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Riassunto La storia culturale di Peter Burke, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto dettagliato, capitolo per capitolo del libro La storia culturale di Peter Burke

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 08/06/2022

Aidan95
Aidan95 🇮🇹

4.6

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Scarica Riassunto La storia culturale di Peter Burke e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! La storia culturale Peter Burke Introduzione La storia culturale è una riscoperta degli anni 70 del 900 in seguito ad un revival, lo scopo del lavoro di Burke è capire quale sia il contesto culturale in cui questi studi hanno preso forma. Burke utilizzerà due prospettive di analisi: quella interna alla disciplina, indirizzata alla risoluzione dei problemi; e quella esterna, cioè al rapporto con gli storici e la società in cui vivono. Lo storico culturale riesce a giungere in zone del passato che prima non erano accessibili da un lato; dall’altro (prospettiva esterna) si connetta la storia culturale alla svolta culturale, verificatosi negli studi culturali. Si è andato sempre di più verso un interesse per lo studio dei valori dei gruppi umani, si pensi poi anche al caso di Huntington che parla di scontro di civiltà. Già nel 1897 Karl Lamprecht provò a rispondere alla domanda “che cos’è la storia culturale”, ma la risposta ancora non è definitiva, i confini della disciplina si sono ampliati così come i metodi di studio (c’è chi si affida a metodi intuitivi; chi come Burckhardt, a metodi quantitativi). Il carattere fondamentale delle storie culturali sembra essere l’attenzione per i simboli e la loro interpretazione. I simboli sono universalmente presenti nella vita di tutti i giorni, ma è semplicemente un’impostazione tra le tante possibili. La storia della storia culturale può non avere un’essenza propria, ma di certo non manca di storia. È in continua trasformazione e in costante adattamento al mutare delle circostanze. Per avere una maggiore precisione, bisogna collocare l’opera nel singolo storico culturale, all’interno delle diverse tradizioni culturali esistenti: parte dal 700 tedesco “kultur”, per poi fiorire in Olanda (Huizinga), scontrarsi in Britannia (storici sociali) con maggior interesse negli USA, in Francia il culturale sostituì lentamente il concetto di Civilization e con Les Annales prese forma di storia delle mentalità. Capito 1: La grande tradizione La storia culturale non è una scoperta recente. Era già praticata in Germania come Kulturgeschichte dal 700. È a partire dagli ultimi venti anni del Settecento che si trovano storie della cultura umana, oppure storie della cultura di particolari aree o nazioni. Nel corso del 800 il termine cultura venne impiegato sempre più spesso (i francesi parlano di Civilization). La storia culturale può essere divisa in quattro fasi: la prima è quella che chiamiamo “storia culturale classica” che va, all’incirca, dal 1800 al 1950; la seconda è quella della “storia sociale dell’arte” che ebbe inizio negli anni Trenta; successivamente, intorno agli anni Sessanta si sviluppò un interesse per la “storia della cultura polare”; infine, intorno agli anni Ottanta, si passò alla cosiddetta “nuova storia culturale”. Le fratture che si sono prodotte in questa successione non ebbero affatto la nettezza che viene loro attribuita nel ricordarle. Esistono numerose forme di somiglianza o continuità tra le nuove e le vecchie modalità della storia culturale. La storia culturale classica Il periodo che va all’incirca dal 1800 al 1950 costituisce l’epoca di quella che si può definire la “storia culturale classica” o “grande tradizione”. Questa tradizione comprende classici come: “La civiltà del Rinascimento in Italia” (1860) di Jacob Burckhardt e “L’autunno del Medioevo” (1919) di Johan Huizinga. Presupposto fondamentale di questa fase della storia culturale è l’idea che lo storico debba dipingere quello che potremmo definire il “ritratto di un’epoca”. Questo periodo può essere chiamato classico anche in relazione alla tendenza allora prevalente tra gli storici culturali, concentrati sulla storia dei classici, si dedicarono prevalentemente alla ricerca di un “canone” per i capolavori dell’arte, della letteratura, della filosofia e così via, che fosse una connessione tra le diverse forme di arte in uno stesso contesto storico. I maggiori storici culturali del periodo della storia culturale classica furono JAKOB BURCKHARDT e JOHAN HUIZINGA. Entrambi sono appassionati conoscitori dell’arte, a livello non professionale. La differenza tra questi studiosi e gli specialisti della storia dell’arte o della letteratura consisteva nel fatto che gli storici culturali si interessavano soprattutto delle connessioni esistenti tra le diverse forme d’arte. Ricercavano quindi le connessioni esistenti tra le varie forme artistiche e lo “spirito del tempo”. I cultori di questa disciplina operavano la lettura di opere specifiche di arte o poesia, assumendole come testimonianze esemplari della loro epoca. Burckhardt e Huizinga, pur non essendo professionalmente degli accademici, hanno dedicato i loro libri ad un pubblico più vasto. Non è un caso che la storia culturale si sia sviluppata per prima nel mondo di lingua tedesca, poiché la Germania, prima di diventare una comunità unita politicamente, era più che altro un’unità culturale. Erano quindi i tratti comuni di un popolo che definivano la sua cultura e non i confini sulla mappa. Burckhardt in particolare spaziò nei suoi studi dall’età classica, fino al seicento di Rubens. Ha riservato uno spazio ridotto alla storia degli eventi, essendo orientato alla rievocazione della cultura passata e con l’obiettivo di individuare gli elementi ricorrenti, costanti e tipici, che tramite l’intuito interpretava ed assumeva a canoni culturali dell’epoca. Nella sua opera sul Rinascimento descrisse l’individualismo, la competitività e l’autoconsapevolezza presenti nell’arte, nella letteratura e nella politica dell’Italia. Il ruolo della competizione che c’era già dall’antica Grecia. In un suo saggio, Huizinga dichiarò che a suo parere il principale obbiettivo dello storico culturale è di comporre e definire i modelli di una data cultura, ossia di scoprire i sentimenti e le idee che la caratterizzano in una data epoca e come essi prendono forma nell’arte e nella letteratura. Lo storico scopre modelli di cultura studiando temi, simboli, sentimenti e forme. Le regole culturali sono importanti per Huizinga. Nell’Autunno del Medioevo, il tetso si concentra sullo studio di ideali di vita, come la cavalleria, tratta temi come: decadenza, ruolo del simbolismo nell’arte, paura della morte, comportamento. La mente appassionata e violenta di quel tempo dovevano essere inquadrata in un sistema di regole formali. L’importazione di Huizinga si può definire morfologica. Tutto ciò è possibile, secondo lo studioso, studiando vari temi, simboli, ideali di vita, sentimenti e comportamenti caratteristici di un’intera comunità ma anche del singolo. Egli affermava “Che tipo di idea ci possiamo mai formare di un’epoca se perdiamo di vista la gente che ci vive? Se potessimo fornire solo resoconti generici, non faremmo altro che creare un deserto e chiamarlo storia”. Lo spirito del tempo o Zeitgeist definisce, per Hegel, il clima intellettuale, culturale, etico e politico di un’era. In questo periodo alcuni contributi alla storia culturale sono venuti soprattutto dalla Germania. Il sociologo Max Weber nel 1904 pubblicò “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, dove analizzava le radici culturali del sistema economico europeo, spiegava il mutamento economico in termini culturali, mettendo in evidenza il ruolo dell’etica nel processo di accumulazione del capitale e nella nascita del sistema industriale e commerciale. Il sociologo tedesco Norbert Elias nel 1939 pubblicò “Il processo di civilizzazione”, una storia culturale, basandosi sull’opera di Freud (Il Disagio della civiltà, 1930). Si concentra sulle buone maniere a tavola per mostrare il graduale sviluppo nelle corte dell’Europa occidentale, dei meccanismi di autocontrollo o controllo delle emozioni tra XV e XVIII secolo. Elias si occupa di civiltà, e non di cultura, della superficie dell’esistenza umana, e non delle sue profondità. Contributo basilare alla cultura dell’autocontrollo. Poi Aby Warburg, figura influente della storia culturale tedesca, non fu un sociologo, ma esperto d’arte, che si occupò di contribuire ad una scienza della cultura (Kulturwissenschaft). Scrive saggi su particolari aspetti della cultura dell’Italia rinascimentale, era interessato alla cultural classica, nel suo studio si concentrò su schemi precettivi e formule. L’idea di ricercare schemi culturali di lunga durata è risultata enormemente stimolante per gli storici culturali e non. Figura di riferimento per un gruppo di studiosi, inizialmente ad Amburgo il Warburg Institute che con la WW2 si spostò a Londra, studiosi appassionati di simbolismi ed iconologia come Panofsky e Cassirer. 2. La critica dei marxisti La principale critica portata dai marxisti contro i classici è che l’impostazione di questi ultimi si regge nell’aria, essendo priva di ogni contatto con le basi economiche e sociali della cultura. Burckhardt aveva poco da dire sulle basi economiche del Rinascimento italiano e Huizinga ignorò quasi totalmente la peste nera nella sua trattazione sul tardo Medio Evo. Una seconda critica marxista agli storici culturali classici ne denuncia la tendenza a sovrastimare l’omogeneità culturale di un’epoca e a ignorarne i conflitti sociali. Nel saggio di Thompson il termine cultura viene definito “ginepraio” in cui tutto si aggroviglia, le distanze scompaiono alla vista, così, alla fine, “senza rendercene conto siamo indotti all’accettazione di concezioni olistiche, di artificiose concordanze universali”. È necessario tracciare le linee di distinzione esistenti tra le culture delle varie classi sociali, quelle degli uomini e quelle delle donne e quelle delle diverse classi di età che coesistono in una società. Sarebbe anche utile distinguere quelle che si possono definire “zone temporali”: “non tutte le persone vivono lo stesso Adesso. Lo fanno solo esteriormente, in virtù del fatto che è possibile vederle oggi”. In effetti, “esse si portano dietro un elemento precedente, che fa sentire la sua presenza”. È quella che chiamiamo “contemporaneità del non contemporaneo”: un fenomeno storico generale che mina alle radici le vecchie convinzioni sull’omogeneità della cultura di un’epoca. Anche l’impostazione marxista, però, solleva, problemi spinosi. Essere uno storico marxista della cultura equivale a vivere in una condizione paradossale. Il libro di Thompson Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra quando venne pubblicato fu criticato dai suoi colleghi marxisti per culturalismo, cioè per occuparsi soprattutto di esperienze vissute e idee piuttosto che della realtà economica, della società e della politica. La reazione di Thompson fu quella di accusare i suoi critici di economicismo. Questa tensione ha incoraggiato l’emergere di un ripensamento critico dei concetti marxiani di base o fondamento socioeconomico e di sovrastruttura culturale fra gli autori marxisti. Restano comunque dei problemi: un marxismo che si liberi dei concetti complementari di struttura e sovrastruttura rischia di perdere la sua identità e la critica di Thompson sembra rendere impossibile la storia culturale, rischia di ridurla in frammenti. La domanda basilare che emerge dalle critiche alla storiografia marxista: è possibile studiare una cultura nella sua totalità e individualità senza doverle necessariamente attribuire un’omogeneità che certo non possiede? Due, fondamentalmente, sono state le proposte avanzate per rispondere a questa domanda. La prima è quella di dedicarsi allo studio delle tradizioni culturali; la seconda è quella di considerare la cultura dotta e quella popolare come subculture, separate e autonome, sì, ma solo in misura parziale. 3. I paradossi della tradizione Nell’idea di cultura è implicita quella di una tradizione, della trasmissione, da una generazione all’altra, di un insieme di conoscenze e di competenze. Poiché all’interno di una stessa società possono convivere diverse tradizioni. Lavorare sulle tradizioni permette di evitare il presupposto dell’unità o dell’omogeneità di un’epoca. Il concetto di tradizione deve essere visto come problematico. Sono due le difficoltà principali che esso comporta: li potremmo definire i paradossi gemelli della tradizione. 1. In primo luogo un’apparenza di innovazione può nascondere la sopravvivenza di una tradizione. In molte culture è stata osservata la persistenza di atteggiamenti religiosi in forme secolarizzate. Es. persistere di atteggiamenti puritani nella cultura odierna degli USA. Gli storici, consapevoli della capacità di sopravvivenza di una cultura rivolgono maggiore attenzione alla mescolanza o alla sintesi tra due religioni. 2. Per contro, i segni esterni della tradizione possono mascherare un’innovazione. Il messaggio trasmesso dal fondatore di un movimento, di una religione o filosofia, che abbia avuto successo, di solito non è semplice. Se raccoglie l’attenzione di molti è perché possiede molti aspetti: alcuni seguaci ne colgono uno, altri uno differente, a seconda dei loro interessi o della situazione in cui versano. Ancora più fondamentale è il problema del conflitto interno delle tradizioni, cioè del conflitto inevitabile tra l’universalità delle regole e la specificità e perenne instabilità delle situazioni. In altre parole, tutto ciò che viene trasmesso è passibile di cambiamento – o, più precisamente, deve cambiare – nel corso della sua trasmissione alla generazione successiva. 4 La cultura popolare messa in discussione Un’alternativa all’assunzione del presupposto dell’omogeneità consiste nel tenere differenziate la cultura alta e quella popolare. Il concetto di cultura popolare ha finito per essere oggetto di dibattito. Tanto per cominciare, c’è il problema di definire il soggetto di cui si parla. Chi appartiene al popolo? Tutti o solo la massa esclusa dalle élite? In quest’ultimo caso ci stiamo servendo di una categoria costruita per esclusione e corriamo il rischio di dare per scontata l’omogeneità di ciò che è stato escluso. Sarebbe forse meglio seguire l’esempio di alcuni teorici e pensare alla cultura popolare al plurale, cioè alle culture, delle città e delle campagne, degli uomini e delle donne, dei giovani e dei vecchi ecc. Il termine sottocultura sembra essere associato alla criminalità, erroneamente denotativo della posizione di inferiorità. Anche questa soluzione pluralistica, però, presenta un problema. Ad esempio all’interno di una società esiste una cultura femminile autonoma e distinta da quella maschile? Se la risposta è negativa, si nega un’evidenza tangibile, ma se è positiva tale differenza viene esagerata. Sarebbe forse più utile parlare di culture femminili a vari livelli di autonomia e dipendenza, ossia di “sottoculture”, che risultano tanto più autonome quanto più rigida è la segregazione delle donne. Gli storici della cultura popolare si trovano poi a dover affrontare un altro problema ancora: debbono scegliere se includere o escludere le élite nel loro lavoro. Contro l’esclusione gioca il fatto che gli individui di uno status sociale elevato non sono poi necessariamente diverse nella loro cultura dalla gente comune (tra i lettori di chap books, opere leggere a basso costo, troviamo anche nobili donne e duchesse). Per questo Roger Chartier ha sostenuto che è impossibile applicare a un qualsiasi oggetto o comportamento culturale l’etichetta di popolare. All’inizio dell’età moderna i comportamenti culturali appartenevano sia alla cultura popolare, che a quella dotta. Soltanto a partire dalla seconda metà del 600 le élite cominciano a rompere i contati con la cultura popolare. Questa fitta rete di relazioni tra cultura alta e cultura popolare è apparsa ad alcuni studiosi una ragione sufficiente per rinunciare definitivamente a entrambi gli aggettivi. Forse la strategia migliore è quella di servirsi dei due termini senza renderne troppo rigida l’opposizione binaria e di collocare entrambe, cultura alta e popolare, in un contesto più ampio. 5. Che cos’è la cultura? Il termine cultura solleva anche più problemi che popolare, secondo Burckhardt quello di storia culturale è un concetto vago: utilizzato in riferimento alla cultura alta, è poi disceso, sino ad includere la cultura popolare o bassa. Di solito il termine cultura si riferiva alle arti e alle scienze, mentre in seguito è passato a descrivere l’equivalente popolare delle arti e delle scienze: la musica popolare, la medicina popolare e così via. Con l’ultima generazione, il termine ha finito per riferirsi a una gamma molto vasta di prodotti (immagini, strumenti, abitazioni ecc.) e comportamenti (conversare, leggere, giocare ecc.). T. Eliot aveva inserito nel termine cultura il significato di: derby, tiro al bersaglio; Malinowski aveva dato una definizione allargata di cultura che comprende il patrimonio ereditato di prodotti, nei, idee, abitudini e valori e Taylor aveva aggiunto cultura in senso etnografico, come insieme di conoscenze, credenze, arte, morale, diritto o qualsiasi altra capacità e abitudine acquista dall’uomo in quanto membro della società. L’interesse antropologico per il quotidiano e per società nelle quali la divisione del lavoro era relativamente scarsa, favorisce l’uso del termine cultura in questo senso allargato. Di questo concetto antropologico gli storici culturali si sono appropriati nell’ultima generazione, quella della “antropologia storica” e della “nuova storia culturale”. Cap 3: Il momento dell’antropologia storica Nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Novanta, il lavoro degli storici culturali è stato caratterizzato da una svolta antropologica. Dall’incontro tra antropologia e storia sono scaturite molte novità. Molti storici hanno imparato ad usare il termine cultura in senso ampio, sopratutto in Francia, USA e Gran Bretagna. Una delle più significative è l’uso del termine cultura al plurale e in un senso progressivamente più ampio. 1 La svolta culturale Un interesse per la cultura, per la storia culturale e gli studi culturali è divenuto sempre più evidente negli anni Ottanta e Novanta. Nelle diverse discipline questa svolta culturale ha prodotto effetti diversi e ha assunto anche diversi significati: nel caso della psicologia culturale la svolta comporta l’abbandono dell’idea che gli esseri umani siano sottoposti tutti alle stesse pulsioni e un riavvicinamento all’antropologia e alla sociologia. Nella geografia culturale essa implica invece l’impegno a evitare il ritorno all’idea tradizionale delle aree culturali, idea che ignora tutte le differenze sociali e i conflitti sociali presenti in una particolare regione. Nel caso dell’economia, all’interesse per la cultura si associano un interesse crescente per i processi di consumo e la consapevolezza che le tendenze dei consumatori non possono essere spiegate in modo soddisfacente dai semplici modelli matematici della scelta razionale. Nel caso della storia, ci stiamo avviando verso la storia culturale di tutto: sogni, cibo, emozioni, viaggi, memoria, gestualità, humour, sistemi di esame e così via. Lo slogan della nuova storia culturale (New Cultural History) ha avuto successo negli USA. Un movimento internazionale. In Francia l’espressione histoire culturelle ha fatto fatica ad entrare. In Gran Bretagna la storia culturale è un fenomeno recente. L’espansione del dominio della cultura comporta anche una crescente propensione per la spiegazione in termini culturali di fenomeni economici, come, ad esempio, il declino economico di un dato Stato o i motivi della ricchezza e dell’impoverimento delle nazioni. In questo periodo accade sempre più spesso che vengano offerte spiegazioni in termini culturali di processi politici come le rivoluzioni, la formazione gli Stato o anche l’intervento in guerra di altre. Nel modo in cui gli storici hanno usato il termine cultura si è manifestato, in questo modo, negli ultimi trent’anni, uno slittamento progressivo. Il termine infatti, che una volta veniva utilizzato in riferimento alla cultura alta, rimanda oggi anche alla cultura della quotidianità, cioè alle abitudini, ai valori, a un modo di vivere. In altre parole, gli storici si sono accostati alla visione della cultura che è propria degli antropologi. 2 Il momento dell’antropologia storica Fra gli antropologi che gli storici hanno studiato con maggior attenzione troviamo MARCEL MAUSS, EDWARD EVANS PRITCHARD, MARY DOUGLAS, CLIFFORD GEERTZ e CLAUDE LÉVI STRAUSS. Altre ricerche, ispirate più dagli studi di geografia, folklore, che dall’antropologia, si sono indirizzate a entità sociali più ampie, regioni più che villaggi o famiglie: Charles Phythian-Adams, storico inglese che analizza le province culturali inglesi; David Underdown, storico inglese concentrato sulle variazioni nella cultura popolare della prima modernità. Il seme di Albione (Albion's Seed) è un libro del 1989 di David Fischer, in cui distingueva 4 regioni culturali dell’America coloniale, ciascuna formata dalla migrazione di una specifica regione inglese. Fisher definiva i folkways (tratti culturali specifici) di ciascuna regione inglese. A partire dagli anni Sessanta, sono state pubblicate centinaia di ricerche microstoriche, su villaggi e individui singoli, famiglie e conventi, rivolte, omicidi e suicidi. Ginzburg, a differenza dei suoi imitatori, ha affrontato con lucidità l’analisi tra comunità studiata e mondo esterno. Un rinnovamento della microstoria è dovuto al dibattito sulla spiegazione della storia, come i libri dello storico inglese John H. Plumb. 4. Postcolonialismo e femminismo Uno dei principali motivi per la ribellione contro la “grande narrazione” della civiltà occidentale è la crescente chiarezza con cui si avvertiva quello che essa ignorava e occultava. La lotta del terzo mondo per l’indipendenza e la polemica sullo sfruttamento economico cui è ancora sottoposto ad opera dei paesi più ricchi richiamarono l’attenzione sulla forza dei pregiudizi colonialisti e sulla loro sopravvivenza anche in epoca postcoloniale. In questo contesto culturale nasce la teoria del post- colonialismo, che in seguito assunse la forma istituzionalizzata di studi postcoloniali, un intricato insieme di temi di ricerca che comprendono anche un po’ di storia culturale. Uno dei libri più efficaci nel rivelare la forza dei pregiudizi occidentali è Orientalismo di Edward Said. Qui si notava l’importanza dell’opposizione binaria occidente-oriente nel pensiero occidentale. Said sosteneva che, a partire dalla fine del 700, l’orientalismo, manifesto o latente, fosse strettamente connesso al colonialismo e fosse divenuto una delle modalità occidentali per dominare, ristrutturare ed esercitare autorità sull’Oriente. Orientalismo analizzava le varie formule con cui il Medio Oriente è stato percepito dai viaggiatori, romanzieri e studiosi venuti dall’Occidente, evidenziando stereotipi come arretratezza, degenerazione ecc. Era un libro di protesta, una richiesta di lettura del Medio Oriente senza lenti deformanti dell’ostilità, e ha ispirato una serie di ricerche. Un’altra lotta per l’indipendenza, il femminismo, ha avuto implicazioni altrettanto ampie sulla storia culturale, in virtù dell’impegno esercitato dal movimento volto a smascherare i pregiudizi maschili e mettere in risalto il contributo femminile alla cultura, di regola invisibile nella “grande narrazione” tradizionale. Storia delle donne in Occidente (1990-2) libro di Georges Duby e Michelle Perrot comprende molti saggi di storia culturale, ad esempio sull’educazione, sulla visione maschile delle donne, sulla pietà ecc. La storica americana, Joan Kelly, pubblicava un articolo intitolato “Ce stato il Rinascimento delle donne?”. Nella sua provocatoria domanda che rivolse anni fa agli storici, sosteneva che fosse infatti necessario «restituire le donne alla storia e la storia alle donne». Sacro convivio, sacro digiuno (1987) libro di Caroline Bynum è un esempio di “nuova storia culturale”, l’autrice dà maggiore rilievo ai comportamenti pratici delle donne, nei confronti della proliferazione del simbolismo (che Huizinga considerava segno di decadenza). Cap. 4 Un nuovo paradigma Le tracce lasciate dall’antropologia sulla storia culturale hanno portato alla formazione della cosiddetta nuova storia culturale, che attinge a più fonti di ispirazione. L’espressione nuova storia cultuale (New Cultural History NCH) entrò in uso alla fine degli anni Ottanta. Era il titolo di un libro pubblicato nel 1989 della storica Lynn Hunt. La parola “nuova” serve a distinguere la nuova storia culturale dalle forme precedenti che già abbiamo esaminato, come nouvelle histoire. La parola “culturale” la distingue dalla storia intellettuale, indicando un orientamento chiaramente indirizzato alle mentalità, alle convinzioni e ai sentimenti, piuttosto che alle idee o ai sistemi di pensiero. La parola storia culturale serve anche a distinguerla dalla storia sociale. Il nuovo stile della storia culturale dovrebbe essere visto come una risposta all’espansione del dominio della cultura e alla nascita della teoria culturale. L’interesse per l’inquadramento teorico è un tratto distintivo della nuova storia culturale. 1 Quattro teorici MICHAIL BACHTIN, NORBERT ELIAS, MICHEL FOUCAULT e PIERRE BOURDIEU sono quattro teorici di particolare importanza per la storia culturale. MICHAIL BACHTIN era un teorico del linguaggio e della letteratura. Autore di teorie sulla cultura del XX secolo. Fu scoperto dagli storici, al di fuori della Russia, a seguito della traduzione francese e inglese del libro L’opera di Rabelais e la cultura popolare (1965). I concetti basilari del libro di Bachtin: carnevalizzazione, decoronazione, lingua del mercato e realismo grottesco, sono stati impiegati tanto di frequente dalla nuova storia culturale che è difficile comprendere come un tempo sia stato possibile farne a meno. La convinzione di Bachtin sull’importanza del sovvertimento e della penetrazione operati dalla cultura bassa, specie nella forma del riso popolare, su quella alta, corrono addirittura il rischio di trasformarsi in una sorta di nuova ortodossia, da accogliere senza discutere. Dall’altra parte le tesi avanzate da Bachtin a proposito dei vari tipi di discorso e sulle voci diverse che possono essere colte all’interno di un singolo testo (il fenomeno che si chiama polifonia, poliglossia o eteroglossia) hanno ricevuto un’attenzione relativamente scarsa, al di fuori del mondo letterario. Perché leggere il Carnevale come espressione di un certo numero di voci, piuttosto che ridurlo a pura forma di sovversione popolare, è illuminante. NORBERT ELIAS era un sociologo che per tutta la sua vita si interessò alla storia, occupandosi sia di cultura sia di civilizzazione. Il processo di civilizzazione (1939) è stato un contributo importante sia alla storia sia alla teoria sociologica. Fra i concetti chiave del libro si trovano la “soglia di pudore” e la “soglia della ripugnanza”. A parere di Elias, nel Sei e Settecento queste soglie presero gradualmente a sollevarsi, bandendo un numero sempre maggiore di condotte dagli usi della buona società. Altro concetto basilare è quello di “costrizione sociale all’autocostrizione”. Poi troviamo anche il concetto di competizione, habitus, configurazione. Il processo di civilizzazione è stato pubblicato nel 39 in tedesco e in Svizzera, non suscitò inizialmente grande interesse, ma a partire dagli anni 60 la sua influenza è aumentata grazie ad Anton Block, Roger Chartier. Impiego frequente del termine civility nelle opere degli storici di lingua inglese. È stato anche oggetto di critica perché ignora tutto il Medio Evo e non parla abbastanza dell’Italia, e anche perché sovrastimerebbe l’influenza delle corti e sottostimerebbe quella di città. Anche il fatto che Elias dia per scontato che la civilizzazione sia un processo fondamentalmente occidentale. Se volessimo descrivere sinteticamente il modo in cui gli storici culturali hanno accolto le idee di Elias, potremmo dire che la sua interpretazione della storia è stata sovente criticata, ma la sua teoria sulla società e la cultura è stata alla fine accolta come un ottimo strumento di stimolazione del pensiero. MICHEL FOUCAULT, sociologo, al contrario di Elias che si concentrava sull’autocontrollo, ha posto in primo piano l’eterocontrollo, il controllo esercitato sull’io. Foucault è divenuto storico e poi da storico delle idee si è trasformato in storico sociale, con libri dedicati alla storia della follia, della clinica, dei sistemi intellettuali, dei sistemi di sorveglianza e della sessualità. Tra le idee da lui promosse, tre sono risultate particolarmente importanti per la nuova storia culturale. In primo luogo Foucault ha condotto una critica tagliente contro l’interpretazione teleologica della storia, espressa nei termini di evoluzione, progresso, sviluppo della libertà individuale, proposti da Hegel e altri filosofi. La sua impostazione, espressa attraverso il termine di genealogia, mette in risalto il ruolo di ciò che è accidentale e non mira alla ricostruzione di un percorso lineare di evoluzione delle idee o di formazione del sistema attuale. In secondo luogo, Foucault vedeva i sistemi di classificazione (epistemi o regimi di verità) come forme con cui una cultura esprime e insieme modella sé stessa. Si autodefiniva un archeologo, perché riteneva che il lavoro degli storici si fermasse alla superficie, mentre bisognava scavare più a fondo per raggiungere le strutture intellettuali (reti e griglie). Foucault dichiara che il suo intento è studiare gli strumenti con cui si attua il controllo del pensiero. I suoi lavori erano dedicato all’esame delle modalità con cui determinati gruppi (folli, criminali, devianti sessuali) erano stati esclusi dalle strutture di ordine sociale ed intellettuale. Di contro, Le parole e le cose (1966) tratta delle categorie e dei principi che determinano e strutturano tutto ciò che può essere pensato, i discorsi, cioè che è detto o scritto in un’epoca. Il vero oggetto erano i discorsi collettivi, non dei singoli autori. In terzo luogo, la storia intellettuale prevedeva sia attività pratiche che teoriche. Il suo contributo alla pratica si lega all’importanza della microfisica del potere. In Sorvegliare e punire (1975) Foucault presenta una serie di parallelismi tra prigioni, scuola, ospedali, caserme, considerandole tutte istituzioni destinate a produrre corpi docili. PIERRE BOURDIEU, filosofo francese divenuto antropologo e sociologo. I concetti e le teorie che ha prodotto sono risultati importantissimi. Il concetto di “campo” - letterario, linguistico, artistico, intellettuale - si riferisce a un dominio autonomo che, in una determinata cultura e in un determinato momento, si renda indipendente e procura convenzioni sociali sue proprie. Secondo la sua “teoria della riproduzione culturale”, che ha avuto molto influenza, il processo mediante cui un gruppo come la borghesia francese mantiene la sua posizione sociale grazie a un sistema scolastico che sembra autonomo e imparziale, ma di fatto seleziona per livelli di istruzione più elevati gli studenti cui siano stati inculcati fin dalla nascita i valori di quel gruppo sociale. Altro importante contributo di Bourdieu è la sua “teoria delle attività pratiche” e in particolare il concetto di “habitus”. Bourdieu (reagendo alla concezione di regole culturali troppa rigida di Levi Strauss) ha esaminato le attività pratiche della vita quotidiana, leggendole come una sorta di improvvisazione continuata, disciplinata da schemi di azione fisica e mentale assimilati culturalmente; il termine habitus è un prestito attinto dallo storico Erwin Panofsky e si riferisce a questa capacità di improvvisare. L’habitus dei borghesi in Francia si accorda perfettamente con le qualità che vengono premiate e favorite nel sistema dell’istruzione superiore. Questo è il motivo per cui i figli della borghesia superano gli esami con risultati naturali. Bourdieu fa uso della metafora entrale, tramite l’economia, quando analizza i termini: beni, produzione, mercato, capitale, investimento. Bourdieu si è inoltre servito della metafora militare di “strategia” non solo nello studio degli accordi matrimoniali, ma anche nella cultura: la borghesia, si dedica a utilizzare “strategie di distinzione” per differenziare se stessa dai gruppi che considera inferiori, “l’identità sociale si trova nella differenza, e la differenza deve essere dimostrata contro ciò che è più vicino e che rappresenta la minaccia maggiore”. Ad attrarre gli storici culturali, sono state le osservazioni di Bourdieu sugli stili di vita della borghesia, è questa ricerca di una distinzione per affermare l’esistenza. Queste teorie hanno spinto gli storici culturali ad occuparsi sia delle rappresentazioni sia delle pratiche. Il linguaggio della moda. Alle origini dell'industria dell'abbigliamento di Daniel Roche mostra come i codici dell’abbigliamento rivelino quelli culturali. Nella Francia del 700, aderire ad un certo codice di abbigliamento era uno dei modi con cui un uomo/donna poteva mostrare la propria appartenenza alla nobiltà, o dissimularla. Dietro l'apparato esterno è possibile collegare le strutture mentali. Costruttori di cultura 1979 di Orvar Lofgren, passaggio dall'austerità alla opulenza verificatosi sul finire dell'ottocento. Mutamento attribuito al fatto che la dimora privata diventa il palcoscenico su cui la famiglia inscenava la dimostrazione della propria condizione sociale e l'ostentazione della propria ricchezza. 5. La storia del corpo La storia del corpo è un settore della nuova storia culturale in piena fioritura oggi. I contributi in questo campo, anche solo qualche decennio prima, erano stati scarsi e passati inosservati. Già a partire dagli anni Trenta, lo storico e sociologo brasiliano Gilberto Freyre si era dedicato a esaminare le fattezze fisiche degli schiavi, così come si potevano ricostruire dalle descrizioni contenute nelle denunce di fughe di schiavi pubblicate nei gazzettini ottocenteschi. Freyre nota, ad esempio, la perdita di capelli negli uomini che trasportavano carichi pesanti sulla testa, oppure che gli uomini francesi del nord erano più alti rispetto ai meridionali, probabilmente per via dell’alimentazione. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, una massa crescente di ricerche si è indirizzata allo studio dei corpi maschili e femminili, del corpo come esperienza vissuta e come simbolo. La rivista «Body and society», fondata nel 1995, è un foro aperto agli storici come ai sociologi. Sono stati pubblicati libri sulla pulizia del corpo, sulla danza, sull’addestramento delle reclute, sul linguaggio gestuale, sul tatuaggio ecc. La storia del corpo è nata all’interno della storia della medicina, ma in seguito gli storici dell’arte e della letteratura, così come gli antropologi e i sociologi, hanno finito per trovarsi coinvolti in quella che potremmo definire la “svolta corporea”. Questi nuovi filoni di ricerca sono soprattutto tentativi di aprire territori inesplorati agli storici (es. il filone della storia della gestualità aperto da Jacques Le Goff). Alcune ricerche sulla storia del corpo mettono anche in discussione convinzioni tradizionali: in crisi le convinzioni comuni sull’odio cristiano per il corpo nel libro di Peter Brown Il corpo e la società 1988. O anche Sacro convivio, sacro digiuno di Caroline Bynum, come esempio di storia delle donne, studio del corpo e della sua alimentazione. L’interesse per la storia del corpo si accompagna all’interesse per la storia dei generi. 6. Una rivoluzione nella storia culturale? Sono stati aperti molti nuovi filoni di ricerca e nuovi sono stati i concetti utilizzati per esplorarli. La nuova storia culturale nasce dall’antropologia storica. Le somiglianze esistenti tra opere presentano delle continuità nella storia culturale. Tuttavia le forme di continuità con la tradizione non dovrebbero essere dimenticate. Ma nonostante la presenza tangibile di queste continuità, sarebbe difficile negare che uno spostamento collettivo, o una svolta, si sia verificato nel corso dell'ultima generazione. Spostamento che è una riforma, non una rivoluzione. Sono cambiati i centri di interesse, non è nato qualcosa di assolutamente nuovo. La nuova storia culturale non è mai stata esente da critiche. Il concetto antropologico tradizionale di cultura come di un “mondo concreto e coeso di credenze e pratiche” è stato attaccato in base alla considerazione che le culture sono anche luogo di conflitti, con legami di integrazione interna molto altalenanti. In buona parte la nuova storia culturale si fonda su un’altra teoria, anche più controversa, quella della costruzione sociale della realtà. Cap. 5 Dalla rappresentazione alla costruzione L’idea di “rappresentazione” è un concetto centrale nella nuova storia culturale: sembra proprio che accoglierla debba anche comportare la convinzione che immagini e testi non siano altro che riflessi o imitazioni della realtà sociale. Questa conseguenza logica non è accettata dagli storici cultuali. Da questo deriva l’uso di fare riferimento a una “costruzione” o “produzione” della realtà realizzata grazie a insiemi di rappresentazioni. Roger Chartier ha parlato di come la storia sociale della cultura sia divenuta storia culturale della società. Ha coniato questa formula nell’intento di descrivere i dislocamenti degli interessi storici negli anni 80, come l’abbandono della storia sociale della sua forma dura (studio delle strutture della società, come le classi sociali). La nuova storia cultuale è stata ha risentito del costruttivismo. 1. La nascita del costruttivismo I primi a mettere in dubbio le convinzioni tradizionali sull’obiettività della conoscenza furono filosofi e scienziati. Se una volta per uno storico era possibile ignorare Nietzsche o Wittgenstein, è in seguito divenuto sempre più difficile sottrarsi al dibattito sulla relazione esistente tra il linguaggio umano e quel mondo esterno che il primo avrebbe dovuto “rispecchiare”. Lo specchio è rotto: il presupposto che una rappresentazione corrisponda all’oggetto rappresentato è stato messo in dubbio. La convinzione che esistesse un materiale dotato di una sorta di trasparenza, così cara agli studiosi tradizionali, è stata posta in discussione. Oggi le fonti storiche ci appaiono molto più opache di quello che mai avremmo supposto nei secoli scorsi. Gli storici sono diventati sempre più consapevoli del fatto che persone diverse possono vedere uno stesso evento o una stessa struttura da prospettive molto differenti (storie femministe, storie dal pov delle classi subalterne, dei popoli decolonizzati, la nascita della storia del basso →Thompson: passato dal pov delle persone comuni). In questo contesto, antropologi, sociologi, studiosi si trovarono coinvolti in un dibattito che prima era appannaggio solo di filosofi e scienziati. Il problema di verificare se effettivamente gli studiosi costruiscano i loro oggetti di studio o, anzi, quello di determinare in quale misura o in qual modo lo facciano, è divenuto oggi uno dei principali oggetti di studio. È un caso particolare di quella che i filosofi e i sociologi chiamano “costruzione sociale della realtà”. Nella ricerca psicologica, dunque, la percezione oggi ci appare sempre più come un processo attivo piuttosto che un riflesso dell’oggetto percepito. Sociologi, antropologici e studiosi parlano sempre di più di invenzione o costruzione delle entità entiche, o delle classi sociali, o delle appartenenze di genere, o della società. Una volta si avvertivano le forme di una strutturazione dura del mondo sociale; oggi delle forme soffici, malleabili, fluide, fragili (immaginazione, senso di libertà). Le posizioni dei costruttivisti trovano un’espressione assai efficace nell’Archeologia del sapere (1969) di Michel Foucault, che parlava dei discorsi definendoli pratiche che sistematicamente costituiscono gli oggetti di cui parlano. I costruttivisti hanno un debito di gratitudine ancora maggiore nei confronti della teoria culturale di Michel de Certeau che venne formulata qualche anno dopo. Certeau è stato teologo, psicoanalista, antropologo, sociologo francese e ha dato contributi importanti alla storia del misticismo, della storiografia e del linguaggio. Per quanto riguarda la nuova storia culturale il testo più influente di Certeau è il libro sulla vita quotidiana nella Francia degli anni Sessanta che fu pubblicato nel 1980. In precedenza i sociologi si erano limitati a studiare il “comportamento”: dei consumatori, degli elettori o di altri gruppi. Certeau invece preferiva parlare di “pratiche”. Le pratiche che studiò erano quelle delle persone comuni: attività giornaliere come fare la spesa, passeggiare nel proprio quartiere, mutare la disposizione dei mobili o guardare la tv. I sociologi precedenti erano partiti dal presupposto che le persone comuni fossero consumatori passivi di prodotti di massa e spettatori passivi dei programmi tv. Certeau, invece, ne sottolineava la creatività e l’inventiva, descrivendone il consumo come una sorta di attività produttiva. Metteva in evidenza come gli individui fossero capaci di operare delle scelte nel mare di prodotti di massa esibiti nei negozi e mantenessero la loro libertà critica nell’interpretare quello che leggevano o vedevano sullo schermo del televisore. Certeau scrive di “usi”, “appropriazione” e soprattutto di “reimpiego” (ré-emploi). Egli pensava cioè a gente comune che opera delle scelte da un repertorio, riordina gli oggetti selezionati in combinazioni originali e infine colloca in contesti nuovi ciò di cui si è in tal modo appropriata. Questa costruzione del quotidiano attraverso attività pratiche di reimpiego fa parte di quelle che Certeau chiama “tattiche”. I dominati, utilizzano “tattiche”, piuttosto che “strategie”, perché la loro libertà di manovra è ristretta entro i limiti definiti da altri. Il concetto di “pratica” di Certeau ha molto in comune con quello di Bourdieu, di cui però critica il concetto di habitus, perché implica che la gente non si renda conto di quello che sta facendo. Certeau è stato un grande protagonista nella grande trasformazione che si è verificata nel campo degli studi letterari, artistici e musicali nel corso dell’ultima generazione, nello spostamento cioè del centro d’interesse, trasferitosi dagli artisti, scrittori e compositori verso il pubblico dei destinatari, con le loro risposte, la loro ricezione delle opere che vedevano, leggevano, ascoltavano. Se la tesi di Certeau e Foucault sull’importanza della costruzione culturale è corretta, allora tutta la storia potrebbe essere descritta come storia culturale. Si prenda il caso della malattia: la nuova storia culturale del corpo si differenzia da quella più tradizionale della medicina per l’importanza che attribuisce al processo di costruzione culturale del concetto di malattia, in modo particolare a quello di follia. Storia della follia nell'età classica di Michel Foucault e Storia sociale della follia di Roy Porter, ne sono un esempio. 2. Nuove costruzioni Secondo alcuni storici, in particolare l’americano, Hayden White, anche il passato è una costruzione culturale. Nel suo libro di enorme influenza, Retorica e storia (1973), White ha analizzato dei testi storici di quattro grandi classici dell’Ottocento: Jacob Burckhardt, Jules Michelet, Leopold von Ranke e Alexis de Tocqueville. L’autore ha concluso che ognuno di loro aveva modellato la propria narrazione su uno dei principali generi letterari (satira, romanzo cavalleresco, commedia e tragedia). White si colloca a metà tra la concezione tradizionale secondo cui gli storici producono i loro propri testi e le loro interpretazioni, e quella non convenzionale secondo la quale anche il passato è una loro costruzione. La costruzione delle classi e dei generi Le categorie sociali, cui una volta ci si riferiva come entità stabili e fisse, oggi appaiono flessibili e fluide dall’occhio degli osservatori contemporanei. La “casta” in India, la “tribù” in Africa, l’etnia, la classe sociale, sono tutti concetti che ora sono diventati flessibili agli occhi degli osservatori contemporanei. Risultano costruzioni sociali che dipendono dal periodo storico, dagli eventi politici ed economici, dalle circostanze in cui una società si ritrova a vivere. Questo punto di vista è stato adottato anche per quanto riguarda il genere. È necessario distinguere tra le concezioni della femminilità tipiche degli uomini, dalle concezioni che ne hanno le donne della stessa epoca e dello stesso livello sociale (in cui si attua il processo di costruzione del genere). La mascolinità e la femminilità sono sempre più frequentemente studiate in quanto ruoli sociali acquisiti, in base a un copione che varia nelle diverse culture e subculture e che viene assimilato già dall’infanzia. È così che questi due modelli sono spesso definiti per contrasto (es. virile inglese opposto al francese). Uno dei tratti distintivi più importanti degli storici della nuova storia culturale è dato da un forte interesse per i progetti di costruzione delle identità in un’epoca in cui la “politica dell’identità” è divenuta una delle questioni più urgenti in tanti paesi. Ci si interessa sempre di più ai documenti personali (gli “egodocumenti”). Si tratta di testi scritti in prima persona, che assumono la forma di lettere, di racconti di viaggio, oppure a diari o autobiografie. C’è un interesse crescente per le regole di composizioni con cui furono prodotti questi documenti, per la “retorica dell’identità”. Storie d'archivio di Natalie Zemon Davis, in cui si propone di trovare un gran numero di lettres de rémission: domande di grazia rivolte al re e ai suoi tribunali da persone colpevoli di omicidio, di cui analizza i modelli retorici, il modo in cui gli attori di queste vicende organizzano il materiale narrativo. Studia come essi "raccontano una storia", esamina le circostanze all'interno delle quali le narrazioni si producono, confronta poi le diverse "strategie narrative". In particolare, si concentra sull’aspetto functional (fingere: la capacità di dare forma, modellare, ordinare la narrazione). Anche per le autobiografie, la concezione tradizionale è stata rimpiazzata da un’impostazione più sottile (percezione dell’io in termini di appartenenza a ruoli definiti e percezione della vita modellata su base dell’intreccio narrativo). Es. Grace Abounding to the Chief of Sinners di John Bunyan, un “autobiografie degli entusiasti”. Le opere che si collocavano in questo genere seguivano il modello delle Confessioni di Sant’Agostino e della vita di San Paolo narrata negli Atti degli apostoli. Descrivevano esasperandolo, uno stato iniziale di peccaminosità, per procedere poi al racconto di un radicale mutamento nelle disposizioni dell’animo del protagonista. Gli storici hanno anche mostrato un interesse un impegno crescenti per il tentativo di cogliere i personaggi da loro studiati nell’atto di sperimentare o assumere stabilmente una nuova identità: farsi passare per bianco, maschio, per un membro delle classi superiori e così via. Alcuni casi celebri di donne che, indossati abiti maschili, erano riuscite a prestare servizio nella marina o nell’esercito prima di venire scoperte, hanno acquisito, nel contesto attuale, in cui l’interesse per l’identità e la sua plasticità e quello per la storia delle donne sono così forti, una forte rilevanza. 3. La performance: esecuzione e occasione Gli storici, come i loro colleghi in altre discipline, sono progressivamente passati dal concetto di “copione” socialmente definito a quello di “performance”. Le grandi cerimonie pubbliche si prestano ad essere analizzate in termini di performance, e questo è quello che è stato fatto: l’incoronazione di Elisabetta II è stata studiata come un caso di performance del consenso, le grandi feste popolari del Venezuela come performance del nazionalismo (es. Le origini del pensiero politico moderno 1989 di Quentin Skinner). Anche la vita quotidiana viene analizzata in quanto performance: esibizione- realizzazione di appartenenza etnica, o di genere, di onore, di cortigianeria, nobiltà o servitù (es. ricerca etnografica di Michael Herzfeld in un villaggio cretese). Anche le dimostrazioni di sottomissione degli schiavi vengono lette come performance, come sceneggiate, esagerazioni. I linguisti parlano di atti d’identità, per sottolineare il fatto che il linguaggio non esprima un’identità, ma la crei. C’è un interesse crescente per le performance delle metafore (es. azione di pulire i pavimenti funge da simbolo per la pulizia entica, metafora purezza). Il termine performance è stato usato anche in riferimento all’architettura. L’affermazione del concetto di performance ha prodotto degli effetti: in primo luogo, è necessario prendere nota di quello che viene respinto. L’idea che non ci sia una regola culturale fissa, ma che esista una sorta di improvvisazione. Partendo dagli studi di Pierre Bourdieu, che coniò il concetto di habitus (principio dell’improvvisazione retta da regole) contro la concezione strutturalista della cultura come sistema di regole, che riteneva troppo rigida. Negli anni Ottanta il concetto di performance ha assunto un significato più ampio. Prima di allora i ricercatori davano per scontato che i rituali e le grandi cerimonie seguissero strettamente un copione. D’altra parte, le ricerche più recenti sottolineano il fatto che “la performance non è mai una semplice esecuzione” o espressione, ma ha un ruolo più attivo, poiché il suo significato viene ricreato ogni volta, a ogni occasione. Gli studiosi oggi sottolineano la molteplicità e il conflitto di significati che si manifestano in una celebrazione collettiva (es. processioni del Medio Evo che avevano una posizione importante tra le cerimonie del tempo, sia religiose che laiche). Bisogna tener conto però, che in queste celebrazioni, il consenso dei partecipanti era ben lungi dall’essere universale, si poteva giungere allo scontro fisico (a questo si deve l’interesse per quanto è andato storto). Anche nella Roma rinascimentale i diari pervenuti di maestri papali. Gli studi sulla performance, o sulla vita come performance ci inducono a ritenere che in questi anni siamo stati testimoni di una forma di quieta rivoluzione, che, nel settore umanistico, ha finito per investire progressivamente ogni dominio e disciplina. Se si vuole dare un nome a questa tendenza sarebbe utile utilizzare la definizione “occasionalismo”: si può sostenere che, in occasioni diverse, o in situazioni diverse, in presenza di persone diverse, la stessa persona si comporta in modi diversi. L’occasionalismo è dunque uno spostamento dalla convinzione che esistano reazioni fisse, rigide, verso la concezione che si siano reazioni flessibili, accordate dalla situazione. Infatti, ad esempio nel caso del linguaggio, il bilinguismo: persone che passano da una lingua all’altra; oppure la diglossia: passaggio dalla variante alta a quella bassa della lingua. O anche il biculturalismo (es. grafia espressione della personalità: la mano del segretario, del cortegiano, del mercante…). Anche lo stile dell’arte dipende dall’occasione (Rinascimento, pendolarismo dal gotico al classico a seconda dell’opera che veniva commissionata). Qualcosa di simile avviene anche nel processo di civilizzazione di Elias, saggio sul riso: ridere diventa una forma bassa dell’umorismo a cui i nobili non devono fare uso per la loro posizione sociale; ma dall’altra parte quando i nobili si ritrovavano a fumare tra loro, si mettevano a gradire quel tipo di umorismo dello status inferiore). 4. Decostruzione Nonostante i nuovi sviluppi non bisogna credere gli storici precedenti soffrivano di un realismo ingenuo. Alcuni di loro erano perfettamente consapevoli del fatto che gli storici concorrono attivamente alla costruzione delle categorie sociali. I costruttivisti reagiscono ad una visione semplificata, in cui le culture o i gruppi sociali sono entità omogene e demarcate rispetto al mondo esterno. E però vero che l'idea di costruzione culturale si è spinta oggi molto avanti e ha sollevato 3 problemi: chi opera la costruzione? Con quali vincoli e con quale materiale? Primo, nel caso dell'Oriente, l’immagine è costruita dall'Occidente, come altro, opposto a sé, finendo per essere accolto come dato scontato, resta il problema di distinguere il peso rispettivo dei diversi gruppi occidentali che l'hanno descritto. Un secondo problema riguarda la presenza di vincoli culturali e sociali da cui il processo di creazione può essere condizionato (non è certo vero che si possa immaginare di tutto e in qualsiasi momento della storia). Un terzo problema è relativo ai materiali con cui si opera la costruzione culturale. Quella che viene tradizionalmente descritta come trasmissione di cultura è piuttosto un processo di creazione continua. Il compito di diffondere cultura, il processo con cui una cultura passa da una generazione all’altra è sempre un processo di ricostruzione. A muovere questo processo stanno, da una parte, la necessità di adattare vecchie idee a nuove circostanze, da un’altra la tensione esistente tra le forme tradizionali di ricezione e la novità dei messaggi. Quando si cerca di interpretare un messaggio, vengono fuori le contraddizioni in esso implicite. Cap. 6 Oltre la svolta culturale L’espressione “nuova storia culturale” fu coniata alla fine degli anni Ottanta e, nonostante abbia un vasto campo di ricerche e interessi, come ogni cosa “nuova”, risulta oramai “vecchia” e si cerca di ipotizzare i possibili scenari futuri. Burke esamina una serie di scenari alternativi. Una prima possibilità potrebbe essere sintetizzata con la formula “Il ritorno di Burckhardt” servendosi del nome dello studioso solo come traccia storiografica per indicare la rinascita della storia culturale tradizionale. Una seconda possibilità è un ulteriore ampliamento degli oggetti di interesse della new cultural history, che potrebbero estendersi dalla politica alla violenza alle emozioni. Una terza possibilità è che si verifichi una sorta di “rivincita della storia sociale”, ovvero una reazione contro la riduzione costruttivista della società alla cultura. 1. Il ritorno di Burckhardt Un possibile futuro per la storia culturale potrebbe prevedere il ripristino della posizione egemonica della cultura alta come tema di indagine storica. Ma un declino di quella popolare è poco probabile. Le due varianti di storia culturale (alta e popolare) molto probabilmente finirebbero per coesistere, accompagnate da un crescente interesse per le loro interazioni. Lo studio della cultura alta potrebbe essere riorganizzato con uno spostamento dei centri di interesse, es, modi in cui i diversi gruppi sociali dell’epoca recepirono l’Illuminismo, oppure il rapporto tra Rinascimento e vita quotidiana. Es. Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg potrebbe essere riletto da questo pov: ritratto di un uomo dal e del cosmo; dall’altra parte contributo alla storia della Controriforma. Tentativo di ritorno all’antico che finirà per produrre qualcosa di nuovo, come capita spesso nella storia culturale. 2. Politica violenza ed emozioni: ampliamento della nuova storia culturale, sino a includere campi di studio finora ignorati, fra cui la politica, la violenza e le emozioni. La storia culturale della politica Politica e cultura sono sempre state legate tra loro in molti modi diversi. È la cultura politica quella che merita maggiore attenzione. Sarebbe fuorviante sostenere che gli storici culturali non siano si siano mai interessati della politica o che gli storici politici abbiano totalmente ignorato la cultura. Nella storia culturale tradizionale c'è stato posto per la politica. Proprio l'introduzione del termine tecnico cultura politica è indizio di un mutamento d'impostazione o d'interesse. Bisogno di connettere i due domini, concentrando l'attenzione sugli atteggiamenti o le convenzioni politiche di gruppi diversi e sul modo in cui questi atteggiamenti sono stati trasmessi. Espressione che entra nel linguaggio degli storici dalla fine degli anni 80, in libri come: The Political Culture of the Old Regime di K. Baker. Il lavoro sulla Rivoluzione francese di Lynn Hunt, una delle figure guida della nuova storia culturale, aveva come punto centrale la cultura politica. La rivoluzione francese: politica, cultura e classi sociali (1984) si occupa infatti soprattutto dei mutamenti delle regole del comportamento politico e più specificatamente delle nuove pratiche simboliche, che vennero studiate da Foucault. Un libro che era iniziato come una storia sociale di vicende politiche, si trasformò in un testo di storia culturale, anche se il vecchio metodo storico sociale torna a manifestarsi, ad esempio nella cura con cui vengono distinte la modalità maschile e quella femminile di partecipazione alla nuova cultura politica. Un altro esempio di intreccio tra storia politica e storia culturale è dato dal Subaltern Studies Group: un gruppo di studiosi dell'Asia meridionale nato negli anni '80, influenzati da Eric Stokes e Ranajit Guha, interessati alle società postcoloniali e post- imperiali. Il loro approccio anti-essenzialista, è quello della storia dal basso, si è concentrato più su ciò che accade tra le masse ai livelli più bassi della società che tra le élite. Un esempio è la concentrazione del gruppo sull’immagine di Ghandi. 4. Frontiere e incontri Il termine “frontiera culturale” offre agli storici un mezzo per contrastare la frammentazione. L’idea di “frontiere culturali” spinge chi la usa a scivolare dall’uso letterale a quello metaforico del termine senza rendersene conto, perdendo il senso della distinzione esistente tra le frontiere geografiche e quelle che separano le classi sociali o quelle che separano il sacro dal profano, il serio dal comico, la storia dalle creazioni letterarie. Ci concentriamo sulle frontiere tra culture diverse: ad esempio, tra le diverse configurazioni che una cultura assume agli occhi di osservatori ad essa interni o esterni. Per gli esterni queste frontiere potrebbero apparire chiaramente delineabili (come le mappe). Mappe, parole ed immagini anche se riescono a dare una visione più immediata e facilmente ricordabile di una frontiera o situazione culturale, possono essere fuorvianti perché danno sempre l'impressione che debba esserci omogeneità all'interno di ogni area culturale e netta distinzione tra le aree diverse. È necessario integrare la visione dall'esterno con quella dall'interno, dar rilievo all’esperienza di attraversare la frontiera ed incontrare l’Alterità (frontiere simboliche tra comunità immaginate, mappatura non precisa). Altra distinzione culturale è quella che riguarda le funzioni delle frontiere. Gli storici e i geografi tendenzialmente hanno interpretato le frontiere culturali come barriere, mentre oggi, si tende soprattutto a vederle come punti di incontro o zone di contatto. Entrambe le concezioni hanno la loro utilità. Le barriere culturali esistono, sono alcuni ostacoli, fisici, politici o culturali, come la lingua o la religione, che possono rallentare il flusso dei movimenti culturali o deviarne il corso su canali divergenti. Braudel nutriva interesse per RIFIUTO DELPRESTITO, resistenza alle correnti culturali da ricondurre all’elasticità con cui le civiltà persistono. Es. lunga resistenza giapponese all’uso della sedia e del tavolo; oppure rigetto per la stampa da parte del mondo islamico. La seconda funzione di una frontiera culturale è l’opposto della prima: servire da punto di incontro o da zona di contatto. Le zone di confine spesso hanno una loro particolare cultura, caratterizzata da varie forme di ibridazione. Es: Balcani ad inizio dell’età moderna, cristiani che celebravano funzioni religiose nelle moschee e musulmani nelle chiese. Una delle ragioni per cui una scomparsa della storia culturale appare improbabile è l’importanza assunta, nel nostro tempo, dagli incontri tra culture diverse, un fenomeno che richiede, in misura crescente, uno sforzo di comprensione, anche tramite le sue manifestazioni nel passato. Il termine “incontri culturali” venne adottato in sostituzione del termine “scoperta” che suonava etnocentrico, specialmente nel 1992, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dello sbarco di Colombo. Quella che Miguel León-Portilla aveva chiamato visione dei vinti, non limitandosi più ad accogliere la per buona solo quella dei vincitori. Gli storici hanno tentato di ricostruire i modi in cui le popolazioni caraibiche percepivano Colombo e gli aztechi Cortes. Nelle ricerche di questo tipo, guardarsi dai fraintendimenti è divenuto sempre più importante. Spesso si parla infatti di traslazione culturale. I primi ad accogliere l’idea che la comprensione di una cultura estranea sia analoga a un lavoro di traduzione, sono stati gli antropologi del circolo di Evans-Pritchard. Uno dei casi in cui si pensa in questo modo è la storia delle missioni. I missionari presentavano il loro messaggio in una forma che non lo rendesse troppo dissonante dalla cultura locale, sforzandosi ad esempio di rinvenire il corrispettivo locale di idee come salvezza, Trinità ecc. C’è anche un concetto alternativo, che negli ultimi venti anni ha goduto di un particolare successo: è quello di “ibridazione culturale”. La traduzione mette in evidenza il lavoro che deve essere prodotto dagli individui e dai gruppi per rendere familiare ciò che è estraneo, con le strategie e le tattiche vengono impiegate. Il problema è che questo lavoro di traduzione non è sempre consapevole. Quando Vasco da Gama e i suoi uomini entrarono per la prima volta in un tempio indiano, erano convinti di trovarsi in una chiesa, si trovano di fronte ad un gruppo scultoreo con Brahama, Vishnu e Shiva, che videro come la Trinità. Applicano uno schema percettivo tipico della cultura, per interpretare ciò che vedono. Il termine ibridazione, d’altra parte, lascia spazio a questi processi inconsci e alle loro impreviste conseguenze. Un terzo modello interpretativo per il cambiamento culturale ci viene offerto dalla linguistica. In quest’epoca di incontri culturali, si è verificata una crescita costante dell’interesse dei linguisti per quei processi che chiamano “creolizzazione”, ossia la convergenza di due lingue sino a creane una terza, spesso costruita assumendo sostanzialmente la grammatica di una delle lingue originarie e la maggior parte del vocabolario dell’altra. Gli storici culturali si mostrano sempre più convinti dell’utilità di questo concetto nello studio delle conseguenze di incontri nei domini della religione, della musica, della cucina e dell’abbigliamento, ecc. 5. La narrazione nella storia culturale Un incontro è un evento, bisogna quindi considerare il posto che la storia culturale deve riservare alla narrazione degli eventi, che caratterizzava la storia politica di vecchio stile. È una storia paradossale. Gli storici sociali più radicali hanno rifiutato la narrazione poiché la associavano alla celebrazione delle grandi gesta dei grandi personaggi, alla sopravvalutazione dell’importanza degli individui, specialmente dei leader politici e militari, nel determinare il corso della storia, a scapito dell’opera degli uomini comuni. E tuttavia la narrazione è tornata in auge, in concomitanza col crescere dell’attenzione rivolta alle persone comuni e ai modi in cui queste ultime cercano di dare senso alle proprie esperienze, alle proprie vite, al mondo. Esempio, in medicina, l’attenzione dei medici è maggiore per le storie dei loro pazienti circa i loro mali e le cure loro somministrate. L’attuale interesse storico per la narrazione è parte dell’interesse per le pratiche narrative tipiche delle varie culture, cioè delle storie che, in una particolare cultura, le persone raccontano a sé stesse di sé stesse. Cresce anche l’interesse per la narrazione in quanto forza agente nella storia. Lynn Hunt sulla Rivoluzione Francese, esaminava delle strutture narrative sui cui si basava la retorica rivoluzionaria, il modo in cui l’ancien regime al nuovo ordine veniva modellato sull’intreccio tipico della commedia o del romance. Inoltre in “Isole nella storia” 1985, Sahlins ha scritto che nuove scoperte possono servire a mettere in dubbio un paradigma scientifico comunemente accettato, che è quello che si produsse quando tentarono di giustificare la presenza di Cook, inserendola nelle loro narrazioni mitologiche sul ritorno annuale del dio Lono, modificando un po’ il racconto originale per ovviare le discrepanze esistenti tra i due personaggi. Qui la storia culturale è scritta in una forma narrativa, molto diversa dai ritratti statici di Burckhardt e Huizinga, cercando di evitare sia il pericolo di dare alla storia l'intreccio tipico di una celebrazione trionfalistica di una storia del progresso, come avviene nei manuali tradizionali di storia occidentale, sia l'intreccio tragico, nostalgico, di una storia di perdite irrimediabili. La narrazione agisce anche sulla teoria, perché incide sulle percezioni dei lettori. Narrazioni complesse che riescano ad esprimere molti punti di vista, possono servire a rendere un conflitto comprensibile, e anche a resistere alla tendenza alla frammentazione di cui abbiamo parlato. Una storia culturale delle rivoluzioni non dovrebbe però dare per scontato che questi eventi rinnovino tutto: come nel caso delle conversioni religiose, un’innovazione può mascherare il persistere della tradizione (ritorno del represso). È necessario che gli storici culturali quando compongono una narrazione, non dimentichino queste convinzioni. Conclusione Può darsi che la nuova storia culturale si stia avvicinando al termine del suo ciclo vitale, ma la più ampia corrente della storia culturale è ancora in movimento. Anche dopo l’anno 2000 la storia culturale ha proseguito la sua espressione in nuovi domini. Ci sono settori, come quello della storia culturale del linguaggio, che si stanno aprendo solo adesso alla ricerca storica. Alcuni oggetti della storia culturale che hanno ricevuto maggiore attenzione, come la storia culturale del corpo (pulizia/purezza) e l’identità nazionale, che è un esempio di boom degli studi sulla memoria collettiva. La storia culturale delle nazioni può essere definita storia culturale delle idee. In un’epoca di globalizzazione, si tende anche alla globalizzazione della storia culturale. L’interesse per gli incontri culturali ha continuato a crescere. Tema affascinante nella storia della ricezione culturale, il doppio incontro, un movimento circolare. Un modo di studiare la distanza che esiste fra trasmissione e ricezione, consiste nell’esaminare i processi di trasferimento e cambiamento. La traduzione culturale, cioè l’adattamento di quello che viene accolto ai bisogni e fini della cultura accogliente, si rivela utile. Ma il problema della traduzione ha anche a che fare con le modalità di ricezione locale del mondo cristiano in diverse culture del mondo. Per questo i missionari si trovano costretti a riflettere sulla traducibilità del Cristianesimo. La traduzione solleva il problema delle discipline confinanti. La storia culturale è multidisciplinare e interdisciplinare, viene praticata anche al di fuori dei confini accademici. Vicina alla storia culturale c’è l’antropologia culturale, la storia della letteratura, dell’arte. Ma anche scienza, storia della conoscenza, sociologia, folklore, bibliografia, geografia, archeologia, ecologia e biologi. La fondazione degli studi sociali negli anni 60 rispondeva a una richiesta sociale. L’interesse per la storia culturale è stato alimentato dalle guerre di cultura (es. alfabetizzazione culturale, multiculturalismo). La storia culturale è nata come atto di sfida, una sorta di opposizione. Oggi, però, ad essere preso di mira è il concetto di cultura. Definito troppo vago.
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