza, quali le tappe della loro espansione territoriale e così via) e cercò di dare una serie di risposte, approdando a una narrazione continua, le sue Storie. La storia è ricerca che si traduce in narrazione. Gli storici moderni si sono chiesti: su quali basi Erodoto procedette nella sua indagine sul passato, quali erano i materiali a sua disposizione, quale la loro validità? Ma non era questa la preoccupazione di Erodoto, a egli bastava l'esperienza diretta, visiva (l'autopsia) delle cose di cui narrava e la fiducia nella “veridicità” della tradizione mitica. Questa preoccupazione è un problema dell'età moderna, che ha visto una contrastata riflessione sui fondamenti della ricerca storica, giungendo infine a fissare un principio inderogabile: non si fa storia senza documenti. 2. Nel laboratorio dello storico Nel laboratorio dello storico i documenti dominano sovrani. Se la storia è una scienza (ma su questo ancora si discute), è una scienza molto particolare che ha come strumenti le fonti. Che cosa si intende per fonti? Abbiamo 2 risposte: - una classica, su cui a lungo si è concordato: come fonte per la storia del mondo antico deve valere in senso lato tutto ciò che si è conservato dall'antichità: i testi scritti di carattere documentario e letterario, i monumenti, gli oggetti della produzione artistica, della cultura intellettuale e materiale, tutto ciò che faceva parte della vita dell'uomo antico. - Una esemplificava: es. le piramidi dell'Antico Regno egiziano, i monumenti dell'Atene di Pericle, l'Ara Pacis di Augusto, i libri dell'Antico Testamento VI è una distinzione inoltre tra: - fonti primarie: che si ritrovavano fino a qualche tempo fa in tutti i manuali di metodologia storica; epigrafi, resti archeologici e monumentali, monete ecc. che ci giungono direttamente dal passato. - fonti secondarie: es. testi letterari, ritenute più lontane dalla “realtà” del mondo che documentano. Alla nozione di fonte inoltre si collegava, conformemente al significato della parola («le fonti sono così denominate perché da esse scaturiscono le informazioni che abbiamo sul mondo antico»), il senso di originario, di autentico: “le fonti documentarie sono i testimoni autentici e incontaminati del passato». Su queste affermazioni si è abbattuta qualche scure man mano che è avanzato un rinnovamento sul piano metodologico e si sono prospettati nuovi orizzonti di ricerca. Già un'ondata di innovazioni si era avuta fin dai primi decenni del Novecento, legata all'attività del gruppo di storici che faceva capo alla rivista le Annales d'histoire économique et sociale (Francia 1929), che suggerivano nuovi oggetti di ricerca per gli studi storici. Si respingeva l'idea che la storia dovesse essere solo storia politica “evenemenziale” (quella che allora dominava, la storia di date, guerre e battaglie) e proponevano una storia “totale”, che si prendesse carico di indagare tutti gli aspetti dell'attività dell'uomo, chiedendo appoggi anche ad altre discipline, in particolare alla sociologia, ma anche all'economia e alla geografia. Nacque così non solo la teorizzazione di una storia globale, di lunga durata e delle strutture, attenta ai nessi tra gli aspetti economici, sociali, culturali, ma anche quella di una storia di periferie, di strutture locali, di mentalità, di culture e di pratiche cultuali. Parte essenziale di questi nuovi approcci fu l'emergere di un nuovo concetto di fonte: tutto può essere documento, non solo le fonti scritte “tradizionali”, privilegiate nell'Ottocento. La storia si fa con documenti scritti quando ci sono, ma se non ci sono documenti scritti, si può fare e si deve fare ugualmente con tutto ciò che l'ingegnosità può permettere allo storico di utilizzare per fabbricare il suo equipaggiamento, in mancanza dei materiali usuali (con tutto quello che, essendo dell'uomo, dipende dall'uomo, serve all'uomo, esprime l'uomo, significa la presenza, l'attività, i gusti e i modi d'essere dell'uomo). Questo ampliamento del concetto di fonte, fu reso necessario dalle nuove domande che il ricercatore si doveva porre di fronte al passato, dalla nuova attenzione che doveva rivolgere a zone restate a lungo inesplorate o in ombra quali: la storia degli emarginati, delle donne, della sessualità e del corpo, della paura, dell'alimentazione, ecc. C'è da dire che queste conoscenze hanno ottenuto risultati più sostanziosi in riferimento ad altri periodi storici, dal Medioevo in avanti, rispetto all'antico, a causa delle peculiari caratteristiche delle fonti antiche, limitate come quantità, discontinue nel tempo, frammentate e frammentarie al punto da non permettere seriazioni. Manca alla storia antica quella ricca documentazione di archivi pubblici e privati che è a disposizione dall'età Medioevale in avanti. Non che gli archivi non ci fossero in Grecia e in Roma, ma il loro contenuto non è sopravvissuto ai millenni se non per qualche traccia indiretta. Dipende dalla disponibilità e dalle caratteristiche delle fonti ancora fruibili la possibilità di condurre una ricerca solidamente fondata. E qui si colloca il problema primo che condiziona lo studioso dell'antichità: i documenti sono pochi e la loro conservazione è frutto della casualità che li distribuisce in forma di tessere sparse, sia cronologicamente sia geograficamente, creando lacune immense. Per certe epoche è sparita quasi totalmente la tradizione letteraria. I documenti scritti sono fragili e le distruzioni in vari momenti delle grandi biblioteche di Atene, di Alessandria, di Antiochia, di Costantinopoli, di Roma, ecc. hanno creato il paradosso di non farci neppure immaginare quanto sia ampio l'iceberg sommerso dei testi perduti di cui intravvediamo solo l'affiorare di una punta. Per certi autori ci sono giunte solo minime parti; dei 40 libri delle Storie di Polibio ne possiamo leggere interi solo cinque; dei 142 di Livio solo 3 5 , il resto sono frammenti o estratti. E nonostante i ritrovamenti epigrafici e archeologici continuino a portare un costante alimento al lavoro di ricerca, la complessiva scarsità di “materie prime” impone allo storico dell'antico di utilizzare al massimo, in ogni suo risvolto, le sue fonti, ricercando ogni possibile informazione che se ne possa ricavare. La storia si fa coi documenti, e i documenti sono di varie tipologie, ma non parlano da soli, per ogni epoca e per ogni settore occorrono conoscenze specifiche che permettano di decifrarli e di comprenderne la genesi, la finalità, il contenuto. Se non si possiedono queste conoscenze, queste tecniche, le testimonianze del passato possono restare incomprensibili o indurre a errori. Ma poiché lo storico è tutt'altro che onnisciente, si avvale dei risultati di chi, specialista in un settore, ha saputo rendere utilizzabile un documento: - Il filologo: ha saputo dare un'edizione critica di un testo, spesso giunto a noi modificato dalle ricopiature in età successive, cercando di stabilirne la vicinanza a quanto scritto in origine dall'autore; - l'epigrafista: che operando su materiali quasi sempre in frammenti o con lacune, ha cercato di recuperare le parti del testo mancanti attraverso integrazioni congetturali; - l'archeologo: che esaminando resti monumentali, pitture, sculture, ceramiche, ha giudicato la qualità delle forme artistiche, analizzato i contesti di scavo, proposto ricostruzioni di strutture urbanistiche e architettoniche, indagato sulle committenze, i luoghi di produzione, i mercat; nell'interrogare i documenti, senza forzarli ad avvalorare le proprie ipotesi iniziali. Su questa base, si può procedere a un progressivo avvicinamento a una verità storica. 6. La funzione della storia La storia ha diversi significati: - la si può considerare nel senso generale di studio dell'evoluzione della società, - la si può concepire come un tipo particolare di sapere e di insegnamento, - la si può intendere come semplice svolgersi del Tempo. In ogni caso gli storici ne sono al centro, che con i loro meriti e i loro errori, hanno proposto quell'immagine continua e globale del passato che si è finito col chiamare storia. In un momento in cui il mondo cambia velocemente e violentemente, e non solo per l'irrompere di nuove tecnologie e l'affermarsi di una globalizzazione ancora difficile da decifrare nella sua consistenza e nei suoi effetti, ma so- prattutto per i biblici spostamenti di popoli e il risorgere degli integralismi religiosi, ci si può chiedere se lo studio della storia antica abbia ancora una sua necessità. Il mutamento in atto a ogni suo istante viene comunicato, analizzato, valutato in quotidiani dibattiti e i fatti stessi che sono oggetto dei commenti avvengono “in diretta” attraverso gli schermi televisivi sotto l'occhio di tutti. L'istantaneità del sistema internet è destinata a spazzar via la storia? Certa mente no. La storia continuerà a esercitare la sua ambivalente funzione: quella di prestare attenzione a ogni passata manifestazione dell'attività dell'uomo e quella, ambiziosa, di fornire attraverso l'esperienza del passato qualche indicazione utile a decifrare anche il presente. Si può dunque imparare dalla storia, e non avevano dubbi su ciò gli uomini di cultura a partire dall'Umanesimo in avanti (Machiavelli in testa) che consideravano l'antichità classica un “serbatoio inesauribile di esempi morali e di lezioni politiche”, ma già il Guicciardini molto più saggiamente denunciava l'errore di fondo di tale persuasione. In altre parole: agire sulla base di analogie storiche presuppone che si verifichino oggi le stesse condizioni del passato, il che è abbastanza improbabile perché il tempo scorre e fa mutare i contesti storici. Non che non sia legittimo studiare il passato con un occhio al presente, anche perché lo storico vive nel suo presente e gli diviene naturale ricercare nel passato le radici di alcune caratteristiche del mondo moderno o isolare un filone tematico e farlo risalire fino all'origine. È legittimo avere interesse per l'origine storica del mondo moderno perché ai secoli trascorsi ci lega un rapporto di comunanza: la società d'oggi nasce da quell'ampio patrimonio di azioni, opere, mentalità che è alle nostre spalle. Il passato, però, è altro da noi, è una terra lontana e in buona parte sconosciuta, in cui bisogna avventurarsi tenendo presente le diversità che separano l'oggi da tutte le epoche precedenti. Ricavare lezioni dalla storia (alla maniera suggerita da Cicerone: historia magistra vitae) può essere utile, ma se non è fatto nei modi dovuti può di ventare “un esercizio” superficiale e talvolta persino pericoloso, qualora le suggestioni che derivano da analogie tra il passato e il presente portino in primo piano somiglianze superficiali a scapito di differenze fondamentali. 7. Lo studente di storia antica 7.1. Il tempo Se si guarda attorno, lo studente di storia antica può facilmente avvertire non solo tutto ciò che si colloca nel passato, ma anche, in certi casi, quanto si colloca “nei tempi diversi del passato”, dall'antico al contemporaneo. Lo studente acquisisce così la prima importante consapevolezza dell'esistenza di una dimensione temporale, fondamentale in ogni di scorso storico. Poi, avanzando negli studi, si renderà conto della giustezza dell'intuizione di Le Goff, storico del Medioevo, quando ha messo in luce come nei ritmi della vita del passato non esista un tempo unico, ma una pluralità di ritmi diversi, a seconda del modo in cui in una determinata epoca il tempo era avvertito culturalmente. Anche per l'antico molti aspetti del vivere scorrono a ritmi variabili in relazione alla loro specifica natura e agli spazi in cui avvengono. 7.2. Lo spazio Ogni evento, ogni fenomeno deve essere collocato in uno spazio preciso, suo, per essere compreso nella giusta dimensione e nel rapporto con gli altri spazi. Lo spazio geografico è diverso dallo spazio storico: quello geografico è di per sé neutro, asettico. I rapporti tra uomini e spazi vanno fatti scaturire dall'indagine dello storico che sa ricostruire uno spazio “animato” di dati ambientali (clima, caratteri del territorio, produttività del suolo) e di dati culturali (l'insediamento umano in un territorio e il suo evolversi, i costumi di vita). È uno spazio storico quello che cogliamo nell'Iter siculum delle Satire di Lucilio in cui la descrizione dei luoghi toccati dal poeta nel suo viaggio del 120 a.C. da Roma a Pozzuoli è intessuta di riferimenti alla florida situazione economica di Pozzuoli o alle misere condizioni di vita delle popolazioni lucane. Poi lo spazio topografico: è importante saper collocare in uno spazio topografico, urbano o extraurbano, le tracce documentarie della presenza politica, religiosa, produttiva, quotidiana di una persona o di una comunità civica o tribale. Se si guarda all'organizzazione dello spazio in una polis greca, si può rilevare che la forma urbana ruota attorno alla duplice presenza dell'agorà, sede della vita politica, e del tempio o del santuario, sede della vita religiosa, a sancire il profondo nesso tra vita politica e vita cultuale che connota la città greca. Di qui la necessità che lo studio della storia avvenga tenendo a portata di mano un atlante storico. Lo studente di un corso di storia, giunge all'università con un bagaglio di conoscenze storiche non ricchissimo, in particolare riguardo la storia antica. Nell'affrontare il nuovo, deve abbandonare alcune vecchie abitudini e acquisirne altre. Deve cancellare la communis opinio che studiare storia equivalga a memorizzare nomi e date, per cui chi ha memoria è già in salvo. La memoria è utile, poiché il sapere storico non può fare a meno di un'ampia messe di nozioni, è utile senz'altro, ma non basta, come non bastano nomi e date, perché studiare storia è ragionare sulle azioni degli uomini, è cercare di comprendere il senso dello scorrere di eventi per secoli e millenni. Se tutto questo porta a una capacità di interpretazione propria dei fatti e a una maturazione critica, lo studio della storia ha raggiunto il suo obiettivo: fornire gli anticorpi utili a resistere ai fenomeni di massificazione e di mode imperanti nel mondo reale e virtuale. Il mestiere di studente, faticoso e anche noioso a volte, se ben fatto, porta però al mestiere di cittadino. Capitolo 2 La geografia storica dell’antichità La nostra conoscenza della geografia antica dipende dalla letteratura greca e romana, a cominciare dalla poesia dei poemi omerici e dai versi di Esiodo (e poi dalla prosa degli scienziati della scuola di Mileto, la città greca dell'Asia Minore (oggi Turchia), regione sottomessa ai re persiani dal 546 a.C. L'impero persiano aveva una vocazione universale, da qui la necessità di conoscere i territori da sottomettere, con le relative popolazioni, i loro usi e costumi, e il sostegno dato alla ricerca da parte dei sovrani. L'ultimo degli scienziati di Mileto fu Ecateo (VI sec. a.C.), predecessore di Erodoto (V sec. a.C.), che ne riprese le ricerche storiche e geografiche, pur contestandolo. Erodoto, originario di Alicarnasso, si sposta ad Atene, divenuta il principale centro culturale della Grecia, dopo la sconfitta dei Persiani all'inizio del V secolo a.C. nelle “guerre persiane”; a esse sono dedicate le Storie di Erodoto, il quale però consacra la prima metà della sua opera a descrivere i paesi e le popolazioni sottomessi ai Persiani o in qualche modo coinvolti nelle loro azioni. A partire da Erodoto gli scrittori di storia greca e romana sono la nostra fonte principale per la geografia antica: da Tucidide e Senofonte (V sec. a.C.) a Polibio (II sec. a.C.), da Eforo e Teopompo (IV sec. a.C.) a Diodoro Siculo (I sec. a.C.), agli «scrittori» di Alessandro Magno (III-I sec. a.C.), da Livio (I sec. d.C.) a Tacito (I-II sec. d.C.); nessuno di loro, descrivendo conquiste, guerre e popoli, poteva prescindere dalle conoscenze geografiche. Un genere letterario parallelo e propriamente geografico è quello dei “peripli”, descrizioni di viaggi lungo le coste del Mediterraneo; le opere potevano essere in versi o in prosa, di alcune abbiamo i testi, di altre solo testimonianze, ma complessivamente si può dire che questa tradizione ha una lunghissima durata, che va dal VI secolo a.C. al IV d.C. La scuola che Aristotele fonda ad Atene nel IV secolo a.C. sviluppa la ricerca in molte discipline, anche geografiche e naturalistiche, anticipando le ricerche che si svolgeranno ad Alessandria d'Egitto per molti secoli. Le ricerche di Eratostene e lpparco ci sono note dalla lettura di Strabone (64 a.C.-23 d.C.), il geografo di età augustea che dichiara l'interesse dell'imperatore romano per la conoscenza del mondo abitabile; però Strabone dice anche che Omero è il primo e più affidabile geografo, prendendo posizione in una discussione inutile, ma significativa per la continuità della ricerca geografica. Se la geografia antropica e descrittiva è confluita nella storiografia greco-romana, per ritrovare gli sviluppi della geografia tecnico-scientifica bisogna tornare agli specialisti di Alessandria d'Egitto. Qui nel II secolo d.C., la tradizione di studi iniziata da Eratostene e continuata da lpparco e Posidonio verrà ripresa, da Marino di Tiro, un geografo di origine fenicia, di poco più vecchio di Tolomeo. Tolomeo è il geografo antico più noto ai moderni per il successo che nel Rinascimento ebbero la riscoperta delle sue “carte” e il conseguente risveglio dei viaggi esplorativi del mondo, compreso quello di Cristoforo Colombo. 1 . La geografia omerica Le conoscenze geografiche dei Greci nei secoli VIII e VII a.C. ci sono note dalla letteratura che risale a quei tempi, cioè i poemi omerici e le opere di Esiodo. Omero ci informa sulla geografia empirica dei Greci, che è quella mediterranea; Esiodo fornisce consigli per la navigazione; ed entrambi hanno delle concezioni relative all'origine o alla forma complessiva della terra. In Omero troviamo, oltre alla geografia descrittiva, una cosmogonia e una forma complessiva della terra abitata. Nella Teogonia di Esiodo è descritta la nascita dell'universo, che è avvenuta per gradi, a partire dal nulla e dall'ombra, per passare alla luce e alla Terra. Quest'ultima, accoppiandosi con il Cielo e con il Mare, genera figli divini, quali i Titani, i Ciclopi, i Centobraccia, le Nereidi e altri mostri, che a loro volta saranno artefici delle successive evoluzioni del mondo, tramite i combattimenti fra di essi e la collaborazione di Zeus. Nei poemi omerici è ben testimoniato il buono e intenso uso che i Greci potevano fare del mare, basato su alcune indispensabili nozioni: dal saper costruire, allestire e condurre le navi, fino alla conoscenza di venti, correnti, maree, stagioni e distanze. La durata dei percorsi marittimi è indicata con le giornate di navigazione; noi ritroviamo questa unità di misura nei peripli più antichi. 2. La scuola di Mileto ed Erodoto L'espansione dell'impero persiano sta all'origine dell'indagine geografica rivolta ai paesi da conquistare e ai popoli da sottomettere. Come tutti i poteri centralizzati, quello della dinastia degli Achemenidi ha bisogno di conoscere nei dettagli i propri domini. Il momento decisivo per l'avvio di queste indagini fu la conquista del regno di Lidia da parte del re persiano Ciro il Grande, avvenuta nel 546 a.C. Con questa annessione i Persiani, provenienti dall'interno dell'Asia, si trovavano ad agire in regioni prospicienti il Mediterraneo (soprattutto nell’area che oggi corrispondente alla Turchia). Gli Achemenidi avevano un progetto di espansione su tutto il mondo abitato, che si realizzò in parte con la conquista dell'Egitto e con la spedizione nella Scizia. Lo studio dei popoli che abitano la terra, è parte integrante della più antica indagine geografica greca. Le esplorazioni sono solo un aspetto della scienza geografica alla quale si de dicavano i Greci d'Asia nel VI secolo a.C. In particolare nella città di Mileto, gli esponenti di una nota scuola filosofica si dedicarono anche allo studio del mondo abitato. 1. obiettivo della ricerca è la descrizione di tutte le regioni visitate da navigatori o esploratori; 2. il disegno della terra abitata, cioè della sua forma complessiva; 3. la distinzione dei tre antichi continenti, Europa, Asia e Africa, nei loro confini reciproci e nel rapporto con il mare. Sia le descrizioni geografiche verbali che i primi tentativi di rappresentazioni grafiche, a noi sono noti tramite fonti scritte. Agatemero, un geografo greco di età imperiale romana, tracciando una storia della sua scienza, ci informa che Anassimandro di Mileto fu il primo ad avere l'idea di disegnare l'ecumene su una tavoletta; e che dopo di lui, Ecateo fece lo stesso lavoro. Erodoto (V sec. a.C.) è però la nostra fonte principale per le notizie, biografiche e non, su Ecateo; la forma della terra rappresentata nei poemi omerici, un disco circondato dall'Oceano, è la stessa elaborata a Mileto, fino a Ecateo, e contestata da Erodoto. Democrito di Abdera (V sec. a.C.), fu il primo a comprendere che l'ecumene era di forma oblunga, anziché circolare. Questa nuova forma della terra avrà un'evoluzione attraverso gli antichi che abbracciarono questa teoria, ma la forma circolare sopravvive, accanto alle altre, nella rappresentazione mentale dell'ecumene. Intorno all'anno 500 a.C. da Mileto, arriva in Grecia una primizia della scienza geografica: Aristagora, che recandosi a Sparta dal re Cleomene portava con sé una tavola di bronzo, sulla quale era inciso tutto l'orbe terrestre e tutto il mare e tutti i fiumi. Aristagora, che veniva in Grecia con lo scopo di cercare aiuti per la rivolta degli Ioni contro i Persiani, usa la sua tavoletta per far “vedere” a Cleomene la posizione reciproca della Grecia e dell'Asia Minore. Questa periodos ghés, era la stessa elaborata nella scuola di Mileto sulla carta di Anassimandro e “perfezionata” da Ecateo in base all'esperienza personale di viaggio e alle relazioni dei viaggi di altri. Lo schema è quello canonico per un periplo del Mediterraneo, di cui si seguono le coste in senso orario, iniziando dalla Colonna d'Ercole europea e terminando con quella africana. E, sempre secondo le regole, le isole sono inserite come deviazioni temporanee dai tratti costieri, dai quali esse sono raggiungibili. I peripli del mar Nero sono fra i più frequenti e noti tra quelli che Marciano definiva parziali: questo mare era inteso come parte del mare Interno, che noi chiamiamo Mediterraneo, per motivi ideologici comprensibili. In età imperiale esso è definito un “lago romano”, ma la precedente integrazione con il mondo greco, esplicita in Erodoto e in Polibio, risale al mitico viaggio degli Argonauti, alla ricerca del Vello d'oro, che è conservato nel paese dei Colchi, all'estremità opposta rispetto all'ingresso nel mar Nero attraverso i Dardanelli. Per concludere occorre ricordare i peripli del mare Eritreo, di grande interesse per il collegamento con i paesi orientali; alcuni indicavano con questo nome tutto l'Oceano australe, altri il mare che va dal golfo Arabico (il nostro mar Rosso) all'India. 5. Ggli “scrittori” di Alessandro Magno E Pitea Un esito letterario particolare ebbero i viaggi di Alessandro Magno, che sono stati narrati da alcuni dei suoi stessi compagni di milizia e di viaggio, in particolare Callistene, Onesicrito, Nearco, Tolemeo di Lago, Aristobulo e altri, anche se le loro opere sono a noi note attraverso la letteratura romana imperiale, in particolare Curzio Rufo. Si tratta di personaggi diversi uno dall'altro per formazione culturale, i quali hanno tratto dalle esperienze comuni delle conclusioni opposte. Callistene, nipote e allievo di Aristotele, era l'unico ad essere uno scrittore di storia al momento della partenza, glorificava il viaggio di Alessandro collegandone le tappe con le memorie omeriche. Un atteggiamento intellettuale opposto fu quello di Onesicrito, gli scritti del quale si avvicinano a quelli di Ctesia per il loro carattere fantasioso, e trovano riflesso nella Vita di Alessandro scritta da Plutarco; è sua l'invenzione dell'incontro di Alessandro con la regina delle Amazzoni. Onesicrito, che è stato il comandante della flotta di Nearco nell'oceano Indiano, è definito da Strabone il comandante dei mentitori, per la sua di sinvoltura nel creare dati fantastici in situazioni e luoghi che pur l'avevano visto protagonista. I risultati più soddisfacenti della spedizione furono: - quelli dei “bematisti”, coloro che misuravano le distanze terrestri percorrendole di persona e che poi scrivevano delle opere intitolate Stathmoi (utilizzate da Plinio); - quelli delle navigazioni condotte da Nearco, lungo i fiumi dell'India e dalla foce dell'Indo a quella dell'Eufrate lungo la costa orientale dell'oceano Indiano, in concomitanza con i percorsi terrestri dell'esercito. Il racconto di Nearco, doveva iniziare dall'Idaspe, sulle rive del quale Alessandro completò la costruzione della flotta e ne affidò il comando a Nearco, per proseguire fino alla confluenza dell'Idaspe nell'Achesine e poi di quest'ultimo nell'Indo, con attente descrizioni dei pericoli corsi e precisazioni sulle distanze e sulla larghezza dei fiumi. Nearco è stato un attento schedatore sia delle caratteristiche naturali dell'India, che degli usi dei suoi abitanti. Ales- sandro gli aveva affidato il compito di osservare ed esplorare le coste sconosciute, fatto che sottintendeva la piena fiducia accordata all'amico. Nearco, ha adempiuto al compito affidatogli attenendosi al programma di partenza e facendo un giornale di viaggio dettagliato e veritiero, che si distingue nella tradizione successiva, e si distanzia dai racconti fantasiosi di Onesicrito. Nearco parlava con precisione degli incidenti avuti, delle risorse alimentari di ogni paese, delle osservazioni delle stelle, dei promontori e delle isole e delle distanze correlate ai tempi di percorrenza. Mentre i compagni di Alessandro riconquistavano la conoscenza della parte sud-orientale dell'Oceano, un altro navigatore greco ne ripercorreva il settore nord-occidentale. Su Pitea di Marsiglia non abbiamo notizie biografiche né riferimenti cronologici precisi, ma la sua esplorazione è databile nella seconda metà del II secolo a.C., per i riscontri che essa trova nella letteratura geografica antica. Il viaggio di Pitea aveva lo scopo di raggiungere per mare, attraverso le Colonne d'Ercole e l'Oceano nord- occidentale, i paesi produttori dello stagno e dell'ambra, oltre allo scopo geografico di trovare il confine settentrionale fra Europa e Asia. L’interesse dei Greci per il procacciamento e il commercio di quelle materie prime, ci assicura sulla pubblica sponsorizzazione della spedizione di Pitea, il quale, al suo ritorno, ha fatto un resoconto ufficiale del viaggio, fonte delle notizie che ci sono pervenute indirettamente. Polibio, che lo riteneva un mentitore, pensava di fondare la propria incredulità sul fatto che Pitea era un uomo “solo e povero” e perciò senza le risorse necessarie per coprire grandi distanze né per terra né per mare. Strabone, che citando Polibio si schiera con lui, testimonia una parte delle controversie sorte tra oppositori e sostenitori dei racconti di viaggio di Pitea. Lo stesso Strabone però, dovendo descrivere l'estremità della terra abitata di Tule, dopo la Britannia, ricorre ai racconti di Pitea. Lo scetticismo espresso da Strabone si basa sul concetto di abitabilità della terra, che esclude i paesi troppo freddi come quelli troppo caldi. I tentativi di identificare Tule con un toponimo a noi noto hanno riempito innumerevoli pagine, ma sono del tutto inutili. Nella letteratura antica il nome Tule indica l'estremità settentrionale dell'ecumene. 6. Da Alessandria a Roma Il regno dei Tolemei incoraggia la ricerca scientifica in molti settori, compreso quello geografico. L'attività scientifica di età ellenistica ha il suo centro principale ad Alessandria d'Egitto, che è anche il primo porto del mondo. Il Museo e la Biblioteca di questa città sono i principali poli di attrazione per le persone di cultura dell'epoca, dopo Atene e Rodi. Dell'opera geografica di Timostene di Rodi (III sec. a.C.), un trattato in dieci libri sui porti del Mediterraneo, rimangono poche citazioni. La novità del lavoro di Timostene consisteva nell'usare gli stadi nella misurazione dei percorsi marittimi, anziché le medie giornaliere di navigazione, che troviamo negli antichi peripli. Di quelli, però, si conservava la forma complessiva e il carattere unidimensionale. Timostene costruì una rosa dei venti a dodici punte, con al centro l'isola di Rodi, sulla quale egli poneva l'ombelico dell'ecumene. Il lavoro di Timostene di Rodi fu apprezzato da Eratostene di Cirene, suo successore nel campo della scienza geografica. Eratostene misurò la circonferenza del globo terrestre, ottenendo un risultato molto apprezzabile, perché diverso dal vero di pochi chilometri. Nel costruire lo schema della terra abitata, oggetto del suo scritto geografico, Eratostene la divise in due per mezzo di un «diaframma» che dalle Colonne d'Ercole, attraverso lo stretto di Messina e l'isola di Rodi, arrivava fino alla catena del Tauro. Le due parti dell'ecumene erano poi divise in settori quadrilateri, dai confini artificiali, che avevano lo scopo di facilitare la riproduzione cartografica della terra. Eratostene si volle occupre anche della “terra tutta intera”, scelta per la quale Strabone lo critica aspramente e ingiustamente, adducendo il motivo che egli avrebbe così confuso il discorso della sfericità del globo terrestre con quello sui fenomeni naturali (terremoti, eruzioni vulcaniche e simili) che riguardano solo l'ecumene. Le critiche rivolte alla geografia di Eratostene, Strabone le ha attinte all'opera di lpparco, un astronomo del II secolo a.C., che è stato ad Alessandria, ma ha svolto la maggior parte della sua attività a Rodi. In quest'isola egli si applicò alle osservazioni astronomiche, compiute con strumenti raffinati, da lui stesso inventati, e sulla base di quelle compilò un catalogo di 800 stelle. lpparco dava all'ecumene la forma di una tavola, cioè di un quadrilatero, mentre Eratostene, come s'è visto, suggeriva di dividere quel quadrilatero in quadrilateri di minore estensione. Ipparco preferisce tracciare dei triangoli, perché il triangolo consente un preciso posizionamento dei luoghi da segnare sulla carta (che era lo scopo di quella invenzione). La geografia descrittiva e umana del II secolo a.C. ha avuto il maggior incremento da parte di Polibio, il più grande storico greco del tempo, che dal 168 a.C. fu a Roma. Al momento del suo arrivo, nell'Urbe primeggiava la famiglia degli Scipioni, che esercitava una sorta di mecenatismo culturale; Polibio fu presto accolto nel loro “circolo” e fu da essi incoraggiato a compiere viaggi in Spagna, Gallia e Mrica. La conoscenza diretta di quei paesi gli consentirà di scrivere la Storia delle guerre puniche, che in essi si svolsero. Quello della visione diretta di paesi e cose, è per Polibio un metodo irrinunciabile. Fra i quaranta libri delle Storie di Polibio, il terzo e il trentaquattresimo sono i più ricchi dal punto di vista geografico; l'uno soprattutto per le digressioni metodologiche; l'altro per le grandi categorie geografiche. Polibio è attento alla descrizione dei confini terrestri e marini, alla conoscenza dei venti e degli orientamenti e le informazioni che egli fornisce di alcune città antiche sono preziosi esempi di geografia antropica. La suddivisione della terra in tre continenti è presentata da Polibio fra gli strumenti utili ai lettori, dopo i punti cardinali, per immaginare la posizione di luoghi ignoti. Egli conosce i confini tra i tre continenti, ma denuncia ignoranza per la parte meridionale di Asia e Africa e per quella settentrionale dell'Europa. L'accrescimento delle conoscenze geografiche dovuto alle conquiste romane è apprezzato anche da Artemidoro e da Posidonio, entrambi imitati e ampiamente utilizzati da Strabone. Artemidoro proveniva dall’Asia Minore, soggiornò a lungo a Roma, e con i suoi viaggi giunse fino a Cadice in Spagna, luogo dove i Greci e i Romani apprendevano novità sulla geografia. Artemidoro viene posto fra coloro i quali “che hanno unito geografia e periplo”; dopo un libro dedicato alla scoperta dei paesi occidentali, egli ha compilato una descrizione di tutti i paesi noti, seguendo l'itinerario di un periplo del Mediterraneo, ma con il proposito di superare tale genere letterario. La scienza di Posidonio è molteplice nei campi di applicazione, e deriva da un lato da Panezio e, dall'altro, da Polibio, del quale egli vuoi essere il continuatore, con una storia in cinquantadue libri, per noi perduta. L'erudizione è il tratto più caratteristico di Posidonio e del suo tempo, la sua ricerca riflette la formazione stoica, quando si rivolge alle modificazioni tettoniche della terra, o dà spazio all'astronomia, ponendo il globo terrestre al centro della rivoluzione solare e definendo le zone astronomiche, e infine utilizzando categorie matematiche e scientifiche nello scritto Sull'Oceano. 7. Da Cesare all’impero Dal 206 al 197 a.C. si è compiuto il piano di romanizzare l'ecumene; e Giulio Cesare, che è stato uno dei migliori esecutori di quel piano, fu anche un ricercatore. Il senato romano, nel 46 a.C., dedica a Cesare, che si rammaricava di non aver ancora eguagliato le conquiste di Alessandro Magno, un gruppo statuario che raffigurava la sua sottomissione dell'ecumene. Cesare preparava i suoi viaggi di conquista cercando di raccogliere notizie di prima mano; l'osservazione diretta svolta da Cesare nei paesi che sono stati teatro delle sue imprese militari, è accompagnata da riflessioni sulla conformazione geografica, sulle popolazioni residenti e sulle loro usanze. Cesare utilizza il contatto avuto con le popolazioni barbare del nord per distinguerle. Tale visione etnico-geografica veniva in soccorso alla politica di Cesare, che voleva tener separati Galli e Germani per la salvezza dell'Italia. Nella letteratura romana successiva, quella distinzione è stata recepita solo da Augusto; mentre Sallustio e Strabone li confondono ancora. Le conoscenze geografiche di Cesare dovevano comprendere anche nozioni di astronomia, tanto da permettergli di intraprendere, seppur con l'aiuto di filosofi e di matematici, la riforma del calendario, che rimase in vigore fino al 1582 in Occidente, sostituito dal calendario «gregoriano. L'astronomia, insieme alla matematica, e alla geografia scientifica, rimarrà a lungo campo esclusivo dei Greci; ma ci sono delle eccezioni, fra le quali va ricordato Vitruvio, un architetto romano poco più giovane di Cesare, il quale conobbe bene le latitudini, le zone climatiche e l'uso delle carte disegnate, dalle quali trasse un elenco dei grandi fiumi. Pochi anni più tardi, sarà esposta a Roma la carta di Agrippa, forse completata da Augusto dopo la morte del genero. Si trattava del disegno di tutto l'ecumene, e il suo inserimento in un portico fa pensare che fosse di forma rettangolare. Questo modo di rendere accessibile al pubblico il disegno della terra era antico, perché sappiamo che nel portico del Liceo di Atene erano esposti dei “circuiti della terra”. La riflessione geografica di Augusto era connessa con le sue conquiste, con la fondazione di nuove colonie, e, per l'Italia, con la nuova divisione in regioni. La tradizione imperiale sugli “itinerari” avrà una vita lunga, della quale ci rimangono poche testimonianze. La più nota è la Tabula di Peutinger, dal nome dello scopritore. Si tratta di una striscia lunga quasi sette metri e alta 34 centimetri, nella quale sono schiacciati, tutti i paesi noti, con le strade, le città e tanti altri particolari utili ai viaggiatori dell'impero romano. Il più importante geografo augusteo è il greco Strabone (64 a.C.-23 d.C.), originario del mar Nero, egli soggiornò a più riprese a Roma, e anche ad Alessandria d'Egitto. Il suo lavoro di storico, scritto a continuazione di Polibio, è andato perduto; per fortuna si è salvata la sua Geografia. L'opera, il cui titolo vuole significare “Descrizione del mondo abitato”, si di vide in 17 libri, due dei quali dedicati a un’introduzione a questa scienza, e gli altri 15 alla descrizione, dell'ecumene, fatta seguendo il circuito consueto nei peripli (dall'Iberia, attraverso l'Europa, fino al mar Nero, e poi, attraverso Asia Minore e Africa, per terminare alla Colonna d'Ercole africana). L'andamento del periplo ricompare anche nel tenere come punto di riferimento fisso le coste, sia per elencare le città che per posizionare le isole. L'ecumene di Strabone è di forma rettangolare, è interamente circondata dall'Oceano, ed è tutta nell'emisfero settentrionale. I limiti settentrionale e meridionale sono definiti in base al concetto di abitabilità più che all'esperienza reale. Strabone è talmente penetrato dalla convinzione che non si possa vivere dove fa troppo freddo o troppo caldo, da utilizzare anche quest'argomento per la sua propaganda imperiale. Augusto non ha mai attuato il programma di conquistare le isole britanniche, o altre dei mari del nord, e Strabone è pronto a giustificarlo affermando che quelli sono paesi al limite dell'abitabilità. Strabone sa immaginare e rettificare la cartografia, e ce ne dà una prova quando presenta la sistemazione dei klimata fatta da lpparco, o quando orienta la Sicilia rispetto ai punti cardinali, seguendo Posidonio. Strabone ha visitato pochi dei luoghi di cui tratta, quindi la qualità delle descrizioni dipende dalle fonti scelte, o disponibili, nelle quali egli cerca la storia e gli aneddoti. In un giudizio complessivo, gli interessi etnografici di Strabone appaiono sollecitati dalle curiosità per usi e costumi diversi da quelli diffusi nel mondo greco-romano, mentre la sua indagine in questo campo è rispettosa delle singole civiltà. mentre per quelli di regioni molto lontane, è Tolomeo stesso ad ammetterlo, occorreva avvalersi di fonti scritte. Il primo capitolo del suo scritto contiene le definizioni ragionate di “corografia” e “geografia”, e quindi la differenza fra gli oggetti di ricerca delle due scienze. Si tratta di concetti che in parte coincidono con i nostri: - la corografia: riguarda i piccoli spazi e richiede una tecnica, essa può essere praticata anche solo sulla base di conoscenze empiriche; - la geografia: riguarda i grandi, richiede una scienza e ha bisogno della matematica e dell'astronomia. Sull'esecuzione delle carte antiche si possono fare solo delle ipotesi; sappiamo da Tolomeo che le carte “corografiche” richiedevano una rappresentazione pittorica dei luoghi. Il metodo tolemaico per posizionare i luoghi nei grandi spazi consiste nel fissare le due coordinate astronomiche, e può essere utile per la trasposizione sulla carta; tale sistema verrà conservato da tutta la geografia antica, che non progredirà più, nella cultura europea, fino al XV secolo, quando i manoscritti di Tolomeo saranno portati da Bisanzio a Firenze. Tolomeo è criticato con grande difficoltà e con precauzione, ma viene sostituito perché il mondo è, nel frattempo, cresciuto nella conoscenza di naviganti e viaggiatori. Ecco allora tornare l'amore e l'uso della geografia descrittiva e umana, fino ad allora letta in Polibio, Strabone e Plinio, e da quel momento aggiornata nei racconti di viaggio di Marco Polo, e poi di Colombo, Vespucci, Magellano e tanti altri. Capitolo 3 L’archeologia 1. Per una definizione della materia 1.1. L'archeologia oggi L’archeologia è una disciplina storica che ricostruisce il passato dell'uomo attraverso lo studio delle tracce materiali delle sue attività in relazione all'ambiente circostante. L'espressione è volutamente generica, così da garantirne la sostanziale validità nonostante le molteplici connotazioni della materia; al tempo stesso ognuno dei termini utilizzati ha un proprio specifico significato. In primo luogo, parlando di “disciplina storica” si è inteso riaffermare la natura scientifica dell'archeologia e il suo carattere autonomo, che esclude quelle funzioni ausiliarie o subordinate alla storia che a volte in passato le sono state attribuite. La “ricostruzione” indicata come scopo della ricerca sottintende l'attuazione di un processo di studio e di interpretazione più sistematico e approfondito rispetto all’osservazione o descrizione, mentre la parola “passato”, nella sua indeterminatezza, consente di estendere il riferimento temporale della disciplina a qualsiasi momento dello sviluppo della civiltà umana. Gli interessi dell'archeologia possono spaziare senza limiti cronologici, assecondando l’impostazione diacronica che è essenziale per riconoscere i fenomeni evolutivi del divenire storico. Coerentemente con quelle che ne furono le manifestazioni manuali o intellettuali, pure il riferimento all'”uomo” si presta alle più varie attribuzioni di significato: dall'essere biologico al soggetto raziocinante, dall'artefice di attività individuali all'elemento fondante di una compagine sociale. Il rinvio alle “tracce materiali” non lascia dubbi circa la concretezza fisica dei documenti che l'archeologo deve ricercare e dei quali deve servirsi, valorizzando la loro natura diretta e priva di mediazioni. Non manca una chiara allusione alla possibilità che tali documenti siano di labile evidenza od occulti: tracce che richiedono l'elaborazione di appropriati metodi di indagine, come: lo scavo stratigrafico del sottosuolo. Per evitare fraintendimenti occorre però precisare che l'uso dei resti materiali non deve essere ritenuto assoluto ed esclusivo, la ricerca archeologica si avvale di qualsiasi tipo di informazione utile all'arricchimento delle conoscenze, a iniziare dalle fonti scritte. Come oggetto di studio non sono stati indicati i manufatti archeologici in senso stretto, bensì, ci siamo riferiti al frutto di tutte le “attività” umane. Con ciò si intende qualsiasi genere di testimonianza del passato che rappresenti la manifestazione, ideale o manuale, di un singolo individuo come di una collettività. D’ intensità è il riferimento alla “relazione con l'ambiente circostante”, concetto che supera i limiti fisici del reperto, dilatandone le valenze documentarie all'intero contesto cui esso in origine appartenne. L'ampiezza di prospettiva è suggerita qui dalla doppia accezione che la parola ambiente può assumere: - come habitat fisico e naturale entro il quale l'attività umana si è collocata, - come ambito culturale e sociale del quale fu partecipe. 1.2. Una disciplina multiforme La definizione che si è data dell'archeologia appare valida nei termini generali ma non esaustiva, quando si considerino la varietà e la dissonanza degli indirizzi metodologici, dei linguaggi scientifici e delle tecniche di indagine che la contraddistinguono. Il campo di azione dell'archeologia si presta a tante letture, come dimostrano i differenti orientamenti maturati nel corso della sua evoluzione e la molteplicità degli approcci che oggi sussistono a livello di specializzazioni accademiche o di applicazioni professionali. Ciò si spiega con la peculiare natura della materia, multiforme e contrassegnata da caratteristiche complesse: da un lato si può segnalare lo spettro delle sue relazioni con le scienze umane, sociali e naturali, e dall 'altro il suo interessamento ai diversi contesti geografici e cronologici, dal tradizionale ambito mediterraneo ai continenti più lontani, dalla remota preistoria fino all'età moderna. Queste sfaccettature derivano anche dall'intrinseco dualismo dell'archeologia, costantemente in equilibrio tra la sfera della materialità e dell'immaterialità: alla ricerca pratica sul terreno e all'osservazione dei manufatti si accompagna la speculazione mentale che li interpreta; alla fisicità del reperto si combinano i presupposti culturali che lo originarono. La disciplina archeologica non può essere compresa senza ricostruirne le tappe che ne hanno segnato il secolare sviluppo; si tratta di una variegata gamma di interessi scientifici e di procedimenti di ricerca maturati in tempi e in modi diversi, secondo indirizzi convergenti o a volte contrapposti, in un percorso che ormai tende a confluire verso obiettivi comuni. 2. Il processo formativo: dalle archeologie all’archeologia 2.1. L'archeologia nell'antichità Tucidide, lo storico greco vissuto nel V secolo a.C. definì Archaiologhia la parte introduttiva della sua opera dedicata ai primordi ellenici. Il termine, che indica un “commento su questioni che riguardano l'antichità”, è fin da principio correlato a un'analisi storica che a tratti già precorre concettualmente la più moderna pratica della ricerca sul campo. L'attenzione al documento che emerge dal terreno è espressa da Tucidide laddove cita l’armamento scoperto in vecchie tombe dell'isola di Delo come prova dell'esistenza di un primitivo stanziamento di Carii: potremmo definire ciò una sorta di analisi tipologica condotta su alcuni reperti archeologici. L'interesse per l'oggetto che dopo secoli torna alla luce dal sottosuolo non è dunque esclusivo dei tempi moderni. 2.2. Dall'Umanesimo all'antiquaria Nell'Umanesimo e nel corso del XIV secolo studiosi e letterati italiani, come Petrarca, riscoprirono la cultura classica attraverso la rilettura delle opere greche e latine. Il presupposto di un nuovo approccio critico verso il passato consistette allora nel fatto che il pensiero medievale si sentiva distante e alieno da quei tempi remoti, visti come mirabile esempio di un sapere da recuperare. L'Umanesimo, che ebbe seguito nel Rinascimento, avviò una crescita intellettuale di impronta erudita, retrospettiva, focalizzata su tematiche filologiche, artistiche e antiquarie. Tra i più colti esponenti dell'ambiente romano Quattro e Cinquecentesco, bisogna ricordare personaggi quali lo storico Flavio Biondo, che per primo descrisse sistematicamente le rovine di Roma, Raffaello, le cui opere trassero ispirazione dall'imitazione del classico, Leon Battista Alberti e Pirro Ligorio, che espressero il loro sapere di architetti anche attraverso il disegno di monumenti e di piante dell'antica Roma. Nel quadro che scaturì da tale interesse storico, si colloca l'affermazione della disciplina antiquaria con i suoi contenuti di tipo archeologico. A praticarla furono uomini di scienza o d'arte, partecipi della vita di corte e dei circoli aristocratici, che tra il Cinque e il Settecento si applicarono in molteplici campi del sapere in una prospettiva interdisciplinare. Essi non limitarono la loro attenzione alle fonti scritte (letterarie, epigrafiche o numismatiche) che all'epoca erano ritenute preminenti; ma con maggiore dedizione si occuparono anche delle varie categorie di manufatti (dalle ceramiche alle suppellettili in bronzo, dalle sculture alle gemme incise). Lo studio dei documenti materiali, manifestazioni più immediate e rappresentative dell'antica quotidianità, offrì un inedito e importante complemento alla storiografia, fino ad allora interessata solo ai personaggi celebri e ai grandi eventi. L’antiquaria coinvolse pure regioni prive di fonti scritte e di monumenti d'arte e architettura classica, quali quelle dell'Europa settentrionale: ciò da accrebbe la considerazione verso le modeste testimonianze materiali, e stimolò l'investigazione delle antiche tracce insediative riconoscibili sul terreno, arricchendo la tradizionale erudizione storico-geografica con nuovi studi sulle realtà territoriali locali. Tra le tante attività allora coltivate rammentiamo : - gli sterri effettuati alla ricerca di manufatti e di opere d'arte, destinati a divenire scavi sempre più sistematici; - le vedute di ruderi o i disegni di opere scultoree e architettoniche, che anticiparono le odierne rappresentazioni grafiche di taglio scientifico; - la catalogazione delle raccolte di antichità, affinata e proiettata verso una corretta classificazione dei reperti. Infine, il fenomeno del collezionismo d'arte e scientifico, viene promosso dalle corti nobiliari come dalle accademie universitarie, che portò a riunire una gran quantità di lapidi iscritte, monete, sculture e suppellettili d'uso risalenti a tempi più o meno remoti. 2.3. Il bello nell'arte L'antiquaria assunse connotazioni contraddittorie: da un lato divenne un positivo fattore di crescita scientifica dall'altro poté scadere in una sterile erudizione, evidente in un esasperato collezionistico o nelle intellettualistiche disquisizioni sui materiali, nelle quali l'oggetto di studio era relegato in una dimensione fine a se stessa che ne annullava il valore di testimonianza storica. Fu nel corso del XVIII secolo che questa tendenza culturale raggiunse il culmine, venendo poi superata grazie all'apporto di alcuni studiosi dell'antichità. Tra questi ricordiamo Bernard de Montfaucon, monaco benedettino conoscitore della filologia e dei costumi antichi, e Philippe conte de Caylus, uomo di lettere interessato all'archeologia: scienziati che ordinarono un'enorme mole di oggetti, non solo greci e romani ma anche egizi ed etruschi, ne vagliarono le caratteristiche formali, tecniche e funzionali, pubblicandoli in dei trattati riccamente illustrati. Orientato verso l'arte e la filologia, fu il tedesco Johann Joachim Winckelmann, appassionato studioso che trasferitosi a Roma divenne assiduo frequentatore delle principali collezioni di capolavori dell'età classica. Poco dopo la metà del Settecento egli compose una Storia dell'arte dell'antichità ispirata agli innovativi principi delle sue ricerche sulla statuaria greca, che egli poté analizzare solo attraverso copie risalenti al periodo romano. Mediante l'osservazione e l'esame critico delle opere, per primo Winckelmann fu in grado di cogliere le differenze e la consequenzialità cronologica tra i vari stili, così da stabilire le linee generali dello sviluppo figurativo. Egli riconobbe nell’idealizzazione della figura umana raggiunta nella Grecia del V secolo a.C. il culmine dell'arte antica, classificando la scultura secondo una sequenza quattro stili: - antico, - sublime (riferito alla piena età classica), - bello, - decadente. Ad apparire decisamente proficui sono la pratica dell'esame diretto dell'opera, il superamento della sua descrizione esteriore, il riconoscimento di quelli che ne erano gli aspetti tecnici e compositivi, la comprensione dell'essenza stilistica, l'importanza attribuita alla datazione dei pezzi, la quale risulta di fondamentale rilevanza per stabilire l'evoluzione dell'arte in una prospettiva storica. Riduttivi si rivelano la concezione gerarchica dello sviluppo stilistico, la negazione di un'autonoma volontà creativa da parte dell'artefice, l'assoluto primato attribuito alle più raffinate testimonianze elleniche e alle loro valenze ideali rispetto a tutti gli altri tipi di documenti materiali giunti dall'antichità. Si devono al Winckelmann la nascita di una vera storia dell'arte e l'affermazione di discutibili orientamenti critici, quali il predominio di un'impostazione classicistica e la tendenza a identificare l'archeologia prevalentemente con lo studio delle opere d'arte: orientamenti di limitato orizzonte cui si pose rimedio a distanza di tempo. 2.4. La riscoperta dell'antico: fonti letterarie e studi filologici L'archeologia opera indipendentemente dall'esistenza o meno di antichi testi scritti; certo è che, ove esistano, questi rappresentano un formidabile arricchimento per chiarire certi aspetti immateriali delle civiltà passate, normalmente non desumibili dai reperti, e per fornire precisi riferimenti cronologici. Finché la ricerca fu incentrata sul bacino mediterraneo e sull'età greca e romana il ricorso alle fonti letterarie divenne imprescindibile; esso ebbe però un eccessivo fideismo, che qualificando gli scritti antichi come documenti primari portatori di verità inconfutabili ne impedì una corretta valutazione critica e interpretativa. Metodologicamente più appropriato fu l'uso delle fonti letterarie proposto dall’antiquaria nell'analisi delle epigrafi e di altre categorie di reperti, non di rado correttamente interpretati e contestualizzati. Settoriale fu poi il filone dell'archeologia filologica di taglio storico-artistico; vi era un interesse quasi esclusivo per lo studio comparato dei testi greci e latini e dei monumenti figurativi e architettonici, al fine di collegarli e interpretarli ricavandone identificazioni di opere, attribuzioni ad artisti antichi e datazioni ancora oggi alla base delle nostre conoscenze sull'arte classica. Un importante settore di approfondimento degli studi filologici è stato quello storico-geografico e circostante, si esprimerebbe attraverso processi culturali costanti e ricorrenti, tali da poter essere ricondotti in modo oggettivo all'interno di leggi generali ricostruibili attraverso una corretta e scientifica ricerca archeologica. Tra i meriti dell'archeologia processuale ricordiamo: - l'attenzione riservata ai fattori ecologici, geologici e di formazione delle unità stratigrafiche, - l'elaborazione o l'utilizzazione di un'ampia gamma di innovative procedure scientifiche di indagine e di analisi: dal trattamento statistico e quantitativo dei dati, alle prospezioni non distruttive sul terreno, alle modalità di rilevamento topografico, agli esami di laboratorio post-scavo riconducibili alla specifica branca dell'”archeometria” o del riconoscimento delle caratteristiche antropologiche, ambientali, produttive, ecc. La qualità operativa introdotta dalla dottrina processuale è testimoniata dal fatto che essa tuttora impronta la migliore pratica archeologica; a ciò non ha però corrisposto un'uguale adesione ai principi teorici che sono suo fondamento, come dimostra la reazione critica opposta al suo determinismo interpretativo e all'eccessiva fiducia in un'impostazione tecnica che può portare a confondere i mezzi con i fini della ricerca. Da diversi decenni si è sviluppato un movimento di reazione noto come “archeologia post-processuale”. Questo schieramento di studiosi si è opposto esplicitamente alle forzature metodologiche del processualismo e alle sue astratte pretese di oggettività; altrettanto deciso è stato il recupero della dimensione storica entro cui si voleva ricondurre il documento archeologico, riconoscendo la valenza delle componenti soggettive e ideali che poterono influenzare il comportamento umano, di per sé non codificabili, e i molteplici condizionamenti congiunturali e ambientali che con esso interagirono. L'obiettivo della prospettiva di studio post- processuale è stato quello della contestualizzazione, caso per caso, dei dati acquisiti dalla ricerca sul campo: nel senso della ricomposizione di un organico quadro interpretativo che valorizzasse la specificità del singolo contesto e la natura dei fattori che lo determinarono. 3.4. La via italiana all'archeologia Gli ambienti scientifici italiani non sono stati coinvolti dal dibattito internazionale di cui abbiamo parlato, mostrando un atteggiamento di chiusura nei riguardi delle nuove elaborazioni teoriche e metodologiche. Questa sorta di emarginazione intellettuale si spiega con l tradizione disciplinare locale, egnata da una divaricazione concettuale tra la sfera colta del sapere accademico, e quella della ricerca sul terreno di matrice positivistica. Dopo la feconda stagione degli studi umanistici e antiquari, nella penisola si è affermato il predominio di interessi artistici e monumentali essenzialmente rivolti alle civiltà classiche, coltivati con un approccio erudito, di tipo filologico e idealistico, caratterizzato da una scarsa sensibilità storica. Un ulteriore fattore di stasi e isolamento scientifico è derivato dal clima culturale instauratosi durante il ventennio fascista, con il suo atteggiamento nazionalistico nei confronti delle antichità italiche e romane. In tale panorama, nel campo dell'archeologia classica si sono distinte solo alcune iniziative legate alla sensibilità di singoli studiosi. Verso la metà del secolo scorso, sotto lo stimolo di alcuni famosi scienziati, sono apparsi i segni di un mutamento negli orientamenti scientifici e accademici dell'archeologia italiana. A Massimo Pallottino, fondatore dell'etruscologia, si deve il radicale rinnovamento della ricerca sulle antichità italiche, in una prospettiva che ha valorizzato ogni tipo di documento archeologico come testimonianza essenziale per una ricostruzione storica e culturale. Nel senso di un recupero della dimensione storica dell'archeologia si è espresso anche Bianchi Bandinelli. Attraverso una riflessione critica, partita da posizioni idealistiche e approdata al materialismo marxista, Bianchi Bandinelli ha delineato un nuovo modello speculativo: la compiuta storicizzazione si raggiunge integrando l'apprezzamento estetico e stilistico dell'opera d'arte con la comprensione del contesto sociale, politico ed economico cui essa appartenne e in cui fu elaborata. I meriti dello studioso non furono circoscritti alla storia dell'arte; il suo insegnamento rappresentò una vitale fonte di ispirazione per tutta la ricerca antichistica, anche tramite la rivista «Dialoghi di Archeologia» che egli fondò; questa divenne una sede di confronto e compenetrazione tra varie specializzazioni, tra l'altro affermando il principio per cui il sapere archeologico è da considerare a tutti gli effetti una componente della scienza storica. Se nel campo della preistoria già maturava una condivisione delle più aggiornate esperienze europee e anglosassoni, e in quello della protostoria si era avviata una rigenerazione degli indirizzi culturali e di ricerca, fu dunque per merito di Bianchi Bandinelli che alla metà del Novecento anche l'archeologia classica italiana acquisì un più moderno e qualificato statuto scientifico. Un ulteriore progresso disciplinare si ebbe negli anni Settanta del secolo scorso con le riflessioni metodologiche formulate da Andrea Carandini, e con la rivista «Archeologia Medievale», che inaugurò un nuovo campo di studio facendosi tramite delle sperimentazioni di ambito post-classico della scuola polacca. Interpretando e sviluppando i più avanzati orientamenti internazionali, Carandini ha negato la funzione della storia dell'arte come fonte privilegiata dell'archeologia, ridimensionandone il primato, che riteneva frutto di un obsoleto idealismo estetizzante, e riconducendo il manufatto artistico al livello di qualsiasi altra testimonianza; contemporaneamente, aggiornando la tradizione antiquaria e ispirandosi al materialismo marxista, egli ha rivalutato l'importanza dei documenti materiali, anche di modesta natura, come basilari strumenti di conoscenza per la ricostruzione degli antichi contesti culturali, politici ed economici, postulando, pure a livello manualistico, la fondamentale funzione dello scavo stratigrafico come procedimento d'elezione per la ricerca archeologica. In seguito a questa accelerazione del dibattito scientifico nazionale e all'ampia adesione ai più aggiornati modelli di indagine, in primo luogo nel campo della stratigrafia, si è consolidata una nuova fisionomia della disciplina. Se da un lato tale processo ha ridotto note volmente il divario che sussisteva rispetto ai più avanzati ambienti scientifici stranieri, dall'altro ha conferito una positiva specificità all'approccio italiano alla materia: approccio che vede l'archeologia strettamente collegata alla storia, in una compenetrazione contestuale di tutti gli apporti disciplinari dell'antichistica. 4. Fondamenti metodologici 4.1. Valenza storica del documento archeologico La storiografia ha aperto i suoi orizzonti a un'ampia gamma di fenomeni, talora apparentemente marginali, connessi agli assetti politico sociali ed economici, agli ambiti produttivi e tecnologici, alle manifestazioni materiali e ideologiche del singolo individuo come delle comunità, il tutto in uno scenario di lungo periodo. Assieme ad altre branche dell'antichistica, l'archeologia, è in grado di fornire un importante contributo informativo a una storia totale, garantendo indicazioni altrimenti non desumibili dai testi in quanto legate alle innumerevoli manifestazioni della vita quotidiana abitualmente trascurate dalla tradizione letteraria. A questo proposito occorre sottolineare la peculiarità che contraddistingue la testimonianza archeologica rispetto alle altre; si tratta di un documento ambivalente: di tipo diretto e oggettivo, con una sua chiara evidenza, in quella che ne è la concreta fisicità, ma al tempo stesso caratterizzato da tratti occulti. Per esprimersi al meglio e divenire comprensibile esso richiede una complessa sequenza di indagini su più livelli: - è da individuare e da riportare materialmente alla luce con apposite ricerche, - è da analizzare nella sua intrinseca natura, - infine deve essere inserito in un più vasto scenario di dimensione storica. Occorre rimarcare l'importanza di un corretto approccio allo studio dei resti archeologici, che non si limiti a procedure descrittive, analitiche e classificatorie; queste sono infatti necessarie come primo stadio di una conoscenza che, tuttavia, non può essere fine a se stessa ed esaurirsi in un vuoto esercizio di erudizione: che si tratti di un'opera d'arte o di un oggetto comune, dal piccolo frammento di vaso al grande monumento, del manufatto si devono cogliere i molteplici connotati documentari, materiali e immateriali, così da renderli fruibili per l'elaborazione di un articolato quadro di sintesi interpretativa. Ed è questo più elevato livello di studio che può proiettarsi verso problematiche storiche, attraverso la contestualizzazione dei dati, da correlare tra di loro e da valutare in termini sincronici e diacronici per comprenderne i presupposti, lo sviluppo e gli esiti finali. Tale ultimo stadio della ricerca è impegnativo; esso si basa su speculazioni intellettuali e su argomentazioni di natura soggettiva in grado di offrire risultati plausibili, coerenti e condivisibili, ma non verità assolute. Sarebbe utopistico credere che l'archeologia possa portarci a certezze incontrovertibili, nonostante la rigorosa codificazione dei suoi principi metodologici e la sistematizzazione delle sue procedure d'indagine; fondamentali restano i processi logici e mentali che la accompagnano improntandosi al principio della probabilità: - la deduzione: che da una constatazione generale porta alla conoscenza del particolare; - l'nduzione: che dal ricorrere di un fenomeno particolare permette enunciazioni di tipo generale; - l'abduzione: che sfruttando ogni tipo di informazione e delineando uno stringente apparato indiziario, consente di formulare ipotesi interpretative anche assai attendibili ma di per sé non provabili o generalizzabili. Al riguardo si deve porre attenzione nel distinguere la corretta sintesi storico-archeologica dalla banalizzazione o dalla generalizzazione pseudostoricistica. Bisogna scindere la componente oggettiva della documentazione dall'ipotesi soggettiva che su di essa si può formulare; non tentare di estendere ad altri contesti le conclusioni cui si è giunti in un determinato ambito; evitare di forzare o enfatizzare il valore di una singola testimonianza quando questa appaia isolata e non si ripresenti in maniera statisticamente significativa, o quando non sia suffragata da un articolato e consequenziale sistema interpretativo. 4.2. Cronologia e diacronia Uno dei principali scopi della ricerca archeologica consiste nell'individuazione del momento in cui si è verificata una certa attività umana: solo la cognizione temporale ci autorizza a proporre una corretta contestualizzazione dei dati e a ragionare in una dimensione storica. Nella datazione dei documenti archeologici occorre distinguere tra: - cronologia assoluta: corrispondente alla definizione di una precisa data, esattamente calendarizzata, - cronologia relativa: nella quale due o più elementi o fenomeni vengono posti in relazione tra di loro secondo un generico rapporto di anteriorità, contemporaneità o posteriorità. La pratica archeologica assegna rilievo alla cronologia relativa: è questa che nello scavo regola l'interpretazione delle varie componenti di una successione stratigrafica, che nella classificazione tipologica dei materiali scandisce un prima e un dopo nello sviluppo delle loro forme, e che negli studi storico-artistici orienta la ricostruzione dell'evoluzione stilistica. In tale sistema di datazione concatenata assume poi importanza l'individuazione di un qualche manufatto di cui sia noto l'esatto momento di fabbricazione, anche se può sfuggirne la durata d'uso: come elemento-guida esso permette di ancorare a una datazione meno incerta la sequenza cronologica relativa che si è delineata, ponendosi al suo interno come terminus post quem per tutto ciò che è attribuibile a età più recente. Uno strato che contiene una moneta di Alessandro Magno, e di conseguenza anche tutti gli ulteriori strati che gli si sovrappongono, non potrà dunque essersi formato prima della nascita del condottiero, ma solo in un imprecisato momento posteriore. L'obiettivo primario cui mira l'archeologia resta quello di fissare anche una cronologia assoluta dei reperti o dei contesti, obiettivo che si può perseguire mediante il progressivo affinamento della ricerca, incrociando i vari dati disponibili, e che solo in certi casi si riesce a raggiungere in modo categorico: su base storica ed epigrafica, ad esempio, quando si è in grado di istituire un diretto rapporto tra il documento materiale e fonti scritte che recano un puntuale riferimento temporale a un episodio celebre o di tipo calendariale, quale una battaglia, un'Olimpiade, un consolato, un imperatore; o su base archeometrica, con il contributo di analisi scientifiche di laboratorio che talora consentono di risalire agli anni in cui un oggetto fu realizzato. Un altro concetto ricorrente nella critica archeologica è quello della “diacronia”, imprescindibile componente di qualsiasi indagine evolutiva, a iniziare dallo studio delle sequenze stratigrafiche che si osservano nello scavo. Solo una prospettiva diacronica può farci comprendere lo svolgimento degli avvenimenti passati in quello che ne fu il continuum dalla causa all'effetto; i fenomeni culturali e le vicende storiche si sviluppano tendenzialmente con processi privi di cesure temporali, come, nel campo delle manifestazioni insediative, testimonia l'archeologia urbana nel suo spaziare dai più profondi e antichi livelli abitativi fino alla realtà attuale. Al di là dell'importanza di certi eventi, assunti come capi saldi di riferimento cronologico, sottolineiamo che le periodizzazioni adottate dalla dottrina archeologica sono espedienti di comodo che vedono nelle suddivisioni in ere, epoche, età e fasi, delle definizioni convenzionali utili agli studiosi per l'inquadramento della materia ma prive di un assoluto valore storico. 4.3. Il contesto Il principio fondamentale per una corretta pratica archeologica è quello della contestualizzazione, procedimento che supera i limiti fisici del singolo manufatto consentendo di non riconoscerne solamente la generica pertinenza a un determinato luogo, l'aspetto formale ed estetico e le qualità d'uso, quali abitualmente si ricavano dall'analisi esteriore e dalla classificazione del reperto, ma anche le motivazioni ideologiche e le contingenze ambientali che lo generarono e ne accompagnarono la vita. Le testimonianze archeologiche rappresentano l'esito di azioni umane non casuali, in quanto generalmente condizionate da specifiche circostanze esterne e derivate da scelte e comportamenti di tipo culturale e sociale: fattori fuggenti, agli occhi dello studioso, rispetto al semplice dato materiale, ma al tempo stesso fondamentali per comprendere la valenza storica del documento antico. Per avere consapevolezza di un “contesto” è necessario adottare un criterio di ricerca di ampio orizzonte, tendenzialmente multidisciplinare e introspettivo, che permetta di individuare e collegare in un sistema coerente e consequenziale tutte le componenti che in qualche maniera poterono interagire sul reperto o correlarsi a esso: - a iniziare dal momento dello scavo, associando il reperto al complesso di strutture e di materiali che con lui giacevano in uno strato e risalendo alle azioni che li coinvolsero; - tramite l'analisi morfologica dell'oggetto, comparandone le caratteristiche a quelle di altri elementi noti e stabilendone la funzione; - nello studio del luogo di rinvenimento, ricostruendo l'ambiente naturale e antropico e la connotazione insediativa del sito; in senso temporale, accertandone la cronologia; - infine, delineando il panorama culturale e sociale che ne costituì il presupposto e il quadro di riferimento. delineare i profili del terreno evidenziando eventuali anomalie dovute alla presenza di ruderi, pure dove le coperture vegetali ne impedirebbero la visione. Anche negli studi territoriali è opportuno adottare il criterio della contestualizzazione, raccogliendo il maggior numero di dati e correlandoli in un quadro interpretativo. A tale scopo le indicazioni fornite dalle prospezioni di superficie e dalla diagnostica strumentale possono essere arricchite dalla lettura di fonti letterarie, da ricerche archivistiche e di cartografia storica, dalla toponomastica, da studi geopedologici. Per superare il livello di una conoscenza indiziaria, che può prestarsi a equivoci di vario genere, si consiglia di integrare queste indagini con mirate verifiche del sottosuolo. Per quanto indirette e meno dettagliate rispetto agli scavi stratigrafici, queste ricerche sul terreno sono essenziali per la conoscenza dell'antico assetto territoriale e del paesaggio storico; grazie a esse siamo messi in condizione di ricostruire i caratteri e l'evoluzione degli ambienti antropici e naturali nelle loro reciproche influenze e nelle loro componenti insediative, infrastrutturali, produttive, morfologiche e idrografiche. 5.3. Registrazione e gestione dei dati Nella ricerca archeologica sul campo occorre dedicarsi non solo alle osservazioni del terreno ma anche alla redazione di una documentazione dei dati che di mano in mano ne emergono, imprescindibile in un procedimento non più ripetibile qual è lo scavo stratigrafico, che distrugge lo stesso contesto che indaga. Le riprese fotografiche costituiscono un insostituibile mezzo di riproduzione delle condizioni oggettive in cui si trovano i resti archeologici al momento della scoperta. A rivestire una funzione informativa maggiore, dal punto di vista scientifico, sono gli elaborati grafici, in quanto delineano gli elementi essenziali del contesto archeologico filtrati dall'osservazione critica del ricercatore. Le sedimentazioni, le strutture e i materiali più significativi delle varie fasi insediative devono essere posizionati topograficamente e rilevati con planimetrie di dettaglio, possibilmente con l'ausilio di moderne strumentazioni tecniche, quale il telerilevamento, che permette la precisa georeferenziazione dei resti e la gestione informatizzata dei dati. Le raffigurazioni grafiche non interessano solo la dimensione orizzontale, sul piano, ma anche quella verticale, in profondità, che solitamente riassume le principali componenti diacroniche dello scavo; a tal riguardo si segnalano le sezioni, che rappresentano l'intera sequenza stratigrafica. Una peculiare combinazione tra disegno e fotografia si ha nelle restituzioni fotogrammetriche, derivate da riprese fotografiche in stereoscopia, che offrono precise immagini a rilievo di soggetti di particolare articolazione architettonica o plastica. Possiamo ricordare il laser scanner 3D, strumento elettronico che fornisce le coordinate spaziali di una nuvola di punti appartenenti all'oggetto del rilievo. A complemento della documentazione illustrativa si pone quella descrittiva, attraverso la quale vengono registrati tutti i dati archeologici raccolti sul campo. A tale scopo si utilizzano apposite schede, differenziate a seconda delle varie tematiche: di sito, di unità stratigrafica, di struttura, di tomba, ecc.; l'impianto normalizzato e il ricorrere di voci predefinite all'interno delle schede garantiscono una compilazione completa nelle informazioni, uniforme nel linguaggio e quanto più possibile obiettiva. Molto utili, risultano anche i più tradizionali appunti personali: diari o giornali di scavo nei quali l'archeologo annota spunti interpretativi e mette a fuoco particolari problematiche che gli si presentino in cantiere al momento dell'indagine, da recuperare poi nella rielaborazione finale dei dati. Oltre alle caratteristiche fisiche del luogo indagato è necessario documentare anche i reperti, siglandoli e immagazzinandoli ordinata mente, così da garantirne sempre la possibilità del riconoscimento e della corretta attribuzione di provenienza. Tutte le operazioni documentarie descritte possono essere riassunte in elenchi, tabelle e diagrammi, quale il matrix di sintesi stratigrafica, utili sia per l'archiviazione dei dati sia come ordinamento di base per la loro gestione nelle ulteriori fasi di studio. In proposito si segnalano le potenzialità delle banche dati informatizzate, possibilmente associate a georeferenziazioni cartografiche, valide anche come supporto scientifico nella correlazione di vari campi tematici e nelle valutazioni di tipo statistico. 6. Le tecniche della ricerca: lo Studio del documento 6.1. L'analisi del reperto, tra autopsia e indagini di laboratorio In archeologia il manufatto rappresenta il principale strumento di conoscenza: occorre studiarlo con tecniche di validità metodologica assoluta, rigorose e non selettive, indipendenti dalla sua connotazione cronologica, estetica e funzionale. Questi criteri possono valere per i reperti di scavo e per gli oggetti di ignota provenienza, quali i materiali di collezione, che pur essendo odecontestualizzati sono comunque in grado di conservare significative valenze documentarie. In primo luogo occorre procedere all'analisi diretta del manufatto per de terminarne le qualità intrinseche; la visione autoptica ne accerta dunque le dimensioni, la consistenza, il materiale, lo stato di conservazione, le tracce d'usura, i segni di lavorazione, la destinazione d'uso, la configurazione formale ed eventualmente stilistica: elementi che, nell'insieme, costituiscono la base per ogni ulteriore approfondimento interpretativo. Oltre che all'abituale osservazione archeologica, attualmente si può ricorrere anche a indagini archeometriche di laboratorio e a studi specialistici che permettono più approfondite valutazioni in diversi campi delle scienze. Al riguardo citiamo i riscontri geologici e petrografici, che chiariscono certe problematiche ambientali o la provenienza dei materiali di cava e di miniera, o gli esami di tipo naturalistico: faunistici, per lo studio dei resti animali come componenti di un assetto economico o come testimonianza di abitudini nutrizionali; botanici, dai pollini e semi rivelatori di sistemi vegetazionali naturali o agricoli ai residui carboniosi di alimenti e manufatti; antropologici, per desumere dai reperti umani interessanti dati biometrici (età e sesso), nutrizionali (in base alle condizioni dei denti), patologici (malattie e traumi) e comportamentali (indicatori ossei di stress da posizione o da lavoro). Altre procedure diagnostiche di tipo archeometrico, applicabili anche a resti inorganici, si basano sui principi della fisica e della chimica. Segnaliamo la possibilità di stabilire la precisa natura di un materiale o di un pigmento grazie alla microscopia elettronica a scansione e alla spettrografia, o di determinare l'età di alcune categorie di reperti così da qualificarsi come strumenti preziosi per la determinazione di cronologie assolute: tra questi ricordiamo la dendrocronologia, che consente di datare il legno attraverso lo studio degli anelli di accrescimento, e la termoluminescenza, con cui si stabilisce il momento della produzione di un reperto fittile riscaldandolo e misurandone l'emissione luminosa. 6.2. Confronto, classificazione, tipologia Dopo la fase dell'osservazione diretta, lo studio del documento materiale prosegue attraverso correlazioni esterne di ampio orizzonte contestuale. Il principio è quello del “confronto” con altri esemplari noti di analogo genere, comparabili all'oggetto in esame: cogliendo e valutando i tratti similari o distintivi si è in grado di formulare una prima attribuzione interpretativa del pezzo, di valore non assoluto ma comunque utile come riferimento cronologico, culturale, morfologico, tecnologico e funzionale. Questa procedura comparativa di base è importante nello studio di manufatti non facilmente classificabili, nei quali sia preminente la componente della creatività individuale rispetto a quella della standardizzazione esecutiva; essa viene abitualmente applicata alle opere d'arte, per le quali le valutazioni devono indirizzarsi sui più vari fattori formali di natura soggettiva, legati allo stile, all'impostazione figurativa, alle scelte espressive e al modellato. Maggiori opportunità si hanno quando l'indagine sia rivolta a oggetti connotati in senso tecnico e utilitario, e dunque ripetitivi, circostanza assai frequente nella documentazione archeologica prevalentemente costituita da oggetti di uso comune; allora è possibile perfezionare l'osservazione comparativa adottando ulteriori criteri classificatori, ormai affinati dal progresso degli studi. Per mezzo di un processo critico basato su puntuali riscontri oggettivi il manufatto può essere assegnato a una “classe”, un raggruppamento di materiali accomunati dalle stesse caratteristiche funzionali e formali, e attribuibili a un coerente ambito culturale; all'interno della classe si possono distinguere diversi “tipi”, riconducibili a definiti modelli in base all'aspetto morfologico, dimensionale e decorativo che li contraddistingue. L'analisi tipologica è applicabile a una vasta gamma di materiali: vasi greci alle lucerne di età romana; con la sua impostazione assoluta e atemporale essa governa lo studio della maggior parte dei reperti archeologici, consentendo di inserirli in precise griglie identificative. Il riscontro di tipo classificatorio esprime le sue massime potenzialità quando sia utilizzato per oggetti improntati alla ripetitività delle forme o a prodotti in serie; ciò non toglie che possa essere utilmente applicato pure a categorie non esattamente codificabili, quali le partiture ornamentali e figurative, gli stili architettonici e le tecniche costruttive. Oltre che per distinguere le componenti morfologiche e tecnologiche dei manufatti, le seriazioni basate sulla tipologia hanno rilievo nella determinazione della loro provenienza e della loro cronologia relativa o assoluta; grazie a esse si può individuare un'area di fabbricazione o ricostruire l'evoluzione che certi modelli formali hanno subito nel corso del tempo, con la possibilità di registrarne le variazioni e di riassumerle in apposite tavole che ne illustrano i rapporti di anteriorità e posteriorità, tavole divenute essenziali come strumenti di riconoscimento e di datazione di reperti archeologici anche minuti e frammentari. Se in qualche modo la tipologia rappresenta il procedimento filologico per eccellenza dell'archeologo, in quanto fondamentale per l'identificazione e la contestualizzazione del documento antico, non si deve mai dimenticare che essa va intesa come un ausilio strumentale, qualificandosi come un mezzo e non come il fine della ricerca. 6.3. La valutazione del documento materiale La gran parte dei reperti è costituita da oggetti ceramici, e in secondo luogo da arredamento, ornamenti ed elementi d'uso personale anche lapidei o metallici. Se dunque le loro caratteristiche t seriali si prestano all'utilizzazione dell'analisi cronotipologica, un ulteriore arricchimento interpretativo deriva dal procedimento dell'”associazione”, che consiste nel collegamento del manufatto con gli altri materiali che gli erano associati nel sito di rinvenimento, nell'individuazione del luogo e delle modalità di produzione, nell'esame del contesto insediativo cui appartenne , pubblico o privato, abitativo, funerario, religioso, artigianale o altro. Tali riscontri permettono di ancorarsi a elementi datati, ad esempio a reperti presenti nel medesimo strato di provenienza, così da fornire una migliore determinazione cronologica; al tempo stesso ci aiutano a comprendere i processi lavorativi che hanno generato l'oggetto, la sua originaria pertinenza d'uso e i significati sociali e simbolici di cui era eventualmente rivestito. Dato che ogni fonte archeologica deve essere valutata senza pregiudizi gerarchici e con un medesimo orientamento concettuale e metodologico, questi criteri di studio hanno una valenza generale. Vi sono tuttavia alcune categorie di documenti contraddistinte da una propria specificità, tale da presupporre anche autonome modalità di analisi. Ricordiamo i complessi architettonici, pubblici e privati, con la loro elaborata articolazione. Rimarchiamo la necessità di indagarli nei vari aspetti tecnico-struttivi, metrico-modulari e di uso, in rapporto alla loro collocazione urbanistica, alle trasformazioni che subirono nel tempo, a eventuali fenomeni di reimpiego. Tali componenti sono determinanti per inquadrare i presupposti ideologici e culturali delle realizzazioni archi- tettoniche e i contesti sociali e funzionali di cui erano espressione. Altri reperti, come i bolli di fabbrica impressi su certi prodotti finiti, le monete e le epigrafi, risaltano per la presenza di iscrizioni; queste ci impongono di riservare attenzione alle componenti epigrafiche e paleografiche, oltre che a eventuali riferimenti storici e di rilievo sotto l'aspetto documentario e della cronologia assoluta. L’esame critico deve comunque aprirsi a una piena contestualizzazione di natura archeologica, attenta alle problematiche materiali e immateriali insite nel manufatto, il quale non può essere inteso come semplice supporto del testo scritto; esempi di massima evidenza in proposito sono le iscrizioni di natura pubblica o sepolcrale, con gli inscindibili nessi che correlano il testo epigrafico all'impianto archi tettonico, all'apparato ornamentale e figurativo, alla destinazione funzionale e alla collocazione spaziale del monumento, il tutto a comporre un unitario messaggio di tipo celebrativo. 6.4. Testimonianze artistiche L'analisi dell'oggetto d'arte non deve limitarsi a un apprezzamento estetico o al tradizionale esame stilistico; esso rientra infatti nella categoria dei documenti materiali, e come tale comporta anche tecniche di indagine archeologiche. Occorre vagliare i caratteri fisici e tecnologici dell'opera, con riguardo alle procedure di lavorazione e alla provenienza delle materie prime impiegate, possibilmente avvalendosi di verifiche di laboratorio. Per quanto riguarda l'approccio storico-artistico, gli orientamenti maturati a partire dagli Studi di iconologia, richiedono di affiancare alle osservazioni stilistiche anche l'interpretazione dei contenuti comunicativi diretti o indiretti affidati all'opera d'arte: attraverso l'analisi iconografica, che sulla base delle figurazioni e dei loro attributi porta all'identificazione del soggetto rappresentato attraverso la lettura iconologica, che mira a cogliere e a spiegare i più reconditi significati simbolici o allusivi attribuiti alle immagini. Oltre a una valutazione materiale, artistica e ideologica, l'opera presuppone un'interpretazione contestuale di tipo storico, che ne delinei la committenza, la destinazione ambientale, la collocazione fisica, l'apprezzamento estetico e intellettuale di cui fu oggetto. Un ultimo livello di studio dei manufatti artistici si lega alle vicende esterne che nel tempo poterono riguardarli. Nel caso delle sculture, e di singole membrature architettoniche, occorre tenere conto della loro eventuale dislocazione, rispetto alla sistemazione originaria, per motivi collezionistici, di tesaurizzazione o di reimpiego. 6.5. Fonti letterarie Gli scritti degli autori greci e latini, cui saranno pure da aggiungere i testi geroglifici, cuneiformi, in lingua etrusca, ecc., non rappresentano più il principale supporto documentario per l'archeologo; nel campo delle antichità classiche, egittologiche e vicino-orientali essi tuttavia conservano ancora un'enorme importanza. Molti sono i casi in cui solo le fonti letterarie ci consentono di ancorare un contesto archeologico a un determinato evento storico, a una cronologia precisa, a uno specifico personaggio, o di inquadrarlo in un particolare ambito topografico, politico e culturale. Per campi legati alla ricerca archeologica sarà sufficiente rammentare l’apporto informativo offerto da alcuni autori: Plinio, che nella Storia naturale dedica ampio spazio a digressioni sull'arte; Pausania, con la descrizione dei monumenti greci e dei nomi degli artisti che offre nella Periegesi della Grecia; Vitruvio, estensore del trattato tecnico Sull'architettura. Dal momento che l'obiettività e la completezza dei testi possono essere alterate da condizionamenti ideologici, da errori e travisamenti, da omissioni più o meno volute, la loro utilizzazione richiede un adeguato approccio esegetico. Per emendare quello che a lungo è stato l'eccessivo fideismo dell'archeologia nei confronti delle fonti letterarie Un primo livello di conoscenza riguarda le singole persone e i gruppi familiari, nuclei fondanti della collettività. Questo ambito di indagine sfrutta con le informazioni offerte dai testi epigrafici, in particolare di natura sepolcrale, testi che ricordano il profilo anagrafico e la qualificazione sociale dei defunti. Preziose indicazioni, in proposito, sono oggi desumibili anche da dirette testimonianze di scavo: analizzando i reperti scheletrici in chiave bio-antropologica è possibile ricostruire l'identità dei vari membri di una popolazione e il loro tenore di vita. Le tipologie degli oggetti personali e le titolature onomastiche offrono indizi rivelatori sulle differenti appartenenze etniche e culturali di soggetti che potevano anche convivere nella stessa comunità; in tal caso la documentazione archeologica, è in grado di suggerire informazioni su fenomeni di persistenza di substrato, di integrazione, di emarginazione o di resistenza tra le diverse genti. Di indirizzo più generale è lo studio della società nella sua stratificazione gerarchica e nelle sue componenti civiche, professionali e di status, dai gruppi dominanti ai ceti subalterni e servili. Altre testimonianze, ci illuminano sugli atteggiamenti ideologici e spirituali della popolazione; tra di esse si segnalano quelle pertinenti alla sfera religiosa, riconducibili a varie forme di ritualità pubblica e privata, quelle di matrice politica, ravvisabili in manifestazioni connesse all'amministrazione civica e all'esercizio del potere, quelle legate alla ricreazione e allo svago e quelle di tipo funerario. Che si tratti di templi, di basiliche, di palazzi, di teatri, di terme, di mausolei, o delle loro dotazioni d'uso, le attività umane si incardinavano in luoghi deputati e si avvalevano di specifici oggetti, a conferma del collegamento di contesto che l'archeologia deve ricercare tra il documento materiale e la componente culturale. 8. Funzioni e comunicazione 8.1. Il quadro normativo e professionale In Italia con la legge n.364 del 1909, ordinata in via definitiva dal decreto legislativo n.42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), si stabiliva che ogni materiale archeologico rinvenuto nel sottosuolo fosse da considerare di proprietà dello Stato; questo stesso, ha la competenza esclusiva sulla tutela e la ricerca del patrimonio archeologico. Da tali premesse deriva che è solo il ministero dei Beni e delle Attività culturali, attraverso le Soprintendenze per i Beni archeologici che ne sono gli uffici periferici, a poter operare sul territorio, o in forma diretta, o con accordi di collaborazione, o rilasciando concessioni di scavo a soggetti terzi (università, comuni, musei civici) nell'ambito delle loro funzioni formative. Un tempo era il settore pubblico l'unico che poteva impiegare i laureati in archeologia, come funzionari di Soprintendenza o come docenti all'interno delle università; qualche opportunità di occupazione era inoltre offerta dai musei o dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Dopo la metà del secolo scorso gli scavi archeologici non erano condotti da personale qualificato bensì da manovali e operai salariati, diretti dalle Soprintendenze tramite assistenti di scavo tutt'al più dotati di diploma di scuola elementare o media: essi si dedicavano al controllo orario e quantitativo del lavoro, limitandosi ad annotare su appositi registri il rinvenimento degli oggetti più significativi dal punto di vista formale o venale. La situazione cambiò tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si affermarono la tecnica stratigrafica nello scavo e le prospezioni di superficie, funzioni per le quali erano necessari operatori archeologi dotati di adeguata formazione e competenze. Ciò aprì la strada alla nascita della libera professione anche nel campo dell'archeologia: ricercatori autonomi, imprese, ditte e cooperative archeologiche cui le Soprintendenze tuttora affidano o appaltano gli interventi sul campo. Tra il 2004 e il 2006, fu emanata la normativa sull'archeologia preventiva per le opere pubbliche, che sancì giuridicamente una prassi operativa da tempo in uso in varie regioni d'Italia. In base a tali disposizioni (tuttora vigenti) al concessionario vengono richieste una Valutazione di impatto archeologico da allegare alla progettazione, basata sulla raccolta dei dati di archivio e bibliografici, l'effettua zione di ricognizioni di superficie, e ove il soprintendente ne riscontri la necessità, l'esecuzione di carotaggi e sondaggi archeologici preventivi cui possono far seguito scavi estensivi: tutto ciò a spese del committente dei lavori. Da segnalare è il fatto che le diverse attività istruttorie, richiedono l'intervento di archeologi esperti, fornendo un'ulteriore opportunità professionale ai giovani laureati. Nel campo della conoscenza e della tutela si deve ricordare la redazione di inventari e schedature scientifiche di materiali archeologici di proprietà statale o civica da parte di collaboratori esterni; o la stesura di carte del rischio archeologico (o delle potenzialità), da utilizzare per la pianificazione territoriale. 8.2. Fruizione e valorizzazione Altra branca in cui gli archeologi professionisti sono oggi in grado di trovare impiego è quella della comunicazione scientifica, con la possibilità di operare nel campo della divulgazione, delle guide turistiche, della collaborazione con case editrici o dell'archeologia sperimentale, con la quale si riescono a riprodurre e illustrare in maniera immediata numerosi aspetti della vita quotidiana nell'antichità. Si tratta, in questi casi, di attività didattiche normalmente espletate nell'ambito dei parchi archeologici o di musei e mostre. Al termine del percorso di ricerca, recupero e studio interpretativo, anche certune aree di scavo e i reperti più rappresentativi meritano una piena fruizione che non potrà limitarsi a una pubblicazione scientifica. Sebbene in questa specifica trattazione non rientrino le problematiche museografiche e museologiche, riteniamo comunque utile accennarvi. Da tempo superato il concetto di museo inteso come raccolta di opere d'arte, belle ma decontestualizzate, oggi nelle esposizioni archeologiche si tende a privilegiare altri aspetti della documentazione, correlati all'originario contesto di provenienza e alle qualità funzionali, così da sfruttarne tutte le potenzialità informative. Inoltre, che si tratti di mostre o musei, nella pratica comunicativa non sono più sufficienti i tradizionali strumenti didascalici, come i pannelli, i disegni ricostruttivi, i plastici e gli audiovisivi. Attualmente, grazie alle moderne dotazioni tecnologiche e informatiche si possono sfruttare le maggiori opportunità offerte dalle installazioni multimediali, dalle navigazioni digitali, dalle realtà virtuali, dalle postazioni olografiche, dalle proiezioni 3D. Fondamentale, è che la forma esteriore e interattiva non abbia il sopravvento sull'intrinseco contenuto scientifico, dal momento che presupposto di qualsiasi attività di pubblicizzazione culturale è che chi la propone sia ben documentato e disponga di dati certi, così da potersi cimentare nelle più aggiornate modalità di divulgazione didattica senza che prevalga un approccio sensazionalistico. Capitolo 4 La tipografia antica 1. La tradizione degli studi topografici L'età umanistica, la prima fase del Rinascimento che si distingue dal Medioevo determinando nelle coscienze la necessità di tornare all'arte e al pensiero antichi, vide la ricerca del sapere classico, che si voleva conoscere e recuperare fin dove possibile prima che perisse tutto. Il destarsi d’interesse intorno all'antichità si manifestava nella ricerca dei codici classici, dimenticati nelle biblioteche monastiche, che si rintracciavano e studiavano impegnandosi nella loro ricostruzione filologica. Fu con gli umanisti che si giunse a capire che non si potevano comprendere gli autori antichi, né le rovine del passato, se non si fossero studiati lo spazio entro il quale si erano mossi gli eventi e la disposizione originaria nella quale si collocavano gli antichi monumenti; e che la loro descrizione e la loro comprensione non potevano essere complete se non fossero state accompagnate da rappresentazioni grafiche. Gli umanisti allora erano tratti ad esplorare le architetture superstiti e a svolgere sopralluoghi, per comprendere la funzione e l'identità delle rovine, nonché a dar loro una giusta collocazione nel contesto urbanistico e del paesaggio antichi, per riuscire a capirle nella realtà storica e topografica. Nasceva così lo studio della topografia antica, il cui termine, già usato dai Greci e dai Romani e ripreso a partire dal Rinascimento, deriva da topos, luogo, e grapho, descrivo, disegno: descrizione di ambiti geografici e spaziali, grandi e piccoli, come mezzo per la comprensione dei monumenti archeologici. 2. Le finalità Compito del topografo è riconoscere e interpretare i dati pervenuti dal passato, ricomporre in un quadro organico e stratificato per epoche la storia di un territorio, di una regione, di un ambito geografico che può travalicare nazioni e continenti. Lo studio della topografia antica ricostruisce la storia dell'ambiente nel quale si sono svolti i fatti, sia quelli straordinari, sia quelli di vita quotidiana, politica, amministrativa, economica, culturale. L'opera che l'uomo ha svolto nel territorio si riconosce nella forma e nelle finalità che ad esso egli ha voluto e saputo imprimere: nell'urbanistica, nell'organizzazione dello spazio, nell'ordine conferitogli, nell'evoluzione che ne è conseguita; nell'architettura, nell'edilizia, nelle infrastrutture; nei diversi ambiti economici, sociali, culturali e politici nei quali l'opera dell'uomo si è manifestata. L'attività umana nel territorio si evidenzia riconoscendo quando, dove e perché sono state fondate città, fortezze, borghi, ville, casali; sono state impiantate coltivazioni; sono state condotte bonifiche agrarie ed idrauliche; sono state tracciate strade, perseguite attività artigianali e industriali, aperte cave e miniere; quali sono stati i confini catastali, politici, militari, gli ambiti culturali e commerciali, i movimenti degli uomini, dei loro eserciti e delle loro merci. Per alcuni aspetti di base, la disciplina parte dalla geografia, per quanto riguarda l'apprendimento degli elementi fisici, geologici, morfologici, ambientali che caratterizzano una regione: si avvale di questa conoscenza per capire come la natura l'ha modellata e continua a modellarla e, insieme, come l'uomo l'abbia subita o l'abbia utilizzata; le si sia opposto e l'abbia contrastata, demolendo o costruendo a sua volta. Lo studio della topografia si presenta come un ambito di ricerca che si serve di una base documentaria ampia, che parte dall'analisi comparata delle fonti letterarie antiche, dalle fonti storiche, cartografiche, illustrative, toponomastiche, anche medievali e moderne; dagli studi archeologici e dalla bibliografia; dai dati d'archivio; da una metodologia nell'esame analitico del monumento e del suo rilevamento, così come dalla ricerca sul terreno per una completa lettura ed interpretazione di ogni presenza antica o piega morfologica che con essa abbia attinenza; dalla ricerca subacquea; dall'aerofotointerpretazione. La disciplina implica anche conoscenze tecniche, uso di strumenti e competenze che necessitano di una formazione particolare e specifica in campo archeologico, attenta agli affinamenti di metodo. Tutte le conoscenze acquisite debbono contribuire al processo ricostruttivo degli aspetti derivati dalla presenza umana in un contesto territoriale e dalla identificazione e comprensione dei siti antichi; debbono servire a ricostruire le trasformazioni operate dall'uomo nel territorio attraverso il tempo e a offrire una lettura storica della sua evoluzione. Lo storico era colui che vedeva le cose e i fatti che si svolgevano attorno a lui, li investigava, li ricostruiva e li narrava: così sono storici per eccellenza Erodoto e Tucidide. Ebbene, il topografo è in questo senso uno storico puro, in quanto non usa solo fonti indirette quali sono le fonti letterarie, ma proprio i documenti diretti di quel passato, che egli ha il privilegio di vedere reali, di toccare, di investigare, di ricostruire. Lo studioso della topografia antica presenta una fisionomia precisa, che si è consolidata attraverso una tradizione di studi che, nata dall'inizio dell'età moderna, l'ha raffinata nel tempo. La disciplina si distingue nettamente dall'archeologica classica, che è nata dall'antiquaria e si è qualificata solo a partire dalla fine del Settecento con Winckelmann, come storia dell'arte. Gli studi topografici possono contribuire alle ricerche di altre discipline: - all'archeologia per l'apporto alla contestualizzazione relazione tra i monumenti; - alla storia antica, per la concretezza che conferiscono ad ogni ricostruzione degli eventi che sul territorio si sono svolti; - alla filologia, in quanto consentono una lettura dei classici aderente alla realtà e possono recare decisivi contributi alla ricostruzione e alla comprensione dei testi. Tutte le branche specialistiche che oggi compongono gli studi storici e archeologici, generali o di specifico ambito cronologico, tecnico o materiale, epigrafico, numismatico, vascolare, ecc., sono altrettanto fondamentali per l'approfondimento dell'analisi monumentale e della conoscenza topografica; sono divenute utili scienze come quelle antropologiche, zoologiche, botaniche. La disciplina riveste anche un ruolo imprescindibile per la gestione del territorio, per il legame che il monumento detiene con il contesto ambientale e sociale, così che la ricostruzione topografica può e deve incidere nella programmazione urbanistica, ai fini della tutela e della valorizzazione dell'ambiente storico. 3. Le tecniche Lo studio rivolto alla comprensione di un territorio, di una città, di un complesso monumentale, di un edificio, richiede un itinerario metodologico, che di si propone di massa per tutti questi sistemi di indagine, pur nelle varianti che ogni oggetto della ricerca stessa richiede, per le sue peculiarità. Possiamo partire dal ricercare se quel territorio, quella città, quel monumento che intendiamo studiare, sia menzionato dalle fonti letterarie antiche o da quelle epigrafiche, che lo riguardino direttamente o in forma indiretta, dal punto di vista storico, cronologico, topografico, socio-economico, strutturale. Tale aiuto alla comprensione può venire da una descrizione o da un accenno presente nell'ambito di un discorso più generale, che saranno utili al fine di conoscere l'anno o il periodo di realizzazione di un certo intervento, magari chi lo ha voluto o progettato, in che modo e perché, le trasformazioni da esso subite nel tempo. Documenti letterari ed epigrafici possono informarci su chi ha condotto i lavori di costruzione di un porto o di un canale, una bonifica agraria o una centuriazione; o sugli itinerari stradali e le stazioni di tappa, o su quanto tempo si impieghi ad andare da un posto all'altro a piedi o in calesse, o quanto ci metta un messaggio o una lettera a giungere a destinazione. Utile anche la toponomastica, lo studio dei nomi di luogo, che possono sopravvivere a cambiamenti di lingue e di popoli, così da documentare origini e significati remoti, in contesti che oggi li hanno dimenticati. Oltre alle fonti letterarie antiche, potranno essere utili quelle medievali e moderne (documenti che possono essere diversi: cronache, atti notarili, catasti, inventari) per capire le modifiche subite da un sito nelle fasi successive e risalire meglio alla comprensione del momento che interessa. Tra le fonti possono essere preziose quelle iconografiche, risalenti ad epoca antica: rilievi marmorei o monete celebrative, dipinti o stampe o disegni di artisti medievali e moderni, o rilevamenti tecnici dei nostri umanisti o Sappiamo che, a seconda dei luoghi e dei tempi, possono essere entrate in uso tecniche in forme precoci, che altre aree geografiche impiegano più tardi o, per economia e praticità, non usano, preferendone altre: ad esempio, l'opera poligonale raffinata si usa in Magna Grecia prima che nel medio Tirreno; il mattone pieno, cotto, quadrangolare, si usa nella Padania prima del laterizio romano. Viceversa, in questa regione, i fabbricati in legname e argilla sono ancora normali in età imperiale. Utili nell'architettura sono l'esame stilistico e l'apparato decorativo (elementi architettonici applicati, capitelli, cornici, pitture, pavimenti), ma si deve tener presente che questi elementi possono appartenere a restauri o rifacimenti successivi alla costruzione dell'elemento portante; o possono essere più antiche, se di riutilizzo. Ogni monumento, così come è stato costruito, anche se rispecchia il contesto culturale che lo ha creato e al quale è appartenuto, possiede una sua espressione individuale, che gli può essere venuta dalla progettualità dell'architetto o del committente o da tutta una serie di variabili, dovute all'opportunità e all'economia suggerite dai luoghi e dalle circostanze. 7. Le indagini territoriali Per giungere alla comprensione di un complesso urbanistico o di un contesto territoriale, l'indagine si volgerà al riconoscimento dei monumenti e delle sopravvivenze possibili, dalle costruzioni più rilevanti agli avanzi più miserabili di strutture, fino alle aree di riscontro di frammenti fittili. Saranno necessari anche l'esame e la prospezione di ogni angolo di muro o cantina, di ogni piega del terreno o il confine di una proprietà, di un isolato, di un campo, da una linea di alberi o da una siepe, da una fogna (che dividono appezzamenti, proprietà private o comunali), che possano essere attinenti a una forma che il territorio ha avuto in passato e che attraverso di loro si è mantenuto. Ogni elemento individuato verrà localizzato sulla base cartografica, con una rappresentazione planimetrica puntuale e non simbolica, privilegiando il sistema di acquisizione delle coordinate assolute tramite GPS. Possiamo paragonare la perlustrazione di superficie a uno scavo, con la differenza che la lettura del terreno non si avvarrà di una stratigrafia condotta per livelli di approfondimento, ma per livelli in orizzontale. Il quadro cronologico di ricostruzione per le varie epoche si avrà differenziando i resti e le tracce a seconda delle fasi temporali, in modo da raggiungere complessi livelli di lettura diacronici e dare alle nostre carte una lettura tipologica, funzionale, ecc. Le indagini in loco, non solo di perlustrazione territoriale, ma anche di esame monumentale, si conducono con grande preferenza nelle stagioni nelle quali la vegetazione, che copre e nasconde terreni e anche strutture, è ridotta al minimo, cioè in inverno; nelle indagini sul terreno, il momento più opportuno è al tempo delle arature, che muovono le zolle e permettono più facilmente l'affioramento di materiale. La stagione peggiore per la perlustrazione è quella della primavera, quando il rigoglio vegetativo è al massimo. Certe colture sono così intense che è, comunque, difficile l'esame del terreno: ad esempio, nei boschi per la vegetazione arbustiva che vi vive o vi è morta; e nei pascoli o nei campi di erba medica. Se non si può rimandare l'indagine a tempi migliori, si potranno seguire tra le colture le canalette di displuvio o i ruscellamenti dati dall'acqua piovana, che incidono e scoprono il sottosuolo. Sono importanti le sezioni del terreno, le fondazioni disposte per la costruzione di una nuova casa e i tagli stradali o di canali, gli sbancamenti di una cava, una frana, il taglio dell'argine di un torrente, la fossa per piantare un palo o un'antenna: possono mostrare una stratigrafia sepolta, muri o canali altrimenti invisibili, tombe che per la loro natura sotterranea non avremmo potuto riconoscere. Gli scavi clandestini, pur con tutto il danno che recano, possono mostrare coi loro scassi cosa celi il sottosuolo e dare, con gli avanzi lasciati dal saccheggio, un'idea della consistenza avuta dal luogo o esistente e nascosta in esso. Le arature, di stagione in stagione distruggono sempre di più e anche quei miseri cocci, che possono testimoniarci l'esistenza di manufatti, monumenti o edifici, col tempo vengono triturati e dispersi, fino a sparire. Certe coltivazioni sono distruttive, come i vigneti e i frutteti, che pretendono scassi profondi e accurata pulizia dei terreni, per cui il riscontro è difficile; ma a volte il contadino raccoglie questo materiale in mucchi, dove lo si potrà esaminare, o lo usa nei muretti al limite della proprietà, nei pianciti dei viottoli o nei vecchi casali, come materiale da costruzione. Purtroppo dagli ultimi decenni è anche in uso, per impiantare coltivazioni intensive e selezionate, livellare le colline, rovesciando a valle la sommità dei rilievi così da creare spazi piani, non solo con la completa distruzione degli eventuali resti presenti, ma anche con la trasformazione morfologica dei suoli. A volte i costruttori edili, per nascondere le presenze archeologiche, vi riversano sopra macerie moderne, così da confondere quel che si vedrebbe in superficie; questi terreni sono difficili da esplorare anche a motivo delle difficoltà di rapporti tra i soggetti interessati. Le scarpate ripide portano il materiale a valle, per cui può esserci il caso che sul monte non si conservino strutture antiche, e i resti archeologici siano scivolati tutti alla base del rilievo. Anche in perdita di strutture murarie, il materiale che occasionalmente si recupera va vagliato per la sua interpretazione funzionale e cronologica. Il territorio, per la complessità e la varietà delle stratificazioni che accoglie, è un archivio da leggere con strategie da fissare di volta in volta, a seconda delle situazioni morfologiche, ambientali, strutturali, vegetative, al fine di raggiungere una attenta e continua valutazione critica sul campo, con obiettività e scientificità. Va tenuto presente che ogni territorio, pur partecipando di una cultura generale che lo globalizza nel suo tempo, ha un suo carattere locale, dovuto alla situazione storica e ambientale, e alla base geologica. Quello che si richiede è di documentare ciò che vediamo, con la fotografia e il disegno, dandone una descrizione quanto più possibile concisa ma esaustiva, attraverso la quale si giunga a identificare una costruzione o i suoi resti nel suo uso e nel suo definirsi nel tempo. 8. Il rilevamento planimetrico e la schedatura Fondamentale alla comprensione è il rilevamento planimetrico: pianta, alzato, sezioni, disegno tridimensionale. Per rilevamenti difficili, ci si dovrà rivolgere a persone specializzate nel campo. Per rilevamenti, monumentali o urbani, si possono anche utilizzare planime trie già effettuate nell'ambito di altre attività urbanistiche o edilizie; dovremo solo applicarvi controlli strumentali per verificare la loro attendibilità ed esattezza. La schedatura di ogni sito o monumento individuato, descritto e documentato da foto e disegni, ben studiato nel particolare dei suoi elementi e nella sintesi, costituirà la base della conoscenza complessiva dell'area o del territorio indagato. La lettura dell'area oggetto dell'indagine, analizzata per fasi cronologiche nell'interrelazione che può essere intercorsa tra i siti, permetterà di riconoscere l'evolversi della storia di un territorio, di una città, di un monumento. Le carte territoriali saranno notate da una simbologia il più possibile aderente alla realtà volumetrica ricostruita sul terreno. I vari tipi di siti o di luoghi avranno simboli diversi per facilitarne la lettura e una numerazione, che li porrà in relazione con le schede o con il sistema informativo. Questo potrà essere strutturato in relazione e fornito di una griglia di riferimento omogenea. Abbiamo rilevato come la ricerca topografica, per i suoi caratteri, si giovi di una molteplicità di discipline diverse per tipo ed epoca: questo fattore rende necessario un continuo aggiornamento e una continua revisione metodologica. Dalla capacità di individuare queste potenzialità che man mano si offrono, di utilizzarle e di indirizzare la ricerca secondo le diverse prospettive, dipenderà la qualità dei nuovi risultati. Capitolo 6 Le fonti letterarie romane 1. Conservare la memoria: necessità per gli antichi, opportunità per i moderni Le fonti letterarie, nelle loro diverse forme, rappresentano un testimone imprescindibile per la conoscenza del mondo antico. La corretta comprensione delle notizie che esse trasmettono non può essere immediata, ma richiede una decodificazione critica, che si impone per la diversità tra la realtà in cui tali testimonianze sono state prodotte e la nostra temperie culturale e per il tortuoso percorso attraverso il quale questi testi sono sopravvissuti. Il patrimonio letterario costituitosi nel mondo antico ci è giunto in forma mutila. Quanto pervenuto solo in rare occasioni ci è noto nella sua forma integrale; spesso sopravvive in condizioni frammentarie e sollecita i filologi al “restauro”dei resti antichi, attraverso l'individuazione e l'espunzione degli erronei interventi prodottisi nella loro trasmissione e mediante integrazioni di quanto perduto. Si pone irrinunciabile la verifica dell'autenticità e della paternità di documenti antichi la cui storia non risulta sempre perspicua ai moderni. La metodologia della ricerca storica comporta, l’attenzione per le vicende vissute da ciascun testo, per la sua natura e struttura, per la mentalità del suo estensore e per l'ambiente in cui questi è vissuto, per le finalità e il pubblico a beneficio dei quali lo scritto è stato concepito. Se per i moderni la tradizione storiografica costituisce uno strumento conoscitivo e interpretativo del passato fondamentale è perché per i Romani la conservazione della memoria storica, confluita nei testi letterari, rappresentò una pratica consueta. L'esigenza di conservare e divulgare la propria storia venne avvertita a Roma in fasi precoci, precedenti rispetto alla nascita della storiografia romana nel III secolo a.C. li ricordo di un passato condiviso risultava decisivo nella definizione dell'identità collettiva di un popolo, come quello romano, nato dalla fusione di etnie diverse: latina, sabina, etrusca e greca, che uperate le differenze delle origini, necessitava di riferimenti che valorizzassero il suo sviluppo come civiltà unitaria. La storia era destinata a incidere positivamente anche nella percezione che ogni cittadino doveva maturare circa il significato della propria esistenza: all'interno della vicenda di Roma, esito degli sforzi di numerosi soggetti e generazioni, il civis Romanus poteva riconoscere il proprio ruolo in un percorso al individuale, familiare e collettivo: Catone era solito dire che Roma superava nella costituzione tutte le altre perchè, in quelle erano stati dei singoli individui che avevano ordinato ciascuno il proprio stato con proprie leggi ed istituzioni, mentre per contro lo stato romano non fu ordinato dalla genialità di uno solo, ma di molti, e non nello spazio di una sola vita umana, ma di alquanti secoli e generazioni. Nella visione romana il passato forniva i modelli di comportamento per la vita privata e pubblica, il mos maiorum, era funzionale a canonizzare quei valori su cui si fondavano la pacifica convivenza sociale e le gerarchie interne della società, riflesse nelle strutture gestionali del potere. Nella pratica repubblicana, il governo dello stato veniva consegnato a una cerchia circoscritta di famiglie, la nobilitas senatoria, i cui esponenti erano legittimati a decidere delle sorti di Roma in virtù di quelle competenze nell'amministrazione ereditate dai loro antenati, in una visione che valorizzava la funzione educativa della storia, magistra vitae nell'arte della guerra e del comando. La memoria non esauriva le sue funzioni all'interno dei confini patri; essa rispondeva anche all'obiettivo di presentare Roma all'esterno e giustificarne le ambizioni egemoniche presso quei popoli su cui l'Urbe mirava a estendere il suo dominio o che sarebbero stati spettatori della sua politica di conquiste. 2. La tradizione prestoriografica Prima della nascita della storiografia, la definizione, la conservazione e la di vulgazione della storia passata vennero affidate a strumenti diversi, che insieme alle fonti letterarie concorsero alla trasmissione della memoria anche dopo il III secolo a.C.: l'oralità, la comunicazione visiva, la scrittura non letteraria. I documenti riferibili a questo processo, la cosiddetta tradizione prestorio-grafica, ebbero natura privata e pubblica, vennero utilizzati contestualmente o singolarmente e furono rivolti a referenti omogenei o diversificati, ma sempre, furono espressione della classe dirigente, ebbero contenuti politico-militari, si configurarono come l'esito di iniziative non individuali ma collettive e subirono il condizionamento delle volontà autocelebrative che erano la ragione del loro stesso concepimento e che talvolta minarono la loro attendibilità storica. L'oralità rappresentò per secoli uno degli strumenti principali per conservare la memoria familiare, che assumeva i tratti di storia nazionale in un contesto in cui erano le gentes a detenere il potere attraverso l'esercizio di magistrature e incarichi militari. Nel corso dei banchetti, pratica che le aristocrazie romane acquisirono dalle élite greche ed etrusche in età monarchica, i convitati o giovani esponenti della famiglia ospitante recitavano, accompagnati dal flauto, i carmina convivalia: poemetti epici incentrati sulle eroiche imprese degli esponenti della gens, che divenivano modelli, assolvevano la funzione di trasmettere il codice di valori condivisi dalla classe dirigente e accrescere al suo interno il senso di appartenenza. Dalla nascita della repubblica, anche i funerali aristocratici rappresentavano occasioni per il consolidamento della memoria familiare e la sua valorizzazione in dimensione collettiva. Il capo della gens nel Foro, al cospetto dell'intera cittadinanza, pronunciava un discorso commemorativo, la laudatio funebris. Riepilogando le gesta eroiche del defunto e le virtù che avevano guidato la sua esistenza, ma ricordandone anche gli antenati, l'oratore ripercorreva il contributo assicurato dalla famiglia dello scomparso alla grandezza di Roma; tali meriti legittimavano le ambizioni di leadership presenti e future degli esponenti di quel nucleo familiare agli occhi della cittadinanza, che attraverso queste “lezioni di storia” imparava a conoscere il proprio passato. La connotazione celebrativa determinava possibili alterazioni della memoria storica, confluite nelle fonti storiografiche che si avvalsero quali basi documentarie di tali testi nella loro traduzione scritta, conservata negli archivi familiari. Questa produzione influenzò lo sviluppo del genere biografico. Polibio, attento osservatore esterno dei costumi e delle istituzioni romane, rileva questa specificità: quando si celebra a Roma il funerale di un cittadino illustre, questi è portato con ogni pompa nel foro presso i rostri, per lo più in piedi, raramente supino. Alla presenza di tutto il popolo un suo figlio maggiorenne, o altrimenti il suo parente più prossimo, sale sulla tribuna e parla del valore del morto e delle imprese che egli ha compiuto durante la vita. L'oratore incaricato della lode funebre, dopo aver parlato del morto, ricorda le imprese e i successi dei suoi antenati cominciando dal più antico; così la fama degli uomini valorosi, continuamente rinnovata, è fatta immortale, mentre la gloria dei benefattori della patria viene resa nota a tutti e tramandata ai posteri. Prezioso vettore per la divulgazione delle vicende del passato era la produzione scultorea, che abbelliva Roma raccontando la sua storia a cittadini e ospiti. La memoria era anche affidata alla pittura: dipinti di soggetto storico impreziosivano le pareti delle tombe, soprattutto quelle di edifici con destinazione istituzionale e religiosa. Anche la scrittura esercitò un ruolo fondamentale nella codificazione della memoria precedente alla nascita della storiografia. L'atrio delle residenze aristocratiche rappresentò la sede di conservazione ed esposizione di testi scritti destinati a eternare il ricordo del passato: dalla fine del III secolo a.C. le immagini degli antenati scolpite sulla pietra, erano accompagnate da sintetici testi in versi, gli elogia, che ricordavano l'onomastica del personaggio raffigurato, la sua carriera civile e militare, e le sue virtù che valorizzavano il linguaggio epigrafico nella promozione familiare e 264 e il 146 a.C., e sull'organizzazione istituzionale dell'Urbe attraverso il filtro delle categorie del pensiero greco. Mediante la sua ricostruzione dei fatti, giustificava il predominio romano presso un pubblico straniero, vittima degli abusi della potenza conquistatrice, oltre a istruire le generazioni coeve e future di politici romani chiamati al governo dell'ecumene: così sarà opportuno descrivere la condotta dei vincitori e il loro metodo di governo e considerare le reazioni e il comportamento dei sudditi verso i governanti, inoltre bisognerà esporre le tendenze e le ambizioni che predominavano presso le varie genti, tanto nella vita privata, quanto nei pubblici governi. Da ciò apparirà chiaro ai nostri contemporanei se il predominio dei Romani sia da evitare o da desiderare; ai posteri se si debba giudicare il loro potere degno di lode e di invidia o di biasimo. Nella tarda repubblica si assistette al ridimensionamento dell'omogeneità e della coesione interna dell'aristocrazia sia per l'emergere di individui, famiglie e gruppi di potere in precedenza esclusi dalla decisione politica, sia per il maturare di reiterate contrapposizioni, formalizzate nella costituzione delle due fazioni degli ottimati e dei popolari. Gli storiografi non rappresentavano più il sentire collettivo della classe dirigente. Essi riflettevano il punto di vista chi di un leader chi di un altro; giustificavano l'affermazione personale di coloro che detenevano il potere anche in violazione delle leggi; costruivano storie gentilizie di dubbia attendibilità a beneficio di quanti, immessi nella classe dirigente in conseguenza delle proprie ricchezze e capacità militari, erano tuttavia sprovvisti della nobiltà di natali, (condizione imprescindibile per la carriera politica). Così la crisi maturata tra il II e il I secolo a.C. determinò lo sviluppo della seconda e della terza annalistica, che mantennero la scansione annuale dei fatti e la prospettiva temporale canonica, dalle origini all'età contemporanea, ma nelle quali ogni autore rifletteva la posizione della parte politica in cui si identificava, talvolta ottimate, talaltra popolare. Scritta in latino, questa produzione storiografica ambiva a tradursi in racconti di piacevole lettura. La carenza di informazioni attendibili su un passato molto lontano induceva gli autori a manipolare la memoria, ridefinendo gli eventi mediante calchi dalla meglio documentata storia greca o dalle più note vicende contemporanee e attribuendo ai protagonisti iniziative non attestate ma compatibili con il loro profilo psicologico. li tormentato contesto del II-I secolo a.C. suggerì che si rivolgesse l'attenzione alle vicende dei singoli protagonisti della scena politica. Esse furono valorizzate in scritti riconducibili a generi letterari diversi. Così si composero commentari, riferiti a una singola impresa, descritta in forma cronachistica e in terza persona dal suo protagonista, come nel caso di Cesare. Si scrissero autobiografie, forme di celebrazione dell'azione personale dell'autore come gli scritti di Silla, e biografie, attraverso cui una terza persona ottemperava allo stesso obiettivo elogiativo e giustificativo. Noto autore di biografie fu Cornelio Nepote, la cui opera più fortunata fu lo scritto De viris illustribus, pubblicato tra il 35 e il 32 a.C. Attraverso le biografie di romani e stranieri, ripartiti per professione, l'autore si proponeva di fornire esempi di virtù da emulare. Gli stravolgimenti politici in corso sollecitarono l'interesse dei lettori sui fatti di attualità: essi si rivelavano più attraenti degli autorevoli esempi del passato che, con finalità moralizzatrice, erano evocati nella storiografia precedente. Si affermò il genere delle Storie. Esse si distinsero dagli Annali per la rinuncia a una prospettiva temporale universale a favore della valorizzazione di un solo periodo, coincidente con la storia contemporanea, e per la preferenza accordata all'interpretazione analitica degli eventi nei loro nessi causali e nelle finalità sottese a ciascuna azione. Le storie, allora, sono l'esposizione o la descrizione dei fatti avvenuti, mentre si hanno gli annali quando vengono riepilogati i fatti svoltisi in più anni osservando la successione temporale, anno per anno. Se poi i fatti sono riportati non anno per anno ma giorno per giorno, allora questo tipo di storia è detto con la parola greca efemeride. La trasformazione nel gusto del pubblico non determinò la fine di ogni interesse nei confronti della storia meno prossima. Essa incise nel nuovo genere della monografia storica, che focalizzava l'attenzione dei lettori su singoli episodi del passato, più o meno recente, ma li selezionava sulla base delle loro ricadute nel presente, e quindi della loro importanza nella comprensione delle criticità del mondo contemporaneo; così impostò la sua produzione Sallustio. Analogamente una valorizzazione della storia pregressa, si registrò nell'antiquaria, genere reso celebre da Varrone, che ricostruiva le origini (la nascita di istituzioni, culti, costumi, leggi) contribuendo alla riscoperta del valore della tradizione. Il successo di questi generi storiografici presso i contemporanei e i posteri si dovette alla qualità degli scritti e all'elevato profilo dei loro autori, protagonisti sulla scena politica del tempo e sostenitori dell'importanza della storiografia nell'ambito dei loro sforzi propagandistici. Giulio Cesare scrisse la sua opera storiografica, i 10 libri di Commentari sulla guerra gallica e su quella civile, quando la sua affermazione politica era compiuta. Governatore delle Gallie, poi dittatore, soddisfece anche con i suoi scritti l'esigenza di consolidare la sua visibilità, in una dimensione che andasse oltre il tempo presente, e di giustificare, attraverso l'affermazione del suo punto di vista, l'irregolarità istituzionale di alcune sue iniziative e taluni fallimenti della sua azione militare e politica. Per questo scopo ricorse a un genere, il commentario, sperimentato nella tradizione greca. Intellettuale, autore di trattati scientifici, di poesia, di oratoria, Cesare doveva essersi formato sulla letteratura greca di età classica ed ellenistica, la cui eco si coglie nei suoi Commentarii; essi come l'Anabasi di Senofonte raccontavano l'affermazione di un grande comandante; come La guerra del Peloponneso di Tucidide scandivano il racconto sulla misura dell'anno, nei due distinti momenti fondamentali nella vita militare, dell'estate e dell'inverno; come le Storie di Erodoto aprivano spazi narrativi a un'accurata etnografia. Nel corso delle sue campagne Cesare attuava il suo progetto di conquista e impostava con i suoi eserciti un rapporto personale che li avrebbe resi il nucleo del suo potere. Nel contempo conservava memoria dei fatti, in prima persona e attraverso i suoi collaboratori. L'intervento dell'autore non si tradusse nell'esercizio di opzioni narrative utili a far interpretare al pubblico la storia dalla prospettiva di Cesare. Così si adottò uno stile all'apparenza immediato e semplice, per celare l'artificio sotteso alla costruzione del messaggio. Si individuò una gerarchia di priorità nell'attenzione del pubblico, ubicando nel racconto i diversi avvenimenti, talvolta in un ordine altro rispetto a quello del loro effettivo svolgimento per alterarne i rapporti causali. Si ritoccarono i dati numerici, ad esempio delle perdite subite, con il fine di giustificare la propria condotta. Si costruì la sintassi del testo in modo tale da rendere ricorrente il nome di Cesare al nominativo, per ricondurre a lui solo la paternità delle imprese raccontate, e per sfruttare le tecniche di memorizzazione, che premiano la ripetizione che garantisce nelle menti dei lettori tale nome, evocativo del ruolo di leadership esercitato dal suo detentore, si imprima saldamente. Nell’esperienza cesariana la memoria storica costituiva uno degli strumenti privilegiati dell'attività di un politico di primo piano nelle fasi cruciali della sua ascesa. Nei Commentarii Cesare descriveva in 7 libri la sua campagna di conquista della Gallia, tra il 58 e il 52 a.C., e poi, in 3 libri, la guerra civile combattuta contro Pompeo, tra il 49 e il 48 a.C. In età antonina i 10 libri vennero ripartiti in due unità, la prima comprensiva dei primi 7, la seconda degli ultimi 3. I più prossimi collaboratori di Cesare compresero precocemente l'efficacia nella lotta politica del tempo dello strunento storiografico nella forma adottata dal dittatore. Scrissero la prosecuzione dei Commentarti cesariani: l libro De bello Alexandrino, l libro De bello Africo e l ultimo De bello Hispaniensi. L'obiettivo risiedeva nel costruire una memoria dei fatti della guerra civile favorevole alla parte del dittatore. Fautore di Cesare fu Sallustio, egli era espressione della nobiltà municipale immessa nella classe dirigente romana nel contesto delle turbolenze della tarda repubblica. Investito di incarichi di rilievo per volontà di Cesare, ne acquisì la lezione anche in ambito storiografico: Sallustio utilizzò i propri scritti come strumento politico nella tutela dell'immagine del dittatore e dei suoi seguaci dopo il cesaricidio. I suoi scritti storici assolvevano la funzione di illustrare i meccanismi della vita politica e di individuare le ragioni della crisi, favorendo un processo di moralizzazione della classe dirigente. A questa duplice finalità, pedagogica ed etica, rispondeva la scelta di scrivere monografie, una formula espositiva che consentiva di soffermare l'attenzione su quei contesti specifici in cui erano maturati i problemi della Roma del tempo di Sallustio, per poi applicare la cura al presente. La prima monografia, il De Catilinae coniuratione, composta all'indomani del cesaricidio, portava l'attenzione sul triennio 65-63 a.C., quando era maturata ed era stata sventata la congiura che ne rappresentava l'argomento principale. Organizzata da un nobile decaduto, muoveva dall'obiettivo di rovesciare i poteri costituiti attraverso l'assassinio del console in carica, Cicerone. In una prospettiva di riabilitazione dell'immagine del dittatore di fronte alla ingiuriosa rilettura della sua azione politica da parte dei cesaricicli, la monografia negava ogni coinvolgimento di Cesare nei fatti criminosi del 63 a.C. Sallustio compose il Bellum Iugurthinum: l'opera raccontava il conflitto combattuto alla fine del II secolo a.C. dalle legioni contro il re di Numidia. Tramutatosi da amico in nemico di Roma per le proprie brame di dominio, Giugurta sarebbe stato poi sconfitto da Gaio Mario. La corruzione sperimentata con numerosi esponenti della classe dirigente romana dal re (secondo il quale nell'Urbe tutto era in vendita), descriveva la progressiva degenerazione dei costumi dei Romani che aveva determinato la crisi del tempo. il progetto storiografico di Sallustio nelle sue ambizioni originarie non si sarebbe concluso con questi due scritti, ma avrebbe dovuto prevedere numerose monografie la cui lettura complessiva ricostruisse l'intera storia romana. L'impegno richiesto era superiore alle forze e alle aspettative di vita dell'autore, che ripiegò sul genere delle Storie, perpetuando attraverso una soluzione espositiva più agile l'interesse nei confronti della contemporaneità. Pervenute in forma lacunosa, le Historiae si articolavano in 5 libri, nei quali raccontavano gli eventi verificatisi tra il 78 e il 67 a.C., proseguendo la narrazione di Sisenna, conclusasi con il consolato di Lepido, e conducendo il lettore fino ai fatti descritti nella prima monografia. Concentrando l'attenzione su un periodo dominato dai “signori della guerra”, che si imponevano attraverso il controllo degli eserciti in guerre civili e agivano per la propria affermazione personale, Sallustio contestava una pratica politica che minava i fondamenti istituzionali e morali dello stato. Analoghi contenuti, le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica, del 50 a.C. e del 48 (o 46) a.C., la cui paternità non è certa ma che parte della critica attribuisce a Sallustio. In esse l'autore si rendeva promotore di una condanna della corruzione delle casate conservatrici ma esprimeva anche timori nei confronti delle aperture al popolo. La tradizione romana, nelle sue forme precedenti e successive alla nascita della storiografia, rappresenta il patrimonio informativo di riferimento anche per un altro genere che ebbe ampia diffusione e riscosse estesi consensi nella tarda repubblica, ovvero l'antiquaria. La delicatezza delle questioni politiche sul tappeto, soggetto di Annali e Storie, induceva non pochi storici a optare per argomenti meno spinosi, distogliendo la loro attenzione dal presente e rivolgendola al passato e in particolare alle origini di istituzioni, costumi e culti, alla storia di monumenti e documenti, alle ragioni storiche di prassi linguistiche, grammaticali e onomastiche, alle genealogie. Fondata a Roma da Lucio Elio Stilone Preconino, l'antiquaria conobbe la sua maggior fortuna grazie all'allievo di questi Marco Terenzio Varrone. Varrone apparteneva a una famiglia entrata a far parte della classe dirigente romana e manteneva legami con i personaggi della politica del suo tempo. Protagonista di una carriera politica di rilievo, sostenne Pompeo Magno e si fece promotore di una strategia di larghe intese che vedesse dialogare esponenti di parte conservatrice e popolare con la forza economica dello stato: il ceto equestre. Ritiratosi a vita privata dopo l'affermazione di Cesare, Varrone ottenne dal dittatore l'incarico di dirigere la prima biblioteca pubblica che si stava costituendo e di cui, dopo la morte di Varrone, avrebbe assunto la responsabilità Asinio Pollione. Attraverso una produzione storiografica estesissima e per buona parte perduta, Varrone ricostruì la storia culturale romana. I suoi interessi multiformi lo portarono a occuparsi di questioni diverse: linguistiche e grammaticali giuridiche, storiche, istituzionali e religiose, retoriche e filosofiche, geografiche e scientifiche, anche funzionali alle esigenze della vita politica e militare. Tali competenze trovarono una sintesi nell'opera enciclopedica Disciplinae, che dedicava: - 3 libri alle arti letterarie: grammatica, dialettica, retorica; - 4 alle scienze esatte: geometria, aritmetica, astronomia, musica; - 2 alle discipline tecniche: medicina e architettura. Essa costituiva una summa della cultura romana, esito dell'innesto delle conoscenze acquisite dai Greci. Come testimoniano i molti generi che maturarono nella tarda repubblica, in questo periodo la storiografia registrò l’affermazione del latino come lingua veicolare; il greco continuò a essere utilizzato da autori che, di origine greca ma integrati nell'impero romano, ponevano l'Urbe al centro delle loro narrazioni storiche. Così ad esempio Dionigi di Alicarnasso, maestro di retorica a Roma, a contatto con le personalità di spicco della politica e dell'élite culturale, scrisse in greco le Antichità romane: incentrate sulla storia di Roma dalle origini alla prima guerra punica, esse tradivano la volontà del loro autore di connettersi a Polibio, le cui Storie prendevano avvio dal 264 a.C. Dionigi elaborò un’interpretazione del passato filo-romana e intesa a giustificare al cospetto di un pubblico grecofono la politica imperialista dell'Urbe e a indicare alla classe dirigente romana bilingue gli illustri protagonisti del passato quali modelli di comportamento. In lingua greca era stata composta anche la Biblioteca storica di Diodoro Siculo, riconducibile al genere della storia universale. La narrazione si estendeva dalle origini del mondo alla campagna di Cesare in Britannia, nel 54 a.C., in una narrazione che si proponeva di raccontare la storia passata come un processo unitario e non distinto a seconda delle potenze dominatrici dei diversi periodi e nei differenti quadranti geografici. Come attesta la diffusione di questi scritti, nel I secolo a.C. Roma si avviava a divenire un impero territoriale bilingue. 4. Una memoria che cambia: La storiografia imperiale tra continuità e trasformazione In età alto-imperiale la storiografia conobbe significative in novazioni, esito delle profonde trasformazioni sociali e istituzionali in atto. Condizionarono un'attività culturale ancora strettamente connessa alla politica l'affermazione al vertice dello stato di una singola famiglia e, nell'ambito di quest'ultima, di un solo individuo, il principe; e il ridimensionamento nella vita cittadina del ruolo delle assemblee popolari e del senato e l'emergere della domus principis quale luogo privilegiato della politica. Questo assetto determinò condizioni nuove e di ostacolo all'attività storiografica: la segretezza di molti processi decisionali, e la carenza di informazioni per coloro i quali ne erano esclusi; la mancanza del coinvolgimento diretto negli eventi e nelle funzioni di magistrati e ufficiali che in passato aveva reso gli storici testimoni competenti; lo sforzo dei prìncipi di accreditare una memoria a loro favorevole, anche attraverso la stesura di propria mano di scritti storici, e la consequenziale limitazione della libertà politica, condizione imprescindibile per la promozione della ricerca storica; la concentrazione dell'attenzione sul protagonista assoluto della politica, l'imperatore. La storiografia ripropose ancora il punto di vista della classe al potere, costituita dai senatori e ora anche dagli esponenti della corte; mantenne un'attenzione privilegiata per Roma e per l'Italia, relegando a un ruolo secondario le province; si avvalse dei generi sperimentati dagli storiografi romani nel passato. La storiografia di età alto- imperiale si configurò come l'esito di quelle contrapposte esigenze di prosecuzione di una tradizione riconosciuta nella sua autorevolezza e di adeguamento a una realtà trasformata che caratterizzavano molte esperienze del I secolo a.C.; valorizzò generi già affermati ma produsse anche sperimentazioni di maggiore e minore efficacia. In età augustea il modello annalistico trovò splendida applicazione negli Ab urbe condita libri di Tito Livio. Essi raccontavano in 142 libri la storia dell'Urbe dalla fondazione alla morte di Druso, figlio di Livia, nel 9 a.C. Forse nel progetto originario dovevano estendersi, in complessivi 150 libri, fino agli eventi del 9 d.C., quando tre legioni erano state annientate dai Germani nella Selva di Teutoburgo, inibendo ogni progetto di espansione romana verso nord oltre il confine individuato dai fiumi Reno e Danubio. Livio distribuì la materia in proporzioni non omogenee, riservando uno spazio più esteso all'età contemporanea, più di interesse per i suoi lettori. Accanto alla produzione storiografica, in questi anni Tacito, forse si dedicò alla composizione del Dialogus de oratoribus, di paternità incerta ma a lui attribuito. Lo scritto si sostanzia in una riflessione, in forma di dialogo, sulle ragioni che determinarono la crisi dell'oratoria, da taluni imputata a una diminuzione delle conoscenze tecniche da parte dei retori, da talaltri attribuita alle condizioni politiche di età imperiale che limitarono la libertà, incidendo nella pratica oratoria. Intorno al 100 d.C. Tacito concepì un progetto ambizioso: raccontare la storia del principato giulio-claudio, dalla morte di Augusto all’anno dei 4 imperatori che fece seguito alla morte di Nerone. Sembra che lo storico non abbia ultimato il suo lavoro, forse impedito dalla morte, e l'opera, che doveva costituirsi in 30 libri, è mutila. La ripartizione della materia in libri non è chiara. Sulla base di quanto pervenuto, sappiamo che Tacito dedicò gli Annales - forse in 18 libri di cui 12 parzialmente conservati (al periodo compreso tra la morte di Augusto, nel 14 d.C., e quella di Nerone, nel 68 d.C.), e le Historiae, forse in 12 libri di cui 5 parzialmente conservati (al 68- 98 d.C. dalla morte di Nerone a quella di Domiziano), ma sopravvivono solo i libri che descrivono i fatti del 68-70 d.C. (quando si alternarono al potere Gaiba, Otone, Vitellio e infine Vespasiano). Le Historiae, composte tra il 106 e il 110 d.C., raccontano gli avvenimenti che traghettarono Roma dalla gestione giulio-claudia a quella flavia, riservando l'attenzione alla questione della successione, ovvero alle diverse forme in cui essa si produsse dopo l'instaurazione del principato e alle conseguenze che comportò per lo stato romano l'adozione di una modalità di designazione del principe rispetto a un'altra. Protagonisti del discorso tacitiano sono i prìncipi a vario titolo insediati, ma anche il senato, piegato ad assecondare il più forte, e alcuni uomini di valore, espressione del gruppo degli alti ufficiali. Se i primi libri riflettono il clima cupo degli anni dei disordini, alla fine si percepisce il sollievo per l'affermazione della nuova dinastia flavia, garante del ritorno alla legalità. Tra il 115 e il 120 d.C. Tacito compose gli Annales: il titolo più che indicare il criterio di organizzazione della materia, che non segue rigidamente la scansione annuale, è funzionale per lo storico a innestare la sua opera nel solco di una tradizione storiografica, rilevando il suo sentire conservatore. Incentrati sulla prima dinastia al potere, gli Annales si configuravano come riflessione sul nuovo assetto accordato all'impero attraverso la sperimentazione augustea: il principato rappresentava la sola soluzione istituzionale possibile per il futuro di Roma, ma la pace era garantita al prezzo della libertà; il senato aveva perduto il suo rigore e le sue competenze. L'opera rispondeva alla volontà di ricordare, e quindi indicare come modello ai contemporanei e ai posteri, le gesta degli uomini del passato. Sopravvivevano figure come Germanico, il cui ritratto risultava condizionato dall'idealizzazione dello storico, ma nella narrazione tacitiana si stagliavano anche personaggi negativi, come Tiberio, anch'egli oggetto di una eccessiva demonizzazione. Il mondo descritto da Tacito si distingueva da un passato glorioso per il diffondersi della corruzione e per questo metteva a rischio la propria grandezza in una prospettiva di decadenza. Il racconto tacitiano è l'esito del sentire dello storico ma anche del ricorso a fonti diverse e attendibili: documenti ufficiali, archivi privati, le opere dell'enciclopedista Plinio il Vecchio a cui Io storico aveva un accesso agevolato perché amico del nipote Plinio il Giovane, scritti di poesia. L'alto impero è il soggetto anche di parte della produzione storiografica di Svetonio sopravvissuta dall'antichità. Esponente dell'ordine equestre, probabilmente laziale, legato a personaggi di spicco della politica romana come Plinio il Giovane, sotto gli imperatori Antonini Svetonio assunse incarichi di primo piano nell'amministrazione, prima di cadere in disgrazia durante il governo di Adriano: fu responsabile degli archivi imperiali, direttore delle biblioteche di Roma, preposto alla corrispondenza del principe. Affiancò a tali impegni pubblici, che gli consentirono di accedere a fonti epigrafiche, letterarie e orali pubbliche e private numerose e di notevolissimo rilievo, un'intensa attività di intellettuale, che si tradusse in una produzione ricca ed eterogenea. Perduti gli scritti di grammatica e di linguistica, di costume su spettacoli e giochi, di storia naturale, di mitologia, di storia delle istituzioni noti attraverso i titoli, sopravvivono due opere di taglio biografico, il De viris illustribus e il De vita Caesarum, ragione per la quale nell'immaginario dei moderni, ma diversamente dalla realtà dei fatti, Svetonio fu un biografo. II De viris illustribus, pubblicato nel 113 d.C., è la più antica tra queste opere. Raccontava in 5 libri le biografie di intellettuali, tutti romani: poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori. Sono sopravvissute buona parte del libro dedicato a grammatici e retori e alcune vite di poeti illustri (es: lo storico Plinio il Vecchio). Anche il De vita Caesarum è fonte molto importante di notizie altrimenti ignote. Rassegna delle biografie di 12 imperatori, da Giulio Cesare (forzando la realtà storica di un'esperienza di governo che non fu imperiale) a Domiziano, l'opera, pubblicata intorno al 120 d.C., si sviluppa in 8 libri. Ogni ritratto viene delineato secondo la stessa formula descrittiva, muturata dalla biografia alessandrina: si apre con le notizie sulla nascita, la famiglia, la giovinezza, seguendo un ordine cronologico consequenziale fino all'ascesa alla porpora; l'organizzazione temporale riprende negli ultimi paragrafi, dedicati alla morte, al funerale, al testamento, ma è abbandonata nella sezione centrale, che assume dimensioni diverse nelle differenti biografie, in cui si procede per registri tematici. Scarsamente attento agli aspetti istituzionali, il De vita Caesarum deve agli interessi dell'autore e ai suoi materiali informativi una straordinaria documentazione in particolare sulla vita privata dei prìncipi: fonti storiografiche, verbali del senato, cronache delle assemblee popolari e della vita cittadina, testamenti, carteggi degli imperatori, ufficiali e privati, opere letterarie a firma dei prìncipi, ma anche testimonianze orali dei suoi contemporanei, memorie di membri della domus principis e degli ufficiali dell'esercito, iscrizioni pubbliche e private che ricoprivano le pareti degli edifici dell'Urbe. Tale ricchezza informativa fu riconosciuta e apprezzata in antico, tanto che molti storici successivi si avvalsero di Svetonio come propria fonte privilegiata. L'obiettivo dell'opera risiedeva nel delineare un attendibile e documentato profilo biografico dei singoli prìncipi, senza l'ambizione di definire un quadro evolutivo della storia imperiale. Questa attenzione all'attendibilità delle fonti informative e alla contestualizzazione dei singoli fatti in un tessuto evenemenziale coerente garantisce il carattere di scritto storico a quest'opera di impostazione biografica, in una prospettiva che non vincola la storicità al genere ma all'approccio metodologico alla materia. Tra la seconda metà del II e la prima del III secolo d.C. la storiografia romana cambiò volto. Il principato degli Antonini e il governo dei Severi garantivano condizioni di stabile armonia tra principe, senato ed élite al potere; si registrava un'apprezzabile crescita economica e una situazione di benessere diffuso nell'impero coincideva con un periodo di sicurezza delle frontiere. Tali condizioni favorevoli determinarono il venir meno delle premesse essenziali per la ricerca storica. La situazione del tempo favorì, invece, l'approccio antiquario alla storia, che valorizzava le radici della civiltà romana indagata negli aspetti della loro genesi nei tempi più antichi. La decisione degli imperatori di questo secolo: Traiano, Adriano e Marco Aurelio di trascorrere lunghi periodi del loro principato lontano da Roma, spinti da personali esigenze culturali, dalla propria visione dell'impero o da emergenze militari, causò la perdita della centralità di Roma e dell'Italia: ciò determinò lo spostamento anche del baricentro degli interessi degli storici, che rivolsero la loro attenzione alle province, distogliendola da temi canonici quali i rapporti tra principe e senato e la vita di corte. La disponibilità di una crescente documentazione sulle questioni economiche e sociali, e sulla vita delle classi subalterne, direzionò lo sguardo degli storici su tali nuovi soggetti (in precedenza trascurati dalla storiografia). La rapida integrazione nella classe dirigente romana delle élite orientali, i cui esponenti sedevano in senato, ricoprivano le più alte cariche istituzionali, entravano a far parte della corte imperiale, determinò, in parallelo all'affermazione del bilinguismo nell'impero, lo sviluppo di una storiografia in lingua greca i cui autori vantavano quella esperienza diretta nell'amministrazione dell'impero che nei secoli precedenti aveva caratterizzato molti degli storiografi latini; essi legittimavano il potere imperiale romano riproponendo l'ideale ellenistico della monarchia illuminata. In età flavia aveva utilizzato il greco per la sua storiografia l'ebreo Flavio Giuseppe, che aveva raccontato la storia del suo popolo nelle Antichità giudaiche, dalle origini alla rivolta del 66 d.C., e nella Guerra giudaica, divampata tra il 66 e il 70 d.C. Nella convinzione che l'impero romano rappresentasse una realtà unitaria, esito di un impegno espansionistico dipanatosi nei secoli, Flavio Giusepppe raccontava gli avvenimenti succedutisi dalle origini al principato di Traiano, soffermandosi sulle diverse aree geografiche che erano entrate a far parte dell'impero romano e menzionandole in una sequenza che rispondeva ai tempi della loro annessione; i soli 5 libri dedicati alle guerre civili della tarda repubblica (13 - 17) erano organizzati secondo un criterio temporale. Seguendo un gusto per la biografia, Plutarco di Cheronea compose in greco le Vite parallele, una raccolta di 50 biografie, 46 delle quali costituiscono 23 coppie che mettono a confronto un romano con uno straniero, tra loro accomunati da esperienze di vita, tratti del carattere o altre specificità. le Vite parallele scaturivano dal convincimento che la storia rispondesse a una vocazione pedagogica e che i modelli rappresentassero l'indicazione più facilmente intellegibile per orientare correttamente i comportamenti, condizionati dalla natura di ciascun individuo ma plasmabili anche dalla corretta educazione. In greco scrisse anche Cassio Dione Cocceiano, che fu il vero erede della storiografia senatoria latina. Senatore bitinico, bilingue, durante il principato degli Antonini e dei Severi ricoprì importanti incarichi fino a raggiungere, nell'età di Severo Alessandro, il consolato ordinario. Compose la Storia romana, in greco, in 80 libri, dedicati alla storia di Roma dalle origini al 229 d.C., anno del suo consolato. Pervenuta in forma gravemente mutila, l'opera scandisce la materia secondo il criterio annalistico. L'esigenza dell'attendibilità del racconto è avvertita come primaria dallo storico, che dedicò quasi 10 anni alla ricerca dei documenti su cui fondare il suo scritto; tuttavia la difficoltà di raccogliere informazioni corrette per le modalità della vita politica di età imperiale non sempre gli consentì di raggiungere il risultato che si prefiggeva. L'affidabilità dello scritto pare in talune pagine compromessa dalla volontà dell'autore di individuare nel passato dei modelli da presentare ai potenti del suo tempo, volontà che lo indusse a rileggere arbitrariamente le vicende passate. Si diffuse nel contempo la tendenza degli autori a individuare i propri modelli negli storici del passato, le cui opere furono oggetto di compendi nella forma di epitomi, sintesi di opere precedenti, e breviari, scritti riassuntivi su argomenti specifici. Così Lucio Anneo Floro nella prima metà del II secolo d.C. compose un'Epitoma de Tito Livio, una storia universale di Roma dalle origini al 2 a.C., in 2 libri, incentrata sugli eventi bellici (guerre esterne nel primo libro; interne nel secondo) e fondata sullo storico patavino ma che dimostra anche la conoscenza di Catone, Cesare, Sallustio, Virgilio, Seneca Retore. Con quest'ultimo Floro condivideva la concezione biologica della storia che, come un essere umano, conobbe un'infanzia (identificabile nell'età monarchica), un'adolescenza (coincidente con l'età protorepubblicana), una maturità (la media repubblica e il principato di Augusto), una vecchiaia (l'età imperiale) e una seconda giovinezza (corrispondente all'età antonina). 5. La storiografia tardo-antica pagana e cristiana Dopo l’esperienza dell'anarchia militare, quando il governo tetrarchico sembrò riportare nell'impero romano un nuovo ordine e prospettive concrete di serenità, e in seguito sotto la guida di Costantino e negli anni dei suoi eredi, di Giuliano, della dinastia valentiniana e di Teodosio gli storiografi romani ripercorsero le orme dei grandi autori dell'alto impero, seppure con esiti spesso più modesti. Ritornare al passato esemplare rispondeva a molteplici esigenze. Era funzionale a rassicurare di fronte ai mali del presente: le invasioni, le difficoltà economiche tra le necessità di larga spesa del governo e il fiscalismo esasperato, le tensioni progressive tra Oriente e Occidente. Concorreva anche a legittimare uno stato che ora era attraversato da una crisi ma che in passato era stato garante di secoli di splendore. In questa prospettiva di recupero delle radici romane, continuarono a suscitare l'interesse del pubblico epitomi e breviari, scritti di taglio biografico e opere di storia universale. La novità più evidente fu rappresentata dall'affermarsi a di un nuovo soggetto: i cristiani. Costoro divennero tema ricorrente sia in scritti pagani che cristiani e le modalità dell'approccio degli autori non cristiani furono eterogenee, traducendosi talvolta in neutralità, talvolta in diffidenza o aperta ostilità, talvolta, in curiosità, rispetto e ammirazione. La più apprezzata epitome del IV secolo d.C. fu composta da Eutropio. Italico, uomo politico di spicco, caduto in disgrazia dopo aver rivestito il proconsolato d'Asia, scrisse il Breviarium ab urbe condita, attraverso il quale in 10 libri raccontava la storia di Roma dalle origini al principato di Gioviano, nel 364 d.C. Protagonisti indiscussi erano gli imperatori, lo scritto rappresentava un compromesso tra: - il genere annalistico: che connotava la ripartizione della materia ed era acquisito dalla fonte principale, Livio, - la biografia: che rispondeva ai gusti del tempo e rappresentava il genere di molte fonti utilizzate da Eutropio, il quale fece ricorso a Svetonio e a diverse cronache imperiali. Il successo del Breviarium ne determinò una traduzione in greco nel IV secolo d.C., e l'utilizzo come fonte da parte di storici successivi, quali Girolamo e Orosio. Ispirato allo scritto di Eutropio, ma concluso nelle limitate dimensioni di un terzo del suo modello, fu il coevo Breviarium di Rufo Festo Avieno, che sembra l'esito anche del ricorso a fonti diverse, accessibili a Festo grazie agli incarichi da lui ricoperti nell'amministrazione imperiale. Si distingue dal lavoro di Eutropio nell'organizzazione dei contenuti, che in questo caso era geografica e riservava attenzione alle province e alle modalità e ai tempi della loro annessione. Di poco precedente a questi due breviari è uno scritto di autore anonimo che valorizza l'approccio biografico, concentrando il racconto sulle gesta di un solo personaggio: Alessandro Magno. L’itinerarium Alexandri fu composto intorno al 340 d.C., indirizzava l'attenzione su storie che avevano catalizzato l'interesse dei lettori senza soluzione di continuità nel corso dello sviluppo della storiografia romana. La passione per le biografie felice espressione, intorno al 360 d.C., nel Liber de Caesaribus di Sesto Aurelio Vittore. Privo di antenati illustri, Vittore entrò in senato e fu protagonista di una brillante carriera che lo portò ad assumere il governatorato della Pannonia e in seguito la prefettura di Roma. La sua opera si sostanziava in una raccolta di biografie inaugurata dalla vita di Augusto e conclusa da quella di Costanzo II, contemporaneo dello storico. Similmente a Eutropio, Aurelio Vittore in un ordito narrativo organizzato nel rispetto della successione cronologica degli eventi privilegiava le biografie dei personaggi. La resa formale accurata riflette la cultura raffinata dell'autore, che tanto apprezzava le doti intellettuali da renderle criterio di giudizio nella valutazione dei singoli prìncipi. Se il giudizio sul governo imperiale risultava positivo, senza eccezioni era la condanna del senato, responsabile della crisi del tempo presente. La più nota e più fortunata raccolta di biografie imperiali composta in età tardo-antica è I'Historia Augusta, ormai nota secondo questo titolo che le venne attribuito nel Seicento. Le 30 Vite da cui è costituita sono ascritte a 6 autori, apparentemente vissuti tra i principati di Diocleziano e Costantino: Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Elio Sparziano, Flavio Vopisco. Tali nomi non sono altrimenti noti e non è, inoltre, possibile riferire a ciascuno di essi la paternità di ben precise Vite: queste circostanze hanno indotto taluni a scorgere dietro all'intera opera una sola mano, celata sotto diversi pseudonimi. Non è certa nemmeno la cronologia, che oscilla tra il IV e il VI secolo d.C. e che sembra oggi più verosimilmente collocarsi tra la fine del IV e l'inizio del V secolo d.C. Le biografie raccontano le vicende dei prìncipi vissuti tra Adriano e Carino e Numeriano (inizio II, fine III sec. d.C.): augusti, cesari, usurpatori. Nella successione mancano le vite di Filippo l'Arabo, Decio, Treboniano Gallo ed Emiliano. Il debito nei confronti di Svetonio, modello dell'Historia Augusta, si traduceva nella perseguita continuità cronologica (è possibile che la vita di Adriano fosse preceduta da quelle di Nerva e Traiano che in questo modo avrebbero ricongiunto l'Historia Augusta al De vita Caesarum che si concludeva con l'anno dei quattro imperatori), ma si manifestava anche nell'organizzazione interna delle biografie, che lasciavano spazio alla trattazione per singole tematiche al di fuori dell'ordine temporale, e nella citazione delle proprie fonti documentarie. Queste ultime nel caso dell’Historia Augusta erano poco attendibili, come molte informazioni sui prìncipi, che risentivano del gusto per il pettegolezzo, e della volontà degli autori di screditare personaggi che non rispondessero al loro paradigma morale. Favorevole al senato, tendenzialmente ostile agli imperatori come agli uomini nuovi, critica nei confronti dei cristiani, l'Historia Augusta sembra espressione dell'area senatoria conservatrice. Nonostante tali ipoteche sul suo Informazioni sulla politica e sulle vicende quotidiane delle élite romane si acquisiscono anche dalle Epistulae di Cicerone, documento di valore, benché espressione del punto di vista di una parte. La scrittura epistolare conserva preziose notizie sulla società di Roma antica anche grazie alla penna di Plinio il Giovane, che in età antonina curò l'edizione delle sue Epistulae concepite fin dalla loro gestazione per la pubblicazione. Lo stesso valore documentario si deve riconoscere alle lettere di Frontone, che nel II secolo d.C. si rivolgeva ai prìncipi, dialogando per scripta in greco e in latino con Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero, alle missive di Libanio, che nel IV secolo d.C. attraverso di esse, conservava notizie significative sull'imperatore Giuliano e la Antiochia del suo tempo, e a quelle di Simmaco che in esse forniva un quadro della classe dirigente romana di quel periodo. Anche il teatro, vettore di comunicazione con un pubblico esteso ed ete ogeneo, costituì uno strumento per costruire e mantenere la memoria storica e per utilizzare il passato, attraverso la valorizzazione di temi e personaggi, anche a fini di propaganda. Commedie e tragedie ospitavano riferimenti alla società del tempo in cui vissero i loro autori, indicatori preziosi per lo storico moderno. Ospitano importanti informazioni storiche anche gli scritti tecnici. Il primo trattato latino di agronomia si deve a Catone il Censore, tra il III e il II secolo a.C. Pervenuto fino a noi,mutilo, lo scritto De agricultura raccoglieva le informazioni necessarie alla produzione agricola, presentando alla classe dirigente romana un modello antico di vita a cui ritornare: Catone descriveva la situazione agraria precedente la devastazione delle campagne prodotta dagli eserciti di Annibale, epoca in cui prevalevano la piccola e media proprietà, affidate manodopera libera. Di agricoltura scrisse anche Varrone, autore dei 3 libri De re rustica, guardando tuttavia alla realtà coeva, caratterizzata dall'affermazione del latifondo. L'attenzione alle questioni economiche e politiche configura questo scritto come testimonianza preziosa per il I secolo a.C. Fonte di informazioni sull'agricoltura romana è anche il De re rustica di Columella, scritto nel I secolo d.C. Pervenuto integralmente, questo manuale conserva uno spaccato prezioso sul periodo in cui visse il suo autore e consente di delineare un quadro evolutivo della realtà agricola. Importanti informazioni sulla vita quotidiana dei Romani conserva il primo trattato di medicina giunto dall'antichità, il De medicina di Celso, vissuto tra l'età augustea e quella tiberiana. Analogamente sugli usi e i costumi dei Romani ci informa Vitruvio, autore di un trattato De Architectura. Accanto agli aspetti tecnici dell'urbanistica e dell'edilizia del tempo, illustrava l'ideologia accreditata da Augusto, il quale attraverso un programma di rinnovamento architettonico si propose di affidare al vettore delle immagini i cardini della sua propaganda, temi ai quali l’autore rimandava nella prefazione del I libro. Di istituzioni e politica, oltre che di strategie belliche e armamenti, fanno menzione i trattati sull'arte militare. Politico attivo e comandante, nel I secolo d.C. Frontino, sulla base della sua articolata esperienza, compose gli Stratagemata, soffermandosi sugli aspetti tecnici delle azioni belliche ma ricordando anche episodi famosi della vita di alcuni generali romani. Nell'età di Teodosio II Vegezio, su sollecitazione del principe, compose l'Epitoma rei militaris, mancando di quella pratica diretta sul campo che aveva connotato l'attività letteraria di Frontino. Interesse per l'indagine storica rivestono gli scritti di carattere enciclopedico, che affrontano una pluralità di temi, connessi a fasi cronologiche diverse, e consentono di ricostruire le conoscenze scientifiche degli antichi in merito a specifiche questioni, connesse con la politica. In questo senso lo scritto più ampio è la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, che in età flavia attinse all'esperienza autoptica e a una estesa rosa di fonti per avvicinare realtà eterogenee del mondo romano; pari interesse doveva suscitare in antico la produzione enciclopedica di Svetonio, di cui nulla è sopravvissuto. Capitolo 8 Le fonti del diritto romano 1. La “metafora” delle fonti del diritto La “metafora” delle fonti del diritto, per cui il termine fonte, accanto al significato di sorgente d'acqua viva, ha assunto quello di inizio, di principio, trasposto poi in quello di fondamento, ha origini antiche ed è presente in quasi tutte le realtà giuridiche. Essa affonderebbe le proprie radici in concezioni mediorientali, greche ed ellenistiche, riguardanti la sovranità dispensatrice di linfa vitale per la comunità e mediatrice tra l'uomo e la divinità, che rimonterebbero a più di 4.000 anni fa. A perpetuare tale “metafora” nel tempo hanno contribuito anche gli scrittori latini. Essa è utilizzata in diverse occasioni da Cicerone per esprimere, più in senso filosofico che in chiave giuridica, l'idea della ragione d'essere del diritto. 2. Le fonti del diritto: enumerazioni e classificazioni Sono diverse le enumerazioni delle fonti del diritto che, a partire dal I secolo a.C., è dato incontrare in opere giuridiche, ma anche in scritti di carattere retorico-filosofico. Per queste ultime si è posto il problema dei limiti in cui possano giovare alla ricostruzione del pensiero giuridico, se le stesse attenessero alle fonti del diritto oggettivo o, piuttosto, ai topoi, donde trarre argomenti da impiegare per una qualificazione giuridica al livello retorico. Peraltro, le fonti di produzione complessivamente intese, non esauriscono gli ambiti in cui non solo nel diritto romano e nei diritti dell'antichità in genere, ma anche negli ordinamenti positivi, risulta adoperato il termine “fonte”. Accanto ad esse si distinguono, le fonti di cognizione, vale a dire di “conoscenza”. Una categoria che rispetto al diritto romano è opportuno definire nella maniera più ampia, come ogni elemento, ogni mezzo, ogni documento idoneo a dare coscienza dello stesso: sopravvivenze, vestigia, residui, reliquie, rudimenti o tracce dell'età studiata e fonti rappresentative, tramandate dalla “tradizione” (scritta, orale, figurativa). Di fronte al numero incalcolabile di documenti relativi alle antiche norme di Roma che il tempo ha cancellato, rendendo difficoltoso, se non impossibile, delineare i contenuti di una determinata statuizione, i caratteri di uno specifico istituto, ecco che per lo storico del diritto ogni fonte d'informazione, ogni testimonianza e ogni indizio, conservatisi sino a noi, possono essere preziosi: tutto ciò che ha fatto parte della vita dell'uomo romano può rappresentare un utile strumento per lo studio dell'esperienza giuridica di Roma. Si procederà, allora, a tracciare un quadro delle diverse fonti di cognizione non giuridiche, traendo da questa sterminata “enciclopedia” alcuni tra i testi che più hanno suscitato l'interesse degli studiosi e richiamando problematiche e orientamenti dottrinali concernenti l'utilizzo delle stesse; si passerà poi a considerare le fonti giuridiche, in particolare l'opera compilatoria e legislativa di Giustiniano (principale fonte di cognizione del diritto romano), muovendo dai suoi contenuti normativi, si estenderà lo sguardo alle fonti di produzione, così da fornire una sintetica visione d'insieme. 3. Le fonti di cognizione non giuridiche 3.1. la documentazione manoscritta Tra le fonti non giuridiche rivestono un ruolo preminente le opere della storiografia latina e greca, figlia nelle sue diverse voci, per via diretta o solo per comune tradizione, di quell'ampia produzione, andata perduta, venutasi ad elaborare nel corso del III secolo a.C. In questo periodo, per opera di Fabio Pittore e di Cincio Alimento, furono redatti i primi libri di Annali: la denominazione fa riferimento al tipo di fonte utilizzata da tali autori, gli Annales pontificali: la registrazione cronachistica dei principali avvenimenti dell'anno di cui i pontefici avrebbero dato notizia per mezzo di una tabula dealbata esposta. Completano il panorama delle fonti letterarie, dalle quali è dato attingere in misura copiosa informazioni di carattere giuridico, gli scritti dei grammatici (Varrone, Probo, Pompeo Festo, ecc.), degli eruditi (Plinio il Vecchio), dei retori (Cicerone, Seneca, Plinio il Giovane), dei commediografi (Plauto e Terenzio), ecc. Non vi sono soltanto gli innumerevoli casi in cui viene fornita testimonianza diretta del tenore di una norma, che altrimenti risulterebbe ignota nella formulazione, se non nel contenuto, o di un istituto giuridico, che altrimenti non si conoscerebbe o rimarrebbe oscuro in diversi aspetti della disciplina. La letteratura non giuridica si rivela preziosa anche al di fuori di questi contesti: il diritto, rappresentando un fenomeno sociale, può essere compreso e spiegato a fondo solo se inquadrato nell'ambiente al quale si applica, ne consegue che ogni trattazione della vita romana si rivela utile nel contempo ad illuminarne qualche profilo giuridico. Quale dato di ancora maggiore pregnanza vi è che all'interno di un articolato percorso critico-ricostruttivo, che ha preso avvio nei primi decenni del secolo scorso, la “tradizione” manoscritta, compresa quella concernente le fasi più antiche della storia di Roma, è stata fatta oggetto di un processo di conferma e di valorizzazione. Pur tuttavia sospetti di anticipazioni, di concentramenti storici, di incertezze nella cronologia degli avvenimenti, di esagerazioni dei fatti, se non di vere e proprie invenzioni e falsificazioni della realtà, soprattutto, di quella arcaica, persistono. Tale processo rivalutativo si è alimentato dei dati offerti dalle fonti epigrafiche, papirologiche, archeologiche, ecc. (es.: l'inscrizione incisa sul c.d. Cippus vetustissimus, la quale, sin dalla sua scoperta avvenuta nel 1899,nel Foro romano , ha suscitato un dibattito riguardo al valore e al significato da ascrivere al termine rex, che in essa ricorre due volte: se vedervi l'espressione del re politico-militare etrusco Servio Tullio?, o se cogliervi la figura del rex sacriliculus, simulacro repubblicano dell'antico monarca relegato alla sfera religiosa). 3.2. La documentazione epigrafica, quella papirologica (e quella archeologica) Il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto, nell'opera di ricostruzione del diritto romano, dalla documentazione epigrafica e dall'ampia massa di accessioni papirologiche appartiene a un sentire diffuso. A dimostrarlo vi sono le ricerche giusromanisti che riservano in misura sempre maggiore alle epigrafi e ai papiri giuridici - riproducenti, atti pubblici o privati e, quale importante fenomeno connesso: la configurazione in autonome discipline di due settori di studio e di ricerca dell'epigrafia classica e della papirologia classica: l'epigrafia giuridica romana e la papirologia giuridica romana. I testi richiamati di seguito rappresentano solo una goccia nel mare costituito dalle fonti di tradizione epigrafica e papirologica e, per quanto tutti connotati da elevato valore storico-giuridico, vanno visti in funzione esemplificativa. La migliore riprova della rilevanza del contributo recato dalle fonti epigrafiche allo studio del diritto (e della storia politico-costituzionale) di Roma è offerta da quella che è stata definita come la “regina delle iscrizioni”: le Res gestae divi Augusti. Testamento politico, autobiografia ed elogium stilato dallo stesso Augusto, affinché fosse inciso su tavole bronzee, così da essere esposto sulle due colonne posizionate ai lati dell'ingresso del mausoleo che il princeps aveva fatto erigere in Campo Marzio, per accogliere le sue spoglie e quelle dei suoi familiari. La versione originale delle Res Gestae non ci è giunta (andò forse persa in occasione del saccheggio che nel 410 d.C. Roma subì ad opera delle orde gotiche); fortuna volle però, che su ordine di Tiberio del testo affisso a Roma venissero realizzate diverse copie, anche in lingua greca, da apporre nei templi o presso gli altari eretti per il culto di Augusto defunto e divinizzato. È grazie al ritrovamento di tre di queste riproduzioni (c.d. Monumenta: Ancyranum, in versione latina e greca, rinvenuto nel 1555 ad Ancyra, in Turchia, Apolloniense, in greco, scoperto nella seconda metà dell'Ottocento ad Apollonia, in Bitinia, e Antiochenum, in latino, di cui i frammenti sono emersi nel corso di due successive campagne archeologiche condotte presso l'antica città di Antiochia, in Asia Minore) che è possibile leggere le Res gestae in forma pressoché integra e accedere alle informazioni che esse contengono, fondamentali per ricostruire e comprendere: - la figura e la personalità di Augusto, - le attività, - gli avvenimenti di cui egli fu principale attore, - i motivi ideologici e lo spirito informatore che furono alla base,del principato e, con questi, quali siano stati i caratteri distintivi del nuovo regime e in che cosa e in quale misura al suo interno si siano mantenute istituzioni e strutture risalenti all'età repubblicana. In modo del tutto cursorio, sempre tra i testi pervenuti su supporto lapideo, è possibile, altresì, richiamare: a) la c.d. lex de imperio Vespasianz: riscoperta nel 1347 dal tribuna del popolo Cola di Rienzo, incisa su una tavola bronzea, collocata nella basilica di San Giovanni in Laterano, rappresenta parte della lex de imperio con cui il popolo nel 69-70 d.C., facendo propria una deliberazione già assunta dal senato,è diffusa la tesi secondo cui si tratterebbe di un senatoconsulto incorporato in una legge comiziale, avrebbe conferito a Vespasiano i poteri connessi con lo status di princeps; b) il senatus consultum de Bacchanalibus: uno dei provvedimenti più noti di tutta l'età repubblicana, per mezzo del quale, nel 186 a.C., il senato cercò di reprimere il dilagare a Roma e in Italia dei culti bacchici, ritenuti causa di degenerazione dei costumi e, di seri problemi di ordine pubblico; c) l'edictum Diocletiani de pretiis rerum venalium: costituzione del novembre-dicem bre 301 d.C. con la quale Diocleziano, fissando il livello massimo dei prezzi delle merci e dei servizi, cercò, vanamente, di fronteggiare il grave fenomeno inflazionistico che in quel periodo travagliava l'impero; le diverse leggi municipali che hanno contribuito in misura alla conoscenza degli istituti e delle procedure concernenti la complessa realtà del municipium; d) tra i documenti della prassi giuridica, il lascito di testi, di natura negoziale costituito dalle c.d. tabulae pompeianae: tavolette di legno ricoperte di cera, appartenenti ad archivi privati. Lo studio del diritto romano ha giovato anche dell'apporto dei documenti papiracei che, le aree desertiche dell’Egitto e le zone del Vicino Oriente, grazie alle loro favorevoli condizioni ambientali, hanno preservato e restituito in misura copiosa. Tra i molti che meriterebbero una menzione, vi è il papiro Gissen. Esso ci ha tramandato una versione in lingua greca della Constitutio antoniniana de civitate peregrinis danda, l'edictum con cui l'imperatore Caracalla, nel 212 d.C., estese la cittadinanza romana agli abitanti liberi dell'impero che ne fossero stati ancora sprovvisti. Comunque sia, quale sia stata la reale portata del provvedimento antoniniano sotto il profilo della concessione e della regolamentazione dello status civitatis, rileva l'attitudine dello stesso a testimoniare uno dei caratteri più significativi dell'impero romano: la sua capacità di ricomprendere in un organismo unitario e uniforme popolazioni e culture diverse, e di fare venire meno la contrapposizione tra conquistatori e conquistati, tutti sottoposti al dominus imperiale. Sottolineatura a parte meritano quei frammenti papiracei che, tramandando brani di opere della giurisprudenza altrimenti ignoti, che hanno consentito in diversi casi di procedere ad una verifica filologica dello stato e dell'attendibilità della tradizione testuale, in rapporto ai problemi posti dalle edizioni dei testi classici, dalle altera- zioni pregiustinianee, dall'attività delle scuole post-classiche e dei compilatori giustinianei. relativi protagonisti, e che consegnati ad un supporto, potenzialmente, accessibile ai più, fossero rimessi all'analisi critica della comunità, finendo per assurgere a fonti, a strumenti comuni e per perpetuarsi di generazione in generazione. 5.4. Le leges publicae e gli edicta magistratuum Non più di tanto riuscirono ad incidere sulla “centralità” della giurisprudenza le leges publicae rogatae, frutto dell'incontro delle volontà del magistrato (inter)rogante e del populus riunito in comitio e, dopo l'estensione, operata nel 286 a.C. dalla lex Hortensia, dell'efficacia delle deliberazioni comiziali ai plebiscita, anche della plebs riunita in concilio. La legislazione comiziale (e conciliare), esauritasi nel corso del I secolo d.C. (l'ultima lex publica di cui si ha notizia risale al 96-98 d.C.), di rado interessò il campo del ius privatum; da questo punto di vista le XII Tavole rappresentarono un quidunicum riguardando essenzialmente ambiti di diritto pubblico: - il regolamento dei rapporti fra cittadini e potere politico, i - l funzionamento delle assemblee, del senato, delle magistrature e dei sacerdozi; - l'organizzazione dei culti; - gli ordinamenti municipali e provinciali; - la ripartizione della terra; - la repressione criminale, ecc. Considerazioni, analoghe possono formularsi riguardo al ius honorarium: si tratta dell'insieme delle regole giuridiche scaturite dall'attività giurisdizionale del pretore (la parte più importante del ius honorarium fu costituita dal diritto pretorio, al punto che i due termini, onorario e pretorio, hanno finito per essere considerati in questo campo quasi sinonimi) e degli altri magistrati (edili curuli, governatori provinciali) incaricati di amministrare la giustizia (ius dicere), ciascuno in relazione alla propria sfera di competenza . Tali regole si vennero a stratificare, a partire dal III secolo a.C. attraverso la pubblicazione annua degli edicta magistratuum (l'editto valeva solo per il periodo di carica del magistrato che lo aveva emanato, era, una lex annua), fino alla stabilizzazione di questi ultimi, all'interno di un'architettura non più modificabile dal magistrato giusdicente (si parla di edictum perpetuum), operata tra il 134 e il 138 d.C. dal giurista Salvio Giuliano, su incarico dell'imperatore Adriano. Anche il ius honorarium, pur dando vita a un sistema giuridico “autonomo” e “parallelo” rispetto a quello del ius civile, non fu mai operante al di fuori della trama di prescrizioni, di interpretazioni e di integrazioni che vi ha costruito intorno la giurisprudenza. Senza lo strumento rappresentato dal genere letterario del commento all'editto, non sarebbe stato possibile determinare la portata, l'importanza e i campi d'applicazione delle norme edittali e costruire su di esse nuovi concetti e figure, così da sottrarle all’annua precarietà dell'editto e affidarle ai percorsi più lunghi del ius civitatis. 5.5. Le Constitutiones principis e la fine del “diritto giurisprudenziale” Perché il carattere di “diritto giurisprudenziale” proprio del diritto romano iniziasse ad assumere sfaccettature meno nette si dovette attendere la fine del I secolo a.C. e l'affacciarsi sulla scena normativa delle constitutiones principis. Non che all'interno del nuovo assetto politico costituzionale del principato i giuristi abbiano cessato di svolgere la loro funzione di guida nella creazione e nello sviluppo del diritto; piuttosto questa iniziò a subire la concorrenza dell'attività di colui che, anche a seguito del tramonto delle leges publicae e della “codificazione” degli edicta magistratuum, sarebbe divenuto l'esclusivo creatore del ius: l'imperatore (fonte in tutto e per tutto subordinata al diritto positivo imperiale fu anche la consuetudo, la quale al di fuori degli usi regionali, il c.d. mos regionis, ebbe scarsa incidenza). I presupposti di ciò si possono cogliere, sin dagli inizi del III secolo d.C., nelle formulazioni ulpianee: “ciò che all'imperatore parve bene e approvò, ciò abbia vigore”,frammento ripreso nelle lnstitutiones di Giustiniano, d’interesse perché vi si relaziona il potere normativo dell'imperatore con l'investitura della lex de imperio; e “l'imperatore è svincolato dall'osservanza delle leggi”. L'insieme della legislazione imperiale, articolata nelle forme del: - edictum: statuizione generale e astratta, indirizzata agli abitanti di una città o di una provincia o di tutto l'impero), - mandatum: circolare e/o istruzione di carattere generale, rivolta ai funzionari e ai governatori provinciali, - decretum: sentenza pronunciata in unica istanza o in sede di appello, - rescriptum: risposta ad un quesito giuridico posto da un privato, scritta in calce al libellus o preces che conteneva la domanda, - epistula: risposta ad un quesito giuridico posto da un funzionario, da un magistrato, da una comunità, ecc., redatta in forma di lettera, assunse, man mano che si veniva a consolidare l'assolutismo imperiale, connotazioni e dimensioni sempre più “invasive” ed esclusive. La giurisprudenza andò incontro a una costante involuzione, venendo a perdere l'attitudine a essere fonte diretta di norme. La partecipazione dei giuristi allo svolgersi del diritto venne a circoscriversi all'interno della collaborazione prestata, in qualità di consiglieri prima e di funzionari poi, al lavoro legislativo della cancelleria imperiale. In tale contesto si fece più oscura sino a cadere, con la fine del III secolo d.C., nell'anonimato. Non è un caso che in età dioclezianea venne meno la prassi, inaugurata da Augusto, di concedere a determinati giuristi il “diritto di dare pareri a titolo pubblico in forza dell'autorità del principe” e, in forza di tale beneficio, il potere di “creare diritti”. Anche l'attività svolta in seno alle scuole tardo-imperiali, alternativa alla figura del giurista “burocrate” fu quella del giurista insegnante, non apportò un contributo effettivo all'interpretazione del diritto in senso evolutivo. Essa si esaurì all'interno di una “riflessione” condotta sugli scritti giurisprudenziali del passato, i quali vennero assunti come un dato normativa immodificabile, alla stregua di vere fonti del diritto. Ciò portò, tra il III e il IV secolo d.C., all'elaborazione di opere sistematiche: commenti, riassunti, parafrasi, ecc., prive di significativi tratti di originalità, ma è anche grazie ad esse che parte della tradizione giuridica romana poté conservarsi sino a Giustiniano e che si è mantenuta viva sino a noi la conoscenza di testi non ricompresi nel Corpus iuris civilis. Capitolo 10 L’epigrafia romana Fra la documentazione pervenuta dall'antichità le iscrizioni rivestono un carattere particolare, in quanto si tratta di testimonianze dirette, giunte a noi senza mediazioni, che partecipano di due componenti fra loro inscindibili, il testo e il suo supporto. Esse vanno affrontate tenendo conto di tutti questi aspetti: il supporto, il monumento, comporta particolare attenzione al contesto dal quale proviene, che può fornire indicazioni per: - l'interpretazione del testo e la sua datazione; - le caratteristiche dell'incisione, l'evoluzione della forma delle lettere offrono a loro volta elementi d'ordine cronologico, oltre che tecnico; - il contenuto del testo completa le informazioni sul monumento e lo rende fonte primaria per la storia. La datazione delle iscrizioni non può prescindere, nel mondo romano, dalla considerazione di tutti questi elementi; l'epigrafia romana è costituita soprattutto da documenti privati che col solo loro testo non sempre offrono elementi utili alla datazione. Mentre le iscrizioni pubbliche (atti degli organi dello stato, iscrizioni di magistrati o di imperatori) sono provviste di elementi che ne consentono la datazione, le iscrizioni di privati (votive, sepolcrali), che costituiscono la maggior parte di quanto possediamo, raramente possono essere collocate nel tempo sulla base del solo testo: in questi casi occorre prendere in considerazione tutti gli elementi dei quali si dispone per giungere ad assegnare una data al monumento epigrafico. 1. Scrittura, sigle e abbreviazioni La derivazione dell'alfabeto latino da quello greco risulta evidente nelle più antiche iscrizioni latine. Le lettere dell'alfabeto subiscono una lenta ma continua evoluzione che culmina nella media età repubblicana per raggiungere forma definitiva nell'età di Augusto, quando le iscrizioni si rivelano accuratamente disegnate ed armoniche nelle loro proporzioni. All'alfabeto tradizionale l'imperatore Claudio aggiunse tre nuove lettere ad indicare suoni che, a suo parere, dovevano essere distinti da altri: - il digamma inverso per distinguere il V consonantico (U e V hanno nelle iscrizioni romane la stessa forma), - una lettera simile ad una C inversa per il suono P+S, - una terza lettera per il suono intermedio tra I e U (in parole come optimus loptumus). La riforma di Claudio già al suo tempo non ebbe fortuna e venne presto dimenticata. L'evoluzione della forma delle lettere può costituire uno degli elementi per la datazione delle iscrizioni, ma va tenuto presente che le differenze che si verificano nel tempo fra i caratteri non sono rilevanti e che solo un occhio bene esercitato può cimentarsi nel rilevare il diverso ductus, che comunque può modificarsi da officina a officina, con una evoluzione molto lenta, e pertanto attardata, nelle aree più marginali. L'esecuzione tecnica delle iscrizioni su pietra o su bronzo comporta: - un processo di preparazione della superficie da incidere, - la distribuzione preliminare delle lettere nelle singole linee, - l'uso di strumenti come scalpello e martello - l’utilizzo del colore per dare maggiore evidenza alle lettere e anche per correggere eventuali errori. Nelle iscrizioni monumentali a carattere pubblico (archi, templi) venivano anche utilizzate lettere in bronzo , di facile lettura anche da lontano, e risplendenti per effetto del sole. Queste caratteristiche si applicano alla scrittura monumentale, su pietra, che si realizza con le litterae quadratae; i testi epigrafici sono redatti anche in forme tecniche diverse: possono essere dipinti (in nero o in rosso sulle pareti imbiancate), con una differente delineazione delle lettere, che restan in maiuscolo: la scrittura a mano libera porta allo smorzamento degli angoli, all'arrotondamento e ad una fluidità dei caratteri. L'uso della pittura è riservato a quelle iscrizioni che devono essere esposte e lette in pubblico, ma che sono destinate a durare poco nel tempo. La scrittura corsiva utilizza un tipo di supporto diverso, che può essere inciso su argilla, cera o intonaco; annotazioni su anfore e su mattoni (realizzate quando l'argilla è fresca) o tavolette cerate, utilizzate per la registrazione di atti di compravendita, ricevute e contratti o di documenti simili redatti negli studi di “ufficiali pubblici” (avvocati, notai). L'epigrafia latina si esprime per sigle e abbreviazioni, soprattutto per parole e le formule di uso comune e, per gli antichi, di immediata comprensione. Sono di regola abbreviati: - i praenomina, - le tribù, - le magistrature: anche quelle inserite nella titolatura dell'imperatore, - le cariche: di qualsiasi tipo, militari e civili, - le formule di dedica, ecc. Fra le singole parole viene quasi sempre inserito, a sottolinearne la fine, un segno di interpunzione costituito nell'età più antica da due o tre punti sovrapposti, poi da un punto circolare, che lascia luogo ad uno di forma triangolare, e, successivamente a foglie d'edera, palmette, spighe e altri elementi con più esplicito valore decorativo (come piccoli uccelli, o altro). Frequente è anche l'uso di nessi (di giustapposizione, di incrocio, fra due o più lettere che utilizzano gli stessi segni), di lettere incluse l'una nell'altra, di monogrammi che nell'epigrafia cristiana arrivano ad assumere un preciso valore semantico, come il monogramma di Cristo, o quello di Pietro. 2. La trascrizione delle iscrizioni I segni critici consentono di avere la percezione dei fenomeni grafici, di distribuzione del testo in linee, di quanto ancora esiste sulla pietra, ecc. I principali segni convenzionali in uso sono : • ( . . . ) indica lo scioglimento di una sigla; quanto è inserito all'interno della parentesi non è mai stato presente sul monumento: L(uci) /(ilius), la più che frequente indicazione di patronimico; co(n)s(ul), la carica di console; • [...] indica l'integrazione fatta dall'editore moderno di una parte di una parola o di un testo non più conservato, ma in antico presente sulla pietra; • / indica la separazione fra diverse linee del testo. 3. Reimpiego, tradizione, storia degli studi Molte iscrizioni sono conservate nel loro contesto originario (archi, ponti, edifici sacri e civili), ma molte sono anche state reimpiegate, per costruire mura difensive, per fare fronte a situazioni d'emergenza (molte tavole di bronzo andarono fuse per la realizzazione di armi, e di campane per le nuove chiese), o per ornare edifici. Il reimpiego ha comportato la perdita di parti più o meno ampie dell'iscrizione, ma le ha comunque conservate. Molti monumenti iscritti sono andati del tutto perduti e ne conosciamo il testo perché esso è stato visto e copiato in passato. Nelle opere di scrittori greci e romani sono citate iscrizioni, a volte trascritte integralmente. Nel Medioevo molte iscrizioni furono viste e copiate dai pellegrini che attraversavano l'Italia per scendere a Roma, il centro della cristianità: ne è testimonianza la più antica raccolta di questo genere, conservata nel convento benedettino di Einsiedeln (in Svizzera), opera di un anonimo monaco. L'interesse per le iscrizioni romane continuò anche nei secoli successivi, spesso con intento politico, come sembra essere avvenuto per la tavola bronzea della lex Vespasiani de imperio che Cola di Rienzo fece collocare, dopo la sua scoperta, a Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano e che il “tribuno” utilizzò nella sua lotta per far affermare i diritti del Comune. L'interesse per le iscrizioni antiche aumentò nei secoli successivi, in particolare nel Rinascimento, quando vennero imitati i caratteri lapidari dei monumenti romani. Le iscrizioni rilevate e trascritte dagli umanisti sono molto preziose per noi e restano spesso la sola testimonianza di monumenti ora perduti; va però osservato che non mancano in queste trascrizioni inesattezze ed errori, dovuti a scarse conoscenze delle istituzioni Augustus, il vero fondamento simbolico della dignità imperiale, anche se ad esso non corrispondono poteri e competenze definite. Segue una serie di cognomina di carattere etnografico, definiti ex virtute in quanto riferiti con quanto era avvenuto durante la repubblica per esponenti della famiglia degli Scipioni, a vittorie riportate sui popoli ai quali i termini si riferiscono. il primo ad assumere uno simile epiteto fu Druso, figlio di Livia e figliastro di Augusto, che venne chiamato Germanicus, denominazione che fu poi il cognomen di suo figlio, Germanico, e che passò in seguito a Caligola, Claudio e Nerone. A partire dal III secolo questi epiteti appaiono nella titolatura imperiale, accompagnati dal superlativo maximus e privi di un reale collegamento con vittorie militari, utilizzati come strumento di propaganda ed esaltazione della persona dell'imperatore. A questi elementi, si accompagna l'elenco delle cariche e delle magistrature assunte dall'imperatore, alcune delle quali preziose per determinare la data dell'iscrizione. La carica che viene menzionata per prima è quella sacerdotale di Pont(z/ex) Max(imus), capo supremo della religione ufficiale dei Romani. Di rilievo politico è l'indicazione della potestà tribunizia, sulla quale Augusto fondò parte del suo potere e mediante la quale il principato si rivestì di forma costituzionale. Rientrano nella titolatura dell'imperatore anche le salutazioni a imperator, cioè di comandante acclamato dalle truppe, seguite da un numerale; nella titolatura vengono registrati anche i consolati rivestiti, seguiti da un numero d'ordine che resta fisso fino al momento in cui, l'imperatore non viene di nuovo eletto. Ultimo elemento è il titolo di P(ater) P(atriae), con valore onorifico; si aggiungono a volte il proconsolato e la censura. 6. Le carriere dei senatori e dei cavalieri La società romana si regge su un sistema di magistrature che differenzia fra di loro le carriere dei senatori e quelle dei cavalieri. Diversi provvedimenti di età repubblicana avevano fissato la sequenza fra le cariche dei clarissimi (questo l'appellativo designa i senatori e i loro familiari), avevano definito l'intervallo di tempo che doveva essere rispettato fra una magistratura e l'altra e l'età minima necessaria per accedere alle singole cariche. Due sono, a Roma, le regole comuni a tutte le funzioni pubbliche, l'annualità e la collegialità degli incarichi. Nelle iscrizioni il cursus viene indicato in forma: - diretta: la successione delle cariche è elencata partendo da quella di minore importanza, per risalire poi fino all'ultima, - Indiretta: evidenziando le magistrature più importanti, ponendo l'accento sull'appartenenza a collegi o confraternite religiose. Esperienze civili e militari dovevano essere acquisite con una delle funzioni comprese nel vigintivirato, collegio di venti giovani divisi in quattro gruppi: 1. i decemviri stlitibus iudicandis: con compiti legati a questioni relative allo stato civile dei cittadini, 2. i triumviri kapitales: ai quali era affidata la sorveglianza della corretta effettuazione delle esecuzioni capitali, 3. i triumviri auro, argento, aereflando/eriundo: preposti, ma non con potere decisionale, alla monetazione di competenza del senato, 4. i quattuorviri viarum curandarum: responsabili, sotto il controllo degli edili, della manutenzione delle strade della città di Roma. Un ulteriore anno veniva poi trascorso presso una legione come tribunus militum laticlavio, con compiti di carattere amministrativo e raramente militari. L'età minima di 25 anni era richiesta per rivestire la carica di quaestor, con compiti che vanno dalla: - amministrazione finanziaria nelle province senatorie, - gestione della tesoreria del senato e a quella dell'imperatore; - tappa successiva erano l'edilità (per i senatori di origine patrizia) o il tribunato della plebe. All'età di 30 anni era possibile accedere alla pretura, con una articolazione interna ampia che comprende compiti di: - controllo del tesoro pubblico, - di amministrazione della giustizia, ecc. Dopo un intervallo di due anni e all'età di 33 anni era aperta la strada per l'elezione al consolato; in un anno erano due i consoli ordinari, con funzione di eponimi; ad essi si affiancavano, a gruppi di due, dei consoli suffeti che si succedevano, nel corso dell'anno a intervalli diversi a seconda delle epoche (ogni due, tre, quattro mesi). Ai senatori ed ai cavalieri era affidato, con titoli diversi, il governo delle province, nelle due accezioni di: - senatorie ai senatori, - imperiali ai cavalieri. Viri egregi, viri eminentissimi e viri perfectissimi sono gli appartenenti all'ordine equestre ai quali erano riservati incarichi di prestigio in una sequenza non così rigida come quella dei senatori e articolata in due gruppi: -le procuratele, le prefetture. Precedute da un periodo di attività presso reparti militari, le tres militiae. I cavalieri costituirono il nerbo burocratico dell'impero, nelle funzioni procuratorie con competenze amministrative e finanziarie la cui importanza e sequenza è indicata dall'entità del compenso che ricevevano. Di maggiore rilievo e culmine della carriera equestre sono le prefetture che vedono affidate ai funzionari di questo nome (prefettura dei vigili, delle flotte, dell'Egitto, del pretorio) responsabilità militari e politiche che li resero in alcuni casi (si pensi, ad esempio, a Seiano) molto potenti e influenti. 7. Il governo delle città Nelle città l'amministrazione era affidata a magistrati che appartenevano alle famiglie di cittadini romani di maggior rilievo, indipendentemente dalla loro appartenenza ad una specifica classe; accanto ad essi operava un senato locale costituito dagli ex magistrati. Leggi (su tavole in bronzo) della Spagna ci fanno conoscere le norme che regolavano l'elezione dei magistrati cittadini e i loro compiti: - gli edili: avevano il controllo dell'approvvigionamento di viveri, della manutenzione delle strade e degli edifici pubblici, - i questori: avevano il controllo della finanza pubblica, - duoviri (nelle città a statuto coloniario) e quattuorviri (nei municipi): si trovavano al vertice delle città, con competenze di carattere giurisdizionale, di controllo sull'attività degli altri magistrati, e ogni cinque anni sulle liste dei cittadini. 8. La classificazione delle iscrizioni Le iscrizioni vengono distinte in alcune categorie, tenendo conto del testo che su di esse si legge; gli elementi indicati sopra (nome, titolatura dell'imperatore, magistrature) sono quelli che entrano più frequentemente a far parte del testo, anche se l'iscrizione sepolcrale si arricchisce di indicazioni personali, a indicare la professione del defunto, la durata della sua vita o del suo servizio militare; l'epigrafe sacra, caratterizzata da sigle del tipo V(otum) S(olvit) L(aetus) L(ibens) M(erito) indica il nome della divinità e l'oggetto o la causa della dedica; il cippo miliario chiarisce elementi relativi alla strada alla quale si riferisce e alle distanze dai centri vicini. Un percorso diverso è quello evidenziato dai documenti ufficiali: le deliberazioni del senato, le leggi, gli editti imperiali o dei governatori provinciali si articolano secondo norme di carattere giuridico e la loro considerazione come documenti epigrafici dipende dal fatto che sono trascritti su materiale durevole (il bronzo). Instrumentum publicum (su oggetti diversi, ma di utilità pubblica) e instrumentum domesticum (su oggetti di uso privato) completano il quadro della documentazione epigrafica. Principali categorie di iscrizioni, indicate nell'ordine col quale sono inserite nel CIL: 1. Iscrizioni sacre: comprendono le dediche a divinità. 2. Testi che ricordano il nome di un imperatore, si tratti di una dedica in suo onore o della costruzione di un'opera pubblica. 3. Iscrizioni di magistrati dello stato (senatori e cavalieri), su monumenti commemorativi della loro attività, o anche sepolcrali. 4. Iscrizioni sulle quali appaiono i nomi di magistrati cittadini. 5. Epigrafi di persone non qualificabili diversamente. 6. Frammenti. Capitolo 11 La papirologia 1. Definizione La papirologia è la disciplina che decifra e studia i testi greci e latini pervenuti su papiro, su legno, su frammenti di ceramica e su pergamena. Questa definizione ha un duplice pregio: da un lato riesce a comprendere le due anime della disciplina, quella legata alla decifrazione e all'interpretazione dei testi documentari (i testi anche di minima estensione, variamente connessi con le molteplici esigenze della vita quotidiana o appartenenti all'àmbito am- ministrativo e giuridico), che tra quelli conservati su papiro sono la stragrande maggioranza, e quella che si occupa della decifrazione e dello studio dei testi letterari (i testi di natura dotta, aventi valore o intento artistico), il cui numero è inferiore. Dall'altro lato essa tiene conto della considerevole mole di papiri, pergamene e tavolette lignee, che contengono testi documentari e letterari in greco e in latino e sono stati rinvenuti fuori dall'Egitto, in Occidente e in Oriente: si tratta di diverse migliaia di testi (il numero si accresce continuamente grazie a nuovi rinvenimenti), il cui studio è connesso con i testi greci e latini di provenienza egiziana e che con essi contribuiscono alla storia della società, dell'economia e della cultura dell'impero romano. Quanto al rapporto tra i due àmbiti di indagine della papirologia (quello documentario e quello letterario) è bene non tenerli separati: un papirologo deve essere in grado di cimentarsi tanto con un testo documentario quanto con uno letterario; questo, perché l'uno e l'altro richiedono competenze (quali: capacità di decifrazione ed interpretazione dei testi; conoscenza delle problematiche connesse con i vari supporti di scrittura e con la storia delle scritture greca e latina; conoscenza della società e della cultura che ha prodotto quei testi) che sono strettamente correlate. Esiste anche una terza tipologia di testi papirologici: i testi paraletterari, una categoria che è a metà tra le altre due: testi che hanno una certa dignità estrinseca, ma che al tempo stesso hanno o possono avere una finalità pratica, come ricette mediche, ricette di cucina, oroscopi, commentari, ecc. La definizione di questa terza categoria può risultare disagevole, dal momento che l'inquadramento nel suo ambito di determinati testi può non essere accolto unanimemente dagli studiosi. La papirologia è, nella pratica, lavoro di decifrazione di testi documentari provenienti dall'Egitto, questo perché i testi di cui essa si occupa sono in larga parte documenti e sono stati recuperati in Egitto. Appare eccessiva la convinzione secondo la quale la Papirologia esisterebbe come scienza anche senza i papiri letterari, ma non esisterebbe, come tale, se vi fossero solo i papiri letterari. Appare indubitabile che la decifrazione e la prima edizione di un papiro letterario siano compiti che un filologo classico non può assolvere in maniera sufficiente, ma che richiedono l'intervento del papirologo con le sue specifiche competenze: la tecnica di lettura di un papiro letterario è analoga a quella di un papiro documentario, e questa tecnica non rientra tra le competenze di un filologo. Va osservato che solo il papirologo, attraverso lo studio dei testi documentari, può delineare al meglio il sostrato socio-culturale nel quale questi stessi testi circolarono. Una volta che sia stato decifrato e divulgato, un testo letterario sarà oggetto di ulteriore analisi e approfondimento da parte del filologo classico e dello storico delle letterature classiche. Anche per l'àmbito geografico e cronologico della disciplina può essere riscontrata qualche difformità di vedute tra gli studiosi. Quanti la connettono esclusivamente con l'Egitto, ritengono che la papirologia vada circoscritta all'epoca della dominazione greca e romana in questo paese: all'arco di tempo compreso tra il 332 a.C., anno in cui esso viene conquistato da Alessandro Magno, e il 641 d.C., quando lo stesso cade nelle mani degli Arabi. Questo è vero, tuttavia va osservato che i materiali greci e latini provenienti da altre regioni del mondo antico sono ormai tali e tanti, che può non essere più giustificato riferire l'àmbito di indagine della disciplina esclusivamente all'Egitto; senza contare che esistono non pochi papiri greci e latini, letterari e documentari, risalenti a un'epoca posteriore al 641 d.C. La definizione della papirologia quale decifrazione e studio di testi greci e latini conservati su papiro evita questo tipo di incongruenze, fissando il suo arco cronologico al periodo che va dal IV secolo a.C. (epoca alla quale risalgono i più antichi testi papiracei greci a noi pervenuti) all'XI secolo, quando la cancelleria papale utilizzava il papiro; ed estendendo il suo àmbito di indagine anche al di fuori dell'Egitto. La papirologia (che va considerata la più giovane tra le discipline che studiano il mondo antico e, al tempo stesso, tra quelle che più di altre continuano ad accrescerne la conoscenza) è una scienza istituzionalmente, ma non esclusivamente, egittocentrica. 2. Il papirologo a lavoro Il papirologo è uno studioso che lavora su testi greci e latini, letterari o documentari che siano; a lui spetta il compito di decifrare questi testi e di darne una prima trascrizione accompagnata da una descrizione del papiro e da un'interpretazione, la qual si articola in una traduzione e in un commento. Egli ha la responsabilità di dovere mettere a disposizione di specialisti di altre discipline, testi correttamente decifrati e sufficientemente leggibili. Il testo costituisce il centro della sua attività, attività nella quale egli deve riuscire a cogliere l'unità tra il testo scritto e il senso che esso racchiude, cioè essere capace di penetrare nel cuore e nel cervello sia dello scriba che ha delineato il testo sia della persona per la quale egli ha scritto quel testo. Da qualche tempo, si sta imponendo una visione diversa del papirologo, che deve essere capace di leggere e organizzare al meglio i testi, ma che può e deve anche andare al di là del limite tecnicistico della decifrazione e di tutto ciò che ad essa è connesso, egli può e deve superare le ricostruzioni e le interpretazioni dei testi da lui studiati (spesso documenti disparati e pervenuti in cattive condizioni) e delineare, sul loro fondamento e con l'aiuto di altre discipline, quali l'antropologia, la storia comparata e la statistica, un generale quadro delle società e delle culture del mondo antico. Secondo questa visione della papirologia di fondamentale importanza si rivelano sia l'utilizzazione, insieme ai papiri, di altre fonti, soprattutto quelle archeologiche ed epigrafiche (fino a qualche tempo fa abbastanza trascurate dai papirologi) sia, a proposito dell'Egitto, lo studio della documentazione (papiracea ed epigrafica) in lingua egiziana, che va integrata con quella coeva greca (e con quella latina, di consistenza), al fine di riuscire a ricostruire al meglio la complessa società egiziana 7. Nei secoli V e VI in Egitto si leggono autori come Aristofane, Callimaco, Demostene, Euripide, Esiodo, Omero, Isocrate, Menandro; ma dopo Giustiniano la letteratura pagana si isterilisce ulteriormente. 8. Un'opera pagana ha la possibilità di sopravvivere solo se una sua singola redazione si salva in qualche modo a Costantinopoli o in qualche monastero, dove viene trascritta in minuscola per riemergere solo in epoca umanistica; 9. Nell'Egittotardo-antico, dal IV secolo in poi, si arricchisce la produzione dei testi cristiani; dopo la conquista araba del 641 la letteratura cristiana in greco continua a essere trascritta, non così quella classica, che non viene letta più. 10. La scomparsa di quest'ultima non è da imputare agli Arabi, dal momento che già in precedenza la chiesa monofisita aveva annientato la cultura classica in Egitto. Quali contenitori di un testo letterario i papiri hanno permesso di ottenere i seguenti risultati: l. Mediante l'acquisizione di nuovi testi, a noi precedentemente non pervenuti né attraverso la tradizione medievale né attraverso altri papiri, arricchire letteratura greca (e quella latina); 2. Mediante l'acquisizione di testi, già in nostro possesso grazie a codici medievali o ad altri papiri o anche a tradizione di tipo indiretto, migliorarne la redazione, o porci in maniera diversa, rispetto al passato, dinanzi a certi rami della loro tradizione; 3. Delineare più nitidamente la storia della fortuna di autori e generi letterari. 4. Comprendere che un testo letterario su papiro è un libro: nasce per soddisfare precise esigenze di qualcuno o per venire incontro a generiche richieste, viene realizzato in certe forme, circola in un certo modo, facendosi vettore di un testo, la cui redazione risale all'attività editoriale svolta da qualcun altro, spesso in un altro luogo e in un altro tempo e con determinati strumenti a disposizione, e la cui trascrizione è opera di uno scriba professionale o meno, bravo e attento o mediocre e disattento, che ha svolto il suo lavoro per un dato scopo, in un certo luogo, in una certa epoca, con una certa tecnica e con determinati strumenti a disposizione; 5. Individuare l'apporto alla redazione sui testi quale essa si presenta sul supporto papiraceo da parte di scribi correttori; 6. Ricostruire il lavoro svolto sui testi sia dagli antichi commentatori sia dai lettori eruditi e di valutarne meglio il contributo alla costituzione e all'organizzazione del testo a noi pervenuto; 7. illustrare aspetti dell'attività di maestri e allievi nelle scuole, specie dell'Egitto greco e romano; 8. Individuare nuclei e consistenza di biblioteche private nel mondo antico. L'autore della letteratura greca più letto in Egitto è Omero, come mostrano i tanti papiri pervenutici con parti dei suoi poemi. Un altro autore greco particolarmente fortunato in Egitto, dove lo si utilizzava anche a scuola, era Demostene, Molto letto, anche in àmbito scolastico, appare essere stato Euripide, del quale oggi possediamo 172 papiri provenienti dall'Egitto, che ci restituiscono parti sia di suoi drammi a noi già pervenuti per altra via sia di altri di cui diversamente non avremmo nemmeno notizia. Ma, al di là di questi poeti e prosatori ricercati e utilizzati in Egitto, l'apporto dei papiri è stato determinante per singoli autori o interi settori della letteratura greca. Notevole il contributo dei papiri anche alla poesia ellenistica, soprattutto per Menandro, del quale ci sono giunti 121 papiri, che ci hanno restituito parti consistenti delle sue commedie: quasi tutto il Dyscolos, metà della Samia e ampie porzioni di altre. Tra i testi filosofici, a parte quelli epicurei, che ci sono pervenuti grazie ai rotoli di Ercolano, va ricordato il papiro di Strasburgo: edito nel 1999, è costituito da 52 frammenti. Il papiro contiene 74 linee corrispondenti ad altrettanti esametri appartenenti ai libri I e II dei Physikd di Empedocle e trascritti nel tardo I secolo d.C. Questo papiro è l'unico rotolo di una certa consistenza che ci restituisce per via diretta l'opera di un filosofo presocratico. È trascorso un secolo e mezzo da quando, con l'arrivo in Occidente dei primi papiri letterari greci provenienti dalle sabbie egiziane, la papirologia ha rivelato l'enorme contributo che essa poteva dare al recupero di tanti capitoli della storia della letteratura greca, eppure essa continua a riservare delle splendide sorprese. L'ultima in ordine di tempo è rappresentata dalla scoperta di due nuove poesie di Saffo, contenute in un papiro e facenti parte del I libro dell'edizione alessandrina dei carmi della poetessa eolica. Nella prima, di cui rimangono cinque strofe, si parla di Carasso e Larico, i due fratelli di Saffo; il contesto non è molto chiaro, ma la poetessa sembra augurarsi che con la sua nave Carasso giunga sano e salvo dall'Egitto, circostanza che rappresenterebbe un motivo di salvezza anche per la sua famiglia, e che Larico diventi un uomo maturo, facendo svanire le tristezze dei suoi congiunti. 5. I papiri e la letteratura latina Molto meno i papiri hanno contribuito all'incremento della letteratura latina e questo è dovuto al fatto che la lingua ufficiale dell'Egitto ellenistico e romano fu il greco, mentre il latino era parlato solo nell'àmbito di determinate e numericamente non estese, categorie di persone, quali alti funzionari, commercianti ed esercito. Va anche ricordato che chi parlava latino viveva soprattutto ad Alessandria, capitale del paese e sede della classe dirigente, ma climaticamente poco favorevole alla conservazione del materiale papiraceo. Tali circostanze spiegano anche perché rispetto all'elevato numero dei papiri greci quello dei latini (letterari e documentari) è inferiore. Si calcola che i papiri latino-egizi, documentari e letterari, siano circa 600, cifra esigua rispetto a quella più consistente dei materiali greci. Il rapporto non muta se si considerano anche i materiali latini (papiri, ostraka, tavolette) provenienti da altre località (soprattutto Ercolano, Dura Europos, Masada, Nessana, Vindolanda, Vindonissa, Bu Njem). I papiri latini di provenienza egiziana che conservano testi letterari sono attualmente circa 190, risalenti soprattutto ai secoli IV e V d.C. Gli autori più letti appaiono essere Virgilio e Cicerone, di cui ci sono pervenuti 33 e 12 frammenti. Del primo era diffusa l'Eneide, e le Bucoliche e le Georgiche erano in qualche modo conosciute. Del secondo era frequentata la produzione oratoria, in particolare le Catilinarie. Una qualche diffusione in Egitto appaiono avere avuto Sallustio e Tito Livio di cui abbiamo 7 e 3 papiri. Sul papiro di Cornelio Gallo, il cui ritrovamento costituisce una delle scoperte papiracee più importanti del secolo scorso e dimostra quanto clamorosi ed importanti possano essere i rinvenimenti negli antichi insediamenti egiziani (e non solo). Capitolo 12 La numismatica 1. La moneta come fonte Il nome della disciplina che studia la moneta deriva dal termine che la definiva nella lingua greca: numisma (in ambito italiota, nomos o noummos), con riferimento al concetto di norma, costume, elemento regolatore. Il pensiero aristotelico del IV secolo a.C., epoca a partire dalla quale l'economia monetale assunse la sua massima espansione nella polis, interpretava il termine in rapporto al ruolo della moneta come misura di valore e come intermediario negli scambi e ne sottolineava l'aspetto simbolico, derivante da una convenzione accettata all'interno di un ambito di convivenza organizzata; strumento razionalizzante dei rapporti, diviene negativo se ne recede la funzione di mezzo di scambio ed è fatto oggetto di accumulo per se stesso. La numismatica, nata in età umanistica, si trasformò in disciplina organica nel secolo XVIII, assumendo un ruolo importante nell'ambito degli studi storici nel XIX secolo L'edizione sistematica dei rinvenimenti monetali ha dato origine a una serie di collane specialistiche, in Italia si ricordano i Ritrovamenti monetari del Veneto, edita dalla Regione Veneto e i Ripostigli monetari in Italia edita dal Comune di Milano, anche il Bollettino di Numismatica del ministero dei Beni culturali italiano (è dedicato in prevalenza alla pubblicazione dei materiali da collezione o da rinvenimento. 2. Le fasi produttive della moneta 2.1. Le sedi di emissione La numismatica si avvale di una propria terminologia tecnica e di metodi di indagine che prendono in esame tutti gli elementi costitutivi che vengono conferiti alla moneta durante le fasi di produzione e le vicende della circolazione dopo l'emissione. La trasformazione in moneta del lingotto è la fase finale del processo iniziato con il provvedimento legislativo che definisce gli aspetti economici e iconografici dell'emissione, insieme di tutti gli esemplari prodotti con le stesse caratteristiche, che entrano a far parte del sistema monetale in uso, costituito da nominali, multipli e sottomultipli, anche in metalli diversi. La produzione non richiedeva attrezzature complesse e di grandi dimensioni, tranne un forno per la fusione dei metalli, diffuso in connessione alla lavorazione di utensili e armi. La restante strumentazione: crogioli, coppelle, martelli, tenaglie, cesoie, bulini, punzoni e bilance, poteva essere facilmente spostata; la qualità stilistica e tecnica denota la maggiore o minore continuità della produzione e l'esistenza di personale specializzato. Centri di produzione vennero attivati e poi interrotti, l'emissione fu spesso effettuata per esigenze di carattere militare in località diverse da quelle di origine di chi monetava, senza strutture organizzate oppure utilizzando zecche locali. Per tutta l'età repubblicana alla produzione in Roma, controllata dai magistrati senatorii, si affiancarono emissioni destinate alle esigenze militari o alle spese di organizzazione delle province, che spesso non venivano realizzate in un centro strutturato, bensì presso l'esercito, e il fenomeno si accentuò nel periodo delle guerre civili. Non si conoscono molte strutture riferibili a zecche; le sedi meglio documentate dal punto di vista archeologico sono quelle di Atene e di Roma di età repubblicana e degli inizi dell'età imperiale, sul Campidoglio; dalla zona della basilica di S. Clemente vengono alcune epigrafi datate all'inizio del II secolo d.C. che forniscono informazioni sul personale tecnico e amministrativo della zecca, trasferita in quella zona, forse all'epoca dei Flavi. Altre notizie fanno supporre che la produzione di moneta, nel mondo greco, fosse collocata nell'ambito di edifici templari, anche per ragioni di sicurezza, derivanti dalla pubblicità dell'edificio. Il termine zecca è di origine araba; nelle altre lingue europee, i vocaboli Mannaie, Mint, derivano dal latino “moneta” inteso nel suo senso primario di sede della produzione, che si trovava vicino al tempio di Iuno Moneta. L'appellativo è interpretato dalle fonti in riferimento al ruolo di ammonitrice o di consigliera svolto da Giunone, ma studi recenti preferiscono vedervi un collegamento con la presenza degli archivi di zecca e con il ruolo della moneta come “monumento”, ricordo degli avvenimenti importanti. 2.2. I metalli La nascita della moneta presuppone la formazione del concetto di valore e la sua attribuzione ad alcuni beni, sulla base della funzionalità, del ruolo di beni di prestigio, della connessione alla sfera religiosa; fra questi i metalli occuparono una posizione preminente, grazie alla loro rarità e inalterabilità, alle loro qualità estetiche e alle capacità tecniche richieste per lavorarli. La natura civina dei metalli è espressa nella descrizione delle diverse generazioni umane: in oro, argento e ferro, fatta da Esiodo ne Le opere e i giorni, mentre altre fonti testimoniano lo scambio dei beni mediante i metalli, il loro ruolo di unità di valore e la diffusione lungo le rotte commerciali. La preparazione delle monete, secondo le caratteristiche determinate a livello amministrativo, poteva avvenire utilizzando lingotti, ma spesso si fondevano esemplari appartenenti a precedenti emissioni della stessa zecca o di altri centri, o oggetti provenienti da bottini. Potevano essere usati metalli con un grado di purezza più o meno alto, che li rendeva meglio lavorabili; a volte erano presenti componenti minoritarie di altri metalli derivanti dalle caratteristiche originarie dei minerali, o venivano realizzate delle leghe. L'oro costituiva la riserva di valore per eccellenza, ebbe ruolo privilegiato nella circolazione internazionale, utilizzato soprattutto per i pagamenti dei mercenari e dei funzionari, monetato in modo consistente nell'impero persiano e poi, grazie alle risorse dell'area traco-macedone, da Filippo e dal figlio Alessandro, che incrementò le proprie emissioni con la conquista del tesoro persiano. L'oro venne usato con un alto grado di purezza. Le città greche della madrepatria e delle colonie occidentali adottarono fin dalle prime emissioni, l'argento, al quale avevano più facile accesso e che meglio si adattava a un uso più diffuso e articolato, pur ricorrendo ad emissioni in oro in momenti di particolare difficoltà, quasi sempre derivanti da vicende belliche. L'oro, che stava all'argento in un rapporto di 13-11 a 1, veniva collegato all'idea della ricchezza di ambito orientale e al potere di corruzione dell'impero persiano, benché anche qui fosse affiancato dalla moneta in argento. La moneta interessò, con varie cronologie, tutti i centri di fondazione greca, e si diffuse alle civiltà che avevano rapporti con essi, come Etruschi, Cartaginesi, Fenici. Il contrassegno statale, che rendeva accettabile all'interno di una città o di un territorio solo la moneta locale, le conferiva un valore aggiunto, che rimaneva limitato; moneta a carattere fiduciario venne emessa in Grecia a partire dal IV secolo a.C. con la coniazione del bronzo. Più precoce l'utilizzo di questo metallo in ambito italico, dove rivestì carattere di riserva di valore a partire dalla tarda età del Bronzo, con testimonianze accentuate a partire dal VII secolo a.C., nelle aree di cultura villanoviana ed etrusca, sotto forma di lingotti rettangolari, alcuni recanti un rozzo disegno a forma di “ramo secco, frazionato in porzioni molto piccole, utilizzate anche nel rituale funerario. I termini aerarium (sede della riserva statale di aes), bronzo, stipendium (pesatura del metallo per il pagamento periodico dei militari) ce ne mostrano l'uso a peso presso i Romani; ne troviamo traccia anche nella cerimonia della liberazione degli schiavi, durante la quale si toccava una bilancia con un pezzo di rame grezzo. 2.3. Peso e unità di valore Fonti scritte e documenti iconografici testimoniano che l'operazione della pesatura ha avuto dal II millennio a.C. un ruolo fondamentale nelle operazioni commerciali e fiscali; unità di misura di valore, destinata a quantificare beni e servizi ai fini dello scambio, della retribuzione e della tassazione. Il termine statere, che definisce la bilancia con i piatti in equilibrio, quindi il pieno peso, è utilizzato per indicare la moneta d'oro o il multiplo equivalente a due o tre dramme in argento; anche il termine greco litra, o il latino libra, indica l'unità ponderale maggiore e ha lo stesso significato. In Sicilia e in Italia meridionale lo scambio tra i centri di cultura greca e le popolazioni autoctone portò all'inserimento della litra locale nella scala di valori greca, come 115 della dramma, coniata come piccola moneta in argento; quando si passò alla moneta divisionale in bronzo, per rispettare il rapporto di valore si produssero esemplari di forte peso, che venne poi ridotto, conferendo alle nuove monete un valore fiduciario. Analogamente le serie romane e quelle di altri centri dell'Italia centrale, fra cui alcune città etrusche, prodotte nel III secolo a.C. per agevolare la riscossione di multe e tributi e il pagamento dello stipendium all'esercito o la suddivisione di bottini, sono articolate in unità bronzee di forte peso, destinate ad un'economia scarsamente articolata e ad ambiti ristretti: in questi casi i lingotti ricevono dalla matrice di fusione tipi e iscrizioni. L'espansione in Italia meridionale portò i Romani ad adeguarsi, anche per le esigenze della truppa e dell'arruolamento dei soldati, al sistema greco, nel quale al circolante base in argento si affiancavano l'oro in occasioni eccezionali e il bronzo in veste fiduciaria; questo sistema caratterizzò la monetazione romana sino alle alterazioni dell'ultimo periodo della repubblica. Gli artefici delle conquiste che portarono lo stato romano a dominare buona parte dell'orbe e che aspiravano a instaurare un potere personale, trasformavano i bottini in moneta d'oro e d'argento, quale strumento per mantenere un saldo legame con la propria truppa, mentre la produzione della moneta divisionale in bronzo subiva un arresto, per essere greca, grazie ad Atene e Corinto, che dominano la circolazione internazionale rispettivamente con civette e pegasi, così vengono definite dai tipi di Rovescio che si collegano a diversi aspetti del mito della dea. Queste immagini costituiscono un serbatoio di notizie sulle caratteristiche della città e del suo territorio e sull'esistenza di rapporti politici. Il predominio della monarchia macedone, la creazione dell'impero di Alessandro e il suo frazionamento negli stati ellenistici introducono cambiamenti: ricorrono le raffigurazioni di Giove ed Eracle, collegati alla dinastia macedone ed espressive di regalità divina, o le divinità e personificazioni che incarnano ideologie, come Victoria, mentre divengono costanti, per il Dritto, ritratto e nome del sovrano, a garanzia della moneta. L'epigrafia monetale, generalmente ridotta al nome della città o all'etnico, si amplia in epoca ellenistica a riferimenti alle divinità protettrici. Dal IV secolo a.C. all'espandersi della produzione si associa l'esigenza di meglio controllare la qualità e la quantità del numerario tramite l'apposizione di simboli e sigle secondari, che identificano i funzionari responsabili e il periodo di coniazione. Roma, che inizia le emissioni cittadine in argento nel corso del III secolo a.C., affida il controllo esecutivo della produzione a magistrati di ordine senatorio, il cui nome compare sulla moneta e che affiancano e poi sostituiscono la testa di Roma elmata e i Dioscuri al galoppo con tipi che richiamano vicende, culti, benemerenze della propria gens, imprese o provvedimenti legislativi dei suoi membri; l'immagine della città si identifica con quella della sua classe dominante, nasce uno strumento iconografico ed epigrafico a disposizione dei condottieri che si contendono il controllo della città e dell'impero che hanno creato. Il modello istituzionale e ideologico ellenistico fornisce nuovi elementi all'apparato iconografico del potere e la moneta ne registra l'evoluzione; con il ritratto di Cesare inizia una serie di immagini dei detentori del potere e dei membri delle loro famiglie, a volte esse sono l'unico documento che testimonia l'esistenza di usurpatori dal breve regno. Apparato iconografico dei ritratti ed epigrafia monetale, che associa all'onomastica imperiale cariche istituzionali e cognomina ex virtute, forniscono notizie sull'evoluzione dell'ideologia del potere. I Rovesci presentano l'imperatore nella sua veste civile, religiosa e militare, delineano i rapporti con l'esercito e con le popolazioni sottomesse, raffigurano monumenti e opere pubbliche, propongono divinità e personificazioni come simboli del programma di governo e dell'eternità dell'impero. L'aspetto economico non è mai disgiunto da quello ideologico, le contromarche, hanno lo scopo di sottolinearne il ruolo non solo di garante, ma anche di elargitore della moneta e di rinsaldarne il rapporto con la truppa. Anche le emissioni provinciali offrono una documentazione epigrafica e iconografica delle realtà amministrative, dei culti locali e dei rapporti delle élite cittadine con Roma e con la famiglia imperiale. 3.2. Arte e moneta Unico prodotto seriale dell'antichità, la moneta, presentandosi come l'emblema della città o del sovrano, risponde a canoni di alta qualità tecnica e stilistica. La moneta ateniese rappresenta un caso limite: a causa della sua vastissima diffusione si attenne non solo alla fissità dei tipi, ma anche a variazioni stilistiche ridotte fino all'età ellenistica; di contro la monetazione romana imperiale esprimeva anche nelle qualità stilistiche e tecniche la sua natura di duratura immagine del potere, esplicitamente rivendicata nelle istruzioni imperiali. Nelle zecche stabili esistevano archivi e modelli per gli incisori, che realizzavano le direttive ideologiche decise a livello amministrativo e politico. L'iconografia monetale era condizionata dal campo circolare e dalle dimensioni; l'abilità dell'incisore ad adeguarvisi e l'esigenza di aderire al ruolo simbolico e descrittivo del tipo come messaggio creavano risultati più o meno armonici e condizionavano anche l'eventuale riproduzione di opere d'arte o monumenti esistenti. I tipi monetali possono costituire un'importante fonte iconografica per la conoscenza di edifici o statue, ma vanno attentamente valutati nelle varianti e nel contesto di altri dati. 3.3. Cronologia della moneta Per la monetazione greca di età arcaica e classica il criterio principale di datazione è costituito dall'evoluzione stilistica e tecnica interna, che fornisce una cronologia relativa, integrata dai cambiamenti tipologici per i quali è possibile ricostruire rapporti con avvenimenti storici e dall'analisi dei gruzzoli. Dal IV secolo a.C. nomi di sovrani e condottieri e poi i loro ritratti inquadrano le emissioni in periodi storici definiti, all'interno dei quali si può ottenere un dettaglio attraverso rapporti tra alcune iconografie e avvenimenti storici. Anche nei centri autonomi il riferimento alle ere cittadine e il sistema di controllo attraverso simboli e sigle e i riferimenti a funzionari consentono attribuzioni puntuali, come avviene anche per le emissioni romane con simboli e sigle di magistrati, databili annualmente grazie al confronto fra i dati prosopografici e i rinvenimenti. Per gli esemplari di età romana imperiale è possibile dettagliare all'interno del periodo di ogni imperatore, quando le iscrizioni riportano cariche assunte periodicamente o appellativi specifici dei quali si conosca la data di attribuzione. Riferimenti cronologici per alcune serie vengono anche dalle fonti letterarie; tuttavia, sono stati messi in discussione alla luce dei rinvenimenti archeologici, come dimostra la vicenda del passo di Plinio che traccia una sintetica storia della moneta romana repubblicana. Plinio fornisce per il denarius repubblicano una data di inizio definita in modo preciso secondo il consueto sistema di datazione ufficiale, cioè l'anno ab urbe condita, i consoli in carica, il riferimento a un fatto storico fondamentale, nel caso specifico la prima guerra punica. Questa data corrisponde al 268 a.C., ma gli studi recenti la collocano al 217 o al 214a.C. 3.4. La moneta come reperto archeologico Lo studio dei rinvenimenti costituisce la base per la corretta lettura del dato numismatico, ma ai fini della loro interpretazione è indispensabile prendere in considerazione la durata della vita e le caratteristiche di circolazione delle serie in essi contenute. Entrato in circolazione tramite cambio, spese statali, soldo dell'esercito, il lingotto/moneta è destinato a una “vita” più o meno lunga a seconda dei cambiamenti nel sistema. Se usato per spese militari o acquisti di beni in terre lontane, può allontanarsi molto dall'area di emissione; viene trasformato in moneta locale o contromarcato o usato a peso. All'interno dell'impero romano, le emissioni della zecca di Roma e, fino a Caligola, di Lugdunum, circolarono in tutto l'impero, mentre quelle di Alessandria e delle zecche provinciali a carattere locale ebbero diffusione ridotta, legata alle esigenze fiscali locali; a partire da Diocleziano, tutte le diocesi furono rifornite di moneta uniforme da zecche imperiali. Anche per l'impero l'esportazione di moneta fu fenomeno consistente, che veniva a collidere con la crescente richiesta di metallo per le spese amministrative e militari. La vita fisiologica della moneta, oltre che dall'esportazione, veniva interrotta dagli utenti che danneggiavano lo stato, accantonandola e nascondendola o rifondendola, nonostante i divieti. Nei regimi a moneta metallica il nascondimento di somme più o meno consistenti è un fatto ricorrente; esse diventano per noi preziosi reperti e fonti di notizie, nel caso in cui i legittimi proprietari, per dimenticanza o a causa di avvenimenti tragici, non le abbiano recuperate. La configurazione delle somme e le notizie che ci possono fornire sono varie: dalla riserva domestica, alle “casse” di negozi o luoghi pubblici, che riproducono la circolazione quotidiana, ai “tesori”, costituiti da monete selezionate per il valore metallico e lo stato di conservazione, a volte associate a gioielli. Non è infrequente il rinvenimento di somme prelevate dalla circolazione e di casse militari. Cambiamenti del sistema monetale o tentativi di sfuggire alla tassazione possono portare all'esportazione o al nascondimento di esemplari, per lucrare sul maggior valore metallico. Lo studio analitico e comparato dei tesori costituisce uno strumento per la datazione delle serie in essi conservate, fornisce un contributo alla conoscenza delle vicende del sistema monetale oltre che dell'economia e della storia del territorio. Anche lo smarrimento accidentale di esemplari singoli o in gruppi consistenti è un fenomeno attestato, questi esemplari sono in prevalenza di basso valore, spesso si ritiene che una volta riconosciuti, siano stati volutamente abbandonati. Si rinvengono anche “borsellini” con somme consistenti, smarriti per caso. La moneta ha un ruolo importante anche in connessione con luoghi di culto. Occorre distinguere fra situazioni in cui la moneta proviene da attività economiche che fanno capo al tempio, o deriva da offerte dei fedeli che possono essere utilizzate per le spese del culto e la gestione delle festività, e situazioni in cui sembra essere assimilata ad altre offerte rituali. In questo caso si tratta di esemplari di basso valore, a volte appartenenti a specie “straniere”. Le monete di basso valore entrano a far parte del corredo funerario: si tratta di un uso risalente al VI secolo a.C., interpretato dalle fonti greche del IV secolo a.C. come pagamento di un obolo a Caronte, nocchiero infernale. Venivano deposte in mano o in bocca al defunto, nell'Etruria padana un analogo rituale veniva compiuto con un pezzo di bronzo; questa usanza si mantenne anche nel mondo romano per tutta l'età imperiale. Queste diverse categorie di rinvenimenti forniscono notizie sulla natura di un sito archeologico e sulla cronologia di uno strato o di una sepoltura, qualora vengano assunte come terminus post quem, che può essere ulteriormente dettagliato alla luce delle vicende del sistema monetale del periodo e delle caratteristiche della “vita” delle monete interessate della configurazione del rituale e della possibilità di sopravvivenza della moneta come “residuale” o immobilizzata sotto forma di amuleto o gioiello.
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