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Riassunto Letterature Comparate De Cristofaro, Schemi e mappe concettuali di Letterature comparate

Il file è un riassunto in maniera dettagliata di tutti i capitoli del manuale di De Cristofaro

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica Riassunto Letterature Comparate De Cristofaro e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letterature comparate solo su Docsity! LETTERATURE COMPARATE di DE CRISTOFARO INTRODUZIONE PASSATO, PRESENTE E FUTURO, di Massimo Fusillo 1. Per un sapere antigerarchico “Stare da entrambe le parti di uno specchio”, così Eliot descriveva al critico Richards l’esperienza di leggere testi remoti nel tempo e nello spazio. La metafora dello specchio è importante per capire un punto decisivo: serve a vedere sé stesso come un altro, come un doppio, in modo da poter costruire la propria identità attraverso il confronto. Significa, quindi, valorizzare un elemento che sta alla base del confrontare, ovvero, l’empatia. Confrontare significa identificare l’alterità delle cose in tutte le sue forme. La comparatistica ha quindi bisogno di specchi multipli per poter capire, ha bisogno di un sapere aperto. Per arrivare a questo punto, bisogna superare le concezioni lineari che hanno caratterizzato il ‘900: che la storia abbia un fine, che proceda in un’unica direzione e non sia governata dal caso e che l’interpretazione consista nel far emergere le profondità. Due idee diverse che hanno in comune un’impostazione organicistica. Oggi domina invece una visione della storia che privilegia le marginalità, così come domina una visione della testualità come processo aperto. La metafora del rizoma può spiegare bene questi punti: un modello che asseconda le molteplicità e si contrappone alle rigide dicotomie dei modelli tradizionali. La letteratura comparata, nata agli inizi dell’800, che metteva a confronto due autori o due opere che erano stati a contatto, si è espansa e questa espansone si ispirava soprattutto allo smontaggio delle gerarchie tradizionali. 2. Una dimensione globale Goethe torna su un concetto: la Weltliteratur, “letteratura mondiale”. A tal proposito esprime insoddisfazione per la categoria di letteratura nazionale. Si preoccupa per il ruolo che la letteratura tedesca potrà avere in futuro e allo stesso tempo si apre con le altre letterature. Per lui la letteratura mondiale nasce da una continua tensione tra il locale e l’universale, tra la singola esperienza individuale e un ampio contesto. Goethe sostiene che un tedesco può capire Shakespeare e Byron meglio di un inglese. La nozione goethiana di “letteratura mondiale” gioca sulla ricezione. E’ quello che Damrosch chiama “spazio ellittico”: quello spazio prodotto dalla cultura originaria di un testo e dalle culture che lo recepiscono, e così la letteratura mondiale diventa un modo di lettura. La letteratura ha avuto da sempre una vocazione mondiale: sia in senso metaforico, dato che crea mondi paralleli, sia in senso concreto, dato che nelle diverse epoche gli scrittori hanno vissuto in modo ambivalente e tormentato la propria appartenenza etnica. E’ quella che Said chiama “mondialità” della letteratura: un termine che allude sia alla sua dimensione secolare, sia alla sua capacità di superare il proprio contesto di appartenenza per creare nuove connessioni. Said si è occupato, oltre ai temi dell’esilio, di Auerbach, che ha composto il suo capolavoro “Mimesis” a Instanbul. Riguardo al concetto di Weltliteratur, Auerbach scrive che si auspica che si recuperi, con le dovute differenze storiche, l’idea che lo spirito sia sovranazionale e conclude con un brano di Ugo di San Vittore, in cui chi trova dolce la propria patria è definito “delicato”, chi considera ogni suolo la propria patria “forte”, ma “perfetto” solo chi considera tutto il mondo come luogo di esilio. Il pensiero di San Vittore vuole liberare il saggio dall’amore per il mondo, ma secondo Auerbach, può anche essere rovesciato: in un mezzo per amare il mondo. La letteratura, quindi, diventa un luogo privilegiato per trasformare un’esperienza tragica in un’esperienza positiva: una lente per poter leggere meglio la realtà. Se è vero che la letteratura ha sempre avuto una vocazione mondiale, è anche vero che la Weltliteratur ha avuto uno sviluppo con la modernità. Perciò dopo Goethe sulla letteratura mondiale si è scritto molto. Il concetto di Weltliteratur si sposta poi in Oriente. Ad esempio Tagore lo riprende per contrapporsi a un sistema educativo tutto inglese che voleva staccare sempre più le classi agiate dalle tradizioni locali e lo traduce in una forma più ampia rispetto al concetto occidentale di letteratura e più legato alle nozioni di armonia e coesistenza. Le teorie sulla letteratura mondiale potevano considerarsi figlie dell’Illuminismo e del suo universalismo; cioè del fatto che esiste un fondo comune a tutti gli esseri umani e che trova nella letteratura la sua espressione più potente. Questa visione è entrata in crisi nella seconda metà del ‘900, quando gli studiosi hanno dimostrato come l’universalismo naturalizza le proprie caratteristiche. Questo attacco è un dato di fatto: la contrapposizione tra universalismo e relativismo è troppo schematica. Un relativismo puro non può esistere da un punto di vista concettuale perche si auto annullerebbe: entrambi i concetti sono hanno bisogno l’uno dell’altro, e come sempre, la teoria critica contemporanea è alla ricerca di uno spazio intermedio tra i due poli. Espandere l’area di studio è un fatto positivo e corrisponde alla curiosità del comparatista. Gli studi culturali danneggiano ogni idea statica di identità favorendo una visione aperta, ibrida. Essendo la globalizzazione un dato di fatto, le teorie più recenti sulla letteratura mondiale sono complesse e conflittuali. La visione di Casanova, a tal proposito, si focalizza sul conflitto continuo tra centro e periferia. La “repubblica delle lettere” ha il suo centro in Parigi, il quale è un luogo di lotte infinite per guadagnare il prestigio internazionale. I punti deboli di questa lotta sono di ordine storico e geografico: non si possono ridurre tutte le relazioni internazionali a una competizione fra nazioni, tralasciando ciò che è avvenuto prima del XVI secolo e concentrandosi solo su Parigi; prima della fine del postcolonialismo le letterature “altre” hanno cercato legittimazione e ci sono state varie forme di contatto; bisognerebbe quindi impostare il discorso sulla letteratura mondiale in termini di costellazioni, di prospettive che cambiano di continuo. In definitiva, Casanova propone un’idea di letteratura mondiale che non c’entra nulla con la standardizzazione. Interessante il caso irlandese: tra fine ‘800 e inizio ‘900 la vera strategia innovatrice è stata la contaminazione della lingua dei colonizzatori; Joyce l’ha ibridata di elementi irlandesi. Ed è proprio in personaggi come Joyce o Beckett che si può individuare anche oggi il modello di una letteratura mondiale ibrida e dinamica. Moretti rinuncia a dare una definizione al concetto di Weltliteratur, ma ne distingue due fasi: il primo modello si articola come una progressiva diversificazione, ed è un insieme di letterature locali separate; il secondo si basa sulla somiglianza, e si articola in una relazione complessa tra centro, semiperiferia, periferia. Per comprendere il primo Moretti utilizza la teoria evoluzionistica di Darwin, per il secondo si ispira all’analisi del sistema-mondo di Wallerstein. La proposta di Moretti colpisce un’attenzione insolita per le forme e i generi con un approccio quantitativo. La sua insistenza sul distant reading è provocatoria; inoltre le applicazioni del suo modello teorico nei suoi libri successivi non sempre convincono. Sono sempre maggiori le proposte che arrivano dall’Oriente. Proposte anche polemiche come il saggio “Don Juan East/West” di Murakami: nato come un confronto tra le due tradizioni di questo mito, si è trasformato in una critica all’universalismo della comparatistica; l’autore dissacra i concetti occidentali di amore, piacere e sessualità considerati “naturali” e sottolinea l’improponibilità per il Giappone della dicotomia tipicamente occidentale tra amore romantico e piacere. Per Fusillo, comparare significa indagare su somiglianze e differenze, assumere quello sguardo bifocale che è sottointeso nella metafora dello specchio. La letteratura comparata è stata orgogliosa del suo lavorare quasi esclusivamente sugli originali. La traduzione è quindi una pratica comparatistica. Secondo Casanova i traduttori sono “artigiani dell’universale” perché tendono a unificare la letteratura. Smontare la gerarchia fra originale e secondario ci svela anche il forte valore retroattivo che hanno i buoni adattamenti e le buone riscritture: ci fanno leggere e rileggere le opere in una luce diversa, quindi i confronti vanno fatti in tutte le direzioni. 5. Irradiazioni L’espansione della comparatistica è un fenomeno positivo che le ha permesso di affrontare il polimorfismo dell’immaginario contemporaneo e le trasformazioni della cultura mondiale dopo la rivoluzione digitale. C’è però il rischio di scadere in quella che si chiama “tuttologia”. Ferris ha sottolineato come la letteratura comparata metterebbe le altre discipline di fronte ai limiti e alle carenze del concetto stesso di disciplina e di specializzazione; lo svuoterebbe di senso e raggiungerebbe così paradossalmente una totalità attraverso il frammento. Il rischio di una dispersione eccessiva può comunque essere evitato. Sembra che la lezione di Auerbach possa ancora dirci qualcosa: di evocare confronti, nuove prospettive. Per navigare nella frammentazione del contemporaneo bisogna partire da opere che abbiano la capacità di irradiare. Il sapere antigerarchico è un sapere delle piccole cose: un microcosmo che per vie oblique e inaspettate può aprire qualche spiraglio sul macrocosmo. LE FORME E I GENERI di Francesco De Cristofaro 1) Macromorfologia 1.1 Approssimazioni Quando ci si imbatte in un testo, ci si chiede per primo a quale genere appartiene. Si è quindi indotti in una sorta di abitudine culturale a immaginarsi il sistema letterario come una famiglia e spesso ci si fida del paratesto (la grafica, il titolo, la quarta di copertina, dizione a mo’ di didascalia). Questa etichetta può sfondare il piano sociologico: così quando fu pubblicato “La voce a te dovuta” di Salinas, il lettore di poesia fu colto da uno spaesamento per l’etichetta “poema”. Fu però proprio questo sottotitolo a incoraggiare una sua lettura sistematica e a sollecitare un’iscrizione della raccolta di Salinas all’albo del libro di poesia novecentesco, inteso come un’autobiografia di un’anima. Da secoli i generi hanno indicato lo scenario di riferimento per gli autori e l’orizzonte delle attese dei lettori. Bisogna però uscire dalla metafora arborea e rizomatica che oscura e illumina allo stesso tempo e a esorcizzare quella sorta di entusiasmo dei generi che anima le storie letterarie. Un testo si forma secondo l’idea di letteratura che una tradizione, un contesto storico e un oggetto autoriale hanno negoziato nel tempo. Nelle arti, come non si danno generi puri così non si danno nemmeno forme pure: tra la messa a punto di una poetica e la sua attuazione poietica si inseriscono molti filtri che possono anche invertire il rapporto logico/cronologico tra i due momenti. Ciò non toglie che l’elaborazione del modello teorico e la manifattura dell’opera vivono in osmosi e quindi vanno guardate insieme. Se la nozione di genere è invasiva nelle posizioni della critica, un discorso sulla forma non è cosa facile. Infatti da un lato la fine della stagione strutturalista ha spento ogni interesse verso i formalisti russi, e la narratologia ha prodotto una sorta di saturazione, dall’altro è chiaro che il postmoderno ha lavorato sulla forma. “Forme” si dicono sia le figure, i procedimenti, i trucchi e i ferri del mestiere con cui si fa un’opera, sia l’insieme dei modelli al di là del genere in cui essa idealmente si colloca. A livello micro strutturale si può postulare una relativa consapevolezza dell’autore, a livello macrotestuale questa tipologia si dovrà affidare ad un’operazione intellettuale indiziaria. 1.2 Forme infinite Nel 1911 Lukàcs propendeva a condannare quelle opere informi nella quale si era indebolito l’800 e finiva così nel falsificare l’estetica alla cui ombra il ‘900 andava innalzando i suoi trionfi e le sue ipostati di senso: Lukàcs affermava che queste opere sono prive di forma, perché il loro autore avrebbe potuto portarle avanti all’infinito e la sua morte avrebbe avuto per loro il significato di un’interruzione e che queste opere sono prive di forma perché sono estendibili all’infinito ma le forme infinite non esistono. Lukacs parlava, dunque, di quel principio di composizione organicistico tipico del XIX secolo. Inoltre, lo struggimento del critico nei confronti di un ideale estetico sembrava significativo perché veniva elaborato proprio mentre il mondo era alle armi. La forma in questione era l’idea dell’opera d’arte come armonia, senso; così che l’atteggiamento di Lukàcs prevedeva da un lato una sorta di sospetto verso l’entropia del frammento, verso la distruzione della ragione e dall’altro dalla nostalgia per quei tempi passati. Un secolo prima Hegel aveva parlato dell’epos come di “una totalità vivente e in separata dall’individualità”. Questo dava a Lukàcs l’idea che l’attore dell’epopea non è mai un individuo ma il destino di una comunità (soggettività collettiva). Ne conseguiva quindi la seguente spiegazione: dalla compiutezza del sistema di valori che determina il cosmo epico si genererebbe un’interezza troppo organica, perché una parte si possa isolare a tal punto in sé stessa da ricoprirsi come interiorità e diventare personalità. La tradizione classica ci consegnerebbe gli eroi dell’uomo in blocchi indivisibili, come soggetti al mondo. Importante individuare un elemento: ovvero il nido che sembra stringere il mondo e la relativa concettualizzazione. Ne consegue che la forma fosse vista come qualcosa di fortemente implicato con la storia. Ciò deriva da una legge generale: la teoria della letteratura propende a reagire alla storia, elaborandone un rovescio utopico. Ad esempio: la forma della tradizione indicata da Curtius in “Letteratura europea e Medio Evo latino”, la forma della semantica storica di Spitzer in “Armonia del mondo”, la forma del modo realistico di Auerbach in “Mimesis” costituiscono tre diverse espressioni di un impulso epico-nostalgico della stessa specie. 1.3 Epica vs romanzo Epica e romanzo, secondo Lukàcs, indicavano elementi trascendentali, in qualche modo metagenereci, stelle polari degli autori e delle pratiche testuali. Entrambi i termini sono percepiti nelle arti del linguaggio come griglie rigide e bisogna tener conto che il loro rapporto non è sempre stato di esclusione reciproca. Moretti ha fatto proprio quel passaggio di Lukàcs un punto strategico della sua riflessione sui libri in cui egli crede si incarni il grande paradosso dell’epica moderna: opere monumentali che abbattono i confini geostorici in cui sono radicate e anche le frontiere tipiche tra i mondi letterati. A dirla con termini “calviniani”, le due forme sarebbero dei fuochi. Lo scarto tra la limpidezza della teoria e la complessità della storia deve essere spiegato. Fa parte di ogni cultura la tensione verso le messa a punto di paradigmi e di sistemi di riferimento cartesiani, fondati su categorie più o meno astratte, secondo un’oggettiva discrezione tra valore e disvalore: così che, un po’ per l’ossessione dell’origine un po’ per il teleologismo che lo agita, era fatale che le forme infinite dell’epos e del romanzo andassero a integrarsi in uno schema a maglie larghe, dove il primo funge da tesi e il secondo da sintesi . Da un lato un canto primario e fondativo, dall’altro un’affabulazione secolarizzata. I caratteri originali delle due macrocategorie possono essere riprese da Massimo Fusillo. Fusillo: “L’opposizione tra epica e romanzo ricalca una serie di binarismi su cui si è costruita l’identità occidentale e che la cultura europea sta rimettendo in discussione. Se l’epica è considerata un genere spontaneo e aurorale, incentrato su temi elevati, il romanzo è considerato il genere per eccellenza di secondo grado ed è legato all’insorgere di una nuova dimensione privata e sentimentale”. Un’istanza attinente all’ordine della morale è la condizione stessa che innerva e indirizza una modellazione binaria così concepita. L’epos trasfigurerebbe e immortalerebbe il passato, il romanzo si occuperebbe di interrogare di nuovo i segni del tempo, sottoponendo la tradizione a una sorta di straniamento. Se si può guardare alla storia letteraria come a un dramma familiare, in un passaggio estetico di questo tipo, il romanzo porrebbe in essere una disautomatizzazione di codici. 1.4 Romanzo verso epica Nessuno potrebbe accettare l’idea che il romanzo costringerebbe il soggetto a nuove domande. Risulta chiaro però che il romanzo finisce con avere avanti a sé il segno più e l’epos il segno meno: il primo diventa un espressione dell’ora e della verità, il secondo si presenta come la zona grigia dell’antico e quindi del falsificato. Questa inferenza risulta aumentata dalla teoria bachtiniana: contraddistinta da un’enfasi apologetica sul romanzo come polo della dialogicità e della plurivocità, come dispositivo ibrido per definizione. Il romanzo come luogo deputato della realtà e come condizione del moderno. Il momento descrittivo sembra scarseggiare. Non è chiaro che cosa faccia di una narrazione un epos. Indicare poi la fisionomia di una forma letteraria è un’impresa non gradevole. In certi casi subentra anche la filologia, con la loro scienza del testo, ma ormai i critici letterari sembrano aver capito che questa materia non è affar loro, Il dominio dell’epos e quello del romanzo risultano stabiliti in maniera chiara. A questo punto il comparatista può uscire dagli intermundia (=intra i mondi) teorici. Al lettore si propone un esercizio semplice: provare a Nello stesso periodo in Francia venne allestito il “Nouveau Decaméron” riducendo il testo boccacciano ad un nuovo libro. Per ingannare il tempo i personaggi si intrattenevano a vicenda in un ultimo sogno di narrativa totalizzante. Quest’opera segnerà una sorta di antico regime della narrazione. Le “Mille e una notte” sembrano dotate di una loro misteriosa coerenza trascendentale. Questa coerenza ha ragioni di ordine tecnico: procedimenti, soluzioni retorico-narrative che tramano e compattano l’opera e costituiscono anche una sorta di attrezzeria pronta per l’uso. 2.2 La scatola degli attrezzi La cornice è un’autentica forma nella forma, modulo compositivo, elemento principale delle storie narrate. Nelle “Mille e una notte” la cornice sembra rifarsi a una visione misogina: un sovrano sanguinario deflora vergini e le massacra finchè un giorno la figlia del consigliere del sovrano non decide di sacrificarsi. Il suo però sarà un inganno. La fanciulla racconterà storie senza mai concluderle. Shahrazad indurrà il signore a fare l’amore con la letteratura (e non con il suo corpo) e rimanderà il giorno del massacro. L’opera così escogita un infinito intrattenimento che sortire dalle storie. Né la cornice né il quadro sono strutture statiche. Spesso si aprono storie nelle storie. Questo principio viene dal Panchatantra, un testo importante della cultura altomedievale, che guarda a finalità serissime di ordine etico-politico anche se si presenta come un insieme di storie narrate dagli animali. La suspense è una tecnica strutturante e modulare del libro che si specifica poi in un procedimento: il cliffhanger, una sorta di blocco brusco del racconto. Lo choc legato a questo espediente saggistico aumenta: lo stile delle Mille e una notte è all’insegna della vividezza della rappresentazione, una vividezza che investe anche la cosalità. Questo principio di ripetitività non riguarda solo gli oggetti. Nonostante il ricorso alla formularità (tecnologia della parola) è notevole che in quest’opera la replica di una storia sia assai di rado una ridondanza volta a ribadire una traccia mnestica: al contrario, serve a porre in essere una sorta di straniamento allegorico. Lo stesso caso viene raccontato due volte per contraddire un locutore. Ne consegue uno statuto ambiguo e inquietante dei mondi di invenzione configurati. Può accadere che nel testo una profezia metta in contatto il piano dell’enunciazione e quello dell’enunciato. Non è un caso che pochi hanno saputo interpretare la concezione di destino meglio di Pasolini. Pasolini: “Ogni racconto delle Mille e una notte comincia con un apparizione del destino che si manifesta attraverso un’anomalia. Un’anomalia che ne produce un’altra. Nascendo così una catena. Più la catena è logica, più il racconto è bello. La catena delle anomalie tende a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto dell’opera consiste in una di sparizione del destino. Ciò che mi ha ispirato nel film è vedere il destino all’opera, intento a sfasare la realtà verso l’irragionevolezza rivelatrice della vita. Ho fatto perciò un film realistico, ma anche visionario, il cui oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono”. Pasolini interpretò lo spirito delle storie senza censure. Volle mettere in scena l’antico sogno del poema sul Terzo Mondo attraverso il recupero di un mondo di pura poesia, un mondo che rifiuta ogni linea di demarcazione tra eros eterosessuale e omosessuale Quella dei popoli del Terzo Mondo è una vicenda paradossale e dolente; queste forme di vita devono perciò essere raccolte e allo stesso modo deve essere riconosciuta la pari dignità di tutte le relazioni sessuali, senza cedere in un’omologazione culturale. Il Fiore delle Mille e una notte fornì a Pasolini l’occasione per ripensare. Nel film il corpo non viene punito dalla morte tipicamente medievale che sigla il tragico epilogo degli omosessuali dell’universo dei Racconti di Canterbury. L’eros si libera da qualunque connotato funebre. Il fascino e la modernità delle Mille e una Notte risiedono nell’unità di potenti e sudditi: tutti i personaggi condividono la stessa dignità. Questa poetica trovò una coerenza nell’espressione filmica, ripensando al tema-motivo della prefigurazione. La verità va continuamente ricercata da un sogno all’altro. Pasolini precipiterà di lì a poco nell’inferno di Salò. Ma prima di giungere a quest’apologo egli trova nelle Mille e una notte lo spazio per un ultimo sogno, il sogno di una cosa. 2.3 Il quadro nella cornice Tutta la vicenda della narrativa breve potrebbe essere tracciata registrandole trasformazioni di queste tecniche. Qualsiasi tipo di raccolta è contraddistinta dalla presenza della cornice. Essa contiene storie tanto all’interno del quadrato che delimita quanto nello spazio posto tra i suoi bordi. Questo espediente ha generato scambi decisivi tra testi appartenenti a culture lontanissime, prestandosi a una morfologia storica comparata. Essa rappresenterebbe un device: cioè permetterebbe il passaggio dalla forma breve a quella lunga (ovvero al romanzo) riunendo in una struttura continua e finita racconti sparsi. Molti studiosi si sono chiesti se fossero noti al tempo della composizione del Decameron esempi di raccolte novellistiche dotate di questa organizzazione. Nella cultura classica si danno moltissimi casi di questo tipo. Un discorso diverso si può fare per gli archetipi della cultura orientale di cui il Decameron assorbe l’influenza: raccolte composte da una serie di narrazioni brevi che avevano avuto prima una loro autonoma circolazione, ma che a un certo punto sono entrate a far parte di una struttura organica complessa. Boccaccio si è servito anche di sillogi di racconti occidentali e classici: insieme a testi agiografici e collezioni duecentesche di legendae, exempla, lais, fabliaux, vidas e razos, circolavano infatti i Canti di antichi cavalieri e i Fiori e vita di Filosofi. Tutte queste tipologie testuali non possono essere connesse alla genesi della sua raccolta ma si presentano come storie sparse. Ecco spiegato il ricorso da parte di Boccaccio a testi orientali. Nel 1925 Sklovskij nella sua Teoria della prosa, ipotizzò la coesistenza di due tecniche di inserzione narrativa: la prima è l’incorniciamento, ovvero l’organizzazione di storie dentro un racconto quadro; la seconda è l’infilzamento e prevede una narrazione fonologica. La prima tipologia include due sottotipi: racconti pronunciati per ritardare un pericolo di morte o per ammaestrare un allievo; mentre la seconda contempla un particolare espediente, quello dei racconti narrati in itinere da più personaggi. La cornice boccacciana si presenta come il luogo deputato dove l’auctor esibisce la sua nuova concezione di ars narrandi costruendola con i ferri del racconti. Nella cosiddetta “novella delle papere” Boccaccio preleva brani da opere di filoni diversi, rivestendole di funzioni metanarrative: questa contaminatio gli serve per difendersi da chi lo accusa di volere compiacere troppo le donne. Così nel Decameron una storia come Barlaan e Josaphat diviene un exemplum bonum che permette a Boccaccio di attuare l’invenzione della letteratura mezzana. Nel Novellino, colui che dice “io” nel Prologo pone il marchio della propria personalità artistica e culturale a una serie finita di racconti. Anche in questo caso l’autore non è più un semplice compilator, e anche qui, le fonti ricavate dai contesti più vari sono reinserite in un ambiente culturale diverso. Come si capisce dalle prime pagine le novelle avranno come unico fine quello di dilettare i lettori. Ma ciò che più interessa è la particolare tipologia di cornice esibita dall’opera. A giudicare dalla sua struttura, la sua organizzazione risulta personale. Si nota, dunque, un’interessante progressione generica nella disposizione delle storie: se nella prima parte della raccolta i racconti si avvicinano all’exemplum, il cui significato è valido per la generalità degli uomini, verso la fine di essi si avvicinano a una dimensione prosaica e particolare. L’autore sembra riconoscere e celebrare la nascita di un tipo nuovo di novella. L’avventura morfologica della cornice proseguirà lungo i secoli successivi con modificazioni della formula originaria che produrrà effetti sulle forme e sui contenuti dei testi. Si ha così un gruppo di pellegrini che si sfidano alla storia più bella, si hanno cornici in movimento e un autore che in qualche modo fa da collante e da garante di uno spazio della enunciazione ormai sfilacciato, si hanno anche giochi di società. Poi, quando la prosa del mondo e lo spazio letterario si identificheranno, la cornice si farà mangiare dal quadro, ovvero tenderà a identificarsi con il punto dove un autore parla ai suoi lettori. 2.4 Cambio di paradigma Il Don Chisciotte di Cervantes ha regalato al mondo un’epocale immagine simbolica, segnata da una profonda trasformazione del rapporto tra parole e cose, e ha annunciato l’invenzione del genere. Per qualche motivo ignoto si parla sempre molto meno del cambio di paradigma dell’autore che ha impresso nella forma breve. Sembra che i racconti intercalati del Chisciotte divorano gli spazi di trattazione che sarebbero appartenuti alle Novelle esemplari. Basterebbe guardare all’ultima raccolta per rendersi conto del loro rilievo assoluto: dal titolo al Prologo al lettore. O basterebbe constatare la rinuncia a qualsiasi sottospecie di cornice e la conseguente opzione per la pluralità; e la soppressione delle rubriche iniziali oppure rendere atto dell’inedita metratura delle storie. O infine, provare a comparare l’approfondimento psicologico e la mimesis già realistica che contraddistingue il Geloso di estremadura con l’unidimensionalità e la stilizzazione di una qualsiasi novella antecedente. Rifacendosi a una novella specifica: il dialogo dei cani. Si tratta di un racconto nel racconto, innestato sul “matrimonio con inganno”. E’ interessante questo slittamento da una storia prosaica a un dialogo confidenziale tra animali. E’ un’immagine che prepara il grande scandalo dei cani parlanti. Questi cani non saranno cinici, non vivranno isolati ma si collocheranno sulla strada del mondo. La novella passa al vaglio quasi l’intera gamma dei generi disponibili. C’è la picaresca, in quanto la narrazione delle peripezie risulta fortemente realistica, visuale e inclusiva, e inoltre alcuni aspetti contenutistici; c’è la satira messa in mora in battute icastiche; c’è il dramma pastorale; la commedia; la pedanteria. Nel 1614 Cervantes parla di narrativa attraverso la narrativa. Nella sua visione la letteratura è come un virus che infetta tutti coloro che la toccano. Il punto di non ritorno è costituito dal finale dove il lettore incontra una specie di strega che parla di due cani bizzarri. La strega ci interroga circa il grado di verità di ogni narrazione e proprio mentre riflette su sé stessa e sui proprio fondamenti, si sente mancare la terra sotto ai piedi. 2.5 Canone breve (e congedo) Le Mille e una notte, il Decameron, le Novelle esemplari non danno conto dell’avventura millenaria della forma breve, piuttosto è una sorta di canone breve: perché il lettore si avveda di come il racconto sia diventato un modulo duttile, Si pensi al ‘700 delle satire, oppure ai testi di Balzac, di Dickens, di Moupassant o di Poe. E’ una trattazione a parte meriterebbe la filiera americana di James, Hemingway, Fitzgerald, ma anche ai russi Gogol, Leskov, Cechov. Basterebbe anche richiamare alcune prove di Kafka e di Cortazar, di Borges e di Musil per rendersi conto delle risorse della forma breve nella sua maturità espressiva e di come essa abbia sfidato le convenzioni della mimesi, inarcandosi verso una poetica dell’assurdo, dividendo il soggetto, dando vesti insolite al soprannaturale, torcendo i clichès del romanzo realista. Conviene cercare nel passato qualche epilogo plausibile per la piccola morfologia portatile. E’ probabile che gli autori di narrativa breve che hanno inciso nell’immaginario degli ultimi decenni siano Raymond Carver e David Foster Wallace. Entrambi americani. Al minimalismo del primo, i cui tratti salienti sono enigmaticità, scarnificazione dei dialoghi, lavoro di sottrazione, finale sospeso, la critica ha voluto contrapporre il massimalismo dell’altro: la struttura frattalico-frammentaria, l’iperrealismo dei dettagli, la compresenza di codici e linguaggi. Questi ultimi aspetti sono riscontrabili soprattutto quando Wallace maneggia il contenitore-romanzo, accogliendo al suo interno incidenti e episodi dai diversi gradi di in essenzialità. Quando si muove nella contrainte del racconto, egli ne forza misura e qualità, sposando l’assurdo e l’elegiaco, magari in un solo colpo o giungendo a ridosso della forma lirica, tramite una brevitas. Il caso del romanzo sembra prestarsi a controversie di domino della teoria generale. Prima forma simbolica, rimane al centro di questioni cruciali: questioni che esibiscono un legame di implicazione con il metodo stesso cui si fonda. Quando nasce il romanzo? Quali elementi lo definiscono? Quanto è vera la dicotomia tra novel e romance? Assumere la nozione di romanzo come ipotesi gnoseologica consente di scorgere in controluce una sagoma, per poi produrre costanti e varianti. Zwicker ha sottolineato quanto il lessico e la cornice concettuale delle scienze siano produttivi sul piano della conoscenza: “Le scienze si concentrano sul potenziale strutturale dei concetti. Facendo un passo fuori dalla storia ne possiamo immaginare una storia di tipo diverso, che è si storica, ma su un registro diverso. Questo è quanto intende Koselleck scrivendo che le categorie formali sono condizioni di storie possibili: condizioni per storie che aspettano di essere scritte”. Nella sua “Vera storia del romanzo”, Margaret-Ann Doody auspica che la conoscenza critica riguardi sempre più l’insieme della foresta sopravvissuta. Nelle prime battute del discorso si è accennato a come quella metafora floreale rispecchi una percezione comune circa i generi letterari; e si che gli alberi della cultura sono sempre caratterizzati dall’attitudine dei rami a convergere. Riguardo la storia della cultura, fatta di alberi e di onde, Moretti scrive: “Alberi e onde sono metafore ma non hanno assolutamente nulla in comune L’albero descrive un passaggio dall’unità alla diversità. Per l’onda è il contrario; mostra l’uniformità che procede da una iniziale diversità. Gli alberi hanno bisogno della discontinuità geografica (per diramarsi le lingue devono essere separate nello spazio); le onde si sviluppano nella continuità geografica. Alberi e rami sono ciò a cui gli Stati Nazionali si aggrappano; le onde sono ciò che fa il mercato”. Queste metafore sono efficaci come immagine dialettica della genesi e del destino del romanzo. Moretti ha anche provato a rappresentare la filiazione della forma romanzo con un vero e proprio grafico capace di visualizzare anche la quantità, la fortuna e la modularità dei diversi generi. In opposizione a quanti credono che il romanzo sia la sostanza della forma, Moretti afferma che esso è piuttosto il sistema dei suoi generi o meglio un’intera famiglia di forme e in questo spazio si potranno isolare macrocostanti. Viceversa, l’albero può funzionare benissimo quando si decide di trascorrere dal livello della rappresentazione dialettica a quello della formazione storica in sé, facendolo intersecare con i piani del successo. Ad esempio, ci si può chiedere come si istituisca uno dei campioni più pregnanti della letteratura di genere, il poliziesco. Si scoprirebbe così che le opere degli autori che facevano a meno dell’espediente artigianale dell’indizio si rivelavano rami secchi, cadendo dall’albero del genere. Si tratta di un mondo non solo per restituire alla storia quel carattere di mattatoio che le aveva attribuito Hegel, ma anche per mettere finalmente ordine nella nostra terminologia. In sintesi, qui abbiamo una forma singolare e di larga gittata – il romanzo – che si articola in generi e che affermarsi fa uso di forme plurali. Alla stessa classe teorica potrebbero ascriversi altre letture. Bisogna almeno accennare a due ulteriori indirizzi che si sono imposti di recente: quello geopolitico e quello latu sensu antropologico. Da un lato si fa strada l’idea che il romanzo sia calato nel contesto storico. Si tratta di un tentativo di coniugare analisi formalistica, studio dei sistemi culturali, economia politica mondiale. Dall’altro lato diviene sempre più percepito il problema della storia materiale. Se un libro davvero necessario ha invitato ad assumere le tecnologie della parola come cardine di una storia nuova, Loretelli ha elaborato una contro storia della ricezione, focalizzando l’attenzione sul passaggio dalla letteratura a voce alta a quella silenziosa. Un processo al quale hanno contribuito altre storie: quella dei lettori e quella delle lettrici; o la storia della produzione e della diffusione del libro; o quella della scrittura. Tali storie altre sono confluite nell’ambito del dominio della scienza del passato dopo quel fenomeno culturale ormai risalente che è stata la rivoluzione storiografica delle Annales. 3.4 La storia infinita Il romanzo storico merita più di tutti di essere eletto a case study. Perché vanta una sorta di diritto di primogenitura, avendo procurato il format esecutivo al grande modo realista; poi perché è una gloria nazionale e perché mostra fin da subito una speciale autocoscienza toccando aspetti teorici di massimo interesse, in quel limen tra letteratura e storia; infine perché oggi sta vivendo una seconda giovinezza. Nel 1830 Balzac passò dalla narrazione storica degli “Sciuani” al presente come storia contemporanea. Testo emblema di questa svolta è un racconto “Una passione nel deserto”: una storia che fingendo di occuparsi di un’attrazione segnalata sulla pagina degli spettacoli parigini tornava in realtà alla cicatrice politico-militare del fallimento napoleonico in Egitto. Nel 1830 un intellettuale paragonava il romanziere storico a un medico che faccia la sezione cadaverica dei suoi personaggi; mentre il romanzo storico appariva come una gigantesca manipolazione. Il testo faceva convivere l’immagine della dissezione anatomica con quella più parodica della cucina. Una vera codificazione di quel genere basati sull’ambientazione regressiva ma non sempre finalizzato ala ricognizione delle radici del presente o delle viscere di una comunità nazionale. Il romanzo storico era nato in quell’Inghilterra alla cui struttura sociale ed economica l’Europa tutta guardava con ammirazione. Lukàcs sottolinea l’atteggiamento mediano sostenuto da Scott nell’osservare gli avvenimenti della storia britannica. Un “giusto mezzo” che avrà grande visibilità nei suoi eroi, che corrispondono sempre al tipo intermedio di gentleman inglese. Scott si proponeva di rappresentare in grandi movimenti della storia come trasformazione della vita del popolo. Non è un caso che l’impulso eroico sia presente più nei personaggi secondari: esso deve rimandare alla collettività di cui sono parte. Infine la ricetta di Scott accorda una grande importanza alla verità storica. Molti saranno gli eredi di Scott nell’800 anglosassone: Dickens, Cooper, quest’ultimo sensibile quanto Scott al tema del tramonto della società gentilizia. Se lo scrittore scozzese aveva rappresentato con scrupolo documentario e passione civile il processo di autodistruzione dei clan scozzesi, Cooper racconta l’epopea delle estinzioni degli Indiani del Nordamerica. Le tecniche compositive appaiono mutate, con significative innovazioni; mentre sul piano ideologico si verifica una torsione, perché a essere minato è il concetto stesso di progresso. Più idiosincratiche furono le adozioni del modello scottiano in Francia. Si pensi ad Alfred de Vigny che trattando la Rivoluzione come uno dei tanti errori giovanili del popolo, si accosta ai fatti della storia con un a priori morale soggettivo e afferma con forza la libertà dello scrittore di rielaborarli e macchiarli secondo la propria concezione; o di Prosper Merimèe, che confessava di prediligere il territorio narrativo che si distende tra il racconto del passato e confidenza intima. Ma soprattutto si pensi a Stendhal o a Flaubert. Nel 1850 era accaduto qualcosa di sconcertante: un radicale ripensamento aveva finito con il bloccare e quasi azzerare il percorso fin qui sviluppato da Manzoni. Nel saggio “Del romanzo storico”, seguito ai “Promessi sposi”, la storia veniva infatti rappresentata come la carcassa di una bestia divorata dal tempo. Nel deserto dell’immaginazione è rimasto solo qualcosa che non ricorda più quella bestia, ne è il solo scheletro: il compito dell’artista è di ridarle polpa con le risorse dell’invenzione. La storia in quanto tale è finita, quel che è rimasto è una finzione assoluta: non è più il caso di pensare ad essa come a una verità assoluta. Proprio a questo guardava Lukàcs. Secondo il critico nei “Promessi sposi” quella sintesi era fallita: “La mancanza di quell’atmosfera di storia universale, che in Scott si avverte anche quando descrive per esteso piccole lotte di clan, si manifesta in Manzoni anche come un’interna limitazione dell’orizzonte umano delle sue figure. Nonostante la verità storica e umana, nelle loro manifestazioni vitali esse non si possono innalzare a quelle altezze storicamente tipiche che formano i punti culminanti dell’opera di Walter Scott”. Per questa via Lukàcs stigmatizzava l’incapacità delle sue figure di rivelare dialetticamente i limiti storici dell’epoca in cui erano gettate, con il risultato che la microstoria dei Promessi Sposi diventa la tragedia del popolo italiano in genere: qualcosa di metastorico e al limite metafisico. Pochi anni dopo Moravia avrebbe scritto che Manzoni accecato da un realismo cattolico non aveva saputo cogliere le sfumature della realtà. Quella palinodia di Manzoni fu l’appercezione di una stonatura destinata a perdurare nel tempo come una costante. Quasi la “storia finta” non fosse condannata in sé a divenire “storia falsa”. 3.5 Oggetti non identificati Non è un caso che Manzoni sia entrato in sintonia con Sciascia. Ancora oggi le posizioni dello scrittore siciliano possono insegnarci molto: ad esempio, che tra Verri e Manzoni, egli sceglie di stare con il primo; Verri guarda all’oscurità dei tempi mentre Manzoni alle responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori. Al di là dello stabilire un parallelismo con il genere, Sciascia prendeva posizione anche circa la scelta dell’autore di sopprimere la “Colonna infame” dal romanzo. Sciascia: “La forma, cioè il romanzo storico, gli sarà apparsa inadeguata e precaria; e la materia non regolabile ad esso. C’è da credere che procedessero di pari passo l’abbozzo della Colonna Infame e la stesura del discorso sul romanzo storico. Due grandi incongruenze”. Nell’avvicinarsi a una conclusione sarà bene ripartire da questo incrocio intertestuale: dalla caducità della Colonna Infame nel corpo dei Promessi Sposi e dall’adozione straniata e civile di Sciascia, guardato alla storia come a un inganno. Secondo Sciascia, persuaso che la letteratura sia la più assoluta forma che la verità possa assumere, per contro il lavoro dello storico è tutto un imbroglio e soprattutto la storia non esiste. Con la menzogna della scrittura si può perfino cambiare il corso della storia. E’ una lezione che la ricerca letteraria dell’ultimo mezzo secolo ha fatto sua esplorando la valle della nuova narrazione. Una valle che in Italia ha rappresentato un habitat particolarmente congeniale per le ultime generazioni di scrittori, divenendo insieme l’oggetto e il teatro. Fra gli elementi che secondo Wu Ming accomunano tali narrazioni, alcuni interessano particolarmente: ad esempio un fondamentale carattere epico che investe sia i temi che le forme; oppure la predilezione per le ipotesi contro fattuali (il lettore deve avere l’impressione che in ogni istante molte cose possano accadere). Altri tratti considerati da quel manifesto teorico sembravano tracciare l’orizzonte dell’attuale ricerca narrativa: pensiamo allo sguardo obliquo, cioè alla sperimentazione di punti di vista azzardati e inattesi; o alla complessità narrativa coniugata a una franca attitudine pop; o infine a quella pulsione esoforica della letteratura. La prerogativa più piena di conseguenze è un’altra: gli oggetti narrativi non-identificati che abitano il nostro presente sono tali perché non ricadono in alcun genere predefinito, ma allargano i confini letterari. Essi sono degli esperimenti dall’esito incerto. Libri che non possono essere etichettati o incasellati in alcun modo, perché contengono quasi tutto. 4. Dal dialogismo al mosaico e all’ipertesto: qualche definizione Una volta considerato il dialogo intertestuale è importante occuparsi di come esso vada precisamente definito e trattato. Innanzitutto il termine “intertestualità” è coniato da Julia Kristeva alla fine degli anni Settanta. Il termine ribadisce la necessità di non fermarsi alla sola disamina delle fonti ma di considerare la cultura e la letteratura nel loro dinamismo di significazione. Rifatterre arriva così a identificare la letterarietà con l’intertestualità. La riflessione di Kristeva rimanda agli scritti di BAchtin e ai capisaldi della sua critica e teoria letteraria: il dialogismo, la polifonia e quelle contaminazioni tra cultura popolare e cultura alta. Ma è soprattutto nel romanzo che BAchtin individua il genere dialogico per eccellenza, non solo per il distacco dell’autore dal personaggio ma anche per l’affermazione del linguaggio come metalinguaggio e del testo letterario come spazio fondamentale di incontro, di dialogo, di conflitto. Il romanzo è inteso come “grande cannibale” per la sua capacità di inglobare e di discutere altri testi, altre voci. Questa categoria appartiene anche al teatro e alla poesia. Per questo motivo ogni opera d’arte va apprezzata e compresa in rapporto alla cultura del suo tempo, ma senza prescindere da una prospettiva più ampia. Bachtin chiarisce questi concetti: da una parte sostiene la considerazione storica al fine di collocare la letteratura nella cultura di un’epoca (la letteratura è parte inscindibile della cultura ed è inammissibile che la si stacchi dalla restante cultura); dall’altra il solo orizzonte storico si rivela inadeguato a dare ragione della molteplicità dei significati che un’opera acquisisce (l’opera affonda le sue radici nel lontano passato, le grandi opere letterarie sono state preparate dai secoli e nell’epoca della loro creazione). Il farsi di un’opera nel tempo e soprattutto la sua stessa capacità di abbattere le frontiere cronologiche e geografiche fa sì che essa offra tutti i suoi più ricchi significati a lungo raggio e su un ampio orizzonte di relazioni. In questo senso l’intertestualità si configura come “incorporamento dell’alterità” (Graham Allen): “il concetto di intertestualità intende indicare un tipo di linguaggio che agisce contro e oltre ciò che è fonologico”. Questa nozione di dialogo intertestuale rimanda alla pluralità di voci e di significati che si stratificano in un testo costituendone il rilievo anche da un punto di vista critico; e al tempo stesso, si riferisce alla necessità di porsi da una prospettiva altra ai fini della produzione e della comprensione creativa: “Nel campo della cultura l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione” (Bachtin). L’extralocalità è un concetto fondamentale nella teoria di Bachtin, che sussiste e agisce a più livelli: linguistico e metalinguistico, simbolico, intertestuale e culturale. LA distanza è infatti un aspetto fondamentale del dialogo intertestuale, perché l’ipertesto colloca l’ipotesto a diverse e nuove prospettive. Il dialogo intertestuale si definisce come tale a partire dallo strutturalismo per trovare enfasi nelle esperienze del postmoderno e nella letteratura postcoloniale per poi perdersi e diluirsi nelle maglie del web. 5. Palinsesti Come sarebbe Don Chisciotte se l’avesse scritto Pierre Menard nel ‘900? Si domanda Borges. E soprattutto com’è il romanzo di Cervantes copiato da Menard? Mai uguale al suo modello. Ne è un esempio il contrasto degli stili, la riflessione sulla frase “la verità, la cui madre è la storia”; se in Cervantes l’affermazione è elogio retorico della storia, in Menard la verità storica diventa origine della realtà. Il discorso ci porterebbe a Nietzsche, a Lyotard e a Rorty, mentre sul piano letterario ci introduce al concetto di “riscrittura”: esso implica sempre una diversa contestualizzazione, una risemantizzazione e una reinterpretazione della storia. E, al tempo stesso, rivela quell’ansia dell’influenza. Come Silas Flannery nel romanzo di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Moravia ha confessato in un’intervista che da giovane avrebbe voluto cominciare un romanzo copiando parola per parola “Delitto e Castigo”. Se in letteratura tutto, dopo l’Iliade, è riscrittura, sono le pietre miliari della cultura classica e giudaica a suscitare il desiderio di essere riscritte in forma diretta o indiretta. Anche a proposito del mito uno dei percorsi più proficui per lo studio delle riscritture è quello che riguarda la categoria critica del personaggio. Ci sono poi alcune tipologie che hanno assunto nel tempo un particolare rilievo psicologico come l’avaro e il misantropo. Si porta così alla luce quello che Genette ha definito come “palinsesto”. Come definizione, la riscrittura resta un termine per certi aspetti un po’ generico. Si può parlare di riscrittura per il poema di Ariosto rispetto all’Orlando innamorato di Boiardo, oppure ci si può accontentare di una continuazione? 6. Retorica, linguaggio, modi dell’intertestualità Si parla di “retorica dell’intertestualità” nel tentativo di identificare e di analizzare i diversi modi che segnano gli sviluppi dei linguaggi, dei generi e della ricezione. Negli anni Ottanta, Genette ha considerato i rapporti intertestuali e le loro trasformazioni catalogando con estrema minuzia la “letteratura di secondo grado” a partire dalla parodia, dal pastiche e dal travestimento burlesco. Dal punto di vista teorico, la parodia è stata ridefinita e reinterpretata nello studio di Linda Hutcheon prendendo in considerazione opere letterarie come “Ulysses” di Joyce, pittoriche e cinematografiche. La studiosa considera la parodia come fondamentale modalità di acquisizione e reinvenzione del passato. Ritornando allo schema di Genette, si possono ricordare come importanti esempi di transmodalizzazione la drammatizzazione o, all’inverso, la narrativizzazione. Il teatro shakespeariano nasce spesso dall’amplificazione e drammatizzazione di novelle italiane. Quel che interessa è domandarsi quali sono gli elementi di cambiamento che hanno determinato quello che Dryden chiama “il genio di migliorare un’invenzione” e che in Shakespeare si esprime nella capacità di comunicare attraverso un linguaggio estremamente sofisticato e allo stesso tempo, molto duttile e capace di aderire al mondo e di reinventarlo, e soprattutto di reinventare l’uomo, se è vero che i personaggi shakespeariani sono straordinari esempi non solo del modo in cui il significato viene generato ma anche del modo in cui affiorano nuovi aspetti della coscienza. Un caso di narrativizzazione può invece essere rappresentato dal “Doktor Faustus” di Thomas Mann rispetto al dramma di Marlowe mentre la transmodalizzazione può riguardare il passaggio dall’Odissea omerica alle opere di Jean Giano e di Joyce. In tempi più recenti l’attenzione della critica si è soffermata sull’adattamento, sul riciclo, sull’appropriazione e sulla simulazione. Una forma come l’adattamento non può prescindere dalla conoscenza degli ipotesti all’atto della ricezione e dalla loro funzione. Per questo bisogna considerare i mezzi rappresentativi più adatti a questa valorizzazione del dialogo intertestuale e le modalità in cui agiscono. L’ironia gioca in questo senso un ruolo fondamentale. Ironico è il modo in cui Ariosto e Cervantes implicitamente dialogano tra di loro e si appropriano della tradizione dei romanzi e dei poemi cavallereschi e di Boiardo rovesciandone alcune convenzioni Su un piano metaletterario, queste modalità riguardano anche la genesi della follia di Orlando e di Chisciotte e naturalmente la questione del manoscritto arabo di Cide Hamete Benengeli. La modalità del manoscritto fittizio si afferma in età umanistica, come presa di distanza dall’auctoritas che si sposta sul gioco intertestuale illudendo l’esigenza di verità e di storicità del lettore. Tra ‘700 e ‘800 ritroviamo questa strategia in un poema eroicomico “Gli animali parlanti” di Casti. Attraverso la parodia e la de valorizzazione dei testi platonici, Casti immagina la vicenda degli animali parlanti che ricalca la storia umana e confluisce nell’isola che non c’è. La storia procede con un gioco di distanze, di riflessioni meta letterarie e farraginose spiegazioni sempre all’insegna dell’ironia e del paradosso. L’ironia costituisce uno dei modi del dialogo intertestuale: si pensi al Tristam Shandy di Sterne che inaugura un modello ampiamente sviluppato nel postmoderno. Il postmoderno attua un gioco ironico di identificazioni e di alienazioni tra autore e lettore facendo leva sul dialogo intertestuale e sugli stimoli meta letterari che esso introduce. In “The New York Trilogy” di Paul Auster, nel caso specifico il racconto “City of glass”, è ancora la storia di Don Chisciotte a offrirsi a una reinterpretazione postmoderna e a costituire una chiave di lettura. L’opera dello scrittore americano rovescia gli stereotipi del genere, facendo dell’investigazione e del metodo induttivo un percorso di dissolvenza. In “City of glass”, lo scrittore di gialli Quinn riceve nel mezzo della notte una telefonata in cui qualcuno cerca Paul Auster, che non è lui ma che fingerà di essere. Dopo aver percorso i tragitti al seguito del vecchio Stillman, Quin si imbatte nel vero Paul Auster, impegnato a scrivere un saggio su Don Chisciotte. La novità è che dietro il manoscritto arabo di Cide Hamete Benengeli ci sono per l’Auster-personaggio più autori: Sancho Panza, Sansòn Carrasco, Cervantes e Don Chisciotte stesso. Scritto come un “attacco contro i pericoli della finzione” il romanzo sarebbe da concepirsi come uno specchio da mettere davanti alla follia di Don Chisciotte. Ad architettare tutto questo sarebbe stato proprio Don Chisciotte. Paul Auster può essere considerato un simbolo della concezione postmoderna dell’intertestualità come fenomeno endemico alla letteratura. Un altro esempio è costituito dai romanzi di Javier Marias nei quali fin dal titolo è riconosciuto il debito verso altri autori soprattutto Shakespeare. Quel che più risalta è che la traccia intertestuale può risultare fuorviante, deve cioè suscitare problemi e significati che ne conservano una memoria quasi casuale. Ogni comunicazione è una sorta di traduzione, e ogni traduzione è una sorta di tradimento. 7. Il mito e il classico nel moderno Nel groviglio di sogni, storie e riscritture, fulcro fondamentale è costituito dal mito inteso come forma archetipica. La fissità originaria del mito ne ha determinato il continuo divenire in ambito letterario e artistico. L’immediata identificazione del primo significato mitico porta poi a una più facile comprensione delle sue stratificazioni simboliche. La familiarità è una componente decisiva della ricezione. Questo rapporto tra fissità e duttilità del mito è inoltre l’aspetto peculiare che si offre all’indagine antropologica e all’analisi semiologica e strutturalista. Per Strauss il mito trova un diretto referente in un sistema di trasformazioni che fa riferimento agli sviluppi del mito stesso. In “Del mito, del simbolo e d’altro” Pavese ha dato una spiegazione del mito come struttura formale, complementare con il pensiero poetico. Mito è un evento, una rivelazione, una consacrazione simbolica avvenuta “una volta per tutte”. C’è infatti una mitologia personale, legata al concepire mitico dell’infanzia. E c’è una mitologia che influenza l’immaginario collettivo; il mito vive quindi di una vita incapsulata che può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture. Nella tradizione occidentale parlare di mito significa tornare a Omero. Si tratta inoltre di tornare ai tragici, considerando la distinzione tra logos come discorso razionale e mythos come racconto inventato (Platone); i due termini si rivelano complementari. Interagendo con il logos, per Platone il mito rappresenta un tramite fondamentale attraverso cui gli uomini possono accedere alla strutture delle idee. In un contesto tragico si sviluppano i principali miti della letteratura antica e moderna. La loro storia ha spesso a che fare con un divieto e con l’infrazione di una norma che pone l’uomo in contatto con il divino e con il suo ordine. Il patrimonio mitologico classico si arricchisce notevolmente con le Metamorfosi di Ovidio. Il linguaggio della metamorfosi crea un mondo parallelo seppure osmotico rispetto al mondo reale, indebolendo i confini tra identità e concetti apparentemente inconciliabili. Sul piano formale, esso intacca i generi letterari. Anche l’aspetto performativo risulta esaltato da questa maggiore libertà espressiva. Dal punto di vista simbolico la TEMI, MOTIVI, TOPOI di Emilia Di Rocco 1. La critica tematica oggi La critica tematica ha rivelato una straordinaria vitalità nella seconda metà del ‘900. Anche se si è parlato di un “ritorno della critica tematica”, l’attenzione per questo approccio critico non è mai venuto meno. Importanti lavori li abbiamo da Bremond, Pavel, Mario Praz, Cesare Segre. Il dibattito ha seguito due linee: da un lato si è concentrato sul tema in relazione ad altre discipline, dall’altro nel corso del tempo l’attenzione si è spostata sulla critica letteraria. Negli anni ’50 sono apparsi alcuni studi che hanno stimolato la discussione come quelli di Poulet, Richard e Starobinski. Questi, insieme a Bachelard, sono stati protagonisti di una stagione chiave della critica tematica in quanto hanno tentato di mettere ordine nelle reti tematiche e costituire un fondo comune sulla base di molte opere in un contesto geografico-linguistico e temporale limitato e contemporaneo. In questo modo è stata aperta la strada a un possibile progetto teso a fornire una tassonomia dei motivi letterari. L’evoluzione di questa corrente ha incontrato ostacoli e polemiche. Il titolo dell’intervento di Pavel e Bremond “La fin d’un anathème” allude a un’opposizione forte che per l’Italia si può ricondurre a Croce. In un articolo intitolato “La letteratura comparata” il filosofo italiano definisce queste disciplina come arida e ritiene che il suo effetto è quello di provocare un senso di vuoto nel cervello, senza condurre a comprendere un’opera letteraria. Questi studi non si occupano della genesi estetica dell’opera letteraria ma della storia esterna dell’opera già formata e dunque la letteratura comparata non dà nemmeno per intero la notizia del materiale dell’opera letteraria dato che studia solo la tradizione letteraria trascurando gli elementi sociali e i psicologici individui. Harry Levin e Todorov ribadiscono gli studi tematici per la letteratura. A un’attenta considerazione si scopre come in realtà l’interesse per i temi sembra essere molto diffuso. Un importante contributo al dibattito sulla critica tematica è venuto dalla pubblicazione di importanti repertori tematici che rappresentano il frutto degli studi in questo campo. Ad esempio, il “Dizionario dei temi letterari” curato da Ceserani, Domenichelli e Fasano, indica un percorso di tipo cronologico e un approccio tipologico. Gli itinerari tracciati per i singoli temi non sono limitati solo alla letteratura, ma si estendono anche alla musica, all’opera e alle arti figurative. Negli anni ’90, Sollors si è fatto portavoce della necessità di un ritorno alla critica tematica. L’interesse per questo campo è dovuto all’attenzione rivolta dalla letteratura a nuovi campi di indagine con gli studi culturali e gli studi di genere, mentre Ziolkowski individua tra i fattori rivitalizzanti l’interdisciplinarietà che per definizione si concentra sui temi più che sulla forma. Una delle tendenze emerse in questi ultimi tempi si concentra sul motivo. In Italia Segre ha suggerito il primato del motivo (significato naturale) sul tema (significato convenzionale), individuando un collegamento tra i due sulla base della “recursività”. Per Segre, tema e motivo sono “unità di significato stereotipe, ricorrenti in un testo e tali da individuare delle aree semantiche determinanti”. Il tema e il motivo possono essere parole, frasi o gruppi di frasi del testo o parafrasi che istituiscono un significato autonomo; sono caratterizzati dalla stereotipia che scaturisce dalla tendenza alla ripetizione nel testo ma anche dal riutilizzo in una cultura. Un’altra tendenza si concentra sugli aspetti della comunicazione e dell’interpretazione ed è rappresentata da Bremond, Landy e Pavel, i quali considerano il tema una funzione dell’attività interpretativa e propongono l’espressione “referential attention” come avvicinamento o allontanamento dalla critica tematica per stabilire il livello di concretezza necessario per definire il tema o i temi di un’opera. L’attenzione si sposta all’universo che circonda il testo e si concentra sul tema come interazione tra il testo e il mondo, nella convinzione che i temi esistano nella realtà prima che nell’opera letteraria. Tra gli anni ’80 e ’90 del’900 si è assistito a un revival della tematica “umanistica” che riprende la tradizione degli studi sul mito, il simbolo e il linguaggio. La tematica umanistica considera il tema un concetto ermeneutico carico di significato inserito in una rete di rapporti testuali, sociali e culturali alla quale discipline come la biologia, l’antropologia, la pragmatica e l’estetica danno un contributo significativo. Tra gli sviluppi più recenti della critica tematica un ruolo importante è quello dell’analisi informatica del contenuto di un testo che, applicata ad approcci più tradizionali, può dare risultati interessanti, soprattutto se unita alla tematica empirica. Oggi l’interesse di coloro che praticano la critica tematica si concentra sul modo in cui il pubblico sperimenta il tema e su come l’interpretazione dei temi dipenda dall’opera in cui compaiono e dal contesto. In realtà il discorso sulla critica tematica affonda le radici nel passato e conosce importanti sviluppi nel presente. A questo proposito le opere di Thompson, Curtius e Frye hanno aperto spazi per sviluppi futuri. Il primo ha stimolato la ricerca e la riflessione che si è estesa anche alla letteratura. Il secondo presenta al lettore una discussione incentrata sui topoi fondanti della tradizione letteraria occidentale. Il terzo si inserisce nel discorso della tematologia individuando i grandi archetipi letterari. Accanto a questi studi di carattere teorico, si sviluppa anche una ricerca che ripercorre l’evoluzione dei temi e topoi in letteratura. Parallelamente alle opere di finzione, la critica continua a occuparsi dei temi. 2. Temi La letteratura riflette sul significato del tema fin dall’antichità. Mettendo a confronto opere letterarie e teoria della letteratura, Sollors richiama l’attenzione sui momenti salienti della riflessione intorno al tema. Ad esempio: nello “Ione” di Platone, Socrate mette in relazione i temi della poesia di Omero con la forma e lo stile della poesia in un confronto implicito con gli altri poeti. Dante nell’ “Epistola a Cangrande” introduce l’esposizione della Commedia con un riferimento al duplice significato, letterale e allegorico, del tema di un’opera. Nel Rinascimento, ad esempio, il tema della letteratura è la vita e come sostiene Tasso “nessuna selva è piena di tante varietà di alberi di quanta diversità è la poesia. La materia poetica dunque sembra più amplia rispetto alle altre”. L’interesse per il tema in letteratura continua e si precisa nei secoli successivi. Goethe ribadisce l’importanza dei motivi che conterrebbero il potere maggiore della poesia e sostiene che la materia del poeta viene dal mondo, mentre il contenuto nasce dalla mente e che materia, contenuto e forma devono adattarsi reciprocamente. Melville sostiene che la virtù di un tema liberale è tale nell’atto di scrivere quando i pensieri arrivano ad includere tutte le scienze e tutte le generazioni passate. Baudelaire sposta il discorso sulla ricezione dell’opera e individua due temi principali, il motivo religioso e il canto di voluttà, che servono a richiamare l’attenzione del pubblico e a portarlo in uno stato analogo alla situazione in atto. 2.1 Definizioni Occorre distinguere due ambiti: quello della tematologia e quello della tematica. La tematologia si occupa del raggruppamento analitico dei temi, mentre la tematica riguarda lo studio analitico dei temi, oppure la prima ha a che fare con la metamorfosi del tema in testi diversi, la seconda analizza temi che a una lettura ravvicinata possono rivelare il carattere unitario di un testo secondo un’analisi di tipo sincronico. A partire dalle difficoltà teoriche che emergono già nei tentativi di dare una definizione di tema, i diversi atteggiamenti sono in parte alimentati anche dalla mancanza di proposte metodologiche omogenee e dettagliate. A complicare questa situazione contribuisce la proliferazione di termini imparentati a diverso grado con la tema: motivo, topos, soggetto e simbolo. Secondo Ceserani, tema e motivo sono termini interscambiabili nel senso che ogni motivo può diventare motivo e/o viceversa. La distinzione tra tema e motivo è labile e confusa. Wolpers introduce una terza categoria che include temi mitici, biblici, letterari, storici e folkloristici. I tre gruppi comprendono fenomeni legati a tradizioni specifiche. Questi, quando sono combinati con motivi e temi specifici svolgono una funzione analoga a quella dei motivi primari. La discussione moderna sull’argomento deve molto all’analisi teorica di Tomasevskij per il quale il tema di un testo è formato di tanti temi minori che a loro volta presentano altri elementi tematici, di dimensioni inferiori, i motivi. Questi sono combinati e disposti secondo un ordine particolare che può seguire un criterio casuale-temporale, oppure possono essere simultanei. Gli elementi tematici sono presentati nella storia, mentre l’ordine casuale-temporale emerge nella trama. Le considerazioni di questo studioso si inseriscono in un contesto più ampio che coinvolge gli studiosi del folklore, i quali ritengono che il tema di un testo emerga solo a un’analisi della trama e che esso varii in dipendenza delle variazioni di alcuni intrecci costanti. Per chi studia il folklore il tema costituisce la risposta/soluzione all’esigenza di classificare i racconti e una spiegazione del carattere universale del folktale. La difficoltà di dare una definizione del tema dipende dalla poliedricità di questo concetto, che può riferirsi alla materia del testo, ma anche a un processo e a una rappresentazione mentale. Secondo la proposta di Domenichelli si potrebbe considerare che spesso per tema di un’opera si intende “la materia, regolata e ordinata nel discorso dal consilium, con il ductus che a sua volta regola i rapporti simmetrici di concordanza o discordanza tra thema e consilium”. In queste condizioni diventa problematico stabilire il carattere omogeneo del tema. Per questa ragione è stato suggerito di guardare alla critica tematica da una prospettiva interdisciplinare. 2.2 Tema e memoria culturale La confusione circa la critica tematica è legata alla memoria culturale e che i temi costituiscono la tradizione in quanto memoria collettiva. Lo studio del tema, inteso sia come singolo argomento, sia come combinazione di figure o motivi diversi, segue due linee: l’una che riguarda la singola opera, l’altra che si concentra sull’evoluzione nella tradizione. Ciò emerge quando si prendono in considerazione temi di vasto respiro quali il viaggio o l’amore. Per quanto riguarda il viaggio, l’ “Odissea” costituisce il modello classico all’origine di molte storie di viaggio. Sui viaggi dell’eroe omerico sono modellate alcune delle più famose storie del romanzo antico: “Le Argonautiche” di Apollonio Rodio, le “Etiopiche” di Eliodoro, l’ “Eneide” di Virgilio. Accanto al paradigma classico, il tema del viaggio nella letteratura è influenzato anche dalle diverse varianti che la Bibbia presenta al lettore: dal viaggio come punizione nella Genesi al viaggio come mezzo con il quale Dio garantisce all’uomo il possesso della terra. Nel Medioevo il viaggio conosce infinite variazioni: dalla Commedia dantesca, dove il viaggio è un percorso penitenziale, a Chaucer che rinnova completamente l’idea della cornice di matrice classica e medievale, mettendo insieme il Dante della Commedia e il Boccaccio del Decameron. 3. Motivi Il primo a parlare del motivo con riferimento alla letteratura è stato Goethe il quale afferma che la vera forza di una poesia risiede nella situazione, nei motivi. Sulla scia di Goethe, Dilthey sostiene che il motivo può essere pienamente compreso solo quando esaminato in relazione ad altri motivi e che il numero dei motivi è limitato prospettando così di fatto la possibilità di una loro classificazione. Il termine “motivo” compare per la prima volta nell’ “Encyclopedie” di Diderot, riconoscendo nel motivo “l’idea principale dell’aria, quella che costituisce il carattere del canto e della sua declamazione” e “quello distintivo del genio musicale”. Tale definizione affonda le radici nella musica italiana, dove il motivo era considerato l’unità di base della melodia. Uno degli sviluppi di questa idea è il Leitmotiv wagneriano, che costituisce una sorta di commento all’azione di un dramma in musica o di un poema sinfonico. interrogati sul futuro) diventa un topos già nella tarda antichità ed è ripresa da Leopardi. In Leopardi, la discesa all’Ade culmina con il riso sprezzante delle anime verso le illusioni umane. Nelle sue versioni moderne il topos della discesa all’Ade diventa ricerca del tempo perduto con Proust. La discesa agli inferi è uno di quei topoi che contribuiscono a definire il carattere epico di una narrazione. Altro diffusissimo luogo comune è quello del locus amoenus che affonda le radici nell’Eden della Bibbia con la sua atmosfera di beatitudine e armonia contrapposta alla discordia dell’evoluzione storica. Il modello del giardino però non è solo di derivazione biblica: descrizioni di giardini si ritrovano anche nell’Odissea. La descrizione del’isola di Calypso nell’Odissea presenta i tratti tipici di quello che poi diventerà il topos del locus amoenus. La descrizione del luogo in cui Platone decide di ambientare la discussione del Fedro fissa gli elementi principali di un topos del locus amoenus che sarà rielaborato nei dialoghi del Rinascimento. In ambito latino Virgilio presenta i Campi Elisi come locos laetos nell’Eneide. Nel Medioevo Andrea Cappellano canonizza il topos del locus amoenus precisandone le valenze allegoriche. Esempi: il giardino del piacere del Roman de la Rose, l’Eden del Purgatorio di Dante, la selva di Tristano e Isotta di Gottfried Von Strassburg. Nel Decameron di Boccaccio il locus amoenus diventa lo spazio della narrazione. Nell’epica cavalleresca il locus amoenus serve a creare una pausa idilliaca come appare chiaro nell’Orlando Furioso o nella Gerusalemme Liberata. Il topos del locus amoenus è spesso collegato a temi di ampio respiro e a volerne fare un elenco si finirebbe per compilare una lista senza fine. Esso, ad esempio, è legato al tema dell’amore in quanto è sede in cui nasce e si sviluppa questo sentimento, oppure in cui si consuma l’adulterio. Rimanendo sull’amore, il topos dell’invito all’amata a concedersi all’amante percorre tutta la letteratura. Il topo tradizionale dell’invito all’amato a concedersi compare in Catullo, Tibullo e Properzio, nei Sonetti di Shakespeare, nelle Metamorfosi di Ovidio, nelle Eroidi. Dalla storia di adulterio e tradimento di Elena e Paride si arriva alle vicende di Madame Bovary, Anna Karenina ed Effi Briest. Infine, agli inizi del ‘900, Joyce in Ulysses ribalta la tradizione, in quanto Leopold Bloom sembra accettare il tradimento dell’infedele moglie Molly. Altro topos che ha ispirato i grandi scrittori occidentali è quello dell’isola: come paradiso perduto, luogo di perdizione, della meraviglia, della sofferenza, dell’avventura. Oltre a essere legato a un tema vasto e particolarmente fertile come quello del viaggio, intorno a questo topos si coagulano motivi letterari fondamentali quali ad esempio la nostalgia, l’esilio e la scoperta. Le immagini archetipiche dell’isola possono essere rinvenute nell’Odissea. 5. Conclusioni La discussione sulla World Literature impone un’ulteriore riflessione sulla critica tematica e sulle sue componenti fondamentali: temi, motivi e topoi. Le nuove tendenze riflettono un allontanamento da una visione incentrata sul testo, riconducibile ai formalisti russi. Queste tendenze dovrebbero portare ad un dialogo stretto e proficuo con altri campi del sapere quali la psicologia, l’estetica e la pragmatica. Possibili direzioni di indagine sono la tematologia, gli aspetti semantici e figurativi della lingua legati alla cultura e il New Historicism. Soprattutto si dovrebbe iniziare a guardare a temi, motivi e topoi da una prospettiva che abbracci la Weltliterature. RISCRITTURE di Irene Fantappiè 1. Costellazioni Dopo aver ascoltato il racconto della fuga di Enea da Troia, la passione avvampa nel petto di Didone. La vicenda di Didone narrata nel IV libro dell’Eneide avrà un tragico finale, ma il consiglio della sorella Anna era dato a fin di bene; sono gli dei a volere altrimenti. A Venezia si stampa una storia molto simile a quella di Virgilio, ad opera di Pietro Aretino. L’eroe protagonista, fuggito dalla città natale in fiamme, dopo una lunga traversata in mare giunge nella casa di una signora alla quale racconta la sua tragica vicenda. La signora di innamora di lui e gli si concede, nonostante il voto di fedeltà al marito defunto; dopo la sua partenza si toglierà la vita. A spingerla a seguire il proprio cuore sono state le parole della sorella. Alla confessione della passione di Didone la sorella reagisce ridendo cinicamente. D’altra parte la figura della sorella non è l’unico elemento ad aver subito una trasformazione: gli dei sono scomparsi e i personaggi agiscono con motivazioni ignobili. Il protagonista abbandona colei che lo ama senza alcuna valida ragione. Il novello pius Aeneas è scampato alle razzie compiute dai lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527; ha improvvisato una fuga vigliacca durante la quale ha portato via quanto poteva. Inoltre il protagonista dice alla donna di doverla lasciare perché è destinato a fondare una città. Un altro esempio: il XX secolo si apre a Vienna con la nascita di una rivista dalla copertina rosso fuoco dal titolo “Die Fackel”. Proprio nel momento in cui l’impero crolla, Kraus, fondatore della rivista, smetti di dar fuoco a Vienna con le sue tirate di critica politica e sociale. Riprende in mano Shakespeare, non confrontandosi con l’originale ma con una traduzione di Bardo, le mette a confronto, sceglie per ogni verso la frase che più gli sembra shakespeariana, monta insieme questi frammenti e costruisce un nuovo Shakespeare, uno tedesco del quale egli non ha scritto una sola parola; eppure questo è lo Shakespeare di Kraus. Il contributo dello scrittore tedesco consiste nell’aver composto questo singolare mosaico e nell’aver reso pubblica questa collezione presentandola come sua. I nomi Enea o Didone non compaiono mai nel testo di Aretino, eppure esso intrattiene una stretta relazione con l’Eneide. Altrettanto stretto è il rapporto tra il testo krausiano e i drammi di Shakespeare. Ogni epoca abbonda di opere del genere. Si tratta di opere radicalmente diverse l’una dall’altra, per genere, per periodo, per il modo in cui nascono e per la relazione che instaurano con il testo da cui derivano. Il primo problema legato alla questione della riscrittura è che essa risulta aver subito nel corso dei secoli un’evoluzione radicale in conseguenza a diversi fattori (prospettiva diacronica). Questi fattori posso essere, ad esempio, immateriali (come il mutare del concetto di creazione letteraria) e materiali (come il trasformarsi del supporto della scrittura: fondamentale è il passaggio dal manoscritto alla stampa). Una precisa definizione trans-storica della riscrittura risulta estremamente difficile. In prospettiva sincronica, il problema della riscrittura dà luogo a definizioni disomogenee. Recentemente lo si è spesso inteso in maniera ampia, muovendo dalle considerazioni nate attorno alla questione dell’intertestualità. Kristeva scrive che ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni, ogni testo p assorbimento e trasformazione di un altro testo. Barthes riprende alcune considerazioni della Kristeva quando sostiene che l’opera deve essere vista come una produzione in corso, connessa con altri testi e altri codici. Per Barthes la lettura consiste nell’individuare lo sbocco del testo su altri testi. Quindi, se si pone l’accento sul fatto che ogni testo è fatto di altri testi, non c’è opera che non possa e debba essere considerata una riscrittura. Il concetto di riscrittura può essere anche inteso in un’accezione più ristretta. Ad esempio, l’Orlando Furioso non è pensabile senza le precedenti narrazioni del ciclo carolingio e bretone ed è evidente come l’opera ariostesca intrattenga con esse un rapporto diverso da quello che lega “Girone il cortese” di Alamanni al romanzo bretone in prosa “Guiron le Courtois”. Alamanni rielabora un testo preciso che segue per lo più alla lettera, riprendendone la trama, i personaggi e la maggior parte delle espressioni. “Girone il cortese” però non può essere considerato una traduzione sia perché il romanzo in prosa viene svolto in versi sia perché il romanzo rispetta l’unità d’azione aristotelica. L’accezione ristretta di riscrittura permette di rendere oggetto di analisi critica alcuni testi che sono stati spesso ignorati dalla critica perché pertinenti a generi che risultano marginali. Questa è la posizione di Lefevere, che distingue tra writing e rewriting e include in quest’ultima categoria testi di tutte le epoche che manipolano opere preesistenti per adattarle a un pubblico diverso. 2. Che cos’è la riscrittura. La riscrittura come paradosso Nell’ambito delle letterature comparate la riscrittura costituisce un problema importante. Occuparsene significa interrogarsi sul principio di mutamento/non mutamento della letteratura nel corso delle epoche, oltre che sulla ridefinizione dei confini della letteratura. Se volessimo cercare il filo rosso che lega tutte le accezioni in cui la riscrittura è stata intesa, si potrebbe individuarlo nella natura della riscrittura stessa: riscrittura è ripetizione senza replica. La riscrittura è un “testo secondo” che allo stesso tempo intende essere un “testo primo”. Finora la riscrittura è quasi sempre stata associata ad immagini bidimensionali. Tenendo a mente il carattere paradossale della riscrittura ci si rende conto che tali figure bidimensionali funzionano solo se le si organizzano in maniera tridimensionale. Cioè, possiamo continuare a intendere il testo “primo” e “secondo” come il sopra e il sotto o come il verso e il recto, ma solo a patto di prendere questa superficie testuale bidimensionale e organizzarla tridimensionalmente. Possiamo quindi pensare alla riscrittura come uno dei paradossi matematici più noti, ovvero come un nastro di Mobius. Esso è composto da un recto e da un verso, eppure facendo scorrere la punta di un dito sul nastro ci si accorge che tali recto e verso sono indistinguibili. Così, nella riscrittura il testo primo e secondo vengono esperiti come superficie testuale. Al fine di compiere una sistematizzazione della riscrittura, bisogna muoversi per assi. Si tratta di poli inconciliabili tra di loro eppure presenti nella riscrittura. Primo asse: testo/processo. Il carattere paradossale della riscritture emerge qualsiasi sia l’aspetto specifico preso in considerazione. Ad esempio, l’autore: Kraus si arroga il diritto di dirsi tale se il contenuto di quel suo libro è in tutto e per tutto shakespeariano. In una riscrittura ci sono spesso autori nascosti: Aretino non ha fatto derivare il suo libro direttamente da quello di Virgilio, ma ha copiato da una traduzione del ‘400. I passi del dialogo più fedeli a Virgilio sono stati scritti dal traduttore del’400. Alla riscrittura, quindi, corrisponde un’autorialità complessa e ibrida. Poche tipologie di testo mettono in crisi il concetto di autore come la riscrittura. Alla domanda “chi è l’autore di una riscrittura” è impossibile rispondere fino a quando non ci si rende conto di uno degli aspetti paradossali della riscrittura stessa: ovvero che tale concetto indica sia testi letterari che processi letterari. Secondo asse: trasformazione seria/satirico-parodica. Che rapporto c’è tra le riscritture e il testo da cui originano? L’operazione krausiana è mossa dall’ammirazione per i drammi del poeta inglese. Riscrivere Shakespeare in un’epoca in cui tutto sembra disfarsi in macerie significa voler offrirgli un tributo e produrne un’imitazione seria. Al contrario, Aretino affronta Virgilio con un intento più critico. La gerarchia dei valori su cui si regge l’Eneide viene rovesciata: Aretino la capovolge in forma parodica. Le riscritture possono quindi coprire tutto lo spettro che va dall’imitazione seria alla parodia più dissacrante. Terzo asso: spazi di memoria/vuoti. La riscrittura può ambire sia all’appropriazione sia al recupero, sia all’espulsione dal canone sia al tentativo di strappare dall’oblio e ridare al presente. La si può intendere come una nuova messa in scena dello spazio di memoria. Le riscritture di Kraus sono un tentativo di rielaborare lo spazio di memoria shakespeariano attraverso atti di cancellazione ma anche di trascrizione. Al presente Kraus vuole restituire la lingua tedesca, quella degli autori del XIX secolo Con queste riscritture Kraus consolida il proprio habitus di scrittore. Se invece Aretino pubblica una riscrittura parodica di Virgilio è perché intende esprimersi a favore di un’idea di creazione letteraria basata su un concetto di imitazione come appropriazione e come furto. riconfigurazioni di spazi di memoria. In secondo luogo, Lachmann si concentra sui concetti relativi alla memoria che vengono trattati nei testi. I suoi studi, quindi, si muovono su un doppio binario: da una parte trattano il testo come memoria e dall’altra la memoria del testo. Un’importante tesi della Lachmann è che il dialogo della cultura con la cultura implichi sia processi di memoria che di oblio: bisogna occuparsi quindi sia degli spazi di memoria pieni che di quelli vuoti. Le riscritture sono strutture testuali manifeste ma anche latenti. Anche il principale modo in cui una cultura costruisce in positivo la sua identità deriva infatti dall’interazione dei processi di messa in luce e di messa in ombra. Tali processi di inclusione e di esclusione sono regolati da posizioni i cui significanti sono i concetti culturali articolati fino a quel determinato momento storico. Nelle riscritture la cultura è presente come oggetto della riscrittura e come paradigma che orienta la riscrittura stessa. Riscrivere un testo letterario significa prendere parte al passato. Riscrivere un testo significa riportarne in vita e annientarne il senso. Nella riscrittura diverse configurazioni formali e semantiche di due tesi entrano in relazione dialogica. Tale relazione dialogica non si dà sempre allo stesso modo. Lachamann riconosce una progressione – che esemplifica individuando tre stadi: traduzione, imitatio, intertestualità – alla quale corrisponde una progressione del ruolo del testo primo. Nel casso della traduzione esso è presente come testo originale e procedendo verso l’intertestualità si trasforma gradualmente in pre-testo. Nella traduzione ha luogo una sostituzione di segni attraverso altri segni che si è posta come traguardo utopico il concetto di equivalenza. Le traduzioni non provocano il dissolversi del testo secondo nel primo; quest’ultimo domina il paratesto. Nell’imitatio l’originale viene contraffatto e stilizzato in modalità seria o parodica. L’intertestualità è invece la presenza di un testo in un altro testo. Lachmann utilizza queste categorie come strumenti ermeneutici per illustrare il suo discorso teorico. Tra imitatio e intertestualità si colloca la riscrittura fatta da Puskin nel 1836 di uno dei Carmina di Orazio. La riscrittura si rifà non solo dall’originale oraziano ma anche da altri due testi derivati dall’ode: quello di Derzavin e quello di Lomosonov. Quest’ultimo inserisce in un suo trattato di retorica, due versioni dell’ode di Orazio: una in prosa, che intende renderne il contenuto, e una in versi che vuole riprodurne la forma. L’originale oraziano però rimane chiaramente riconoscibile. Se Lomonosov traduce Orazio in russo è perché lo considera un universale. Derzavin riscrive il testo percependolo come altro, estraneo, decide di russificare il testo che si trova davanti. Derzavin scrive come Orazio avrebbe scritto se avesse vissuto qui e ora, evoca l’originale e lo spsota. Puskin instaura con l’originale oraziano una relazione dialogica molto più complessa. La sua riscrittura è una successione di grovigli di referenze. Il testo di Orazio che vi si legge è ora l’oggetto di una mise en scene, di una riconfigurazione dello spazio di memoria negoziata con la propria cultura. Nell’incipit cita Derzavin che cita Orazio, ma le citazione da doppie diventano multiple: il concetto oraziono di immortalità è ora un tutt’uno con il tema barocco della vanitas e un tutt’uno con l’ossianismo e la poesia cimiteriale preromantica. Il testo è rimasto l’autoepitaffio di un poeta dell’ultimo Orazio. Lachmann ci parla di un “continuare a scrivere”. In Puskin la dimensione diacronica della produzione di senso si incrocia con quella sincronica. La contaminazione di elementi eterogenei porta al sincretismo. L’estraneo viene archiviato e dispiegato. Nel testo di Puskin il monumentum è descritto come più alto di una colonna alessandrina, quella eretta a San Pietroburgo nel 1834. E’ interessante notare che la testa d’angelo posta in cima a quella colonna di San Pietroburgo sarà il modello dei monumenti eretti a Puskin dopo la sua morte. La metafora del testo diventa così metafora realizzata. 3. Concetti del riscrivere Da diversi approcci sono nati concetti legati alla riscrittura su cui occorre fermarsi. Oltre all’ipertesto e all’ipotesto di Genette, oltre alla Weiterschreiben di Lachmann, bisogna chiarire il concetto di interferenza (Even-Zohar), di manipolazione (Hermans) e di rewriting (Lefereve). Il concetto di polisistema viene sviluppato negli anni ’60 e ’70 da Even-Zohar. Secondo lo studioso, la letteratura, la cultura, la lingua devono essere considerati come sistemi di sistemi. Il concetto di sistema permette di analizzare i fenomeni letterari con un approccio dinamico; oggetto dell’analisi è il modo stesso in cui un sistema opera e muta nel tempo. Abbandonata l’idea di impianto positivista di raccogliere dati per analizzarli nella loro sostanza, l’approccio sistemico alla letteratura si concentra sulle relazioni, mirando a scoprire le leggi che regolano il mutare dei diversi fenomeni. In questo contesto Evan-Zohar crea il concetto di interferenza, una relazione tra sistemi nella quale un sistema target importa un elemento da un sistema source. L’interferenza risulta essere un concetto perfettamente applicabile alla questione della riscrittura poiché mette a fuoco il modo in cui il sistema letterario muta attraverso l’importazione di elementi da altri sistemi letterari. L’interferenza può essere unilaterale o bilaterale, e simmetrica. Non può essere analizzata di per sé. Per essere compresa è necessario tenere conto della distinzione tra sistema indipendente o dipendente. L’interferenza è influenzata dalle gerarchie che regolano il polisistema letterario. Il target dell’interferenza tende a scegliere la propria fonte in base al prestigio di cui gode essa stessa o il (poli)sistema a cui appartiene. Sussistono fattori che possono agevolare o ostacolare le interferenze. Nel descrivere i processi di interferenza Evan-Zohar mette l’accento sul fatto che sono le relazioni interne al sistema target a determinare il modo in cui l’elemento del sistema source viene rielaborato. L’interferenza inoltre implica processi di semplificazione o schematizzazione della propria source. Ad esempio, solo pochi elementi del complesso affresco costituito dalla Divina Commedia dantesca rimangono nella riscrittura che ne ha fatto Pasolini: “La divina mimesis”. Nonostante alcuni passi pasoliniani sembrino seguire quasi alla lettera il modello dantesco, Pasolini sceglie soltanto alcuni temi e motivi che sviluppa poi discostandosi dal suo originale in maniera molto netta. L’autore immagina di condurre un viaggio nel mondo ultraterreno assieme a una guida, ovvero Pasolini stesso, o meglio un doppio di se stesso: il poeta civile che era stato negli anni ’50. Manipulation è una parola chiave di una corrente degli studi sulla traduzione che ha però dato origine a importanti riflessioni riconducibili al tema della riscrittura. A tale corrente viene ascritto il cosiddetto cultural turn dei translation studies teorizzato sia da Hermans che da Bassnett e Lefereve. In questi volumi la traduzione è intesa come istanza di negoziazione all’interno dinamico della cultura. Agli studi sulla traduzione si adatta un ampio apporto descrittivo. Hermans sostiene che ogni traduzione implichi un grado di manipolazione del testo originale per un certo scopo rimarcando da una parte l’apporto originale del traduttore e dall’altra l’influenza dei fattori storico-culturali. Lefereve ha dedicato al concetto di riscrittura un volume. Egli prende le mosse sia da Even-Zohar che da Hermans; nel quadro diq eusto background teorico sviluppa il concetto di rewriting, ovvero l’adattamento di un’opera letteraria per un pubblico diverso, con l’intenzione di influenzare il modo in cui quel pubblico legge quell’opera. Esempi di rewriting sono la traduzione intra- e interlinguistica, i compendi geografici, la critica letteraria, le antologie, l’editing; tutte implicano una manipolazione del testo. I rewriter adattano e manipolano in una determinata misura gli originali per renderli compatibili con la corrente ideologica o poetica che risulta dominante nella loro epoca. Il rewriting svolge un ruolo cruciale nell’evoluzione del sistema letterario di cui fa parte. L’interazione di writing e rewriting è responsabile della canonizzazione di specifici autori o opere e dell’esclusione di altre, ma anche dell’evoluzione di una data letteratura. I rewriters spingono una data letteratura in una determinata direzione creando immagini di uno scrittore, di un’opera, di un periodo storico, le quali spesso hanno avuto un impatto maggiore e raggiunto un pubblico più esteso delle opere originali. La critica letteraria non ha riconosciuto pienamente l’apporto delle pratiche di rewriting all’evoluzione dei sistemi letterari. Lefereve si esprime a favore di un cambio di paradigma: una critica letteraria che rinunci a essere meramente writing- based diventerebbe capace di cogliere con maggiore acutezza le dinamiche intraletterarie e il rapporto tra letteratura e il contesto politico e storico-culturale. Nel rewriting emergono con chiarezza i vincoli di natura culturale, ideologica, politica, economica. Esempio di vicnolo è il patronage, con cui si intendono i lettori di professione, e più in generale ogni persona o istituzione che detenga il potere di indirizzare la scrittura e la riscrittura. Con il mutare di patronage muta il canone letterario. Più il patronage è differenziato più la comunità dei lettori tende a suddividersi in sottogruppi. Un altro esempio di vincolo è ciò che Lefereve chiama poetics: motivi, generi, modelli letterari. La differenziazione tra poetics di diverse letterature non coincide con quella tra lingue. Ad esempio, in età ellenistica lo stesso tipo di poetics era comune a scrittori di lingue diverse; le poetiche sviluppate dalla letteratura provenzale hanno influenzato molti più autori; i primordi della letteratura giapponese avvengono sotto l’egida di poetics in lingua cinese. Uno dei vantaggi del concetto di rewriting è la capacità di riunire pratiche intertestuali assai diverse sotto la stessa insegna. Un esempio sono le rielaborazioni shakespeariane (come quella di Kraus), che mettono contemporaneamente in atto processi di traduzione endolinguistica, traduzione interlinguistica, traduzione intersemiotica, critica, antologizzazione, editing. 4. Che cosa non è la riscrittura. La riscrittura come limes Le riscritture non sono quasi mai solo riscritture. Nessuna riscrittura è riducibile a essere considerata come tale. Se la si mette a paragone con altri generi, risulta essere più e meno di tali generi: coincide con essi ma solo in parte, eppure il comprende a pieno e contiene anche altro. La riscrittura è più e meno di una traduzione. Quelle di Kraus e di Aretino non possono essere di cerro considerate traduzioni eppure lo sono anche. Si può pensare alla riscrittura come un limes: come un confine abitato da altri processi. Ciò che ci fa pensare questo è l’evoluzione dei generi letterari. Sottolineare il carattere ibrido di generi è una delle caratteristiche principali della critica letteraria di oggi. Questo è valido per i gender studies, per i rapporti interculturali, per gli studi di traduzione. 4.1 Traduzione, antologia, critica, editing, citazione La versione tedesca del Diario di Anne Frank esce appena tre anni dopo la prima edizione olandese del 1947. La traduttrice riscrive il testo del diario per renderlo meno indigeribile a un pubblico tedesco ancora in mezzo alle macerie della II Guerra Mondiale. Numerosi sono i generi appartenenti alle letterature non europee che hanno avuto fortuna in Europa. Dalla letteratura giapponese proviene l’haiku. Anche da quello che Lefereve chiama “Islamic system” le letterature europee hanno importato diversi generi, come ad esempio la roba’i. Eppure un genere che occupa una posizione più importante, la qasida, è del tutto assente nelle letterature europee. Ciò è dipeso dall’impossibilità di interpretare tale genere usando solo le categorie europee. Il problema, quindi, è stato da una parte l’alterità di questo genere letterario e dall’altra la posizione marginale della letteratura islamica in Europa. Le antologie possono accelerare o ritardare il processo del costituirsi della letteratura di una nazione o di un continente. Attraverso lo studio delle antologie di poesie africane pubblicate tra il 1964 e il 1984 è possibile evincere sia il modo in cui tale letteratura è stata recepita e canonizzata in Occidente sia la percezione che tale sistema letterario ha di sé stesso. Queste antologie sono pensate per un pubblico non africano. Eppure nelle antologie più recenti la selezione predilige autori che ne fanno uso per portare avanti un discorso proprio. Le antologie rivelano, quindi, come la letteratura si costituisca come sistema. La critica letteraria può essere una forma di riscrittura perché pur riprendendo i caratteri fondamentali del testo, ne può modificare radicalmente il senso e manipolarlo. Il caso di Madame de Stael è significativo. L’opera della scrittrice viene si lodata ma sempre presentata come incomparabile alla personalità di colei che La letteratura si nutre di un dialogo costante tra testi di diversa epoca e provenienza geografica e culturale. Ogni scrittura si pone anche e prima di tutto come rilettura. Quella interna alla letteratura non è l’unica rete di relazioni entro cui il discorso letterario si muove. La letteratura si muove da sempre in dialogo anche con le altre arti. La letteratura comparata si fonda sullo studio delle relazioni tra testi di lingue, culture e epoche diverse e si occupa dei rapporti che la letteratura ha con le altre sfere dell’espressione umana. Questo assioma è pienamente condiviso da tutti coloro che si occupano di comparatistica. Sul piano pratico dell’interpretazione critica e dell’analisi intersemiotica la questione si è rivelata complessa. A complicare il quadro sono stati anche ostacoli di tipo tecnico. La mancanza di strumenti idonei a uno studio comparato della letteratura e delle altre arti dovrebbe fungere da sprone per allargare i propri orizzonti di studio e di ricerca. La letteratura e le altre arti hanno una lunga storia in comune. Se si guarda alla storia dell’estetica comparata, si registra una sostanziale alternanza tra posizioni separatiste, che supportano l’idea di un’irriducibile unicità di ciascuna arte e sostengono l’impossibilità di un reale confronto tra modalità di espressione diversa, e posizioni unitarie che privilegiano un’interpretazione in chiave sin estetica delle arti e propendono per una visione impura. Che tra le arti vi sia un rapporto di familiarità lo assicura il mito classico. Il dialogo inter artes subì un arresto con il “Laocoonte” di Lessing. Il testo del 1766 poneva la relazione tra la letteratura e le altre arti nei termini di una precisa delimitazione di campo tra la poesia e la pittura. La contrapposizione operata da Lessing tra arte del tempo e della narrazione lineare e arte dello spazio e della raffigurazione simultanea presterà il fianco a puntuali critiche nel corso dei secoli per essere poi definitivamente confutata in tempi recenti: come spiega Fusillo risulta difficile separare due categorie che si intrecciano strettamente in ogni atto di percezione. I risultati raggiunti dall’arte figurativa nella rappresentazione della temporalità dimostrano come linguaggio figurativo e linguaggio verbale siano legati. Sarà l’800 a farsi promotore di una visione utopica e a tratti iperbolica i unità tra le arti. Una delle parole chiavi è “contaminazione”: interpretando questo termine, il Romanticismo fa della contaminazione tra i generi e tra le arti una vera e propria categoria estetica. Centrale nella poetica baudeleriana, l’utopia sinestetica giungerà al culmine nel monumentale progetto wagneriano del “Gesamtkunstwerk”, che prevedeva la fusione tra poesia, dramma, arti figurative e musica. Mentre la ricerca artistica si muoveva nel tentativo di una convergenza tra le arti, la riflessione teorica del ‘900 non avrebbe cancellato le tracce di quella delimitazione di campo operata da Lessing nel “Laocoonte”. Se da un lato l’ideale estetico crociano di unicità e irripetibilità di ogni esperienza artistica non favoriva lo sviluppo di un’estetica comparata delle arti, dall’altro persino Curtius non avrebbe esitato a pronunciare giudizi apodittici sulla facilità della scienza delle immagini rispetto alla complessità della scienza dei libri. Proprio a partire dal testo di Lessing, Warbung arriverà a teorizzare le “Pathosformeln”, ovvero quell’insieme di miti, figure, simboli in cui si condensa la memoria culturale e corale dell’Occidente. Warbung applica lo studio delle costanti al campo della storia delle arti e della cultura svuotando definitivamente di senso l’idea di una presunta assenza di dimensione temporale delle immagini. “Mnemosyne” è anche il titolo scelto da Mario Praz per il suo studio dedicato al parallelo tra letteratura e arti visive. Praz individua proprio nella memoria la chiave per sottrarre il discorso sull’unità della arti della vaghezza che rischia troppo spesso di assumere. Praz tenta di sottrarre il discorso sulla relazione tra le arti dalla ricerca ossessiva di rapporti tematici o di specifiche influenze di un artista su un altro e pone l’attenzione sui concetti di forma e funzione. L’estetica comparata degli ultimi decenni viaggia in un’altra direzione. L’ossessione per la ricerca di precise corrispondenze formali tra opere letterarie non è più in grado di raccontare una realtà in continua evoluzione. Alla relazione tra le arti si guarda negli ultimi decenni alla luce dei due concetti chiave di ibridazione e di contaminazione. L’opportunità di porre la letteratura all’interno di un processo più ampio e complesso di trasformazione delle modalità e dei mezzi di espressione artistica si traducono nella necessità di adottare una visione impura da contrapporre al feticismo del testo che dominava nel periodo strutturalista: l’unica visione oggi in grado di affrontare con profondità e ampiezza di sguardo la questione del rapporto tra la letteratura e le altre arti. Questo approccio è debitore alla prospettiva dei visual studies che pone lo studio dei rapporti tra la letteratura e le arti visive, più esattamente tra testo e immagine. Il rapporto tra parole e immagini ha conseguenze di tipo culturale. Testuale e visuale sono due categorie ormai insufficienti per interpretare fenomeni complessi come l’ekphrasis: non si può parlare di letteratura arti visive oggi senza considerare la funzione dello sguardo e del dispositivo. Ripensare, quindi, alla relazione tra testo e immagine con paradigmi nuovi rappresenta una delle tappe necessarie per riformulare con strumenti aggiornati un approccio di studio aperto alle relazioni tra letteratura e altre arti. 2. Letteratura e arti figurative Il confronto a due tra la letteratura e le altre espressioni artistiche è riduttivo per comprendere la portata di un fenomeno complesso come quello della rete delle relazioni intersemiotiche. Ogni linguaggio artistico ha stabilito rapporti peculiari con la scrittura letteraria. Cominciare il percorso di ricognizione dalla relazione che la letteratura intesse con le arti figurative appare allora una scelta obbligata. Pittura, scultura, architettura rappresentano da sempre il terreno limitrofo con il quale la letteratura si misura. Se la fortuna del motto oraziano mostra come pittura e poesia fossero avvertiti da Orazio come un continuum espressivo, la celebre descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade e la digressione sulla storia di Arianna e Teseo rappresentano i primi esempi di ekphrasis. E’ interessante notare come a questa tecnica descrittiva ricorrano diversi ambiti di scrittura e generi letterari: dalla poesia epica, nella quale l’ekphrasis ha origine, alla prosa, dove raggiunge una particolare densità nel romanzo modernista. Una situazione altrettanto di confine è quella degli scrittori che si sono cimentati nella critica d’arte raggiungendo esiti del tutto originali La descrizione di un’opera d’arte rappresenta una delle più fortunate occasioni di incontro la letteratura e arti figurative. Un caso interessante è quello dei “talenti doppi o multipli”: quegli artisti poliedrici che si sono espressi in più di un linguaggio conseguendo risultati di grande valore artistico. L’esempio classico è quello di Michelangelo Buonarroti. Se ogni ambito artistico è dotato di un proprio codice espressivo il linguaggio artistico nel quale un autore decide di esprimersi non dovrebbe rappresentare un mero ostacolo di tipo tecnico ma un elemento tale da determinare scelte specifiche che saranno frutto dell’interazione tra la poetica dell’autore e l’ambito espressivo entro cui la sua opera, di volta in volta, si colloca. Vi sono altri casi in cui è l’autore a trovarsi al centro di una dinamica di interazione tra letteratura e arte. Questo avviene quando la figura dell’artista viene tematizzata e finzionalizzata dalla letteratura per assumere lo statuto di personaggio e molto spesso di protagonista dell’opera letteraria. La più alta densità di questo fenomeno si registra tra l’800 e il ‘900, quando la figura dell’artista assume le caratteristiche del dandy. Da Baudelaire a Wilde a Mann, l’artista è anche colui che deve fare i conti con il lato oscuro di una vita consacrata al culto del bello Sensibile, finirà per sperimentare come creazione e fama possano trasformarsi nell’esatto contrario. Due strategie lo attendono: il decadentistico crogiolarsi nella malattia, intesa come luogo privilegiato di ispirazione artistica, o l’autoironico camuffamento nei panni del pagliaccio. Si inaugura così quell’archetipo dell’artista come clown tragico, lucido e malinconico osservatore di una realtà mondana dalla quale è escluso. E’ il percorso intellettuale e umane che rende tale un artista. In pieno modernismo il Kunstlerroman diventa occasione per la letteratura di riflettere su sé stessa e sugli imprevedibili meccanismi dell’ispirazione, come nei casi della Recherche proustiana e del Dedalus di Joyce. Questi ultimi due esempi mostrano come nella tematizzazione della figura dell’artista i confini tra le arti spesso si confondono: artista è colui che sente la vocazione artistica come proprio destino. Tornando invece alle relazioni tra letteratura e arti figurative, bisogna considerare quei casi in cui testo e immagine concorrono alla composizione di un’opera dando vita a vere e proprie forme miste. Le immagini svolgono una funzione di corredo alla parola scritta, vi sono forme miste in cui testo e immagine risultano inscindibili: è il caso degli iconotesti, in cui teso e immagine condividono lo stesso supporto, e degli iconismi dove intrattengono un rapporto di tipo simbiotico. Contaminazioni complesse tra testo e immagine si verificano nel caso dell’interazione tra letteratura e fotografia. Ad esempio come accade nella Camera Chiara di Barthes, dove l’accostamento tra parola scritta e immagini fotografiche sono dotate di autonomia rappresentativa e narrativa e si nota come sono profondamente legate al discorso sulla memoria, individuale e collettiva. Nel caso della Camera Chiara è una perdita, quella della madre, a fungere da motivo scatenante per una profonda riflessione sulla fotografia e sui modi razionali o emotivi in cui colui che osserva può entrarvi in contatto per coglierne il senso. Con il tramite della memoria, la fotografia intesse un profondo legame anche con la scrittura autobiografica: due esempi recenti sono la “La camera scura” di Grass e la corrente artistica Narrative Art, nella quale si riconosce anche Sophie Calle. Anche il lavoro d’archivio su “proust et la photographie” a cui Barthes si stava dedicando gli ultimi mesi della sua vita, andrebbe letto alla luce del legame tra fotografia e ricostruzione del vissuto. Complessi e affascinanti sono anche i modi in cui la fotografia penetra nell’immaginario narrativo, come vero e proprio procedimento della rappresentazione. Il romanzo coglie la peculiarità dell’occhio fotografico e prova a imitarne procedimenti e tecniche. La cattura del particolare e la seduzione esercita dal dettaglio fanno così del mezzo fotografico un riferimento obbligato per chi si sia occupato dell’oggetto in letteratura. Il dialogo tra letteratura e architettura si traduce in modo efficace nel frequente utilizzo, nei testi narrativi e in sede critica, di metafore. “Il castello” di Kafka e “Le città invisibili” di Calvino sono gli esempi più noti di un fenomeno a cui Proust ci aveva già abituato: una comunità strutturale che assume sintetica icasticità nell’immagine della muraglia. 3. Letteratura, musica e arti dello spettacolo La profonda relazione che la letteratura intrattiene con le arti dello spettacolo si pone sotto il segno della transcodificazione della riscrittura. Le arti dello spettacolo traghettano e veicolano materiale attinto dalla letteratura. Questa migrazione avviene prima di tutto al piano contenutistico e consiste nella riscrittura di un mito o nella reinterpretazione di un tema o di un motivo in altro linguaggio artistico. Significativo è anche il percorso inverso: quello che avviene nel caso in cui alcune tecniche artistiche migrano in letteratura. Basti pensare alla tecnica del Leitmotiv di Wagner che Mann importa nella scrittura romanzesca. Uno degli ambiti di maggiore interesse degli studi inter artes è rappresentato dalla riflessione sui rapporti tra letteratura e musica. Si pensi allo sviluppo dei “Lieder” musicati da Schumann, Schubert e Liszt su testi poetici di Goethe, Schiller e Heine. E’ proprio Luciano Berio a suggerire come la relazione tra testo letterario e testo musicale vada intesa nei termini di una traduzione agonistica in cui il testo letterario deve lasciarsi modificare e reinterpretare dalla come elemento fondante della propria poetica. Facendo del collezionismo un motivo strutturante della trama, il processo messo in moto dall’autore si pone come un’ulteriore occasione per riflettere su quell’idea della scrittura come archivio. Se già alcune pagine del romanzo lasciavano spazio a momenti di scrittura di tipo tecnico o saggistico, l’ultimo passaggio si configura come la pubblicazione di un vero e proprio catalogo intitolato “L’innocenza degli oggetti” (un iconotesto). La modalità di relazione più consolidata tra letteratura e arti visive è nota con il nome greco di ekphrasis, attribuito a Ermogene che la definiva come un discorso descrittivo che pone l’oggetto sotto gli occhi con efficacia. E’ necessario distinguere l’ekphrasis dalla descrizione tout court: oggetto della descrizione sono manufatti artistici realmente esistenti (ekphrasis mimetica) o frutto dell’immaginazione dell’autore (ekphrasis nozionale). E’ alla poesia alessandrina e al romanzo ellenistico che si deve invece una concezione puramente descrittiva dell’ekphrasis intesa come momento di pausa della narrazione. I più recenti studi sull’ekphrasis vanno tutti nella direzione di un affrancamento da una dicotomia tra narrazione e descrizione. La svalutazione della natura puramente descrittiva dell’ekphrasis è legata alla valorizzazione del concetto di enargheia, intesa come vividezza della rappresentazione e come capacità di creare effetti di realtà. La potenza icastica dell’ekphrasis ha implicazioni di tipo mimetico e di tipo narrativo. Secondo Fusillo è necessario adottare una concezione impura di ekphrasis, che tenga conto della sua funzione descrittiva ma anche della sua capacità di inserirsi all’interno della tensione narrativa. Una nuova concezione di ekphrasis chiama in causa il piano della ricezione e del patto con il lettore. Sarebbe quindi necessario leggere anche la tecnica dell’ekphrasis come strumento utile a catturare l’attenzione del lettore/spettatore. Un esempio di come l’ekphrasis possa svolgere un ruolo centrale al’interno della narrazione è dato dai casi in cui la descrizione dell’opera d’arte è collocata in luoghi significativi e strategici come l’incipit dell’opera. L’ekphrasis assume in questi casi il compito di fare breccia nell’attenzione del lettore preparando la sua entrata nella storia e costringendolo a rimodulare il proprio orizzonte di attesa. Il romanzo postmoderno si serve di questo strumento: basti pensare al prologo di “Underworld” di De Lillo, intitolato “Il trionfo della morte” o all’incipit del “Vangelo secondo Gesù Cristo” di saramago. Quest’ultimo caso appare particolarmente significativo perché chiama in causa alcuni nodi centrali della riflessione odierna sull’ekphrasis: dall’ambiguità tra ekphrasis mimetica e nozionale fino al rapporto tra ekphrasis e riscrittura e alla concezione della scrittura come palinsesto. Colpisce innanzitutto, dell’incipit di Saramago, l’abilità nel tenere il lettore in uno stato di sospensione. Il procedimento ecfrastico è evidente fin dall’inizio. L’ambiguità tra ekphrasis mimetica e nozionale verrà sciolta solo fuori i confini dell’opera quando Saramago svelerà l’autore e il titolo dell’incisione ricreata nella parole del prologo. Questa prima ambiguità si presta a essere letta come metafora dell’intero romanzo costruito sul confine tra realtà e finzione. La scelta di un’incisione del grande artista di Norimberga colpisce per il soggetto rappresentato: il racconto di Saramago prende le mosse dalla morte di Cristo. Anche la scelta della “Crocifissione” di Durer si rivela metafora dell’intera operazione compiuta da Saramago nel suo “Vangelo”. A stabilire un parallelo tra l’opera dell’incisore e quella dello scrittore interviene un ulteriore elemento: la compresenza sulla scena di elementi risalenti a epoche diverse. In contrasto con il primo piano di ambientazione biblica e palestinese compaiono alcuni personaggi ed elementi architettonici evidentemente fuori contesto e oggetti simbolici che rimandano a leggende di provenienza medievale. La stessa scrittura originaria dei Vangeli si rivela d’altronde un’operazione non ingenua ma a sua volta frutto di un’interpretazione soggettiva. Ogni rappresentazione della Crocifissione è il risultato di una rielaborazione ibrida, soggettiva e personale e insieme popolare e collettiva, delle vicende narrate. Essa subisce l’interferenza del tempo e del contesto storico in cui ha origine. Il modo in cui Saramago interpreta l’incisione di Durer diventa così la spia per comprendere l’atteggiamento stesso con cui l’autore si appresta a riscrivere il Vangelo: un’interpretazione libera e personale, figlia del suo tempo. Il ricorso all’ekphrasis diventa occasione per riflettere sui metodi della rappresentazione artistica e sui mezzi di rappresentazione attraverso al riscrittura. Ci troviamo di fronte a una delle funzioni caratteristiche dell’ekphrasis, quella autoreferenziale e auto rappresentativa. L’ekphrasis può essere anche il luogo, il modo o il pretesto per una riflessione teorica sulla propria arte. Se la pratica di descrizione di un’opera d’arte più consolidata è la transcodificazione in parole di un’opera di tipo figurativo non mancano esempi di descrizioni di opere musicali che della tecnica dell’ekphrasis vera e propria. Un esempio su tutti è rappresentato dal Doktor Faustus di Mann. Parafrasi letterarie di composizioni musicali, reali o inventate costellano tutta l’opera di Mann. Si pensi alle numerose pagine dedicate all’analisi di opere musicali realmente esistenti. Un caso più significativo è rappresentato dalla descrizione dei componimenti musicali di Leverkuhn ispirate in alcuni casi allo stile dodecafonico ma frutto della visionaria immaginazione dello scrittore. I suoi componimenti vengono presentati dal narratore che ne offre da un lato la ricostruzione di genesi e modelli e dall’altro ne descrive lo sviluppo, la struttura, le scelte ritmiche e timbriche. La descrizione dei componimenti a volte è talmente dettagliata e densa di riferimenti tecnici da far dimenticare che si tratta di opere musicali immaginarie. A Schonberg, che lo accuserà di aver fatto un largo uso improprio della tecnica dodecafonica Mann risponderà affermar mando che tutte le descrizioni di componimenti musicali presenti nel romanzo erano il frutto della propria invenzione di scrittore. Una profonda conoscenza della musica del ‘900 e una sicura padronanza tecnica del linguaggio musicale non mancavano a Mann, che allo studio della musica si dedicò durante la gestazione del Faustus. L’obiettivo è pienamente raggiunto: la potenza icastica delle ekphrasis musicali del romanzo è tale da rendere doveroso far rientrare anche alcune opere di Leverkuhn. 5. Sul confine: prospettive Gli studi inter artes hanno trovato una naturale collocazione nel settore di studi delle Letterature Comparate. La marginalizzazione del settore comparatistico nelle università italiane potrebbe portare come conseguenza anche la svalutazione degli studi inter artes che si pongono per definizione sul confine. Il loro rilancio conferma come interrogarsi sul legame tra la letteratura e le altre arti sia un’esigenza viva e ancora attuale nel mondo della ricerca letteraria. Lo scatto compiuto negli ultimi anni dalla ricerca comparatistica è quello di considerare l’interazione tra le arti come tema di ricerca e come approccio per la comprensione di fenomeni letterari complessi. Si pensi ai due libri di Fusillo sull’oggetto-feticcio e di Boitani sulle stelle che riconoscono nell’approccio interartistico un bisogno, un elemento necessario per indagare a fondo due argomenti di ricerca trasversali. Questi due esempi dimostrano come la ricerca inter artes sia una tappa di un percorso più ampio che considera la letteratura in dialogo costante con gli altri saperi di volta in volta necessari alla comprensione di un determinato fenomeno con gli altri media. Nello stesso modo in cui il romanzo modernista sapeva essere pittorialista, alla letteratura tocca oggi cogliere la sfida proveniente dalla multimedialità. Il riferimento va in primis al campo dei rapporti tra letteratura e televisione: la televisione si configura come un laboratorio di mimesi del reale come era stato un tempo il romanzo ma finendo per dare vita a una iperrealtà adattata a esigenze di immagine. Si pensi anche a quelle performance artistiche contemporanee che si potrebbero definire opere d’arti totali per la trasversalità dei codici e dei media messi in campo e infine ai modi in cui Internet, i social network, finiscono per rimodulare i modi di percezione del mondo esterno e di auto rappresentazione di sé. Con tutto ciò la riflessione estetica e comparatistica dovrà fare i conti nei prossimi anni. l’interpretazione di Frank la separazione tra East e West studies è stata una questione di incremento del capitale culturale. 2. La pratica del modello relazionale Occidente/Oriente passa per la traduzione Per quanto riguarda la traduzione più antica della Weltliterature, nel rapporto tra Oriente e Occidente, Goethe aveva già in mente un modello relazionale ancora eurocentrico che si muove secondo una dinamica a senso unico. Il senso procede da noi agli altri. Esiste un’eccezione nel rapporto tra Goethe con il suo Oriente. L’adozione del ghazal (componimento poetico arabo breve monorima) avviene attraverso il dialogare di Goethe con Hafez, considerato il centro di gravità del canone persiano. Hafez era in qualche modo parte della letteratura contemporanea perché appena giunto nella ricezione e sensibilità letteraria: del 1812-13 è la prima edizione del Divan. Nell’introduzione, Hammer si presentava come Dolmetscher: un interprete, colui che introduce un ideale viaggiatore culturale tedesco in un’altra cultura. I classici vengono continuamente citati da Hammer per mostrare le differenze. La mediazione della traduzione è molto più importante. Lo stesso traduttore cita i testi ottomani su cui ha basato la propria traduzione. In particolare dichiara di essere passato “sulle orme di Sudi”, il commentatore del poeta persiano. Sudi cita i versi di Hafez in persiano e li traduce in turco. La base del “Divano occidentale orientale” è dunque già in partenza un ibrido non collocabile né a Oriente né a Occidente. L’ibridismo della base di ispirazione hammeriana diventa per Goethe un modello di scambio weltliterarisch. In una lettera indirizzata a Boisserée, Goethe scrive che un paio di passaggi importanti che Soret non era riuscito a comprendere nel suo tedesco, li tradusse nel sui francese e lui li tradusse nel proprio. Certamente durante la prima lettura della traduzione di Hafez la sensazione immediata che pervase Goethe fu una forma acuta di ansia di influenza. Goethe intende questa impresa come un vero e proprio dialogo con Hafez. E’ Goethe a cogliere prima e meglio dei filologi e dei poeti del suo tempo lo spirito, quello che lui chiama il “metodo” di Hafez. L’emozione estetica procede dalla percezione d’insieme delle ripetizioni, variazioni, ricombinazioni di oggetti. Goethe percepisce nel persiano un universo e un metodo micro-macrocosmico complementare e coestensivo rispetto a quello monocentrico e logocentrico della cultura occidentale. La non linearità della trattazione dei temi è avvertita da Goethe come persiana; e persiana è per lui la struttura ciclica ma non regolare e concentrica. Questa maniera trova emblema e figura nella struttura del ghazal. Acronie della Weltliterature: Goethe attraverso il ghazal dialoga con un poeta, Hafez, che chiama gemello. Eppure gli parla nel qui e ora, facendolo entrare nel circuito della sua Weltliterature. Per Goethe, Weltliterature è la letteratura che nel mondo è contemporanea e potenzialmente in contiguità e comunicazione universale. La traduzione per Goethe è un caso esemplare di metamorfosi. Nella traduzione ideale si verifica un paradosso di fusione e di forma nuova senza abolire le componenti originarie. Goethe vide che la vita delle opere originali è inseparabile dai rischi della traduzione; l’entità muore se non è soggetta a trasformazione. Questo incontro e questa fusione avvengono per Steiner fuori dal tedesco e dal persiano. Il vero effetto- contemporaneità invece è consentito dalla serie di passaggi mediati, fatto di copisti, interpreti e traduttori. 3. Tra Oriente e Occidente: translationes 3.1 Dalla translatio studii alla translatio studio rum Il tema della translatio studii è una pietra miliare del pensiero medievale. L’aspetto più interessante di questo spostamento descritto da Cassin è il fatto che a partire dal XII secolo il discorso sulla translatio studii passò sotto l’egemonia dell’università di Parigi. Il trasferimento di un sapere mondano e profano emerge come fatto politico di egemonia in un contesto culturale transnazionale all’alba delle nazioni. La battaglia te(le)ologica dei libri tradotti è condotta anche su altri piani. Essa è primaria nel trasferimento della parola sacra. Questa posizione si trova anche in Bacon. Oggi abbiamo la possibilità di fare esperienza del fatto che non esiste né una fonte originaria del sapere né un’unica direzione di esso. I translation studies possono lavorare come un campo in cui rinegoziare mappe e rotte egemoniche del sapere e del potere. La Terra rispetto al Mondo è luogo di molti mondi. Nell’ambito degli studi comparati occorre visualizzare anche i luoghi di trasmissione dei saperi. Molto interessante è la nuova collaborazione degli East-West studies nnel università americane. Apter mostra come un problema teorico possa nascere da una circostanza concreta e costruisce poi un suo albero genealogico che rimanda allo Spitzer esule in Turchia. Le conseguenze metodologiche sono rivelanti. A cominciare dalla questione della vicinanza o distanza. Questo punto di vista è utile ma va combinato con la lettura ravvicinata dei testi. Due diversi operazioni sono implicite: - Qualcosa che possiamo chiamare traduzione primaria, ovvero la traduzione vera e propria, in presa diretta sul testo, da una lingua in un’altra; - Un’altra attività che potremmo chiamare traduzione secondaria: l’osservazione della traduzione letteraria, del transfer, delle sue strategie. In entrambi i casi si tratta di una comparatistica basata sulla filologia. Si tratta quindi di passare da una Weltliteratur universalistica ed essenziali sta a una letteratura dei mondi e della lingue. Spitzer resta fedele a un credo della monogamia seriale linguistica. Se assumiamo questa devozione assoluta verso la lingua in cui le opere studiate sono scritte, si comprenderà come gli studi occidentali-orientali richiedono un ulteriore passo. Si apre, così, lo spazio per collaborazioni e studi a più mani. Lo spazio di traduzione è spazio di tensione interpretativa e metodologica. 3.2 Translatio studiorum, traduzione e letteratura occidentale/orientale Said individua tre categorie di orientalisti occidentali: il filologo, il saggista, il poeta. Un filo di continuità li lega tutti. Said attribuisce una pregnanza al fenomeno dell’orientalismo nell’area francese-francofona e britannica-anglofona che egli non riconosce nell’area tedesca-germanofona. A fare la differenza sarebbe la presenza o non presenza di interessi politici e coloniali. Per rispondere a Said basterebbe accennare agli interessi austriaci verso l?oriente attraverso la porta dell’impero ottomano. Così Goethe e Ruckert vollero attingere alla letteratura persiana con diverse modulazioni. Vero è poi che l’orientalismo tedesco nell’età di Goethe sembra concentrarsi intorno a aspetti linguistici, culturali e filologici connessi allo studio e alla scoperta del persiano, del sanscrito e dell’indologia. I primi incontri della cultura tedesca con il buddhismo avvengono attraverso la mediazione della corona di Russia. Fu Pietro il Grande a chiamare nel 1721 alcuni studiosi tedeschi perché decifrassero una misteriosa iscrizione. I fogli sparsi erano redatti in una lingua ancora sconosciuta, i tibetano. Solo dopo molti anni, Remusat avrebbe stabilito la versione affidabile del testo e lo avrebbe riconosciuto come traduzione da un originale sanscrito perduto. Un altro importante incontro della cultura tedesca con il buddhismo avvenne per volontà di Caterina II di Russia, che nel XVIII secolo aveva invitato gruppi di coloni tedeschi a stabilirsi nelle regioni fertili del medio e basso Volga. Le loro impressioni sulla cultura buddhista sono molto positive. Compare un elemento che si troverà in Schopenhauer e Neumann: la ricerca di una continuità, di un’analogia tra pensiero orientale e occidentale, il riportare a “noi” ciò che è “loro”. Emerge già un altro topos dell’approccio comparativo: il parallelo tra la morte di Gesù e la morte di Saschamuni di Schmidt. Tra i lettori più importanti di Schmidt va ricordato Schopenhauer. Il suo punto di partenza era stato Kant. Sulle riflessioni tra spazio, tempo e casualità Schopenhauer descriveva l’uomo come un essere (Wesen) che attraverso la propria volontà (Wille) crea una rappresentazione (Vorstellung) del mondo (Welt). Ovvero: crea il proprio mondo. Poiché la volontà è determinata dall’egoismo e dall’istinto di sopravvivenza la vita prevede molto dolore. L’uomo può sottrarsi al dolore solo se impara a sottrarsi nel pensiero all’imperio della volontà praticando una profonda compassione rispetto a tutto ciò che la vita è e comporta. La volontà raggiunge la quiete attraverso l’immersione nell’arte. Schopenhauer ritrovò molte delle sue inclinazioni spirituali nel buddhismo. Per Schopenhauer l’antica saggezza indiana avrebbe trovato largo margine di vantaggio rispetto alle religioni prescrittive occidentali. Schopenhauer rileva la progressiva decadenza del cristianesimo e prevede il propagarsi della saggezza indiana in Europa. La nuova religione si fonda infatti su un sapere di elite. Ritorna spesso il parallelo tra Buddha, Francesco d’Assisi e i mistici tedeschi. Nella lettura che ne dà il filosofo sono esempi di negazione della volontà di vivere. In molti passi Schopenhauer rimanda alla tradizione buddhista e alle sue connessioni con gli analogoi francescani, usando quasi lo stesso linguaggio dei primi coloni pietisti. Schopenhauer considera il buddhismo come una variante più pura di ciò che sarebbe stato presente ma contaminato nel cristianesimo. La negazione della volontà di vivere è sviluppata nelle opere antichissime della lingua sanscrita in modo più ampio. La sapienza degli scritti buddhisti a differenza del cristianesimo non è contaminata da un elemento a lei del tutto estraneo. Schopenhauer dichiara di aver ritrovato conferma delle sue intuizioni nel buddhismo dopo averle riformulate per proprio conto. La lettura schopenhaueriana del buddismo non è esente da deformazioni. Pensiamo all’interpretazione del Nirvana, reso da Schopenhauer con Erloschen e descritto come un nulla relativo. Il Nirvana viene interpretato in modo negativo, come negazione del mondo ovvero del Samsara. Dire che il Nirvana è il nulla significa, quindi, nella lettura di Schopenhauer, ammettere che il Samsara non possiede alcun elemento che possa contribuire alla costituzione del Nirvana. Si tratta di un buddhismo pessimista. Non c’è rapporto tra Samsara e Nirvana, mentre tra i due forse andrebbe individuato un rapporto profondo: la stessa base, e il fatto che abbandonare il dolore e il mondo produce piacere. Attraverso Schopenhauer passano la ricezione e lo sviluppo del pensiero critico e del lavoro scientifico intorno al buddhismo. Gli anni intorno alla morte di Schopenhauer furono caratterizzati da una crescita esponenziale degli studi sul buddhismo. Basti pensare a Marx, a Koppen, a Oldenberg e a Zimmermann. L’Oriente è quindi “correttivo” dell’Occidente e il campo culturale si riconfigura in questo senso con i suoi attori. Seidenstucker comincia così la sua carriera di editor e curatore di riviste e collane. Alla fine del XIX chi si occupava di buddhismo in Germania apparteneva a circuiti accademici o all’alta borghesia. La prima fase del buddhismo tedesco restò per lo più teorica. La situazione cominciò a cambiare con i viaggiatori svizzeri, austriaci e tedeschi diretti verso l’Asia. Ciò spiega anche perché il Theravada-Buddhismus diventi la corrente più popolare in Germania ai primi del ‘900. A partire dal 1903 molti tedeschi abbracciano il monachesimo buddhista. A Vienna si forma il più importante tra i pionieri della traduzione del canone pali: Neumann, il quale intende il buddhismo come una forma di religiosità più pura e più astratta, come una manifestazione del pensiero mistico da accostare alla mistica tedesca medievale. Neumann arriva a identificare la stessa figura di Schopenhauer con quella di Buddha, quasi a dichiararlo come un nuovo Buddha. Neumann continua ad esprimersi con grande solennità. Si presenta quasi come un novello Lutero, intento a mediare attraverso la sua traduzione una nuova rivelazione dei “Biblia Sacra” buddhisti. Immancabile, il richiamo alla grande tradizione classica dell’orientalismo tedesco. Egli insiste sulla ripetizione, che informa di sé un contenuto di per sé ciclico. Neumann si mostra sempre più consapevole dell’importanza della lingua e dello stile per spiegare anche gli aspetti dell’interpretazione. La competenza filologica va associata al senso del ritmo, all’arte del dire e del far risuonare la musica del testo. 1. I nostri antenati Il canone letterario può essere definito come il repertorio delle opere sulle quali si fonda una tradizione letteraria. Questa definizione sarebbe insufficiente qualora si decidesse di affrontare una discussione sul canone facendo riferimento alla nozione di classico. La parola “classico” individua fin dall’inizio quegli autori appartenenti a una “classe superiore” le cui opere veicolano i valori sui quali deve costruirsi la società. La sua origine è classista e presuppone una gerarchia che investe anche il significato moderno del termine, che prevede anche una classificazione di generi e sottogeneri letterari. In base a queste gerarchie, che risalgono alla Poetica di Aristotele, veniva affermato un legame preciso tra l’argomento dell’opera e la forma dell’opera stessa. Di conseguenza, un poeta che non si confronta con le forme alte non avrebbe potuto aspirare a rientrare nei classici. Lo stesso canone classico, quindi, è una testimonianza della stratificazione gerarchica. Stabilire quali sono i classici è un passo necessario, i quali costituiscono un elemento fondamentale nella scoperta della tradizione. Il classico è non solo il cittadino di classe superiore, ma anche l’antenato, colui che viene prima e che in qualche modo influenza e informa il presente. Il classico è l’opera della quale si raccomanda lo studio per una corretta formazione delle classi dirigenti di una comunità. I classici rappresentano una porzione ben definita del patrimonio letterario mondiale: si tratta di opere greche e latine. Questa distinzione non è molto forte nella cultura italiana, differentemente da quella inglese e americana, e suggerisce come la parola canone abbia preso il centro della scena in quei dibattiti sulla grande tradizione, sulle grandi opere, che hanno animato la seconda metà del ‘900. Secondo Guillory la parola canone sostituisce classico proprio per isolare i classici come oggetto di critica. Il sostantivo latino canon deriva dal greco kanòn e ha due significati principali: esso può indicare un’unità di misura o una lista. I due significati sono legati e infatti ben presto la parola passò a definire non solo l’insieme delle regole da rispettare per il conseguimento della bellezza ma anche il repertorio di una determinata istituzione. In questo secondo senso il canone seleziona tutti quei libri che sono legati da alcune caratteristiche formali, linguistiche, morali. L’esempio più immediato è quello della Bibbia. Il canone biblico è l’insieme di quei testi che nel corso dei primi concili della Chiesa sono stati considerati come contenenti il messaggio originale di Dio. Lo stesso canone della Scrittura è il frutto di secoli di aggiustamenti e negoziazioni; anch’esso ha una storia di selezione e di esclusione non troppo diversa da quella del canone laico delle opere della tradizione letteraria. Ciò che è importante stabilire è quanto il canone funzioni tanto in entrata quanto in uscita, escludendo testi non (più) ritenuti adatti a farne parte. La parola canone non era slegata dalla storia letteraria. Nell’età ellenistica il canone stava ad indicare un catalogo di libri degno di essere studiati e trasmessi: dai libri kanonikos dell’età ellenistica al canone dei libri delle Scritture, è tornato a indicare i libri degni di essere preservati attraverso la lettura e lo studio. Il riferimento al canone biblico va visto soprattutto nel suo significato polito, come un modo di porre l’accento sul carattere di presunta fissità e indiscutibilità del repertorio canonico. Le prime opere dell’800 e ‘900 dedicate alla definizione di un catalogo di autori canonici parlavano in termini generali di classique (Sainte-Beuve), tradition (Eliot) o touch-stone (Arnold). Quello che accomuna questi autori è il suo valore morale. Nell’800 la letteratura sembra assumere su di sé alcuni dei compiti riservati alla religione e alla filosofia. Arnold affermava di considerare la poesia come loro sostituta: la poesia era l’unica forza capace di portare uguaglianza tra gli uomini. Negli anni ’20 del ‘900 Richards, considera il critico letterario come una sorta di medico della mente e il cattivo gusto come la radice di tutti i mali della società. Per questi critici legislatori il canone rappresentava una verità universale alla quale generazioni di critici si avvicinavano per approssimazioni progressive. Si tratta di una visione che da Luperini è stata definita umanistica ed elitaria che si riconosce nei valori occidentali. Critici diversi come Arnold, Richards e Leavis o Bloom, avevano una visione olistica del canone e ritenevano che esso si manifestasse sempre come definitivo. Questi critici erano coscienti dei cambiamenti apportati al canone. Eliot sosteneva una visione trans-storica del canone, in cui le grandi opere della tradizione sono sempre presenti nelle opere dei grandi autori del presente e i monumenti del passato vengono cambiati dall’opera veramente nuova, dalle riscritture, riprese, allusioni cui danno origine. Il punto di vista di Eliot è profondamente modernista. Nello stesso periodo, il James Joyce di Ulysses riscrive la tradizione e lo rende omaggio al tempo stesso contribuendo con il suo enciclopedismo formale e contenutistico a definire lo stesso canone attraverso il quale deve essere letto. In modo simile, Kermode sosterrà che esistono due modi di leggere un classico: un modo filologico e uno in cui l’opera viene forzata e adattata alle nostre esigenze. In questo modo il canone si rinnova pur rimanendo uguale e rappresenta il frutto dell’attività di una comunità testuale dinamica e trans-storia. Nel secondo dopoguerra le cose tendono infatti a cambiare. E’ chiaro che di crisi del canone ce ne siano state numerose anche prima del XX secolo e che le crisi in qualche modo siano spesso servite a rafforzare lo stesso canone. Un crinale può essere individuato tra ciò che succedeva prima della metà del ‘900 e ciò che succede dopo. 2. Canoni Per Eliot il classico può presentarsi solo quando una civiltà è matura; quando una lingua e una letteratura sono mature; e deve essere il prodotto di una mente matura. Se si è persone adeguatamente mature e istruite, si può riconoscere la maturità in una civiltà e in una letteratura. Per Eliot il classico è l’opera d’arte che esprime il momento di maggior maturità di una cultura e in qualche modo la esaurisce; in questo si differenzia dalla grande opera, che è, l’opera veramente nuova quella che cambia la tradizione che la precede e informa quella del futuro. Quelle di Shakespeare sono grandi opere eppure non sarebbero dei classici a causa di quella che Eliot considera la non sufficiente maturità della società elisabettiana. La maturità di un classico è la sua caratteristica fondamentale ma Eliot riesce a spiegarla solo facendo tautologicamente ricorso alla capacità di una persona matura e colta di riconoscere tale qualità. Il dibattito sulle comunità interpretative e sulla classe alla quale la produzione del canone è demandata è fervido nella seconda metà del XX secolo. Si tratta di una rivoluzione che parte dagli anni ’60 e ’70, dove il discorso si intreccia sempre più a quello politico e culturalista per far sentire la propria voce e di influenzare la formazione del canone, o di proporre gli anticanoni. Risale già al 1908 il tentativo di stabilire un canone non solo di scienziate ma anche di autrici letterarie; così come anche nei saggi femministi di Woolf viene sviluppata l’idea di una tradizione letteraria femminile e si introduce l’idea di un’intera schiera di scrittrici messe letteralmente a tacere dalle misure restrittive dell’educazione e della società patriarcale. Questo atteggiamento di apertura nei confronti delle comunità interpretative e delle loro rivendicazioni è soprattutto un effetto del progressivo allontanamento della pratica critica alle istanze della ricezione del testo. Secondo Luperini, nel corso degli ultimi due secoli il fuoco della critica si è spostato, scorrendo da un estremo all’altro dell’asse emittente-messaggio-destinatario: dalla centralità dell’autore si è passati a quella del testo per giungere infine a quella del lettore. Di questo spostamento uno dei maggiori fautori è stato Jauss che cominciò una cruciale rivoluzione nel campo degli studi letterari. La cosiddetta scuola della ricezione sosteneva la necessità di un vero e proprio mutamento di paradigma, sostenendo che per giudicare il fatto letterario fosse importante concentrarsi sulla sua produzione e investigarne aspetti legati alla comunicazione e alla ricezione nel tempo. La provocazione di Jauss derivava da una volontà di recuperare la storicità della letteratura che i sistemi perfetti e le tassonomie dello strutturalismo rischiavano di cancellare. Si tratta di un atteggiamento tipico del ‘900 e che presuppone una decisa attenzione per il soggetto, per il lettore e per le istituzioni che regolano la trasmissione delle opere. Cruciale nell’esperienza estetica del lettore è la nozione di orizzonte di attesa e cioè quell’insieme di convenzioni che fanno parte dell’esperienza condivisa di lettori e produttori delle opere letterarie. L’opera di rinnovamento operata dalla scuola di Costanza è l’effetto che essa ha avuto sulle istanze di messa in discussione dello statuto della letteratura stessa e sullo studio della storia letteraria. In questo ambito Jauss ha proposto una vera e propria storia della lettura che avesse come obiettivo quello di valutare la costruzione degli orizzonti d’attesa nella diacronia. Jauss e la sua scuola hanno avuto il merito di porre l’accento su alcuni elementi legati alla discussione intorno al canone: l’interesse verso ciò che viene effettivamente trasmesso e letto in un sistema letterario. In questo modo Jauss ha dato nuova linfa ai tradizionali studi sulla fortuna degli autori e dei generi ma ha anche contribuito a introdurre nell’idea formalista e strutturalista di letterarietà un aspetto pragmatico di costruzione dialogica. La centralità del concetto di genere letterario nello studio del canone letterario è ribadita da Fowler. Lo studio di Fowler è tutto interno alla letteratura alta. Fowler propone un’idea di canone molto più ampia. Il canone sarebbe per lui costituito dall’intero corpus letterario, mentre ciò che solitamente chiamiamo canone sarebbe quello ristretto stabilita dall’accademia che è un risultato dello sforzo comune di istituzioni diverse interne al campo letterario. I generi letterari e la loro più o meno alta reputazione sono la lente attraverso la quale Fowler legge le oscillazioni della fortuna di autori e di opere. In un momento della storia non tutti i generi letterari sono disponibili per il pubblico. Nel sistema idrostatico della letteratura ogni mutamento codifica un cambiamento nei generi vicini. Nel momento in cui l’epica declina, il posto dell’eroe epico è preso da quello del romanzo o della biografia. La storia della fortuna dei generi letterari veniva evocata da Fowler come un necessario rinnovamento all’interno degli studi letterari. Tornando alla definizione di classico di Eliot, le critiche al canone della seconda metà del ‘900 partono da una messa in discussione dello statuto stesso della letteratura. Prima ancora di proporre un anticanone, il critico mette in dubbio che la nozione di letteratura alla base di quel canone sia del tutto giustificabile e condivisibile. La letteratura, così come la intendiamo oggi, ha una storia breve di circa due secoli. La storia stessa del canone ci insegna che alcuni generi prima esclusi dall’ambito letterario sono diventati poi parte integrante del canone mentre altri si sono specializzati e rientrano sempre più di rado nel canone delle opere letterarie. Del resto anche Fusillo afferma che il concetto unitario di letteratura che abbiamo noi è sempre esistito: nell’antichità era in fondo o più ristretti o molto più largo. Da un lato i teorici antichi parlavano di poesia, non di letteratura e dall’altro ritenevano retoriche e letterarie forme di scritture che per noi non lo sono o lo sono solo in parte. Per parlare di letteratura in termini più attuali bisogna aspettare i primi dell’800. Nel dizionario di Johnson la parola literature ha un significato ancora ristretto a “apprendimento” e “abilità nelle lettere”. Tiraboschi includeva nella storia della letteratura italiana una quantità di informazioni extraletterarie, dalla filosofia al diritto. E’ con il Romanticismo che il significato della parola letteratura si restringe e si specializza. Bourdieu individua nel 1830 la data in cui si forma un campo letterario indipendente da quello economico. Questo implicava all’interno dello stesso campo letterario una divisione tra letteratura alta e bassa. Negli anni ’60 e ’70 del ‘900 le barriere tra i generi alti e bassi cominciano ad abbassarsi. Grazie agli studi culturali, l’idea stessa di letteratura si allarga nuovamente, prestando attenzione ad altri discorsi culturali o alle opere di minoranza e ai prodotti della cultura popolare. Nel 1983 Eagleton sosteneva che la nozione stessa di letteratura e quella di canone fossero da ridiscutere perché non erano altro che un modo per mascherare l’imposizione di determinati valori che servivano gli interessi di una classe dominante formata soprattutto da uomini bianchi. Per Eagleton i grandi classici della letteratura occidentale dovevano essere sì studiati ma all’interno di cultural studies. Quello che era in gioco della letteratura. Ciò che interessa di più il discorso sul canone è l’accento posto sull’importanza del giudizio di valore nella formazione del canone e sul suo mutare progressivo e sulla necessità di studiarne gli sviluppi. La proposta pragmatica e sociologica di Smith e quella improntata su un’estetica oraziana del docere et delectare di Kermode hanno il merito di riportare al centro dl dibattito il piacere che si deriva dalla lettura dei testi e il peso che questo ha nello stabilire il canone stesso. Si tratta di un problema essenziale dell’estetica. L’insistenza sul piacere è un’argomentazione spesso difficile da accettare in una visione scientista della letteratura. Nel momento in cui il giudizio di valore non è più derivato da una posizione metafisica esso deve confrontarsi con la sua dimensione sociale e con il mercato. Ed è questo il punto di vista offerto da Luperini. 3. Le storie letterarie, le nazioni Stabilire un canone significa venire incontro alla necessità umana di selezionare quello che è importante ricordare. In questo senso le storiografie letterarie rappresentano un caso emblematico che chiarisce quanto politica e ideologica sia la funzione del canone e come la sua formazione sia situata in tempi e in luoghi in cui viene prodotta. Secondo Calvino per leggere i classici si deve pur stabilire da dove li si sta leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Il Romanticismo è l’epoca delle storie letterarie. Secondo Carlyle la storia della poesia di una nazione è l’essenza della sua storia, politica, economica, scientifica, religiosa. Per definire questa essenza concorrono una serie di operazioni La stessa formazione di un canone nazionale è parte di più ampie politiche di invenzione della tradizione che forniscono sia ad una comunità il proprio passato sia contribuiscono a creare la comunità stessa. Tra ‘800 e ‘900, esauritasi la spinta romantica in molte grandi nazioni europee, in Irlanda, la formazione di un nuovo canone risulta un’operazione politica. Questa viene effettuata attraverso il recupero di una tradizione folklorica dimenticata portata avanti da scrittori e intellettuali come William Wilde e altri. Ma si tratta anche di un’operazione che prevede una rivendicazione dei proprio autori. Negli Stati Uniti, la formazione e l’istituzionalizzazione di un canone autoctono seguirono la strada indicata dalla guerra di secessione di una separazione dall’Inghilterra. Si deve far risalire solo all’inizio del ‘900 l’introduzione nelle università di un canone americano distinto da quello inglese. In questo senso la scelta di Eliot di dichiarare Virgilio come il classico per eccellenza era anche una reazione al crescente nazionalismo degli Stati Uniti. Ma la formazione di un pantheon di autori e il loro insegnamento ha avuto spesso motivazioni imperialistiche. E’ emblematico che lo studio accademico della letteratura inglese cominciasse nell’800 nelle università di Edimburgo e Glasgow. E fu solo più tardi che il canone nazionale inglese cominciò a essere studiato in maniera istituzionale a Oxford e Cambridge. In Italia, in epoca romantica, un connotato fondamentale delle opere di storia letteraria è invece una visione teleologica volta a rileggere la storia di una letteratura e di un popolo come una marcia verso la completa espressione del suo spirito nazionale. Una volta costituite le nazioni esse andavano narrate. E per molti paesi, per l’Italia e la Germania, questo significava scrivere storie letterarie, nelle quali lo spirito di una nazione venivano narrati come in un romanzo. E’ soprattutto in queste nazioni che si diffonde il concetto goethiano di Weltliteratur. In effetti Mazzini, Gervinus, parlano di letteratura europea, non solo la prospettiva era eurocentrica, ma il punto di osservazione verso gli altri era sempre quello della letteratura di casa. Non stupisce che proprio De Sanctis scrive una delle più importanti storie letterarie dell’800. La sua opera può essere considerata come un romanzo di formazione in cui la storia letteraria è vista come un cammino dello spirito italiano verso la costituzione dello Stato. Si recuperano perciò Dante, Petrarca, Boccaccio nei quali si individuano i caratteri utili alla costruzione della nazione italiana. Nelle storie della letteratura è possibile vedere all’opera quel meccanismo che porta alla formazione del canone attraverso le riletture critiche dei protagonisti. Così Dante e Petrarca diventano emblemi della passione italiana. Dante e Shakespeare diventano i puntelli sui quali fondare il canone nazionale. E’ chiaro che per far ciò la narrazione di una nazione non adopera solo inclusioni ad hoc, ma addomestica ciò che può risultare idoneo al racconto. Un esempio emblematico di quest’ultimo caso è Casanova. Per Casanova questo essere in bilico tra le tradizioni letterarie equivale a un’esclusione dal canone. Il problema della lingua si pone con molti autori culturalmente complessi, come Svevo. Il caso Svevo è importante anche per valutare come la ragion narrativa spesso imponga il trattamento di autori extravaganti all’interno di categorie consolidate e in un certo senso canonizzarne. Spesso assimilato ad un generico e onnicomprensivo decadentismo, Svevo ha visto in questo modo smorzato il riconoscimento della froza analitica della propria narrativa, ma si è anche visto in parte privato della sua cruciale dimensione europea e modernista. Appare importante sottolineare quanto centrale sia non solo la presenza o meno di un autore ma anche quali aspetti della sua opera entrino a far parte del patrimonio condiviso, studiato e diffuso. Uno degli interessi maggiori del canone è quello secondo cui nello studio e nell’insegnamento della letteratura andrebbe introdotto anche lo studio dei cambi di paradigma, dei cambi di canone, in modo da mostrare l’aspetto proteico del canone e insegnare il conflitto che rode alla base l’apparente monolite del canone. 4. Traduzione e censura Le interpretazioni del canone che favoriscono una prospettiva generica permettono di emancipare lo studio della letteratura dalla prospettiva biografica e di valutare le articolazioni che portano al minore o maggiore successo di un’opera e del genere della quale essa fa parte. Even-Zohar si propone di spiegare le modalità del cambiamento del gusto letterario studiando l’alternanza di generi e modi diversi, canonizzati e non canonizzati al centro e alla periferia del sistema letterario. Secondo Even-Zohar quando un elemento del sistema diventa centrale esso prende il posto di ciò che occupava il centro prima e lo relega alla periferia del sistema. Even-Zohar è avverso a considerare il canone un repertorio funzionalista e pertanto differenzia le proprietà dai testi che ne sono caratterizzati; essa cerca di evitare l’aggettivo canonico che sembrerebbe presupporre una qualità inerente all’opera, propendendo per canonizzato, in modo da sottolineare il processo, sociale e culturale, dal quale ha origine l’operazione. Alla base di tutta questa teoria c’è una dinamica tra centro e periferia del sistema che è essenziale secondo Even- Zohar per giustificare l’evoluzione del sistema letterario. La questione del canone come tradizione statica e repertorio di opere è perciò mal posta secondo Even-Zohar, per il quale il rapporto dinamico tra canonico e non canonico può giustificare l’evoluzione letteraria. Non è quindi l’opera canonica in sé a essere cruciale, ma il modo in cui il sistema legge e canonizza le opere e ne considera la produttività in termini di evoluzione letteraria. L’ingresso di opere straniere tende a fornire dati importanti sui valori letterari egemoni all’interno di un sistema letterario. Importando e traducendo non solo si accresce il valore e la canonicità di un’opera straniera ma al tempo stesso si agisce sul sistema letterario interno. La storia della letteratura è ricca di casi in cui una traduzione ha influenzato un’intera generazione di autori portando a una ridefinizione dei valori letterari. Per quanto riguarda un caso di pseudo traduzione bisogna ricordare il lavoro di Macpherson, il quale diede una spinta cruciale alla stagione preromantica. La riscrittura di opere letterarie classiche può portare tanto a una riconferma del canone, attraverso l’omaggio, quanto a una sua ridiscussione attraverso la parodia e la critica. Questo è un meccanismo che porta a una continua attualizzazione dei classici. L’altro effetto delle traduzioni di opere straniere è la tendenza del sistema letterario a tradurre ciò che contribuisce a confermare la supremazia del centro del sistema stesso sulla periferia: la traduzione, e questo si riflette sia sulla scelta di cosa tradurre che sui modi stessi più o meno de familiarizzanti della traduzione. Si tratta della tendenza maggioritaria perché riguarda la gran parte dei titoli sul mercato. Il fascismo può offrire alcuni interessanti esempi. E’ vero che in Italia si tradusse in quegli anni come in nessun altro stato e che il governo fascista non si premunì contro l’invasione delle traduzioni. Fino ad allora, la censura nei confronti dei libri era solo successiva alla pubblicazione e perciò finiva per sottoporre le opere ad un’azione auto censoria da parte degli stessi autori. In Italia, il patronato era variegato e spesso agiva in maniera contraddittoria ma tendeva ad una certa autoregolamentazione. E’ interessante notare come alcuni autori avessero una certa fortuna in Italia, come Swift e Wilde. Si tratta quindi di un modo piuttosto proficuo di riscontrare che cosa fosse ritenuto possibile all’interno di un sistema letterario e perciò permette di rintracciare studiando i movimenti migratori delle opere e il lavoro di mediazione di case editrici, intellettuali e traduttori, il legame che intercorre tra l’idea del canone e quella di censura. Una censura che avveniva tanto nella scelta delle opere da tradurre tanto nell’operazione stessa di traduzione all’interno della quale si tendeva a evitare elementi straniati sia dal punto di vista formale sia da quello etico-morale. L’insieme di norme che presiede alla traduzione delle opere è rivelatore di un intero sistema di valori, letterari e non, che non sono solo alla base della mediazione di opere straniere ma che intervengono in una certa misura anche nella scrittura di opere originali. Queste norme sono una manifestazione tangibile dell’agenda politica di chi prova a regolare la narrazione letteraria di una nazione. Esse rappresentano una radicalizzazione delle norme che in ogni periodo della storia regolano le possibilità dello scrivere. In questo senso il canone non censura solo opere già scritte ma detta anche regole per le opere ancora da scrivere, definendo di volta in volta, quali sono i temi, le forme, i generi, le tecniche da impiegare, quello che Luperini chiama a parte obiecti. Esso rappresenta la serie di scelte più o meno condivise, che regolano la vita di un libro in ogni sua fase, dall’inizio della scrittura fino all’accettazione o meno del libro stesso nel canone inteso come repertorio, quello che Luperini chiama a parte subiecti. Il romanzo collettivo italiano è un sottogenere che avrebbe dovuto essere il racconto di fatti collettivi. Si trattava di un tentativo di importazione e adattamento di forme nate in particolare negli Stati Uniti, che per qualche mese fu proposto da Bompiani, come il romanzo d’elezione del regime fascista, il romanzo della terza via. Del romanzo collettivo restano alcuni tentativi di interesse appena archeologico e un intenso dibattito durato quasi un anno e che coinvolse Bontempelli, Moravia, Comisso e altri. Ma non ne resta traccia reale nel canone italiano del ‘900. Se è vero perciò che il canone limita l’espressione che le pone delle contraintes formali e generiche, è anche vero che lo fa nei due modi che tradizionalmente vengono riconosciuti alla stessa censura da teorici quali Jansen, Ross e Burt, i quali insistono sul continuum che esiste tra la cesura di Stato evidente di un regime totalitario e quella più silenziosa e pervasiva in azione in qualunque stato. Il campo letterario viene infatti sempre in qualche modo regolato o amministrato e tra l’azione dei censori e quella dei critici o delle istituzioni che decidono dello statuto della letteratura c’è una distinzione non essenziale ma di grado. La storia letteraria deve tener conto di questa duplice azione, strutturale e regolatrice, e presentare la formazione del canone stesso come una continua negoziazione tra istanze censorie interna alle dinamiche sociali, politiche, culturali, sottolineando i conflitti e la formazione del gusto come uno degli aspetti costitutivi dello studio della letteratura. Nell’ambito dell’insegnamento questi conflitti andrebbero messi in evidenza. La formazione di un canone europeo o mondiale non può far a meno di esclusioni e di scelte. Che si tratti di un canone davvero planetario Sontag per prima tenta di definire un modo trasversale, comune a più linguaggi artistici, il camp. E’ un gusto che si lega a elementi di affettazione, teatralità, gioco e travestimento, a un gusto ampolloso per il decorativo. Per quanto tra loro diversi, sono episodi, oggetti, temi e categorie estetiche particolarmente innovativi, accomunati dalla capacità di iniettare gli elementi della cultura popolare all’interno della cultura alta, promuovendo l’abbattimento alto/basso. Gli anni ’60 sono l’epoca in cui diventano sempre più evidenti i segni di una nuova condizione storica, esistenziale e culturale riguardante la transizione dalla modernità alla postmodernità. Si tratta di un concetto percorso da diverse spinte caratterizzanti: a) Il gioco con la tradizione, la riproposizione delle forme del passato come proiettate sul presente; b) La combinazione libera e irriverente dell’originale e delle sue infinite copie; c) La commistione di alto e basso, la riscoperta e la rivitalizzazione di generi artistici popolari affiancate con le forme della cultura alta, in piena sintonia con gli interessi dei cultural studies. 3. Perimetrare gli studi culturali Il postmoderno costituisce un ideale terreno di coltura per i nuovi orientamenti critici. Per l’origine degli studi culturali si è soliti risalire al contesto britannico del secondo dopoguerra, ad esponenti come Hoggart e Williams, accomunati dall’impegno comune sul fronte dell’istruzione degli adulti, e dello storico Thompson. Tale tradizione di pensiero rompeva con la nozione idealista ed elitaria di cultura come arte, anteponendo alla singolarità dell’opera d’arte come oggetto di studio preferenziale in quanto espressione individuale e ideale di valori universali, il fenomeno culturale. Questa la fase originaria dei cultural studies britannici; il decennio successivo e l’apertura a nuove figure segnarono un approfondimento della dimensione politica e interdisciplinare di tale indirizzo di ricerca. L’analisi viene ad appuntarsi sul rilievo propriamente ideologico delle forme culturali. Nella sintesi degli studiosi austriaci Lutter e Reisenleitner, in quell’ambito la cultura venne letta come il campo di un confronto sulla definizione dei significati, i testi furono sottoposti a un’analisi esemplare degli effetti delle ideologie, al fine di scoprire quali passaggi la distribuzione del potere politico e delle risorse economiche potesse essere presentata come naturale. Il percorso che viene evidenziandosi si incentra sui fattori di costituzione della englishness. Gli anni ’70 e ’80 del CCCS vedono una fioritura di nuovi indirizzi e oggetti delle ricerche, un’espansione degli interessi verso le problematiche della razza e del gender verso i mass media. Se è vero che alle sue origini la versione americana dei cultural studies esibiva un interesse solo parziale verso le questioni legate alla classe e alla formazione operaia è altrettanto indubbio che la sua dilagante influenza nella ricerca e nell’insegnamento in ambito accademico ha introdotto e affermato questioni quali la rappresentanza delle minoranze e la revisione dei canoni invalsi nel sistema del sapere euroamericano. La voga culturalista ha favorito l’elaborazione e la discussione di una teoria critica che pone in stretta connessione tra loro la conoscenza, lo studio problematico e critico. Si assiste allora a una variegata e perdurante proliferazione di studies. Siamo di fronte all’affermazione degli studi culturali: con questa ampia definizione si intende la globalità del progetto, nelle sue espressioni originarie angloamericane, come pure nella tradizione tedesca. Di primaria importanza è l’area dei subaltern studies sviluppatasi in India a partire dagli anni ’80, la quale origina dalle necessità di rifondare e riformulare il racconto della storia del paese. Tale narrazione farà risuonare la voce calpestata del subalterno, ossia della masse dei nativi oppressi. Per comprendere l’ampiezza del progetto si considererà l’attualità dei border studies rivolti a interrogare l’idea di confine e la sua importanza in termini geopolitici, storici, artistici. Una nozione di riferimento per tali studi è quella di Anzaldùa, la quale ha teorizzato difficoltà e significati del vivere in terre di confine, delineati intorno al concetto di patria e agli usi, figure e tradizioni testuali del sacro e della mitologia popolare, alla propria coscienza di mestiza (razza mista) e delle diverse forme di oppressione, razziale e sessuale. La geocritica è interessata a vedere e comparare le singole rappresentazioni che i diversi autori ne hanno dato nel tempo, privilegiando così i contrasti, la varietà rispetto a visioni monolitiche, fondate sul predominio dell’io; lungi dal porsi come metodo egocentrico, con un anagramma la geocritica fonda un metodo geocentrico. Con l’intera gamma degli studi culturali la geocritica condivide il ricorso a una spiccata interdisciplinarità, interpellando una varietà di saperi specialisti, gli studi culturali si pongono come antidisciplina. Gli studi culturali giocano d’astuzia, si inseriscono sperimentalmente negli spazi accademici e in senso lato culturali per rivoltare o scompaginare gli assunti, le tradizioni critiche, i consolidati sistemi di trasmissione del sapere. 4. Studi culturali, studi letterari Tale innovazione interdisciplinare ha investito negli anni ’90 il campo dello studio letterario. Le vicende dell’introduzione degli studi culturali nell’accademia segue da vicino il dibattito sulla revisione del canone letterario. Se a Stanford si viene sperimentando l’inclusione di nuove letture obbligatorie che rompono con l’imprescindibilità degli studi classici greci e latini e letterature medievali e moderne-europee per accogliere testi delle tradizioni orientali, afroamericane e latinoamericane, in altre cittadelle si levano le proteste di coloro che si ergono a difesa del patrimonio storico della letteratura sinora trasmesso e preservato dalle università. In un simile rivolgimento le recriminazioni riguardano il preteso impoverimento dell’educazione letteraria e umanistica. Con un testo, Bloom si rivolge polemicamente agli studiosi della cultura materiale, ai sostenitori de neostoricismo e ai portavoce delle istanze nere, femministe, gay, lesbiche e delle altri voci subalterne, unificando le loro posizioni nella denominazione di scuole di Risentimento, ovvero ponendone in rilievo l’aspetto politico di valorizzazione delle subalternità, sminuendo la portata letteraria delle scelte critiche. La prospettiva di Bloom risalta da affermazioni-slogan riduttive e da una visione preoccupata di fronte a quanto vede come una generale fuga dall’estetica. L’attaccamento a un’idea di cultura alta ha raccolto parecchi consensi e ha dato libero sfogo a una serie di proclami poco concilianti con la revisione dei valori promossa dalla critica culturalista. La stessa letteratura comparata è percorsa al suo interno da tensioni e contrapposizioni. Spivak ha espresso in un pamphlet una diagnosi provocatoria quanto sconsolata di morte della comparatistica, là dove questa non si produca, allargando il proprio raggio di azione fino ad adottare una prospettiva planetaria per sposare le istanze dei subalterni non euroamericani affinché la loro voce caratteristica abbia la possibilità di essere efficacemente compresa e diffusa. La storia della comparatistica è tutt’altro che immune da condizionamenti eurocentrici. Intorno all’articolazione di una prospettata storia comparata della letteratura mondiale, la critica bengalese mise su tavolo l’opportunità di collaborare con studiosi delle lingue indiane, del sud-est asiatico e dell’Estremo Oriente, estendendo così la rete delle collaborazioni disciplinari. Da Voisine, Spivak ricevette la risposta che già sussisteva, una storia accademica del tutto accettabile delle letterature in cinese. Quindi, la prospettiva del nativo risultava sgradita; Spivak ridefinisce la comparatistica in una chiave planetaria delle singole culture. A fronte delle preoccupazioni di Spivak, la vecchia Europa rinsalda le proprie convinzioni: Guillen allude agli studi culturali come a una febbre che avrebbe colpito gli Stati Uniti per trasformarsi in Europa in qualcosa di irreparabile. Nel contesto isterico dell’impegno, politiche espresse dagli studi culturali, la letteratura comparata prosegue nel suo cammino incontrando un favore crescente delle diverse aree del globo. Culler ha posto in rilievo la differenza qualitativa nelle metodologie e nelle finalità dei due approcci, assegnando agli studi letterari il compito della interpretazione valutativa, mentre agli studi culturali spetterebbero procedimenti di analisi sintomatica. Se ai primi spetta una lettura particolareggiata, filologicamente ed esteticamente accurata dei testi, ai secondi toccherebbe intervenire su testi dal valore letterario meno lampante per darne una valutazione diretta e orientata volta a riconoscere in tali attestazioni culturali il sintomo di un qualcosa d’altro, il richiamo a una totalità sociale, politica, culturale. La suddivisione operata da Culler riesce alla fine dei conti un po’ schematica. Lo studioso americano ha il merito di legare la procedura descritta degli studi culturali alla loro origine britannica, ovvero al procedimento mediante il quale i cultural studies hanno trasposto modalità di analisi e di lettura. Se i due approcci sembrano applicarsi a materiali diversi la prospettiva culturalista è in molti casi venuta integrando quella valutativa propria degli studi letterari. Una lettura orientata in tal senso è quella di Martha Nussbaum. Nel secondo capitolo del Giudizio del poeta, l’autrice rilegge Hard Times di Dickens alla luce delle teorie economiche classiche e contemporanee per mostrare l’efficiente macchina satirica di cui lo scrittore si serve nel raffigurare il personaggio di Gradgrind. La sua metamorfosi riflessiva nel corso dei capitoli gli svela come sia stato preda di fatali errori, di una ottusità derivante dalla sua fiducia indiscussa nella politica economica che tenta di applicare all’essere umano così come agli oggetti inanimati. E ciò è avvenuto concependo le teste degli allievi come vasi da riempire. Naussbaum ritiene che la filosofia di Gradgrind può adottare una teoria della motivazione umana che è semplice ed elegante per il gioco del calcolo ma la cui relazione con le leggi più complicate dovrebbe essere considerata con scetticismo. Gradgrind vede franare le basi delle sue convinzioni lungo il romanzo; il colpo di grazia inferto da Dickens alle teorie dell’utilitarismo risiede nella dimostrazione di come un’educazione rigidamente impostata in tal senso abbia condotto all’infelicità i figli del personaggio. Come ogni classico, l’opera di Dickens è un prisma. Animato dalla convinzione secondo cui il romanzo “più di molti altri generi narrativi, tende a mostrare la ricchezza del mondo interiore e il significato morale del fatto di seguire una vita attraverso tutte le vicissitudini in ogni suo contesto concreto, l’intervento di Naussbaum può affiancare le letture canoniche del romanzo di Dickens. Ulteriori letture in chiave culturale potranno soffermarsi a rilevar e il significato storico e sociale della figurazione urbanistica di Coketown; altre ancora potranno proseguire nel solco tracciato dal Giudizio del poeta per soffermarsi sul funzionamento della struttura bancaria retta dal personaggio ambiguo e vanaglorioso di Bounderby. Quello che preme qui è riaffermare la liceità dotandola di originalità e spessore problematico. Gli studi culturali applicati alla letteratura sono accomunati da una caratteristica evidente: la capacità di ripresentarci da una prospettiva per lo più inedita e senz’altro tonificante i testi, avvitando le vicende dei personaggi a discussioni del loro statuto morale, questioni legate al rapporto cultura-società. 5. Ipotesi di lettura Difficile negare gli effetti del cultural turn, ossia la svolta culturale che ha interessato le discipline umanistiche dell’ultimo trentennio. Gli insegnamenti che ne sono derivati sono svariati: da un lato nella critica letteraria si sono affermate linee di indagine di maggiore o minore radicalità, capaci di produrre risultati scientifici significativi: i reception studies e diverse proposte di rilettura e analisi della produzione letteraria italiana, dalla prospettiva gender di All’influsso di Du Bois si deve anche la promozione della cultura afroamericana in riviste e pubblicazioni nelle quali muoveranno i primi passi i protagonisti della Harlem Renaissance come Hurston e Hughes. E’ una rivoluzione culturale che esplode nel quartiere nero di New York e ha come motore il jazz. Un risvolto amaro di quegli anni è costituito da Invisible Man di Ellison, romanzo venato di un’immaginazione surrealista, retto da una visione della realtà come tessuto di epifanie simboliche, nel quale si saldano l’osservazione del narratore protagonista e la memoria autobiografica dello scrittore. L’uomo invisibile ha scelto di vivere al riparo dal mondo, in un buco di solitudine metropolitana e incontri perturbanti. L’incontro del narratore con Tod Clifton è rivelatore: lo sdegno provato nell’intuire l’esplicita connessione tra gli istinti sensuali dei neri e i connotati del pupazzo serve a far precipitare il narratore in uno stato di esitazione e di frenesia a un tempo. La parodia della propria identità concorderà con la metafora di opacità, la quale scandisce il romanzo. Al tutto si aggiunge il tratto del grottesco. Ellison offre un esempio di innovazione capace di esercitare una profonda influenza sulle generazioni successive della narrativa. Da più parti si interrogherà la storia dell’oppressione afroamericana; l’ambientazione potrà essere quella della seconda metà dell’800 oppure degli anni ’30 del secolo successivo. Sono riscritture che sollecitano l’interesse approfondito della teoria critica, provocando accanto agli entusiasmi dei lettori postmoderni, le reazioni preoccupate dei difensori del canone occidentale come Bloom. Attraverso le riscritture della storia, tali opere si limitano a costituire un campo di specifico interesse per una sociologia letteraria di tipo qualitativo. 5.3 Queer studies e ridefinizione dei classici: le strutture del sentire di Dante Si è richiamata la centralità delle rivendicazioni politiche da parte di determinati gruppi sociali o sottoculture, volte a ottenere forme di riconoscimento: è il caso degli studi riguardo al genere e alla sessualità. Si tratta della volontà di rileggere le norme, i canoni, le classificazioni, le gerarchie sulla base delle quali si è edificata la cultura ufficiale introducendo elementi nuovi ai quali si rifà la tradizione degli studi sulle donne e dei gender studies. Con queer si indica un sapere in buona parte creativo, immaginativo (il queer è un insieme di temi e di figure, è una teoria aperta ed eminentemente interdisciplinare) e produttivo ( il queer fa, compie modificazioni nel modo di pensare e di vivere, nel relazionarsi alla cultura e alla società); è un concetto complesso. Il termine esprime le idee di strano, di obliquo, eccentrico, per poi incarnare anche i significati di deviante, incomprensibile, imprevedibile. In tempi più prossimi a noi, queer viene adottato dalla comunità intellettuale LGBT con una particolare enfasi sulla riappropriazione in senso attivo e positivo del termine. Si dà vita a un attivismo politico queer, a una teoria queer. Preoccupazioni, simboli e temi propri dei soggetti e delle comunità gay-lesbiche vengono così a essere trasposti su un piano diverso, caratterizzato da quella che Pustianaz riconosce come svolta linguistica. Rinominare/rinominarsi implica la primaria necessità di una destituzione delle identità fisse; di questa fluidità delle appartenenze il queer ha coerentemente fatto il proprio argomento-chiave. La natura fortemente interdisciplinare dei queer studies ha condotto all’elaborazione di una teorizzazione dall’elevato tenore filosofico e psicanalitico. Nelle letture applicate, negli studi improntati a una visione queer dei testi letterari, due linee di ricerca hanno goduto di un particolare favore: da un lato, la riscoperta di autori e tradizioni laterali, la messa in risalto di testi appartenenti al pensiero omosessuale; per un altro si sono condotte letture trasgressive a carico dei classici e della tradizione delle lettere occidentali. Tali strategie sono rivolte a de familiarizzare i profili degli autori e l’apparente neutralità delle loro opere, ponendo in rilievo aspetti di singolare estraneità alle norme di separazione dei generi. Applicando tale doppio binario di lettura a una tradizione letteraria ancora poco battuta dalle pratiche di lettura queer si possono annoverare le compiute raffigurazioni dell’omosessualità maschile nella narrativa del ‘900 di Bassani, Pasolini, Ginzburg, Morante. La queerizzazione di testi della tradizione si è confrontata in modo particolare con Dante. Interpretazione queer dell’opera dantesca: in primo luogo, la contestualizzazione del Dante soggetto, corpo senziente e desiderante nella Firenze del ‘300 dove la sodomia era diffusa. Secondo Mario Mieli le vicende della lettura queer di Dante si incentrano proprio sul giudizio del poeta nei confronti della sodomia, analizzando il Canto XV dell’Inferno. Dove Dante è combattuto tra l’affetto inestinguibile per ser Brunetto e la pena che gli riserva, assegnandolo al girone dei violenti contro nature; dove trapela un senso di indulgenza nei confronti del maestro. Da un lato, la consuetudine pedagogica che lega tra loro Dante e Brunetto può essere letta come un rapporto assimilabile a quello del maturo erastès e dell’amante adolescente, e dunque può assumere i contorni di una formazione di un apprendistato erotico: ciò spiegherebbe il particolare turbamento di Dante davanti alla pena di Brunetto, che culmina nello svenimento conclusivo. Dall’altro, la sodomia viene a essere accettata nella Firenze del ‘200 come male necessario, quale spazio di eccezione. Le letture queer hanno evidenziato ulteriori cedimenti dell’eterosessualità di Dante: si è ribadito che Beatrice sussiste solo in quando fantasma testuale, mentre sul piano fisico della rappresentazione, molteplici sono nella Commedia le immagini da cui trapelano pulsioni omoerotiche. Si può rimanere dubbiosi di fronte alla creatività con cui le interpretazioni queer modellano immagini inedite o degli autori della tradizione occidentale ai quali imprimono le proprie griglie di lettura. Difficile negare la forza con la quale reintroducono la materialità dei corpi nella storia della scrittura: è il reperimento della structure of feeling elemento fondamentale dello studio culturale, la struttura del sentimento di cui Williams affidava il compito di indicare le modificazioni nella cultura, della quale gli studi queer offrono una versione sessualizzata, individuante e critica. TRADUTTOLOGIA di Ornella Tajani 1. Eserghi Versioni omeriche di Borges, nella storia degli studi di traduzione, segna uno spartiacque, dopo Dopo Babele di Steiner, perché costituisce una prima e ampia trattazione storica e culturale dell’argomento. Quando si parla di translation studies le date sono importanti: il terzo esergo al volume di Steiner consente di rilevare come già prima Meschonnics avesse sentito il bisogno di affermare che “la teoria della traduzione non è che una linguistica applicata”. Il riferimento è ai lavori di Nida e Mounin. Per Meschonnics “la poetica realizza l’incontro tra la teoria della letteratura e la pratica della scrittura nella modernità. La poetica della traduzione si fonda sulla interazione tra teoria e pratica”. Negli anni ’70, Meschonnics indica la strada di una poetica della traduzione che coniugando teoria e pratica apre il dibattito scientifico a un discorso intorno al fare traduzione. C’è voluto tempo perché la traduttologia acquisisse una sua autonomia. Nel 1993 Bassnett dichiara che “d’ora in poi gli studi sulla traduzione dovrebbero essere ritenuti la disciplina più importante”. Fra il momento in cui scrivono Meschonnics e Steiner e quello in cui scrive Bassnett, c’è stato Even-Zohar. L’autore spiega come le opere tradotte costituiscano un sistema che interagisce attivamente con il co-sistema della lingua-cultura ricevente, affermando che attraverso le opere straniere vengono introdotti nella propria letteratura elementi nuovi che includono un nuovo possibile modello di realtà o un nuovo linguaggio, nuove matrici e i testi sono scelti a seconda della loro compatibilità con i nuovi approcci. Proponendo come criterio di traducibilità la pertinenza, la teoria del polisistema letterario suscita molti quesiti, tra cui su quali parametri una lingua-cultura sceglie di tradurre un testo oppure quanto le traduzioni ricalcano modelli stilistico-letterari del sistema d’accoglienza. Se la traduzione non è solo un’operazione linguistica, essa è anche un’operazione linguistica: è per questo motivo che Steiner pone una citazione da Heidegger in cui il filosofo afferma che l’uomo sbaglia a credere di dominare il linguaggio, perché dal linguaggio è invece dominato. Attraverso i tre eserghi Steiner disegna una costellazione: filosofia del linguaggio/linguistica con Heidegger; predominio del ruolo delle traduzioni all’interno dello studio delle letterature con Borges; critica/poetica del tradurre con Meschonnics. Steiner vuole proporre “una poetica globale da tradurre, capace di mettere in relazione gli studi di retorica con quelli di storia e critica della letteratura, di linguistica e di filosofia estetica. 2. Genealogie La traduttologia si sviluppa nella seconda metà del ‘900. Ballard attribuisce la paternità a Brian Harris, sostenendo che questi l’abbia utilizzato per la prima volta durante un convegno nel 1972. Dopodiché Harris scopre che nel 1968 un gruppo di studiosi belgi aveva già usato il termine “traductologie”. La riflessione sull’attività traduttiva ha origini più lontane; la traduzione è un’operazione legata alla principale facoltà umana che coinvolge il confronto con l’altro: in quanto tale essa ha interessato molti autori. Steiner propone una periodizzazione quadripartita di tale produzione: i. La prima fase andrebbe da Cicerone e Orazio passando per gli scritti di San Girolamo e Lutero: è il periodo in cui la riflessione scaturisce dalla diretta esperienza della traduzione; ii. La seconda fase andrebbe da Schlegel, Croce, Benjamin fino all’opera di Larbaud; iii. La terza fase inizierebbe con i primi lavori sulla traduzione automatica negli anni ’40; iv. L’ultima fase, dagli anni ’60 in poi, sarebbe nuovamente interessata dalla corrente ermeneutica. Questa suddivisione è stata molto dibattuta: Bassnett, ad esempio, vi trova il riflesso di una visione molto personale, criticando in particolare la scarsa funzionalità della periodizzazione. Ma il lavoro di Steiner non è una storia della traduzione vera e propria; postulando che la traduzione è implicita in ogni atto di comunicazione, l’autore propone una serie di descrizioni ragionate di procedimenti. Steiner si spende in analisi e riflessioni intorno alla traduzione, da lui intesa come un’arte esatta in opposizione a qualsiasi teoria letteraria/critica/traduttiva. E’ in questo aspetto che risiede la modernità e l’innovazione di Dopo Babele: il rifiuto di qualsiasi concezione teorica o scientifica della traduzione sostituita dal proposito di analizzare i vari testi attraverso il percorso delle working metaphors. Nel ‘900, l’interpretazione della traduzione come paradigma ermeneutico, prosegue con Ricoeur, per il quale l’operazione traduttiva diventa la porta che apre alla dialettica del sé e dell’altro. Topos ricoeuriano è quello dell’hospitalité langagièr, dell’ospitalità linguistica in cui il traduttore può trovare la felicità nell’accogliere nelle propria lingua la parola dell’altro. La lingua come dimora dell’alterità. Per Ricoeur questa è una prova in cui necessariamente qualcosa si perde: è all’ideale della traduzione perfetta che bisogna rinunciare, lasciando cadere la pretesa di poter ridurre l’altro all’interno dei confini del testo; occorre elaborare il “lutto” di un guadagno senza perdita. Nel 1996, Glissant dirà che l’essenziale, nella traduzione, è riconoscere la bellezza della rinuncia, perche in tale rinuncia c’è la parte di sé che si abbandona all’altro. Per Glissant la traduzione è l’arte dello sfiorare e dell’avvicinarsi; è una “pratique de la trace”, una forma di quella pensée archipélique da lui teorizzata. Il pensiero arcipelagico di Glissant è un pensiero non sistematico, che l’esplora l’imprevisto all’interno della totalità-mondo, e accorda un ruolo di primo piano alla scrittura, all’oralità e alla traduzione. Glissant tiene a sottolineare l’opportunità dei articolare il discorso intorno a una poetica della traduzione. La concezione di Ricoeur rientra appieno nell’idea di “traduzione etica”; laddove la traduzione etnocentrica è quella che riconduce tutto alla propria cultura, la traduzione etica è quella che consiste nel riconoscere e accogliere l’altro in quanto altro. Berman analizza, ad esempio, la traduzione francese di Paradise Lost di Milton a opera di Chateaubriand, il quale, su questo lavoro, si è espresso nelle Remarques che lo accompagnano a mo’ di nota di traduzione. Chateaubriand conserva i neologismi propri del testo di Milton. Laddove il testo di partenza è volutamente oscuro, il traduttore evita di rischiararlo. Il discorso di Berman sulla traduzione etica si sviluppa intorno a case studies positivi e attraverso esempi negativi: si tratta di tendenze diformanti che lo studioso ne individua 13. Prendiamo ad esempio la chiarificazione, ossia quel procedimento che tende a rendere il testo più esplicito provocando il passaggio dalla polisemia alla monosemia. Nella traduzione di un testo turistico possiamo senz’altro giustificare che accanto a dei realia, ossia degli oggetti specifici di una determinata cultura, compaia una glossa esplicativa. A volte una chiarificazione o un allungamento possono modificare l’interpretazione di un incipit celeberrimo, quello di Moby Dick (Call me Ishmael). Questo incipit è tradotto da Draghi con “Diciamo che mi chiamo Ismaele”. In Dire quasi la stessa cosa Umberto Eco riporta le osservazioni di Draghi sulle tre diverse letture offerte: la prima suggerisce che il vero nome del narratore non sia Ismaele; la seconda è che il suo nome non abbia alcuna importanza; la terza equivale a esortare il lettore a chiamarlo per nome. La soluzione adottata da Draghi incoraggia la prima ipotesi. L’esplorazione di una tendenza deformante in traduzione può svelare aspetti del sistema letterario d’arrivo. Si pensi alla traduzione che il poeta Bonnefoy fa dell’Infinito di Leopardi. Bonnefoy nell’ultimo verso rifiuta di riconoscere una dolcezza propria al naufragio e introduce ex novo una congiunzione avversativa, rompendo l’equilibrio della consueta lettura del componimento. Bonnefoy sovrasta l’autore che in quel momento sta traducendo, imponendo così la sua visione del mondo. Nell’ultima sua opera, Berman ritorna al concetto di eticità, definendola come “un certo rispetto dell’originale”: un rispetto difficilmente definibile, in cui la traduzione si pone in dialogo con l’originale. Berman scrive che il testo tradotto deve essere in primis un offerta all’originale: dietro questa offerta c’è la responsabilità del soggetto che traduce. Sulla scia bermaniana, Pym si pone criticamente nei suoi confronti e chiarisce che la lacuna dell’etica di Berman sta nel non aver coinvolto il piano della riflessione e della pratica traduttiva insieme al piano professionale. Pym propone un’etica che si fonda sulla stessa figura del traduttore. Pym fa appello alla responsabilità del traduttore: se il traduttore è responsabile è perché egli è causa di qualcosa. Su questa figura Pym insiste: la sua etica ha per obiettivo ultimo quello di modificare la concezione sociale della professione del traduttore e della sua attività. Pym partecipa alla battaglia contro l’invisibilità del traduttore, si avvicina quindi a quanto ciò detto da Venuti, il quale, pone sotto i riflettori la pretesa di fluidità reclamata dall’editoria statunitense e britannica nei confronti delle traduzioni. La leggibilità dà al lettore della traduzione l’impressione che quell’opera sia stata scritta nella sua stessa lingua. Per Venuti la traduzione è una pratica politica e culturale fondamentalmente violenta che agisce in profondità nel tessuto della lingua-cultura di arrivo. Tarchetti fu un traduttore plagiario. Il suo obiettivo era quello di scuotere le ideologie del tempo, di sovvertire una società ancora troppo legata a un realismo conservatore: attraverso la sua produzione, l’autore contribuiva a una riforma del canone letterario italiano. Venuti, a tal riguardo, conclude dicendo che la storia di quest’autore mostra come la traduzione rappresenti un’iniezione di estraneità nella cultura ricevente che può modificare l’assetto del panorama letterario. Operazione esattamente speculare quella di Tarchetti che mira però agli stessi scopi, è la pratica della pseudo traduzione di cui Venuti si occupa nel lavoro successivo: la pseudo traduzione è una composizione originale che l’autore ha scelto di presentare come un testo tradotto. 6. Manipolazioni, ricreazioni, ibridazioni. Verso una poetica del tradurre Nel 1985, Hermans cura lo studio The Manipulation of Literature: si tratta di un volume importante, che prova a proporre per i translation studies una teoria completa unita a una ricerca pratica e in fieri, attravero quello che viene definito “un paradigma descrittivo/sistemico di manipolazione”. Hermans e il suo manipulation college vedono la letteratura come un sistema complesso e dinamico e propongono un approccio alla traduzione letteraria e descrittiva, target-oriented, funzionale e sistemico. L’approccio proposto serve a interrogarsi sulle traduzioni senza ridurle a oggetti derivati, contestualizzandole sul piano culturale, storico e sociale. Il punto di partenza dei DTS (Descriptive Translation Studies) è che il significato di traduzione va di volta in volta stabilito, anche pur temporaneamente. Tymoczko sosterrà che quanto più si espande la definizione di ciò che la traduzione è, tanto meglio si comprende cosa accade: solo così possono cogliersi le reali conseguenze dell’operato del traduttore. Sulla stessa linea di pensiero di Hermans si colloca il lavoro di Lefevere. Lo studioso afferma che la traduzione è una forma di riscrittura: in quanto tale, essa riflette un’ideologia e una poetica che manipolano la letteratura in modo da farla funzionare in una data società e in un determinato modo. Lefereve vede la traduzione “come rifrazione piuttosto che come riflessione”: egli propone quindi un modello che miri a superare la vecchia idea della traduzione intesa come specchio dell’originale. In quanto riscrittura, la traduzione è una forma di ri-creazione. Paz aveva già sottolineato l’affinità tra traduzione e creazione in un suo saggio del 1971: “traduzione e creazione sono operazioni gemelle, da un parte la traduzione è molte volte un indistinguibile creazione, dall’altra c’è un incessante riflusso tra le due, una continua e mutua fecondazione”. Esempio di tale fecondazione è per Paz l’assimilazione delle influenze della poesia francese dell’800, la cui conseguenza fu una produzione che andò a influenzare la stessa Spagna. La via della traduzione come forma di ri-creazione è stata seguita anche dagli studi postcoloniali. Già in Borges quell’estetica dell’irriverenza diventava un atto di politica culturale: la manipolazione dei testi preesistenti gli permetteva di sovvertire il rigido schema che vedeva nell’Europa il centro del mondo e nell’America meridionale una sede periferica. Anche per Haroldo de Campos la traduzione è una forma di lettura che si appropria della tradizione. La pratica della traduzione poetica si basa sulla trans creazione e sulla transculturazione: il traduttore digerisce e reinventa il componimento poetico. In prospettiva postcoloniale si colloca anche Devy, secondo cui la traduzione sarebbe “l’esistenza errante di un testo in esilio perpetuo”. L’esilio fa qui riferimento alla visione metafisica occidentale che considera la traduzione da una lingua all’altra come un problema scaturito dalla crisi post-babelica; da qui l’idea di un testo tradotto che non condivida il prestito dell’opera originale. Devy vede la traduzione come una nuova creatura, che conserva concetti e significati del testo di partenza, racchiudendo sia la ricchezza del suo autore, sia quella del suo traduttore. Coniugando la prospettiva della critica letteraria femminista postcoloniale e quella dei gender studies Spivak si interroga su che cosa sia la traduzione responsabile. L’autrice vede la traduzione come l’orlo sfilacciato di un tessuto linguistico: l’operazione traduttiva punta a colmare lo spazio che separa le due lingue. Ciò che conta tradurre è solo quando si ha una vera intimità con la lingua-cultura di arrivo. Spivak propone per la critica delle traduzioni uno schema interpretativo tripartito: retorica/logica/silenzio. Attraverso la logica si può saltare da un concetto all’altro del testo, laddove la retorica può favorire una certa casualità. Tuttavia è la retorica a consentire di intravedere le peculiarità del testo di partenza ed è per questo che essa è inclusa nello schema proposto; scopo della traduttrice postcoloniale è per Spivak quello di manipolare i silenzi retorici delle due lingue, fino al raggiungimento del messaggio ultimo. Il potere ultimo della traduzione sta nel definire e nell’articolare l’alterità. Su questa linea si muovono Chamberlain, Simon, Von Flotow che si concentrano sull’analisi della traduzione come pratica femminista. Una delle modalità messe a fuoco da Von Flotow è quella dell’hijacking, ossia dei dirottamento o appropriazione . La scrittura della femminista Brossard ha generato traduzioni inglesi che costituiscono una ricca miniera da esplorare perché mostrano in che modo la traduzione dia vita a un nuovo prodotto letterario; Godard concepisce la traduzione come il prosieguo di una creazione. Così autrice e traduttrice lavorano in una forma di collaborazione che è al tempo stesso cooperativa e sovversiva. Il lavoro di Lavieri affronta il rapporto tra letteratura e traduzione in una prospettiva inedita, ossia quella del racconto di traduzione, in cui le teorie letterarie e traduttologiche si fondano in un’opera di finzione. Lavieri si propone di indagare in che modo la letteratura contemporanea pensa la traduzione. Il concetto di poetica del traduttore è sviluppato da Mattioli, che ne riprende la concezione anceschiana come “riflessione che i poeti e gli artisti esercitano continuamente sul loro fare definendone precetti, norme, ideali, stabilendone scopi, proponendone modelli”. Mattioli propone di considerare la traduzione come il rapporto fra la poetica dell’autore e la poetica del traduttore. E’ in questa direzione che procede anche Berman ponendo in rilievo la fase dello studio della posizione del traduttore e del suo progetto traduttivo. Buffoni scrive che “se tradurre letteratura porta alla realizzazione di un incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto, questo incontro è unico e irrepetibile, perché unico e irrepetibile è lo stato delle due opere e delle due lingue che in quel momento si incontrano”. Si vede così come la traduttologia contemporanea insista sulla valorizzazione dell’autorialità della traduzione. materiale che è in grado di produrle e alla forma di relazione che sviluppano con la cultura materiale della società a cui appartengono. La letteratura e le arti figurative rappresentano una traccia documentale del passaggio novecentesco dal sistema delle arti a quello dei media e cooperano alla costituzione di un quadro teorico attraverso il quale entrare in contatto con la nozione di intermedialità dalla porta delle scienze filologiche e della storia materiale e delle cose. Quella che Havelock ha chiamato “riscoperta moderna dell’oralità” ha costituito la premessa maggiore di un processo di ricontestualizzazione nel medium alfabetico. A rinnovare le forme del discorso novecentesco sui media sono autori come Lévi-Strauss, Mayr, McLuhan, Goody, Watt e Havelock. Secondo McLuhan, il patrimonio enciclopedico convogliato dal sistema dell’oralità primaria permette che venga attribuito anche alla tecnologia elettrica e all’oralità secondaria un peso storico uguale a quello delle fasi aperte nel passato dall’invenzione della scrittura e della stampa. La posizione, che si sviluppa con McLuhan, rappresenta una linea di interpretazione e di analisi dal momento che porta nel nuovo contesto dei media digitali Bolter e Grusin a sussumerne le intuizioni all’interno della teoria di rimediazione. In questo contesto la nozione stessa di messaggio viene osservata nella sua natura quasi disincarnata. In una direzione diversa muovono le riflessioni di Kittler sulla natura incarnata della tecnologia. Secondo lo storico è proprio agli studi letterari che dedica le analisi della storia dei media, una storia che muove dalla produzione narrativa e dalle pratiche di scrittura che nel XIX secolo vengono alla luce delle trasformazioni tecnologiche. Il discorso sull’impatto della tecnica viene sviluppato nello studio sui media elettrici del ‘900. L’aspetto materialistico delle componenti tecniche conduce alla determinazione di un primo corno degli studi di archeologia mediale; il secondo procede dall’assunto che ogni atto espressivo sia incorporato in una rete di pratiche materiali. Un ruolo a parte spetta alla lettura dei linguaggi mediali condotta da Zielinski secondo un menage a trois “cultura-tecnologia-soggetto”. Il concetto di dispositivo risulta utile nel condurre un’analisi della cultura visuale all’interno del medium letterario. Se per Zielinski l’archeologia significa scavare sentieri segreti nella storia, la ricerca non è guidata da una canonica idea di progresso, è anzi la nozione di progresso continuo dal basso verso l’alto, dal semplice al complesso, deve essere abbandonata. L’altra questione verso cui spinge l’oralità secondaria è costituita dal modo in cui l’ordine narrativo è organizzato dal medium nel quale avviene la pratica discorsiva. Le forme di comunicazioni elettriche, nell’ibrido che caratterizza il video podcasting o le pagine dei blog trovano nelle teorie di Ong un percorso nel quale scorrono in continuità il wireless e la comunicazione via cavo perché nella più nuova struttura comunicativa hanno a che fare con un’oralità più deliberata e consapevole E’ vero quindi che a partire dalle caratteristiche tecniche della letteratura al contatto con gli altri media, diviene necessario ripensare e aggiornare gli elementi narrativi, stilistici e retorici sia in prospettive comparate che intermediali. Nella stessa misura in cui la cultura chiropratica ha elaborato le forme e i temi comuni in nuove forme letterarie, così anche nel discorso sull’intermedialità la natura tecnologica va osservata per la materialità del segno di cui è portatrice. Per Rippl la questione diventa se il mezzo di comunicazione e il suo contenuto narrativizzato abbiano un modello verbale univoco e valido per tutti i sistemi mediali. Nei media le forme del discorso e l’aspetto materiale del segno sono grandezze che si incastrano l’una nell’altra. Rippl pone il tema richiamandosi a un percorso neutrale dallo strutturalismo che imposta seguendo il discorso di Langer sulla pittura. La differenza tra le parole e le immagini è nella differenza della loro base mediale o materiale che è la base della loro grammatica. Le leggi che governano questo tipo di articolazione non rispondono alle legge della sintassi che governano il linguaggio. La differenza più evidente è che per le forme visive esistono regole semantiche e sintattiche più o meno fisse: ma Langer non è d’accordo sulla questione. Alla domanda come nei media le componenti comunicative agiscono, Ortoleva risponde che è il sistema dei media che esprime di per sé l’esigenza di ricondurre la pluralità delle forme di comunicazione a un quadro unitario e coerente. Parlare di sistema comporta l’individuazione di una relazione di interdipendenza e di complementarietà tra i diversi mezzi utilizzati per lo scambio dei messaggi, solo tenendo conto dell’influenza che ciascuno dei media ha sullo sviluppo e sulle trasformazioni degli altri. Nel discorso riguardo il campo artistico compare l’espressione di intermedialità. Higgins con la nozione di intermedia cattura il senso più rilevante delle esperienze cui era stato protagonista. Con intermedia Higgins cattura la relazione interstiziale tra pratica artistica e sistema delle arti che avviene tra i generi prevalenti nella neoavanguardia degli anni ’60: l’arte prende corpo come qualcosa che accade tra i media e qualcosa che agisce in un territorio inesplorato. Higgins descrive questa pratica riprendendo il termine inter-media da Coleridge che l’aveva usato per spiegare le funzioni dell’allegoria nell’opera di Spenser e anche per ribadire che l’intermedia è sempre stata una possibilità fin dai tempi più antichi e rimane una possibilità ovunque esista il desiderio di fondere due o più media esistenti. Una possibilità che, secondo Peterlini, ha affascinato tutte le avanguardie storiche. Di questa fusione e convergenza delle arti, Higgins offre una sintesi visiva nell’immagine dell’Intermedia Chart, “il messaggio degli intermedia è caratterizzato da un codice momentaneo e adattabile alle circostanze”. Secondo la ricostruzione di Wolf sarà poi Hansen-Love a introdurre il termine intermedialitat. L’espressione è preferita a intertestualità perché con essa Hansen-Love traduce non solo l’aspetto inter srtes della relazione tra la scrittura e le immagini ma perché pone sullo stesso piano entrambi i media. Anche se il concetto di intermedialità nasce in seno a un milieu letterario, gli studiosi avevano inizialmente considerato l’intermedialità come la sorella minore dell’intertestualità. 3. Teorie intermediali A partire dagli anni Novanta del ‘900 con l’espressione intermedialità viene indicato il sistema dei linguaggi mediali nel complesso delle loro interazioni. Nella stessa direzione si muove la produzione delle metodologie critiche che affinano le teorie dell’adattamento e della trasposizione in quelle della combinazione mediale, della multimodalità. Da qui deriva anche l’assenza di una definizione univoca per l’intermedialità e la trasformazione di quest’ultima in una parola sotto la quale i concetti teorici variano a seconda delle discipline e dei fenomeni mediali indagati. L’indagine sulle configurazioni intermediali ci porta a ritornare al sistema delle arti e a osservare da vicino le nuove arti del ‘900. Perché, se il principio è quello omerico dell’arte che è in grado di concepire l’arte sono proprio l’origine classica e le riprese successive i momenti capaci di presentare gli elementi costitutivi che determinano la narrativizzazione di una struttura visiva, a un versante creato dal pastiche. Nel percorso mediale inverso, dal testo, dalla parola verso la raffigurazione degli oggetti verbali, le tecniche artistiche responsabili del racconto visivo posseggono una sintassi condivisa. Secondo Bal, questo compito è proprio quello che deve assolvere un impegno interdisciplinare ed è per questo che ogni studio dei fenomeni culturali dovrebbe essere interdisciplinare. Questo discorso può anche essere illustrato in chiave musicale. Quindi, da un lato, la presenza di un testo musicale porta a un effetto di risonanza ch si ripercuote nella struttura di un capitolo di un romanzo, dall’altro, un’altra forma è quella che negli studi di Scher risponde al nome di musica verbalizzata, intesa come una qualsiasi rappresentazione letteraria di composizioni musicali esistenti o fittizie: qualsiasi tessitura che abbia come tema un brano musicale. Un esempio è nel romanzo di Huxley dove la rappresentazione narrata dalla musica orchestrale fornisce, per il suo contenuto metaforico, anche un momento simbolico di riferimento per la struttura della trama. Wolf usa proprio le parole di Quarles (protagonista del romanzo di Huxley), ovvero “la musicalizzazione del romanzo stabilisce una relazione interamente nuova tra ragione e sentimento” per portare il discorso sul XI capitolo dell’Ulysses di Joyce, dove, quindi, un’opera può essere ascoltata come una storia. Pross ha sostenuto la necessità di avere in approccio più sistematico ai media. Così li ha divisi in base al loro grado di saturazione tecnologica in tre tipologie: I. Media primari, senza alcuna tecnologia; II. Media secondari, come gli strumenti musicali; III. Media terziari, come la radio, il cinema e la televisione. Il progetto mostra anche la velocità della tecnologia e la necessità di continui aggiornamenti. Un altro progetto tedesco di catalogazione e definizione dei sistemi mediali è quello di Schmidt, che vede in essi la presenza di quattro elementi: I. Lo strumento semiotico di comunicazione; II. La tecnologia mediatica; III. Sistema sociale delle istituzioni che utilizzano i media; IV. I prodotti mediatici come la letteratura o la musica in cui si realizzano in vivo gli effetti della produzione e della distribuzione. Irina Rajewsky, Marie-Laure Ryan, Werner Wolf hanno dedicato attenzione al sistema dei media ma la precisazione delle metodologie e delle strategie di ricerca è guidata da un interesse semiotico. L’intermedialità, secondo Rajewsky, può servire come termine generale per tutti quei fenomeni che si verificano in qualche modo tra i media. Quindi l’espressione intermediale indica quelle configurazioni che hanno a che fare con l’attraversamento dei confini tra i media. DIGITAL HUMANITIES E STUDI LETTERARI di Federica Perazzini 1. Un campo di difficile definizione La spiegazione dell’espressione digital humanities è da ricondursi alla natura ibrida e inclusiva dell’accattivante locuzione-ombrello diventata da circa venti anni l’icona del confine transdisciplinare tra scienze esatte e umane. Le digital humanities ragionano sulla permeabilità di tale confine e sulla relazione di Che l’analisi delle correlazioni possa essere sufficiente alla critica computazionale sarà da provare. Ciò che trapela nei confronti delle metodologie quantitative applicate alle scienze umanistiche è un dato di profonda impazienza. Di qui, il commento di Rommel secondo cui l’elaborazione computazionale della letteratura non ha mai avuto un impatto significativo sulla comunità scientifica. Se le digital humanities devono ancora dimostrare di poter apportare un plusvalore nella ricerca letteraria, allora il problema è davvero complesso e forse irrisolvibile. Continua ad aspettarsi dalle digital humanities risultati ascrivibili a una sfera ermeneutica ancora qualitativa, ancora umana, sarà del tutto inutile o uno spreco di opportunità. In questo senso sarà dunque importante che la futura e la presente generazione di umanisti digitali impari a guardare ai dati computazionali non solo in termini di confutazione o conferma di ipotesi preesistenti all’applicazione delle analisi quantitative ma come linfa vitale dell’odierna riflessione letteraria. LE TEORIE E I METODI di Ugo M. Olivieri 1. Una ridefinizione di metodi e di oggetti La permanenza di una teoria è, difficile, immaginarla in un’epoca di crisi dell’idea stessa di letteratura e di testo letterario. Oggi la teoria della letteratura è una disciplina in “crisi” come ha mostrato Koselleck. Questo termine è presente nei titoli di molti saggi degli anni ’60 e ’70: unico rimedio a questa condizione sembra la pratica di un eclettismo metodologico, suggerita da Ceserani come possibile applicazione di metodi “locali”, abbandonando di fatto l’idea di una teoria complessiva. Un’ipotesi che parte da una delle caratteristiche della letteratura nella modernità è la relazione tra testo e riflessione metateorica. E’ all’interno del fatto letterario che nasce e si sviluppa una teoria della letteratura. Oggi occorre ragionare di “teorie letterarie” nei presupposti epistemologici e nei procedimenti metodologici. Se una scelta di fondo viene operata, ha il suo fondamento nell’accettazione del carattere relazionale e differenziale dei concetti operativi e dei metodi. L’elemento che accomuna la semiologia del testo, la narratologia e l’ermeneutica è il presupposto che si possa analizzare un testo estetico con degli strumenti e dei metodi che usano nelle loro descrizioni il linguaggio naturale stesso. La crisi della teoria è anche crisi degli “oggetti” testuali tradizionali e il campo letterario è stato ridefinito per individuare ciò che il nostro insieme sociale delimita come discorso letterario in opposizione al discorso sul letterario. E’ il campo letterario e il testo, ad aver subito una trasformazione che ne ha cambiato la natura. Ciò che indica la scrittura letteraria nell’epoca della globalizzazione è un uso della citazione e dell’intertestualità come segno distintivo socialmente atteso. 2. La mappatura della teoria Dal punto di vista storico, un primo sincronico stato dell’arte mostra quanto sia sbiadita l’immagine di una teoria critica che coincida con un’area culturale e linguistica omogenea. Tale schema è stato teoricamente produttivo intorno ai primi anni ’60. L’inizio è databile 1966: anno di pubblicazione di opere di Foucault, di Benveniste, di Todorov e Hjelmslev. Basta ripercorrere queste pubblicazioni per comprendere che le radici dello strutturalismo di metà ‘900 sia poste nella Mosca postrivoluzionaria e nella Ginevra del Corso di linguistica generale di Saussure. Quest’ultima opera sta mettendo in rilievo un’attenzione allo scarto dalla norma e a una linguistica della parole, della lingua in situazione, accanto a una considerazione della langue. Trascurata, forse, è stata la filiazione saussuriana del Traité de stylistique francaise di Bally e la sua influenza sulla critica stilistica di Spitzer. Sulla scia di Vossler e Auerbach è l’abito comparatistico di Saussure. E su questo piano di attenzione ai testi moderni sembrano convergere il formalismo russo e la linguistica generale di Saussure. In tutto ciò vi sono le radici di una declinazione della teoria come effetto totale, capace di leggere un’indistinzione di testi e al tempo stesso di tener testa a una definizione dell’arte come avanguardia tesa a trasformare il mondo dopo averlo criticato. Da un lato la grande tradizione del comparatismo europeo che diventa in Saussure metodo d’analisi della forma più alta e complessa di categorizzazione della realtà, cioè il linguaggio; dall’altro una contiguità con le sperimentazioni e i testi delle avanguardie della modernità. Un metodo innovativo è ben evidente nei lavori di Lévi-Strauss dove l’antropologia diviene cosciente indagine teorica. Negli anni ’60 saranno Lévi-Strauss e Jakobson a produrre l’analisi di una sonetto di Baudelaire, Les chats, che rimane uno dei testi di riferimento per un’analisi formalizzata della poesia. L’analisi è significativa perché sarà modello dello strutturalismo per l’analisi della poesia. Due sono i principi metodologici che guidano l’intera analisi. Da un lato l’idea che un uso delle funzioni espressive e foniche del significante consenta la realizzazione sul piano del significato di una serie di equivalenze e di letture simboliche; dall’altro una correlazione sincronica tra i vari piani dell’analisi fino a trasformare l’approccio descrittivo in una volontà interpretativa innovativa. Le serie foniche, metriche e simboliche andranno a costituire dei gradini di un sistema che come una rete sembra costruire una perfetta e geometrica lettura del testo. Ed è a partire da questa applicazione che prenderà corpo l’idea di una letteratura come caratteristica oggettiva del testo estetico. Una prima apparizione di questa formulazione la si trova in Sklovskij. Il critico formalista definisce il procedimento come qualitativamente solidale agli aspetti di ripetizione fonica e ritmica del verso, così l’intera struttura formale del testo viene concepita come l’espansione di una figura stilistica o retorica. Al centro dell’opera letteraria rimane la funzione di straniamento svolta dal procedimento in opposizione all’automatismo percettivo della lingua quotidiana. E’ un approccio che trova nell’arte d’avanguardia i fondamenti della propria episteme. Tynjanov riformula la contrapposizione statica di Sklovskij tra materiali e procedimenti mediante il concetto di dominante, fino a individuare il carattere principale del linguaggio poetico nella tensione degli elementi linguistici inerti del testo e il prelevare di un fattore formale “dominante” che deforma tutti gli altri. La retroazione della funzione sulla forma trova con il concetto di dominante una sua applicazione nella critica letteraria destinata ad essere sottovalutata nelle sue potenzialità teoriche. Se un materiale linguistico eterogeneo acquista una connotazione letteraria solo all’interno di una dialettica funzionale tra fattore poetico dominante e fattori linguistici subordinati, si apre una nuova prospettiva di poetica teorica. Se questa dialettica si trasmette a tutti gli elementi dell’opera allora il linguaggio poetico e il linguaggio comune si oppongono per la diversa funzione e distribuzione degli elementi in un contesto poetico o narrativo. Nel modello letterario di Tynjanov sono presenti due aspetti rispetto alla prima teoria: il diverso ruolo del destinatario nel processo di fruizione dell’opera e l’alternarsi diacronico dei sistemi letterari. LA ricchezza dell’opera mostra come in questo processo di decodifica interviene la dinamica letteraria , trasformando i sistemi letterari canonizzati e imponendo nuove scelte tematiche e formali. 3. Ancora sentieri e mappe La traduzione in francese di Todorov dell’antologia dei formalisti russi si inserì tra la pubblicazione di due opere, quella di Barthes e quella di Foucault, il quale aveva segnato l’affermazione della nuova critica di impostazione formale. Sono frutto di quel periodo gli studi narratologici di Genette, i quali hanno contribuito a fondare una vera e propria grammatica degli strumenti. Per la storia dello strutturalismo di fondamentale importanza sono Barthes e Foucault. Nelle sue estreme formulazioni, lo strutturalismo francese arriva a teorizzare un processo senza soggetto e quindi una messa in discussione delle proprie ricerche precedenti. Il piacere del testo di Barthes annuncia una svolta della nozione di testo. L’interazione barthesiana tra jouissance e testo diventarà, nella semianalisi di Kristeva, costruzione del testo come luogo di manifestazione dei livelli profondi del soggetto; e quindi processo di destrutturazione del soggetto pieno e occidentale e del testo leggibile della tradizione logocentrica. La ricerca di Foucault sembra invece evolvere verso la filosofia politica. La critica strutturalista italiana ha avuto una genealogia meno filosofica dall’insegnamento di Contini; al punto che ha rielaborato e adattato alla tradizione italiana i metodi della teoria letteraria europea. Da un lato ha significato una differenza rispetto alle curvature più filosofiche dello strutturalismo francese. Importanti si sono rivelate la rivisitazione in chiave semiotica dei generi letterari di Corti e l’analisi delle correlazioni tra modelli culturali e strutture testuali di Segre. La rivista “Strumenti Critici” è stata il luogo di diffusione di tali studi, assieme agli studi di Lotman e Uspenckij. L’ipotesi li Lotman – individuare alcuni testi letterari che per la loro struttura modellizzante possano fungere da descrizione sub specie semiotica della società e della cultura del periodo – sembra ben funzionare per una teoria semiotica come quella di Segre, volta a indagare i rapporti tra mondo e testi. Due altri approcci sono stati importanti per l’elaborazione della teoria letteraria: la semiologia e le varie discipline storico-letterarie legate all’analisi delle letterature nazionali. Un discorso a parte meriterebbe l’approccio di Garroni, che analizza in termini semiotici i processi cognitivi e le forme trascendentali kantiane. Forse Eco ha avuto maggior incidenza nella critica letteraria proprio destrutturando la centralità dell’autore. Il nesso tra storia e testo non è mai venuto meno in Italia. Combinata in vario modo, la teoria letteraria ha agito come suggestione di lettura in vari critici italiani. Basti pensare a Mazzacurati e Luperini, il quale si forma vi è sempre la traversata di costellazioni testuali e l’enfatizzazione di alcuni momenti della tradizione da parte dell’autore. Pochi scrittori si sottraggono alla dipendenza di un passato in alcuni casi incombente. Il lavorio della scrittura preme in due direzioni: da un lato d’infittisce attorno alla produzione di senso e all’apertura del contesto, dall’altra fa gravitare l’oggetto letterario nell’orizzonte dell’istituzione letteraria mediante l’ordine del catalogo e della resistenza delle forme. Nell’esito delle ricerche di Genette sulla intertestualità e la paratestualità le chiuse frontiere del volumen si dissolvono e dilagano sulle soglie tra il testo e il suo commento. Nel modello testuale di Jauss le differenze tra il contesto originario del testo e i contesti posteriori sembrano agire come un ponte ermeneutico tra l’attività di scrittura dell’autore e quella interpretativa del lettore. La coesistenza ermeneutica di contemporaneo e con contemporaneo diviene l’anello di saldatura tra la letteratura e la storia. In questa trasparenza risiede l’aporia attorno alla quale va interrogata criticamente la teoria estetica di Jauss per trasformare l’apologetico continuum storico ipotizzato dall’estetica della ricezione nella costruzione del punto di vista dialettico del presente. L’arte suscita libertà e conoscenza emancipando il soggetto dai legami con la realtà quotidiana e proprio per questo l’incontro tra l’esperienza contenuta nell’opera e il ricevente deve privilegiare una lettura precategoriale, fondata sulla conciliazione tra conoscenza e piacere estetico. L’evocazione di un mondo a tutti comune sembra paradossale; e ancor più sembra inattuale la prospettiva auspicata dall’estetica della ricezione di una funzione di appello e di conciliazione all’esperienza estetica. La comunità degli interpreti cui guarda l’estetica della ricezione sarebbe un risarcimento della scissione del presente, e in opposizione, alla frammentazione dell’esperienza e alla letteratura come valore dipendente dal mercato. Le ragioni di questo tramonto della continuità storica della comprensione dialogica sono molteplici ed extraletterarie oltre che letterarie. Jauss sembra consapevole della discontinuità della modernità tra l’esperienza del lettore e l’istituzione letterarie. Sul prolungamento delle attese di senso da parte del lettore, messe in campo dall’aisthesis, si deve installare la selezione critica della spiegazione. Il dislivello tra l’aisthesis della lettura presente e l’orizzonte originale dell’opera viene poi ricomposto per Jauss dall’operazione ermeneutica che salda l’alterità del testo e l’orizzonte esperienziale del lettore. Molte delle letture testuali dell’ultimo Jauss sono dedicate al valore assertivo e socialmente modellizzante delle norme letterarie. Un esempio riuscito di tale approccio critico è il saggio La doucer du foyer ove l’autore indaga la selezione e la trasmissione di codici antropologici e comportamentali nella lirica minore francese della metà del XIX secolo; insieme con il processo della percezione e dell’esperienza che l’arte d’avanguardia e Baudelaire individuavano nel moderno. L’opera d’arte può diventare una tessera del mosaico che connette le strutture sociali alle norme letterarie e ideologiche. Non a caso sarà con l’interpretazione di Baudelaire da parte di Benjamin che egli intreccia un dialogo produttivo su alcuni presupposti teorici; deve però rubricare la visione di Benjamin dell’allegoria in Baudelaire quale consapevolezza solo negativa della sopravvenuta estraniazione della natura. Prova a opporre alla lettura politica e messianica di Benjamin del processo di artificialità dell’esperienza, anche di quella estetica, la fiducia umanistica nel valore assertivo e liberatorio dell’estetico. Ed è qui che si apre una dimensione politica, quella che Luperini definisce la conoscenza e la messa in discussione della marginalizzazione e separatezza del lavoro della critica del postmoderno. 6. Il canone, la teoria, il mercato A partire dagli anni ’70, messa in discussione la rete protettiva della storia letteraria, la sicurezza di una serie di norme e di valori., i testi letterari erano stati oggetto di letture sociologiche, psicanalitiche; e i critici e gli storici della letteratura avevano cercato altrove che nella tradizione gli strumenti di analisi e di valori su cui fondare la scelta di opere da additare come monumenti canonici. La stagione di una critica con forti opzioni metodologiche è stata il frutto della crisi di una tradizione interpretativa. In Italia la riflessione sul canone ha avuto come centro il giudizio sulla contemporaneità. Nel ‘900 gli istituti letterari e le istituzioni letterarie tradizionali sembrano funzionare come base di una gerarchia di valori letterari condivisi. Proprio tale crisi euristica ha messo in rilievo quanto l’ormai necessità di aggiornare i programmi scolastici e i curricula formativi fosse soprattutto un problema di selezione. Così il punto di vista comune è partito dalla consapevolezza che introdurre nei programmi una curvatura contemporanea implicasse un ripensamento dell’istituzione letteraria e dei suoi strumenti interpretativi. Solo il peso di una tradizione storicistica può spiegare la complessità di operare selezioni e scelte che ritornino sull’interpretabilità del passato. In tali contesti la costruzione del canone è pensabile come momento agonico che salva il testo per il suo valore estetico. Bloom fonda il repertorio dei suoi autori memorabili su una lettura senza mediazioni testuali né extratestuali da parte di un lettore individuale eccellente. L’origine di tale lettura è forse rintracciabile nella tradizione romantica anglosassone e americana, attenta alla dimensione del sublime e all’indistinzione tra la prosa critica e quella creativa. Tale appello a una lettura individuale, che aspira di diventare collettiva, ha una lunga attestazione in tutto il Modernismo letterario. Basti pensare a L’allegria e al Sentimento del tempo di Ungaretti. Questo caso può illuminare il fondamentale scarto che sul canone si è dato tra moderno e postmoderno. Ungaretti mostra bene quanto il canone che come interprete sta costruendo sia intriso di una nostalgica comprensione della distanza tra il presente e la tradizione. Nell’immagine ungarettiana del consumarsi della parola traspare tutta l’ansia modernista di un rapporto allegorico con la tradizione, ossia di una rilettura nostalgica: una lontananza irrimediabile grazie a cui l’antico può essere manipolato e usato per costruire il canone poetico moderno. Diversamente sembra porsi il problema da una postazione postmoderna; e lo dimostra la discussione americana, ove l’affacciarsi dei cultural studies ha messo in rilievo la presa di parola, la legittimazione di tradizioni culturali che chiedono una presenza nel canone ufficiale. Il dibattito ha assunto il termine canone nella ristretta accezione di lista di autori notevoli da proporre, riproporre o salvare. Il dibattito si è spostato sulla necessità di una critica antiaccademica e quindi antimetodica. L’erosione della funzione-autore e i modi di ricezione di una letteratura collettiva sarebbe stata una possibilità di ripensare il canone romantico e poi modernista centrato sull’autore-produttore solitario e geniale, laddove il dibattito si è invece incentrato solo sulle forme di censura e di scarto del nuovo messo in opera dall’industria culturale. La divaricazione sempre più marcata tra la ricerca accademica e la critica militante può essere vista come un’altra manifestazione della connessione già indagata tra la teoria letteraria e le pratiche della scrittura creativa. Se si estende l’ambito semantico del termine canone anche a un’indagine sui modi, sulle circostanze e le istituzioni che forniscono una legacy ai testi, si assiste oggi a una ripresa dell’indagine sul valore simbolico e antropologico dei testi letterari da parte di quelli storici che lavorano sull’immaginario. Le ricerche di Banti, le intuizioni di Anderson, la visione di Hunt stanno a testimoniare la vitalità di una teoria che intervenga ancora sui testi Segnali in questo senso vengono anche da studiosi come Nemesio o Loretelli. Una comparatistica centrata sulla tematica letteraria e attenta alla dimensione modale delle forme e dei generi diviene un supporto importante per una teoria della narratività, dal romanzo al racconto. La letteratura e l’esperienza estetica sembrano perdere terreno nella formazione educativa e nelle istituzioni in cui la si pratica e divenire una variabile del processo di valorizzazione del capitale cognitivo globale. Qui la strumentazione critica della teoria letteraria deve cedere il passo a quel valore di verità, a quel progetto utopico di futuro, che è il valore politico contenuto in ogni atto estetico. La letteratura sembra aver perduto anche l’esclusiva nella percezione artistica comune.
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