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Riassunto. La svolta relazionale.Lingiardi V., Amadei G., Caviglia G., De Bei F. (a cura di), Sintesi del corso di Psicologia Dinamica

La prima parte del volume è dedicata alla descrizione delle basi teoriche del paradigma relazionale, esplorandone radici, caratteristiche e “contaminazioni” culturali. Viene inoltre indagato come la teoria dell’attaccamento e la ricerca in psicoterapia siano entrate in dialogo con il paradigma relazionale. La seconda parte è dedicata alla ricostruzione della diffusione in Italia del pensiero relazionale.In particolare viene esplorato come la svolta rel abbia influenzato le scuole e le società di

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Riassunto. La svolta relazionale.Lingiardi V., Amadei G., Caviglia G., De Bei F. (a cura di) e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Dinamica solo su Docsity! LA SVOLTA RELAZIONALE 1° CAPITOLO IL MOVIMENTO RELAZIONALE: ASCENDENZE TEORICHE E FECONDAZIONI CULTURALI Il modello relazionale nasce da un’ amalgama di teorie e concetti clinici che provengono da tradizioni psicoanalitiche diverse, in particolare dalla psicoanalisi americana interpersonale e la scuola inglese delle relazioni oggettuali. Esso rappresenta, quindi, un modello integrativo tra correnti di pensiero che si ponevano su versanti opposti: quello delle relazioni esterne e reali e quello delle relazioni e degli oggetti interni e interiorizzati. Mitchell spiega che la parola “relazionale” è stata scelta per rendere evidente il collegamento tra le relazioni interpersonali e le relazioni oggettuali interne. Questo movimento, dunque è alla base di quella che sarà chiamata la “svolta relazionale”. L’esigenza di coniare un nuovo termine è stata determinata da ragioni contingenti e storiche ed è proprio da qui che bisogna partire per rintracciare le origini teoriche del modello relazionale, inteso come una prospettiva alternativa che considera le relazioni con gli altri, e non le pulsioni, l’elemento fondamentale della vita mentale. La nascita di questo indirizzo, fondato nel 1988 al New York University Postdoctoral Program, fu necessaria per due motivi: da una parte, la necessità di inserire nei programmi di formazione quelle novità che avevano caratterizzato, a partire dagli anni 60, lo sviluppo delle idee psicoanalitiche ed in particolare i contributi degli autori delle relazioni oggettuali e della psicologia del sé, di alcuni sviluppi della psicologia dell’io e delle correnti intersoggettive; dall’altra parte, l’impossibilità di far rientrare queste nuove correnti all’interno del New York University Postdoctoral Program. La prima radice dell’emergente pensiero relazionale è stata , dunque, sul piano storico, la corrente interpersonale insieme alle influenze subite dall’opera di esponenti della psicoanalisi inglese (Winnicott e Fairbairn) e nordamericana. A questo va aggiunto, inoltre, l’interesse degli analisti per il femminismo e il postmodernismo che in quegli anni influenzavano il panorama sociale e politico americano ed europeo. LE ASCENDENZE TEORICHE Lo sviluppo del pensiero relazione è difficile da comprendere se non si parte dal presupposto che le contaminazioni teoriche avevano l’esigenza di integrare e correggere alcune impostazioni di base della teoria interpersonale di stampo sullivaniano. E’ necessario capire quindi comprendere il clima teorico interpersonale da cui proviene il movimento relazionale. LA TEORIA INTERPERSONALE La psicoanalisi interpersonale è quella che ha influenzato maggiormente la fisionomia relazionale, sia perchè la formazione di molti pionieri della svolta relazionale era stata interpersonale sia perchè rappresenta una variante del pensiero per cui gli esseri umani sono intrinsecamente strutturati in termini relazionali. Inoltre essa stessa è il risultato di correnti di pensiero diverse: la psichiatria interpersonale americana di Sullivan e la versione marxista della psicoanalisi di Fromm, di derivazione Europea. Fu successivamente, Clara Thompson a mediare la fusione tra queste prospettive e a cogliere le grandi affinità tra il pensiero di Ferenczi , il quale aveva rivalutato l’importanza eziologica dei traumi infantili, l’approccio sullivaniano alla cura della schizofrenia come disturbo del sistema familiare e la sostituzione, voluta da Fromm, della meta- psicologia Freudiana con una prospettiva più ampia che poneva l’accento sull’importanza della cultura e della storia. Il principio generale che era alla base del pensiero interpersonalista sosteneva che l’ambiente ha un ruolo nel modellare l’esperienza umana . Applicando questo concetto al passato, si traduce nel principio che tutto ciò che è accaduto è importante e che le dinamiche familiari e il carattere de i genitori hanno un forte impatto nella formazione della personalità e della psicopatologia. Applicando questo concetto al presente, invece, si traduce nel principio di partecipazione e quindi ciò che accade è importante e la partecipazione del terapeuta ha un ruolo cruciale nel generare i dati che il terapeuta stesso si sforza di comprendere. Tutto questo porta la psicoanalisi interpersonale a concentrarsi sulla veridicità delle comunicazioni del paziente per poter fornire una soluzione alle distorsioni dell’ambiente della prima infanzia (Sullivan), per individuare i valori sociali e le forze storiche che modellano le risposte ai bisogni individuali ( Fromm), e per stabilire un’alternativa all’enfasi sulla “fantasia” della corrente psicoanalitica classica (Thompson). Per Sullivan la terapia consisteva in un’attenta attività di investigazione delle informazioni ottenute dal paziente in modo tale da poter distinguere tra passato , presente, illusorio e reale. In questo modo , il terapeuta assume il ruolo di osservatore che controlla e verifica i dati ottenuti. Ovviamente, Sullivan è anche consapevole che il terapeuta non può osservare da una posizione distaccata o invisibile, ma può ottenere questi dati solo attraverso l’interazione con il paziente. L’indagine clinica viene cosi a produrre una reazione nel paziente che porta il terapeuta a crearsi un’idea del proprio impatto sul paziente, di chi possa rappresentare per lui in modo da non confondersi con “altri illusori”. Lo scopo dell’osservazione è quella di eliminare illusioni, distorsioni, omissioni fino ad ottenere un’approssimazione sempre maggiore a ciò che è veramente accaduto. Per fare questo , l’analista deve creare una relazione antagonista con il sistema del sé del paziente in modo da divenire un nemico esterno e dare cosi la possibilità al paziente la possibilità di vivere una minaccia che non proviene dall’interno, bensì dal campo interpersonale formato da paziente e analista. Una volta ottenuto questo risultato ,l’analista può iniziare l’analisi vera e propria. LE RELAZIONI OGGETTUALI BRITANNICHE La psicoanalisi britannica è l’altra corrente che ha fortemente influenzato gli analisti relazionali , in particolar modo perchè ha fornito la possibilità di stemperare e di controbilanciare l’eccessiva attenzione rivolta alla sola realtà delle interazioni con l’ambiente sociale, caratteristica dell’impostazione interpersonale. Gli autori britannici che hanno contribuito , ciascuno a suo modo, a disegnare la fisionomia clinica del pensiero relazionale sono Fairbairn, Balint e Winnicott. Un discorso a parte riguarda , invece, il ruolo giocato dall’opera di Melanie Klein. Il contributo di Faribairn è stato per lo più di ordine teorico. Il suo concetto di pulsione come ricerca di oggetto , e non di piacere, è stato il pensiero centrale nel tentativo di mettere in dialogo il modello centrato sulle relazioni interpersonali e quello centrato sugli oggetti interni e le relazioni interiorizzate. Melanie Kleine e i kleniani sono stati con la loro lettura intrapsichica della motivazione, delle fantasie e delle spinte aggressive nella prima infanzia, sono stati oggetto di dure critiche dagli emergenti relazionali americani. Solo successivamente questi hanno mostrato un interesse per alcuni elementi clinici della psicoanalisi kleiniana. Infatti, se da un lato la Klein poneva l’accento sull’importanza delle prima fasi dello sviluppo, slegando il suo ragionamento da una riflessione sull’ambiente reale, dall’altro proponeva un vocabolario concettuale che stimolava i relazionali ad una rilettura di tali concetti nel contesto delle reali vicissitudini evolutive. E’ possibile pensare, secondo Mitchell, che l’attacco invidioso si può intendere non come un eccesso di aggressività innata, ma come un tentativo di sottrarsi alla posizione dolorosa di chi ama e desidera un genitore per lo più assente o danneggiato , o in particolar modo , un genitore incoerente. Per quanto riguarda l’interazione clinica, tipicamente kleiniane erano l’attenzione alle dinamiche transferali e controtransferali e il considerare la relazione analitica come il principale strumento del lavoro terapeutico e di cura. Inoltre, alcuni kleiniani, sostenevano una maggiore reciprocità nella relazione analitica: il controtransfert veniva sempre più considerato un elemento indispensabile per la comprensione dei vissuti del paziente. Questo, per gli autori relazionali, si trattava quasi di un invito a mettere in gioco la soggettività dell’analista nella situazione analitica. Winnicott , con il concetto di holding environment e l’insistenza sulla necessità di creare un ambiente analitico tale da favorire l’emersione degli aspetti autentici del Sé del paziente, è stato sicuramente l’autore specifico. Quindi, la consapevolezza postmoderna del carattere relativo, costruito e interpretativo di ogni spiegazioni clinica ha avuto una presa molto forte sugli autori relazionali soprattutto perchè ha allentato il ruolo svolto dalla teoria nella pratica, consentendo di spostare l’attenzione sulla dimensione della partecipazione dell’analista. CONCLUSIONI Il movimento relazionale, nato come movimento integrativo, è diventato negli anni una realtà sotto la quale cercano riparo molte correnti psicoanalitiche. Un’attenzione particolare alla relazione clinica ha portato a valorizzare, ridefinire concetti capaci di descrivere gli scambi tra paziente e terapeuta ed è questa la caratteristica che nel corso degli anni ha sempre più identificato il lavoro degli autori relazionali e che probabilmente è stata la fortuna di questo movimento. E’ possibile tentare di fissare alcuni punti in comune di una comunità che è stata definita ironicamente come “una comunità di quelli che non hanno nulla in comune”: - La relazionalità è un sistema motivazionale sovraordinato dell’esistenza umana. Mitchell descrive il modello relazionale come una prospettiva alternativa che considera le relazioni con gli altri , e non le pulsioni, l’elemento fondamentale della vita mentale. -Sentirsi soggetti è possibile solo se almeno un altro essere umano ci riconosce in quanto soggetti. -Nelle relazioni intime costruiamo interazioni che implicano sempre un’influenza reciproca anche se non necessariamente questa influenza è simmetrica. -Le esperienze sono organizzate in configurazioni multiple affettivamente connotate che si strutturano attorno alle rappresentazione delle relazioni tra il sè e gli altri. -La molteplicità è uno dei principi guida della psicoanalisi relazionale contemporanea: non siamo un unico sè che lotta contro impulsi rimossi, ma organizzazioni del sè discontinue e multiple. -Corpo, sessualità e aggressività sono elementi psichici importanti, non tanto come forze autonome(pulsioni) ma come elementi che acquisiscono i loro significati specifici nel contesto delle matrici relazionali individuali e che plasmano l’esperienza a partire da questi significati. -Il modello psicosessuale è inadeguato a descrivere gli itinerari complessi della sessualità. -I ruoli di genere sono il risultato di una costruzione sociale , e non sono in grado di descrivere la complessità delle identificazioni di genere e il loro rapporto con la sessualità. -La relazione analitica può essere descritta come una co-creazione influenzata da l presente e dal passato, dalla realtà e dalla fantasia tanto dal paziente quanto dall’analista. Il lavoro dell’analista non può prescindere da un’intersoggettività capace di trasformare sia il paziente sia l’analista e di dare vita a nuovi modelli relazionali che vengono interiorizzati e sono generatori di nuove esperienze. 2° CAPITOLO UNA LONELY PLANET PER IL CLINICO RELAZIONALE La psicoanalisi relazionale oggi costituisce un territorio affascinante ma molto complesso da conoscere perché lo spazio in cui si estende può essere considerato sia quello di uno specifico orientamento clinico sia quello di una prospettiva generale da cui esplorare le relazioni interpersonali nel contesto dell’intervento psicologico. La sua estensione teorica e applicativa, quindi, è sempre più ampia ed articolata. La psicoanalisi relazionale non nasce da una singola teoria, ma come un insieme organizzatore di differenti teorie la dove convergono in modo fruttuoso le riflessioni di autori tra loro diversi. Ognuna delle varie proposte teoriche fa luce, in modo peculiare, su determinate dimensioni psichiche o avanza proposte tecniche cruciali per comprendere le relazioni umane e prendersi cura di esse. La storia remota della psicoanalisi relazionale inizia con i contributi del tutto autonomi di Sullivan che con la teoria della interpersonale stabilisce un modello alternativo a quello freudiano, e di Fairbairn, che similmente teorizza un sistema motivazionale primario non teso a soddisfare pulsioni ma a stabilire relazioni. Con Sullivan la comprensione dei disagi psichici cessa di essere fondata sull’osservazione del singolo individuo ma diventa lo studio dei processi che coinvolgono le persone e che avvengono tra persone in quanto un individuo non può mai essere presso isolatamente dal complesso di relazioni interpersonali in cui vive. Quindi, la via regia per conoscere una persona è diventare consapevole delle interazioni che si stabiliscono all’interno del setting, in quanto l’osservatore è pur sempre un osservatore partecipe. Quanto appena detto ha costituito un netto cambiamento di prospettiva dell’incontro clinico: infatti a differenza della psicoanalisi classica, in cui l’attenzione era posta sulla comprensione di cosa si nascondesse dietro un segno o un sintomo, per la psicoanalisi interpersonale l’attenzione viene posta su cosa sta succedendo qui ed ora tra il paziente ed il terapeuta. Per questo motivo, sin dagli inizi il modello interpersonale non venne mai accolto all’interno della tradizione psicoanalitica. Questo ostracismo, invece, non venne rivolto verso le teorie di Fairbairn, in quanto la loro portata innovativa non fu mai veramente colta dalla psicoanalisi britannica fino a quando il pensiero di Fairbairn non fu diffuso e valorizzato da Guntrip. La teoria della motivazione relazionale postulata da Fairbairn fa si che ora lui venga considerato come una delle figure più rilevanti tra gli psicoanalisti indipendenti britannici, originariamente noto come Middle Group proprio perchè ricercava una strada di mezzo tra le due ortodossie contrapposte predominanti a quel tempo, quella freudiana e quella kleiniana. In questo spazio intermedio si possono collocare anche i contributi di Balint e le concettualizzazioni di Winnicott il quale, oltre a insegnare l’importanze la serietà del gioco, ha anche scritto una delle pagine più intense quanto alla descrizione di natura intersoggettiva della relazione originaria tra bambino e genitore. C’è comunque da sottolineare che ricostruire in modo affidabile le traiettorie degli influenzamenti che, nel corso dei lunghi decenni, hanno contribuito alla lunga gestazione del pensiero relazionale, è pressoché impossibile. Alcune influenze sono certe, altre pur essendo certe non sono riconducibili a episodi precisi, altre ancora certamente indimostrabili . Vanno ricordati inoltre, i successivi ingressi di una concezione olistica tramite Karen Horney , dell’importanza dei fenomeni sociali tramite il culturalismo di Erich Fromm, del primato della realtà dei fatti tramite la teoria dell’attaccamento di Bowlby, dell’empatia tramite la psicologia del Sé di Kohut, dell’intersoggettività tramite le proposte di Storolow , della ricostruzione dello sviluppo infantile secondo un modello sistemico-interpersonale attuata da Louis Sandler. Portando l’attenzione sulla storia più prossima, va detto che questa ruota intorno alla vicende delle origini e dello sviluppo dell’orientamento relazionale all’interno del programma di post-dottorato in psicoterapia e psicoanalisi della Università di New York. UN PO’ DI GEOGRAFIA Il costituirsi nel 2000 della IARPP è un importante punto di arrivo ai fini di definire il territorio della psicoanalisi relazionale anche se questo non conclude l’impresa di chiarire le differenze tra questo modello psicoanalitico e quelli classici e neppure di studiare le identità distinte degli analisti che si ritrovano nel medesimo versante relazionale. Definire queste differenze non è semplice, in quanto è come se si volessero stabilire i confini di un territorio che si potrebbe definire, utilizzando un ossimoro, un territorio liquido che si sta espandendo. Questa è un ulteriore prova della vitalità del movimento relazionale, avendo scelto di essere fin dall’inizio di essere un sistema aperto alle influenze. Per tracciare i confini esterni, si potrebbe iniziare dalla posizione dello psicoanalista italiano, Sergio Bordi, il quale ha cercato di aprire l’orizzonte della nostra psicoanalisi ai modelli angloamericani. Per Bordi, la colla principale che tiene insieme clinici di origini non omogenee e che al contempo li fa distinguere da quelli classici sarebbe quella del costruttivismo, in quanto opposto all’oggettivismo tradizionale. Un’altra proposta è quella di Stern, il quale sostiene che le linee di confine verso l’esterno vadano tracciate seguendo tre caratteristiche essenziali: 1)La tendenza centrale della psiche: scaricare energia e perseguire il piace vs stabilire relazioni; 2)Il modello scientifico di riferimento: lineare e deterministico vs non lineare e probabilistico, secondo cui i dati clinici di una seduta emergono dall’incontro relativamente imprevedibile tra due soggettività; 3)Il coinvolgimento del terapeuta nella scena clinica: la possibilità che possa assumere una sorta di prospettiva esterna vs l’impossibilità di tale prospettiva della terza persona. Mitchell invece affronta la questione della delimitazione stabilendo un nucleo centrale di convergenza fra modelli al fine di evidenziare la comune appartenenza al territorio relazionale. A tal fine propone identificare quattro modi di base attraverso cui opera la relazionalità: 1)Il comportamento pre- simbolico non conscio, che riguarda gli adattamenti interpersonali dovuti a reciproche influenze e mutue regolazioni. I contributi per la comprensione di tali scambi relazionali provengono dalla teoria dell’attaccamento, dall’interpersonalità e dall’’infant research; 2)La permeabilità affettiva, cioè l’esperienza condivisa di intensi affetti. Come autori di riferimento per questa modalità relazionale, Mitchell cita Sullivan, Bromberg; 3)L’organizzazione dell’esperienza nella configurazione Sé/altro, ricordando qui i contributi di Fairbairn, Kohut e Aron; 4) L’intersoggettività, particolarmente studiata da Benjamin. Volgendo l’attenzione ai confini interni, cioè alle differenti regioni entro il territorio della psicoanalisi relazionale, va detto che esse esistono e hanno mantenuto un significativo grado di autonomia interpretativa quanto a comprensione dell’interazione clinica, pur avendo elementi di forte comunanza fra di loro. Che resti comunque difficile disegnare con precisione una mappa dei confini interni tra tali modelli può essere testimoniato anche dalla curiosa diatriba tra Fiscalini e Fairbairn: per il primo la posizione relazionale rappresenta un gruppo all’interno della scuola interpersonale contemporanea, mentre per il secondo è la teoria interpersonale che rappresenta un’ala del più ampio orientamento relazionale. LESSICO RELAZIONALE Il lessico relazionale cerca di cogliere il contesto intersoggettivo costitutivo dell’esperienza intrapsichica continuamente cangiante nella situazione psicoanalitica. Cambiano le espressioni in uso: si parla di Sè e non di Io, di sé multipli e non di un sé singolo, di un se come funzione e non come struttura. Il tempo è considerato come kairos, ovvero come dimensione temporale alla quale maggiormente riferirsi. La connotazione del livello comunicativo principale è implicita e non esplicito- narrativa. Per definire la partecipazione del terapeuta si parla non solo di osservatore partecipe, ma soprattutto di partecipante che osserva, con modalità di ricettività non intrusiva e di attenzione non giudicante. Nei confronti dei sintomi, l’attitudine è quella di accettarli per cambiarli e non quella di combatterli. Quando si affronta il tema dei trattamenti, si usano espressioni come “rivitalizzare l’esperienza soggettiva”, “competenza emotiva” , “centrarsi” e non espressioni come “adeguamento alla realtà”, “fase depressiva” o “insight”. ARGOMENTI SCOTTANTI 1)Quante persone ci sono nella stanza Nei modelli classici, freudiano e kleiniano, nella scena analitica sembrava esserci un solo attore, il paziente osservato con attenzione e partecipazione da un’altra persona ovvero, l’analista che si costituisce come un interprete non direttamente partecipe della trama, a parte le dinamiche controtransferali che, comunque le si intenda, sono utilizzate esclusivamente per la comprensione del solo attore in scena, appunto il paziente. Anche nei modelli riconducibili ai teorici britannici delle relazioni oggettuali e alla psicologia del Sè, si potrebbe dire che esiste un solo attore, sempre il paziente, poichè il compito dell’analista è fissato nella parte di colui che, una volta per tutte, dovrebbe facilitare, senza intrudere, la ripresa dei processi evolutivi. Diversamente, secondo altri modelli, la stanza della terapia è molto affollata: un esempio è rappresentato da quei modelli che contemplano tre attori in cui il terzo sarebbe costituito dal linguaggio, o dall’istituzione o dall’Altro. Peraltro anche uno psicoanalista di formazione relazionale come Altman propone di considerare la presenza di un terzo individuandolo nel complesso dei fattori socioculturali , economici e razziali che intervengono in modo significato nella relazione tra il paziente e il terapeuta. Nonostante sia evidente che il tema del cosiddetto terzo rimane caro ai modelli classici e alle loro evoluzioni, è pur vero che non può essere usato per distinguere tra tali modelli e quelli relazionali , in quanto è presente nel pensiero di autori a orientamento certamente intersoggettivo, come per esempio Jessica Benjamin, la quale si riferisce a un “terzo” per indicare tutto quello che , nell’incontro tra due persone, non appartiene ne all’una ne all’altra ma focalizzati sulle prime fasi evolutive più o meno negli stessi anni in cui Bowlby sviluppa e diffonde le sue idee. -Sensibilità materna e rispecchiamento: anche qui l’autore sottolinea come in entrambe le teorie sia data particolare importanza alla sensibilità materna come fattore causale nel determinare la qualità delle relazioni oggettuali e dello sviluppo psichico. Tuttavia, mentre la sensibilità materna è descritta dalla teoria dell’attaccamento nei termini delle caratteristiche comportamentali del caregiver, nel modello psicoanalitico viene dato maggior peso alle conseguenze, cioè all’impatto sullo sviluppo del Sé del bambino. -Motivazione a stabilire relazioni: anche qui Fonagy rintraccia una falsa differenza tra i due modelli, dato che la psicoanalisi condivide l’assunto fondamentale della teoria dell’attaccamento secondo il quale la relazione bambino- caregiver non è basata sui bisogni fisici, bensì su un bisogno di relazione indipendente e autonomo. -Rappresentazione di relazione: le rappresentazioni mentali delle relazioni tra Sé e oggetto sono state considerate elementi determinanti del comportamento interpersonale e le successive elaborazioni di Stern e Sandler hanno ulteriormente colmato la distanza tra la teorizzazione psicoanalitica e il concetto di modello operativo interno di Bowlby. -Contesto relazionale dello sviluppo cognitivo: si questo punto Fonagy individua ampie zone di sovrapposizione tra il concetto Bowlbiano e il “base sicura” e di “holding” di Winnicott e “contenimento” di Bion. -Mentalizzazione: la mentalizzazione viene ritenuta da Fonagy fondamentale per entrambe le teorie. Letta nell’ottica di una specifica funzione simbolica, il concetto era già presente nella nozione freudiana di legame, nella teorizzazione kleiniana della posizione depressiva, nei concetti bioniani di contenimento. La teoria dell’attaccamento diventa per Fonagy un riferimento teorico essenziale per comprendere l’importanza che hanno precoci esperienze di trascuratezza e abuso nel determinare l’insorgenza dei disturbi di personalità. Anche il movimento relazionale ha partecipato a questa graduale opera di riconciliazione ma a differenza di quanto è avvenuto nel più ampio panorama psicoanalitico, il lavoro di integrazione non ha seguito con sistematicità ne la strada dell’integrazione ne il tentativo di una pratica clinica informata della teoria dell’attaccamento. Il paradigma relazionale sembra infatti poco interessato a utilizzare la teoria dell’attaccamento come base empirica per le proprie ipotesi cliniche, questo non a causa della diffidenza degli autori relazionali verso la verifica empirica, quanto piuttosto per la diversa esigenza sottostante al tentativo di integrazione tra queste due tradizioni teoriche. PSICOANALISI RELAZIONALE E TEORIA DELL’ATTACCAMENTO La teoria dell’attaccamento ha avuto sin dall’inizio una compatibilità intrinseca con il movimento relazionale per la centralità attribuita alle relazioni umane. Tuttavia un avvicinamento si è realizzato relativamente tardi, quando la teoria dell’attaccamento ha raggiunto una complessità maggiore. Inizialmente il movimento relazionale, si configurava soprattutto come un tentativo di sistematizzazione di teorie cliniche volto a costruire un ponte tra la tradizione interpersonale e il modello delle relazioni oggettuali. Nel corso del tempo , il tentativo di creare una cornice organica entro far coesistere le numerose voci psicoanalitiche che avevano posto al centro del loro interesse le relazioni umane e l’importanza delle precoci relazioni oggettuali è andato configurandosi come un vero e proprio paradigma alternativo che , al tempo stesso , ha modificato notevolmente il tipo di rapporto con la teoria Bowlbiana. L’iniziale esclusione della teoria Bowlbiana era motivata dall’assenza di quella ricchezza teorica e clinica centrata sul mondo interno che caratterizzava gli autori britannici, con il tempo la necessità è diventata quella di disporre di una teoria della motivazione e dello sviluppo umano che le teorie relazionali non erano in grado di fornire. In questo modo la teoria dell’attaccamento è arrivata a rappresentare la possibilità di fornire al nascente modello relazionale quella base motivazionale mancante. La teoria: attaccamento e modello relazionale Mentre liquidavano la teoria dell’attaccamento come non psicoanalitica, Greenberg e Mitchell segnalavano l’affinità tra il loro obiettivo e il lavoro teorico di Bowlby. Secondo gli autori, la teoria di Bowlby era il risultato del tentativo di spiegare il significato clinico delle relazioni oggettuali e per questo motivo, non psicoanalitica, veniva considerata come strettamente collegata alle teorie di Sullivan e Fairbairn. Cinque anni dopo, sulla base della schematizzazione operata insieme a Greenberg, Mitchell tenta un’ulteriore integrazione tra le teorie psicoanalitiche e per superare la tendenza a mettere in contrapposizione concetti come relazioni interpersonali e relazioni oggettuali, conia il concetto di matrice relazionale. Qui Mitchell parte dal presupposto per cui la diversità tra le teorie psicoanalitiche va rintracciata nei differenti aspetti della relazionalità umana a cui sono rivolte. Tuttavia, le configurazioni relazionali fondamentali hanno per definizione, tre dimensioni: il Sé, l’altro e lo spazio tra essi. E’ in questo spazio che colloca ora la teoria del Bowlby .Il concetto di attaccamento di Bowlby rappresenta un ampio tentativo di collocare le relazioni umane su fondamenta proprie. Bowlby desiderava conservare una spiegazione che avesse radici nella biologia, tuttavia, riteneva che Freud avesse descritto il meccanismo di sopravvivenza innato nel bambino in modo troppo limitato. Perchè il neonato sopravviva, sono necessarie la prossimità e l’attenzione più o meno costanti della madre: il bisogno della madre è per il neonato l’esigenza più urgente, più importante, in quanto è la pre- condizione necessaria al soddisfacimento di tutti gli altri bisogni. Perciò il neonato umano si attacca intensamente e automaticamente a chi si prende cura di lui, sia dal punto di vista comportamentale che dal punto di vista emotivo. L’attaccamento non è , come nel modello pulsionale, derivato da altri bisogni biologici più fondamentali. La motivazione dell’attaccamento per Bowlby spinge l’individuo a ricercare il contatto in quanto contatto, l’interazione in sé e per sé, non il contatto come strumento di gratificazione o di canalizzazione di qualcos’altro. L’ipotesi di Bowlby quindi acquista un valore centrale perchè consente di sostituire il concetto motivazionale di pulsione in quanto focalizzato sulla centralità delle relazioni. La teoria di Bowlby andava, insomma, a colmare il vuoto (lo spazio tra il Sé e l’oggetto) lasciato da quegli autori che , pur ponendo in primo piano il valore clinico delle relazioni oggettuali, avevano evitato di esplorare l’area teorica coperta dal concetto di pulsione. Per diversi anni l’attaccamento sembra aver svolto essenzialmente questa funzione. Negli stessi anni, grazie soprattutto al lavoro di Mary Main , la teoria Bowlbiana iniziava ad aprirsi allo studio dell’attaccamento adulto affacciandosi cosi ad una nuova possibilità di integrazione con la pratica clinica. L’iniziale studio del rapporto tra attaccamento adulto e psicopatologia è stato poco alla volta affiancato ad indagini volte ad ampliare e indagare lo studio del concetto di base sicura; a porre l’accento sul concetto di coerenza narrativa e sulle narrative associate agli stati mentali insicure; fino ad arrivare, più recentemente, ad approfondire gli stili relazionali associati ai diversi pattern di attaccamento adulto. E’ sulla base di questi nuovi sviluppi che Mitchell si riavvicina al tentativo di integrare clinica relazionale e teoria dell’attaccamento, proponendo un resoconto costruito attraverso una gerarchia di categorie interazionali basate su modalità diverse di comprendere ed elaborare l’esperienza: il Modo 1 riguarda quello che le persone realmente fanno una all’altra. Questo livello si riferisce all’assunto che le persone si relazionano tra loro in modo ricorrente, dando vita a dei pattern di interazione che implicano un’influenza reciproca; Il modo 2 si rivolge invece all’esperienza affettiva o meglio all’esperienza di condivisione di affetti intensi tra i partecipanti alla relazione; Il modo 3 si riferisce all’esperienza organizzata in base alle configurazioni Sé- altro: Il modo 4 riguarda l’intersoggettività, cioè al riconoscimento reciproco tra individui come soggetti autonomi. Lo schema proposto da Mitchell rappresenta una griglia utile capace di organizzare l’interazione clinica tenendo insieme teorie psicoanalitiche, teoria dell’attaccamento e sviluppi dell’Infant research. In questo modo, l’attaccamento rappresenta il filo che , partendo dal modo 1, attraversa tutti gli altri ambiti . La clinica: attaccamento e pratica relazionale ( Leggere sul libro il caso di Connie a pag. 87) CONCLUSIONI Inizialmente, la teoria formulata da Bowlby si presentava agli occhi dei clinici dell’epoca come troppo distante dalle ipotesi di base del modello psicoanalitico, sia perché centrata sul rapporto madre- bambino, sia perchè eccessivamente focalizzata su un piano comportamentale. In seguito al lavoro di ampliamento delle ipotesi anche allo stato mentale adulto, si è concretizzata la possibilità di un riavvicinamento tra teoria relazionale e attaccamento. La cornice concettuale proposta da Mitchell consente di fare dell’attaccamento un sinonimo di relazionalità che lo rende affiancabile al pensiero di quegli autori che definiscono il campo del termine relazionale. Tuttavia, perchè questo tentativo assuma solidità, è necessario legare questi concetti al sottostante assunto motivazionale: in questo modo verrebbe fornita all’attaccamento non solo la possibilità di costruire una cornice capace di organizzare il processo clinico, ma anche di rappresentare quella metafora organizzativa che era la pulsione nella teoria classica. 4° CAPITOLO LA SVOLTA RELAZIONALE NELLA RICERCA IN PSICOTERAPIA La storia della rapporto tra psicoanalisi relazionale e ricerca empirica è piuttosto controversia. L’atteggiamento degli analisti relazionali nei confronti della ricerca empirica e dei suoi metodi è stata sospettosa e diffidente in quanto nel pensiero relazionale, l’argomento della ricerca in psicoterapia non rimanda alla necessità di una pratica clinica fondata empiricamente, quanto piuttosto alla tematica dell’autorità epistemologica dell’analista. Ciò che gli autori relazionali contestano è la natura e il grado di presa che l’analista può rivendicare sulla verità clinica e non la possibilità di sottoporre la teoria e la pratica psicoanalitiche a una qualche forma di verifica empirica. Oggi la situazione è cambiata e quindi gran parte della ricerca in psicoterapia, e non solo quella di ispirazione psicodinamica, più interessata allo studio della relazione terapeutica e delle caratteristiche di personalità di terapeuta e paziente. UN PRIMO PUNTO DI CONTATTO: GLI STUDI SULL’ALLEANZA TERAPEUTICA La relazione terapeutica come tema unificante Il concetto di alleanza terapeutica è stato da alcuni minimizzato e da altri valorizzato e annoverato tra le dimensioni strutturali della relazione terapeutica. La nozione di alleanza terapeutica nasce dalla presa di consapevolezza che con certi pazienti le interpretazioni non avevano effetto perchè mancavano le precondizioni necessarie alla loro ricezione, per cui era necessario che il terapeuta preparasse il terreno, appunto, un’alleanza su cui appoggiare il processo analitico. A partire dagli anni Settanta, si svilupparono molte ricerche volte a dimostrare empiricamente il peso dell’alleanza come variabile fondamentale del processo terapeutico. In questo modo essa venne riconosciuta come il principale fattore aspecifico comune a tutte le forme di psicoterapia. Inizialmente gli sforzi dei ricercatori si sono concentrati sull’esplorazione della relazione tra alleanza e risultati terapeutici in una varietà di contesti. Più recentemente si è entrati in un’altra fase, caratterizzata dall’approfondimento delle dinamiche cliniche connesse all’alleanza terapeutica. Questo nuovo filone nasce dagli sviluppi della riflessione sugli effetti benefici creati dal terapeuta, dal riesame del concetto di alleanza e dalla formulazione del concetto di interazione collaborativa. L’idea di fondo è che sia il terapeuta sia il paziente contribuiscono alla formazione di una collaborazione terapeutica efficace, e che per studiare i processi costitutivi di questa collaborazione è necessario scomporre le componenti dell’alleanza e identificare altre variabili della relazione quali la relazione reale, il transfert e il controtranfert, l’empatia, lo stato della mente rispetto all’attaccamento, le caratteristiche individuali. Per cui, la visione statica dell’alleanza viene sostituita dalla concezione dinamica di qualcosa che si costruisce nel corso del trattamento , attraverso processi di rottura e riparazione della relazione e di conseguenza è andata dissolvendosi anche l’idea per cui l’alleanza è un fattore capace di spiegare da solo il cambiamento. Quello dell’alleanza è oggi un costrutto generico e aspecifico studiato nella sua interazione con altri fattori, ma soprattutto non più considerato solo una pre-condizione, ma anche una finalità del trattamento. Si può attribuire la popolarità dell’alleanza terapeutica ad un cambiamento del paradigma avvenuto in molte , se non in tutte, le tradizioni psicoterapeutiche: una svolta relazionale che ha promosso lo studio delle caratteristiche degli studi sull’attaccamento adulto hanno evidenziato come lo status dell’attaccamento si correli a: 1)le dinamiche di transfert e controtransfert; 2)la qualità della natura dell’alleanza terapeutica; 3)i pattern narrativi del dialogo terapeutico; 4)la natura dei sintomi riportati dal paziente, la capacità del paziente stesso di fare uso del trattamento e il risultato terapeutico. Questi studi hanno avuto il merito di spingere i ricercatori a studiare in maniera più approfondita il rapporto tra i costrutti dell’attaccamento e variabili cliniche e quindi, poco alla volta, concetti quali alleanza, transfert e controtransfert hanno iniziato a essere riletti all’interno della cornice teorica dell’attaccamento. Eames e Roth, indagando la relazione tra lo stile di attaccamento del paziente e le qualità dell’alleanza instaurata, hanno riscontrato una correlazione tra stile di attaccamento , qualità dell’alleanza e rotture. In particolare, hanno riscontrato che, mentre i pazienti sicuri tendevano a formare un’alleanza efficace, i pazienti con un attaccamento distanziante tendevano a mostrare maggiori problemi nella relazione. Gli autori hanno riscontrato anche come lo stile preoccupato e distanziante fosse associato ad un miglioramento nella valutazione dell’alleanza nel corso del tempo: un dato che sembra indicare che i pazienti con problematiche relazionali possono avere bisogno di più tempo per instaurare un legame terapeutico. Un altro dato interessante, secondo gli autori, è anche quello secondo cui i soggetti con un attaccamento preoccupato riportano un maggior numero di rotture, mentre i distanzianti ne riportano meno. Questi dati sembrerebbero indicare che, mentre i pazienti preoccupati possono fare degli sforzi per stabilire una maggiore intimità con il terapeuta, i pazienti con uno stile distanziante possono invece negare difensivamente la presenza di problematiche relazionali o, viceversa, stabilire una relazione superficiale rimanendo riluttanti a relazionarsi a un livello più personale ed autentico. Un altro studio che ha indagato il contributo dello stile di attaccamento allo sviluppo dell’alleanza è quello di Mallinckrodt e collaboratori , nel quale il dato principale emerso è stato che sia lo stile sicuro sia quello preoccupato correlano con diversi aspetti dell’alleanza. I pazienti con uno stile sicuro, che percepivano il terapeuta come responsivo, accettante e premuroso, riportavano un’alleanza più forte. Non è invece emersa nessuna correlazione tra i pazienti preoccupati nella valutazione globale dell’alleanza ed è quindi possibile che i pazienti con uno stile preoccupato, possano cercare di sottomettersi al terapeuta e placarlo, senza coinvolgersi nel compito di identificare e discutere apertamente le loro problematiche personali. In un nuovo studio successivo, Mallinckrodt e i suoi collaboratori, hanno indagato il rapporto tra stile di attaccamento adulto, attaccamento paziente- terapeuta e alleanza instaurata. I dati ottenuti hanno evidenziato che i pazienti con attaccamento sicuro non solo mostrano una maggiore attitudine all’esplorazione nell’ambito delle sedute di terapia, ma mostrano anche un attaccamento sicuro con il terapeuta. Interessante è anche il dato secondo cui, nonostante un attaccamento sicuro al terapeuta risulti fortemente associato a una valutazione positiva dell’alleanza, la variabile dell’attaccamento, mostri, rispetto alla misura della sola alleanza, una maggiore capacità discriminativa della qualità della relazione. Un risultato altrettanto interessante emerge da una ricerca di Westen e collaboratori che, studiando i pattern di transfert individuabili nella terapia dei pazienti con disturbi di personalità, hanno messo in evidenza che la relazione del paziente con il terapeuta, può essere descritta per mezzo di 5 grandi dimensioni: sicuro/impegnato, evitante/controdipendente, ansioso/preoccupato, arrabbiato/rivendicativo/recriminativo, sessualizzato. Il riscontro di una sovrapposizione tra questi fattori del tranfert e gli stili di attaccamento adulto identificati con l’Adult Attachment Interview sembra sostenere una visione della relazione terapeutica come una relazione intima, asimmetrica, carica emotivamente e mirata all’accudimento, in grado di attivare pattern di pensiero, sentimento, affetto e regolazione affettiva. I risultati della ricerca contemporanea in psicoterapia sembrano sostenere una rilettura del concetto di alleanza in termini di base sicura e questo grazie sia alla capacità predittiva del costrutto dell’attaccamento, in quanto variabile in grado di mediare tra qualità della relazione e risultato terapeutico, sia al fatto che si tratta di una variabile che tiene conto dei parametri riguardanti le caratteristiche di personalità di entrambi i partecipanti alla relazione. CONCLUSIONI Oggi la centralità assunta dal tema della relazione nella ricerca in psicoterapia ha avuto l’effetto di spostare il baricentro dell’interesse empirico dentro la relazione, cioè nel luogo dove acquistano senso variabili cliniche quali empatia, calore, caratteristiche del terapeuta. La nuova consapevolezza dei ricercatori sulla necessità di contestualizzare i fattori tecnici all’interno della relazione terapeutica ha portato a comprendere il terapeuta non più come costante ma come una variabile vera e propria , responsabile in buona parte delle differenze e delle somiglianze dei risultati delle terapie. Non solo: la ricerca contemporanea dice anche il processo di negoziazione intersoggettiva delle rotture nella relazione terapeutica è un aspetto inevitabile della riuscita della psicoterapia, e che gran parte della scommessa sul cambiamento risiede proprio nella capacità del terapeuta di fornire una nuova esperienza relazionale attraverso cui il paziente possa gradualmente imparare a negoziare in modo creativo e costruttivo i suoi bisogni. 5° CAPITOLO IL PARADIGMA RELAZIONALE NEL COGNITIVISMO CLINICO Fino al 1990 la letteratura sulle terapie cognitivo comportamentali ha mostrato assai poco interesse per la relazionalità umana, con una sola eccezione che ha trovato espressione in un libro pubblicato, sette anni prima, negli Stati Uniti: Cognitive Processes and the Emotional Disorders, scritto da due psichiatri italiani e dedicato a Jown Bowlby. Questo libro insisteva sull’importanza della relazione terapeutica nei cambiamenti conseguibili con una psicoterapia cognitiva, ma anche sulla necessità di considerare la storia evolutiva dei pazienti nel contesto relazionale in cui si era verificata. BOWLBY E LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO L’interesse per la prospettiva relazionale nel cognitivismo clinico italiano nacque non tanto per un interesse primario per la relazione interumana, ma come frutto della migliore ricerca di base allora disponibile sui temi di grande rilevanza per la psicopatologia e la psicoterapia. La ricerca nata dalla teoria dell’attaccamento fu l’arma che convinse alcuni terapeuti cognitivo- comportamentali ad occuparsi intensamente della relazione interumana. La teoria dell’attaccamento fornì innanzitutto la conoscenza, empiricamente fondata, delle strutture cognitive (di memoria e aspettativa) che mediano i diversi stili personali con i quali si esplica e manifesta in forma individualizzata l’universale tendenza a cercare aiuto e conforto nelle relazioni significative: i modelli operativi interni, corrispondenti ai ben noti pattern di attaccamento sicuri e insicuri, ambivalenti ed evitanti, organizzati e disorganizzati. Offrì dunque la base per comprendere come strutture di memoria e di aspettativa avessero origine nell’esperienza relazionale del paziente, e fossero costantemente applicate da questi alla relazione terapeutica. Infine, offrì una prima idea degli atteggiamenti relazionali del terapeuta che possono facilitare nuove esperienze emozionali nel paziente, potenzialmente capaci di correggere a livello di conoscenza implicita le sue aspettative negative nelle relazioni. IMPLICITO ED ESPLICITO: IL RAPPORTO FRA COGNIZIONI ED EMOZIONI NELLA PROSPETTIVA RELAZIONALE L’attenzione agli atteggiamenti relazionali che possono determinare esperienze emozionali correttive nei pazienti agendo a livello di conoscenza implicita, merita qualche approfondimento. Le tecniche della terapia cognitiva prevedono che al cambiamento cognitivo segua un cambiamento emozionale. Ciò è spesso vero ma non è vero che le emozioni sono espressione di dinamiche mentali conseguenti ai processi cognitivi espliciti. Le emozioni vanno comprese soprattutto nella viva e concreta interazione tra le persone, caratterizzata da un continuo e reciproco conoscere relazionale implicito che consiste, appunto, in uno scambio di informazione non verbale e spesso precosciente. I processi e i contenuti cognitivi espliciti giocano un ruolo importante nella regolazione delle emozioni e non nella loro genesi. Dunque il terapeuta cognitivo- comportamentale, per comprendere e modificare l’esperienza emotiva disturbata di un paziente, deve occuparsi delle sue relazioni, del suo conoscere relazionale implicito. In questo modo, nella prospettiva interpersonale e intersoggettiva della psicoterapia cognitiva acquista rilievo la distinzione fondamentale tra contenuti cognitivi espliciti da una parte, e dall’altra quelle strutture e processi cognitivi impliciti che costituiscono il cosiddetto inconscio e cognitivo. L’interesse degli psicoterapeuti cognitivisti per la distinzione fra il livello implicito ed esplicito nello studio dei rapporti fra cognizione ed emozione, ha dunque trovato riscontro e stimolo nella teoria dell’attaccamento. La teoria dell’attaccamento ha avuto, inoltre, un’altra importante conseguenza per la “svolta relazionale” della psicoterapia cognitiva: ha invitato a studiare i sistemi che controllano e finalizzano (motivano) uno specifico e fondamentale tipo di comportamento relazionale. L’ARCHITETTURA GENERALE DELLA MOTIVAZIONE E I SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI Paul Gilbert, psicoterapeuta cognitivista inglese, fu il primo che accostò al sistema di attaccamento, cosi come definito da Bowlby, una serie di altri sistemi motivazionali che l’analisi etologica ed evoluzionista dimostravano essere omologhi nell’uomo e nei mammiferi quanto lo è il sistema di attaccamento. Il suo libro comparve simultaneamente all’opera di Lichtenberg che esponeva la sua teoria multimotivazionale in ambito psicoanalitico. Entrambe le teorie consideravano, insieme alla motivazione all’attaccamento, quella, indipendente, a interagire con gli altri sulla base di aggressività e avversione. Vi erano naturalmente differenze tra le due teoria: quella di Gilbert insisteva , oltre che su questi due sistemi, su un sistema indipendente che motiva a offrire cura e su un altro che motiva ad agire su un piano cooperativo e paritetico; quella di Lichtenberg insisteva sull’indipendente motivazione alla sessualità e sulla regolazione dei bisogni corporei all’interno della relazione. Nonostante queste differenze, queste due teorie offrono un’immagine comune della relazione: intrinseca alla natura umana, non secondaria al soddisfacimento di altri bisogni, fondata su disposizioni o tendenze a perseguire diversi e specifici obiettivi relazionali, caratterizzata da una profonda reciprocità nell’attivazione e negli individui interagenti. Nel cognitivismo clinico italiano, la teoria che considera la relazionalità umana non solo intrinseca, primaria e radicalmente fondata sula reciprocità, venne sviluppata in modo originale. Lo sviluppo prese la forma di un’esplorazione sistematica dell’idea che tali sistemi entrino a far parte di una complessa architettura gerarchica. A un primo livello dell’architettura motivazionale operano i sistemi evoluzionisticamente più arcaici, presenti già in specie animali non dotate di vita sociale: per esempio, il sistema di difesa di fronte a minacce poste da predatori (attacco- fuga- freezing) , il sistema di procacciamento di cibo (raccolta e predazione), il sistema territoriale, il sistema esploratorio. Al secondo livello agiscono i sistemi deputati invece a regolare le sette diverse forme basilari dell’interazione sociale identificabili con l’osservazione etologica: attaccamento (richiesta di vicinanza protettiva, di cura e conforto), accudimento (offerta di cura), definizione del rango di dominanza- subordinazione (aggressività competitiva o ritualizzata), gioco sociale, cooperazione fra pari in vista di un obiettivo congiunto, formazione della coppia sessuale, affiliazione al gruppo sociale. Il secondo livello quindi è quello dei sistemi sociali (sistemi motivazionali interpersonali nell’uomo). Al terzo livello, operano i sistemi che ci motivano alla costruzione e sintesi di significati, e allo scambio di informazioni attraverso il linguaggio verbale. L’importanza per la svolta relazionale del cognitivismo clinico italiano, di questa visione gerarchica ed evoluzionista dell’apparato motivazionale umano è che essa ha aperto la strada ad una visione dell’intersoggettività fondata non solo sulla fenomenologia e sull’esperienza dell’empatia, ma anche sull’evoluzionismo, etologia comparata e neuroscienze. COSCIENZA E INTERSOGGITTIVITA’ : LA PRATICA CLINICA NELLA PSICOTERAPIA COGNITIVA RELAZIONALE La psicoterapia cognitiva, basata sull’analisi dei contenuti mentali coscienti, risente, nella pratica clinica, di una visione dei processi mentali coscienti come intrinsecamente intersoggettivi e sempre collegati e sempre collegati all’operare dei sistemi motivazionali interpersonali. Piuttosto che mettere a fuoco convinzioni del paziente da sottoporre ad analisi razionale e confutazione su base logica, com’è nella tradizione della terapia cognitiva standard, lo psicoterapia cognitivista che segue il paradigma relazionale preferisce dedicarsi alla valutazione dei cicli interpersonali problematici nei quali il paziente è coinvolto e coinvolge , quindi , anche il terapeuta. Il terapeuta, proprio perché coinvolto, può intervenire in modo efficace: facilitando la riflessione del paziente, segnalando la condivisione intersoggettiva dell’esperienza problematica o cercando di dar luogo ad un’esperienza relazionale ed emozionale correttiva. Un altro modo in cui il paradigma relazionale ha influenzato il cognitivismo clinico deriva dallo studio dell’architettura gerarchica dei diversi sistemi Agli inizi degli anni Novanta in Italia era attivo un acceso dibattito tra i diversi modelli prevalenti e i nuovi contributi provenienti dalla psicologia del sé e dall’infant research. Questo dibattito risentiva dell’influenza dello spirito di integrazione e ricomposizione delle differenti teorie psicoanalitiche in un comune terreno clinico, promosso dal congresso dell’International Psychoanalytic Association organizzato a Roma nel 1989. Robert Wallerstein proponeva una possibile “common ground” dei modelli psicoanalitici nella clinica riconducendo la specificità della psicoanalisi freudiana alla convinzione che il campo osservativo dell’indagine analitica risiedesse nel rapporto complementare tra analisi del conflitto intrapsichico e analisi della dinamica relazionale. In questa luce, l’opposizione stabilita da Mitchell tra una psicoanalisi relazionale e una psicoanalisi pulsionale- strutturale, appariva una contrapposizione dicotomica che forse poteva avere più senso per io movimento psicoanalitico statunitense che per quello europeo. Per molti psicoanalisti freudiani italiani infatti, non esisteva una psicoanalisi classica, essendo Freud, fruibile su più piani di lettura, contemporaneamente pulsionale e relazionali. Una rilettura del testo freudiano in senso relazionale era in buona parte dovuta anche allo spirito del tempo che risentiva dell’influenza di molteplici ragioni di ordine scientifico, sociale e culturale. Tra questi anche la diffusione nel movimento psicoanalitico dei contributi di Daniel Stern che portavano una critica alle fasi evolutive del narcisismo primario e della simbiosi e descrivevano invece un bambino competente, dipendente ma separato dal caregiver, attrezzato fin dalla nascita. Anche la teoria di Sandler contribuivano ad ampliare la teoria bimotivazionale freudiana e aprivano allo sdoganamento degli studi di Bowlby sull’attaccamento , riprese poi da Fonagy in un tentativo di conciliare tradizione psicoanalitica e la teoria dell’attaccamento. La complessità introdotta da queste nuove fecondazioni teoriche aveva promosso un interesse verso gli aspetti più relazionali della teorizzazione della clinica psicoanalitica. Il mutare delle popolazioni cliniche e la crescente diffusione dei disturbi della personalità avevano contribuito ad una ridefinizione in termini relazionali della teoria evolutiva, dell’eziopatogenesi, della tecnica e dell’azione terapeutica. La cura di questi pazienti richiedeva una concezione relazionale dei processi costitutivi del senso di Sé , una rivalutazione del rapporto dialettico tra percezioni traumatiche e fantasia all’origine della psicopatologia, e quindi l’adozione di un approccio clinico meno interpretativo e rigidamente neutrale. Si iniziò cosi a capire che le resistenze di molti pazienti alla cura analitica erano comprensibili non sono in termini di conflitto tra istanze psichiche, ma anche di resistenza al setting e all’angoscia di ripetere esperienze psichiche traumatiche nel rapporto con l’analista. Questo fu uno dei fattori che portò ad intensificare le riflessione sulla dinamica transfert- controtransfert, già anticipata nel 1962 da Francesco Corrao nella rivista di psicoanalisi in un articolo dal titolo “metapsicologia del controtransfert” , nel quale si intende la relazione analitica come una relazione interpersonale polivalente in cui due attori stabiliscono il rapporto di mutua influenza finalisticamente orientata. Queste considerazioni fanno di Corrao un costruttivista anti litteram. La diffusione delle idee relazionali portò a promuovere riflessioni sulla centralità dell’interazione nel processo psicoanalitico e dell’interdipendenza tra intrapsichico e interpersonale, sulle comunicazioni inconsce analista- paziente . Si registra insomma un certo accordo, diffuso tra psicoanalisti anche di diverso orientamento, a mantenere una sorta di tensione dialettica tra l’ispirazione ad osservare i fenomeni da un punto di vista esterno, sottraendosi dall’influenza del campo intersoggettivo, e la consapevolezza della propria immersione nella matrice transfert- controtransfert. Tale situazione portò alcuni analisti a criticare la concezione rigida della neutralità, cosi come l’aveva intesa la psicologia dell’Io , come equidistante dalla istanze intrapsichiche e dalla realtà, che non teneva contro del ruolo e della partecipazione dell’analista alla comunicazione dei suoi aspetti inconsci e allo sviluppo del transfert. In breve transfert e controtransfert erano reciprocamente intrecciati nel flusso di continua influenza da cui scaturivano i fenomeni dell’esperienza analitica. Tutto questo portò ad una differenziazione della psicoanalisi dalla psicoterapia. Fu però, proprio , dalla psicologia dell’io che, negli anni successivi, si sviluppò una convergenza verso le proposte degli autori relazionali, anche in Italia. Tutto ciò fu influenzato anche da fattori di ordine sociale come la legge di riforma psichiatrica promossa da Basaglia che criticava la psichiatria classica e rimetteva al centro della cura la soggettività del paziente grave piuttosto che astratte categorie diagnostiche. QUESTIONE CONTROVERSIE Lettura pag 195- 197
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