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Riassunto "Le arti e i lumi, Pittura e scultura da Piranesi a Canova" di Liliana Barroero, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto dettagliato del libro "Le arti e i lumi, Pittura e scultura da Piranesi a Canova" di Liliana Barroero per esame di Storia e Tecnica dell'Arte Moderna, aa. 2019/2020 - prof.ssa P. G. Tordella.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 02/11/2021

C-G-99
C-G-99 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Le arti e i lumi, Pittura e scultura da Piranesi a Canova" di Liliana Barroero e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! LE ARTIE ILUMI. Pittura e scultura da Piranesi a Canova. di Liliana Bottoero [Anche il libro “Neoclassicismo” di Hugh Honour è stato pubblicato dalla stessa casa editrice (Einaudi) ed è un spesso usato come riferimento]. IL TITOLO: Le “arti” e i “lumi” sono i termini scelti per suggerire un percorso riconoscibile all'interno del vasto campo del Settecento europeo. LUMI = sono quelli da cui prende nome e sostanza il principale movimento filosofico che vide il suo culmine nella seconda metà del Settecento, l’Illuminismo. Il termine Illuminismo solo di recente è stato associato allo stile neoclassico e alla nascita degli Stati moderni, le cui realizzazioni architettoniche sono costruzioni in stile palladiano, caratterizzate secondo il sistema classico degli ordini. Si tende a dimenticare che spesso questi edifici sono antecedenti alla nascita di quegli Stati e che, se in Francia e negli Stati Uniti ospitarono le istituzioni repubblicane, dai palazzi del governo alle banche, in Russia erano l'emblema della monarchia assoluta e in Prussia di un’altra monarchia; e che più tardi questo stile sarebbe stato adottato da regimi totalitari. L'autrice spiega la scelta del termine Illuminismo rispetto a quello di Neoclassicismo — Il termine Illuminismo va quindi inteso, non come uno stile applicato alle arti, ma come una mentalità opposta al barocco: un movimento intellettuale e critico che perseguiva la tolleranza in campo religioso, il liberalismo in quello economico e la modernizzazione dello Stato tramite le riforme in campo legislativo e fiscale, in nome della rivalutazione della natura umana in una visione laica del destino dell’uomo. Tuttavia, anche se l'Illuminismo non ha dirette ricadute su di uno stile, il suo rapporto con le arti è innegabile. Le vicende della pittura, della scultura e dell’architettura si svolgono all'interno di un clima culturale ed economico segnato dalle nuove teorie filosofiche. Notare che “pittura e scultura” sono citate anche nel sottotitolo: perché viene esclusa l'architettura? * Era impossibile presentare adeguatamente, in poche pagine, un tema così importante; * Perle insufficienti competenze dell'autrice. Sono state scelte opere che consentissero letture a più livelli: storico, formale, filologico e filosofico; quindi, accanto a esempi di grandi opere compaiono pensatori e teorici dell'epoca. L'arco temporale individuato dall'attività di Giovanni Battista Piranesi e di Antonio Canova coincide grosso modo con il periodo che si è soliti indicare come “neoclassicismo”. Un termine il cui uso storiografico è relativamente recente, anche se fu coniato negli anni Ottanta dell'Ottocento. Impiegato prima in senso dispregiativo (utilizzando come bersaglio la pittura di Jaques — Louis David), è stato in seguito adottato dalla storiografia artistica senza particolari implicazioni valutative. Si è rivelato largamente insufficiente e inadeguato per definire un'epoca, uno stile o un ideologia. Questo termine: e lotroviamo all'interno del volume di Mario Praz, Gusto Neoclassico, del 1939, dove si poneva l'accento sul gusto e non sullo stile; e erautilizzato in senso negativo nel 1950, da Roberto Longhi, in Proposte per una critica d'arte (il saggio di apertura del primo numero di Paragone), che liquidò come “avello neoclassico” i protagonisti e le opere di tutto il secondo Settecento. La polemica longhiana aveva come principale bersaglio l'opera di Canova, descritto come uno “scultore nato morto”. Robert Rosenblum sottolineava come l'arte del neoclassicismo non fosse peculiare di un'area specifica, ma coinvolgesse tutta l'Europa e anche l'America del nord: la culla / il centro della cultura neoclassica fu Roma, custode delle antichità greco — romane e luogo d'incontro di eruditi, mercanti, artisti, intellettuali. Benché non sia da sottovalutare l'apporto di inglesi e tedeschi, fu in Francia che questo stile conobbe la più completa fioritura, principalmente per l'apporto di David e i suoi seguaci (dal punto di vista teorico ma anche nel numero di artisti coinvolti). Una fondamentale riflessione sul tema proviene da (1) Hugh Honour con il saggio Neoclassicismo, pubblicato nel 1968, preceduto nel 1967 dal volume di (II) Rosenblum Trasformation in Late Eighteen Century Art, di poco successivi alla grande mostra promossa dal Council of Europe, The Age of Neoclassicism, organizzata a Londra nel 1972, in cui si presentano più di duemila opere di pittura, scultura, arti applicate, progetti architettonici. La mostra consacrò la portata internazionale di quello che già allora appariva impossibile da definire: uno stile, un Movimento oppure un'ambiente culturale. Le contraddizioni furono immediatamente colte dai primi recensori, che rivelarono l'assenza di una linea precisa: il taglio della mostra e le scelte degli organizzatori, che esclusero artisti e opere il cui rilievo era già allora ben noto, si mostrò arbitrario, poiché l'arco temporale prescelto (dal 1750-1850) venne ritenuto troppo esteso dalla critica. 1) In Neoclassicismo (in cui “neoclassicismo” è e lo stile del tardo Settecento, “nella fase culminante e rivoluzionaria di quella grande esplosione di ricerca umana nota con il nome di Illusionismo”), Honour avvertiva l'impossibilità di presentare lo stile neoclassico come unitario e omogeneo, dal momento che non poté evitare di registrare le tensioni e le contraddizioni che lo segnarono — l'universalità dello “stile neoclassico” si è rivelata più un'aspirazione o un'operazione critica a posteriori più che una realtà oggettiva. 2) Più crudamente, Rosenblum definiva il termine una “camicia di forza” semanticamente difficile da impiegare e della quale sembrava impossibile farne a meno (al pari del “manierismo”, “romanticismo” e “cubismo”). Il termine è stato poi visto come termine comodo: Orietta Rossi Pinelli, nel saggio // secolo della ragione e della rivoluzione, ha definito più inutili e inquinanti termini come “tardobarocco”, “barocchetto” e “neoclassico”, ritenendo maggiormente proficuo utilizzare “periodizzazioni appartenenti appieno titolo al linguaggio della letteratura settecentesca”. Christian Michael, nel catalogo di una mostra recente, L'antiquité revée, scrive che “ciò che caratterizza le differenti correnti artistiche inglobate nel termine di ‘neoclassicismo’ è la volontà di rompere con un'arte il cui unico obiettivo era di sedurre i sensi” (riferendosi alla Lo sforzo di Piranesi era quello di contestualizzare gli edifici e i monumenti dell’antichità, prendendo le distanze dall'approccio sostanzialmente estetico che privilegiava la linea “evolutiva” dell'arte basata su singole opere messe in sequenza — Novalis scrisse una provocazione, dicendo che si sbagliava di grosso chi credeva nell'esistenza degli antichi e che solo in quel momento antichità cominciò ad esistere. Nella nascente disciplina dell'archeologia si potrebbero distinguere due linee: 1) quella storico-artistica di matrice winckelmanniana -— mettere in scena un monumento con un valore pittorico; 2) quella storico-antiquaria che ha il suo rappresentante in Piranesi — l'antiquario cerca di dare un'immagine autonoma e analitica. Quello di Piranesi è un metodo autoptico, originato dalla necessità di giungere una spiegazione e che suggerisce un percorso concreto: l’antichità non deve essere un corpo inerte nelle mani degli eruditi, incapaci di svelarne i segreti. ma deve essere vivificata dagli artisti e rinascere nelle opere. Quando l'interesse dei viaggiatori e degli eruditi si estende alla Magna Grecia, essi scendono verso Paestum, sostano presso le città sepolte dal Vesuvio, sbarcano in Sicilia, poi in Siria e in Grecia. Di questi viaggi, definiti “pittoreschi” nei titoli dei volumi che ne offrono il rendiconto, il termine “pittoresco” va inteso nell'accezione letterale: le illustrazioni riproducono con la maggior precisione possibile i luoghi descritti, utilizzando l'immagine a integrazione della parola. Il risultato di questa attività di documentazione dei siti distingue la visione offerta dall’artista-illustratore da quella dell’antiquario, che se ne servirà cercando di dare un'immagine approfondita del monumento — gli artisti “mettevano in scena” il monumento con un valore in più, quello pittorico, che lo proiettava in una sfera interpretativa. QUALE ANTICO? Le riviste erudite dell'epoca, le collezioni private e i musei pubblici concedevano sempre maggior spazio sia all'antichità classica che alle “altre” antichità (etrusca, egizia, paleocristiana). Rispetto ai secoli precedenti, prevaleva secondo uno schema corrispondente a quello espresso in acquerello da James Stephanoff che, nel 1845, raffigurava una sequenza di monumenti archeologici, che indicava la raggiunta perfezione dell'arte nelle sculture del Partenone. A Roma, la presenza dei numerosi obelischi, collocati al centro delle piazze principali a partire dal Cinquecento, insieme alle sculture provenienti dagli Isei (recuperati negli scavi e ospitate nei musei, pubblici e privati), avevano suscitato la curiosità degli studiosi, che tentavano di decifrare il sistema della scrittura geroglifica. Uno dei primi ad affrontare l'impresa fu, nel Seicento, il gesuita Kircher, anche se la soluzione del problema fu possibile solo dopo che Champollion poté disporre della Stele di Rosetta. Ma, aldilà delle questioni linguistiche, era in ambito della arti figurative che l'interesse cominciava a manifestare i suoi effetti. Il gusto, che poi sarebbe stato definito “egittomania”, ravvivato dagli scavi condotti a Villa Adriana, si diffuse con sempre maggiore ampiezza. Piranesi, per esempio, fece uso di elementi egizi nella sua decorazione del Caffè degli Inglesi a Piazza di Spagna e nei mobili da lui disegnati, ispirando così anche la fantasia di Tommaso Maria Conca, che fece largo impiego di elementi geografici ed immagini tratte dall'iconografia relativa divinità del Nilo per decorare (per collegarne i dipinti) la Sala Egizia del Casino Nobile di Villa Borghese. Un ruolo fondamentale nell’allargare l'interesse verso le altre antichità fu colui che oggi, a ragione, è considerato il più grande antiquario del Settecento, ovvero Anne-Claude Philippe de Tubières, conte di Caylus. L'attenzione esclusiva dedicata da molti alla visione tedesca, nell'opinione comune ne ha oscurato l'apporto in favore del ruolo riconosciuto a Winckelmann, il quale conosceva e stimava l'erudito francese ma, privilegiando lo stile e la forma più che le vicende della storia, aveva delle altre antiche civiltà una conoscenza limitata e, soprattutto, offuscata dalla sua profonda convinzione della superiorità di quella greca sulle altre. L'opera capitale di Caylus fu il Recueil d'antiquités égyptiennes, étrusques, grecques, romaines et gauleoises in sette volumi pubblicati a Parigi tra 1752 e 1767. Il lavoro si fondava su oggetti che appartenevano alla sua collezione personale. Secondo l'autore, le opere stesse possedevano un linguaggio specifico più ricco di informazioni rispetto ai testi scritti: di conseguenza, egli deplorava che gli antiquari raramente le considerassero, guardando ad esse soprattutto come un supplemento o semplice dimostrazione della storia. L'opera di Caylus era ben nota negli ambienti dell'Accademia di Francia e a Piranesi, che fu in contatto con la cerchia degli inglesi, per i quali decoro con motivi egizi il perduto caffè a Piazza di Spagna. L'interesse di Piranesi era rivolto alle antichità etrusche (decorò l'appartamento in Campidoglio del senatore di Roma, Rezzonico, con ornamenti alla greca e all'etrusca) (sono gli stessi anni in cui Lanzi scrisse il Saggio sulla lingua etrusca). Egli poneva l'arte etrusca alle origini dell'arte romana, della quale, nelle sue opere e nei suoi scritti teorici, sosteneva con forza la superiorità rispetto a quella greca. La sua posizione ebbe una vasta eco in tutta Europa. Dopo l'intervento di Pier Jean Mariette a Parigi, nel 1764, sulla Gazzette littéraires de l'Europe, dove espresse idee contrarie a quelle di Piranesi, quest’ultimo articolò una risposta in tre distinte parti in cui confutava tutte le argomentazioni di Mariette, con argomenti volti a sostenere il ruolo primario dell'invenzione, contestando il principio classicista della necessità di imitazione dei principi ispiratori dell'arte greca. L'indagine sull'antico, condotta da quella sovrannazionale comunità che si autodefiniva “Repubblica delle Lettere”, nella quale non vigevano distinzioni di classe e di censo, si traduceva in un ampliamento delle conoscenze scientifiche, e per il mondo degli artisti in un arricchimento che includeva nuove iconografie e nuovi mondi, non solo figurativi. LA RIFLESSIONE SULLE ARTI La discussione sui generi artistici, sulla loro gerarchia e quindi sulla superiorità dell'uno rispetto all’altro ha radici lontane. La riflessione sulle arti, che si verificò nel secondo Settecento, ripercorre molti degli argomenti che più o meno esplicitamente erano stati presenti alla coscienza storica dei secoli precedenti: dal paragone delle arti (pittura o scultura) al rapporto pittura e poesia, dal ruolo della filosofia all'importanza dell’allegoria. nelle arti figurative come nella letteratura. Il tutto, in un contesto storico e politico che vedeva impegnati e dauna parte i sovrani illuminati, per i quali la promozione delle arti costituiva uno dei compiti cui erano chiamati in quanto operazione utile a celebrare le glorie dello Stato, e * dall'altro, i filosofi, come Rousseau e Diderot, che sostenevano la necessità che l'arte fosse basata su principi etici, e che dovesse contribuire all'educazione del popolo e all'elevazione dell'animo, non limitandosi e la bellezza delle forme ma includendo anche la nobiltà dei contenuti. | temi del dibattitto artistico, avviato dal Cinquecento, erano rimasti gli stessi; cambiavano le risposte, e variavano a secondo dei contesti, delle nazioni e delle circostanze storiche. Anton Raphael Mengs, il pittore filosofo il cui pensiero ebbe grande influenza in Europa e le cui idee sull'arte moderna riflettono quanto Winckelmann, aveva scritto sull'antichità, sostenendo che la bellezza era l’unico riflesso della perfezione divina accessibile all'uomo — compito dell'artista era imitare gli antichi che avevano già compiuto quel percorso. Il “Trattato di Mengs" (Zurigo 1762) Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura venne ripreso da Winckelman nel 1763. All'esempio degli antichi Mengs aggiungeva quello dei grandi artisti del Rinascimento che a suo parere a quell'idea di perfezione si erano più avvicinati, ciascuno in uno specifico campo: * Raffaello: livello più alto nella composizione; e Correggio: livello più alto nel sentimento; e Tiziano: livello più alto nel colore. Secondo Mengs, l'artista moderno che aspirava alla perfezione aveva di fronte a sé l'unica via di conseguire l'eccellenza in tutti i campi tramite la sintesi di disegno, chiaroscuro, colore, composizione, armonia, aggiungendo alcuni elementi di dettaglio: così, l'artista poteva conseguire il “buon gusto” e poteva rappresentare la bellezza. Mengs sosteneva, dunque, la necessità di imitazione (sottoposta, però, al bello ideale), concetto trattato anche da Goethe, secondo cui imitare la natura significava per il poeta creare un linguaggio universale e l'arte era uno strumento di conoscenza della realtà, che si sarebbe tradotto in uno stile elevato. La semplicità dei precetti di Mengs, elaborati per la pittura, ma estensibili alla scultura e ad altri campi dell'arte, non esauriscono i punti di vista sull'argomento espressi dai pensatori del Settecento. ® Uno dei più autorevoli, ad esempio, era quello di Diderot che, nel difendere la libertà artistica, concordava con l'impossibilità di rendere la natura con esattezza, proponendone l'idealizzazione sulla base di norme precise: “lasciate all'arte la libertà di uno scarto dal vero che qualcuno potrà approvare e qualcun altro condannare”. e Il conte di Caylus, in una serie di letture tenute all’Académie Royale di Parigi, contestava un'arte che si contentasse di essere l'applicazione di regole trasformate in routine. In Francia, alla fine del Seicento, era stato impostato un dibattito tra l'antico e moderno, in seguito alla Quérelle des Anciens et de Modernes, e riproposto nel decennio 1750 — 1760 con la Quérelle sur Homère. Da qui, ne consegue una particolare visione dell'antico, non più come modello indiscusso, ma in relazione dialettica con le esigenze dell’arte moderna. La riflessione sull’ antico nei paesi anglosassoni fu particolarmente feconda: nel 1760, l'irlandese Webb pubblicò un opera nel quale sosteneva che l’importanza del modello antico è individuata nell'aspirazione estetica suscitata dalle sue forme, che rende visibile della manifattura Wedgwood, dove Caterina di Russia (“la Minerva del Nord”) è raffigurata nell'atto di incoronare le Arti sotto forma di un Genio che gliene presenta gli emblemi, e di proteggere con il suo scudo il Commercio, nelle sembianze dell'Abbondanza che stringe a sé una cornucopia. Se a Roma, nel 1761, per opera del pittore-filosofo Mengs, il cardinale Alessandro Albani e il suo bibliotecario Winckelmann avevano posto il Parnaso come punto focale dell'intera concezione della Villa destinata ad accogliere una delle più famose raccolte d'antichità del secolo, accompagnandone la rappresentazione con i tondi dell'Amor virtutis e del Geniu bonarum arium (Genio delle Belle Arti) con le tre corone della Pittura, Scultura e Architettura, di lì a poco, nel 1772, nella decorazione della Stanza dei Papiri in Vaticano, lo stesso Mengs avrebbe introdotto, nell’Allegoria del Museo Clementino la centralità della Storia. Prima eco delle concezioni di Mengs fu la volta della biblioteca del Palazzo Reale di Torino affrescata da Laurent Pecheux (allievo di Mengs) dove al tema centrale del Tempo e della Verità si accostano i riquadri con l'eroe virtuoso da un lato (Ercole al bivio) e dall'altro l'artista nella figura di Dedalo. Un altro allievo e pittore tedesco di Mengs fu Heinrich Fuger, che realizzò la biblioteca di Corte della Reggia di Caserta, rifacendosi alla pittura di tradizione classica, ovvero a Raffaello e Poussin, celebrando la poesia le arti figurative che, insieme alle scienze, rinascono e prosperano in un'età dell'oro sotto il segno delle grazie. In alcuni casi, anche la nuova decorazione delle sedi delle accademie riformate riflette chiaramente un simile programma: l'Accademia Virgiliana di Mantova ne è l'esempio più compiuto. Il programma iconografico, elaborato dall’ Abate Gian Girolamo Carli e realizzato in stucco da Somazzi, accorda l'esaltazione delle Scienze a quella delle Arti e delle Lettere, nel segno della politica illuminata dell'imperatrice Maria Teresa. Sono gli anni nei quali le accademie vanno differenziando il loro insegnamento tra quanti con l'apprendimento del disegno potranno migliorare la produzione artigianale nei più diversi campi, secondo una visione mercantilistica della produzione delle arti utili, e quello riservato agli artisti veri e propri. Su questo sfondo si muovono le nuove figure degli artisti, le loro fisionomie affidate ai ritratti in una mutata concezione. Il nuovo prestigio riflesso nell'iconografia allegorica secondo le sue diverse modalità, dal vero ragionare erudito e teorico alla messa in scena della politica illuminata dell’arte come tratto caratteristico del riformismo settecentesco, trova uno dei punti più emblematici nella nuova visione delle arti così come testimonia il rinnovamento della Galleria degli Autoritratti agli Uffizi. Era una prassi, nel Settecento, di quasi tutte le accademie d'arte (Berlino, Stoccolma, Desda, Londra) organizzare a intervalli regolari, sul modello dei Salons francesi, delle esposizioni nelle quali i giovani artisti, così che quelli più affermati potessero presentare al pubblico le loro opere. e il Salon parigino (così chiamato perché si teneva nel Salon Carré del palazzo del Louvre) era riservato ai membri dell'Académie Royale e si svolgeva con cadenza biennale; * aRoma, aPalazzo Mancini, erano organizzate mostre dall' Accademia di Francia; e rifacendosi al modello francese, molto simili erano le mostre organizzate a Dresda, nel 1764, e a Londra, nel 1760, dove potevano partecipare solo membri dell'Accademia di Saint Martin. Solo nel 1768, quando venne istituita la Royal Academy of Arts, le esposizione vennero aperte a tutti gli artisti meritevoli. A Roma mancavano, invece, occasioni paragonabili a questa e ai Salons: tant'è che, nel 1792, l'abate Michele Mallio lanciò sugli Annali di Roma un appello perché anche qui fosse individuato un luogo per le esposizioni artistiche. Le sole occasioni collettive erano quelle stabilite dalle premiazioni dei concorsi dell'Accademia di San Luca; ma era consuetudine che gli artisti esponessero pubblicamente nei loro studi, nelle residenze di ambasciatori o di mecenati e nelle chiese le proprie opere (David nel 1785 presentò il Giuramento degli Orazi in un ambiente di proprietà dell’Accademia di San Luca). Una convinzione condivisa voleva che i romani costituissero un pubblico particolarmente competente in quanto educato fin dall'origine, a motivo delle bellezze che ne costituivano l'habitat quotidiano, a riconoscere la qualità. ARTISTI IN ARCADIA È recente il chiarimento della funzione dell'Accademia dell'Arcadia come luogo di incontro tra le arti. le lettere e le scienze in nome del “buon gusto” e all'insegna della razionalità e della chiarezza. Ancora oggi all’ arcadia vengono affiancati i paesaggi soavi e pastori (“bagalettes"). In questa Repubblica delle Lettere, che ebbe tra i suoi cittadini Voltaire e Mengs, presero corpo alcuni importanti principi fondativi di una nuova visione dell’arte sotto il segno di una corrente unita nella diversità. Forse una delle caratteristiche più interessanti del mandato di Gioacchino Pizzi (custode dell'Arcadia dal 1772 al 1790) consiste nel suo tentativo di riorganizzare la sociabilità culturale italiana della sua epoca attraverso la rete delle colonie arcadiche. Ne consegue una riaffermazione della valenza unificatrice dell'Accademia (a Parma, Verona, Milano con l'Accademia dei Pugni e a Torino): si tratta della declinazione più diffusa dei lumi europei in chiave poetica, musicale e artistica che in alcune sue frange si spingerà fino agli esiti rivoluzionari. Uno dei nuclei più significativi si fermò a Parma, nella Corte riformatrice di Guillaume du Tillot, dove svolse la maggior parte della sua attività Bodoni, che divenne lo stampatore privilegiato delle composizioni arcadiche (e che dopo la morte ottenne l'onore di un busto nel Pantheon). Angelika Kauffmann, pur non essendo mai stata arcade, diviene in sostanza la maggior rappresentante dell'espressione artistica dell’Arcadia riformata, sia quando dipinse Giuliana falconieri, una colta nobildonna romana nel gesto eroico di Lucrezia, da cui nacque la Repubblica romana, sia quando dà forma compiuta a quella che lei stessa definisce una “favola di Arcadia”, tratta da un poema inglese, o quando si rappresenta come Ercole al femminile, al bivio tra musica e pittura. È quindi un'artista donna come Angelika che, in virtù del suo culto della grazia, si candida a sostituire Mengs come punto di riferimento e amica comune di quel partito di intellettuali che intreccia viaggi ed epistolari, favorisce commissioni ed esportazioni, determina la fortuna degli artisti presso le corti e dissemina in Europa questo gusto nuovo. Mentre l'Arcadia di questi anni favorisce l'elemento femminile e si entusiasma per le nuove prospettive della scienza, sotto il profilo estetico promuove quella categoria del buon gusto cui lo stesso custode generale dedica un poema. Alcune delle donne in primo piano furono, per esempio: e ARoma, Margherita Boccapaduli; * A Napoli, Eleonora de Fonseca Pimentel e Chiara Spinelli; * a Bergamo, Paolina secco Suardo. La stessa iconografia, che ci restituisce l'immagine di questi privilegiati frequentatrici del bosco parrasio, va dall'eleganza aristocratica di Giacinta Orsini, ritratta nel 1757 da Batoni nelle vesti di poetessa (per una collezione privata), alla sottolineatura della modernità dell'abito dell'ambientazione del suo gabinetto scientifico di Margherita Boccapaduli, ritratto nel 1777 da Pecheux (anche se per una collezione privata). All'interno di questa visione di una storia comparata della cultura tardo settecentesca in età prerivoluzionaria, l'elemento in cui si polarizza la lotta tra la nuova visione secolarizzata del mondo e il retaggio dell'antico regime, è la questione dello scioglimento della Compagnia di Gesù. Una più moderna attenzione al ruolo intellettuale delle donne è promossa dallo stesso Gioacchino Pizzi, che fin dal 1758 aveva pubblicato // trionfo delle donne forti. Dallo spoglio degli elenchi degli arcadi nel Settecento, in un totale di nove nomi, si ricava la presenza di un numero esiguo ma non trascurabile di artisti. Molti tra questi sono stranieri e i francesi, come Jean Barbault, Hubert Robert e Claude-Joseph Vernet, e rappresentano il gruppo più nutrito. Costituiva una premessa qualificata per l'ascrizione all'Accademia dell'Arcadia la carica di direttore dell'Accademia di Francia di Palazzo Mancini. Ma quel che soprattutto dovette apparire necessario per partecipare a pieno titolo a un tale consesso di eguali, era una riconosciuta familiarità con la pratica letteraria. Che l'essere arcade rappresentasse un riconoscimento e un trampolino sociale è, tra l’altro, dimostrato dal ricorrere negli stessi personaggi dei tre maggiori segni di distinzione onorifica cui un artista francese potesse aspirare: la croce dell'ordine di San Michele conferita dal re di Francia cui Roma rispondeva con i titoli di accademico di San Luca e pastore d'Arcadia. Dunque, il passaggio in Arcadia contribuiva efficacemente alla formazione degli artisti , in epoca di progressiva istituzionalizzazione delle carriere accademiche, esso rappresenta una tappa importante per cui gli artisti possono mettere a frutto i loro interessi letterari e le loro relazioni mondane per occupare posizioni di rilievo. Le accademie più importanti furono Roma, Firenze, Bologna, Lione, Marsiglia e Bordeaux. Le motivazioni che avevano spinto Luigi Lanzi a scrivere la sua opera posso essere utilizzate a definire i temi ricorrenti dell'epoca. | principi illuministici coinvolsero l'intera produzione artistica e, per quanto riguarda le arti figurative, trovarono applicazione non solo nelle tradizionali arti del disegno (pittura, scultura, architettura) ma anche nel campo di quelle che in Italia erano indicate come “arti utili" (ceramica, vetro, ebanisteria). La creazione a Meissen, nei primi anni del Settecento, di una manifattura di porcellane (la prima in Europa a conseguire risultati analoghi per qualità ai prodotti cinesi), sembrò aprire la strada a nuove possibilità. Winckelmann e Algarotti che, a Dresda, avevano potuto seguire da vicino il fiorire della prestigiosa manifattura, lamentavano tuttavia che un materiale così prezioso venisse impiegato per realizzare “ridi le”, e sostenevano che tali oggetti avrebbero acquistato prestigio e nobiltà se avessero imitato “le cose antiche”. Carlo Ginori, un marchese fiorentino, aveva introdotto, nelle fabbriche di porcellane (nella manifattura di Doccia) la riproduzione di sculture antiche, inviando i suoi cultura, clienti particolarmente interessanti, andando a costituire una voce florida nel mercato dell'arte. La produzione di stampe coinvolgeva gli ambiti più vasti: dall'ilustrazione dei monumenti alla traduzione (di descrizioni) di dipinti e sculture: la stampa di traduzione. Diverso è il caso di Piranesi, che impiegò l'acquaforte come strumento espressivo autonomo, di grande potenzialità. Francis Haskell ha indicato in Roma e Parigi i due centri maggiori della produzione incisoria. La fortuna della stampa di traduzione diede, infatti, il via in entrambe le capitali a un'attività specializzata che si sarebbe poi sviluppata in una vera e propria forma di editoria. Non sono pochi i quadri e le sculture riprodotte in incisione e disegno, molto diffuso era anche dedicare stampe a collezioni aristocratiche o al monarca finalizzate ad indicare il “puon gusto” del proprietario. Il pittore inglese Gavin Hamilton aveva affidato all'incisore Domenico Cunego la fama dei suoi quadri di soggetto omerico dipinti a Roma e che voleva fossero noti anche in patria: Hamilton aveva intenzione di conservare le più preziose pitture che, per la voracità del tempo, erano volta perdersi e di renderle comuni a tutta l'Europa. La sua sensibilità di commerciante d’arte per il mercato anglosassone è all'origine della realizzazione, nel 1773, del volume Schola italica picturae da lui ideato. Il volume era composto da quaranta tavole in folio che illustravano un'antologia di dipinti che andavano dagli affreschi sistini di Michelangelo alla Galleria Farnese e includeva maestri del Cinquecento e del Seicento, compreso Caravaggio, con una scelta corrispondente al gusto del collezionismo internazionale (rifletteva la libertà con la quale lo stesso Hamilton sapeva guardare all'arte dei secoli precedenti). Il volume venne anche considerato utile dai professori e ai dilettanti delle Belle Arti: è stato ipotizzato che l'inserimento di diversi quadri conservati in raccolte private potesse rappresentare un espediente per introdurle sul mercato artistico. Era abbastanza diffuso l'uso di realizzare costosi in folio dedicati a collezioni aristocratiche o della corona, come quelli di eccezionale pregio impegno che illustravano le raccolte di Luigi XIV. Tuttavia, non erano destinate ad una diffusione tramite la vendita, ma a glorificare il gusto e la lungimiranza del proprietario che ne faceva dono a sua discrezione. Dunque, volumi di incisioni potevano essere dedicati anche a una singola raccolta. La prima iniziativa del genere è rappresentata dalla Galleria Giustiniana, curata nel Seicento da Joachim von Sandrart per illustrare le antichità riunite dal marchese Vincenzo Giustiniani nel suo palazzo romano a San Luigi dei Francesi. Anche i volumi delle Antichità di Ercolano, stampati a cura dell'Accademia di Ercolano tra il 1757 e il 1792 per riprodurre quanto stava venendo alla luce negli scavi, erano distribuiti per iniziativa del sovrano e non tramite i canali della vendita. Un significativo mutamento si è verificato, nella prima metà del secolo, con l'iniziativa avviata da Pierre Crozat che con l'aiuto del giovane Caylus e Pier-Jean Mariette, e su suggerimento di Filippo Il d'Orléans, aveva pubblicato nel 1729 e nel 1742 a Parigi un Recueil di stampe in due volumi che riproducevano i principali dipinti delle raccolte francesi con incisioni eseguite su disegno di un consistente numero di artisti. Caylus fu autore di una buona quantità di disegni preparatori e Mariette stesso aveva fornito alle tavole il commento, basato su criteri adottati ancora oggi: attribuzione, datazione e analisi stilistica. Progettato come una storia dell'arte per immagini, il Recueil fu forse la più ambiziosa impresa di quel genere in tutto il secolo. Era destinato a quello che sarebbe stato il classico pubblico illuminista (amatori, conoscitori, collezionisti, artisti ed artisti che avrebbero potuto confrontare le diverse maniere di comporre di disegnare, oltre che a ricostruire diversi stati della pittura e i progressi che le differenti scuole hanno compiuto nel tempo). La diffusione e l'importanza di questa forma di editoria era tale che, nel 1771, Carl Heinrich von Heineken, direttore delle raccolte di grafica di Dresda, aveva pubblicato una sorta di catalogo delle maggiori collezioni di stampe a Lipsia e Vienna (in precedenza, aveva anche illustrato le raccolte di Dresda), intitolato /dée Iénérale d'une Collection Complète d'estampes. Volumi di stampe incisioni sfuse potevano essere acquistati tramite sottoscrizione o presso negozi specializzati: a Roma il più importante era quello di Bouchard e Gravierin via del Corso. Forse, l'esempio più noto del culto di Raffaello (che indicava nell’adesione ai due modelli dell'antico e il carattere distintivo della scuola romana), complementare a quello per l'antico, è dato da una delle più ambiziose commissioni della zarina Caterina Il: la copia a scala naturale delle Logge vaticane. Dopo aver visto i tre volumi di incisioni all'acquaforte colorati all'acquerello, di grandi dimensioni e quindi chiari, dettagliati e piacevoli, Caterina aveva scritto a Grimm a Parigi, chiedendogli di rivolgersi a Reiffenstein a Roma per trovare il modo di farle avere le sue logge delle stesse dimensioni di quelli originali. L'incarico della zarina fu assolto dal 1779 al 1792 sotto la direzione di Cristoforo Unterperger, mentre la struttura architettonica destinato ad accogliere dipinti fu realizzata Pietroburgo dall'architetto Quarenghi. L'équipe, tuttavia, non riprodusse con assoluta fedeltà il modello, ma intervenne elaborando nuovi motivi, soprattutto per quelle parti delle Logge che risultavano più danneggiate. Le Logge di Caterina furono eseguite su tela per garantirne la trasportabilità, e non è certo che la tecnica utilizzata fosse quella dell'encausto. Reffenstein propose anche a Caterina di completare l'opera con la creazione di una sala dedicata alle stanze vaticane; forse è per questo motivo che Volpato, quando il figlio di Caterina sostò a Roma, gli diede una serie di stampe che aveva già realizzato. Sembra che un gruppo di specialisti lavorasse a tradurre le Logge di Raffaello in incisione già nel 1768, tra i quali troviamo Giovanni Ottaviani, che proveniva dall'atelier veneziano di Wagner, uno dei centri di produzione incisoria più qualificati in Europa. Il Mercure de France, a fine 1770 annuncio per la prossima comparsa dei volumi. L'iniziativa era stata promossa da papa Clemente XIII per documentare meglio le Logge, le cui condizioni di conservazione destavano preoccupazione. Quando apparve il terzo volume, il nome preminente era quello di Volpato, e lo accompagnava un opuscolo bilingue con il prospetto dell'intera opera. La scelta del francese era una chiara indicazione della destinazione europea del prodotto: infatti, il francese era la lingua della diplomazia della cultura internazionali. Il successo fu enorme, ma non fu così per la successiva iniziativa, condotta da Volpato con Francesco Panini, che illustrava la Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese. I volumi delle Logge costituirono uno straordinario veicolo di motivi all'antica per la decorazione di residenze e altri impieghi ornamentali. Di nuovo, l'antico e Raffaello procedevano di pari passo nel costituire le basi del linguaggio figurativo moderno: un moderno che non era antitetico al passato ma che a esso guardava per rifondarsi nella creazione della propria specificità. Volpato produsse anche stampe della Cappella Sistina. LE DIVERSE SCALE DELLA DIFFUSIONE DEL MODELLO ANTICO È forse nell'allestimento e nella decorazione d'interni che da Roma a Milano, da Napoli a Torino e a Firenze, e in tutta Europa, si registra la presenza di un linguaggio che può essere incluso nella categoria del neoclassicismo. È un linguaggio vario, declinato secondo differenti riflessioni ma caratterizzato da una circolazione di motivi ne quali non è difficile leggere la comune matrice classico-illuminista. L'esame delle iniziative riconducibili alle diverse corti italiane rivela come ai modi caratteristici di ciascuna specifica tradizione si affianchi e progressivamente si sostituisca un sistema che, pur fondato sulle antichità greco-romane, tiene conto di apporti esterni, soprattutto inglesi e francesi, e della loro peculiare interpretazione dei motivi antiquari. A Napoli, sono le nozze tra Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d'Austria a introdurre il gusto europeo: gli elementi figurativi tratti dall'antico (in gran parte forniti dagli scavi di Ercolano e di Pompei), grazie all'apporto di Tischbein e Hackert, confluiscono nello studiolo di Ferdinando IV in Palazzo Reale, in un allestimento fondato su criteri di chiarezza e razionalità, che rescindono i legami con la persistente cultura solimenesca. La matrice francese invece è alla base del rinnovamento che si riscontra nella piccola corte di Parma, che si seppe caratterizzare per vivacità e ricchezza di iniziative. Qui è dove, su consiglio di Caylus, l'architetto Petiton introdusse nell'architettura di interni negli arredi un originale correzione dello stile Luigi XV tramite motivi piranesiani. Altrettanto importante, per motivi dinastici, fu il legame della corte sabauda con la Francia. Per gli ambienti del Castello di Moncalieri rinnovati per la Principessa di Piemonte, di un gusto “internazionale”, espresse apprezzamento anche la nuora di Caterina II. Nel complesso della Venaria Reale, nel perduto casino di caccia del marchese Ottavio Falletti di Barolo, la decorazione “all'egizia” era di chiaro gusto piranesiano, forse per un riferimento al Caffè degli Inglesi, così come una vena anglofila si riscontra nell'appartamento del Duca d'Aosta nel Castello di Rivoli. Tra i motivi maggiormente presenti nelle decorazioni che allora si andavano realizzando va annoverata la grottesca (motivo dominante è costituito da forme vegetali di fantasia, intrecciate a figure umane, ad animali, a maschere, armi, inserite in elementi architettonici e prospettive eseguite a stucco o ad affresco, spesso con l'introduzione dell'oro), cui è dato grande spazio a Roma e a Firenze. Tuttavia, insieme ai motivi “alla raffaella" e “alla greca" alla corte granducale fanno la loro comparsa disegni francesi venuti da Vienna, secondo quanto registrano le carte del tempo, e il gusto per l'antico filtrato dai maestri del Cinquecento ha uno dei suoi esiti di maggiore interesse e qualità nelle pitture e negli stucchi della Sala della Niobe degli Uffizi e nei rinnovati saloni di Palazzo Pitti. Fu Milano, però, il centro italiano nel quale la cultura illuminista si manifestò con una pienezza difficile da riscontrare in altri luoghi della penisola, anche per la statura dei suoi intellettuali (Pietro e Alessandro Verri, radunati nella cosiddetta “École de Milan”, intorno al periodico Il Caffè, e all'Accademia dei pugni). Milano fu la provincia tra le più importanti dell'impero retto da Maria Teresa. Dal 1771 al 1796, la Lombardia fu governata dall'arciduca Ferdinando d'Asburgo che, insieme alla consorte Beatrice d'Este, insediò a Milano una corte intorno alla quale si venne Borghese: ciò lo portò ad assicurarsi le pitture parietali della Domus di età adrianea appena scoperta sotto Villa Negroni, con la quale progettava di arredare la sua residenza di Downhill, spingendolo anche a costruire un piccolo edificio ispirato al tempio di Vesta nei giardini: ma, a causa di un naufragio della nave che le trasportava in Inghilterra, si dovette accontentare delle tavole a colori che Camillo Buti aveva ricavato dalle copie che Mengs e Maron avevano Eseguito dalle antiche pitture. Stranamente, questa passione di Hervey per le opere antiche non trovò la benché minima allusione nel ritratto che Batoni dipinse nel 1778, dove l'aristocratico libertino è raffigurato come vescovo, con rocchetto e stola davanti ad una finestra aperta non sulle rovine romane bensì sulla sagoma aguzza della cattedrale di Derry. e InRuyussiae in Polonia, il genere della grottesca incontra una fortuna incondizionata e il sovrano polacco si spinse a far riprodurre interni romani nel Palazzo Reale di Varsavia e in alcune residenze, dove compaiono anche il bassorilievo dell'Antonino Albani. La bellezza classica, in originale o in copia, non poteva essere ambientata se non in un contesto che richiamasse il più possibile i più nobili tra i contemporanei modelli romani. L'impossibilità di possedere prestigiosi originali era alla base della fortuna della copie. L'impossibilità di poter possedere prestigiosi originali portò alla nascita della produzione di copie: Hugh Percy, duca di Northumberland, chiese, per la sua dimora londinese, copie della Scuola di Atene e del Convito degli Dèi di Raffaello, del Carro del Sole di Guido reni e del Trionfo di Bacco e Arianna di Annibale Carracci. Alessandro Albani propose come artisti che avrebbero potuto soddisfare la commissione Mengs e Batoni per Raffaello, e Masucci e Costanzi per Reni e Carracci. L'impresa fu eseguita dal 1753 al 1754 e fu completata con la commissione di piccoli bronzi acquistati dalla moglie del duca per la sua collezione londinese. In questo, il duca aveva realizzato la sua personale visione di Roma in terra inglese. Fu soprattutto l'architetto scozzese Robert Adam, a Roma, ad elaborare e codificare una particolare declinazione dell'uso dell’antico per la decorazione degli interni ed a esportarlo in Inghilterra: il suo stile fu chiamato “Adam style” (o “antique”). Egli si ispirò da fonti antiquarie, ma anche all'impiego che ne veniva fatto a Villa Albani. PERIODICI SPECIALIZZATI E CRITICA MILITANTE Nel nono decennio del Settecento nacquero, a Roma, ben tre periodici specializzati. 1) Il primo, il Giornale delle Belle Arti e della Incisione Antiquaria, Musica e Poesia, era pubblicato con cadenza settimanale, dal 1784 al 1788; 2) Un secondo, di taglio più propriamente archeologico, intitolato Monumenti antichi inediti ovvero Notizie sulle Antichità e Belle Arti di Roma, mensile, era diretto e scritto da Giuseppe Antonio Guattani, dal 1784 al 1789. 3) Un ulteriore mensile, intitolato Memorie per le Belle Arti, vide la luce solo dal 1785 al 1788. Il primo era stampato nella tipografia di Casaletti, mentre gli ultimi due giornali erano stampati nella tipografia di Niccolò Pagliarini: Niccolò e Marco Pagliarini sono due straordinarie personalità di editori che superano la tradizionale figura dello stampatore per ricoprire un ruolo di promotore intellettuale (furono sospettati di giansenismo). L'arco cronologico interessato da queste pubblicazioni risultò breve ma, nell’ambito della cultura di fine Settecento, furono anni cruciali sia per la diffusione delle idee che per la produzione artistica, connotati da una straordinaria ricchezza e vitalità. Prima e dopo questi anni, altri periodici davano conto dell'attività artistica italiana e internazionale. Si trattava, tuttavia, di pubblicazioni nelle quali gli articoli di tenore storico — artistico e antiquario coesistevano insieme ad altri di carattere scientifico e letterario. Vi comparivano di recente recensioni di volumi pubblicati all'estero, segnalazioni di scavi, notizie su opere e artisti. Il periodico Efemeridi Letterarie, diretta da Giovan Ludovico Bianconi: era stampato con cadenza settimanale (dal 1772) e discuteva argomenti di carattere scientifico, letterario, artistico e archeologico (Bianconi, tra l'altro, amico di Winckelmann, ne sosteneva e ne divulgava attivamente le idee). Bianconi aveva anche curato, a Dresda, Le Journal des savans d'Italie, scritto in francese, che presentava, sotto forma di recensioni, libri pubblicati in Italia con lo scopo di diffonderne la conoscenza Europa. Efemeridi conteneva le recensioni di scritti di autori stranieri, spesso polemici nei confronti della cultura italiana che veniva ritenuta troppo legata a canoni accademici e acriticamente devota all'antico e alla tradizione. Poco interessato all'arte contemporanea al di fuori della pittura di Mengs, Bianconi concede ampio spazio all’antiquaria e dava conto di scavi, collezioni di antichità e oggetti curiosi del passato. Il nascente interesse per la cultura etrusca trova, nelle pagine delle Efemeridi, numerose testimonianze, ed è proprio per questo motivo che, tra i contemporanei, è Piranesi a costituire l'oggetto di una particolare attenzione. Nel 1779, ne pubblica l'elogio post mortem, dove si mostra appezzamento per le sue riflessioni sull'arte etrusca, mentre si critica l'incisore che “invece di studiare il nudo, o le più belle statue greche che abbiamo qui, e che sono la sola buona strada per imparare [...] si mi i in più sgangherati storti e gobbi che si vedevano a Roma”. È ancora viva, evidentemente, la polemica tra i sostenitori del bello ideale e i cultori del vero naturale: mentre nel dibattito che oppose Piranesi a Wincklemann e a Pierre-Jean Mariette, sostenitori, il primo della superiorità dei Romani per la loro abilità nell'arte edificatoria, gli altri della misura classica rappresentata dall'arte greca, Bianconi si astiene dal prendere posizione giudicando la questione ormai definita. Sostanzialmente le Efemeridi possono definirsi un periodico di recensioni, per l'antiquaria e per la storia dell'arte. La più longeva Antologia Romana (1744 — 1798), si pone come complemento delle Efemeridi, e venne diretta, dopo la morte di Bianconi, da Gioacchino Pessuti: corrisponde all'incirca ai medesimi criteri, anche se si pone come complemento delle Efemeridi. Nell'Antologia Romana trovano posto l'architettura, le “arti utili", le antichità e le “belle arti”. Si trovava anche una rubrica intitolata Le Antichità Sacre, espressione di quell’interesse che venne a crearsi dopo l'istituzione del Museo Sacro in Vaticano, e si sviluppava intorno all'arte paleocristiana, i cui massimi interpreti erano Luigi Lanzi e Stefano Borgia. * Annali di Roma, stampato a partire dal 1774. * Giornale dei letterati. Sono, però, i periodi romani apparsi negli anni Ottanta a dar conto con grande rilievo e completezza della produzione artistica contemporanea. Diffusi oltre i confini dello Stato della Chiesa, erano letti in tutta Europa, e spesso se ne trova notizia negli inventari delle biblioteche di colti personaggi. Non pochi contrasti segnarono la vita dei periodici: forse per dissapori e divergenze tra promotori e studiosi, le diverse testate apparvero in rapida successione, ciascuna rivendicando originalità e autonomia rispetto alle altre. Inoltre, va segnalata una antica confusione nell'attribuzione all'uno o all’altro degli eruditi della paternità delle testate e degli specifici contributi. e Le Notizie Enciclopediche e le Memorie, affidate rispettivamente al Guattani e al gruppo di De Rossi, illustrano autonomamente, ma in ideale sintonia l'aspetto “antiquario” e quello “moderno” dell'ambito artistico coevo; e Il Giornale si propone invece già nel titolo con un deciso carattere onnicomprensivo (stabilire una continuità ideale tra passato e presente). ® Un'operazione analoga tenterà Guattani all'inizio dell'Ottocento, quando darà vita alle Memorie Enciclopediche. Il primo periodico in ordine di tempo a vedere la luce è il Giornale delle Belle Arti, che per il 1784 è la sola fonte di informazioni. E, infatti, l'annata 1784 è la più interessante e ricca di notizie: l'avanzamento dei lavori per Villa Borghese è registrato con puntualità, così come i saggi in scultura di Canova, delle opere degli stranieri a Roma e di quelle eseguite dai romani per altre regioni d’Italia e d'Europa, nella consapevolezza della centralità del ruolo di Roma. Il periodico trattava anche di musica e poesia: e la poesia è spesso illustrazione in rima delle pitture e delle sculture, antiche e moderne, affidate a scrittori esponenti dell'Arcadia. Il giornale tratta anche di musica e di poesia. Nel mese di febbraio la nascita delle Notizie sulle antichità e belle arti viene annunciata con diffidenza; a marzo si precisa che la nuova pubblicazione si limita a esaminare le antichità e belle arti di Roma in un'epoca più remota. La comparsa, l'anno successivo, delle Memorie per le Belle Arti, che darà ilvia a “querelles” significative, una delle quali coinvolgerà il terzo volume della Storia delle arti del disegno di Winckelmann commentata da Carlo Fea. La comune adesione all'estetica di Mengs, l'appartenenza di molti dei collaboratori di entrambe le testate dell'Accademia dell'Arcadia, la sostanziale uniformità nella scelta delle opere illustrate, e la coincidenza dei punti di vista, non riuscirono a evitare l'insorgere di attriti e polemiche. Anche in campo letterario ci fu competizione: quando Giuseppe Parini pubblicò sulla Memoria la sua ode La caduta, il giornale rispose con due componimenti di Vincenzo Monti. Le discussioni nelle Memorie, si rivendica il ruolo della concezione “filosofica” dell'arte”, dove i modelli di riferimento saranno stabiliti da Mengs: Raffaello, Correggio e Tiziano: l'introduzione al primo numero delle Memorie può essere interpretato come un manifesto programmatico della rivista ed espressione delle idee di un orientamento condiviso da tutto il cenacolo illuminato che si raccoglieva intorno ad Abbondio Rezzonico. Il ragionamento sul rapporto tra filosofia e libertà della creazione artistica, tra precetto e dura pratica dell’arte sfocia nella pubblicazione, nelle Memorie del 1787, dell'elogio di Pompeo Batoni. ‘ambientare coerentemente le opere che vi andavano collocate, venne ordinato da Giovanni Battista Visconti e da suo figlio Ennio Quirino, secondo criteri tematici. Anche il Museo Pio — Clementino ebbe il suo catalogo, in sette tomi, apparso tra 1782 e 1807, curati in successione dai due Visconti. | monumenti venivano illustrati seguendo la partizione per generi e per classi concepita per l'allestimento e analizzati sulla base della loro diretta lettura e del confronto con le fonti letterarie antiche. Negli stessi anni, un amico di VWinkelmann, ovvero von Mechel, ricevette l'incarico da Giuseppe Il di riordinare la quadreria asburgica nel castello del Belvedere di Vienna: la scelta ricadde nel riordinare le opere secondo le diverse scuole artistiche — dispose le opere per scuole, con l'obiettivo di presentare una storia visibile dell'arte in grado di rispondere alle esigenze di un pubblico desideroso di istruirsi in quel campo. La stessa idea l'ebbe Lanzi, il quale fu incaricato di raggruppare le gallerie fiorentine, decidendo di rimuovere oggetti scientifici e l'armeria: prevedeva di ordinare le raccolte di pittura e di scultura tardo antiche medievali, secondo metodo storico sistematico per scuole e per epoche, ma non fu realizzato. Il museo “illuministico” europeo per eccellenza è il British Museum. A differenza di altri non nacque dalla trasformazione di raccolte patrizie o appartenuti a regnanti, ma fin dall'inizio fu voluto come sede del sapere e luogo in cui soddisfare l'esigenza di conoscenza. Ebbe origine dal museo privato, prevalentemente naturalistico, del medico e collezionista Hans Sloane che, nel suo testamento del 1747, aveva stabilito che venisse conservato integro e ne auspicava la destinazione pubblica. Intorno a quel primo nucleo si raccolsero altre collezioni; la progressiva acquisizione di biblioteche ne fece un centro di ricerca e di studio. Il British Museum fu aperto nel gennaio 1759 al libero accesso di tutte le persone desiderose e per il progresso della conoscenza. Originariamente comprendeva tre dipartimenti: 1) libri stampati e incisioni; 2) manoscritti, medaglie e disegni; 3) oggetti naturali e artificiali. Il Dipartimento delle Antichità venne istituito solo nel 1807, ed era concepito come una gigantesca biblioteca nella quale anche le raccolte naturalistiche e antiquarie avevano la funzione e il valore di testi di studio. Dal 1802, arrivo al museo la Stele di Rosetta, strappata ai francesi come bottino di guerra. Il British Museum sembra la traduzione del sogno seicentesco creato con il Museum Chartaceum di Cassiano dal Pozzo, tra i primi a vedere le testimonianze dell'antichità nel loro valore di documento storico e non solo estetico. Le collezioni facenti parte del museo costituiscono una grande parte per il patrimonio culturale romano che nel frattempo costituiscono una delle principali fonti del sapere inglese. Le vicende del British Museum rispecchiano il percorso settecentesco della storiografia artistica e dell'antiquaria in rapporto alle scienze naturali o “della terra”. Inizialmente, il campo delle due diverse branche non era del tutto separato. Ma progressivamente i manufatti artistici, antichi e moderni, si imposero come fonte e argomento di una disciplina che richiedeva uno specifico metodo di studio, basato sulla loro stessa evidenza materica. Il metodo era scientifico, ma affidato alla competenza del conoscitore. Nella cultura del sublime (in un certo senso, contrapposto allo spirito della ragione), invece, il museo di riferimento è sicuramente, nell’enormità della sua concezione, il francese Musée Napoléon. Istituito nel Palazzo del Louvre negli anni rivoluzionari con l'incameramento delle collezioni reali, aristocratiche ed ecclesiastiche, cui si aggiunsero le opere d'arte prelevate nelle terre conquistate, avrebbe dovuto rappresentare una gigantesca Storia universale delle arti per immagini e per giovare al progresso della conoscenza degli uomini. Solo nel 1803 venne battezzato Musée Napoléon. Nel 1790, una Commision des Monuments, per inventariare i beni presenti nel museo, decise di farli confluire nei dipartimenti di tutta la nazione finalizzati all'istruzione locale. Questo progetto illuminato venne snaturato nel 1793. UN AFFONDO SU ROMA Anche nel XVIII secolo, proseguendo il percorso obbligato che aveva preso l'avvio dal Quattrocento, con gli artisti fiorentini impegnati a misurare, a disegnare e quindi a collezionare, raccogliere le antichità di Roma: Roma è la capitale del collezionismo europeo, passaggio obbligato per ogni intenditore d'arte a tutti i livelli. Scrive Clark: “Il prestigio, se non il potere, dell’Italia e dell'arte italiana era ancora nel Settecento estremamente alto, e quello che si era visto nel Gran Tour non sarebbe mai stato dimenticato” - Roma è l'università delle arti e il Suffragio di Roma è ritenuto indispensabile, non soltanto per gli artisti, ma anche per ogni galantuomo che voleva parere tale al mondo. Successivamente continua descrivendo le collezioni più vaste delle famiglie nobili italiane e non (Borghese, re di Spagna, Cristina di Svezia, Albani). Le collezioni ricevevano una sorta di consacrazione tra quelle di vera rilevanza quando includevano testimonianze di arte antica o, in campo pittorico, opere della cosiddetta “scuola romana” in senso lato; ossia le espressioni riconosciute della “maniera moderna”. Il panorama tracciato da Clark è ancora valido nelle sue linee generali. Egli distingue nelle collezioni romane del Settecento cinque tipologie: 1) le collezioni pontificie o civiche; 2) collezioni private di grande consistenza; 3) collezioni principesche di diversa entità, e comunque di grande interesse; 4) collezioni formate a Roma e possedute da monarchi forestieri, quali quelle del granduca di Toscana e del re di Napoli; 5) collezioni di amatori, archeologi e artisti, a volte chiamate musei. Tra queste ebbe grande importanza il “museo borgiano" che il futuro cardinale Stefano Borgia aveva costituito nel suo palazzo di Velletri con antichità etrusche, opere paleocristiane, oggetti orientali e testimonianze figurative egiziane. Collezioni come quelle di Stefano Borgia stimolavano l'interesse degli studiosi che si cimentavano nella ricomposizione dell'universo dei saperi. A tutte vanno aggiunte quelle, più modeste, risultanti di aggregazioni quasi casuali, formate senza criteri precisi e orientate principalmente verso la pittura di genere: legate perciò a un mercato di livello più basso. Quest'ultima tipologia di raccolte faceva parte più che altro dei ceti medi che ambivano a una promozione sociale. Scavare e vendere (“digging and dealing”) era una delle principali attività di alcuni inglesi trasferiti a Roma e che avevano in qualche caso abbandonato la professione artistica per dedicarsi a quella di scavatore e mercante per i propri connazionali. e Gavin Hamilton continuò la sua attività di pittore parallelamente a quella di mercante; e Thomas Jenkins e James Byres, che erano stati rispettivamente pittore e architetto, sono attualmente ricordati per il ruolo avuto nella creazione di alcune tra le maggiori raccolte inglesi, costituite sia tramite sculture reperite negli scavi o opere commissione direttamente, sia per mezzo dell'acquisizione di oggetti di grande prestigio ceduti da famiglie aristocratiche. | loro commerci non si limitarono all'area anglosassone: ad esempio Caterina di Russia effettua acquisizione importante per loro tramite. * Scultori come Bartolomeo Cavaceppi, Vincenzo Pacetti e Carlo Albacini si specializzarono nel restauro delle sculture destinate al mercato interno e internazionale. Le collezioni settecentesche delle maggiori famiglie dell’aristocrazia romana per la maggior parte sono andate smembrate, ma in qualche caso hanno recuperato una virtuale integrità grazie a ricerche d'archivio che ne hanno ripercorso le stratificazioni: si trattava di collezioni simboli di magnificenza al pari di ville, carrozze, cappelle di famiglia — ad esempio, nei moderni musei romani nei palazzi di famiglia si possono vedere ancora soltanto i resti coi ricordi delle collezioni Albani, Barberini, Borghese, Colonna, ecc. ma quasi nulla di raccolte come quella dei Chigi e di altre che si collocavano tra le maggiori d'Europa.. Nel caso romano, si tratto di collezioni che l'istituto del fidecommesso si proponeva di tutelare in quanto essenziali per la conservazione dello status raggiunto, e che proprio l'abolizione, in epoca napoleonica, di questo strumento giuridico contribuì in gran parte a disperdere. Taluni massici acquisti si spiegano perciò non soltanto con in parametri di gusto ma anche con quelli di prestigio e potere. Molte raccolte patrizie conseguirono nel Settecento, grazie all'intensa attività di scavo e ad abili campagne di acquisti, la loro massima consistenza. Ma il Settecento fu anche il secolo della dispersione di alcune di esse, come quella di Cristina di Svezia passata prima agli Odescalchi e poi ceduta al re di Spagna, e si chiuse con le spoliazioni napoleoniche. Il numero dei protagonisti del collezionismo romano oggi noti è cospicuo. Assumendo come guida il Mercurio Errante di Pietro Rossini, l'itinerario attraverso le collezioni pubbliche e private di Roma includerebbe i musei vaticani e capitolini, i palazzi e le ville delle grandi famiglie e diverse raccolte meno ricche, o collezioni la cui importanza è testimoniata solo dagli inventari e dalla periegetica (PERIEGESI = descrizione topografica di un paese, accompagnata dall'esposizione dei fatti storici e dei costumi degli abitanti). — come nel caso delle raccolte della famiglia Strozzi, andate disperse dopo il ricongiungimento del ramo romano con quello fiorentino della famiglia (le collezioni di questa importante famiglia si trovano nei musei italiani e stranieri ma possono essere contate sulle dita di una mano), e la Villa sul Viminale cancellata durante l'organizzazione della zona di Termini. Un settore a parte è stabilito dal collezionismo degli artisti. Gli inventari post mortem ne rilevano il patrimonio talvolta eseguito, altre volte rilevante tanto da costituire la principale fonte di reddito per gli eredi (come nel caso di Placido Costanzi, Piranesi, Giovanni Pichler e Antonio Cavallucci). Libere dai vincoli del fidecommesso, queste collezioni, come quelle degli amatori, venivano subito immesse sul mercato, e oggi solo gli inventari ne diverse nazionalità. Il prestigio dei concorsi parmesi sarà tale da emulare quello di accademie di ben più antica istituzione. Una delle peculiarità è costituita dall’apporto di “Accademici delegati”, pittori o noti “intendenti”. Il prestigio dei concorsi parmensi sarà tale da emulare quello di accademie di ben più antica istituzione. Dall'esercizio disciplinato nella grande composizione per il concorso accademico deriva, per il disegno, una condizione di statuto autonomo che viene percepito indipendentemente dall'eventuale rapporto con la pittura. | disegni vengono quindi collezionati ed esposti nei gabinetti degli amatori. UN CASO ESEMPLARE: L'ACCADEMIA DEL NUDO IN CAMPIDOGLIO Già a inizio secolo l'Accademia romana di San Luca era stata dotata di nuovi statuti e riorganizzata su nuove basi. Ma fu l'istituzione, a metà del Settecento, di una scuola pubblica finalizzata esclusivamente allo studio del nudo a rappresentare un momento capitale nel riconoscimento del ruolo che il disegno dal modello vivente ricopriva nella formazione dell'artista. Nella sensibilità settecentesca, il nudo ideale o eroico affrancava la figura umana da ogni elemento contingente, collocandola in uno stato di natura senza tempo analogo a quello che si riteneva di riscontrare nell'arte classica, sottraendola in questo modo a censurare di carattere moralistica. L'importanza che con la fondazione dell'Accademia Capitolina, cui venne assegnato come sede un ambiente del Palazzo dei Conservatori, si riconosceva allo studio del nudo era sottolineata dalla contiguità anche logistica della scuola con la pinacoteca, creata pochi anni prima (1748-50) con l'acquisto dei quadri Sacchetti e Pio di Savoia e con il museo che Benedetto XIV aveva arricchito. Le due istanze erano poste sotto il controllo dell'Accademia di San Luca -— Pinacoteca e Accademia avevano il ruolo paritario e complementare nell'itinerario formativo dell'artista. Dell'Accademia Capitolina del Nudo si riassumono i dati essenziali. Benedetto XIV, su proposta del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, di monsignor Riminaldi uditore del Camerlengato e del pittore Francesco Mancini, principe dell'Accademia di San Luca, nel 1754, istituì in Campidoglio una scuola, libera e gratuita, perché i giovani potessero esercitarsi a disegnare il nudo dal modello vivente. Nel 1754 il papa concesse all'Accademia una dotazione annuale (“constutio"). Venne scelta come sede un locale tuttora esistente, un ambiente ovale disegnato da Giovan Paolo Panini ubicato sotto l'odierna sala di Santa Petronilla. Primo protettore della scuola fu il cardinale camerlengo Girolamo Colonna, il quale nel 1757 emanò una costituzione circa il funzionamento dell'Accademia, di cui si ribadiva la dipendenza da quella di San Luca. A dieci accademici, infatti, era affidata per un mese ciascuno all'anno la scelta del modello, la cui posa cambiava ogni lunedì; gli studenti ne eseguivano il disegno nel corso della settimana. Presso l'Accademia di San Luca si conservano i disegni degli allievi premiati. Ma analizzandoli a fondo, se ne ricava un'idea precisa circa la provenienza e la riuscita degli allievi, l'estrazione e l'orientamento culturale dei docenti di un'istituzione che fu più si una semplice scuola di nudo. Questo divenne un luogo di confronto tra artisti di diversa nazionalità, coerentemente con il carattere cosmopolita di università dell’arte che Roma aveva assunto. Carattere che coinvolgeva anche l'Accademia di Francia, nella quale lo studio del modello sembra non raggiungesse livelli soddisfacenti. L'Accademia fu molto più di una semplice “scuola di nudo”, divenne ben presto un luogo di confronto tra artisti di diversa nazionalità, in perfetta coerenza con “l'universalità dell’arte”. In quegli anni, era direttore dell'Accademia di Francia Charles-Joseph Natoire, che privilegiava il disegno di esterni (la classe di nudo venne sospesa per sei mesi); per questo motivo anche gli stranieri, compresi i francesi, presero a preferire l'Accademia Capitolina. Sono numerosi gli stranieri che frequentavano l'Accademia e alcuni accademici di San Luca, venivano anche chiamati a dirigere la scuola. nonostante la fortuna dell Accademia private, per l'iterazione tra la scuola vera e propria il museo dell’Accademia capitolina si realizzava concretamente l'ideale dell'insegnamento artistico così come sarebbe stato teorizzato da Sulzer intorno al 1770 (egli sosteneva che la formazione dell'artista dovesse contemplare lo studio delle diverse parti del corpo trattate da libri disegni). La ricchezza delle collezioni, accessibile agli allievi per lo studio e l'esercizio della copia, e la possibilità di usufruire gratuitamente dell'insegnamento di maestri te rango di Batoni, Corvi e Mengs conferivano all'Accademia capitolina del nudo un prestigio superiore a quello di ogni altra istituzione analoga, attirando Roma artisti tutte le nazioni. LE ACCADEMIE PRIVATE Un rilevante aspetto della vita artistica di metà Settecento è il tirocinio nelle accademie private. L'inventario di Placido Costanzi, pittore romano morto nel 1759 e ai suoi tempi assai famoso, ci dà una descrizione accurata di queste accademie private. Gli ambienti della casa, che poi sarebbe stata ceduta all'Accademia di San Luca, ne includevano tre nei quali il pittore teneva il proprio studio, distinto tra 1) studio grande, 2) studio superiore e 3) studio dei giovani, dove il perito registra quadri compiuti o ancora abbozzati dello stesso Costanzi (collaborazione di giovani), cartoni, cartelle con disegni di accademie e una lampada per illuminare il modello (studio del nudo), manichini snodabili in legno, gessi interi e frammentarie (studio dell'antico), raccolte di stampe (studio della maniera), colori, cavalletti, tavolozze. Altre case d'artista comprendono luoghi deputati alla produzione, ma in nessuno di essi è così chiaramente definita la funzione didattica di ambienti destinati all'attività di una scuola. La frequentazione (a pagamento) di un'accademia privata consentiva un rapporto più diretto con il maestro e l'insegnamento di un artista di prestigio costituiva una credenziale importante. Le classi presso quella di Francia o del Campidoglio erano quelle più affollate e l'insegnamento di un'artista di prestigio costituiva una credenziale importante. Mengs e Batoni erano i maestri più ambiti. e Mengsfaceva esercitare gli allievi in un grande ambiente illuminato da una finestra al centro della volta, con il calco in gesso del Gladiatore combattente: il nudo, da Mengs, si studiava confrontandolo con l'antico. * Batonidedicava agli allievi anche alcune ore per spiegar loro i segreti della composizione, poi faceva copiar loro i propri disegni di Accademia e quelli dei maestri antichi (tra cui Rubens); un ulteriore passaggio era costituito da un procedimento già descritto da Vasari e praticato anche da Poussin, ovvero la realizzazione di figurine di cera disposte secondo la struttura della composizione, per preparare tridimensionalmente la pittura. Bottoni insegnava disegnare il modello del nudo durante delle sedute, che si tenevano nelle sere d'inverno, maestro e allievi disegnavano insieme. Tra gli allievi abbiamo Canova, che fu critico nei confronti dell'esperienza presso Batoni — La scelta di utilizzare i modelli dal vero era talvolta poco pratica: i modelli presentavano imperfezioni, non riuscivano a stare in determinate pose troppo a lungo o avevano altri problemi con la loro attività di modelli e interrompevano le pose in preda a crisi di coscienza. Canova smise di frequentare lo studio di Batoni già nel 1780, descrivendo la sua esperienza “poco bella e faticosa per il modello”. Insieme all'esercizio sui modelli dal naturale, nel caso degli allievi più stretti Batoni accompagnava il disegno dagli originali di Apollo e Laocoonte nel museo Clementino e con lo studio dei gessi dell’Accademia di Francia. Intorno al 1787, Alois Hirt (corrispondente da Roma per il periodico tedesco Der Teutske Merkur) accompagnò i suoi compatrioti tedeschi nella visita dei palazzi, delle chiede e degli studi degli artisti, e compilò un Elenco dei più noti artisti viventi a Roma (la lista fu conosciuta e utilizzata da Goethe nel suo soggiorno romano). Nell'elenco di Hirt, gli artistisono suddivisi per nazionalità e per specializzazioni: vi sono indicati, perciò, i tedeschi distinti tra pittori di storia e di paesaggio, scultori, intagliatori di gemme, architetti e incisori e, distribuiti nelle medesime categorie, gli italiani e gli inglesi. | francesi sono presenti solo come pittori; poi vengono citati i danesi, gli spagnoli, i russi, i polacchi e gli svedesi. L'elenco di Hirt rappresenta una scelta tra i circa seicento artisti di cui era a conoscenza; a quella data, alcuni di loro avevano già fatto ritorno in patria, altri erano morti. Per quanto parziale, la lista consente di disegnare una sorta di geografia artistica dell'Europa di quegli anni. La riflessione suggerita da questo elenco è scontata: bastava guardare a Roma per avere uno spaccato della cultura europea. Gli artisti dei quali si parla nelle Schede sono accomunati dall'esperienza romana e vi sono rappresentate quasi tutte le nazioni europee. Nonostante la situazione economica arretrata e le chiusure dottrinarie conseguenti alla politica pontificia ostile ai Lumi, Roma fu davvero una città “aperta”, dove l'argomento centrale se non esclusivo sulla riflessione sulle arti era l' antico: la rassegna delle presenze offre sulle arti uno sguardo d'insieme impossibile da immaginare altrove. Naturalmente sono molti gli artisti che seguirono percorsi differenti, che si confrontarono solo marginalmente con quell'antico di cui altri ancora si disinteressarono, mentre a Roma e in altre capitali costituiva l'argomento centrale della riflessione sulle arti, ma non per questo furono estranei al mondo dei Lumi. Non necessariamente, inoltre, la pittura di storia e la scultura monumentale, che pure rappresentarono i campi più fecondi dell’arte di quei decenni, egemonizzarono l’intera vita artistica. Se ne discuteva nelle accademie e sui primi periodici specializzati; ma a fianco di quei temi privilegiati, pittura religiosa e ritratto, natura morta e paesaggio, insieme alle diverse categorie del disegno furono presenti a tutti i livelli della produzione. La circolazione di stampe di traduzione, i viaggi, le esposizioni, i nuovi musei e la maggiore accessibilità delle gallerie private, i periodici e le corrispondenze degli agenti misero a disposizione del mondo colto di allora un insieme di saperi vastissimo (“che andava oltre a l'individuazione in Michelangelo e in Raffaello dei massimi protagonisti dell'arte erano mirate a suscitare il desiderio di studiare l'opera del più gran genio mai apparso nelle arti, e certamente rappresentavano anche l'espressione di un personale convincimento. Tuttavia, l'omaggio ai grandi del Rinascimento implicava l'ammissione del primato rispetto al colore, concetto che non ha riscontro nella pittura di Reynolds. La società inglese che in Italia si faceva ritrarre da Mengs, Batoni e Angelika Kauffmann, a Londra ricorreva a Reynolds e al suo rivale Thomas Gainsborough. Pittore del re e ritrattista di corte era invece lo scozzese Allan Ramsay. Nei suoi due viaggi italiani aveva frequentato gli artisti attivi a Roma e l'Accademia Capitolina del Nudo; tornato in patria si specializzò in ritratti nei quali la sua esperienza romana e l'ascendente di Batoni erano ben visibili. Malgrado l'impegno di alcuni artisti inglesi nell'ambito della pittura di storia per loro fu il ritratto il campo nel quale erano più frequenti le committenze. | viaggiatori britannici erano abbastanza sorpresi di non trovare a Roma segni di altrettanta fortuna. Thomas Gainsborough inizialmente si proponeva di praticare la pittura di paesaggio e a tal scopo aveva frequentato l'atelier del francese Gravelot, stabilitosi a Londra nel 1732; ma a un certo punto si applicò anch'egli al ritratto, che fu il solo ad ambientare in ampi paesaggio all'olandese. Dall'altro lato della Manica e in particolare a Roma, i suoi compatrioti si esercitavano invece in quella grande maniera che l'esempio antico e della pittura monumentale del Seicento aveva posto ai vertici dell'apprezzamento artistico. Gli stessi viaggiatori che al ritorno in Inghilterra avrebbero rinnovato le proprie residenze secondo il nuovo gusto antiquario desideravano poi arredarle con sculture e dipinti appropriati. Di conseguenza, l'apprezzamento per il ritratto scolpito all'antica ebbe un seguito considerevole. La perizia in questo genere da parte di Christopher Hewetson si rivelò nei busti di aristocratici nei quali lo scultore adottò la formula originale, che tentava di conciliare le esigenze della somiglianza con la voga antiquaria. Per i suoi colleghi artisti Hewetson scelse la soluzione filosofica o all'antica. Era stato prescelto per eseguire il busto di Mengs al Pantheon. Hamilton, invece, con il ritratto di Canova nel suo studio, ormai pervenuta uno status riconosciuto di eccellenza, demanda ad altri non più soltanto all' autoritratto la propria celebrazione. Anche Nollekens aveva esordito a Roma con un ritratto d'artista, ovvero quello di Giovanni Battista Piranesi e il successo acquisito lo rese in patria assai richiesto: ad esempio, realizzò il Monumento funebre di Elizabeth, la contessa di Gainsborough che richiama la figura femminile dell'Arianna vaticana. Anche Joseph Nollekens aveva esordito a Roma con un ritratto d'artista, quello di Giovanni Battista Piranesi. Il credito acquisito lo rese in patria assai richiesto. Eseguì l'ambizioso monumento funebre di Elizabeth, contessa di Gainsborough, chiaro ricordo della figura femminile dell’Arianna vaticana. Accanto a sculture di soggetto mitologico nelle quali trattava il marmo con la delicatezza di un biscuit di Volpato, o mostrava di considerare anche la scultura di Giambologna, continuò a praticare fin oltre la metà del secolo il ritratto all'antica. Tvyomas Banks e John Deare trovarono nei soggetti mitologici i motivi della loro ispirazione, ma forse sotto l'influsso delle prime opere romane di Canova e della sinuosità della pittura tardo cinquecentesca predilessero l'eleganza all’austerità. [Esempi delle loro opere: Deare — Bacco che offre cibo a una pantera del 1792 e Venere giacente su di un mostro Marino con Cupido un putto del 1785; Banks — Teti e le Nereidi del 1777, Caduta di un Titano del 1786, anatomia del crocifisso (dove utilizzo il corpo di un suppliziato appendendolo a una croce ricavandone un calco in gesso per dimostrare |' inesattezza delle rappresentazioni della muscolatura del Cristo morto, nell'impegno di unire le conquiste dell'arte a quelle della scienza)]. La personalità di maggiore spicco tra gli inglesi era John Flaxman, prima disegnatore per la manifattura di Wedgwood per il quale creò perfetti motivi all'antica per le porcellane della serie Etruria e ritratti a medaglione. Fu poi per sette anni a Roma (1787-94) dove eseguì due gruppi di grandi dimensioni, La furia di Atamante per lord Bristol e Cefalo e Aurora per Thomas Hope, diversi modelli per monumenti funebri che spedì a Londra e i famosi disegni al tratto di soggetto letterario (Iliade, Divina Commedia). Flaxman aveva adottato uno stile derivato dalla pittura vascolare greca, in uno sforzo filologico di grande impegno e profondità; un linearismo che si può leggere anche nelle sue sculture. Tornato in Inghilterra realizzò ritratti all'antica, in uno stile ispirato all'arte adrianea o semplificato fino all'essenziale, e imponenti monumenti per personaggi pubblici. Nel suo Elenco dei più noti artisti viventi a Roma, Alois Hirt cita con entusiasmo lo scultore svizzero Alexander Trippel. Seppur eccessivo, il parere di Hirt individuava correttamente nel gusto antico il carattere prevalente dell'attività di Trippel. Egli riuscì a giungere a Roma alla fine del 1776. Era già uno scultore maturo che aveva condotto esperienze di segno diverso; le sue relazioni nella città inclusero gli artisti cui lo accomunava la lingua tedesca. I suoi rapporti con Bartolomeo Cavaceppi, forse conosciuto durante il viaggio in Germania che il romano fece insieme a Winckelmann, si spiegano anche con il fatto che lo studio di Cavaceppi era un centro di restauro dell’antico, emporio di sculture di tutte le epoche e di tutte le tecniche e luogo obbligato di transito per artisti di ogni provenienza oltre che per committenti e collezionisti. Trippel comunque lavorò soprattutto per la Svizzera e la Germania. La vicinanza con i visionari nordici è palmare nel modellato di alcune piccole terrecotte, e alcune soluzioni stilistiche interessarono Canova, che nella posa del suo Teseo oltre al Marte Ludovisi sembra alludere all'Apollo di Trippel. Benché fosse ben inserito e molto rispettato nella comunità di lingua tedesca di stanza a Roma, Trippel non fu acritico nei confronti dei suoi compatrioti. Il suo studio, nel quale gestiva anche un'accademia privata assai frequentata, era visitato da tutti i viaggiatori tedeschi. L'elenco di Hirt omette di citare gli scultori francesi. Tra cui possiamo ricordare Houdon, Clodion, Chinard (che avevo ottenuto il primo premio del concorso Balestra indetto dall'Accademia di San Luca con Andromeda liberata da Perseo); quest'ultimo aveva suscitato sospetti dalla polizia papalina che gli aveva requisito alcuni modelli di Creta e lo scultore si mostrò spirito libero anche nella sua interpretazione dell'antico. Clodion fu a Roma per circa dieci anni ed è stato considerato la quintessenza del tardo stile rococò anche per l'esplicito erotismo dei suoi gruppi bachicchi o di piccole sculture. Houdon, invece, realizzo eleganti figure femminili rese come divinità o stagioni, ritratti infantili di delicatissimo modellato e una serie di busti di personaggi illustri, creando una sorta di ideale Pantheon contemporaneo. PITTORI DELLA STORIA Benché nel Settecento il mercato dell'arte avesse definitivamente scardinato le gerarchie dei generi, nella seconda metà del secolo la fortuna della pittura di storia conobbe una nuova fioritura, * sia per motivi ideologici -- Diderot, Reynolds e Mengs furono sostanzialmente concordi nel giudicarla il campo privilegiato nel quale gli artisti si dovessero provare; * sia perla richiesta — originata da una classe di committenti che intendevano ‘ambientare le proprie collezioni di sculture, originali antichi e produzioni moderne. È stato osservato che in questo periodo la cultura rimette in auge i modelli antichi, prendendo le distanze da forme realmente innovative quali il barocco e il rococò. Dipingere una “historia” poteva comportare diversificazioni all'interno di una stessa categoria. Per “historia” si intendeva un soggetto complesso. a più figure e tratto dalla mitologia, dalla storia o dalla religione; anche le allegorie erano comprese in questa classe, considerata la più nobile perché comportava erudizione antiquaria, conoscenza delle teorie e della letteratura, capacità di rappresentare i sentimenti secondo la seicentesca categoria degli Affetti. Pittori di storia furono pressoché artisti del secondo Settecento, tranne i paesaggisti e i vedutisti che risposero però alle nuove esigenze del mercato con un'ottica rinnovata. La mitologia, i poemi classici e moderni, la storia antica e quella contemporanea dalla quale scaturivano gli esempi di virtù da porre a modello di etica, trovarono interpreti a tutti i livelli e nell'intera Europa. In Francia l'“exemplum virtutis” divenne quasi un tema obbligato, prima e dopo la Rivoluzione del 1789 ed ebbe il suo massimo rappresentante in David. L'affermazione che affiora, che l'Italia e Roma non parteciparono a questo specifico campo della pittura, non ha senso. Si è detto che qui l'exemplum ebbe valore solo antiquario e che non era possibile per gli italiani celebrare le storie patrie in assenza di una patria effettiva — la caratteristica peculiare dell’Italia erano le tante patrie rappresentate dai singoli Stati. In realtà, Roma assurgeva a patria universale nella quale era possibile riconoscersi. Caylus, che oltre a suggerire le corrette iconografie per i temi omerici nel suo Recueil/ d’antiquités aveva posto le antichità galliche vicino alle greche, romane ed egiziane, fu uno stimolo importante per la riscoperta delle singole storie nazionali. Svizzeri e tedeschi accolsero l'invito. Tra quelli dell'ultima generazione, Johann Heinrich Tischbein insieme a temi condotti nel gusto greco o ispirati a soggetti letterari, nel 1748 creò, con il suo Corradino di Svevia e Frederick von Baden ricevono in carcere l'annuncio della loro condanna a morte, uno degli esempi più convincenti in questo campo. Il suo coetaneo Jean-Pierre Saint-Ours suscitò l'interesse della critica perché seppe trovare nella Germania di Tacito un soggetto adatto, / riti nunziali germanici. Trattò anch'egli soggetti di storia romana, greca e temi biblici. Ma i suoi quadri concettualmente più rilevanti sono quelli eseguiti a Roma ed esposti nel 1791 a Parigi al Salon de la Liberté. Ispirati alle teorie di Rousseau potevano generare sospetto, ma il ricorso al linguaggio universale della classicità li poneva al riparo da possibili censure. Alla stessa generazione di Tischbein e Saint-Ours appartiene Friedrich Heinrich Fùger, già ricordato come autore nel 1782 della decorazione ad affresco della biblioteca della Reggia di Caserta e che si muove sui registri dell'eroico e atteggia all'antica i suoi nudi accademici, mentre nei soggetti erotici o patetici sembra guardare a maestri romani come Batoni. Gli episodi della storia contemporanea erano raramente rappresentati in pittura. Le cerimonie pontificie costituivano un'eccezione perché ambientazione e apparti erano avvolti da un'aurea sacrale che li sollevava dal registro della cronaca, mentre dipinti quali mitologico. Le sue idee sull'arte, che rispecchiano pienamente quanto si evince dal suo stile si ricavano dalle lettere inviate ai suoi committenti lucchesi e fiorentini e dalle relazioni che gli agenti romani di sovrani e aristocratici europei inviavano per informare i committenti circa lo stato di avanzamento delle opere. Anthony Clark, il principale artefice della riscoperta di Batoni dopo il lungo oblio ne ha offerto una lettura tuttora valida e riteneva difficile costringere Batoni nella categoria del neoclassicismo, tanto libera è la sua posizione nei confronti di qualunque schema dottrinario, che egli seppe via via piegare ai motivi della sua individualità. La rivalità con Mengs indubbiamente ci fu: i soggiorni napoletani e spagnoli di Mengs favorirono l'egemonia romana di Batoni, nel cui studio transitava la più alta aristocrazia europea e la cui felicità di pittura seduceva subito, molto più di quanto avvenisse di fronte alla laboriosa finezza tedesca dei dipinti di Mengs. Mengs, com'è evidente dai suoi scritti, non sembrò considerare la tradizione romana pittorica successiva al Rinascimento. Predilesse Raffaello e Correggio; la sua comprensione del grande emiliano si espresse soprattutto a libello teorico e scrisse a questo proposito pagine ancora valide. Aveva intuito che la sua maturazione artistica si poteva spiegare solo con un viaggio a Roma che lo stile nuovo delle cupole parmensi rendeva evidente. Con lui si misurò nel volo di angeli intorno alla Gloria di sant'Eusebio (1757) nella volta dell'omonima chiesa romana, e più tardi realizzò un’Adorazione dei pastori (1772) che costituisce una rivisitazione della Notte oggi a Dresda. Anche Domenico Corvi si confrontò con i notturni correggeschi, ma i contemporanei videro in lui soprattutto un emulo settecentesco di Honthorst. Fu il Parnaso dipinto nel 1761 in Villa Albani, con il prestigio del suo proprietario il cardinale Alessandro e con il fattivo sostegno di Winckelmann che ne divulgò la fama, a consacrare il ruolo di Mengs il cui apprezzamento, tuttavia, restò affidato soprattutto ai teorici e ai filosofi, per quanto la considerazione di cui godeva rendesse inevitabile per gli artisti del suo campo visitare il suo studio. Il Ritratto di David Allan, che Domenico Corvi eseguì nel 1774, documenta i contatti dell'artista con l'ambiente degli stranieri a Roma. Il maestro era impegnato a ricavare una clientela internazionale e dalla fine del secolo intensificò la sia produzione di tipo storico o mitologico vicino a quella di quadri a soggetto religioso. Nell'atelier di Corvi fece il suo primo apprendistato Vincenzo Camuccini, che strinse rapporti anche con David e che nell'Ottocento, sia negli incarichi ricevuti da Napoleone sia in quelli di Pio VII, sarebbe stato uno dei maggiori esponenti del gusto classicista. Giuseppe Cades: era uno dei pochi pittori del secolo romani di nascita, di formazione e di elezione; si muoveva in campo ufficiale e riscosse grande successo con soggetti religiosi, poetici destinati a Roma e a località di stati italiani ed europei. Egli fu a stretto contatto con Felice Giani, che fu apprezzato soprattutto come disegnatore, ma fu anche decoratore ad affresco. Nei suoi cicli in palazzi romani, come Villa Borghese, in altri fuori Roma, tutti di soggetto storico mitologico, mise a frutto l'esperienza maturata con la collaborazione alle decorazioni realizzate sotto la guida di Unterperger per Caterina II. egli eseguì anche disegni della Divina Commedia o di soggetto dantesco in generale e animo l'Accademia dei pensieri o della pace, nella quale gli artisti si riunivano liberamente per discutere le proprie creazioni. il suo stile è rapido, focoso e sicuro e si fonda sullo studio delle testimonianze pittoriche dell'antichità. * Angelika Kauffmann praticò il ritratto, la pittura di storia e, su scala minore, quella di tema religioso. Acclamata in vita e in morte, onorata con un funerale la cui regia fu dovuta a Canova, forse fu davvero pittrice di maniera, perché restò costantemente fedele al suo stile delicato nel quale la tecnica della pittura a olio sembra voler imitare le trasparenze e le sfumature del pastello, e codificò alcuni tipi fisionomici riconoscibili anche nei tratti. Specializzata nel ritratto ed esule dopo la Rivoluzione francese, Elizabeth Vigée — Lebrun travestì spesso i suoi modelli in figure mitologiche nella fortuna del gusto alla greca e, quando volle seguire l’uso antico nella rappresentazione della figura nuda della Baccante sconcertò pubblico e critica che non vedevano di buon occhio l'artista affrontare la nudità. A Parigi, tuttavia, la pittura non era sempre condotta secondo i registri del grandioso, neppure quando si esprimeva nei privilegiati soggetti antichi. e Neglianni Settanta, Vien soppiantò Fragonard nelle preferenze di Madame du Berry in seguito al successo della sua Venditrice di amorini. || quadro, esposto al Salon del 1763, aveva incontrato i favori di Diderot che lo recensì per Grimm e ne mise in luce la derivazione fedele da un dipinto murale scoperto a Ercolano, che il pittore poté conoscere tramite un'incisione delle Antichità ercolanensi. La novità introdotta da Vien riguardava essenzialmente l'ambientazione e gli elementi di arredo, tutti di sua invenzione per quanto condotti secondo il gusto e il costume antico. Il più influente dei protettori di Vien era Caylus, che all’Académie Royale aveva tenuto alcune conferenze sulla pittura e sulla scultura dei Greci e che aveva avuto un grande ruolo nell'orientare le scelte di Vien. e Nello stesso Salon del 1765 in cui Vien aveva esposto il suo Marco Aurelio, Diderot recensì positivamente una grande tela di Fragonard, // sacrificio del gran sacerdote Coreso, totalmente in opposizione alla linea stilistica rappresentata dal quadro di Vien: un soggetto tratto da Pausania. Egli, con questo dipinto, aveva salutato come il innovatore della grande pittura di storia che avrebbe consolidato il primato europeo della Francia. Il problema della pittura di storia era avvertito tanto a Parigi quanto a Roma grazie alla grande tradizione risalente al XVII secolo percepita come ancora viva e operante in entrambe le capitali, negli stessi anni che vedevano maturare la ricerca classicista. DAVID La città nella quale David era arrivato nel 1775 vedeva ancora attivo Mengs. Batoni era nel pieno della sua fortuna; Canova sarebbe giunto nel 1779. È noto come inizialmente David ritenesse di non aver molto da imparare dall'antichità. | molti disegni eseguiti durante il viaggio ancor prima di giungere a Roma, quelli realizzati una volta stabilitosi a Palazzo mancini rivelano come non fossero soltanto le antichità a suscitare il suo interesse, benché queste a un certo punto catalizzassero la sua attenzione. Di questo quinquennio fecondo resto opere importanti tra le quali i celebri nudi di accademia noti come Patroclo ed Ettore, un quadro mitologico che non parla la lingua di Mengs, dipinti religiosi dove uno studio di vecchio al naturale diventava pala d'altare, il San Rocco intercede presso la Vergine per la guarigione degli appestati (1780) e l'abbozzo del Ritratto del conte Stanislao Potocki terminato a Parigi e presentato al Salon del 1781. È stata messa inoltre in luce, per David e per Canova, della presenza in quegli anni in Italia della figura davvero illuminata di Quatremère de Quincy, che indirizzò David alla comprensione dell’antico e sostenne sempre Canova con il quale scambiava consigli e pareri. Il soggiorno di David a Roma si concluse con la presentazione, al Salon del 1781, del Belisario cieco riconosciuto da un soldato mentre chiede l'elemosina. Il quadro di David, che suscitò l'entusiasmo di Diderot, è una sapiente rielaborazione dei grandi modelli della pittura di storia, ma il suo riferimento sembra essere Poussin, tradotto su scala monumentale e memore dei potenti chiaroscuri caravaggeschi. Con // pianto di Andromaca sul corpo di Ettore concepito ed eseguito interamente a Parigi e che gli valse nel 1783 l'ammissione all'Académie, prese le distanze dal linguaggio più morbidamente antiquario di Gavin Hamilton in favore di una scelta di maggiore sobrietà, senza nessuna concessione al patetico. Apice di questo stile severo è // Giuramento degli Orazi, realizzato nel suo secondo soggiorno romano e che ne sancì la consacrazione, a Roma come a Parigi. La critica si è interrogata recentemente sulla possibilità che i pittori nordici incontrati a Roma potessero aver influenzato David per la terribilità dell'ultimo quadro di commissione reale prima della Rivoluzione, / littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli (1789), che raffigura la decisione che dovette prende il fondatore della repubblica romana, condannando a morte i propri figli che avevano congiurato contro di essa. L'elaborazione del quadro è coeva ad altri di diverso tenore: Gli amori di Elena e Paride e il Ritratto dei coniugi Lavoisier, tutti presentati al Salon del 1789 che fu inaugurato poco dopo la presa della Bastiglia. Lo scoppio della Rivoluzione ebbe conseguenze rilevanti nelle vicende personali di David, che sostenne con entusiasmo la causa giacobina si batté per l'abolizione dell’Accademia, ottenendo che nel 1792 venisse chiusa la sede di quella di Francia a Roma e l'anno successivo l'Académie Royale a Parigi. In questi anni arte e politica si intrecciarono nelle sue attività: ottiene l'incarico di celebrare il Giuramento della Pallacorda, il suo primo dipinto di soggetto storico contemporaneo e non esempio di antiche virtù. Dipinto contemporaneo, e di carattere tragico, è il Marat assassinato (1793), seguito l'anno dopo dalla Morte di Barra che, come il Marat, vede il recupero di modi ispirati addirittura alla pittura religiosa: il ragazzo, ucciso mentre sta portando un messaggio, è presentato come un piccolo martire cristiano. Tra questi due dipinti trova spazio la cruda immagine di Maria Antonietta condotta alla ghigliottina, realizzata con un segno feroce nella sua assoluta assenza di umana pietà. Si verificò in David un sostanziale mutamento stilistico intorno al 1795. Arrestato per qualche mese dopo la morte di Robespierre, intraprese l'elaborazione di un soggetto pacificatore: Ersilia, sposa di Romolo, si frappone con i propri figli tra Romolo e Tazio per chiedere la pace. Il lungo travaglio compositivo si chiuse nel 1799 e il quadro venne presentato in un'esposizione a pagamento organizzata dallo stesso David. Il grande quadro, detto Le Sabine, è innovativo e non solo per il contenuto, aspirazione alla pace che soppianta nella sua produzione la celebrazione dell’antico, ma anche il più disumano come quello di Bruto purché consumato per la patria. Il linguaggio pittorico è di grande limpidezza formale.
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