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Riassunto “Le politiche sociali” di Ferrera ed.2019, Appunti di Sociologia Dei Processi Culturali

Riassunto del testo utile per l’esame di “Processi culturali e politiche sociali”

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 05/03/2020

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Scarica Riassunto “Le politiche sociali” di Ferrera ed.2019 e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! L’analisi delle politiche pubbliche è lo studio di come, perché e con quali effetti i diversi sistemi politici perseguono certi corsi di azione per risolvere problemi di rilevanza collettiva. L’analisi delle politiche sociali è quindi lo studio di un sottoinsieme di corsi di azione, volti a risolvere problemi e raggiungere obiettivi di natura sociale, connessi al benessere (welfare) dei cittadini. I problemi e gli obiettivi che caratterizzano le politiche sociali riguardano le condizioni di vita degli individui, le risorse e le opportunità a loro disposizione nelle varie fasi della loro esistenza (o ciclo di vita). In primo luogo quindi le politiche sociali sono corsi di azione volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione delle risorse e delle opportunità considerate talmente rilevanti per le condizioni di vita da dover essere garantite dallo stato. Nelle contemporanee democrazie, norme, standard e regole sono contenute nella definizione di cittadinanza sociale: essere cittadini significa non solo di godere di diritti civili e politici, ma anche di diritti sociali, che si configurano come diritti-spettanze; questi diritti danno titolo ad ottenere risorse (es. pensione) e a fruire di opportunità (es. accedere a servizi). In secondo luogo, le politiche sociali sono corsi di azione volti ad organizzare concretamente la produzione e la distribuzione di queste risorse e di queste opportunità, ad esempio attraverso gli schemi previdenziali, i servizi sanitari o quelli per l’impiego. Gli attori delle politiche sociali sono moltissimi: come tutte le politiche pubbliche, anche le politiche sociali sono corsi di azione nei quali si incontrano e interagiscono una pluralità di attori, pubblici e non pubblici. Lo stato può incidere sulla distribuzione di risorse e opportunità non solo in maniera diretta, ma anche in maniera indiretta, disciplinando l’operato dei soggetti non pubblici (es. attraverso il diritto di famiglia o il diritto del lavoro). Soprattutto in Europa. però, lo stato svolge un preminente ruolo di fornitore diretto di servizi e prestazioni con finalità sociale. Oltre alla nozione di “benessere”, due altre nozioni hanno un ruolo fondamentale per la caratterizzazione delle politiche sociali: • Bisogno: essa connota una carenza, cioè la mancanza di qualcosa di importante e al tempo stesso un oggetto, un bene mancante che può sopperire o rimediare alla mancanza (es. un bisogno sanitario nasce da qualche deficit di salute e crea l’esigenza di assistenza medica); • Rischio: essa connota l’esposizione ad eventualità che possono accadere (es. la malattia) e che, quando si verificano, producono effetti negativi e generano quindi dei bisogni. A bisogni e rischi si può far fronte ricorrendo a risorse e opportunità presenti nella sfera del mercato (in particolare al mercato del lavoro, dal quale si attingono redditi), della famiglia (reti parentali e amicali) e delle associazioni intermedie. Con quest’ultima espressione non ci si riferisce solo alle comunità informali (come il vicinato o il quartiere), ma anche ai soggetti facenti parte del terzo settore, cioè le organizzazioni di volontariato. Le condizioni di vita degli individui (il loro benessere) dipendono in larga misura dal posto che essi occupano all’interno delle reti familiari, lavorative e associative, dalle modalità di organizzazione di queste reti e dai loro reciproci rapporti. Come già accennato l’obiettivo delle politiche sociali è quello di stabilire norme, standard e regole in merito alla distribuzione di risorse e opportunità. Tali norme, standard e regole riguardano principalmente il paniere di rischi e bisogni meritevoli di ricevere tutela da parte dello stato, data la loro rilevanza per le condizioni di vita. Le politiche sociali forniscono quindi protezione sociale ai cittadini rispetto ai panieri codificati di rischi e bisogni. Il quadrilatero costituito da stato, famiglia, mercato (del lavoro) e mondo associativo è denominato “diamante del welfare”. Il sistema di relazioni formali e informali tra le 4 punte del diamante è denominato “regime di welfare” o “welfare mix”. Come indicato dalla figura lo Stato svolge un ruolo predominante e sovraordinato: esso è il contenitore di tutti i processi di produzione del benessere, ed è anche il regolatore sovrano di tutti i processi (le frecce che collegano i bordi del contenitore statale con le altre sfere). Lo stato è un’ancora che rende le politiche sociali più stabili, prevedibili e sicure. Le politiche sociali più importanti sono: • Politiche pensionistiche: riguardano il rischio di vecchiaia e in particolare la perdita della capacità lavorativa e di sicurezza economica. Coprono anche il rischio di invalidità e di morte; • Politiche sanitarie: rischio di malattia e bisogni sanitari ad esso connessi; • Politiche del lavoro: rischio di restare disoccupati. Mirano anche a regolamentare il mercato del lavoro e a promuovere l’incontro tra domanda e offerta, per prevenire l’emergenza della disoccupazione; • Politiche di assistenza sociale: hanno per oggetto un ventaglio molto ampio di rischi e bisogni, come la perdita di autosufficienza personale, povertà economica, carichi familiari (minori, portatori di handicap ecc. all’interno dell’unità domestica). Queste politiche sono volte a promuovere l’inclusione sociale, cioè l’ancoramento di individui e famiglie nel tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse ed opportunità. All’interno della spesa sociale le politiche pensionistiche sono quelle più consistenti da punto di vista quantitativo, seguite dalle politiche sanitarie, quelle per il lavoro e quelle di assistenza. Nelle democrazie contemporanee le politiche sociali costituiscono un sistema integrato di politiche pubbliche: hanno caratteristiche in comune, sono spesso collegate tra loro sul piano organizzativo e finanziario, sono L’ANALISI DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL WELFARE STATE, DI MAURIZIO FERRERA CONCETTI FONDAMENTALI percepite dai cittadini come facenti parte di un insieme coerente di azioni. L’insieme delle politiche sociali è denominato come stato del benessere, o welfare state, o nella sua espressione italiana, stato sociale. Il concetto di welfare state si basa su 3 elementi connotativi. Il welfare state è un insieme di politiche pubbliche connesse al processo di modernizzazione, poiché è collocato all’interno di trasformazioni economiche, politiche e sociali. Il processo di modernizzazione ha interessato le società europee a partire dal 19°secolo ed ha operato attraverso industrializzazione, urbanizzazione, passaggio dalla famiglia estesa a quella nucleare, alfabetizzazione, miglioramento del tenore di vita, burocratizzazione, democratizzazione. In buona misura il welfare state è nato come risposta alla nuova configurazione di rischi e bisogni nata dal processo di modernizzazione. Proprio in riferimento a questo, notiamo che il concetto di welfare porta con sé una profondità storica ed un carattere dinamico. Tramite le politiche di welfare lo stato fornisce ai propri cittadini la protezione da rischi e bisogni prestabiliti, secondo 3 modalità idealtipiche: assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. Le politiche di welfare introducono specifici diritti sociali, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria. Le politiche sociali definiscono e distribuiscono risorse e opportunità sotto forma di spettanze, cioè titoli volti a ottenere prestazioni secondo norme, standard e procedure disciplinate dalla legge e garantite dall’autorità dello stato. Sin dagli anni ’50 la letteratura ha individuato 3 diversi modelli di intervento pubblico ai fini di protezione sociale, identificandoli con le espressioni “assistenza”, “assicurazione” e “sicurezza sociale”. L’ASSISTENZA L’assistenza (pubblica o sociale) comprende quegli interventi a carattere condizionale e spesso discrezionale, volti a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisognosi. Ciò che caratterizza l’assistenza come modalità di protezione sociale è il fatto che le sue prestazioni sono subordinate all’accertamento da parte pubblica di 2 condizioni: lo specifico bisogno individuale manifesto (condizioni di disagio familiare e/o abitativo, la non autosufficienza personale ecc.), e l’assenza di risorse (reddito) per farvi fronte autonomamente, verificata attraverso una prova dei mezzi. Con quest’ultima espressione si intendono tutte le forme di valutazione della situazione economica da parte di un’autorità pubblica. Date le sue caratteristiche, l’assistenza è una forma di protezione selettiva (rispetto alle condizioni di bisogno e di reddito) e residuale (rispetto alle capacità di risposta individuale o familiare). ASSICURAZIONE SOCIALE L’espressione assicurazione sociale (obbligatoria) riguarda invece l’erogazione di prestazioni semistandardizzate in forma automatica ed imparziale, sulla base di precisi diritti/doveri individuali (il pagamento dei contributi) e secondo modalità istituzionali altamente specializzate e centralizzate. L’assicurazione sociale costituisce il nucleo centrale del moderno welfare state: è con questa forma di intervento che nascono i diritti/spettanze sopra menzionati. La presenza di almeno uno schema di assicurazione obbligatoria all’interno di un paese indica che quello stesso paese possiede un welfare state. Nei welfare state più maturi vi sono più schemi, che proteggono da un insieme standard di rischi: vecchiaia, morte del capofamiglia, invalidità, malattia, infortunio, maternità, disoccupazione. L’assicurazione obbligatoria nasce alla fine dell’800 con un’impostazione prevalentemente attuariale. Dal momento dell’iscrizione, a ciascun lavoratore salariato veniva aperto una sorta di conto individuale, nel quale fluivano i contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro. Quando subiva uno dei danni previsti (infortunio, malattia, vecchiaia), il lavoratore riceveva una prestazione commisurata ai contributi versati. Questi schemi assicurativi pubblici contenevano in sé due tratti di originalità rispetto ai precedenti: § Il principio dell’obbligatorietà dell'adesione: mirava non solo a contrastare comportamenti di irresponsabilità individuale, ma anche e soprattutto a ripartire i rischi all’interno di platee di lavoratori più ampie, mantenendo relativamente bassi gli importi contributivi e impedendo il fenomeno di scrematura tipico del settore assicurativo privato e volontario, ad es. il rifiuto di assicurare lavori pericolosi o lavoratori anziani; § Il passaggio dai premi (principale strumento di finanziamento delle assicurazioni private) ai contributi sociali, che comportò notevoli vantaggi economici. Il premio è una somma forfettaria, indipendente dalla situazione reddituale dell’assicurato, ma collegata al suo profilo di rischio (ad es. è più elevato al crescere dell’età). Il contributo sociale è invece una fonte di finanziamento che prescinde dai profili di rischio individuali ed è proporzionale al reddito dell’assicurato (es. 10% della sua retribuzione lorda). Grazie al suo carattere obbligatorio e al suo finanziamento tramite contributi, l’assicurazione sociale ha potuto coprire rischi difficili, come la disoccupazione. Grazie all’obbligatorietà e al finanziamento contributivo, l’assicurazione obbligatoria ha accresciuto le capacità dello stato di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini, redistribuendo risorse e opportunità in base a criteri di equità (ma anche in base a dinamiche politico-elettorali). Con il passare del tempo l’originale impostazione attuariale dell’assicurazione obbligatoria si è indebolita: a partire dagli anni ’50 in molti paesi sono state introdotte le salvaguardie minime di prestazione (soprattutto nel settore delle pensioni) e si è passati da formule contributive (in base ai contributi) a formule retributive (in base alle retribuzioni percepite). Il sistema dell’accantonamento e della capitalizzazione dei contributi versati è stato poi sostituito dal sistema della ripartizione, in base al quale le somme versate dai membri attivi di un dato schema vengono immediatamente usate per il pagamento delle prestazioni ASSISTENZA, ASSICURAZIONE E SICUREZZA SOCIALE creato nuove forme di povertà da tutelare. La crescente porosità delle barriere statali li ha esposti ai rischi di importare problemi dall’estero. Questi sono stati i problemi affrontati negli anni ’90, a seguito del nuovo mondo globalizzato. Questo processo di riforma è stato definito ricalibratura, per indicare l’interdipendenza tra scelte espansive o migliorative e scelte restrittive o sottrattive. LA RICALIBRATURA DEL WELFARE STATE Il dibattito sulla crisi e riforma del welfare state ha cercato a lungo un termine attraverso cui interpretare la direzione del cambiamento istituzionale. Inizialmente hanno prevalso i termini negativi, come tagli, oppure ridimensionamento. Successivamente hanno cominciato ad essere utilizzati termini più neutrali sotto il profilo sia descrittivo sia valutativo: ad esempio modernizzazione (il termine preferito della commissione europea), riconfigurazione, ristrutturazione o razionalizzazione. Ferrera, Hemerijck e Rhodes (2000) hanno riproposto il termine ricalibratura. Con questa espressione si vuole connotare un processo di cambiamento istituzionale caratterizzato da: • La presenza di un insieme di vincoli, di natura esogena ed endogena, che condiziona le scelte dei decisori politici; • L’interdipendenza tra eventuali scelte espansive o migliorative e scelte restrittive o sottrattive, in conseguenza dei vincoli; • Uno spostamento deliberato dell’enfasi posta sui diversi strumenti e obiettivi delle politiche sociali: sia all’interno di ciascuna politica sia fra diverse politiche. Il concetto di ricalibratura può essere articolato in alcune sottodimensioni: 1. La ricalibratura funzionale concerne i rischi in risposta ai quali i sistemi di welfare si sono sviluppati nel corso del tempo e si riferisce a quegli interventi volti a bilanciare le diverse funzioni di protezione sociale; 2. La ricalibratura distributiva riguarda i gruppi sociali e si riferisce a quegli interventi che mirano a ribilanciare il grado di protezione sociale dalle categorie ipergarantite. 3. La ricalibratura normativa si riferisce a norme e valori e denota quelle iniziative di natura simbolica che forniscono argomentazioni e buone ragioni per trasformare lo status quo in quanto inefficiente, inefficace o iniquo. Riprendendo la citazione di Flora, secondo cui il welfare state può essere considerato come una sorta di nuovo “sistema di potere” (rispetto a quello liberale tipico dell’800), basato su un intreccio di scambi tra “élite distributrici” in cerca di legittimità e consenso (governi, partiti, sindacati) e “clientele sociali” interessati ad ottenere diritti-spettanze attraverso la mediazione di “burocrazie di servizio” (gli apparati statali che erogano le prestazioni), e ricordando il motivo per cui il cancelliere Bismark fu spinto a concedere le assicurazioni obbligatorie (pressioni del movimento operaio), possiamo facilmente intuire quanto il sistema di welfare sia intrecciato con la politica. Soprattutto a partire dagli anni ’50 del secolo scorso questo intreccio è diventato sempre più saldo, fino a diventare un tutt’uno. Il Trentennio glorioso è stato segnato da una sindrome che possiamo definire scivolamento distributivo. LO SCIVOLAMENTO DISTRIBUTIVO DELLA POLITICA SOCIALE DURANTE LA FASE ESPANSIVA Nel corso del suo primo mezzo secolo di vita, la politica sociale si basava sulla redistribuzione (dai ricchi ai poveri), connotata da molte controversie riguardanti la solidarietà verticale (tra fasce di reddito) e orizzontale (tra categorie). A partire dagli anni ’50 il carattere redistributivo della politica sociale è andato attenuandosi, a causa della modificazione del profilo di tutte le società europee: non più poveri e ricchi, ma una sempre crescente classe media. Questa “massa media” è diventata la principale protagonista del welfare state, di cui è allo stesso tempo beneficiaria e contribuente. Si è passati quindi alla logica distributiva, che consiste in un insieme di trasferimenti incrociati da una categoria all’altra del ceto medio. Si sa chi riceve e quanto, ma non si sa esattamente chi paga. Le politiche distributive infatti si caratterizzano per: • Asimmetria tra benefici e costi: i benefici sono tangibili e concentrati (la pensione, l’indennità di disoccupazione ecc.), mentre i costi sono occulti e diffusi su grandi numeri; • Elevata disaggregabilità dei benefici: pensiamo ai trasferimenti monetari o ai vantaggi fiscali, che sono particolarmente adatti ad essere dispensati in modo selettivo; • Impatto esterno relativamente contenuto: il miglioramento della formula pensionistica di una categoria sociale non ha effetti sulla finanza pubblica. Le cause principali di questo scivolamento distributivo della politica sociale (che ha raggiunto il suo culmine negli anni ’60 e ’70) sono sia di natura economica sia di natura politica. L’occultamento dei costi ne è il filo conduttore. I fattori economici che hanno alimentato la sindrome dello scivolamento distributivo sono i seguenti. • Gli alti tassi di sviluppo hanno messo a disposizione di partiti e governi quote sempre crescenti di risorse da impiegare negli interventi pubblici: quando l’economia cresce, crescono anche le entrate dell’erario. Si generano quindi risorse aggiuntive senza costi aggiuntivi; • La progressiva conversione al deficit spending (cioè spesa pubblica non coperta da entrate tributarie, ma dall’emissione di titoli di debito pubblico), nonché l’adozione di tecniche finanziare volte ad attenuare o nascondere i costi immediati dell’intervento pubblico; • Il meccanismo della ripartizione in campo previdenziale. Tale meccanismo consiste nella riscossione di contributi dalla generazione attiva e nella loro immediata erogazione (sotto forma di pensioni) alla generazione non attiva. Nel corso degli anni ’50 e ’60 la maggior parte dei paesi europei ha adottato il meccanismo della ripartizione. Il nuovo schema creato a ripartizione ha fatto si che la prima generazione di lavoratori abbia potuto ricevere la pensione gratis. In un periodo in cui le tendenze economiche e demografiche erano favorevoli, era possibile scaricare gli oneri sulle generazioni future, e puntare alla soddisfazione delle generazioni votanti. I fattori politici che hanno alimentato la sindrome dello scivolamento distributivo sono i seguenti. LOGICA POLITICA E WELFARE STATE Sul versante della domanda si ha a che fare con la progressiva frantumazione della struttura sociale, avvenuta a causa della nascita di nuove categorie: la classe media non era più formata solo dai ceti operai, ma da nuove figure (commercianti, liberi professionisti, dipendenti degli enti locali, ferrovieri e così via) e anche nuovi richiedenti diritti-spettanze (invalidi civili, cassintegrati ecc.) che sono andati a formare gruppi di interesse speciale. Avviene quindi il passaggio da una politica “di classe” ad una politica “delle categorie”. Questi gruppi di interesse speciale si sono mobilitati per richiedere (per il proprio gruppo) maggiori benefici da parte dello stato. Ovviamente i gruppi meglio organizzati e più abili nel “ricattare” i governi riuscivano ad ottenere di più. Sul versante dell’offerta la trasformazione della competizione elettorale, dovuta al declino della politica di classe, ha dato vita ai cosiddetti partiti pigliatutto: il sostegno elettorale è ormai dato solo in base a ciò che quel partito offre in termini di welfare (ad esempio il reddito di cittadinanza). CRISI E RIFORMA DEL WELFARE: DALLE DISTRIBUZIONI ALLE SOTTRAZIONI A partire dagli anni ’90, la crisi delle finanze pubbliche, il processo di integrazione europea e la globalizzazione hanno portato in primo piano il problema dei costi del welfare state, forzando il suo risanamento. I provvedimenti di riforma hanno riguardato principalmente: la sostenibilità nel lungo periodo del sistema pensionistico, la maggiore efficienza dei servizi sanitari e dei mercati del lavoro, una maggiore competitività a livello europeo ed equilibrio di bilancio. Possiamo definire la politica sociale degli anni ’90 una politica “sottrattiva”, caratterizzata dalla cancellazione e (in maggior misura) dalla diminuzione di molte spettanze. Ricordando l’intreccio inestricabile tra welfare e politica, possiamo immaginare le forti turbolenze che hanno colpito l’Europa di quegli anni. Le enormi ondate di protesta contro i tagli del governo hanno visto come protagonisti i soggetti più tradizionali dell’azione politica, cioè i sindacati. L’arena privilegiata, però, era cambiata: non più il parlamento, ma l’arena elettorale. Chiaro che ciò che conta nell’arena elettorale è il consenso del votante, per questo sono state utilizzate molteplici strategie politiche, a partire da quelle linguistiche (la parola “tagli” non è mai stata pronunciata), fino ad arrivare a promettere tagli non sulle pensioni in pagamento, ma su quelle future. Nella maggior parte dei paesi abbiamo quindi avuto uno stile di riforma di tipo concertativo, dove i governi hanno contrattato le misure restrittive con i rappresentanti degli interessi coinvolti (a partire dai sindacati), e lo stile utilizzato per la ricalibratura fu quello dell’“inseguimento adattivo”: poche riforme di struttura e molti tagli ai margini, lungo le linee di minor resistenza sociopolitica. Nel riformare il welfare i politici hanno prestato estrema attenzione ad evitare il biasimo per minimizzare le perdite di consenso, tantoché il politologo americano Weaver l’ha definito blame avoidance. Questa strategia è caratterizzata da: • Tattiche di offuscamento (confondere i destinatari dei tagli manipolando l’informazione o intervenendo su meccanismi e formule poco visibili) • Tattiche di compensazione (placare i destinatari dei tagli con clausole di transazione morbide) • Tattiche di divide et impera (creare conflitti di interesse fra le varie categorie e in particolare tra finanziatori e pagatori o fornitori e consumatori) L’obiettivo della blame avoidance ha pesantemente condizionato il processo di riforma, rallentandone il ritmo e ostacolando l’adozione di misure incisive, per questo il welfare state (in particolare quello italiano) si trova ancora nel corso del riadattamento. La fase della ricalibratura è destinata a durare ancora a lungo. I welfare state hanno registrato e tutt’ora registrano enormi differenze, tanto da far risultare ciascun welfare state nazionale un caso a sé. Comunque, in un’ottica più ampia possiamo notare alcuni modelli di welfare state. DUE MODELLI Nel dare una panoramica storica del welfare, abbiamo già accennato alla biforcazione avvenuta nella prima metà del 20° secolo tra modelli universalistici (o beveridgeani) e occupazionali (o bismarkiani). Il principale criterio di distinzione tra i due modelli è dato dal formato di copertura, cioè dalle regole di accesso agli schemi di protezione sociale: • Modello universalistico (paesi angloscandinavi): gli schemi di protezione sociale coprono tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa. Questo ha creato un bacino di solidarietà e redistribuzione corrispondente all’intera comunità politica; • Modello occupazionale (Europa continentale): gli schemi di protezione sociale sono rivolti ai lavoratori, ci sono diversi schemi occupazionali con regole diverse gli uni dagli altri. Questi modelli hanno assecondato le tradizionali demarcazioni tra settori produttivi (es. industria vs agricoltura, lavoro dipendente vs lavoro autonomo) e gerarchie occupazionali (es operai vs impiegati), frammentando la comunità politica. La scelta di chi proteggere è diventata più importante di quanto e come proteggere. I TRE REGIMI Durante la fase di espansione (dalla fine della 2gm agli anni ’70), il welfare europeo si è nuovamente evoluto e sono diventate rilevanti le dimensioni del quanto e del come, oltre a quella del chi. Elementi decisivi per la conformazione del welfare state sono: formule di computo delle prestazioni, gamma e qualità dei servizi, modalità di gestione e di finanziamento. Durante questa fase è emersa una nuova differenziazione tipologica tra i welfare state europei, creando un dibattito tra gli studiosi. L’autore che ha maggiormente influito sul dibattito è stato Esping-Andersen. Secondo questo studioso durante il periodo espansivo si sono consolidati 3 diversi regimi di welfare: liberale, conservatore-corporativo e socialdemocratico. Per regime di welfare l’autore fa riferimento non solo al contenuto delle politiche sociali di uno stato, ma all’intero sistema di interrelazioni tra queste e il mercato del lavoro e la famiglia. Le differenze fra i sistemi di welfare nei processi di inclusione sociale e nel grado di benessere socio-economico, sono riconducibili al diverso ruolo che lo Stato attribuisce alle potenzialità della sfera del mercato e all’azione della famiglia. Le interconnessioni fra Stato, mercato e famiglia finalizzate alla produzione di benessere sociale costituiscono il regime di welfare. LE TIPOLOGIE DEI WELFARE STATE L’autore sostiene che per comprendere gli outcomes, cioè gli esiti di un regime di welfare sulle condizioni di vita, è necessario analizzare due dimensioni: • La dimensione della demercificazione: l’autore utilizza questo termine per connotare il grado in cui gli individui situati all’interno di un regime di welfare possono liberamente astenersi dalla prestazione lavorativa senza perdere il posto di lavoro o avere perdite significative di reddito e in generale di benessere; • La dimensione della destratificazione: connota il grado in cui la conformazione delle prestazioni sociali dello stato attutisce le differenze di status quo tra occupazioni o classi sociali. I tre regimi si differenziano in modo rilevante lungo queste due dimensioni e danno luogo ai 3 diversi regimi, caratterizzati dalla diversa efficacia nel modificare la distribuzione delle possibilità di vita prodotta dalla sfera del mercato e da quella della famiglia. L’efficacia è massima nel regime socialdemocratico, media in quello conservatore-corporativo e minima in quello liberale. La loro differenziazione è anche di natura politica: movimento operaio, sindacati e partiti di sinistra nel regime socialdemocratico; tradizioni corporative, partiti moderati o conservatori e cristiani in quello corporativo- conservatore; borghesia capitalista e dottrina liberista nel regime liberale. Per ciò che concerne la sfera della famiglia, la critica femminista ha evidenziato come i tre regimi di welfare si differenzino anche nella diversa traiettoria sul piano dei rapporti di genere, del sostegno all’occupazione femminile e delle attività di cura, ma soprattutto per ciò che riguarda i diritti delle donne. REGIME LIBERALE § Predominanza di misure di assistenza basate sulla prova dei mezzi (means-test); § Schemi di assicurazioni sociale relativamente circoscritti e con formule di prestazioni generose; § Destinatari principali: bisognosi, poveri, lavoratori a basso reddito; § Il welfare state incoraggia il ricorso al mercato: in modo passivo o in modo attivo; § Demercificazione bassa: forte dipendenza degli individui/lavoratori dal mercato; § Destratificazione bassa: dualismo tra il welfare dei poveri e il welfare dei ricchi; § Casi emblematici: Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito; REGIME CONSERVATORE-CORPORATIVO • Predominanza di schemi assicurativi pubblici collegati alla posizione occupazionale; • Formule di computo collegate ai contributi e/o retribuzioni; • Destinatari principali: i lavoratori adulti maschi capofamiglia (male breadwinners); • Enfasi sulla sussidiarietà degli interventi pubblici: lo stato interviene solo nella misura in cui i bisogni non trovano risposta a livello individuale, familiare o di associazioni intermedie; • Demercificazione media: la dipendenza dal mercato è attenuata ma non annullata; • Destratificazione medio-bassa: il welfare tende a preservare le differenze di status e classe, nonché le segregazioni di genere; • Casi emblematici: Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi. REGIME SOCIALDEMOCRATICO • Predominanza di schemi universalistici di sicurezza sociale con alti standard di prestazione; • Formule generose, a somma fissa, con finanziamento fiscale; • Destinatari: tutti i cittadini; • Il welfare state mira a marginalizzare l’importanza del mercato come fonte di risposta ai bisogni e rischi sociali; • Demercificazione alta: la dipendenza dal mercato è molto attenuata; • Destratificazione alta: uguaglianza di trattamento per tutti i cittadini; • Casi emblematici: Svezia, Danimarca, Norvegia. LA QUARTA EUROPA SOCIALE: IL WELFARE DELL’EUROPA MERIDIONALE La tripartizione di Esping-Andersen è stata elaborata prendendo in considerazione i paesi dell’OCSE, inclusi gli Stati Uniti (regime liberale) e il Giappone (regime conservatore-corporativo). L’unico paese incluso dell’Europa meridionale era l’Italia (modello conservatore-corporativo). I paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo e Grecia) sono risultati appartenere ad un regime distinto, denominato quarta Europa sociale. Nella prima fase del loro sviluppo (instaurazione e consolidamento), questi paesi hanno seguito la via bismarkiana, introducendo una pluralità di schemi assicurativi occupazionali in campo pensionistico sia sanitario. Durante la fase di espansione, però, questi paesi hanno edificato sistemi di protezione sociale molto diversi dagli altri paesi. Per ciò che concerne gli schemi di trasferimento del reddito (pensioni, disoccupazione, sussidi di povertà), essi hanno introdotto formule dualistiche: molto generose per le categorie centrali del mercato del lavoro (dipendenti pubblici, lavoratori dipendenti di grandi imprese) e più modeste per le categorie periferiche e deboli (precari, stagionali, autonomi, dipendenti di piccole imprese). Fino agli anni ’80 questi paesi erano privi di assicurazione contro il rischio di povertà. Questa conformazione del welfare ha contribuito a creare profonde fratture nel mercato del lavoro, nonché un modello di famiglia caratterizzato da relazioni fortemente solidaristiche, incline a funzionare da ammortizzatore sociale. Naldini ha coniato una nuova espressione per connotare questo tratto: modello della solidarietà familiare e parentale. Utilizzando i concetti di Esping-Andersen, il regime dell’Europa meridionale (almeno fino agli anni ’80) è caratterizzato da: • Demercificazione sbilanciata: moltissimo ad alcuni, pochissimo ad altri; • Destratificazione bassa (come regime liberale), al contrario del regime liberale esso non tende tanto a riprodurre differenze di classe ma a produrne di nuove, creando due gruppi contrapposti: gli insiders, titolari di spettanze forti; e gli outsiders, titolari di spettanze deboli o privi di spettanze. Alla fine del ciclo espansivo, questi paesi hanno istituto servizi sanitari a vocazione universale, cioè basati sui diritti di cittadinanza. Esping-Anderen nella classificazione dei 3 regimi non ha considerato il ruolo dei servizi sanitari, ma è facilmente comprensibile come un servizio sanitario nazionale aperto a tutti possa influire sul benessere dei cittadini. RISCHI SOCIALI E PENSIONI Il concetto di pensione indica quella prestazione pecuniaria vitalizia prevista a fronte dei rischi di vecchiaia e invalidità, che copre anche i parenti di un assicurato o un pensionato defunto (rischio di premorienza). Le pensioni che spettano in relazione al grado di parentela con un assicurato nel caso di premorienza sono di due tipi: • Si parla di pensione indiretta quando l’assicurato che ha raggiunto i requisiti minimi per il pensionamento muore prima di essersi ritirato dal lavoro. La pensione indiretta spetta al coniuge o ai parenti più stretti; • Si parla di pensione di reversibilità quando l’assicurato decede dopo il pensionamento, e anche in questo caso la pensione di reversibilità spetta ai medesimi soggetti. Anche nel caso di invalidità esistono due tipi di prestazioni: • La pensione di invalidità previdenziale, corrisposta ai lavoratori assicurati a fronte della perdita di capacità (totale o parziale) di lavoro a seguito di un evento invalidante; • La pensione di invalidità civile, prestazione assistenziale rivolta agli invalidi civili (totali o parziali), ai ciechi e ai sordomuti che si trovano in condizioni di bisogno, accertato tramite prova dei mezzi. In questa sede ci occuperemo principalmente di pensioni di vecchiaia, poiché essa rappresenta la prima voce di spesa sociale in tutti i paesi europei (Irlanda esclusa), nonché la voce più elevata rispetto alle altre. POLITICA PENSIONISTICA E SISTEMA PENSIONISTICO Con l’espressione politica pensionistica si fa riferimento a tutte quelle azioni (o inazioni) attraverso cui viene tutelata la vecchiaia. L’obiettivo specifico di tali azioni è quello di garantire un reddito vitalizio a quegli individui che si trovano nella fase della vita in cui gli è precluso l’accesso ad un’attività retribuita. Nell’evoluzione dei sistemi pensionistici europei tale tutela è stata affidata sia al settore pubblico che a quello privato, perciò gli attori che vi operano possono essere sia enti previdenziali pubblici (es. INPS), sia istituzioni private (es. fondi pensione, banche, assicurazioni), generalmente sottoposti alla normativa dello stato. Un sistema pensionistico è costituito da quell’insieme di regole e istituzioni preposte ad erogare prestazioni vitalizie in denaro a coloro che hanno terminato la propria carriera lavorativa, garantendo agli stessi una sicurezza economica anche nel periodo di quiescenza. Il finanziamento del sistema è assicurato dal versamento di parte del reddito percepito. LE PRESTAZIONI A TUTELA DELLA VECCHIAIA Nei paesi europei si possono individuare 4 tipi di prestazioni a tutela della vecchiaia, che si differenziano in base ai beneficiari, alle condizioni di accesso e alla diversa funzione svolta (previdenziale, di assistenza sociale e di sicurezza sociale). Le pensioni di vecchiaia e di anzianità sono rivolte ai lavoratori e hanno natura previdenziale, poiché mirano al mantenimento del reddito in fase di quiescenza attraverso il collegamento con i contributi versati. Esse si distinguono per le differenti condizioni di accesso: • La forma più tipica è quella della pensione previdenziale di vecchiaia, che spetta al lavoratore al raggiungimento di una certa soglia di età. Il diritto a questo tipo di pensione è condizionato dal pagamento di contributi per un periodo minimo. L’età pensionabile può essere fissa o flessibile, in quest’ultimo caso il pensionamento è consentito in un periodo che intercorre tra un’età minima e una massima. In alcuni paesi è inoltre possibile ottenere la pensione di vecchiaia in anticipo rispetto all’età pensionabile, con una decurtazione dell’importo della prestazione (pensione anticipata); • La pensione previdenziale di anzianità non prevede una soglia di età, ma un versamento contributivo per un numero prestabilito di anni. Obiettivo dell’età pensionabile flessibile, della pensione anticipata e della pensione di anzianità è quello di conferire al lavoratore maggiore discrezionalità rispetto al momento in cui ritirarsi dalla vita attiva e favorire coloro che hanno iniziato precocemente a lavorare; La pensione sociale invece individua quei trattamenti, con finalità assistenziale, volti a garantire un livello minimo di reddito a quegli individui che, superata una certa soglia di età anagrafica, non hanno versato contributi a fini pensionistici o che comunque non ne hanno versati a sufficienza per ottenere una pensione di vecchiaia. Condizione per l’accesso a teli prestazioni è il superamento della prova dei mezzi. Nelle nazioni nordiche esiste un quarto tipo di prestazione pensionistica, la pensione di base, che non mira a tutelare i lavoratori né gli anziani in stato di bisogno, ma garantisce un livello minimo di reddito a tutti i cittadini anziani. Svolge una funzione di sicurezza sociale tramite prestazioni a somma fissa, non collegate al precedente reddito da lavoro, per tutti i cittadini che hanno superato una certa età e indipendentemente dalla partecipazione al mercato del lavoro. Pensione sociale e pensione (pensioni assistenziali) di base sono di appannaggio esclusivo dello stato, per la loro natura solidaristica e redistributiva, mentre le prestazioni con finalità previdenziali sono erogate sia da enti pubblici o parapubblici che da enti privati. FINANZIAMENTO, GESTIONE DELLE RISORSE, CALCOLO DELLE PRESTAZIONI Le prestazioni pensionistiche sono finanziate in due modalità differenti: • Finanziamento fiscale: associato alla pensione sociale e alla pensione di base per la sua natura redistributiva; • Finanziamento contributivo: associato alle pensioni previdenziali di vecchiaia e anzianità. Tramite il versamento di contributi i lavoratori e i datori di lavoro finanziano le prestazioni pensionistiche per sé stessi o per i lavoratori già in quiescenza. Le modalità di gestione delle risorse dipendono dal metodo di finanziamento: in un sistema fondato sul finanziamento fiscale la gestione delle risorse è affidata allo stato, difatti le tasse e le imposte (dirette e indirette) confluiscono nel circuito della finanza pubblica e qui, LA POLITICA PENSIONISTICA DI MATTEO JESSOULA CONCETTI FONDAMENTALI generalmente con legge di bilancio, vengono trasferite agli enti responsabili dell’erogazione delle prestazioni. In un sistema finanziato tramite contributi abbiamo invece 2 alternative: • La prima consiste nella creazione di risparmio attraverso il versamento, l’accumulo e l’investimento dei contributi sociali. Sistema pensionistico a capitalizzazione; • La seconda si fonda sullo scambio di una quota del proprio reddito da lavoro con il diritto ad una prestazione pensionistica una volta terminata la fase lavorativa. Sistema pensionistico a ripartizione. Vediamo nel dettaglio le due alternative: • In un sistema a capitalizzazione i contributi versati sono accumulati in conti individuali, investiti sui mercati finanziari e (rivalutati secondo il rendimento degli investimenti) sono convertiti in rendita al momento del pensionamento; • In un sistema a ripartizione i lavoratori versano in contributi in un determinato tempo (t) e questi vengono immediatamente utilizzati per il pagamento delle prestazioni ai pensionati. I lavoratori ottengono il diritto a ricevere una pensione quando, al tempo T+1, essi stessi si ritireranno dal lavoro. La distinzione tra i due sistemi è di fondamentale importanza per comprendere i più recenti sviluppi della politica pensionistica, poiché essi sono diversamente esposti ai rischi (demografici, finanziari, economici e politici) che possono minarne la sostenibilità finanziaria. Le risorse economiche devono poi essere convertite in pensioni. Esistono 3 metodi per definire i trattamenti pensionistici: • Nel primo il valore delle prestazioni è indipendente dal reddito da lavoro: le pensioni sono a somma fissa o forfettarie (pensione sociale, pensione di base); • Il secondo prevede uno stretto collegamento delle prestazioni pensionistiche con il precedente reddito da lavoro. In un sistema retributivo le pensioni sono calcolate in percentuale (es 60%) sulla media delle retribuzioni di anni (n) di carriera. Tale media è detta retribuzione pensionabile (effettuata sugli ultimi anni, sui migliori o su tutti gli anni di lavoro). La formula è: P (pensione)= rp (retribuzione pensionabile) x n x r (aliquota di rendimento); • Nel terzo sistema, detto contributivo, l’importo della pensione viene calcolato in base ai contributi effettivamente versati, ma dipende anche da un secondo fattore, cioè dal tasso di rendimento degli investimenti. Esso può consistere nel tasso di crescita economica, nel tasso di variazione delle retribuzioni o altro ancora. Anche in questo sistema le prestazioni sono collegate al reddito da lavoro, ma in misura meno consistente rispetto a quello retributivo. I due metodi di calcolo delle prestazioni (contributivo e retributivo) possono combinarsi con i due sistemi di gestione delle risorse (ripartizione e capitalizzazione), generando 4 modelli di schemi previdenziali: due a ripartizione (sistema contributivo e retributivo) e due a capitalizzazione (prestazione definita e contribuzione definita). I sistemi contributivi predefiniscono il livello del prelievo contributivo e lasciano variare l’importo delle prestazioni in base ad una serie di fattori, pertanto essi tendono a scaricare sugli assicurati i rischi connessi ad eventuali dinamiche sfavorevoli (economiche, demografiche, finanziarie). I sistemi retributivi il livello della prestazione è predefinito in base al reddito dell’assicurato e il livello della contribuzione viene adeguato di conseguenza. Quest’ultimo sistema, come già detto, incorpora una promessa circa il livello di pensione da erogare, e quindi il rischio ricade in primo luogo sul promotore degli schemi pensionistici (lo stato se il sistema è a ripartizione, il datore di lavoro se il sistema è a capitalizzazione), che dovrà colmare il divario tra contributi e prestazioni. I PILASTRI PENSIONISTICI Il concetto di pilastro pensionistico è stato introdotto per la prima volta negli anni ’90 da un volume della Banca Mondiale, che ha riconosciuto quanto, negli ultimi decenni, i sistemi pensionistici occidentali siano diventati complessi, comprendendo sia attori pubblici che privati. • Il primo pilastro è rappresentato dallo Stato, che ancora oggi è promotore e gestore primario della protezione della vecchiaia. Esso presenta vari livelli, con caratteristiche e finalità diverse tra loro: possiamo distinguere gli schemi di assicurazione obbligatoria, finanziati tramite contributi, gli schemi assistenziali (pensione sociale) e di sicurezza sociale (pensione di base), finanziati tramite gettito fiscale; • Il secondo pilastro comprende invece gli schemi complementari o supplementari privati, caratterizzati da copertura occupazionale (fondi pensione di categoria, settore produttivo ecc), adesione volontaria (ma in alcuni paesi obbligatoria, come la Svizzera, i Paesi Bassi o la Danimarca), e gestione a capitalizzazione; • Il terzo pilastro è costituito da quelle forme pensionistiche, sempre a capitalizzazione e sempre ad adesione volontaria, promosse da banche, assicurazioni e società di gestione del risparmio. I MODELLI ORIGINARI DI TUTELA DELLA VECCHIAIA Fino alla seconda meta dell’800 la tutela economica della vecchiaia era affidata all’intervento dei cosiddetti “corpi intermedi”, formati da società di mutuo soccorso operaio e associazioni di matrice ecclesiastica. Il passaggio dalla tutela occasionale alle prime forme di assicurazione ebbe luogo tra gli ultimi decenni del 19° secolo e la 1gm. I primi schemi pensionistici vennero istituiti in Germania (1889) e in Danimarca (1891), ed erano diretti rispettivamente agli LA TUTELA DELLA VECCHIAIA DALLE ORIGINI ALLA FASE ESPANSIVA operai e agli anziani poveri. Nel caso tedesco, il primo intervento di tutela economica della vecchiaia si concretizzò nell’istituzione di un’assicurazione sociale obbligatoria per la categoria più esposta al rischio di indigenza in età anziana, cioè gli operai. In Danimarca si optò invece per garantire protezione a tutti i cittadini che, superata una certa soglia di età, si trovavano in condizioni di bisogno, attestato attraverso una prova dei mezzi. I sistemi tedesco e danese si possono considerare come due prototipi di tutela della vecchiaia, che si sono radicati nei vari paesi europei nella prima metà del 20° secolo. Nel dibattito internazionale essi vengono denominati modello bismarkiano (Otto von Bismark, cancelliere tedesco) e modello beveridgeano (Lord Beveridge). Quest’ultimo fu l’ideatore di un piano di riorganizzazione del sistema di protezione sociale britannico, che orientò le riforme attuate dopo la 2gm. I due modelli presentano caratteristiche differenti in relazione a 5 dimensioni istituzionali: Il modello bismarckiano ha come obiettivo il mantenimento del tenore di vita dei lavoratori durante la fase di quiescenza, pertanto le prestazioni sono collegate al precedente reddito da lavoro e finanziate tramite contributi da parte della popolazione occupata. Tale versamento costituisce la condizione per accedere al programma e percepirne le prestazioni. La copertura è di tipo occupazionale, nel senso che sono i lavoratori (e non i cittadini) ad essere assicurati e a pagare per la propria assicurazione. Al contrario il modello beveridgeano assume come riferimento il cittadino anziano in stato di bisogno. L’obiettivo è la prevenzione della povertà attraverso l’erogazione di prestazioni a somma fissa, indipendentemente dalla partecipazione al mercato del lavoro, finanziate tramite gettito fiscale. Nei primi decenni del 20° secolo la forza attrattiva del modello danese si espande nell’area scandinava ed anglosassone (Inghilterra, Svezia, Norvegia e Finlandia), mentre lo schema tedesco viene acquisito dalle nazioni dell’Europa continentale e mediterranea (Austria, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Italia). La fase che consegue, e che dura fino alla 2gm, viene detta “di consolidamento”: non ci sono cambiamenti sostanziali, solo alcune estensioni di copertura, incrementi di prestazioni e abbassamenti dell’età pensionabile (Italia, Francia, Germania). L’ITALIA: SCELTA ORIGINARIA E SVILUPPI FINO ALLA 2 GM Nella fase originaria l’Italia si colloca tra i paesi bismarckiani: nel 1919 venne istituito uno schema obbligatorio per la tutela della vecchiaia e invalidità, nonché la costituzione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali. Sono soggetti all’obbligo contributivo gli operai, gli impiegati con retribuzione inferiore alle 350 lire, i mezzadri e gli affittuari. Le caratteristiche dello schema sono: • Finanziamento contributivo paritario tra lavoratori e datori di lavoro, con una quota a carico dello stato; • Gestione delle risorse a capitalizzazione; • 65 anni di età; • Sistema ibrido di calcolo delle prestazioni: agganciate ai contributi versati, ma con tassi di rivalutazione predeterminati L’impostazione bismarkiana, con la sua caratteristica frammentazione (schemi diversi per categorie occupazionali diverse) si rafforzano durante il periodo fascista. Nel ’23 venne emanato un decreto che estendeva la copertura agli impiegati con retribuzione fino 800 lire mensili, ma escludeva i lavoratori agricoli. Questo fece diventare l’assicurazione sociale un beneficio per soli lavoratori dipendenti, e tale rimarrà fino agli anni ’50. In generale il ventennio fascista non si caratterizzò per radicali trasformazioni, si trattò principalmente di una fase di consolidamento fino agli ultimi anni del regime (1939-1945), in cui, per recuperare consensi, vennero introdotte nuove riforme: la pensione di reversibilità e la riduzione dell’età pensionabile con distinzione di genere (uomini 60 anni, donne 55). Negli ultimi mesi del regime si registra il superamento del principio del finanziamento paritario, accollando ai datori di lavoro i 2/3 dell’onere contributivo e ai lavoratori il 3 rimanente. LA TUTELA DELLA VECCHIAIA NELLA FASE ESPANSIVA Al termine della 2gm i sistemi pensionistici europei presentano assetti differenti a causa della originale distinzione tra sistema bismarkiano e sistema beveridgeano. Si possono però cogliere caratteristiche comuni: i sistemi pensionistici si fondano tutti su schemi pubblici, sono poco articolati ed erogano prestazioni modeste. Nel trentennio postbellico, sullo sfondo delle favorevoli condizioni economiche e demografiche (crescita economica, società giovane, base occupazionale in espansione), e nel quadro del paradigma dominante keynesiano, i governi iniziano ad accogliere le richieste di gruppi di pressione e partiti per l’estensione della copertura. La politica pensionistica a carattere distributivo diviene uno strumento di competizione tra le varie forze politiche. L’irrobustimento della tutela nella fase espansiva avviene lungo 3 direttrici di sviluppo, comuni ai due modelli: • Individuazione di nuovi metodi di finanziamento e gestione delle risorse; • Rafforzamento della protezione di base; • Introduzione di nuove prestazioni e/o incremento della generosità di quelle esistenti. Pur sostenuta da condizioni simili, l’evoluzione degli schemi pensionistici assume tratti differenti in relazione al modello adottato nella fase originaria. Il primo intervento deriva da un fattore di crisi contingente: l’inflazione attivata dal secondo conflitto mondiale. Nei paesi con sistemi bismarckiani, che in origine avevano istituito schemi a capitalizzazione, l’impennata del costo della vita erode le casse previdenziali e riduce il valore delle prestazioni. Molti governi fanno fronte a tale emergenza rimpiazzando la gestione a capitalizzazione con il metodo a ripartizione, che permette di trasferire immediatamente parte del reddito nazionale ai beneficiari delle prestazioni di vecchiaia. L’esigenza primaria rimane il rafforzamento della protezione di base. I paesi bismarkiani costruiscono una rete di protezione per gli anziani in stato di bisogno introducendo una pensione sociale di importo modesto, erogata a fronte di una prova dei mezzi. I paesi beveridgeani (che già disponevano di questo schema), eliminano la prova dei mezzi estendendo la copertura a tutti i cittadini anziani. La pensione sociale divenne pensione di base. La crescita economica tipica dell’età dell’oro si riflette sull’espansione dei consumi e sull’innalzamento del tenore di vita, soprattutto tra le classi medie. È quindi esprime invece la spesa, calcolata come prodotto tra la pensione media e il numero dei pensionati. A partire dalla metà degli anni ’70, il mutamento delle dinamiche demografiche ed economiche hanno alterato l’equilibrio dei sistemi pensionistici a ripartizione sia sul versante delle entrate che in quello delle uscite. Per quanto concerne le entrate (RLK), i fattori di crisi sono: • Il rallentamento della crescita economica, che incide sull’andamento del fattore R; • L’aumento dei tassi di disoccupazione, che riduce la platea (L) sui cui prelevare contributi; • La modificazione della struttura demografica della società (dovuta al declino dei tassi di fertilità e all’allungamento della vita media), che tende a contrarre il numero degli occupati (L) ed aumentare quello dei pensionati (N). Sul versante delle uscite (PN), gli elementi cruciali sono la generosità delle prestazioni, il numero delle pensioni erogate e la durata delle erogazioni stesse. L’invecchiamento demografico rappresenta il principale fattore di aumento della spesa pensionistica e dello squilibrio finanziario dei sistemi a ripartizione, anche se ha un impatto indiretto. Sulla sostenibilità finanziaria degli schemi a ripartizione incide invece direttamente l’andamento dei rapporti tra pensionati e popolazione occupata, denominato indice di dipendenza economica dei pensionati. Tale rapporto non dipende solo dall’andamento demografico, ma anche dalle scelte di policy in materia pensionistica, della politica del lavoro, delle misure per la famiglia eccetera. Con quest’ultima considerazione possiamo comprendere i fattori endogeni sopra citati, che hanno a che fare con: • L’evoluzione istituzionale degli schemi previdenziali; • Le specifiche scelte in campo di politica sociale e del lavoro Per queste ragioni i sistemi pensionistici monopilastro hanno sofferto di una sindrome comune, caratterizzata da costi crescenti e divari tra contributi e prestazioni. Riconsideriamo la formula proposta in precedenza, modificata così: K=PN/RL A fronte di un aumento della spesa pensionistica (PN) più rapido della crescita del montante retributivo (RL), il fattore (PN/RL) tende ad aumentare. Ciò significa che, per riportare in equilibrio il sistema senza operare tagli alle prestazioni si deve intervenire sul prelievo contributivo (K), portandolo al livello in cui è soddisfatta l’uguaglianza K=PN/RL, oppure si raggiunge l’equilibrio con K aliquota contributiva di equilibrio. L’aumento delle aliquote contributive ha rappresentato il principale provvedimento adottato per fronteggiare la crisi previdenziale tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’90. Entrambe le strategie hanno consentito di evitare tagli alle pensioni, garantendo il mantenimento delle promesse effettuate nella fase espansiva. Negli ultimi due decenni, le trasformazioni internazionali ed europee hanno esercitato un’ulteriore pressione sulle strutture previdenziali, in particolare i fenomeni di liberalizzazione e internazionalizzazione dei mercati, che hanno agevolato i processi di delocalizzazione della produzione verso paesi con un più basso costo del lavoro. Un altro stimolo verso la riduzione della spesa è stato il passaggio ai “parametri di convergenza” inclusi nel Trattato di Maastricht, che hanno imposto forti vincoli di bilancio. Un altro fattore di crisi fu quello della famiglia: durante la fase espansiva i programmi pensionistici erano stati disegnati per il modello del male breadwinner, cioè erano fondati sulla famiglia monoreddito, garantito dal capofamiglia maschio, con una carriera non frammentata e un periodo di contribuzione prolungato. La maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’aumento delle forme di lavoro flessibili, nonché il diffondersi di nuovi modelli familiari, hanno prodotto un ulteriore effetto di spiazzamento degli assetti politici esistenti. LA RIFORMA DEI SISTEMI PENSIONISTICI MONOPILASTRO A partire dai primi anni ’90, in tutti i paesi europei con un sistema pensionistico incentrato sul pilastro pubblico a ripartizione sono state adottate riforme dirette a contenere la spesa pubblica per le pensioni, a ridisegnare l’architettura pensionistica e ad adattare gli schemi alle mutate esigenze sociali. Le riforme hanno seguito due diverse traiettorie. La prima traiettoria ha previsto una serie di interventi sottrattivi, detti parametrici (poiché agiscono sui parametri fondamentali degli schemi, mantenendo inalterata l’architettura complessiva del sistema), finalizzati a ristabilire l’equilibrio finanziario e la sostenibilità economica del primo pilastro. Tali interventi hanno riguardato: • L’innalzamento dell’età pensionabile; • La diminuzione dell’importo delle prestazioni tramite: • Riduzione dell’aliquota di rendimento • Estensione del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione • Modificazione del meccanismo di indicizzazione delle prestazioni L’istituzione di un più stretto legame tra contributi versati e prestazioni erogate tramite: • Passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo • Estensione dei periodi contributivi minimi per accedere alle pensioni, sia di vecchiaia che di anzianità Queste misure sono state accompagnate da altre misure volte ad adattare gli schemi pensionistici al mutato contesto sociale ed occupazionale, ad esempio sono stati introdotti dei “crediti contributivi” (sussidio di disoccupazione) per i periodi di non occupazione, nonché da riforme di politica del lavoro volte ad aumentare il tasso di occupazione ed allargare la base contributiva. La seconda traiettoria ha riguardato una serie di riforme strutturali, volte a modificare l’architettura del sistema pensionistico con lo spostamento di parte della spesa su schemi privati a capitalizzazione. Lo stato ha definito il regolamento per le forme pensionistiche complementari (es. fondi pensione) e predisposto incentivi fiscali volti a favorire lo sviluppo del secondo e terzo pilastro, accanto ad un primo pilastro pubblico ridimensionato. Queste riforme sono state però particolarmente insidiose per via del cosiddetto problema del doppio pagamento: durante la transizione dal sistema a ripartizione a quello a capitalizzazione (cioè ad un sistema multipilastro), le generazioni attive dovrebbero pagare due volte. Da un lato essi devono continuare a finanziare il sistema per garantire il pagamento delle prestazioni in essere, dall’altro dovrebbero versare i contributi nei fondi a capitalizzazione per la loro pensione futura. La transizione verso un assetto multipilastro è stata comunque intrapresa in tutti i paesi con assetto monopilastro, ma sono state messe in atto diverse strategie per superare il problema dei costi di tale transazione. LA POLITICA PENSIONISTICA NEI PAESI MULPILASTRO ED EX COMUNISTI SISTEMI MULTIPILASTRO A metà degli anni 70 lo stato assicura soltanto una protezione di base e gli schemi privati a capitalizzazione hanno ancora una diffusione piuttosto limitata. Alcune sfide esogene, in particolare l’invecchiamento demografico, incidono anche sui sistemi multipilastro, tuttavia l’istituzione e la maturazione degli schemi a capitalizzazione ne diminuisce l’impatto. Accanto a limitati interventi sottrattivi, la politica pensionistica multipilastro mantiene un carattere espansivo e di adattamento al mutato contesto sociale, con interventi che mirano a: estendere le forme di copertura degli schemi cfomplementari tramite forme di inclusione obbligatoria; migliorare la tutela dei diritti dei pensionati, la portabilità delle prestazioni e l’armonizzazione delle regole tra uomini e donne; più robusti elementi redistributivi nel primo pilastro rafforzando la tutela di base. PAESI EX COMUNISTI In questi paesi la sfida cruciale è rappresentata dal collasso del blocco sovietico, che avvia la doppia transizione verso l’economia di mercato e la democrazia. Nella prima fase della transizione le pensioni vengono utilizzate come strumenti di riduzione dell’offerta di lavoro, con conseguente aumento della spesa. Dalla fine degli anni ’90 si delineano due diverse traiettorie: • In Repubblica Ceca e Slovenia il sistema rimane incentrato sul pilastro pubblico di stampo bismarckiano, con l’adozione di riforme parametriche volte a migliorarne la sostenibilità finanziaria. Inoltre vengono gettate le basi per un’evoluzione multipilastro in futuro; • Nella maggior parte dei paesi (Estonia, Lettonia, Bulgaria, Polonia e Slovacchia) viene intrapreso un cambiamento più innovativo, con l’introduzione dell’adesione obbligatoria a fondi a capitalizzazione a contribuzione definita, accanto ad interventi parametrici sugli schemi pubblici. GLI ANNI OTTANTA E LA «QUESTIONE PREVIDENZIALE» IN ITALIA All’inizio degli anni ’80 il sistema pensionistico italiano presentava una chiara configurazione monopilastro, incentrata su un sistema pubblico a due livelli: • Il primo volto a contrastare la povertà (pensione sociale e integrazione al minimo) • Il secondo composto da schemi a ripartizione con prestazioni collegate al reddito da lavoro La maggior parte della popolazione occupata era (ed è tuttora) iscritta a 6 diversi regimi pensionistici: 4 rivolti al settore privato (uno per i lavoratori dipendenti, tre per le principali aree di lavoro autonomo-agricoli, artigiani, commercianti), e 2 per i dipendenti pubblici (uno per i dipendenti statali, uno per i dipendenti della pubblica amministrazione locale). La frammentazione del sistema è resa ancora più acuta dai provvedimenti adottati nella fase espansiva, che hanno condotto al cosiddetto “labirinto delle pensioni” (schemi diversi, regole diverse). In Italia la crisi del sistema di welfare appare in forma particolarmente acuta. A partire dalla metà degli anni ’70 le difficoltà di natura esogena che ha dovuto affrontare sono: • Le difficoltà occupazionali- alto tasso di disoccupazione; • La debole crescita economica; • L’emergenza demografica, per effetto della brusca riduzione del tasso di fertilità (sotto la media europea), e l’allungamento della vita media (sopra la media europea). In più, il settore pensionistico mostra molte criticità per quanto riguarda la sostenibilità finanziaria e l’equità distributiva, frutto delle scelte di policy. Le cause endogene riguardano: • Un rapido aumento della spesa, non bilanciato dall’aumento delle entrate; • Il deficit strutturale delle gestioni per i lavoratori autonomi; • Dilemmi distributivi orizzontali (tra categorie) e verticali (per via della formula redistributiva del ’69, che favoriva quei lavoratori con consistenti aumenti negli ultimi anni di carriera); • L’elevato livello delle prestazioni a fronte di requisiti contributivi bassi. A tali criticità si aggiungono l’assoluta inconsistenza dei pilastri complementari a capitalizzazione e l’esistenza di prestazioni obbligatorie di fine servizio per i dipendenti privati (TFR) e pubblici (indennità di buonuscita). IL TFR Il TFR era, ed è tuttora, una prestazione di fine servizio che le imprese devono obbligatoriamente corrispondere ai dipendenti in caso di risoluzione del rapporto di lavoro: pensionamento, cambio di occupazione e licenziamento. Il TFR è finanziato dai contributi sociali e opera come uno schema previdenziale a prestazione definita per i dipendenti del settore privato; esso è essenzialmente concepito come una forma di salario differito per tutti i dipendenti privati. Poiché è erogato in un’unica soluzione e non necessariamente al momento del pensionamento, non può essere considerato una prestazione pensionistica. Per la sua natura il TFR ha spesso svolto il ruolo di sussidio di disoccupazione. VERSO LA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA: LE RIFORME SOTTRATTIVE IMPOSSIBILI Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90 la questione previdenziale entrò nell’agenda di 15 governi, 8 presidenti del consiglio e 9 ministri del lavoro. Le riforme presentavano obiettivi e parametri simili, finalizzati al contenimento dei costi e all’armonizzazione delle regole tra i vari schemi. Nessun provvedimento sottrattivo però riesce a raggiungere il termine del processo legislativo, poiché i piani di riforma venivano continuamente abbandonati a causa del cambio di governo (ogni 300 giorni circa), oppure stralciati e inclusi in provvedimenti (paradossalmente) espansivi. Tra gli interventi espansivi vanno menzionati l’abolizione del tetto sulla retribuzione pensionabile e l’estensione del metodo retributivo alle 3 grandi categorie di lavoratori autonomi assicurati presso l’INPS (agricoli, artigiani, commercianti). Quest’ultimo provvedimento è molto importante: in primis perché sancisce la radicazione dell’obiettivo del mantenimento di un reddito elevato tramite gli schemi di primo pilastro, in più introduce l’ennesimo elemento distorsivo sul piano dell’equità tra le varie categorie, poiché favorisce i lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti. I fattori di policy che possiamo individuare per spiegare l’incapacità di mettere in atto riforme incisive sul piano pensionistico sono: • La mancanza di consenso circa la gravità della crisi della previdenza; • La peculiarità del sistema politico italiano: un sistema connotato da elevata frammentazione e polarizzazione, composto da governi deboli, sostenuti da coalizioni ampie ed eterogenee spesso in conflitto. Si può dire quindi che negli anni ’80 il governo italiano disponesse di un’autonomia ancora troppo limitata, e che fosse troppo spesso coinvolto in scontri con il parlamento per potersi dedicare ad interventi rischiosi sul piano elettorale come l’adozione di politiche sottrattive. Era molto più agevole continuare a perseguire politiche distributive, tramite provvedimenti espansivi che venivano temporaneamente bilanciati dall’innalzamento delle aliquote. Sarà solo con l’inizio degli anni ’90 che si chiuderà il periodo espansivo del sistema pensionistico italiano. Il periodo che va dal 1992 al 2012 registra una serie di incisive riforme caratterizzate da misure sottrattive sul pilastro pubblico e interventi volti ad avviare la transizione verso un sistema multipilastro. Questi due decenni sono stati suddivisi in 3 fasi distinte: • Dal 1992 al 1997- fase di emergenza- per via della crisi economica e politica che investe l’Italia si sono rese necessarie riforme di urgenza, tra cui citiamo la riforma Amato e la Dini; • 1997-2007- caratterizzata da nuove riforme previdenziali di tipo parametrico, a volte contraddittorie tra loro; • 2008-2011- seconda fase di crisi- conduce all’adozione di nuovi interventi emergenziali che culminano con la riforma Fornero. LA FASE DELL’«EMERGENZA»: LE RIFORME NEL NOME DEL «RISANAMENTO» E DELL’EUROPA Il periodo si apre con i provvedimenti del governo Amato (1992), prosegue con la riforma Dini (1995) e termina con l’aggiustamento del governo Prodi (1997). Questa prima serie di interventi sottrattivi ha avviato un percorso volto all’equilibrio finanziario, alla sostenibilità economica e alla transizione verso un assetto multipilastro, favorendo lo sviluppo di pilastri complementari a capitalizzazione. Benché incisivi, gli interventi parametrici hanno spesso previsto lunghi periodi di transizione, i cui costi sono stati scaricati sulle generazioni più giovani. Inoltre, la fase ha anche registrato il fallimento del progetto di riforma elaborato dal primo governo Berlusconi. CRISI MULTIDIMENSIONALE E RIFORMA AMATO DEL 1992-1993 La riforma pensionistica adottata dal governo Amato si colloca nel quadro della grave crisi economico- finanziaria e politico-istituzionale (denominata multidimensionale) che attraversa l’Italia. Il trattato firmato a Maastricht nel 92 stabilisce un obiettivo del 3% per il rapporto deficit/PIL e del 60% di debito/PIL. L’Italia è molto lontana da entrambi gli obiettivi, e per non rischiare di restare fuori dall’UEM è costretta ad una serie di risanamenti. Il quadro politico interno è in mutamento, scompaiono DC, PSI, PSDI, PLI, e PRI, mentre a sinistra avviene la scissione tra PCI e Rifondazione comunista. Il socialista Amato, nominato presidente del Consiglio, costituisce un governo parzialmente tecnico ed accetta la rischiosa sfida di intraprendere il percorso di risanamento della finanza pubblica. Dopo l’adozione di alcune trascurabili misure sottrattive, si registra un’accelerazione durante l’estate del 92, quando, per bloccare l’ondata speculativa contro la valuta nazionale, opta per la svalutazione della lira. L’operazione ha successo e, nonostante il malcontento dei sindacati, si procede verso il completamento della riforma: prima viene approvata la legge che delega il governo a ristrutturare l’assetto della previdenza, poi vengono approvati i d.lgs. 503 e 124. Il d.lgs. n.503 prevede una serie di importanti misure parametriche sottrattive sul pilastro pubblico volte a: • Migliorare la sostenibilità economico- finanziaria; • Avviare l’armonizzazione normativa e di trattamento tra le diverse categorie professionali, specialmente tra dipendenti pubblici e privati. I due obiettivi vengono perseguiti con: • L’innalzamento di 5 anni dell’età pensionabile; • L’eliminazione delle baby pensioni; • L’estensione del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione; • La modifica del meccanismo di indicizzazione delle pensioni, che non saranno più rivalutate in base all’aumento delle retribuzioni ma agganciate all’inflazione. Questo permette per la prima volta di intaccare le pensioni già in essere. Con il d.lgs n.124 Amato definisce il primo framework regolativo per lo sviluppo dei pilastri complementari. Le scelte inziali prevedevano che si potessero costituire forme pensionistiche complementari esclusivamente a capitalizzazione, con l’erogazione di prestazioni a contribuzione definita. Il problema principale consisteva però nel trovare le risorse necessarie per avviare la transizione (nonché per evitare il problema del doppio pagamento), per questo il governo Amato introduce la possibilità di utilizzare il TFR per finanziare i fondi complementari. Questa decisione sarà carica di conseguenze: tramite un assetto decisionale corporativo si delinea un’opposizione delle parti sociali verso l’esclusione del trasferimento obbligatorio del TFR a fondi a capitalizzazione, per questo il governo è stato costretto, tramite concertazione tra le parti, ad accettare che l’adesione sia sempre individuale e volontaria. Nel dettaglio, la previdenza complementare è si volontaria, ma i lavoratori entrati nel mercato del lavoro dopo il 1993 devono versare obbligatoriamente e integralmente il TFR ai fondi pensione, nel caso in cui decidano di sottoscrivere un piano pensionistico complementare. Inoltre, le parti sociali acconsentono a trasferire il TFR purché sia previsto un quadro regolativo a favore delle forme occupazionali di secondo pilastro. Il decreto delinea infatti due tipi di fondi complementari: • I fondi pensione chiusi o negoziali, che potranno essere creati tramite la contrattazione collettiva. Rappresentano forme di secondo pilastro caratterizzate dal ruolo centrale dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, sia nell’istituzione sia nel controllo dei fondi stessi; DOPO IL 1992: RIFORME SOTTRATTIVE E TRANSIZIONE A UN SISTEMA PENSIONISTICO MULTIPILASTRO • L’estensione delle agevolazioni fiscali a tutte le forme pensionistiche complementari, compresi i fondi pensioni aperti e i PIP. Il provvedimento è di fondamentale importanza per due ragioni: • Esso contribuisce ad alterare l’originario impianto della previdenza complementare; • Esso incrementa le risorse destinate alla previdenza complementare, con la definizione di un trattamento fiscale molto favorevole e quindi più adatto a sostenere lo sviluppo dei pilastri a capitalizzazione. Terminata la fase dei governi di centro-sinistra, le elezioni del 2001 vedono l’affermarsi di una coalizione di centro destra, con Berlusconi nuovamente presidente del consiglio e il leghista Maroni ministro del welfare. Proprio Maroni, nel 2001 e 2002 istituisce due commissioni per l’analisi del settore previdenziale e la formulazione di alcune proposte di intervento, presiedute rispettivamente da Brambilla e Cazzola. Entrambe le commissioni effettuano una ricognizione sugli effetti delle riforme precedenti, mettendo in evidenza i risultati conseguiti e le criticità ancora da affrontare. LA VALUTAZIONE DELLE RIFORME: LE COMMISSIONI BRAMBILLA E CAZZOLA Le riforme degli anni ’90 hanno evitato il collasso del sistema, agendo sia sul contenimento dei costi, sia sull’armonizzazione normativa e sull’equità intergenerazionale. In particolare sul primo versante, il contenimento dei costi, la situazione è tranquillizzante nel lungo periodo, mentre nel breve si evidenziano ancora alcune criticità riguardanti i trend di spesa e le disparità di trattamento tra le diverse categorie occupazionali, riconducibili alla lenta transizione verso il sistema contributivo. Rispetto al lungo periodo appare invece opportuno intraprendere azioni volte a garantire prestazioni pensionistiche adeguate anche per le giovani generazioni, poiché la riduzione della spesa resa possibile grazie al metodo contributivo prevede anche una riduzione drastica delle prestazioni nel lungo periodo. Le riforme degli anni ’90 hanno quindi investito in modo particolare le generazioni successive, mentre non hanno intaccato in alcun modo le spettanze dei lavoratori più anziani. I dati elaborati dalla commissione Cazzola mostrano infatti come il tasso di sostituzione (tasso che esprime il rapporto percentuale tra pensionamento e ultima retribuzione lorda percepita) sia sostanzialmente fermo fino al 2010, ma che poi diminuirà drasticamente negli anni successivi, fino a venire dimezzato entro il 2030. La commissione suggerisce quindi due strategie volte a compensare la diminuzione del tasso di sostituzione e a garantire prestazioni di livello adeguato anche in futuro: • Il prolungamento dell’attività lavorativa, che nel sistema contributivo si traduce in un maggiore importo delle pensioni; • L’integrazione delle pensioni pubbliche con prestazioni complementari di secondo e terzo pilastro. Purtroppo nei primi anni 2000 le cifre dei pilastri complementari sono ancora insufficienti, e i giovani che aderiscono alla previdenza complementare sono ancora pochissimi. LE RIFORME NELLA FASE DELL’ALTERNANZA BIPOLARE: DA BERLUSCONI A PRODI Le questioni sollevate dalle commissioni verranno affrontate tra il 2002 e il 2007, in un quadro politico ed economico decisamente mutato. Sul fronte economico si iniziano a raccogliere i frutti delle riforme, con discreti livelli deficit/PIL e una lenta diminuzione del debito pubblico. Questi si accompagnano tendenze positive in termini di tassi di occupazione. Sul piano politico l’Italia sembra avviarsi verso una chiara configurazione bipolare, poiché le dinamiche competitive coinvolgono due coalizioni: Forza Italia (Berlusconi) e l’Ulivo (Prodi). Saranno queste due coalizioni ad alternerarsi al governo tra il 2001 e il 2008, e tale dinamica si rifletterà anche nell’area pensionistica, traducendosi in progetti di riforma contraddittori, che includono sia misure sottrattive sia misure espansive. IL CENTRO DESTRA E LA RIFORMA MARONI-TREMONTI Come messo in evidenza dalle commissioni sopra citate, nel 2001 ci sono ancora da affrontare due questioni fondamentali: • L’incremento della spesa a breve-medio termine, prima che possano avvertirsi gli effetti del metodo contributivo; • L’adeguatezza delle prestazioni per le generazioni più giovani, nonché per tutte quelle persone che non riescono ad accedere alle prestazioni previdenziali e che fanno affidamento sulle prestazioni minime assistenziali (pensione sociale, assegno sociale, integrazione al minimo) Il piano di riforma presentato nel 2001, oltre a prevedere il prolungamento della vita lavorativa, mira ad introdurre un profondo mutamento istituzionale del sistema attraverso una ridefinizione dei pesi dei diversi pilastri pensionistici. Le misure cruciali sono: • La riduzione del prelievo contributivo nel primo pilastro per i nuovi assunti; • Il trasferimento obbligatorio del TFR ai fondi pensione Per ciò che concerne l’innalzamento dell’età pensionabile (per migliorare le prestazioni per i più giovani) il governo intende agire tramite la liberalizzazione del limite dell’età pensionabile (65 anni), l’introduzione di incentivi per coloro che decidono di prolungare l’attività lavorativa anche avendo i requisiti per accedere ad una pensione di anzianità, e l’eliminazione del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro. Il progetto suscita molte proteste sindacali, e il disegno di legge viene fermato e riconsiderato. La riforma viene approvata solo a seguito dell’eliminazione di alcune misure considerate drastiche: la decontribuzione per i nuovi entrati nel mercato del lavoro viene eliminata e le norme sul TFR vengono riviste. Per il primo pilastro quindi la riforma Maroni-Tremonti appare come una versione annacquata del piano iniziale, e prevede alcuni aggiustamenti parametrici volti a prolungare la permanenza al lavoro degli occupati più anziani attraverso misure diverse per diversi periodi: a breve termine sono previsti incentivi che consistono nel versamento di tutti i contributi in busta paga, nel lungo termine invece viene abolita l’età pensionabile flessibile e reintrodotta l’età di pensionamento fissa e differenziata per sesso (come previsto dalla riforma ALTERNANZA POLITICA E NUOVE RIFORME PENSIONISTICHE NEGLI ANNI DUEMILA Amato, 65 anni per gli uomini e 60 per le donne). Per quanto concerne la previdenza complementare, il governo modifica l’iniziale trasferimento obbligatorio del TFR in un meccanismo di silenzio-assenso: a partire dal 1° gennaio 2008 i lavoratori avranno 6 mesi per decidere la destinazione del TFR, altrimenti esso confluirà al fondo complementare collettivo di riferimento. Sul fronte della concorrenza tra le diverse forme pensionistiche viene stabilito che i lavoratori possono decidere indifferentemente di versare il TFR a fondi privati o aperti, e che la posizione individuale possa essere trasferita dopo solo 2 anni di iscrizione. Infine, per favorire lo sviluppo del settore, vengono introdotte agevolazioni fiscali con riferimento alla fase di contribuzione. IL CENTRO-SINISTRA E LA RIFORMA DAMIANO Durante il secondo governo Prodi vengono adottati nuovi provvedimenti, inclusi nella riforma Damiano. La nuova riforma interviene in modo ambivalente: • Misure espansive: il requisito anagrafico di 60 anni e 35 anni di contribuzione viene ammorbidito con una serie di scalini che prevedono un aumento da 57 a 58 anni nel 2008 e un successivo inasprimento dei requisiti attraverso un sistema di quote. Vengono inoltre incrementate le pensioni più basse; • Misure sottrattive: riduzione dei coefficienti di trasformazione, revisione triennale di tali coefficienti, eliminazione dell’obbligo di consultazione delle parti sociali, implementazione del silenzio-assenso. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dal delinearsi di una nuova crisi globale a più dimensioni: • Sul fronte economico-finanziario, il quadro italiano è contrassegnato da grandi difficoltà economiche, nonché da tassi di disoccupazione molto alti; • Sul fronte politico-istituzionale, il progressivo sfaldarsi della maggioranza a sostegno di Berlusconi (anche a seguito delle inchieste che lo hanno coinvolto), ha segnato l’inizio di un governo a forte connotazione tecnica, il governo Monti. NUOVI VINCOLI ESTERNI I nuovi interventi sul settore pensionistico sono stati indotti da pressioni dirette e indirette. L’Italia si è ritrovata a far fronte a nuovi vincoli esterni, derivati dalla partecipazione all’UE. In quanto paese debole dell’Eurozona, l’Italia è finita sotto la lente di ingrandimento degli organi comunitari (BCE in primis), che hanno richiesto agli italiani interventi sottrattivi d’emergenza sul sistema pensionistico. Il primo provvedimento di riforma è stato adottato dal governo Berlusconi nel 2009, in risposta ad una pressione diretta e non derogabile della sentenza della Corte europea della giustizia, che ravvisa nella diversa età di pensionamento una discriminazione a danno dei lavoratori maschi. Il governo coglie l’occasione per puntare ad una riduzione della spesa tramite l’equiparazione dell’età pensionabile a 65 anni per entrambi i sessi, ma a causa dell’ennesima spaccatura interna questa legge viene ritardata fino all’emergere della crisi greca. A quel punto la Commissione Europea va ad imporre all’Italia l’equiparazione dell’età pensionabile nel settore pubblico entro il 2012. Nel settore privato permane ancora l’età differenziata. GLI INTERVENTI NELLA FASE 2009-2011 I provvedimenti adottati in questo triennio hanno rappresentato risposte a pressioni indirette. Gli interventi hanno avuto come obiettivo principale il contenimento dei costi a breve termine, e sono contenuti in 3 provvedimenti denominati “provvedimenti anticrisi”. Il primo pacchetto anticrisi del 2009 prevede interventi sull’età pensionabile delle dipendenti pubbliche e un’importante misura volta a rafforzare i meccanismi automatici di contenimento della spesa previdenziale. Il secondo pacchetto anticrisi del 2010 rende invece operativo il meccanismo che avrebbe dovuto avviarsi nel 2015, con incrementi automatici triennali dei requisiti di accesso. In ultimo, inclusa nel decreto salva Italia, abbiamo la riforma Fornero, che ha mirato ad inasprire le condizioni di accesso al pensionamento nel breve-medio periodo sulla base dei seguenti criteri: • Armonizzazione entro il 2018 dell’età pensionabile per le donne dipendenti del settore privato; • Revisione del meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita; • Età pensionabile pari a 67 anni nel 2021; • Eliminazione del periodo di attesa delle prestazioni pensionistiche; • Eliminazione delle pensioni di anzianità; • Introduzione di una nuova pensione anticipata, con cui è stata introdotta di fatti l’età pensionabile flessibile tra 63 3 70 anni, tuttavia il pensionamento a 63 anni è possibile solo a coloro che sono integralmente soggetti al sistema contributivo e solo nel caso in cui l’importo della prestazione sia pari a 2,8 volte l’assegno sociale; in ultimo citiamo un provvedimento che ha suscitato numerose critiche e perplessità: la congelazione della rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a 1.400 euro lordi. Le riforme della quarta ondata combinano, infatti, misure volte ad ammorbidire i criteri di accesso al pensionamento con interventi di sostegno ai pensionati a basso reddito. Esse marcano, dunque, una sostanziale discontinuità con i provvedimenti delle prime tre ondate (1992-2011), segnando un ritorno a una politica pensionistica prevalentemente espansiva, promossa da dinamiche di competizione politico-elettorale domestica. RITORNO DELL’EMERGENZA E NUOVO VINCOLO ESTERNO: DALLA CRISI ECONOMICA GLOBALE AL GOVERNO MONTI IL RITORNO DEI PROVVEDIMENTI ESPANSIVI Fino al 2011\12 c’era la riforma Fornero che agiva in modo restrittivo, possibilità dello stato di ridurre le spese, toccando anche chi stava transitando. Riforme più importanti aumento età pensionabile, no pensioni anzianità, più rapida implementazione aggancio delle connessioni di accesso al pensionamento alla aspettativa di vita, introduzione pensione anticipata (flessibilità tra 63\70), ulteriori condizioni do accesso al pensionamento che riguardano il livello della pensione, applicazione integrale del metodo contributivo pro-rata a partire dal 2002. Dopo c’è una policy espansiva: la riforma Poletti-Renzi che viene definita come 4 ondata di trasformazione che ha toccato il sistema pensionistico, le riforme di questa 4 ondata combinano misure volte a trasformare per rendere più armonici i sistemi pensionistici, marcano una discontinuità importante, con questa ondata, complice una leggera crescita economica, si ritorna ad una politica prevalentemente espansiva, ma si devono considerare le dinamiche politiche che vogliono più voti. LA RIFORMA POLETTI-RENZI La riforma Poletti-Renzi 2014 prevede: • Introduzione APE (anticipo finanziario a garanzia pensionistica) che prevede la possibilità di richiedere a 63 anni un’indennità pari al valore della pensione fino a tre anni e 7 mesi, è un prestito che viene corrisposto da 12 mensilità, coperto da premorienza e viene erogato fino a quando non si arriva alla età della pensione, il pensionato una vota in pensione restituisce il prestito in rate mensile fino a 20 anni. • Ape social prevede la possibilità di richiedere a 63 anni una indennità pari al valore della pensione (fino a 1500) solo per lavoratori svantaggiati che hanno lavorato per almeno 30 anni con lavori veri. Possono chiedere questa i disoccupati da almeno 3 mesi e hanno finito integralmente la pensione della disoccupazione, chi assiste da almeno 6 mesi un coniuge con handicap grave, individui che hanno invalidità pari almeno al 74 %, chi svolge mansioni gravose ma che anni almeno 36 ani di contributi. • La manovra implementa la 14° aumentando il valore ed estende il minimo della pensione sociale (chi non ha mai versato un contributo 600\700) e chi sta 2 vote sopra il minimo viene aumentata la 14° • Il co-provvedimento sancisce che i lavoratori che accederanno all’ape alla RITA (contribuzione) significa che rimane costate un sistema multi-pilastro nato dagli anni 90 ovvero accanto al pilastro pubblico i sono anche fondi che possono essere anticipate verso un periodo pensionistico. Il meccanismo viene quindi anticipato garantendo una quota alternativa. C’è un principio oltre al cambio di rotta verso una politica espansiva, queste misure mettono in discussione l’idea che un sistema pensionistico debba prevedere un sistema uguale per tutti (equità attuariale) la riforma Poletti Renzi declina l’equità in senso sostanziale, i lavoratori non sono tutti uguale e quindi si pensano tutele più robuste per chi è più svantaggiato. Le sfide che vengono messe nel mirino con finalità equitative sono: non tutti si sono inseriti alla stessa età nel mondo del lavoro, alcune categorie sono più svantaggiate rispetto ad altre. L’altro elemento mira a correggere le pensioni tramite misure di sostegno a chi riceve poco, la no tax area, chi ha un reddito basso e paga mento tasse. La riforma Poletti Renzi non scardina la riforma Fornero, cosa che fa la riforma Di maio Salvini. LA RIFORMA DI MAIO-SALVINI Include dei provvedimenti tra cui: a. Quota cento —› Sperimentale 2019\21 varante della cancellazione della riforma Fornero. Consente il prepensionamento 41 anni per gli uomini e 40 anni per le donne di contributi. Si può andare in pensione prima se si raggiunge 100 anni tra età e contributi con un minimo di 62 anni di età e di 38 anni di contributi b. Pensione di cittadinanza —› Dispositivo che contrasta la povertà nella fase di pensionamento tramite l’erogazione di una prestazione assistenziale, con una prova dei mezzi per chi ha più di 67 anni di età con almeno 10 anni di residenza in Italia e si trovano in situazioni di difficoltà economica con un reddito annuo di meno di 9360 euro. La riforma è ancora in vigore ma anche se si sta per modificare, c’è un periodo di sperimentazione perché prevede una forte pressione sulle casse dello stato. Si è cercato di capire come sostenere il cambiamento. Siamo di fronte ad una frattura intergenerazionale dove i giovani pagano dei contributi maggiori ma avranno pensioni minori. C’è anche una frattura tra categorie professionali tra chi è subordinato e chi autonomo, differenze anche tra uomini e donne. Ci sono due fattori che hanno giocato un ruolo decisivo nell’introduzione degli interventi sottrattivi: • La combinazione di pressioni sovranazionali (UE) e internazionali (mercati finanziari), che hanno introdotto un vincolo esterno non negoziabile; • La capacità dei governi di confezionare pacchetti accettabili dai sindacati. Se pensiamo alla prima riforma Berlusconi, possiamo dire che fallì perché mirava alla sostenibilità finanziaria nel breve periodo, ma non offriva ai sindacati nessuna misura compensatoria. Contrariamente, Dini ha preso in grande considerazione le richieste delle organizzazioni dei lavoratori. Se prendiamo in considerazione invece le riforme del triennio 2009-2001, notiamo come ci fosse una bassa resistenza sindacale, anche dovuta alla non derogabilità delle sentenze della Corte Europea di giustizia. Altri fattori hanno invece rappresentato condizioni facilitanti, ma non necessarie, per l’introduzione dei provvedimenti sottrattivi: i governi tecnici, il processo decisionale concertato e la disgregazione del sistema dei partiti. Il primo obiettivo delle riforme degli anni ’90 riguardava il contenimento dei costi. Se da un lato la spesa per le pensioni rimane più alta della media Europea, dall’altro notiamo come i vari interventi siano stati in grado di ridurre la spesa. In particolare le riforme Amato e Dini hanno avuto una portata enorme per ciò che concerne la sostenibilità economica del CAPIRE LE RIFORME: SUCCESSI, FALLIMENTI E CONTENUTI DI POLICY UN QUARTO DI SECOLO DOPO: UN BILANCIO DELLE RIFORME • Il finanziamento deriva dai contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro, con una percentuale di contribuzione che cambia da paese a paese; • I requisiti di accesso sono: • La disoccupazione deve essere involontaria, cioè determinata da una decisione del datore di lavoro, non del lavoratore (salvo alcuni casi previsti dalla legge); • Il lavoratore deve soddisfare i requisiti contributivi. Questi requisiti di accesso finiscono per escludere l’accesso a coloro che sono in cerca di una prima occupazione, che non hanno potuto ottenere un’assicurazione contro la disoccupazione o ancora a coloro che hanno carriere fortemente discontinue. La fruizione del beneficio economico è anche condizionata da alcuni requisiti amministrativi, quali la presentazione di una domanda presso i servizi per l’impiego. Il disoccupato deve mostrare inoltre di essere effettivamente attivo nella ricerca del lavoro, nonché disponibile ad accettare proposte di lavoro o di formazione offerte dagli uffici per l’impiego. Il mancato rispetto di tali adempimenti è sanzionato con l’interruzione della prestazione. A fianco del primo pilastro esistono anche degli schemi assistenziali che offrono sussidi ai lavoratori privi di copertura assicurativa, il cui accesso è condizionato dalla prova dei mezzi. Il loro importo è forfettario e finanziato dal fisco. Alcuni paesi prevedono inoltre una tutela in specifiche situazioni di rischio quali, ad esempio, le integrazioni salariali per la sospensione dell’attività lavorativa a seguito di crisi aziendale (Italia= cassa integrazione). Considerando infine la spesa per queste misure, anche in questo caso possiamo notare significative differenze tra i vari paesi europei, ad esempio è molto alta per la Danimarca e in crescita per l’Italia. Per quanto riguarda il terzo sottogruppo, cioè le pratiche proattive, distinguiamo 5 tipi di intervento: • I sussidi all’occupazione (elargizione di trattamenti monetari sotto forma di incentivi); • La creazione diretta e temporanea di posti di lavoro (per favorire l’inserimento di categorie deboli); • La formazione professionale; • Il sostegno finanziario e servizi per la nuova imprenditorialità (agevolazioni per promuovere imprenditorialità ad esempio tra i giovani o tra le donne); • I servizi per l’orientamento e il collocamento lavorativo. Lo sviluppo delle politiche proattive in Europa ha seguito 3 grandi fasi: • Anni ’50, durante il periodo di crescita economica. È caratterizzata dall’introduzione di programmi di formazione professionale e di apprendistato, assieme alla creazione dei servizi di collocamento; • Anni ’70, a seguito degli shock petroliferi la situazione economica peggiora e di conseguenza sale il tasso di disoccupazione. In questa fase le politiche proattiva si orientano verso la creazione diretta di posti di lavoro; • Metà degli anni ’90, a seguito del diffondersi del paradigma dell’attivazione. Quest’ultimo si riferisce alla promozione di interventi volti ad incentivare un rapido ingresso (o reingresso) nel mondo del lavoro, eliminando o prevenendo eventuali ostacoli. In questa fase le politiche proattive si orientano verso l’offerta di servizi di collocamento, e allo stesso tempo. Vengono adottate misure volte a condizionare la percezione dei sussidi, a ridurre la loro durata e il loro importo con il passare del tempo. Il successo del paradigma dell’attivazione ha portato all’apertura di numerosi servizi per l’impiego (SPI), che vengono riformati e modificati. I principali cambiamenti riguardano: • Il decentramento delle funzioni di collocamento della manodopera e di assistenza ai disoccupati; • Il rafforzamento della collaborazione tra agenzie pubbliche e private; • Lo sviluppo e l’offerta di assistenza individualizzata; • Il coinvolgimento degli SPI nella sorveglianza dei beneficiari delle indennità. In generale l’interazione tra i 3 sottogruppi sopra presentati da vita ad un sistema di politica del lavoro, che varia da paese a paese a seconda delle caratteristiche dei singoli interventi e dei legami tra i sottogruppi stessi. Il modello originario di politica del lavoro nasce e si consolida in un momento complesso dal punto di vista economico e politico, che va dagli anni ’50 alla fine degli anni ’70. Superata l’emergenza occupazionale dell’immediato dopoguerra, l’Italia conosce una fase di crescita denominata “miracolo italiano”, caratterizzata da una profonda modificazione della struttura economica, che da agricola diventa prevalentemente industriale, nonché dalla crescita del PIL. Tale crescita è dovuta all’espansione del settore industriale e alla promozione di politiche di stampo keynesiano. L’intervento dello stato nell’economia del paese (con creazione di aziende nazionali e il rilancio di alcune grandi aziende) è al centro della strategia promossa dalla DC, che governerà il paese fino agli inizi degli anni ’90. Il modello di politica del lavoro italiano presenta delle peculiarità rispetto agli altri paesi europei, e poggia su 3 “gambe”: • La prima gamba è data da una legislazione sui rapporti di lavoro di stampo garantista, cioè volta alla tutela dell’occupazione a tempo indeterminato attraverso norme che sanzionano il licenziamento illegittimo e vietano o limitano il ricorso a forme contrattuali atipiche; • La seconda gamba riguarda il sistema di ammortizzatori sociali, incentrato esclusivamente sul pilastro assicurativo. Quest’ultimo presenta forti distorsioni distributive, poiché offre un elevato livello di tutela solo ad alcune categorie (i garantiti presentati in precedenza, cioè gli occupati a LA NASCITA E IL CONSOLIDAMENTO DEL MODELLO ORIGINARIO tempo indeterminato in aziende medio-grandi). Allo stesso tempo ci sono persone che fruiscono di bassi livelli di tutela (i semi garantiti) o ne restano esclusi (i non garantiti); • La terza gamba è costituita dal regime di monopolio del collocamento, altamente inefficace, a cui si accompagna uno scarsissimo investimento sulle politiche proattive. LA REGOLAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO Le norme sui rapporti di lavoro adottate nei primi decenni della prima repubblica si caratterizzano per una forte impronta garantista, come sopra espresso. La promozione del principio di stabilità del lavoro però giunge a compimento solo tra gli anni ’60 e i primi anni ’70: nell’Italia prefascista vigeva infatti il divieto di costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Tale divieto viene meno soltanto durante il periodo fascista, attraverso il codice civile del 1942. Il problema era che lo stesso codice civile prevedeva il principio della piena libertà di licenziamento senza giustificazione, così la regolamentazione non si traduceva ancora in una piena tutela della stabilità dei rapporti di lavoro. Tra la metà degli anni ’50 e i primi anni ’60 l’Italia conosce una fase di sostenuta crescita economica e il settore agricolo lascia il primato occupazionale al settore industriale. A questi cambiamenti si accompagna un processo di regolamentazione dei contratti di lavoro, che inizia con la l. n. 203/1962, con la quale viene disciplinato il contratto di lavoro a tempo determinato: sulla base di questa norma il lavoro a tempo indeterminato è riconosciuto come regola, mentre quello a tempo determinato rappresenta un’eccezione ammessa solo nei casi indicati dalla legge. Successivamente, con la l. n. 604/1966 viene disciplinato l’istituto del licenziamento individuale: viene espresso l’obbligo, per il datore di lavoro, di giustificare per iscritto le ragioni del licenziamento. Viene inoltre riconosciuta una forma di tutela obbligatoria del licenziamento giudicato illegittimo dal giudice del lavoro: a fronte di licenziamento senza giusta causa, il datore di lavoro è obbligato a scegliere tra la riassunzione del lavoratore o il risarcimento economico del danno. Tale legge sancisce anche il divieto di licenziamento discriminatorio. Il passo più significativo del modello garantista è comunque compiuto nel 1970, con l’adozione dello Statuto dei lavoratori, concesso dopo numerose proteste avvenute durante “l’autunno caldo” del ’69. Lo statuto tocca numerose materie, tra cui: • I diritti di libertà sui luoghi di lavoro; • La tutela del posto di lavoro, della professionalità e della salute; • La protezione delle libertà sindacali; • La disciplina della presenza sindacale sui luoghi di lavoro; • La tutela giurisdizionale delle libertà e attività sindacali. Tra le norme dello statuto che più sono state al centro del dibattito politico (e continuano ad essere, poiché è stato modificato prima con la riforma Fornero, poi con il jobs act del governo Renzi), c’è l’art.18, che disciplina le conseguenze del licenziamento illegittimo. Tale articolo stabilisce uno specifico regime sanzionatorio in caso di licenziamento privo di giusta causa, ma è applicabile solo ai lavoratori di aziende che occupano più di 15 dipendenti. L’art.18 finisce così per superare il sistema di tutela obbligatoria stabilito dalla legge 604, ed elimina la possibilità per il datore di lavoro di scegliere tra le due opzioni, in nome del solo reinserimento obbligatorio. L’apice di questa “fase affluente” della legislazione del lavoro viene raggiunto nel ’75, con l’accordo interconfederale Lama-Agnelli (Lama leader della CGL, Agnelli presidente di Confindustria). Tale accordo interviene sul meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione, agganciando direttamente i salari al costo della vita, e viene chiamato “scala mobile” o “indennità di contingenza”. Concepita inizialmente come meccanismo di tutela e livellamento dei salari, la scala mobile finirà con il favorire spinte inflazionistiche, causate da una continua rincorsa salari-prezzi-salari. LE MISURE DI SOSTEGNO AL REDDITO L’Italia interviene in anticipo rispetto a quasi tutti i paesi europei per ciò che concerne la tutela della disoccupazione. Il primo schema pubblico di assicurazione obbligatoria viene istituito nel 1919 (fino ad allora l’unico rischio sociale tutelato era l’infortunio sul lavoro). L’istituto dell’indennità della disoccupazione è riconfermato e definito durante il periodo fascista: la durata dell’indennità è di 180 giorni, la cifra è forfettaria, molto ridotta e non collegata alla precedente retribuzione. Un aspetto importante riguarda la definizione dei requisiti di accesso all’indennità, cioè: • anni di anzianità assicurativa, cioè l’iscirizione all’assicurazione per la disoccupazione almeno 2 anni prima della perdita del lavoro; • Almeno 1 anno di contribuzione nel biennio precedente l’evento. Il secondo istituto centrale del sistema di ammortizzatori sociali è rappresentato dalla Cassa integrazione guadagni (CIG), uno schema assicurativo volto a fornire protezione ai lavoratori dell’industria nel caso di sospensioni o riduzioni delle attività produttive, al fine di preservare il loro posto di lavoro. Nasce nel 1941 per far fronte ai rallentamenti produttivi durante il periodo bellico, e successivamente (nel ’47) viene estesa a tutto il territorio nazionale. Nel 1968 viene introdotta anche la Cassa integrazione guadagni a gestione straordinaria (CIGS), rivolta ai lavoratori delle imprese industriali con più di 15 dipendenti, il cui orario di lavoro è decurtato per via dei processi di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione. L’istituto della CIGS introdotto in quegli anni si differenzia molto dall’indennità di disoccupazione: • La CIGS non pone in essere un diritto all’assistenza economica ma interviene solo previa attivazione di una procedura di autorizzazione a fronte di una specifica casistica. La CIGS inoltre a differenza delle CIG è riservata solo alle aziende di una certa dimensione; • L’importo delle integrazioni salariali risulta particolarmente generoso rispetto alla somma forfettaria erogata dall’indennità di disoccupazione (80% della retribuzione per le ore non prestate). Il limite originario era di 3 mesi, ma a partire dagli anni ’70 è possibile concedere un numero indefinito di proroghe. La CIG è spesso usata impropriamente, per far fronte agli esuberi di lavoratori che non vengono riassorbiti dal mercato del lavoro. Sebbene questo valga per tutte le causali di attivazione della CIG, un caso emblematico sarà l’estensione dello schema alle situazioni di fallimento dell’azienda. La conversione dallo scopo originario della CIG avviene perché: Non esistevano altri strumenti efficaci di tutela del reddito dei disoccupati, e mancava una disciplina unitaria sui licenziamenti collettivi. A tutti gli effetti la CIG si offre di congelare i posti di lavoro, anche quelli divenuti ormai fittizi, per poter godere delle integrazioni salariali; A causa della logica dello scambio politico, vi sono state numerose convenienze da parte delle autorità pubbliche, dei datori di lavoro e dei sindacati. Lo stato innanzitutto ha a disposizione uno strumento flessibile per intervenire come mediatore di ultima istanza, in grado di alleviare l’impatto delle emergenze occupazionali e contenere (in maniera fittizia) la crescita della disoccupazione. I sindacati possono garantire una tutela relativamente buona ai lavoratori che più rappresentano, mentre i datori di lavoro possono usufruire di una misura di flessibilità in uscita che consente di rispondere alle esigenze di manodopera e aggirare le difficoltà di licenziamento. Si spiega così come mai uno strumento posto a tutela dei lavoratori abbia assunto (in Italia soltanto) un ruolo centrale. LE POLITICHE PROATTIVE Il provvedimento più rilevante nell’ambito delle politiche proattive è l’istituzione del monopolio pubblico sul collocamento e di un rigido sistema di procedure di avviamento al lavoro, disciplinati dalla l. n. 264/1949. Dopo il conflitto mondiale, i sindacati cercano di riappropriarsi delle funzioni di collocamento, che nel periodo fascista erano affidate alla camera del lavoro. L’allora ministro del lavoro, Fanfani (DC), con l legge 264 introduce le seguenti novità: • Il collocamento è una funzione che spetta allo stato in regime di monopolio. La competenza è affidata al ministero del lavoro, che opera sul territorio attraverso la rete degli uffici provinciali del lavoro. È vietata la mediazione da parte di privati (sindacati compresi); • L’avviamento al lavoro deve avvenire previa chiamata numerica: il datore di lavoro non può scegliere la persona da assumere, ma deve inoltrare una richiesta presso l’ufficio di collocamento, che provvede a selezionare le persone da avviare al lavoro sulla base di una graduatoria (lista di collocamento), in cui i disoccupati devono obbligatoriamente iscriversi. I lavoratori già occupati possono essere assunti per passaggio diretto da azienda a azienda, al di fuori della lista di collocamento. È prevista in casi eccezionali la chiamata nominativa, che consente al datore di lavoro di chiamare la persona che intende assumere. Una volta adottata la legge, la battaglia tra governi e sindacati si sposta sul fronte della mancata o cattiva applicazione della riforma: il governo è accusato di ritardi nell’applicazione della legge e di aver assegnato agli uffici di collocamento risorse troppo scarse. L’aspetto più significativo della protesta riguardava però l’aggiramento delle procedure di avviamento al lavoro, come l’elusione della chiamata numerica. Con il passare degli anni, gli uffici di collocamento si ritrovano a svolgere compiti meramente burocratici, per lo più consistenti nel rilascio del nulla osta obbligatorio per l’assunzione, necessario all’accesso alle indennità di disoccupazione. Successivamente l’attenzione del governo è costretta a spostarsi verso l’emergenza occupazionale che si era creata al termine del conflitto mondiale: per farvi fronte, vengono creati negli anni ’50 numerosi cantieri di lavoro, volti ad impiegare i disoccupati nella manutenzione delle strade, nel rimboschimento o a coinvolgerli in corsi di formazione a fronte di un sussidio economico. Si trattava di interventi sporadici e non risolutivi, inoltre spesso gli ingenti fondi messi a disposizione dei cantieri da lavoro venivano utilizzati per il rafforzamento delle reti clientelari tra partiti ed enti a loro collegati. Un altro provvedimento riconducibile alla strategia di crescita dell’occupazione perseguita in quegli anni • l’introduzione dell’apprendistato: un istituto che prevede la possibilità di assumere giovani ad un prezzo più basso di quello contrattuale, nonché di usufruire di sgravi contributivi e fiscali in cambio di una formazione professionale e in vista della loro assunzione a tempo indeterminato. Anche questo strumento contrattuale finirà per essere utilizzato per scopi diversi da quelli previsti, poiché diventerà un’occasione per i datori di lavoro di usufruire di manodopera assunta regolarmente a basso costo. • solo a partire dagli anni ’70 (a seguito dell’aumento della disoccupazione e delle proteste giovanili), che verranno adottate specifiche legislazioni in materia di politica proattiva. L. n. 285/1977 sull’occupazione giovanile, finalizzata all’inserimento dei giovani nel settore agricolo; L. quadro n. 845/1978 sulla formazione professionale, con la quale sono poste le base per la creazione di un sistema pubblico di formazione, assegnando alle neonate regioni la competenza regolativa. Anche in questo caso gli obiettivi vengono disattesi. CONCLUSIONI Nel periodo che va dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 emerge e si consolida l’intervento pubblico nelle politiche del lavoro. Tale modello è incentrato sulla tutela del lavoratore adulto e maschio, a causa della limitata partecipazione lavorativa delle donne. La famiglia ha la funzione di ammortizzatore sociale. I provvedimenti adottati mirano alla difesa del posto di lavoro e del salario. L’istituzione e il consolidamento di questo modello di politica del lavoro porta all’emergere di una serie di dualismi, cioè disparità di trattamento delle persone, e ciò vale per tutti e 3 i sottoinsiemi sopra elencati: Il dualismo istituzionale nella regolazione dei rapporti di lavoro, in particolare la disciplina del licenziamento contenuta nell’art.18, che favorisce solo i dipendenti di aziende medio- grandi; Il dualismo presente nelle misure di sostegno al reddito: a fronte del medesimo rischio, i lavoratori ricevono una diversa tutela a seconda del tipo di azienda un cui sono assunti, da loro rapporto di lavoro e della loro storia contributiva. Il sistema originario di ammortizzatori sociali si articola intorno a 2 schemi assicurativi, entrambi di primo pilastro: Il primo, ipertrofico, riguarda i provvedimenti che offrono un buon livello di protezione (CIG), che sono riservati solo ai garantiti e che comunque non configurano un diritto soggettivo dei lavoratori, poiché le procedure di attivazione sono fruibili solo dal datore di lavoro; Il secondo, sottosviluppato, consiste nell’indennità ordinaria di disoccupazione, accessibili solo ai possessori di requisiti di anzianità (i semigarantiti). L’assenza di schemi di secondo e terzo livello non da alcuna tutela alle persone in cerca della prima occupazione e altre categorie di lavoratori (i non garantiti). Il dualismo presente nelle misure di collocamento pubblico: la quota di persone in cerca di occupazione e di aziende in cerca di personale è bassissimo. Il sistema tende così a favorire la convivenza di due regimi: uno liberistico, in cui il datore di lavoro può scegliere chi assumere, e uno vincolistico, soggetto al meccanismo dell’alternanza delle coalizioni di centro-destra e centro-sinistra. Nella seconda metà degli anni ’90, la stagione delle concertazioni prosegue con altri 3 accordi: • Nel 1995 il governo tecnico di Dini raggiunge un’importante intesa in materia di previdenza sociale; • Nel 1996 i sindacati e Confindustria siglano un nuovo accordo con il governo Prodi (il Patto per il lavoro), volto a favorire la crescita dell’occupazione anche attraverso il ricorso ai contratti atipici; • Dopo la crisi del governo Prodi, D’Alema firma un accordo con le parti sociali, denominato Patto social per lo sviluppo e l’occupazione o Patto di Natale. Passando invece ad esaminare la situazione del mercato del lavoro, possiamo dire che verte in condizioni poco rassicuranti, poiché è caratterizzato da un tasso di disoccupazione che sale all’11% e da una disoccupazione giovanile veramente elevata. I governi che si succedono in questi anni rispondono in modo diverso a questa difficile situazione. Il primo fronte d’azione riguarda il contenimento della spesa pubblica. Il risanamento dei conti pubblici è un’operazione indispensabile, sia perché è richiesto dai mercati internazionali, ma soprattutto perché è richiesto dai nuovi impegni assunti a livello europeo. Nel 1992 Andreotti firma il trattato di Maastricht ed impegna l’Italia in un processo di risanamento dei conti pubblici e di controllo dell’inflazione, nell’intento di rispettare i parametri di convergenza economica e monetaria in vista dell’adozione della moneta unica. Per riuscire in questo intento, il governo è costretto a promuovere politiche restrittive, volte al pareggio di bilancio. La rinuncia alla sovranità monetaria comporta anche l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione competitiva della moneta, e ciò costringe i governi a volgere la loro azione su altri fronti (riduzione della spesa nei settori pensionistici e sanitari). Il secondo fronte di intervento è costituito dalla politica in materia di moderazione salariale, al fine di perseguire la lotta all’inflazione, che rappresenta, assieme al contenimento del deficit e del debito pubblico, uno degli aspetti più salienti del processo di convergenza europea. Il terzo fronte di intervento è rappresentato dalle politiche indirizzate alla crescita dell’occupazione, soprattutto giovanile. Durante gli anni ’90, l’azione dei governi si muove lungo due direttrici principali: la prima concerne le riforme che interessano i mercati dei beni e dei servizi, per accrescere la competitività e favorire l’occupazione e lo sviluppo, la seconda riguarda la flessibilizzazione del mercato del lavoro. LA REGOLAZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO Negli anni ’90 prende avvio il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro, che si realizza “al margine”, ovvero secondo una strategia a due livelli, poiché interessa solo i contratti di lavoro a termine. Sul fronte dei contratti a tempo indeterminato assistiamo invece ad un’estensione della tutela reale in caso di licenziamento individuale illegittimo (l’obbligatorietà della reintegrazione). Nel 1991 viene anche disciplinato per la prima volta l’istituto del licenziamento collettivo, a cui le imprese con più di 15 dipendenti devono ricorrere in vista di riduzione, trasformazione o cessazione delle attività aziendali. In questo periodo in Italia è presente il più alto livello di protezione del lavoro tra i paesi OCSE, misurato attraverso l’indice EPL. In merito alla disciplina dei rapporti a termine possiamo individuare 3 significative novità: l’introduzione del lavoro interinale, la diffusione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e le modifiche sulla normativa del part-time e del tempo determinato. Nel 1997, con il pacchetto Treu, vengono tradotti in legge alcuni propositi sanciti nel Patto per il lavoro siglato dal governo Prodi. La nuova normativa tocca un’ampia serie di materie, tra cui l’incentivazione dei CFL, dei contratti a tempo parziale, dell’apprendistato e dei tirocini, ma la novità più rilevante è sicuramente rappresentata dalla legalizzazione dei contratti di lavoro interinale. Questa nuova forma contrattuale, già da tempo diffusa negli Stati Uniti e in Europa, tarda ad arrivare in Italia a causa delle resistenze della CGIL e di Rifondazione. Il superamento delle resistenze è possibile anche grazie al fatto che sono fissati alcuni vincoli e condizioni sul suo utilizzo, fai i quali la parità di trattamento economico rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato, l’attivazione di una specifica procedura autorizzativa e il divieto di ricorso a tale contratto per la sostituzione dei lavoratori in caso di sciopero, per i lavoratori pericolosi o di esiguo contenuto professionale; Un altro rapporto di lavoro atipico che in questi anni conosce un’ampia diffusione è quello delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co). La possibilità di stipulare questi contratti era già prevista nel codice civile, ma con la riforma Dini del 1995 viene stabilito che i collaboratori, e altre categorie di lavoratori parasubordinati, debbano obbligatoriamente iscriversi ad un nuovo fondo istituito presso l’INPS, denominato Gestione separata. Questo provvedimento favorisce indirettamente la diffusione dei co.co.co per via della minore contribuzione a cui sono assoggettat L’ultima spinta verso la flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano degli anni ‘90 si realizza con il recepimento e la trasformazione in legge di due direttive europee: una sul lavoro a tempo parziale e una sul lavoro a tempo determinato. L’intento del legislatore è quello di promuovere questi contratti atipici, ma purtroppo essi non vengono accolti con lo stesso favore dalle parti sociali. Il decreto sul lavoro a tempo parziale riscuote il consenso dei sindacati e di Confindustria poiché si propone di garantire una maggiore flessibilità di utilizzo del part- time, promuovendo allo stesso tempo la parificazione delle condizioni di lavoro e il mantenimento del ruolo centrale della contrattazione collettiva. Al contrario il decreto sul lavoro a tempo determinato è oggetto di numerose critiche, soprattutto da parte della CGIL. Con tale provvedimento, il ricorso al rapporto a tempo determinato perde il suo carattere di eccezionalità e diviene sempre possibile laddove si manifestino esigenze aziendali, senza necessità di autorizzazioni o deroghe concesse dai sindacati. Oltre a limitare quindi il controllo sindacale, essa prevede anche la possibilità di reiterare tale contratto un numero illimitato di volte. Si tratta dunque di provvedimenti importanti, che rendono più semplice il ricorso a contratti atipici convenienti per le aziende, e soprattutto permettono di rispondere alle fluttuazioni economiche, presentano minori costi e sfuggono in parte dalla disciplina prevista dallo Statuto dei lavoratori. Sul fronte opposto il sindacato è contrario all’approvazione di norme che limitano i diritti dei lavoratori e favoriscono il precariato, e così, al fine di non esacerbare la situazione, il governo uscente decide di non approvare la norma sul lavoro a tempo determinato. Tale norma sarà uno dei primi provvedimenti adottati dal successivo secondo governo Berlusconi e segnerà la fine della stagione delle concertazioni. LE MISURE DI SOSTEGNO AL REDDITO Già alla fine degli anni ’80 era stata varata una legge che aveva introdotto alcuni cambiamenti relativi all’indennità ordinaria di disoccupazione, in attesa di procedere ad una riforma più incisiva degli ammortizzatori sociali, che purtroppo anche durante gli anni ’90 si è fatta attendere. Tra i provvedimenti più significativi di questo decennio possiamo citare la l. n. 223/91, che ha l’obiettivo di circoscrivere la durata della CIGS e ricondurre tale istituto al suo scopo originario, cioè quello di ammortizzatore sociale in situazioni di temporanea eccedenza di personale. L’intento del legislatore era quello di ritornare alla distinzione tra tutele concesse per gli esuberi occupazionali e tutele previste per i lavoratori effettivamente disoccupati, che non hanno chance di essere reintegrati sul posto di lavoro. A tal fine viene creato un nuovo istituto, rivolto solo alle imprese che rientrano anche nella CIGS ed espulsi a seguito di licenziamento collettivo: l’indennità di mobilità. Essa si configura come la prestazione più generosa del sistema italiano, poiché è pari all’80% della precedente retribuzione e la sua durata è significativa e varia in base all’età e all’area geografica. Tale durata può prolungarsi oltre i limiti stabiliti in vista di una prossima pensione (mobilità lunga). Il tentativo di razionalizzazione del sistema comunque è vanificato da perdurare della pessima condizione economica, che ha favorito l’approvazione di alcuni provvedimenti che depotenziano la riforma appena approvata. Il tema del riordino del sistema di ammortizzatori sociali torna ad essere oggetto di regolamentazione alla fine degli anni ’90, con l’approvazione di una legge volta ad estendere la tutela alle categorie ancora scarsamente o per nulla tutelate, e con l’introduzione del principio di condizionalità, che stabilisce l’interruzione dei trattamenti di disoccupazione qualora il beneficiario si rifiuti di partecipare a corsi di formazione o accettare una proposta di lavoro dagli SPI. Purtroppo le novità introdotte dalla legge rimangono per l’ennesima volta soltanto buoni propositi, poiché l’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali non viene applicata e il principio di condizionalità stenta a decollare. L’ultimo cambiamento con cui si chiude questa fase politica è l’innalzamento dell’importo dell’indennità di disoccupazione a requisiti pieni e l’estensione della sua durata (da 6 a 9 mesi per le persone con 50 o più anni). LE POLITICHE PROATTIVE Nella prima metà degli anni ’90, in attuazione dei protocolli siglati dai governi Amato e Ciampi con le parti sociali, vengono adottati alcuni provvedimenti volti alla promozione dell’occupazione e dello sviluppo locale. Tra questi menzioniamo: interventi a sostegno dell’occupazione, legge sui lavori socialmente utili e legge che istituisce i patti territoriali. La novità più significativa di questi anni riguarda la riforma delle procedure di avviamento al lavoro e degli SPI. Viene sancita la piena libertà di ricorrere alla chiamata nominativa, e quindi gli SPI perdono il controllo diretto delle attività di collocamento, anche se rimane vigente il divieto di mediazione privata. Proprio riguardo a quest’ultimo divieto, un giudizio pendente della Corte di giustizia europea volto a censurare il regime monopolistico stabilito nel 49, favorisce l’avvio di una profonda riforma del sistema di collocamento. Con la cosiddetta Bassanini 1 si stabilisce: • Il trasferimento dei compiti in materia di politiche proattive dallo stato alle regioni e agli enti locali; • L’abbandono della concezione monopolistica del collocamento; • La possibilità per i soggetti privati di svolgere, previa autorizzazione ministeriale e con vincolo di oggetto sociale esclusivo, l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Il nuovo sistema dei servizi pubblici del lavoro si articola in una serie di centri per l’impiego, che operano sotto il coordinamento delle amministrazioni provinciali e sono chiamati ad offrire una gamma articolata di servizi. Inoltre anche alcuni privati possono, a determinate condizioni, svolgere attività di mediazione della domanda e offerta di lavoro. CONCLUSIONI Gli anni ’90 hanno rappresentato un importante periodo di svolta nelle politiche del lavoro del nostro paese. La prima fase del decennio è caratterizzata da una situazione politica ed economica critica, che ha condizionato l’operato dei governi Amato e Ciampi. Gli interventi pubblici si sono rivolti all’obiettivo di stabilizzazione economica e rallentamento delle dinamiche inflazionistiche. A partire dalla seconda metà del decennio gli esecutivi continuano l’opera di risanamento avviata dai loro predecessori e avviano alcuni interventi di promozione dello sviluppo locale e dell’occupazione, grazie ed un più favorevole contesto economico e politico. Sintetizziamo i risultati raggiunti: • È stato possibile avviare, grazie al superamento del meccanismo a scala mobile, una razionalizzazione della politica dei redditi e del sistema della contrattazione collettiva; • Ci sono stati interventi volti alla flessibilizzazione del lavoro a termine, mentre i rapporti a tempo indeterminato rimangono di stampo garantista; • A seguito dell’abolizione del monopolio pubblico sul collocamento sono stati ridisegnati gli SPI; • Il paradigma dell’attivazione conosce una prima diffusione. Vi sono diversi fattori endogeni ed esogeni che hanno favorito l’adozione di queste riforme: per ciò che concerne i fattori endogeni, la nuova prassi di concertazione tra governo e parti sociali ha permesso l’adozione di alcune novità; per ciò che riguarda invece i fattori esogeni, possiamo dire che il processo di integrazione europea ha agito da vincolo esterno, che ha condizionato l’azione dei governi e ha fornito una base di legittimazione per scelte impopolari. Non mancano comunque esempi di inerzia: gli ammortizzatori sociali hanno continuato a mantenere i loro assetti iniziali, nonostante la necessità di una loro revisione. LE RIFORME DEI PRIMI ANNI DUEMILA L’Italia nel 1999 entra nel sistema euro e nel 2000 va incontro al pareggio di bilancio; negli anni successivi la situazione deteriora e nel 2005 l’Italia e ̀stata soggetta ad una procedura di infrazione per deficit eccessivo e per aver violato il patto di stabilita ̀e crescita. Per quanto riguarda il mercato del lavoro il tasso di occupazione continua a crescere e si va incontro ad un calo della disoccupazione fino al 2007. Sul fronte politico invece si crea una coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi ed esce vittoriosa dalle elezioni, si parla di governi Berlusconi II e III. Si apre una nuova fase per le politiche del lavoro infatti nel 2001 viene pubblicato il libro bianco sul mercato del lavoro che presenta un progetto di modernizzazione del mercato del lavoro. Per quanto concerne la regolazione dei rapporti DI LAVORO il processo di flessibilizzazione raggiunge il suo punto più avanzato soprattutto sotto il controllo del governo Berlusconi. Il nuovo esecutivo vuole rivedere l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori per poter concedere al datore di lavoro di scegliere tra il risarcimento del dipendente illegittimamente licenziato e il suo reintegro. Sulla base di questo il governo emana alcuni provvedimenti: § Approvazione d.lgs. 368/2001 sul lavoro a tempo determinato. § Adozione della l.n. 30/2003 indicata come Legge Biagi → estende la gamma dei rapporti di lavoro nel settore privato soprattutto allo scopo di favorire l’inserimento nel mondo lavorativo dei soggetti piu ̀deboli. Ecco le principali novità introdotte: • Ridimensionamento dei vincoli e delle garanzie connesse al part-time. • Liberalizzazione del lavoro a tempo parziale. • Rivisitazione del lavoro interinale e l’inserimento di un nuovo tipo di contratto ovvero quello a Somministrazione (somministrazione di lavoro): lavoro a chiamata, lavoro a progetto, job sharing ecc... • Riforma del collocamento: pena liberalizzazione dei servizi per l’impiego. § Intervento sui contratti co.co.co che possono essere ora stipulati soltanto se ricondotti a uno o più specifici progetti o programmi di lavoro; questo e ̀stato fatto per permettere anche a chi ha questo contratto di essere sotto tutela da ogni punto di vista sul posto di lavoro (ad esempio avere la malattia, la maternita,̀ l’infortunio ecc...). LA RIFORMA FORNERO Nel 2012 il governo Monti presenta alle camere un disegno di legge di riforma complessiva del mercato del lavoro chiamata appunto riforma Fornero = l.n.92/2012. In merito alla regolazione dei rapporti di lavoro la riforma è intervenuta su più fronti: DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI: modifiche relative all’articolo 18 in cui vengono individuate tre possibili causali del licenziamento individuale: motivi discriminatori, motivi disciplinari, motivi economici RAPPORTI DI LAVORO A TERMINE: è possibile stipulare un contratto a termine anche quando non è presente una giustificazione e causale ma la durata massima è di 12 mesi. Sarà anche imposta un aliquota contributiva sui contratti a termine SISTEMA DI AMMORTIZZATORI SOCIALI: netta separazione tra misure a sostegno del reddito in caso di disoccupazione e le integrazioni salariali in caso di riduzione del tempo di lavoro. Nasce anche un nuovo schema che prende il nome di assicurazione sociale per l’impiego (ASPI) che diventa l’unico schema di garanzia del reddito in caso di disoccupazione. tutti gli altri schemi per il sostegno al reddito sono abrogati. Viene inoltre meno anche l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti che viene sostituita con l’aspi-trattamento breve (mini-ASPI) che è un importo pari all’indennità a requisiti pieni ma sarà corrisposta mensilmente; è anche abolito il requisito di anzianità assicurativa RAPPORTI DI LAVORO: nascono dei fondi di solidarietà bilaterale o residuali POLITICHE PROATTIVE: nascono i contratti di lavoro con contenuti formativi per favorire il ricorso all’apprendistatoconsiderato molto importante per l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani. Da questo punto di vista sono state adottate delle misure anche per favorire l’ingresso delle donne nel mdl LA BREVE ESPERIENZA DEL GOVERNO LETTA Le elezioni del 2013 rappresentano un importante momento di svolta nella politica italiana. L’aspetto principale è l’elevatissimo tasso di volatilità elettorale, tra i più alti registrati nei paesi dell’Europea occidentale dal 1945 a oggi, che segnala anche uno spostamento significativo del consenso tra i partiti mainstream di centro-destra e soprattutto di centro-sinistra verso un nuovo partito antiestablishment, il Movimento 5 stelle (M5s) Sul fronte dell’andamento dell’economia e del mercato del lavoro italiano la situazione di crisi profonda si protrae fino al 2014. Dal 2015 si registrano invece alcuni parziali segnali di miglioramento con una prima ripresa sul fronte dell’occupazione e una riduzione del tasso di disoccupazione generale, giovanile e di lungo periodo. Il governo Letta, e in particolare il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Enrico Giovannini, cerca di far fronte alla situazione adottando alcuni provvedimenti che si muovono principalmente lungo due assi: § Contrasto alla povertà: Sono parzialmente riviste le regole della cosiddetta «social card» introdotta ne2008 a favore delle persone indigenti, mentre una commissione presieduta da viceministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Cecilia Guerra, sviluppa la proposta di una nuova misura nazionale, il Sostegno all’inclusione attiva (SIA) § Alla disoccupazione giovanile: al fine di contrastare l’elevato livello di disoccupazione giovanile che nel 2013raggiunge quota 40%, il governo Letta introduce nuovi sgravi fiscali mirata l’assunzione a tempo indeterminato di persone fra i 18 e i 29 anni (bonusLetta), che però riscuotono scarso successo (basso take-up rate), anche per via delle stringenti regole di accesso volte a contenere possibili «effetti inerziali» (cosiddetti deadweight effects), ovvero stabilizzazioni occupazionali che sarebbero avvenute indipendentemente dalla disponibilità degli incentivi. Inoltre, sempre in merito al contrasto alla diffusa disoccupazione giovanile, il governo Letta avvia la prima elaborazione del piano nazionale di attuazione dellaGaranzia giovani, un nuovo programma europeo volto a favorire il rapido inserimento lavorativo o in percorsi educativi dei cosiddetti Not in Employment, Education andTraining (NEET), ovvero dei giovani che risultano non occupati e nemmeno coinvolti in qualche esperienza di educazione o formazione. Tale programma si propone di intervenire su una categoria di persone particolarmente esposte al rischio di disoccupazione di lunga durata, se non anche di esclusione sociale, offrendo loro un’opportunità di attivazione in tempi relativamente brevi (entro 4 mesi IL NUOVO CORSO DELLE POLITICHE DEL LAVORO ITALIANE Il sistema sanitario è l’insieme delle istituzioni, degli attori e delle risorse (umane e materiali), che concorrono alla promozione, al recupero e al mantenimento della salute. Esso si compone di vari sottosistemi che interagiscono tra loro e nei quali operano attori diversi, ciascuno con logiche e interessi specifici. I sottosistemi sono 3: • Il sottosistema della domanda raggruppa la popolazione, che esprime un bisogno di salute e richiede prestazioni per ripristinare lo stato di benessere; • Il sottosistema dell’offerta ha il compito di produrre e distribuire servizi e prestazioni sanitarie; • Il sottosistema del finanziamento si occupa di raccogliere e distribuire le risorse monetarie necessarie al funzionamento del sistema complessivo. Per loro natura gli interessi degli attori che operano nel sistema sanitario sono divergenti. A questo proposito, un sistema sanitario persegue diverse finalità: • Prevenzione primaria: volta ad eliminare le cause di insorgenza delle malattie e i possibili fattori di rischio; • Prevenzione secondaria: volta ad individuare le malattie in fase precoce ed arrestarne l’evoluzione; • Diagnosi e cura: volte ad identificare le cause di malattia, rimuoverne lo stato patologico o ritardarne il decorso; • Riabilitazione: finalizzata a recuperare le capacità funzionali compromesse dalla malattia e impedirne la cronicità. Lo stato di salute, ovviamente, non dipende soltanto dal sistema sanitario, ma vi sono molteplici fattori che possono condizionare in positivo o in negativo lo stato di salute individuale. Tali fattori si possono raggruppare in 4 sottogruppi: patrimonio genetico, fattori ambientali, fattori socioculturali, economici e stili di vita, uso dei servizi sanitari. Per funzionare, il sistema sanitario impiega risorse del sistema economico (i fattori produttivi o input: lavoro, capitali, beni e servizi) e li trasforma in prestazioni sanitarie (output). Nel processo produttivo le risorse sono combinate tra loro secondo proporzioni tipiche del sottosettore (ed es. il settore ospedaliero è ad alta intensità di capitale, il settore ambulatoriale di lavoro), per creare valore aggiunto, cioè un nuovo valore d’uso della prestazione prodotta. Il sistema sanitario nella fase produttiva non si distingue dagli altri settori (trasforma risorse primarie in beni e servizi) ma ha lo scopo di produrre salute e su questa base deve essere valutato. I parametri principali con cui valutare un sistema sanitario sono 4: • Efficienza (rapporto prestazioni/risorse o output/input) è relativa all’impiego economico di risorse nel processo produttivo, ed è misurata dal numero di prestazioni realizzate da un’unità di fattore produttivo; • Efficacia (rapporto salute/prestazioni o outcome/output) misura il contributo dei servizi sanitari al miglioramento dello stato di salute. È misurata dal miglioramento dello stato di salute a seguito di una prestazione sanitaria; • Costi, il cui indicatore principale è la spesa sanitaria totale pro capite; • Equità, ovvero uguaglianza di accesso alle cure sanitarie. È anche considerata come garanzia di un minimo standard che lo stato deve assicurare agli individui a basso reddito per la copertura dei bisogni essenziali. Un sistema ideale deve offrire una giusta combinazione fra tutti questi indicatori. Va ricordato che, se per assurdo un sistema sanitario non producesse salute, produrrebbe comunque redditi. Come in altri settori produttivi, anche questo sistema produce redditi per coloro che prestano risorse (stipendi per i medici, profitti per l’industria farmaceutica ecc.). questa identità economica va tenuta sempre presente, soprattutto quando si devono giudicare le misure di contenimento della spesa sanitaria. In linea generale i sistemi sanitari dei diversi paesi possono essere ricondotti a 3 modelli istituzionali: il sistema mutualistico, il servizio sanitario nazionale e le assicurazioni private di malattia. I modelli sanitari mutualistico e nazionale si differenziano per 3 aspetti: • In termini di copertura: nel primo modello i destinatari sono i lavoratori, nel secondo modello sono tutti i cittadini. I sistemi assicurativi inoltre presentano differenziazioni di trattamento a seconda della categoria occupazionale; • Nel sistema mutualistico il principale erogatore di beni e servizi è privato o parastatale, nel sistema sanitario nazionale è invece lo stato a farsi carico dell’assistenza sanitaria. Questo incide sulla gamma di prestazioni offerte, che nel primo caso è circoscritta in funzione della partecipazione assicurativa, nel secondo caso più estesa ed omogenea; • Il meccanismo di finanziamento è differente, il primo di tipo contributivo, il secondo fiscale. Il modello delle assicurazioni private di malattia è invece finanziato attraverso i premi pagati da coloro che scelgono liberamente di sottoscrivere una polizza assicurativa e che sono disposti a pagarla in base alla propria esposizione al rischio. Questo modello è molto diffuso negli Stati Uniti, dove gli altri due modelli non esistono, ad eccezione di due schemi sanitari pubblici, e in Svizzera, dove però presenta alcune caratteristiche che lo distinguono dal modello classico. Il sistema sanitario elvetico poggia su alcuni principi di valenza sociale, come l’obbligatorietà ad assicurarsi, premi regolamentati e indipendenti dal rischio individuale, il versamento ai meno abbienti di sussidi statali per il pagamento dell’assicurazione. All’interno dei sistemi di welfare, accanto ai sistemi sanitari, vengono generalmente garantite 2 prestazioni monetarie connesse alla tutela della salute: • L’indennità di malattia, cioè una somma che viene pagata in sostituzione alla retribuzione ai lavoratori ammalati; • L’indennità di maternità, cioè una somma pagata alle lavoratrici madri che permette loro di assentarsi per un periodo definito. LA POLITICA SANITARIA FRANCA MAINO CONCETTI FONDAMENTALI I sistemi sanitari dei diversi paesi si differenziano sotto il profilo organizzativo, per le dimensioni, l’articolazione istituzionale, le regole di accesso, ecc., ma comunque è possibile trovare degli attori comuni a tutti i sistemi sanitari: • I cittadini, in qualità di fruitori delle prestazioni e in qualità di contribuenti; • I soggetti economico-finanziari che acquistano e vendono le prestazioni sanitarie: soggetti pubblici o privati il cui fine è l’intermediazione tra cittadini e aziende erogatrici di servizi; • Le strutture di erogazione dei servizi, cioè ospedali, ambulatori, operatori ecc. ORIGINE ED EVOLUZIONE DEI SISTEMI SANITARI NEL SECONDO DOPOGUERRA L’origine dei sistemi sanitari, come in generale quella dello stato sociale, è connessa ai processi di modernizzazione, urbanizzazione e industrializzazione che si sono sviluppati a cavallo del 19° secolo. L’urbanizzazione determinò un peggioramento delle condizioni di vita e un sovraffollamento delle città, aumentando il rischio di epidemie. Il detonatore che portò alla nascita della moderna sanità è costituito dallo scoppio dell’epidemia di colera del 1832. Lo scopo principale della sanità divenne la neutralizzazione dei veicoli di contagio e la soppressione di ogni fonte di miasma. A tali obiettivi va riconnessa poi la diffusione di pratiche mediche ed igieniche collettive, nonché l’intervento diretto dello stato in materia di assistenza e prevenzione. In seguito all’aumento dei medici e all’avanzare del sapere scientifico si andarono diffondendo alcune misure per razionalizzare ed espandere le strutture di cura e assistenza. Con l’avvento delle industrie e il peggioramento delle condizioni lavorative, i rischi di infortunio erano molto più alti e portarono ad una serie di interventi e misure di assistenza e prevenzione in campo sanitario, e in seguito favorirono la nascita di schemi assicurativi obbligatori contro i rischi di infortunio. Nella fase originaria di sviluppo della sanità, oltre al governo, alle burocrazie statali e ai medici, hanno avuto un ruolo fondamentale anche le chiese, gli istituti di beneficienza e i movimenti popolari. Mentre le chiese e gli istituti di beneficienza si dedicarono a garantire assistenza (sanitaria e sociale) ai bisognosi, i movimenti popolari e religiosi sperimentarono le prime forme di mutualismo tramite l’istituzione di fondi assicurativi ad adesione volontaria. Di fronte a queste prime forme di mutualismo, lo stato venne stimolato ad emanare provvedimenti per disciplinare il neonato mutuo soccorso. A questo riguardo alcuni paesi si distinsero per precocità: Gran Bretagna, Francia, Spagna e Belgio emanarono i primi provvedimenti intorno alla metà dell’800. Al mutualismo volontario ha fatto seguito l’introduzione dell’assicurazione pubblica e obbligatoria contro le malattie, che ha rappresentato ilo vero punto di svolta nell’evoluzione dei moderni sistemi sanitari. Inizialmente essa tutelava la perdita del reddito e solo successivamente le prestazioni in denaro vennero integrate con prestazioni mediche. Questa forma assicurativa si distingueva nettamente dalle istituzioni di beneficienza poiché offriva prestazioni su base nazionale, non più locale, prescindeva da qualsiasi preferenza politico-confessionale e creava un nuovo diritto sociale all’assistenza in caso di malattia. Tale diritto presupponeva di contro un obbligo contributivo da parte dei beneficiari. Il paese pioniere in campo sanitario fu la Germania di Bismarck, che introdusse il primo schema nel 1883, seguito dall’Austria. Gli altri paesi raggiunsero tale traguardo con un ritardo più che ventennale e spesso con grandi difficoltà. Nel periodo che va dall’inizio del 20°secolo allo scoppio della 2GM il settore sanitario ha registrato una crescita progressiva del proprio peso istituzionale. La medicina e la chirurgia si sono affermate come discipline di primo piano e la crescita economica ha favorito migliori condizioni di igiene, mentre l’aumento della scolarizzazione ha modernizzato i comportamenti sanitari della popolazione. In molti paesi l’assicurazione di malattia si è estesa verso nuove categorie ed è arrivata a comprendere anche i loro familiari. È tuttavia nel secondo dopoguerra che si registra un netto rafforzamento del peso istituzionale della sanità. A partire dagli anni ’50 il settore sanitario ha conosciuto una forte espansione in tutti i paesi industrializzati. • Il primo indicatore per cogliere questo processo è dato dalla percentuale di spesa sanitaria rispetto al PIL, che è più che raddoppiata negli ultimi cinquant’anni; • Un secondo indicatore è dato dai tassi di occupazione nel settore sanitario e socioassistenziale sul totale degli occupati, che tra gli anni ’60 e ’00 è aumentato in modo consistente; • Un terzo indicatore è rappresentato dal grado di copertura sanitaria, che è cresciuto in tutti i paesi a partire dagli anni ’60. I paesi che presentano un tasso di copertura pari al 100% hanno un sistema sanitario nazionale, anche se nei paesi con sistemi mutualistici la copertura arriva oggi di fatto al 99%. L’innovazione principale del ciclo di espansione dei sistemi di welfare postbellico è stata l’introduzione del servizio sanitario nazionale. Già negli anni ’30 e ’40 inizia ad affacciarsi una nuova dottrina, quella della sicurezza sociale, che proponeva il superamento del tradizionale approccio basato sull’assicurazione e raccomandava l’istituzione di sistemi integrati di sicurezza sociale forniti dallo stato, finanziati tramite il gettito fiscale e basati sui diritti di cittadinanza. Il primo paese ad introdurre il sistema sanitario nazionale fu la Nuova Zelanda, ma l’idea di base è imputabile a Lord UNA PANORAMICA STORICA Beverdige. L’Italia è stato il primo paese dell’Europa meridionale ad imboccare la strada dell’universalismo, introducendo il SSN nel 1978. La creazione di SSN ha rappresentato un punto di svolta nel processo di istituzionalizzazione della sfera sanitaria, poiché esso tende ad essere più omogeneo e standardizzato rispetto ai sistemi di mutue obbligatorie, sia per i diritti garantiti ai cittadini, sia per gli standard di prestazione. Inoltre realizza pienamente l’ideale di cittadinanza sanitaria, collegata al solo status di cittadino e indipendente dalla posizione socioeconomica. L’ultimo cinquantennio ha assistito a numerose innovazioni anche sotto il punto di vista organizzativo, tantoché oggi il termine sanità denota unicamente l’insieme di programmi e di strutture pubbliche in questo settore. Tale denotazione tuttavia è fuorviante, poiché in tutti i paesi industrializzati la sfera della sanità continua ad includere una serie di attori pubblici e privati, proprio per questo essi sono connotati da un mix tra pubblico, privato e sociale. Per concludere possiamo collocare i paesi OCSE in base a due dimensioni: • Erogazione dell’assistenza sanitaria, nelle 3 forme pubblica, privata e mista; • Finanziamento, di tipo fiscale o contributivo. Tra i paesi che hanno un sistema di finanziamento fiscale abbiamo i paesi scandinavi, il Regno Unito, l’Italia e la Spagna, mentre coloro che erogano servizi nel settore privato e tramite finanziamento contributivo sono soltanto Paesi Bassi e Stati Uniti. L’ITALIA: DA SISTEMA MUTUALISTICO A SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE L’evoluzione della politica sanitaria e la statalizzazione del settore sono stati influenzati dai rapporti di forza esistenti tra i seguenti attori: • I partiti e i movimenti politici di sinistra, che sono stati i primi a spingere verso la statalizzazione della sanità; • I medici e le associazioni di categoria, che al contrario hanno difeso l’orientamento originale del sistema per mantenere lo status quo; • Gli apparati che erogano i servizi, che a volte hanno osteggiato l’alterazione del loro status quo, mentre altre hanno appoggiato le spinte riformiste per accrescere il proprio ambito di azione e le proprie risorse • Le amministrazioni subnazionali, in particolare le regioni. Nell’arena sanitaria hanno operato anche altri attori, come i datori di lavoro, i fornitori e le assicurazioni provate, ma quelli citati sono i più rilevanti ai nostri fini. Il campo di forze tra questi attori è stato abbastanza bilanciato: l’evoluzione del settore sanitario ha seguito un andamento incrementale, fatto di piccoli aggiustamenti. In un panorama come quello continentale, storicamente conservatore, l’Italia ha fatto da apripista verso un cambiamento radicale del servizio sanitario, smantellando il vecchio sistema mutualistico basato su una molteplicità di schemi per arrivare a costituire un servizio nazionale, aperto a tutti i cittadini. La trasformazione avviene lentamente e per tappe. Una prima svolta viene fatta risalire al 1958, anno in cui viene istituito il ministero della sanità, affiancato dal Consiglio superiore della sanità (organo consultivo) e dall’Istituto superiore della sanità (organo tecnico-scientifico). Fu proprio il nuovo ministero a promuovere quella che poi sarà approvata come legge Mariotti, che istituisce gli enti ospedalieri. Uno degli aspetti più rilevanti della legge riguardava il decentramento dei compiti e delle funzioni sanitarie alle regioni, non ancora istituite ma previste dalla Costituzione (la legge in pratica ne sollecitava la creazione). L’estensione del diritto di assistenza a tutti i cittadini avvenne solo nel ’74, quando vennero trasferite le competenze ospedaliere alle regioni. Alla legge Mariotti seguirono una serie di decreti attuativi, tra cui l’istituzione del Fondo nazionale per l’assistenza ospedaliera e la soppressione degli enti mutualistici con funzione sanitaria. La legge istitutiva del SSN venne approvata nel 1978, ed ha comportato la sostituzione di tutte le mutue categoriali con un’unica assicurazione nazionale estesa a tutti i cittadini. Quanto al finanziamento, in attesa della completa fiscalizzazione degli oneri, i contributi sociali furono fatti fluire nel Fondo sanitario nazionale, e da qui redistribuiti alle regioni. La struttura amministrativa del nuovo servizio sanitario nazionale assume da subito una configurazione decentrata, difatti il sistema è articolato su 3 livelli dotati di autonomia politico-istituzionale: • Allo stato spetta la definizione del quadro giuridico, nel rispetto dei principi di uguaglianza e di diritto alla salute; Alle regioni, dotate di autonomia gestionale ma non finanziaria, spettano competenze di programmazione (attraverso i Piani sanitari regionali) e di attuazione del SSN; • Presso i comuni sono istituite le USL (unità sanitarie nazionali), rette da un’assemblea generale e da appositi comitati di gestione. I processi che hanno consentito la creazione del SSN sono: • Il progressivo indebolimento della corporazione medica, come conseguenza della burocratizzazione del medico della mutua (anni ’50) e della frammentazione interna derivante dallo sgretolamento della struttura gerarchica degli ospedali (anni ’60); • Il dissesto organizzativo e finanziario delle casse mutue; • La forte rilevanza elettorale del partito comunista; • La creazione delle regioni a statuto ordinario, che offrono l’occasione per una ristrutturazione organizzativa. LA CRESCITA DEI COSTI E LA CRISI DEI SISTEMI SANITARI La sanità ha conosciuto, a partire dagli anni ’50, una fortissima espansione che ha contribuito a migliorare lo stato di salute della popolazione e a ridurre le disuguaglianze di accesso alle cure mediche. Tale SFIDE E MUTAMENTO ISTITUZIONALE significato il passaggio all’assicurazione obbligatoria, al decentramento e alla privatizzazione dei fornitori. Questo ha reso possibile una crescita del PIL e un aumento della speranza di vita anche nei paesi con un sistema sanitario scarso o assente. Le riforme degli anni ’90 per alcuni paesi hanno comportato un decentramento burocratico, nonché un trasferimento di responsabilità a livelli amministrativi inferiori, dando luogo ad un processo di rafforzamento dei livelli inferiori di governo che prende il nome di regionalizzazione della sanità. LE RIFORME SANITARIE DEL 1992-1993 E DEL 1999 Alla fine del 1992, dopo continui rinvii, venne approvata la riforma del SSN attraverso decreto legislativo. Il d. lgs 502 ha modificato vari aspetti organizzativi e finanziari del SSN, senza però intaccare il suo universalismo. Le principali novità introdotte hanno riguardato: la programmazione sanitaria, l’introduzione di livelli di assistenza da garantire a tutti i cittadini, l’introduzione di nuovi criteri di finanziamento e di spesa, il rafforzamento delle regioni, la trasformazione delle USL in aziende sanitarie locali (ASL), la costituzione di aziende ospedaliere (AO), l’accreditamento degli operatori privati, l’introduzione di un sistema tariffario per il pagamento delle prestazioni. In termini di decentramento, la riforma ha comportato uno spostamento delle competenze sanitarie dal livello comunale a quello regionale. Questo rafforzamento delle regioni si è poi intrecciato con l’aziendalizzazione delle USL, che diventando ASL si sono configurate come enti regionali dotati di autonomia gestionale e personalità giuridica. Alle ASL si sono affiancate le AO, in qualità di erogatori di prestazioni. Nelle USL i poteri di gestione erano affidati ad un comitato di gestione di nomina politica, mentre nelle ASL essi fanno capo ad un direttore generale (sulla carta) sconnesso dalle logiche politiche. Sono stati poi introdotti nuovi criteri di finanziamento, tesi a responsabilizzare le regioni sulla loro spesa. Le risorse sono assegnate tramite FSN, il cui ammontare è stabilito annualmente dalla legge finanziaria e distribuito alle regioni in base alla quota capitaria. Una volta approvata la cosiddetta “riforma della riforma”, le regioni sono state chiamate ad attuare la nuova normativa sanitaria, ma purtroppo non hanno rispettato le fasi di attuazione indicate dal legislatore e hanno implementato quindi la normativa in tempi differenti. Sono state chiamate a legiferare anche in merito all’aziendalizzazione della sanità, cioè a definire il proprio modello di competizione amministrata. Il problema fu che i decreti di riordino del ’92-93 indicavano solamente linee generali, una cornice entro cui le regioni erano libere di realizzare il proprio modello. Esse non solo hanno seguito diverse velocità di attuazione, ma hanno anche interpretato in modo differente alcuni principi-chiave. A partire dal ’96 la riforma della sanità torna ad essere al centro del dibattito politico. Da qui la creazione, da parte del governo Prodi, di un gruppo di lavoro sulla sanità all’interno della commissione Onofri, nonché la scelta di nominare Rosy Bindi come ministro della sanità. Il progetto di riforma Bindi si è rivelato preciso e articolato, anche se a tratti controverso. La nuova fase politica si apre con l’approvazione del PSN 1998-2000, e procede con la revisione dei decreti emanati negli anni precedenti. La riforma vera e propria viene approvata nel ’99 e segna un’inversione di rotta rispetto al processo di aziendalizzazione e rispetto al processo di rafforzamento regionale. Essa sancisce il ritorno ad un sistema sanitario di tipo integrato, con un approccio orientato alla cooperazione amministrata e con l’attribuzione di importanti compiti allo stato e ai comuni. A queste scelte di fondo si sono accompagnate importanti precisazioni in merito ad alcuni istituti ancora poco definiti. La riforma inoltre ha stabilito che entro marzo 2000 i medici dovessero optare tra l’esclusività del rapporto di lavoro nel settore pubblico o la libera professione in quello privato. La scelta, non revocabile, è stata incentivata da una gratifica economica e dalla possibilità di esercitare la libera professione all’interno delle strutture pubbliche, tanto invitante da far aderire circa l’85% dei medici. Questo è stato uno dei punti della riforma più osteggiati, tantoché il successivo ministro della Salute Sirchia ha cercato di modificarlo già nel 2001, con successi solo parziali. Il disegno di legge proposto da Sirchia ha scatenato due massicci scioperi dei medici, nonostante ciò il governo è riuscito ad abolire l’esclusività del rapporto di lavoro con una scelta annuale fra intra ed extramoenia. Nonostante questa possibilità, solo una minima quota di medici ha scelto di esercitare al di fuori del SSN. Con riferimento alla regionalizzazione, la riforma Bindi ha rafforzato l’autonomia delle regioni, che mantengono la responsabilità di gestire ed organizzare la loro offerta di servizi, e che devono sia concorrere alla definizione del PSN, sia alla determinazione del fabbisogno complessivo del SSN. Tuttavia i comuni hanno acquistato un ruolo più incisivo nella programmazione e nella valutazione dei servizi sanitari attraverso la valorizzazione del ruolo del distretto, a cui spetta tra l’altro il coordinamento dei presidi ospedalieri. In conclusione possiamo dire che la riforma Bindi ha proceduto ad una razionalizzazione complessiva del SSN, individuando ambiti di autonomia e livelli di responsabilità di ciascun soggetto istituzionale. Tuttavia ha suscitato alcune perplessità in quanto non ha rappresentato una continuazione del processo avviato negli anni precedenti. Dal punto di vista organizzativo ha ribadito la centralità del PSN quale strumento di programmazione proprio del governo, ma ha scelto di affiancare al PSN i PSR (regionali). ARTICOLAZIONE E FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA SANITARIO ITALIANO Le strutture e gli attori nel SSN sono articolate su 3 livelli: centrale, regionale e locale. A livello centrale operano il ministero della salute, il parlamento ed il governo. Il ministero è affiancato da una serie di organismi con funzioni tecniche e di consulenza, ed ha tra i suoi compiti principali quello di redigere il PSN, che dovrà poi essere approvato dal governo. Il parlamento ha il compito di approvare leggi in materia di sanità e definire le risorse a disposizione per il sistema sanitario, in genere annualmente, in occasione della legge finanziaria. Il ministero della salute interagisce con la Conferenza stato-regioni, l’organismo deputato a gestire i rapporti tra il livello centrale e il livello periferico. Uno dei suoi compiti più importanti è la definizione degli accordi sul finanziamento del SSN, nonché l’approvazione del Patto per la salute, un accordo finanziario siglato ogni 3 anni tra governo e regioni. Alle regioni spettano importantissimi compiti per il funzionamento del SSN: oltre ad approvare leggi regionali riguardanti la politica sanitaria (molte di recepimento della normativa nazionale) e il PSR di durata triennale, nominano i direttori generali a capo delle ASL e decidono in merito alla ripartizione delle risorse finanziarie alle strutture sanitarie locali. Sono poi le ASL (in cui si articola ogni servizio sanitario regionale, SSR) ad intrattenere i rapporti con medici di base, AO, strutture sanitarie alle loro dipendenze, strutture di cura private e liberi professionisti accreditati. Il risultato è l’erogazione di servizi sanitari ai cittadini, i quali concorrono al finanziamento del SSN tramite imposte statali (attraverso la tassazione generale) e imposte regionali (IRAP e IRPEF) o tramite il pagamento dei ticket. A loro volta possono rivolgersi alle assicurazioni per ottenere servizi aggiuntivi. LE RIFORME DEGLI ANNI NOVANTA: IL RUOLO DEI FATTORI POLITICO-ISTITUZIONALI Possiamo individuare 4 ragioni che hanno contribuito alle radicali trasformazioni del sistema sanitario italiano negli anni ’90: • Il fallimento dello status-quo, ossia del sistema sanitario esistente; • L’indebolimento dei punti di veto e degli attori di veto; • Le idee circolanti nell’ambiente di policy e la capacità programmatica degli attori; • Le dinamiche riguardanti la trasformazione dei rapporti fra centro e periferia. Riguardo al primo ordine di fattori, le riforme scaturiscono dal grado di problematicità dello status quo. Nel caso della sanità, lo status quo è rappresentato dal sistema sanitario esistente e dalla sua capacità di rispondere in maniera adeguata alle nuove sfide e ai nuovi bisogni. L’Italia degli anni ’90 vede un punto di criticità nel sistema sanitario, per questo la spinta al cambiamento è stata molto forte. Riguardo al secondo ordine di fattori, la gravità del fallimento dello status quo contribuisce all’indebolimento dei punti di veto e degli attori di veto, cioè tutti coloro che sono favorevoli all’immobilismo istituzionale. Nel corso degli anni ’80, l’istituzione di un sistema sanitario basato su politiche distributive aveva originato un circolo vizioso resistente al cambiamento, dominato dalla politica dei veti incrociati e dalla pratica dello “scaricabarile” sia a livello nazionale che regionale. Vediamo che in quegli anni vengono approvate misure di razionalizzazione e allo stesso tempo misure che le annullavano, creando una situazione di caos organizzativo e di crisi finanziaria, dovuta in larga misura dall’incapacità delle regioni di controllare i decisori di spesa, cioè i medici e le USL. Queste situazioni alla fine del decennio minacciavano dall’interno la sopravvivenza del sistema stesso e contribuivano ad indebolire la resistenza al cambiamento degli attori. Nello stesso tempo si attuava un indebolimento dei partiti e si raggiungeva una maggiore autonomia governativa, con uno staccamento dell’esecutivo dal parlamento. Con l’indebolimento delle resistenze, si rafforzavano parallelamente delle coalizioni di sostegno, ovvero di tutti quegli imprenditori di policy che miravano ad un cambiamento sostanziale del sistema. Durante le riforme del ’92-93 questo ruolo è stato svolto dai governi tecnici, mentre nella riforma del ’99 è Rosy Bindi ad incarnare la figura di imprenditore di policy. Rispetto al rafforzamento regionale, vediamo come negli anni ’90 le regioni non accettano più la posizione fino a quel momento avuta e chiedono più poteri. Sotto l’etichetta del federalismo esse avanzano proposte di suddivisione del territorio e di redistribuzione delle risorse. Il terzo ordine di fattori è legato alle idee circolanti nell’ambiente politico e alla capacità programmatica degli attori e delle istituzioni. In questo periodo emergono e si concretizzano specifiche capacità di analisi, diagnosi ed elaborazione programmatica. Molto spesso è la comunità internazionale di riferimento ad offrire una cornice adatta a ripensare paradigmi più generali e adattarli al contesto nazionale. Da questo punto di vista, l’emergere dei discorsi sulla managerializzazione e sulla concorrenza si traduce nell’impiego di logiche concorrenziali all’interno dei sistemi sanitari pubblici, e vediamo che in questo caso un ruolo di apri fila è stato giocato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Allo stesso modo il tema del decentramento è stato al centro del dibattito della Lega, che in quegli anni riscuote un discreto successo. Ovviamente si tratta di tradurre queste idee in realtà, e infatti vediamo che l’adozione della menaged competiton è stata favorita dalla creazione dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (ASSR, ora AGENAS). Il processo di rafforzamento regionale scaturito dai decreti di riordino del ’92-93 ha fatto nascere una duplice esigenza: dal livello centrale l’esigenza di monitoraggio e di verifica delle implementazioni previste dai decreti di riordino, da parte del livello periferico di supporto nel dare attuazione ai decreti stessi. È per rispondere a queste esigenze che venne istituita l’ASSR. Purtroppo nei primi anni di attività essa ha finito per svolgere funzioni più che altro di tipo tecnico-scientifico, ed è solo a partire dalla metà degli anni ’90 che essa assume il ruolo di interfaccia tra il governo centrale e i governi regionali. Il quarto fattore riguarda la crisi e il mutamento dei rapporti centro-periferia. Il SSN nasce decentrato, ed è la stessa Costituzione a stabilirlo. L’esperienza italiana mostra delle regioni sempre più desiderose di prendere parte al processo decisionale, soprattutto per ciò che le riguarda da vicino, non a caso in questi ultimi anni le conferenze unificate (stato-regioni, stato-regioni-città) sono andate assumendo una visibilità crescente e in alcuni casi hanno costituito un primo luogo decisionale. La posta in gioco è l’autonomia finanziaria e il rafforzamento politico dei governi regionali. Vi sono diverse strategie per perseguire questo obiettivo, fra cui quella di iniziare da quei settori che sono già di competenza regionale. Come già detto è la stessa Costituzione ad attribuire alle regioni competenza in materia di sanità, difatti gli anni ’80 hanno visto un acceso scontro tra i livelli di governo per la sua gestione, ed è stata proprio la mancata autonomia finanziaria delle regioni che a rappresentare un ostacolo allo sviluppo di una politica sanitaria efficiente e a favorire lo sfruttamento politico della sanità. Tanto più il governo centrale decide per i livelli decentrati senza consultarli, tanto più essi si sentono scavalcati e tendono a non rispettare i vincoli posti dall’alto. La riforma Bindi è andata in controtendenza rispetto ai principi istitutivi del ssn, e difatti la possiamo considerare come un tentativo di reazione del centro al rafforzamento regionale, che fa marcia indietro verso l’accentramento sanitario e controbilancia l’autonomia finanziaria acquisita dalle regioni. FEDERALISMO FISCALE, PIANI DI RIENTRO E COSTI STANDARD Il processo di decentramento è stato favorito dall’idea che livelli di governo subnazionali più responsabili fiscalmente potessero contribuire a contenere i costi di un settore sottoposto a forti pressioni espansive. Mentre i governi hanno via via considerato la politica sanitaria una questione troppo onerosa, i livelli locali si sono invece mostrati sempre più attratti dall’opportunità di guadagnare consensi attraverso l’adozione di regole e programmi sanitari propri. La legge che ha istituito il ssn aveva contribuito alla creazione di un sistema sanitario decentrato ma squilibrato, dove le USL e le regioni potevano spendere a piacimento, e lo stato era tenuto al ripiano dei debiti. Vista la rilevanza del problema, dagli anni ’90 sono state approvate una serie di misure volte a ridefinire le modalità di finanziamento della sanità, ma è soprattutto a partire dal 2000 che si è giunti alla piena realizzazione del federalismo fiscale in campo sanitario. La prima tappa di questo processo è rappresentata dal decreto sul federalismo fiscale, che permette alle regioni di raggiungere la piena autonomia finanziaria sul versante del finanziamento. Successivamente è stata data piena attuazione alle attività connesse al Patto di stabilità interno, un patto che coinvolge direttamente le regioni e gli enti locali nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica assunti dall’Italia con l’adesione al Patto di stabilità, crescita e sviluppo. Con il patto anche l’Italia ha adottato il criterio di corresponsabilizzazione all’indebitamento tra i livelli di governo, con la compartecipazione delle regioni sia alla riduzione del disavanzo sia all’eventuale sanzione in caso di disavanzo eccessivo. Dal momento che esso permette agli enti decentrati di decidere gli strumenti con cui perseguire la riduzione dell’indebitamento, il patto venne interpretato come un riconoscimento di autonomia. Erano anni che le regioni richiedevano regole certe, e il patto si è mosso proprio in questa direzione, attribuendo alle regioni e agli enti locali il compito di decidere quali capitoli di spesa tagliare, fermo restando però il ruolo di programmazione e di coordinamento del governo. Nel 2000 ha anche avuto luogo il primo accordo stato- regioni, a cui ha fatto seguito la prima verifica stato- regioni sull’andamento della spesa sanitaria. In base all’accordo stato-regioni il governo ha stanziato risorse aggiuntive per il ripiano dei debiti pregressi, ma ha anche stabilito che, a partire dal 2001, le regioni dovessero in autonomia trovare le risorse necessarie per gli eventuali debiti contratti in seguito. L’accordo raggiunto ha un effetto di responsabilizzazione per le regioni, poiché le costringeva ad aumentare le imposte in caso di crescita della spesa. Un’altra tappa verso la realizzazione del federalismo sanitario è rappresentata dal secondo accordo stato- regioni del 2001, resosi necessario dal continuo aumento della spesa. Da un lato, il governo si impegnò ad aumentare le risorse nazionali per la sanità, dall’altro le regioni vennero delegate alla gestione della spesa e all’organizzazione della sanità. Le regioni hanno dovuto accettare un tetto alla spesa farmaceutica, lo slittamento di 1 anno all’abolizione dei ticket e soprattutto che dallo stesso anno le eventuali eccedenze di spesa gravassero sui loro bilanci. Esse si impegnarono inoltre ad introdurre strumenti di verifica sull’andamento della spesa e a fornire informazioni per il suo monitoraggio, a stipulare convenzioni per l’acquisto di beni e servizi, a erogare le prestazioni previste dai LEA, a tenere la domanda sanitaria sotto controllo e a ricorrere, se necessario, a misure fiscali aggiuntive. Nel 2001 è stata anche approvata la riforma del titolo V della Costituzione, che ha classificato le materie di intervento pubblico in 3 gruppi: a legislazione esclusiva dello stato, a legislazione concorrente tra stato e regioni e a legislazione esclusiva delle regioni. La tutela della salute appartiene alla legislazione concorrente. Su tale materia le regioni hanno potestà legislativa, mentre allo stato spettano la determinazione dei principi fondamentali e il compito di fissare i LEA. Dal punto di vista del finanziamento, le regioni devono far fronte alle spese per le prestazioni previste dai LEA. Nonostante il patto e i vari accordi, le regioni hanno faticato a contenere le spese e per questo sono stati introdotti i piani di rientro, strumenti grazie ai quali il governo centrale affianca e monitora le regioni. Essi sono accordi attraverso cui il governo e le regioni con deficit sanitari stabiliscono gli obiettivi e le strategie finalizzate al recupero dell’equilibrio finanziario. 3 sono le misure che rendono innovativi i piani di rientro: • La presenza di meccanismi automatici di copertura parziale del deficit da parte delle regioni stesse, basati sulla tassazione locale e si trasferimenti vincolati dallo stato centrale; • L’affiancamento e il supporto del governo all’operato delle regioni; • Il commissariamento, in sostituzione del governo regionale, in caso di perdurante deficit strutturale. A partire dal 2007, circa la metà delle regioni è stata sottoposta ai piani. In alcune di esse hanno funzionato bene, come in Sicilia, mentre in altre, come in Lazio e Abruzzo, hanno funzionato meno. Tra luglio e agosto 2008 la questione dei costi della sanità è tornata a farsi sentire, riacutizzando lo scontro tra il governo centrale e quelli regionali. Ad alimentare le tensioni è la manovra economica di Tremonti, che prevede tagli al personale, riduzione dei posti letto e ticket sanitari anche a carico delle categorie esenti nelle regioni in deficit. Altra questione che nello stesso periodo ha generato un ampio dibattito è stata la definizione dei costi standard per il finanziamento della sanità pubblica. Tali costi dovrebbero essere intesi alla stregua di un benchmark (cioè un parametro di riferimento) per definire le risorse GLI ANNI DUEMILA: REGIONALIZZAZIONE, CONTENIMENTO DELLA SPESA E POLITICIZZAZIONE DELLA SANITÀ CHE COS’È L’ASSISTENZA SOCIALE? Il termine “assistenza” deriva dal latino ad sistere e connota l’azione di stare vicino a qualcuno per aiutarlo, soccorrerlo o giovargli. È strettamente connesso all’idea di soccorso ad individui in stato di bisogno, e per questo è facilmente accomunabile ai termini “beneficienza” e “carità”. In questa sede parleremo nello specifico dell’assistenza sociale, che si distingue dall’assistenza in senso generico poiché si discosta da forme discrezionali di aiuto. Essa si basa su interventi pubblici, discendenti da atti normativi che definiscono dei diritti, realizzando il passaggio dalla carità ai diritti sociali. Le politiche di assistenza sociale non si adattano bene ad una definizione precisa, poiché hanno per oggetto un ventaglio molto sfumato di bisogni, ma in generale possiamo dire che le politiche di assistenza sociale sono tutte quelle misure volte a garantire, o quantomeno a promuovere, l’inclusione sociale, cioè l’ancoramento di individui e famiglie al tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse e opportunità. Con l’espressione “assistenza sociale” si identifica l’insieme di interventi rivolti a contrastare o superare situazioni di bisogno, attraverso prestazioni monetarie e servizi sociali, finanziati tramite fiscalità generale. Nel caso dei servizi sociali, la fruizione è aperta a tutti, salvo la previsione di priorità di accesso e/o quote di compartecipazione volte a tutelare i soggetti più deboli. Per quanto riguarda le misure di sostegno economico, il diritto alla prestazione è legato all’accertamento del bisogno individuale tramite prova dei mezzi. Si tratta dunque di interventi selettivi e residuali, poiché vengono garantiti solo agli individui in reale stato di bisogno, e in modo residuale rispetto alla capacità di autoaiuto dell’individuo stesso e dell’intero nucleo familiare. La prova dei mezzi andrà a verificare che la condizione economica del richiedente si trovi al di sotto di una certa soglia predefinita, tuttavia in alcuni casi essa non verifica solo il reddito, ma anche il patrimonio. Gli interventi selettivi e residuali, consentendo l’accesso solo a coloro che dimostrano di essere in una situazione di difficoltà economica, hanno il vantaggio di permettere un risparmio di spesa rispetto a quelli di tipo universalistico, per i quali è necessario solo il requisito della cittadinanza. La selettività, tuttavia, non è esente da limiti. La trappola della povertà: si verifica nei casi in cui la struttura dei sussidi non incentiva i beneficiari ad incrementare il proprio reddito, perché questo comporterebbe una perdita del sussidio. In altre parole, la trappola scatta quando per il beneficiario di una prestazione diventa svantaggioso accettare o lavoro o lavorare un numero maggiore di ore, in quanto l’aumento del reddito da lavoro non sarebbe sufficiente a compensare la riduzione o la perdita della prestazione. In questo modo il sistema di assistenza sociale può essere fonte di dipendenza. Per contrastare tale dipendenza, a partire dagli anni ’90 i trasferimenti monetari sono stati agganciati a meccanismi di attivazione dei richiedenti. Condizionalità e workfare diventano parole chiavi nelle politiche sociali: la fruizione delle prestazioni è sempre più spesso subordinata alla partecipazione a programmi di inserimento, che possono essere di tipo sociale, scolastico, formativo o lavorativo; I costi psicologici e la stigmatizzazione legati al doversi sottoporre ad una prova dei mezzi possono indebolire le motivazioni a richiedere tali interventi. Si tratta di accettare che il proprio stato di indigenza venga socialmente riconosciuto, e quindi è frequente che, per sottrarsi allo stigma della povertà, persone in stato di bisogno decidano di non candidarsi alle prestazioni; Il terzo limite attiene ai problemi di informazione dovuti alle asimmetrie esistenti tra cittadini e pubbliche amministrazioni. Da un lato, i funzionari pubblici possono avere difficoltà nel ricostruire la reale situazione economica dei richiedenti, dall’altro i cittadini possono non ricevere le informazioni adeguate rispetto ai programmi e alle modalità di accesso alle prestazioni. In questo modo ci possono essere errori di inclusione, ammettendo persone che in realtà non hanno diritto alla prestazione (falsi positivi), o di inclusione, escludendo persone aventi reale diritto (falsi negativi); I costi amministrativi e gestionali che le istituzioni devono affrontare per una verifica efficace dei mezzi dei richiedenti sono molto onerosi e impegnativi in termini di lavoro, difatti la capacità di accertare efficacemente lo stato di bisogno dei richiedenti dipende dalle capacità istituzionali del paese e dall’efficacia dei suoi apparati amministrativi. Tali procedure di verifica presuppongono una procedura personalizzata e quindi soggetta a possibili distorsioni. Un ultimo concetto da affrontare è quello della categorialità. In alcuni casi, oltre ad essere selettivi e residuali, gli interventi socioassistenziali possono prevedere un accesso limitato in modo esclusivo a specifici gruppi sociali o categorie di bisognosi (anziani, minori, persone con handicap ecc.). L’introduzione di questi requisiti può provenire dalla necessità di contenere i costi, oppure dalla necessità di operare una selettività indiretta, senza dover sottoporre i soggetti ad una prova dei mezzi. Ad esempio, se le famiglie con un solo genitore e due figli minori appaiono quelle più soggette a povertà, riservare a tale categoria misure di sostegno economico potrebbe selezionare direttamente i destinatari di un intervento assistenziale senza la necessità di prova dei mezzi. IL RUOLO DELL’ASSISTENZA SOCIALE NEL WELFARE STATE Negli interventi socioassistenziali risultano più manifeste, rispetto ad altri settori, la funzione di redistribuzione verticale (cioè tra fasce di reddito) e la finalità solidaristica che li ispira. Proprio perché così fortemente connotata dai valori, l’assistenza sociale rappresenta l’essenza del modello di welfare state di un paese, e permette di comprendere la sostanza e i limiti della cittadinanza sociale. Anche se nei moderni sistemi di protezione l’assistenza sociale viene spessa considerata marginale, per via della minor spesa e della minor copertura, il suo ruolo è tutt’altro che secondario. Essa rappresenta il gradino inferiore dei sistemi di protezione sociale, sotto al quale a nessuno è permesso di scendere. In questa accezione le politiche socioassistenziali rappresentano un tassello principale del social investment welfare state, un nuovo approccio alle politiche sociali che interpreta l’intervento pubblico come fattore produttivo e strumento per la promozione di opportunità e del capitale umano. Possiamo dire per concludere che le politiche sociali rappresentano una via per rafforzare la partecipazione al mercato del lavoro e a far fronte ai nuovi rischi sociali. ATTORI, SUSSIDIARIETÀ E WELFARE MIX Il sistema di governance del settore socioassistenziale vede una pluralità di attori e di livelli di governo, dando luogo a diversi livelli di sussidiarietà verticale e orizzontale. Per quanto riguarda la sussidiarietà verticale, la gestione delle politiche socioassistenziali è decentrata (a livello subnazionale e/o locale), mentre il livello centrale è competente nel fissare linee di indirizzo e principi guida per i territori. Riguardo alla sussidiarietà orizzontale, per capire i ruoli e le responsabilità dei soggetti pubblici e privati, dobbiamo introdurre la nozione di defamilizzazione, cioè il grado in cui un individuo adulto può condurre uno standard di vita accettabile indipendentemente dalle relazioni familiari. A seconda della forma concreta assunta dalla sussidiarietà orizzontale, i sistemi di welfare si suddividono in 2 modelli (classificazione di Esping- Andersen): - I sistemi familisti, in cui lo stato assume che le famiglie siano il luogo privilegiato e ultimo per la soddisfazione CONCETTI FONDAMENTALI LA POLITICA SOCIOASSISTENZIALE ILARIA MADAMA dei bisogni dei propri componenti, riconoscendo per sé solo una funzione sussidiaria, cioè relegata ai casi in cui la famiglia fallisce nel suo ruolo di ammortizzatore sociale. Le caratteristiche di questo sistema sono il sottosviluppo dei servizi sociali pubblici e l’intensità delle relazioni familiari, che danno luogo al cosiddetto modello delle solidarietà familiari e parentali. Tale modello è proprio dei paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Grecia, Italia); - I sistemi defamilisti, in cui lo stato assume per sé maggiori responsabilità, attraverso un intervento pubblico che mira a sollevare le famiglie dal ruolo di ammortizzatore sociale e a rendere gli individui meno dipendenti dalle relazioni parentali. Caratteristiche di questo sistema sono una rete molto sviluppata di servizi sociali e prestazioni monetarie a sostegno dei rischi e dei bisogni propri delle varie fasi del ciclo di vita. Tale modello è tipico dei paesi nordici (Danimarca e Svezia). Sempre con riferimento alla sussidiarietà orizzontale, risulta diversificato anche il ruolo attribuito al terzo settore. Le interazioni tra lo stato e gli attori senza scopo di lucro possono realizzarsi in una varietà di forme. Ascoli e Ranci individuano 4 modelli di integrazione, in base a 2 dimensioni: il ruolo più o meno ampio assegnato alle associazioni intermedie e il grado di dipendenza finanziaria del terzo settore dallo stato: A. Modello della sussidiarietà attiva, tipico della Germania. Il terzo settore svolge un ruolo di primo piano nell’offerta di servizi sociali, con un coinvolgimento anche in fase programmatoria e un finanziamento prevalentemente pubblico; B. Modello della prevalenza del terzo settore, tipico di Italia e Spagna. Il terzo settore svolge un ruolo cruciale nel campo dell’assistenza e dei servizi di cura, ma a ciò non si associa un’elevata spesa pubblica; C. Modello della prevalenza dello stato, tipico della Francia. Vede l’offerta pubblica di servizi sociali e di cura preponderante rispetto al terzo settore; D. Modello della prevalenza del mercato, tipico della Gran Bretagna. La presenza dell’attore pubblico è limitata e controbilanciata dall’espansione dei mercati, a cui si affianca un terzo settore con finanziamento principalmente privato. DALLE LEGGI SUI POVERI ALLA PROMOZIONE DELL’INCLUSIONE SOCIALE I primi interventi assistenziali risalgono al 17° secolo per opera della regina Elisabetta I di Inghilterra, che introdusse la cosiddetta tassa sui poveri. Essa imponeva per la prima volta alle comunità di farsi carico degli indigenti, attraverso il pagamento di tasse settimanali su base locale. Era presente inoltre una legge sul domicilio, che in pratica prescriveva alle parrocchie di tenersi i suoi poveri, impedendo loro di cambiare domicilio. Queste disposizioni, fortemente limitative della libertà individuale, trovarono l’appoggio dell’aristocrazia, che cercava di salvaguardare l’ordine tradizionale, ma non della borghesia, che invece era interessata alla mobilità della forza lavoro. I poveri erano infatti distinti in “poveri inabili” e “poveri abili”, distinzione che comportava un trattamento differenziato: i primi, considerati meritevoli di assistenza, godevano dell’aiuto dello stato, mentre i secondi, considerati colpevoli della loro condizione, erano costretti ad accettare qualsiasi lavoro venisse loro proposto, a qualsiasi condizione e a qualsiasi paga, pena l’internamento nelle workhouses, case di lavoro che nel tempo assunsero la forma di istituti di pena. Alle tradizionali leggi sui poveri tipiche dei paesi anglosassoni e scandinavi, si contrapponevano i paesi continentali e sud europei, nei quali ha prevalso il cattolicesimo sociale e il principio di sussidiarietà, e nei quali lo stato ha avuto un ruolo quasi inesistente. In questi paesi la chiesa ha mantenuto un ruolo di primo piano nella sfera sociale, attraverso enti di carità che avevano il compito di assistenza ai poveri. Comunque, in entrambe le tradizioni, l’assistenza ai poveri veniva concepita come un fatto paternalistico, volto più a reprimere e a rieducare che aiutare. Sarà solo successivamente che si acquisirà la consapevolezza che alcuni stati di povertà hanno origine nel sistema socioeconomico e nelle logiche di mercato e non nella volontà dei singoli. Tuttavia, solo alla fine dell’800 il welfare state fornì una prima risposta ai rischi e ai bisogni generati dalla trasformazione della società e dell’economia. Tra la fine dell’800 e gli anni ’30 del ‘900, i paesi nordici e anglosassoni introdussero prima degli schemi assistenziali rivolti agli anziani poveri, poi schemi universalistici rivolti a tutti gli anziani come diritto di cittadinanza. Nei paesi dell’Europa continentale, invece, si optò per la via occupazionale, cioè vennero introdotti schemi di assicurazione sociale obbligatoria, come abbiamo già visto nel modello bismarckiano. Comunque, all’ascesa di tutele forti come quella previdenziale, corrispose una perdita di rilevanza delle prestazioni di tipo assistenziale: nel nuovo quadro, ciò che non veniva tutelato per via previdenziale continuava a ricadere sulle strutture assistenziali di tradizione religiosa o municipale. Dopo la 2gm, durante il trentennio di massima espansione del welfare state, entrò in scena un nuovo tipo di prestazioni, che possiamo chiamare di seconda generazione. Queste nuove misure, in forma di trasferimenti monetari e servizi sociali, davano risposta a due differenti esigenze: da un lato, esse ponevano rimedio alle lacune di copertura sociale lasciate dagli schemi di assicurazione sociale obbligatoria. Ciò è stato particolarmente necessario per i paesi che avevano optato per la via occupazionale, poiché il legame tra lavoro e tutela dai rischi era più forte. In risposta a queste lacune, molti paesi hanno adottato uno schema di reddito minimo garantito, volto ad assicurare risorse sufficienti a tutti coloro che si trovavano in stato di bisogno. Primi tra questi il Regno Unito (1948), seguito da Germania, Danimarca, Belgio e Irlanda. Altri optarono invece per schemi di reddito minimo garantito categoriali, dirette alla categoria degli anziani poveri, tra questi l’Italia che introdusse la pensione sociale, il Belgio, il Portogallo e la Spagna. Va notato che i paesi che hanno scelto questa seconda soluzione, successivamente si sono poi dotati di schemi aperti a tutti i cittadini poveri, completando il proprio sistema di protezione sociale. Dall’altro lato, l’introduzione di prestazioni di seconda generazione ha risposto anche alle esigenze connesse alle trasformazioni del mercato e della famiglia, soprattutto in relazione al processo di emancipazione femminile. L’assistenza sociale, infatti, è andata orientandosi verso forme di sostegno agli individui e alle famiglie, in un’ottica di empowerment. Negli anni ’60 e ’70 iniziarono a diffondersi i servizi territoriali, volti a dare supporto ai vari bisogni legati al ciclo di vita. L’espansione dei servizi sociali ha dato il via ad una trasformazione dei welfare state: se la gestione delle UNA PANORAMICA STORICA assicurazioni sociali doveva necessariamente essere accentrata, per una questione di efficienza e contenimento dei costi, questo non si verificava per i servizi sociali, che erano chiamati a soddisfare i bisogni localmente. Negli anni ’60 infatti lo sviluppo dei servizi sociali si associò ad una crescita della rilevanza dei livelli subnazionali di governo e ad una loro crescente richiesta di autonomia. A partire dagli anni ’70, in molti paesi europei si registrò un processo di decentramento, che si concretizzò con interventi normativi attraverso cui vennero riconosciute nuove competenze e funzioni ai livelli subnazionali. La profonda revisione delle competenze dei welfare state può essere in parte vista come risposta a pressioni di tipo funzionale: a causa del sovraccarico dei governi centrali, il decentramento iniziò ad essere percepito come vantaggioso, poiché capace di contribuire al raggiungimento di maggiore efficienza ed efficacia. Tuttavia, entrano in gioco anche ragioni politiche: nel momento in cui le regioni si configurarono come enti autonomi, iniziarono ad avanzare richieste di maggiore autonomia, sia istituzionale che funzionale. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 i partiti regionali fecero la prima comparsa nella scena politica, riportando le dinamiche di partitocrazia anche nei livelli decentrati. Il decentramento si presentò quindi come un’operazione politica vantaggiosa, che permetteva di realizzare tagli e adattamenti devolvendo responsabilità e imponendo vincoli di bilancio ai livelli subnazionali. LA SPECIFICITÀ DEI PAESI DELL’EUROPA MERIDIONALE Nell’ambito delle politiche socioassistenziali, i paesi dell’Europa meridionale si sono distinti per una serie di peculiarità: Grecia, Italia, Spagna e Portogallo si caratterizzano per una forte arretratezza rispetto agli altri paesi, sia per lo sviluppo dei servizi sociali sia per le prestazioni minime a garanzia del reddito. Nei primi anni ’90 questi paesi erano gli unici a non avere uno schema generalizzato di reddito minimo garantito, fatta eccezione per il Portogallo, che ha colmato questa lacuna solo nel 1997. Sul fronte dei servizi sociali, questa arretratezza persiste ancora oggi. A fine anni ’90 la spesa per questi servizi era la più bassa d’Europa, pari allo 0,4 del PIL per l’Italia. Per comprendere le ragioni di questa arretratezza, la ricerca ha individuato 4 fattori, i primi due connessi al versante della domanda, i secondi due connessi al versante dell’offerta: Il familismo che caratterizza i paesi dell’Europa meridionale si concretizza nell’obbligo della famiglia estesa di funzionare come ammortizzatore sociale, assolvendo una molteplicità di funzioni (accudire minori, anziani e disabili, sostegno al reddito in caso di disoccupazione ecc.). Questo modello, se da un lato può essere interpretato come un adattamento alle lacune dello stato, dall’atro ha contribuito a mitigare le pressioni per l’intervento pubblico; L’esistenza di un mercato del lavoro periferico ha permesso anche ai lavoratori marginali e meno qualificati di accedere a occupazioni che, seppur poco garantite e scarsamente retribuite, davano la possibilità di entrare nel sistema di protezione sociale previdenziale, ad esempio, nel caso italiano, di percepire la pensione minima o la pensione di invalidità. L’economia sommersa poi, ha contribuito a fornire un ulteriore fonte di reddito per molte famiglie; Le misure assistenziali, stabilendo il diritto alla prestazione sulla base di una prova dei mezzi, sono particolarmente onerose in termini amministrativi e gestionali. La debolezza delle istituzioni di questi paesi, in termini di scarsa professionalizzazione e basso grado di autonomia degli apparati amministrativi, le rende particolarmente sensibili ad errori e distorsioni. Tale rischio è stato spesso sfruttato come giustificazione della scelta di limitare le prestazioni solo a categorie specifiche e facilmente identificabili come gli anziani e i disabili; Il timing dell’intervento pubblico, ovvero il diverso momento in cui si sono manifestate le pressioni per un ammodernamento di questo settore. Nei paesi nordici i servizi sociali nacquero in un momento di crescita economica, hanno quindi potuto approfittare di un contesto particolarmente favorevole. All’opposto, nei paesi sud europei questa esigenza si affaccia con un notevole ritardo temporale e in un momento di contenimento forzato della spesa (anni ’80 e ’90). Si può dire dunque che questi paesi hanno perso il treno dell’opportunità. L’EVOLUZIONE DELL’ASSISTENZA SOCIALE IN ITALIA Il primo intervento normativo dello stato italiano in ambito di assistenza sociale risale al 1862, anno in cui si stabilì la presenza, in ogni comune, delle congregazioni di carità. Questi enti rappresentano la prima forma di assistenza pubblica agli indigenti, anche se il loro ruolo rimase marginale rispetto alla fitta rete di attività private, tra cui citiamo le società di mutuo soccorso e le istituzioni assistenziali della chiesa. Il processo di centralizzazione amministrativa che seguì l’unificazione non ebbe impatto sul funzionamento del sistema assistenziale, difatti le opere pie (cioè istituzioni di beneficienza private di matrice cattolica) continuarono a rappresentare il perno centrale del settore. Nel 1890 si tentò di riordinare l’intricato sistema delle opere pie con la legge Crispi, che gli attribuì personalità giuridica pubblica. Riconoscendo come pubblici i loro fini, le denominava istituti pubblici di beneficienza (IPAB), regolandone la costituzione, il funzionamento e l’estinzione. La legge tuttavia era ancora improntata sul paternalismo e sul controllo sociale degli indigenti, e quindi non contribuì all’individuazione di specifici diritti sociali, né tantomeno riorganizzava la rete di questi enti. Il ventennio tra la fine dell’800 e la fine della 1gm fu caratterizzato da una forte disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita e igieniche, che fecero emergere lo stato di inadeguatezza delle misure pubbliche. Nel nuovo contesto socio-economico le strutture di mutualismo volontario e di carità non avevano mezzi sufficienti ad affrontare la situazione di emergenza, così dal 1917 in poi fiorirono nuovi enti centralizzati dedicati all’assistenza di specifiche categorie di bisognosi, tra cui l’Opera nazionale per gli invalidi di guerra e l’Opera nazionale combattenti. Il successivo avvento del fascismo si caratterizzò per importanti interventi in campo previdenziale, anche se non mancarono quelli in campo di assistenza pubblica, in quanto il simbolo del regime era proprio la famiglia fascista e cattolica. Vennero istituiti numerosi enti assistenziali nazionali dedicati a specifiche categorie sociali come i ciechi e gli orfani, venne incentivata la maternità, la famiglia numerosa e la costituzione di nuovi nuclei familiari. Nel 1925 si ebbe l’intervento più consistente, con l’istituzione dell’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia (ONMI), un ente fortemente centralizzato chiamato a coordinare tutte le iniziative per l’infanzia, che presto divenne strumento di politica demografica e razziale. Nel 1937 vennero creati in tutti i comuni gli enti comunali di assistenza (ECA), a cui spettava l’assistenza generica (soccorrere poveri, orfani, minori, ciechi ecc.). Già nella terminologia vediamo il passaggio da “carità” ad “assistenza”. L’aspetto più importante era costituito dall’obbligo di un’addizionale da applicarsi ai tributi statali, provinciali e comunali. Questa imposizione rappresentò il primo obbligo di contribuzione per finanziare l’assistenza pubblica ai bisognosi. Possiamo quindi dire che alla fine degli anni ’40 la beneficienza legale si strutturava su due livelli: gli IPAB e gli ECA. Notiamo quindi la perdurante marginalità dello stato centrale, che non solo non tutelava le categorie di cittadini bisognosi, ma non riordinava nemmeno le associazioni in essere, dando luogo a moltissime inefficienze e distorsioni. In seguito alla caduta del regime fascista, la Costituzione divenne il nuovo punto di riferimento per le politiche di assistenza sociale. In particolare, due articoli individuano le disposizioni fondamentali riguardo questo settore: • L’art.38 sancisce la responsabilità dello stato verso il benessere dei cittadini. Nei primi due commi questo articolo distingue in modo netto assistenza sociale e previdenza, dove quest’ultima era preponderante ed offriva una tutela più forte contro i principali rischi È solo a partire dalla seconda metà degli anni ’90 che il settore socioassistenziale ha visto una serie di interventi che hanno contribuito ad una sua parziale revisione. Un ruolo di particolare rilievo è stato svolto dalla commissione Onofri, nominata nel ’97 dal governo Prodi. Essa non solo ha offerto una diagnosi delle lacune nell’intervento pubblico, ma ha anche formulato delle proposte di policy per superarle. Tra le principali debolezze sottolineava: una spesa inadeguata, un’elevata frammentazione categoriale ed istituzionale, un’eccessiva sovrapposizione dei ruoli, una marcata differenziazione territoriale e l’assenza di una rete di sicurezza sociale aperta a tutti. La commissione raccomandava che la riforma del settore, attesa dagli anni ’70, si ispirasse a 2 linee guida: incremento e razionalizzazione. Per fare ciò venivano individuati 4 ingredienti essenziali: aumento della spesa, universalismo selettivo, rilancio dei servizi sociali e maggiore omogeneità territoriale. LA LEGISLATURA DI CENTRO-SINISTRA 1996-2001: PRIMI SEGNALI DI MODERNIZZAZIONE Nel suo complesso questa legislatura ha rappresentato un periodo importante per la politica socioassistenziale italiana, con l’introduzione di nuove prestazioni e nuovi strumenti. Per quanto riguarda le nuove prestazioni introdotte, nel ’99 venne istituito l’assegno di maternità assistenziale, diretto alle madri prive di copertura assicurativa, e l’assegno per le famiglie con almeno 3 figli minori. Venne introdotto anche il fondo per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, che sosteneva il costo dell’affitto delle famiglie a basso reddito, che non potevano accedere alle case popolari per insufficienza dell’offerta. Purtroppo non dava luogo ad un diritto soggettivo in quanto era vincolato alle risorse disponibili. Gli assegni per il nucleo familiare vennero resi più generosi, e vennero introdotti anche alcuni incentivi sul versante delle imposte, con revisione degli scaglioni e detrazioni per familiari a carico. Purtroppo questo provvedimento non incise molto, poiché gli incapienti (cioè coloro che, dato il basso reddito, sono esenti da imposizioni fiscali) non traevano vantaggio dagli sgravi fiscali. Nel ’97 venne creato un nuovo canale di finanziamento, il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, volto a finanziare progetti a livello nazionale, regionale e locale per favorire la promozione di diritti, la qualità dello sviluppo, della realizzazione e della socializzazione nell’infanzia e nell’adolescenza. Venne modificato anche il sistema dei congedi: vennero lasciate inalterate le caratteristiche del congedo di maternità (5 mesi, con prestazione pari all’80% della retribuzione), ma venne modificato il congedo parentale facoltativo, con il diritto di astensione per 10 mesi (massimo 6 per genitore), che salgono a 11 se ne usufruisce anche il padre. Il problema è che la prestazione è pari al 30% della retribuzione. A fianco di queste misure per la famiglia, la novità più importante sul fronte della povertà è l’introduzione del reddito minimo di inserimento (RMI). Dando realizzazione alle indicazioni della commissione Onofri, esso si configurava come il primo schema non categoriale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale italiano. È stato introdotto in forma di sperimentazione per 2 anni (1999-2000), poi esteso per altri due anni, per poi essere abbandonato. Se questa misura fosse stata generalizzata, l’Italia avrebbe superato una delle sue maggiori lacune nel settore socioassistenziale. Quanto ai nuovi strumenti, venne introdotto l’indicatore della situazione economica (ISE), che sarebbe poi diventato pratica standard per la prova dei mezzi. Al fine di razionalizzare le risorse, venne istituito il Fondo nazionale per le politiche sociali, che dava organicità alle risorse destinate a quest’ambito, fino ad allora disperse in una pluralità di linee di finanziamento. A lato di questi interventi settoriali, la novità più importante nel campo dei servizi sociali è l’approvazione della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, l. n. 328/2000. Purtroppo l’impatto di questa legge fu mitigato da vicende di natura politica, che portarono ad un cambio della maggioranza di governo, e dalla riforma del titolo V della Costituzione, che attribuì alle regioni la competenza esclusiva. In base alla 328 le regioni avevano l’obbligo di legiferare conformemente alla legge-quadro, mentre secondo quanto definito dalla riforma del titolo V, le regioni, avendo potestà legislativa esclusiva, dovrebbero garantire solo i livelli essenziali delle prestazioni (LEP oggi LIVEAS) da definirsi a livello nazionale. I livelli essenziali delle prestazioni indicano le tipologie di servizi che dovrebbero essere presenti in tutto il paese, e cioè il servizio sociale professionale, il segretariato sociale, il pronto intervento, i servizi domiciliari, residenziali e semi-residenziali e i centri di accoglienza. A parziale contenimento di questa potestà esclusiva, la Costituzione definisce che il governo può sostituirsi alle regioni qualora i LEA non fossero rispettati. LA LEGISLATURA DI CENTRO-DESTRA 2001-2006: TRA INNOVAZIONI ED OCCASIONI MANCATE I principali interventi in ambito socioassistenziale di questa legislatura sono orientati al sostegno del reddito di anziani e famiglie attraverso l’incremento delle pensioni minime e l’introduzione di detrazioni per i carichi familiari. Nella finanziaria del 2002 viene introdotta un’integrazione destinata ai pensionati, con cui si elevava l’importo minimo della pensione alla soglia simbolica di un milione di lire. L’integrazione era destinata a tutti i pensionati ultrasettantenni e comprendeva sia le prestazioni assistenziali che quelle previdenziali. Questo intervento permise l’abbattimento della differenza di importo tra pensioni al minimo e pensioni sociali. In continuità con gli interventi della legislatura esistente, le leggi finanziarie 2002-2003 introdussero nuovi sgravi fiscali per le famiglie, nella forma di deduzioni (riduzioni del reddito imponibile) sul reddito da lavoro o pensione, oltre a rendere più generose le detrazioni per i familiari a carico. Con l’ambizione di promuovere la natalità, venne introdotto un bonus bebè di 1000 euro alla nascita di ogni figlio, limitatamente al 2004 ma estesa fino al 2006 per i figli successivi al primo. Da questa coalizione venne poi decisa la soppressione del RMI. LA LEGISLATURA 2006-2008: BREVE PARENTESI DEL CENTRO-SINISTRA Il programma della coalizione di centro-sinistra era molto ambizioso, tuttavia, a causa della caduta anticipata del governo, tali ambizioni non trovarono realizzazione. Nel 2007 vennero introdotte delle agevolazioni per le famiglie, e più precisamente venne approvato il bonus incapienti, un trasferimento una tantum e limitato al 2007, pari a 150 e incrementato nella stessa misura per ogni familiare a carico, destinato agli incapienti a fini IRPEF. Al fine di promuovere nuovi nuclei familiari, vennero introdotti sgravi per i giovani tra i 20 e i 30 anni per la stipula di contratti di locazione, a cui si aggiunse una detrazione di imposta per i contribuenti con almeno 4 figli a carico, indipendentemente dal reddito. Venne poi approvato anche il cosiddetto piano nidi, volto a stanziare fondi per lo sviluppo di asili nido in tutto lo stato, con una particolare attenzione per le regioni del Mezzogiorno. Nell’ambito della non autosufficienza, venne istituito un fondo ad hoc per la non autosufficienza. Il problema fu che l’importo del fondo era poco più che simbolico, difatti molte regioni avevano già istituito i propri fondi con importi molto più alti (ad es. Emilia Romagna). LA STAGIONE DELLE RIFORME NEGLI ANNI NOVANTA E DUEMILA IL GOVERNO BERLUSCONI IV (2008-2011) E L’AVVENTO DELLA CRISI ECONOMICA Il passaggio ad una maggioranza di centro-destra determinò una brusca interruzione dei progetti avanzati dal governo precedente. Gli interventi approvati in questi anni non hanno avuto la stessa ambizione di riformare la politica socioassistenziale italiana. Le misure più significative di questi anni hanno riguardato l’introduzione del bonus fiscale per le famiglie e la sperimentazione della carta acquisiti. La prima misura consisteva nel trasferimento una tantum e solo per il 2008 a favore dei nuclei familiari a basso reddito, variabile a seconda del reddito e del numero dei componenti, che arrivava ad un massimo di 1000 euro annui. Il sussidio spettava soltanto ai lavori dipendenti e pensionati. La carta acquisti, lanciata nel 2008 nell’ambito del “decreto anticrisi”, era una carta di debito finanziata dal Fondo di solidarietà per i cittadini italiani meno abbienti (ISEE inferiore ai 6000 euro), che siano anziani con più di 65 anni o bambini di età inferiore ai 3 anni, destinata al soddisfacimento delle esigenze di natura alimentare, energetica e sanitaria. L'importo della carta è a somma fissa (40 euro al mese, 1 euro e 30 centesimi al giorno). Parallelamente a questi due interventi, vennero tagliate le risorse destinate alle regioni attraverso il Fondo nazionale per le politiche sociali. Non vennero poi rifinanziati i fondi per la non autosufficienza e per gli asili nido COME SONO CAMBIATE LE POLITICHE SOCIOASSISTENZIALI IN ITALIA: UN BILANCIO Per fare un bilancio sul cambiamento delle politiche sociali dagli anni ’90 al 2012 (anno di pubblicazione del libro), il Ferrera ha deciso di suddividere gli interventi nei 4 obiettivi individuati dalla commissione Onofri del 1997. La razionalizzazione delle misure di lotta alla povertà: in questo periodo non si è assistito ad una riconfigurazione strutturale degli interventi di lotta alla povertà. Gli schemi istituiti negli anni ’90 sono tutt’ora in essere (integrazione al minimo, pensione sociale, pensione di invalidità civile con accompagnamento, assegni familiari, fondo per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, assegno per le famiglie con 3 figli minori, assegno per le madri senza copertura assicurativa, sgravi fiscali). La frammentazione degli interventi si associa ad una differenziazione nei requisiti di accesso. L’ISE (in quegli anni) ha avuto un’applicazione molto ridotta e molte prestazioni sono regolate dalle condizioni del solo reddito. L’innovazione più importante rimane il RMI, abbandonato nel 2002. La povertà in Italia continua a colpire soprattutto le famiglie con minori, specie se monoreddito. Il mancato rilancio dei servizi sociali: la ricostruzione storica appena affrontata ha confermato il perdurare della preferenza dei trasferimenti monetari rispetto alla predisposizione di servizi. Sebbene gli investimenti e l’attenzione dello stato sia stata scarsa, la disponibilità dei servizi è sensibilmente aumentata grazie agli investimenti di regioni ed enti locali. L’eterogeneità territoriale in attesa dei LEP: la questione dei LEP rappresenta un tema delicato e complesso. I divari a livello regionale restano molto ampi, sia rispetto alla spesa sia rispetto all’offerta di servizi e prestazioni, dando luogo ad una cittadinanza sociale differenziata a seconda del luogo di residenza. Negli ultimi anni, l’assenza di linee guida a livello nazionale e la mancata definizione dei LEP hanno dato luogo ad una molteplicità di modelli sociali regionali, che definiscono differenti opportunità per gli individui La contrazione della spesa socioassistenziale: la spesa si è mossa in direzione opposta alle indicazioni della commissione Onofri, riducendosi sia in rapporto al PIL sia in rapporto al totale della spesa, andando in controtendenza rispetto all’aumento dei bisogni sociali. La distorsione allocativa che caratterizza il settore non si è ancora risolta, difatti circa il 70% della spesa per l’assistenza sociale è destinata ai rischi di vecchiaia e disabilità. La quota assorbita dai servizi sociali in natura è aumentata, ma non a sufficienza, andando a rappresentare soltanto il 17% della spesa socioassistenziale complessiva. L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE QUADRO DI RIFORMA DELL’ASSISTENZA La riforma del 2000, attesa da oltre 20 anni, aveva sollevato una serie di aspettative che poi non hanno trovato realizzazione. Escludendo la 328, i provvedimenti adottati non hanno intaccato la configurazione originaria del sistema socioassistenziale, e in più questa legge così innovativa è stata bloccata da altri interventi negli anni seguenti. Andiamo ad indagare i fattori che hanno portato a questa situazione. VERSO LA SVOLTA: L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE QUADRO I fattori che hanno consentito l’approvazione della legge quadro sono essenzialmente due: in primo luogo, dobbiamo partire dalla sentenza della Corte Costituzionale del 1988, che dichiarò incostituzionale l’art. 1 della legge Crispi del 1890, ponendo fine al regime pubblicistico delle IPAB. Questa sentenza ha generato l’esigenza di un nuovo intervento normativo sul settore, e ha messo fine alla disputa tra i partiti in merito al destino delle IPAB. In secondo luogo, nei primi anni ’90, l’inchiesta Mini e lo scandalo Tangentopoli investirono proprio il settore socioassistenziale. Venne arrestato Mario Chiesa (PSI), in qualità di presidente di una IPAB che conduceva affari illeciti. L’inchiesta si estese a centinaia di esponenti politici e imprenditori, a cui seguì un forte calo dei consensi soprattutto verso la DC, implicata con il PSI nella vicenda. L’indebolimento dei vecchi partiti e la delegittimazione del parlamento hanno aperto la strada a nuove figure istituzionali e politiche. Durante il governo Prodi, il ministro per la solidarietà sociale Livia Turco ha iniziato a lavorare al progetto di riforma socioassistenziale in un modo del tutto nuovo: in fase di proposta di legge sono stati coinvolti tutti i soggetti interessati, cioè regioni, enti locali, associazioni sociali, di volontariato, no profit ecc. In pratica il ministro scelse la strategia della consultazione aperta. L’attivismo del ministro Turco è rilevante anche per il coinvolgimento di un ampio numero di esperti, che contribuirono a ridefinire i problemi in campo, le opzioni possibili nonché a portare esempi concreti internazionali. In ultimo il merito va anche alla commissione Onofri, per la sua dettagliata lettura del sistema e le sue soluzioni innovative. LA MANCATA ATTUAZIONE DELLA RIFORMA, TRA BLOCCHI E RESISTENZE Trattandosi di una legge-quadro, il successo della 328 era strettamente connesso all’attuazione delle disposizioni, poiché molte delle sue norme non erano immediatamente operative ma necessitavano di disposizioni attuative. A pochi mesi dalla sua approvazione poi, la legge ha dovuto fare i conti con la riforma del titolo V, che ha assegnato alle regioni competenza esclusiva in materia socioassistenziale. Molte disposizioni della legge quadro hanno perso così di attuabilità, diventando di esclusiva competenza regionale. La revisione oltretutto ha reso possibile l’ennesimo accantonamento di una riforma estesa. Va considerato però che il percorso di attuazione della legge quadro sarebbe comunque stato molto difficile: con il cambio di maggioranza nel 2001 la questione socioassistenziale ha perso il sostegno politico necessario. Questo è dipeso da 2 condizioni: Il nuovo esecutivo era portatore di una visione della famiglia e delle politiche sociali di stampo tradizionale. Il libro bianco sul welfare valorizzava esplicitamente il ruolo della famiglia come principale ammortizzatore sociale; La salienza della frattura territoriale e della questione settentrionale del governo Berlusconi II (profondamente associato alla Lega Nord), avrebbero reso inaccettabile la redistribuzione di risorse tra nord e sud che la riforma avrebbe implicato. Il governo di centro-sinistra, durante la sua breve legislatura, ha dato maggiore rilevanza al tema avanzando proposte ambiziose, tuttavia la sua coalizione è risultata troppo debole e frammentata. Nella fase successiva (2008-2011), l’avvento della crisi economica ha portato a canalizzare l’attenzione esclusivamente sul tema del lavoro e dell’ampliamento delle tutele in caso di disoccupazione. Comunque, anche in questo caso, l’esecutivo ha ribadito la propria preferenza per una visione tradizionale delle politiche sociali basata sul familismo. Al di là di queste preferenze di policy, aggiungiamo che la riforma del welfare è stata presentata come “a costo zero”, cioè da realizzarsi all’interno del perimetro di spesa. L’aumento della spesa socioassistenziale necessario all’implementazione dei servizi sociali quindi si sarebbe dovuto realizzare recuperando risorse dagli altri settori, cioè sanità e previdenza. Questo è impossibile: l’invecchiamento della popolazione porta con sé un aumento della spesa sanitaria e della spesa previdenziale. In più il basso potere di negoziazione dei potenziali beneficiari delle prestazioni è molto incisivo. Questa cornice, comune a molti paesi europei, in Italia è stata aggravata da due condizioni: L’assetto del nostro sistema di welfare, in cui la configurazione degli interessi in campo e le modalità del policy making rendono il confronto particolarmente difficile. La capacità di mobilitazione sociale e politica ha riguardato soprattutto i sindacati, tradizionalmente improntati verso la tutela dei lavoratori. Da ciò consegue che i sindacati, nell’era dei tagli, sono impegnati nella salvaguardia dei diritti acquisiti dai loro rappresentati e non nella creazione di nuovi diritti; La sotto rappresentazione femminile nelle sedi decisionali e la bassa mobilitazione politica non hanno accresciuto la salienza di questo settore di policy, come invece è avvenuto in altri paesi. I movimenti femministi, molto attivi negli anni ’70, oggi sono quasi scomparsi. PRESENTE E FUTURO DELLE POLITICHE SOCIO- ASSISTENZIALI IN ITALIA Paragonato a quello dei paesi europei più avanzati, il settore dell’assistenza e dei servizi sociali italiano appare pletorico e lacunoso al tempo stesso. Pletorico per la grande varietà di schemi che esso prevede, ciascuno rivolto a rispondere a una particolare fattispecie di bisogno, molto spesso su base categoriale. Lacunoso per il persistente sottosviluppo dei servizi e anche perché al suo interno alcuni bisogni continuano a non trovare risposte adeguate, ad esempio in materia di politiche per l’infanzia e la non-autosufficienza. Fra le innovazioni principali nel periodo considerato, il provvedimento più importante è stato senza dubbio la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (l. n. 328/2000). Questa legge, attesa fin dagli anni Settanta, può essere considerata come la riforma dell’assistenza. Si è trattato infatti di un provvedimento di ampio respiro, volto non solo a incidere sugli strumenti dell’intervento pubblico in campo socioassistenziale ma anche a ridisegnarne gli obiettivi di fondo. Nel corso degli anni, per stratificazioni successive, sono state altresì introdotte alcune nuove prestazioni (come l’assegno per le famiglie con almeno tre figli minori, l’assegno di maternità per le madri sprovviste di altra copertura assicurativa o la carta acquisti) e nuovi strumenti volti a rendere più razionale la governance del settore (ad es., attraverso l’introduzione dell’indicatore della situazione economica e del Fondo nazionale per le politiche sociali). In relazione all’architettura complessiva del sistema di welfare domestico, è stato tuttavia il passaggio dal SIA al REI e infine al RDC a porre fine a una delle lacune più gravi del settore socioassistenziale italiano in prospettiva comparata. L’attuazione della nuova misura di contrasto alla povertà pone però una serie di sfide che andranno affrontate. Queste riguardano non solo l’amministrazione della componente monetaria e delle procedure selettive a essa connesse, ma anche la gestione della componente legata ai servizi di accompagnamento, sia di carattere sociale sia sul fronte delle politiche attive del lavoro. In questa cornice, quali sono le sfide e le prospettive per il futuro? I fronti più critici e delicati sembrano essere essenzialmente due. Il primo fronte riguarda il raccordo fra il RDC, le altre prestazioni socioassistenziali esistenti e le prestazioni a sostegno delle famiglie (incluso il sistema delle detrazioni e delle deduzioni), che necessiterebbe di un’incisiva riforma volta a rendere l’intervento pubblico nel suo complesso meno frammentato, più coerente ed efficace nel proteggere contro i nuovi rischi e bisogni sociali. Il secondo fronte riguarda invece le capacità istituzionali. Le disparità territoriali, come osservato, restano molto marcate nel settore dell’assistenza e dei servizi. In buona misura, esse sono la conseguenza di forti deficit di capacità istituzionali, soprattutto nelle regioni del Sud. INDICATORE DELLA SITUAZIONE ECONOMICA L’ISE è un indicatore della situazione economica che prende in considerazione sia il reddito sia il patrimonio di chi domanda prestazioni soggette alla prova dei mezzi. L’ISEE invece contiene una scala di equivalenza attraverso la quale è possibile aggiustare l’indicatore della situazione economica in base alla numerosità e alla diversa composizione familiare (come ad esempio, la presenza di membri con disabilità). ISEE sta infatti ad indicare l’indicatore della situazione economica equivalente. LEGGE QUADRO 328/2000 La legge quadro 328/2000 promuoveva il superamento dell’impostazione categoriale delle politiche assistenziali attraverso l’universalismo selettivo, e cioè rivolte a tutti gli individui in condizioni di bisogno. Proponeva inoltre l’espansione dell’offerta dei servizi sociali in natura. Essa attribuiva al livello centrale la definizione di principi e obiettivi generali, dando un ruolo centrale agli strumenti di programmazione: a livello nazionale attraverso il Piano sociale nazionale, a livello regionale con i piani regionali e a livello locale con i piani di zona. L’integrazione doveva realizzarsi tra i vari livelli di governo e tra i vari attori, in particolare con il terzo settore; la legge infatti precisava che al terzo settore spettasse un ruolo attivo non solo in fase di erogazione delle prestazioni, ma anche in fase di progettazione, in collaborazione con l’attore pubblico. Identificava inoltre una serie di prestazioni e servizi generali da garantirsi su tutto il territorio nazionale, che sarebbero andati a costituire i LEP, rimandando però alla pianificazione nazionale, regionale e locale il compito di fissarne i requisiti specifici. La legge interveniva anche sulla questione delle IPAB, dando delega al governo perché ne disciplinasse il regime giuridico e prevedendo la possibilità di trasformarle in associazioni o fondazioni di diritto privato. Il decreto legislativo di disciplina delle IPAB venne approvato a stretto giro, trasformandole in aziende di servizi alla persona (ASP). Il decreto permise l’abrogazione della legge Crispi a partire dal 2003. COME SI MISURA LA POVERTÀ? Per misurare la povertà è innanzitutto necessario fissare una linea di demarcazione, chiamata soglia di povertà, che distingue i poveri dai non poveri. Una prima via per fissare questa linea consiste nell'individuare un insieme di beni e servizi ritenuti essenziali, considerando poveri tutti coloro che non si possono permettere quel dato paniere minimo. In questo caso la soglia di povertà misura la povertà assoluta. Una seconda via è rappresentata dal fatto di prendere in considerazione lo standard di benessere medio della popolazione di riferimento. In questo caso la soglia di povertà misura la povertà relativa, per cui i poveri sono tutti coloro che hanno comparativamente molto meno rispetto agli altri membri della comunità. La soglia di povertà può essere stabilita sulla base di due diversi variabili di riferimento: reddito e spesa per consumi.
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