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Riassunto Lezioni di Letteratura teatrale italiana su Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

Riassunto delle lezioni del corso di Letteratura tetrale italiana. Svolto presso UNIFI nell'anno accademico 2023-2024 dalla professoressa Castellano. Il corso verte su Vittorio Alfieri

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 18/01/2024

emma-cartoni
emma-cartoni 🇮🇹

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Lezioni di Letteratura teatrale italiana su Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! CASTELLANO RIASSUNTO LEZIONI ALFIERI CONTESTO STORICO Nasce ad Asti, in un momento di storia travagliata dell’Italia: ultimi anni del regno di Carlo Emanuele III e di passaggio al prossimo re Carlo Amedeo III. Il primo, a seguito della pace di Vienna (1738) e di Aquisgrana (1748), aveva attuato una politica di espansione del territorio dello stato piemontese. È un fase di riforme ancora moderate, che non recepiscono le novità del secolo. È un Piemonte attardato. Il riformismo sabaudo è ancora lontano da quello illuministico europeo. Tra le riforme vi è l’introduzione di un ceto nobiliare, “di servizio”, che era soggetto a stretti controlli da parte del governo, e quindi privo di stimoli e lontano dalle novità dei fenomeni culturali europei. → negli anni di formazione di Alfieri si ha l’assenza di un dibattito vivace e di libertà intellettuale. Nasce in un Piemonte arretrato che sente come opprimente. Nel 1711 Amedeo III riorganizza l’Università, che fa parte di ciò che verrà definito ristagno culturale dell’epoca sabauda. Perché il sapere è asservito al potere del re, l’atmosfera è pesante. Per questo alfieri in tutte le sue opere porterà in scena la figura del tiranno e della libertà intellettuale anche in condizione di costrizione politica. Severa era la censura della stampa, sia ecclesiastica che statale. Spesso le pubblicazioni più importanti avvengono in terra straniera. I timidi tentativi di riforma furono osteggiati e rilegati nell’ombra. Si veda la riforma economica di Giambattista Vasco e quella editoriale di Bodoni, costretto a lasciare il Piemonte per Parma. Lo stesso accade al Giuseppe Baretti, intellettuale, filosofo costretto a pubblicare fuori dal regno Sabaudo. Questo portava alla creazione di società clandestine, in cui si riuniscono intellettuali e politici. Alfieri fonda tra queste la Società dei giovani liberi, attiva dal 1762 al 1768. Garantivano la circolazione di idee rivoluzionarie. Società letterarie che si basano su erudizione e accademismo. Periodo importante per la formazione di Vittorio. Si rivede nelle sue opere il contrasto tra la Torino arretrata e tirannico, e l’Europa e la scoperta di sé. → Nel sistema tragico alfieriano risulta come parola chiave la LIBERTÀ. Vedi trattato Della Tirannide. Nella seconda metà del 1700 inizia in Europa il declino del secolo dei Lumi, della luce della ragione; ma siamo ancora lontani dal romanticismo 800esco. Caposaldo dell’ideologia politica di inizio ‘700 era il dispotismo illuminato (monarca assoluto che attua riforme che promuovono i valori illuministi), che inizia a vacillare nelle ultime fasi delle esperienze dei filosofi. Rousseau inizia a sgretolare il mito dell’assolutismo. → la crisi dell’illuminismo è ben incarnata da Alfieri. Benedetto Croce definisce Alfieri “pre-romantico”. Ad oggi non più accettata, ma spiega la scristalizzazione della visione illuministica di Alfieri. Il Protoromanticismo in Italia non hai mai avuto intento polemico verso i lumi 700eschi. È stato più graduale, i romantici italiani non hanno mai, a differenza dei francesi, sdegnato i precedenti illuministici. → né l’etichetta di illuminista, né quella di protoromantico sono in grado di descrivere Alfieri, che rimane libero da queste categorizzazioni. FORMAZIONE Nasce nel 1749 ad Asti. La famiglia è assente nella sua vita e si rivede nelle opere. Gran parte dei suoi traumi nascono all’interno delle mure domestiche. Padre Antonio e madre Monica Marianna, appaiono legati da un matrimonio di convenienza. Esponenti della nobiltà sabauda. Il padre muore quando Vittorio ha 9 mesi, e lui viene spedito dalla balia, privato di ogni contatto con la madre. Si crea un senso dell’abbandono. Viene educato da un istitutore esterno, un prete, che definisce “ignorantuccio”, liquidandolo quasi con generosità. Qui nasce la sua ideologia anti-ecclesiastica. La sua formazione inizia con scarsi mezzi. I suoi primi passi sono quindi necessariamente tentennanti. A differenza di un autore come Leopardi, la sua formazione è fin da subito guidata, Alfieri fa fatica. Nel 1758 viene inviato (su consiglio dello zio e del tutore) all’Accademia reale di Torino. Godeva di ottima reputazione ma lui ne dà un ritratto poco generoso, insoddisfatto. Definisce i compagni “vergognosissimi perdigiorni”, da cui emerge la sua solitudine e la sua volontà di costruirsi in antitesi rispetto al contesto culturale che lo circonda e che definisce opprimente. Al quinto anno accademico avviene folgorazione: insegnante di geografia gli presta dei romanzi francesi che lui divora. Nella Vita questa lettura viene enfatizzata e raccontata come momento di scoperta di un nuovo mondo sentimentale ed eroico. La lettura diventa un rifugio, una realtà altra rispetto al grigiore della vera realtà a cui sente di non appartenere. Le letture incarnano libertà ed evasione. Con queste letture, respira finalmente un’aria europea e cosmopolita. Apprezza i romanzi di Madame de Scudery e il romanzo picaresco (genere nato in spagna, sulle avventure dei picari, popolani imbroglioni) di Lesage “Je N’ai Plus”, e Le mille e una notte. Si imbeve della fantasia di questi racconti per iniziare i suoi primi veri passi letterari. Nel 1766 lascia Accademia e intraprende una carriera militare, pressoché imposta. Si arruola nel reggimento provinciale di Asti ma questa vocazione si spegne velocemente, perché uomo libero e frenetico. VIAGGI. A 14 anni è libero legalmente dalla tutela degli adulti. Diventato ricco per eredità dello zio, inizia a viaggiare. Compra cavalli e parte con un fido servitore, Elio, alla volta dell’Europa. Incarna qui il prototipo del dandy, viaggiatore europeo. Primo viaggio si svolge nella campagna piemontese, poi a Genova viene folgorato dalla vita del mare. È un viaggio alla scoperta dei luoghi ma anche di se stesso, di cosa vuole dal futuro, dei suoi desideri. Ma tutto questo viaggiare genera anche inquietudine e necessità di movimento. Un viaggio importante lo compie nel 1768, a Firenze, Milano, Roma e Napoli (epoca III cap 2). Crisi d’identità. Esordisce con li solito “io”, pronome tronfio che riecheggia sempre, ma qui più frantumato. Si dichiara “ignoto a se stesso”, dice di non avere alcuna inclinazione sicura se non una dedizione alla malinconia. Non conosce la sua natura, se non di uomo infelice. Ha un contemporaneo bisogno di avere il cuore occupato da un degno amore e la mente occupata da un nobile lavoro; quindi è comunque in grado di individuare la causa della sua malinconia. Ezio Raimondi dimostra quanto il viaggio sia stato un’occasione conoscitiva per Alfieri e un arma per difendersi dai rischi degenerativi del patriottismo. → compie viaggi fisici ma anche interiori, nella solitaria lettura dei libri. Trova nelle letture un terreno fertile per la sua attitudine a conoscersi e studiare cosa c’è dietro le maschere: 1. In Italia incontra Machiavelli, nella lettura del Principe. Ne apprezza la bellezza e la precisione linguistica (che lui sogna). 2. Altro incontro fondamentale è con un autore antico, Plutarco, nelle Vite parallele. Gli fornisce la cifra per scrivere il proprio racconto autobiografico, per la decodificazione di sé. Dal punto di vista linguistico, Alfieri fa propria la ricorrenza all’iperbole, ben presente in Plutarco: nel fulminio giro di una frase, vengono fornite numerose informazioni sui personaggi, culturali, biografiche e sentimentali. 3. Poi vi è il moralista francese, Montaigne, che usa per l’esplorazione dell’io. PRODUZIONE Quando torna dai suoi viaggi, arricchito dalle sue esperienze, si reintegra facilmente nella società. Fonda la Societé des Sansguignon (= uomini senza pregiudizi), con i più degni compagni di da un asino scimmiotto di Voltaire”. Rifiuta la Cleopatra definendola “la cleopatraccia”, che infatti non entra nell’edizione delle tragedie da lui curate (quella senese e quella parigina). La ritiene il parto affrettato di un’ignoranza capace. Alfieri non la inserisce perché la sua ripubblicazione avrebbe richiesto una revisione tematica e stilistica troppo drastica (poiché la considera disomogenea). Non rientra neppure nell’edizione postuma “Opere postume” realizzata nel 1806-7 da Guglielmo Piatti, editore fiorentino che rispetta la volontà alfieriana sulla Cleopatra. Questa esce nel 1814, in 5 volumi. Nell’ultima viene in realtà inclusa Antonio e Cleopatra, ma non in appendice, come tragedia extravagante. Alfieri conserva tutto, abbozzi, prime stampi, revisioni costanti. È un autore che ripensa tormentatamente a se stesso e anche dopo la pubblicazione torna più volte sul testo. Si può quindi vedere il viaggio che ha portato dalle origini all’ultima pubblicazione dell’opera. La grandezza della tragedia si vede in questo, non tanto nella sua bellezza. Non è artisticamente al livello delle altre tragedie, ma permette di comprendere Alfieri e il suo metodo di lavoro. Vediamo la sua iniziale incertezza, ma stupisce anche la rapidità della sua maturazione. È Alfieri stesso in primis a suggerire il confronto tra le sue varie tragedie e l’analisi dello sviluppo diacronico delle singole opere. Nella Vita infatti riporta dei brani della Cleopatra, e lo fa per documentare “i miei lentissimi progressi”. Alfieri rinnega queste pagine ma non ne destituisce completamente il valore. Anzi, sostiene sia in linea con la mediocrità delle coeve tragedie italiane (non perde occasione per denigrare il panorama tragico italiano, “parto maturo di una incapacità erudita”). → L’acquisizione della sua consapevolezza tragica si vede anche perché, in seguito alla sua pubblicazione dell’edizione senese in 3 volumi, vengono mosse alcune critiche ad Alfieri. viene recensita dalle più importanti riviste del tempo. Giudizi non lusinghieri ne dettero le riviste: "Giornale dei letterati”, la bolognese “Memorie enciclopediche”, la fiorentina “Le novelle letterarie”. Lo stile tragico viene additato come antiquato e scomposto. I fiorentini ne sottolineano l’eccessiva imitazione dantesca e l’indecifrabile lettura. Stimolato dalle riflessioni dei critici che considera degni, tra cui Ranieri de’ Calzabigi, riconosciuto nel panorama culturale dell’epoca. Scrive ad Alfieri una lettera in cui elenca pregi e difetti del suo teatro, nel 1783. Per il suo maggior garbo, Ranieri è l’unico che riceve una risposta, dove Alfieri stesso ne loda l’arguzia. La risposta è ancora una volta un grande strumento di esegesi. Riflette sul suo essere uomo di teatro. Si rappresenta come un giovane dissipato che è sfacciatamente diventato autore tragico in poco tempo ma che, nonostante il parto affrettato, ne ha ricavato un bene e ha contratto col pubblico l’impegno di tentare come poteva di essere autore tragico. L’accusa generale che più lo infuria è quella di aver negletto lo stile, di non averlo curato abbastanza. Di aver privilegiato i pensieri, curandone poco i vestiti (lingua, stile). → le carte dimostrano tutt’altro. Il suo lavoro di officina è ben chiaro. I filosofi alfieristi, tra cui Vincenzo di Benedetto, hanno individuato (mediante la necessaria lettura di Vita e di lettere alfieriane) 7 fasi redazionali, in cui l’autore alterna anche tra italiano e francese, questo soprattutto nella fase in prosa. La materia viene infatti stesa normalmente in prosa, solo dopo passa alla versificazione, cioè alla traduzione in versi. Anche nella Cleopatra sono evidenti i francesismi, le oscillazioni grafiche e la presenza di forme desuete; goffaggini di un poeta che sta ancora forgiando la propria lingua. Nella Vita (epoca IV cap 4), analizza infatti il suo metodo compositivo, che è spinto dal furor tragico, ma governato da precise regole. Descrive il secondo viaggio letterario in Toscana. È a Firenze che si forgia la sua lingua letteraria, non solo sui libri. “Qui per l'intelligenza (latinismo, non complimento, ma sinonimo di comprensione) del lettore mi conviene spiegare queste mie parole, di cui mi vo servendomi (già toscaneggia) spesso” : ideare, stendere, verseggiare. Con questi respiri ho sempre dato l’essere (la vita vera e propria; la tragedia è una creatura vivente) alle mie tragedie”. Spiega che ci sono 3 tempi compositivi nella tragedia, che chiama 3 respiri. Si costringe lui stesso a una precisa modalità compositiva: ideare, stendere, verseggiare. 1. Ideare è distribuire il soggetto in atti e scene. L’ideazione della tragedia nasce da una suggestione, spesso tramite la lettura di qualche romanzo. Così si arriva all’idea del primo atto. Qui deve poi stabilire e fissare il numero dei personaggi. Già all’interno dell’ideazione, parla di “paginucce di prosaccia”. La suddivisione in atti e scene avviene infatti sotto forma di una prosa breve ma già esplicita della conduzione che prenderà la tragedia. 2. Stendere è riempire le scene di quella prosa e inserire i dialoghi. Traduce qui in dialogo (sempre sotto forma di prosa) le scene. Scrive di getto, istintivamente, senza rifiutare ancora alcun pensiero in questa fase. 3. Verseggiare è invece la fase razionale che contrasta il furor precedente. La versificazione è la traduzione in versi della prosa, ma sotto l’azione di un “riposato intelletto”. Sceglie “i migliori pensieri”, li riduce a poesia e li rende leggibili. Infine si ha il limare, l’andare a raffinare il testo. Vi si dedica con grande impegno; tutte le sue tragedie presentano almeno 2 diversi momenti di versificazione, anche separati da una lunga distanza temporale (Filippo). Il respiro più drammatico è l’ultimo. Le prime due fasi non consentono “gli strumenti dell’elocutio”. Butta giù le idee come gli vengono, in una scrittura disordinata (tanto che descrive questa fase col termine “prosaccia”). L’ultima fase è il momento invece in cui, dal magma disordinato, si distillano faticosamente i versi. Che sono poi ulteriormente sottoposti a un lavoro di raffinatura e limatura. Ma spiega che “se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori”: la grandezza di un’opera tragica si vede già nelle prime due fasi, se non funziona a quest’altezza non c’è versificazione che tenga. Per questo spiega che di solito lascia trascorrere del tempo dopo la stesura così che possa attendere, nel riprendere la prosa, la sua reazione. Se non ridesta entusiasma, non passa alla terza fase. Fa l’esempio del Carlo I, tragedia stesa dopo il Filippo. Dopo l’abbozzo del terzo atto gli si è ghiacciato corpo e mano e non è più stato possibile alla penna di proseguire (teatrale). E ugualmente con Romeo e Giulietta, (unica testimonianza è in queste parole della Vita), scritta per intero ma poi bruciata. → nella Vita dice che Carlo I sarebbe stato ideato nello stesso giorno della prima rappresentazione della Cleopatra, mosso dal plauso con cui è stata accolta. È il momento in cui legge Shakespeare, non a caso accosta nel testo i nomi di Carlo I e di Romeo e Giulietta. Si vede nei personaggi di Carlo I l’assimilazione dei caratteri shakespeariani. Carlo è un re buono e nobile (uno dei pochi sovrani buoni in alfieri), dall’anima grande. A lui si contrappone Cramuell, figura priva di moralità e mossa solo dall’ambizione, aspirante tiranno. I 2 dialoghi sono ben contrapposti nei dialoghi, tra eroe Vs tiranno. Alla figura di Carlo I Alfieri dedicherà anche una delle ultime tragedie, l’Algide. Protagonista è un altro re saggio ma infelice, ingiustamente condannato a morte. Rientrano nelle atipicità del sovrano alfieriano. Nel viaggio redazionale della Cleopatra sono visibili le evoluzioni della scrittura alfieriana. Per quanto riguarda il lessico, vi sono alcune parole chiave del sistema tragico alfieriano: → SMANIARE. Alfieri e il suo personaggio smaniano. La sua tragedia è un mondo in cui dominano le vicende inquiete del cuore. → SOLO. È così il personaggio tragico. Il lieto fine non c’è nelle tragedie Alfieri (in altri autori sovversivi sì). Tutto corre verso la solitudine totale, che è l’incontro con la morte. → PALPITARE. Tipico della tragedia italiana, il cuore palpita. Il suono riecheggia anche la palpitazione fisica. Termine più problematico. Alfieri rivaleggia il melodramma di Metastasio, pieno di “palpiti”. Ma sono allora palpiti diversi. Sceglie un verbo metastasiano per volgerlo alla tragedia, è una scelta curiosa. → METAFORA DEL LABIRINTO. Dalla Cleopatra in poi sarà spesso presente nelle sue tragedie, laddove si trova nella reggia. Qui la reggia di Alessandria. Reggia è luogo topico del dramma alfieriano, in cui il personaggio si perde. È metafora delle insidie del potere, una vera e propria prigione in cui si dibatte il personaggio. Nell’Antonio e Cleopatra il labirinto non assume ancora questa connotazione. “l’orrido labirinto in cui, tra le arti di femminil inganni il cuor perdesti, ecco rivedi Antonio”; non è ancora la reggia, ma il labirinto è qui metafora della relazione di cui Antonio è prigioniero, servo d’amore di Cleopatra. Si vede l’eco autobiografico verso Gabrielle Falletti. Sancisce l’identificazione dell’autore con il personaggio. Nella Vita definisce il suo uno “zozzo labirinto”, con abbassamento prosastico, ma l’immedesimazione è ovvia. La vera evoluzione dello stile alfieriano, visibile nella Cleopatra, non va però cercata nel lessico ma in ambito sintattico e metrico. Le prime stesure mostrano maggiore insicurezza nella versificazione (errori nelle rime, negli accenti). Ma è in questa tragedia che si forma il metro a lui congeniale, l’endecasillabo sciolto. Studia anche la coincidenza delle pause sintattiche e di quelle metriche nel verso: i periodi si chiudono con un’interruzione metrica e con la conclusione sintattica della frase. → si mostra come un poeta che ha regole ligie e precise, da lui auto imposte. Alfieri scrive una disamina, in francese, dell’Antonio e Cleopatra, in cui esibisce tutti i punti deboli (utile per l’analisi). È un breve saggio con pregi e difetti, tipici della vocazione alfieriana all’autoesegesi. Il saggio compare nell’appendice dell’opera postuma di tragedie. 1. Viene analizzato anche il finale, particolarmente cruento. È un finale non tradizionale, non rispetta la precedente tradizione tragica. L’iconografia tipica della morte di Cleopatra la raffigura avvolta dal serpente, simbolo del veleno mortale. Alfieri invece rappresenta una morte molto più cruenta, causata dalla spada. Non spiega però il vero motivo di questa scelta. Forse è per compensare la scarsa tragediabilità dell’opera. 2. L’autocritica della Cleopatra si concentra sulla sua eccessiva lunghezza (epoca III cap 14). La tragedia deve secondo Alfieri essere breve sulla pagina e anche in scena, mentre questa supera i 1600 endecasillabi. Eppure aveva anche operato una drastica riduzione della tragedia. → Quindi la Cleopatra documenta la faticosa conquista di uno stile tragico, ma al contempo mostra la consapevolezza di alcuni tratti fondamentali della tragedia alfieriana. 3. Era convinto della non tragediabilità del soggetto. La sua fonte è Plutarco (lo dice lui stesso), a cui rimandano anche i nomi dei personaggi secondari dell’opera (Celio). A casa di Gabriella infatti si trovava un arazzo che ritraeva Antonio e Cleopatra e questo potrebbe averlo suggestionato. L’argomento, l’amore infelice, è per lui il maggior difetto. L’amore è per lui un tema per se stesso infelice; controcorrente rispetto ai numerosi drammi amorosi dell’epoca (es Shakespeare). Le difficoltà nel trattare questo soggetto sono testimoniate dai numerosi ripensamenti. L’asse tematica si sposta infatti da una iniziale tragedia amorosa di proiezione autobiografica, verso un argomento etico politico più interessante. Diventa via via dominante l’identificazione dei 2 personaggi con una figura topica alfieriana, il tiranno. Le prime comparse tiranniche (legate al tema politico) si intravedono quindi anche in una tragedia d’amore. Cleopatra incarna la sete di potere, è la regina egiziana nel pieno del proprio dominio. Così il suo nemico, Augusto. Invece Antonio conserva i tratti dell’iniziale ispirazione autobiografica, legato alla servitù d’amore. Antonio, più complesso di quanto sembri, appare inizialmente generoso e disinteressato, ma finisce anche lui schiacciato dalle volontà dei tiranni antagonisti. Ma non è ancora l’eroe di libertà delle successive tragedie. Forse perché gli manca la consapevolezza di quanto spietato possa essere il potere ( diverso Saul). O anche perché gli manca l’unica via di scampo concessa all’eroe di libertà: il suicidio. Nel 1790 scrive un altro testo di autocritica alla Cleopatra, sottolineando l’inadeguatezza dello stile. Ma ripete anche che l’importanza di questo testo risiede nel suo documentale il suo lavoro. La Cleopatra dichiara ad Alfieri il suo destino di poeta tragico, il che lo spinge a scrivere ben 19 tragedie tra il 1775 e il 1786. Vuole dimostrare a se stesso e agli altri di essere il più grande poeta tragico italiano. varianti. Le due edizioni non coincidono. È l’edizione parigina la definitiva, approvata dall’autore. Quindi ci riferiamo a quella. PERSONAGGI 1. Filippo è il primo grande tiranno, prefigurazione dei tiranni che popoleranno quasi tutte le future tragedie. Ha una ferocia assoluta e totalizzante, ma con alcune battute finali, Alfieri scalfisce la sua tirannide, rendendo il personaggio più umano. Di fronte alla morte dei due, ha un lievissimo cedimento, che alfieri tratteggia in un verso delicato e tormentato. In realtà, già prima del finale, era già stato colto da un dubbio, nel chiedersi se fossero realmente colpevoli. Tuttavia aveva già da subito decretato la morte di Carlo, stabilendo che lei lo avrebbe visto morire, ma sarebbe poi sopravvissuta come fedele consorte di Filippo. Appare nel secondo atto, a colloquio con Gomez, ma già nel primo atto viene spiegato che egli non prova amore. Non ama il figlio ma in realtà neanche Isabella, non lo dirà mai. 2. Gomez e Perez consiglieri del re. Perez anche amico carissimo e anima pura (infatti destinata a infelice sorte). Sono senza dubbio accessori, servono all’esecuzione della trama. Sono tra loro opposti. Perez è consigliere ma anche amico, incarna i valori della purezza e dell’amicizia e va incontro al destino di morte; Gomez è il perfido e infido consigliere di corte. Perez incarna la luce nel buio della reggia. Muore anche lui, con l’assoluta espressione di libertà nel terzo atto, unica voce dissonante rispetto agli altri consiglieri asserviti al tiranno. 3. Isabella. È la prima grande creatura femminile di Alfieri, personaggio sofferto. L’unico personaggio che all’interno della tragedia, affronta un percorso di formazione. Da principio non capisce di cosa sia capace Filippo, poi va incontro alla consapevolezza del suo orrore. Questo fa sì che, per una parte dell’opera, appaia come un personaggio scisso. Da una parte è in balia del timore e della reverenza, presa dal sentimento di fedeltà verso il suo sovrano. Dall'altro cerca di respingere e nascondere, persino a se stessa, il superstite amore che prova ancora per Carlo. Il suo risveglio avviene nell’ultimo, di fronte alla morte di Carlo. Questa consapevolezza acquisita la porterà, quasi finalmente, alla ribellione. La conduce al suicidio eroico, è lei stessa un’eroina tragica. Col suicido afferma l'amore per Carlo, che finora era stato solo sospettato. Ma è anche una forma di protesta, l'unico atto vitale che le era concesso. È la protesta contro la volontà insensata del sovrano. 4. Carlo, puro e innocente, come tutti gli eroi alfieriani. È un condannato a morte innocente. Tale si professa, tranne per l'amore che prova. Carlo è anti-tiranno, eroe innocente, in grado di accogliere il malcontento delle regioni del regno. Con Carlo si delinea la poetica del forte sentire, che spinge l’eroe tragico a una tensione vitalistica, che però lo conduce alla morte; tipico dei personaggi libertari alfieriani. 5. Leonardo, incarna l'ottusità del religioso. Rapporto con la religione è particolarmente tormentato in Alfieri. CARATTERISTICHE 1. Il perenne lavoro correttorio testimonia l’insoddisfazione di alfieri ma anche la consapevolezza della grandezza dell’opera. Si nota una grande emancipazione rispetto alle fonti. Gli autografi testimoniano un processo turbolento di scrittura, specie per il quarto atto. Nel tratteggiare le parole di Filippo, Alfieri deve essere particolarmente abile (ci mette ben 14 anni). Non è solo una prova di stile; Alfieri non migliora solo il verso, ma cambia anche il contenuto, lavora sul personaggio del tiranno, più che degli altri; le parole di Carlo sono semmai designate a pennellare ulteriormente il profilo del tiranno. Nel passaggio di lingua il personaggio del Filippo cambia molto. Nell’idea in francese Filippo è solo pago della sua vendetta. Il Filippo diventa sempre più alfieriano rispetto a quello del modello del romanzo francese, assumendo una più marcata impronta politica. Nelle fonti, Filippo era dipinto come amante amareggiato dalla gelosia, non fiero tiranno. Qui la questione amorosa è presente, ma subalterna. Il Filippo di Alfieri è offeso nella sua maestà regale, più che nei suoi sentimenti, che sembrano tutto sommato accessori. Gli altri non possono essere liberi di provare un sentimento che vada fuori dell'esercizio di potere di Filippo. Anche la descrizione dell’amore tra i 2 giovani cambia; viene abbandonato il lessico sentimentale patetico. Anche l’amore di Carlo tutto sommato equivale a un atto di ribellione del figlio non amato verso il padre e verso il tiranno. Cambia anche la partecipazione di Carlo alla sommossa delle Fiandre, che in Alfieri è meno dettagliata. Nel modello è più romanzesca, qui viene solo allusa dalle parole di accusa di Filippo. Alfieri più che altro mostra l’indulgenza di Carlo nei confronti delle rivolte fiamminghe; mostrando una consonanza tra le aspirazioni libertarie dell’eroe e del popolo suddito. Tuttavia in Alfieri Carlo non può sposare del tutto le idee rivoluzionarie, perché pur sempre soggetto al legame di sangue. 2. Il Filippo rappresenta, nell’intenzione di rispettare la verosimiglianza storica, un hapax. Alfieri tenta infatti di ritrarre, anche se con rapide pennellate, il contesto storico della reggia spagnola. La reggia è qui anche una prigione. Personaggi prigionieri di un luogo fisico ma anche delle passioni che li attanagliano. Prima apparizione di questo luogo di conflitti. 3. Non esiste solo una duplice natura interna ai personaggi (come la rappresentazione chiaroscurale di Filippo). Ma esistono vere e proprie coppie oppositive. Filippo VS Carlo. Filippo incarna il male, l’assolutezza del potere. Carlo rappresenta il vero sentimento di amore e amicizia. È libero dal suo ruolo politico, perché pur essendo erede al trono, non brama il potere. Questo non lo rende schiavo e succube di Filippo. Tuttavia è una sua vittima. Questo è chiaro fin dal principio: “il destino è il mio unico peccato”. Vittima orgogliosa a cui è impedito ogni impulso vitale, sia l’amore passionale che l’ancor più legittimo amore paterno. La sua vita gli è negata in tutte le sue forme, anche nell’azione sovversiva. L'unica via d'uscita è la morte, “duol che a morir mi mena” (v. 220 atto I, scena IV): il dolore lo conduce e trascina rovinosamente. “Incorrer rinservo”: al contempo cerca di chiuderlo a chiave nel suo cuore questo dolore. “Gran tempo è già ch’io di morir bramo” (v. 40, atto V, scena II) esemplifica già tutto, perché gli è inibita ogni forma di realizzazione in vita. Tuttavia, dal legame familiare si evince anche la sostanziale affinità dei 2 personaggi, in quanto entrambi individui eccezionali, che si distinguono dall’umanità comune. Ma in senso antitetico. 4. Già nel Filippo si vedono le caratteristiche di riforma del teatro tragico alfieriano rispetto al teatro francese: elimina il ruolo del confidente e sostituisce il monologo + riduce a 6 i personaggi + non vi sono storie accessorie e divaganti rispetto al dramma principale (tipico del teatro 600esco barocco) + guarda alla tragedia greca per rivoluzionare il teatro italiano, specie per la catastrofe finale. Però se nella tragedia antica il protagonista muore per volere degli idee, qui avviene per questioni umane. La catastrofe del Filippo è addirittura triplice, con Perez, quindi esemplare. LETTURA ATTO I SCENA I → soliloquio di Isabella che serve da Antefatto e prepara all’abisso dell’inconscio. Lei non vuole neanche dichiararla la sua passione d’amore. SCENA II → appare anche Carlo a colloquio con lei. I personaggi non dicono d’amore, ma alludono. Il primo atto è tutto basato sulla tensione amorosa. I personaggi appaiono patetici. Il pathos è reso anche attraverso arcaismi e latinismi, puntini di sospensione che provocano titubanza e enjambement che rafforza i dialoghi. “cape” (v.90), è un latinismo per “esiste”. Dice che l’odio non può esistere nel cuore di un padre. Allude quindi al Filippo non nel suo ruolo di tiranno ma di padre. Questo ferisce ancora di più Carlo, che invece sa di essere un figlio non amato, che prova la mancanza di un amore paterno. Carlo risponde allora mettendo in chiaro che l’odio alberga nel tirano e nel padre. Anticipa la loro futura morte, scaturita dalla gelosia e dall’odio del padre. → incombe la figura del tiranno nei suoi tratti mostruosi: intollerante e geloso persino della possibilità che nella sua corte si coltivino sentimenti non sottoposti al suo controllo. SCENA III → continua il dialogo. Inizia con la battuta di Carlo, poi ripresa nel finale. Carlo è felice perché ha capito di non essere un amante non corrisposto, ma misero perché è già sull’orlo dell’abisso che lo porterà alla morte. SCENA IV → colloquio tra Carlo e Perez, che da subito mostra gli ideali di amore e di amicizia. Sul finale sembra quasi convocare il tiranno mostruoso. “altro nemico non ho che il padre” (vv. 194-5) porta subito al cuore della tragedia, il dramma familiare. Allora Carlo oppone il silenzio, unica via perseguibile. Carlo espone sul finale il presagio: la promessa di amicizia di Perez è da subito definita infausta. → perfetta partitura e armonia del primo atto, dove vengono allusi i destini dei personaggi. ATTO II → rispetto al primo, ha una precisa caratterizzazione, quella di presentare ossessivamente Filippo. SCENA I → colloquio tra Gomez e Filippo. Dal momento della sua apparizione, il tiranno domina l’intero atto. Filippo vuole cogliere un tranello che incastri il figlio e allora colloca il suo più fedele servitore, Gomez, per spiare e leggere nel volto di Isabella le sue reazioni. È già alla ricerca di prove. Quindi si capisce che la condanna a morte è già stata emessa, ma per non sconvolgere gli equilibri della reggia, deve giustificarla, deve essere decretata unanimemente la veridicità della sua accusa. Crea un tribunale in cui inconsapevolmente i due amanti entrano a far parte. SCENA II → confronto tra Isabella e Filippo. Alfieri gioca sul non detto, sul fraintendimento. Nel colloquio, Alfieri sostiene l’innocenza di Carlo, come avveniva nella fonte. In realtà la storia, meno romanzata, dice che effettivamente Carlo fosse un sedizioso. Ma non è la verità che sta a cuore ad Alfieri, per la creazione del personaggio eroico, innocente, in cui sia credibile il suo tormento. (vv. 71-76): gioca ancora sul dramma più familiare che politico. Si vede la libertà dell’eroe tragico vs. potenza bieca del tiranno. (vv. 115-8) “ma fredda regione di stato…..padre in me”: voce di padre e ragion di stato messe in scena. (vv. 125-6): Isabella ancora inconsapevole delle intenzioni di Filippo, cerca di invocare il ruolo del padre. Dovrebbe mettere da parte la ragion di stato e aprire il cuore ai paterni affetti. Dovrebbe reprime le istanze rivoluzionarie del figlio con amore. Filippo, con astuzia, la asseconda. La inganna. SCENA III → continua il colloquio. La scena è dominata da dialoghi serrati, affidati a una battuta spesso interrogativa. Mediante l’espediente dell’interrogativa insistita, Alfieri continua a tratteggiare l’indecisione e l’ingenuità di lei. Filippo invece si rivolge a lei come matrigna, perché come lui sospetta, lei svolge il ruolo di amante. SCENA IV → Filippo, Isabella, Carlo, Gomez. Le parole di Filippo sono solenni; ratteggia con inequivoca chiarezza il vero tribunale a cui è sottoposto il figlio. Tribunale che si concretizza poi sulla scena nel terzo atto, coi consiglieri del re. Carlo invece continua a utilizzare l’appellativo di “padre”, in posizione anaforica. Ma Filippo stessa nega in tutti i modi questa possibile identità paterna. È quindi il conflitto familiare quello che sta a cuore all’autore. Il rapporto familiare si sovrappone esattamente all’opposizione politica tra tiranno e anti-tiranno. I 2 ruoli sono scissi: Carlo richiama il ruolo di padre, mentre Filippo oppone il suo essere re, rinnegando la propria paternità per essere del tutto un re. Alla fine, Carlo delinea il profilo del tiranno sanguinario e repressivo. Dichiara effettivamente di aver ascoltato le istanze di libertà dei ribelli, sperando che anche il padre potesse rendersi conto della situazione difficile del regno. Filippo invece lo ignora. Carlo dichiara in modo inequivoco la propria innocenza. Mentre le parole di Filippo verso Carlo sono sempre equivoche: esibita è l’accusa politica di tradimento, ma velata è l’accusa ancor più bruciante dell'amore con Isabella. per un Egisto”. Si celano tratti autobiografici nella lettura della figura di Clitemnestra. La figura di Clitemnestra è in balia di una passione che la porta a rinunciare al ruolo di madre e regina. Egisto è invece il prototipo della malvagità pura, tanto da apparire quasi convenzionale. Rivela la sua natura le sue vere intenzioni dopo l'uccisione di Agamennone. Non è innamorato di lei, se ne è servito per diventare il nuovo re di Argo. La catastrofe finale vede la morte del re buono, della vittima. ORESTE. Non pago del finale dell’Agamennone, compone contemporaneamente l’Oreste. 8. PARERE SOPRA LE TRAGEDIE È un’opera di auto-esegesi letteraria del 1788, poi posta in coda alle edizioni finali delle tragedie. Offre studi sui molteplici re e tiranni delle sue tragedie, specie per l’Agamennone. È la tragedia della implacabile vendetta del figlio di Agamennone, con la morte di Egisto e quella involontaria di Clitemnestra. 9. DELLA TIRANNIDE inizia a scriverlo nel 1777. Nel trattato (Alfieri oltre che scrittore è stato anche un grande pensatore politico), egli teorizza la sua idea di libertà e di lotta contro la tirannia. Questa si traveste in forme difficilmente decodificabili: i tiranni si mostrano sotto mentite spoglie, quindi il cittadino deve essere educato alla libertà per riconoscere i segni della tirannia. 10. DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE Dopo il Trattato della Tirannide, sospinto da una rinnovata riflessione sulla tirannia del potere regio, compone dal 1778 il trattato Del principe e delle lettere, dove esibisce il modello machiavelliano. Entrambi sono testi impubblicabili, pena la prigione. Circolano di nascosto molti anni dopo. Trattati stampati nel 1789-1790, ma poi sepolti in pratica nella stamperia, a Kehl, che era la stessa stamperia che aveva pubblicato i trattati dell’odioso-amato Voltaire. Alfieri dà qui un manifesto della propria idea di letteratura. È un trattato in 3 libri, in cui sente la necessità di indagare sul rapporto tra letteratura e potere. Il trattato contiene una chiara denuncia del mecenatismo: come si può, se finanziati, essere liberi? Nel primo libro prende in considerazione, per smentirla, la possibilità che il sovrano protegga gli intellettuali. Analizza questa situazione topica, anche in senso storico e diacronico. Si conclude con un assioma: il potere e la libera espressione dell’intellettuale sono inconciliabili. Dunque il secondo libro si apre con un appello ai letterati, mettendoli in guardia dal cercare la protezione di qualunque potente. Qualsiasi rapporto di dipendenza economica, finisce col condizionare l'opera intellettuale. L’ultimo libro si apre con una lunga rassegna di antichi autori, che Alfieri ritiene liberi. Si chiude con altro assioma: in un regime assolutistico si possono dedicare alle vere lettere solo gli spiriti nobili (cioè non contaminati dalla corte, in grado di essere autonomi). Il capitolo 11 del libro III prende direttamente un titolo “Esortazione a liberare l’Italia dai barbari” dal Principe di Machiavelli. Il trattato difende strenuamente gli ideali illuministici di uguaglianza e di libertà, che è però intesa come indipendenza e libertà intellettuale dal potere tirannico. Da qui si capisce l'ammirazione che in questi anni ha per George Washington, artefice dell’indipendenza americana. Il libro si chiude con un elogio a lui e con un’esortazione agli italiani a liberarsi dall’opposizione straniera. → incarna i valori illuministici, ma al contempo è un’opera che prelude a una nuova sensibilità, romantica, specie quando riflette sul ruolo della poesia. La poesia (intesa in senso generale) è per lui un’attività superiore a ogni altra attività intellettuale (è una dichiarazione del primato delle lettere) e politica (non è al politico che spetta l’educazione delle masse). Per questo, la letteratura ha il compito di educare una nuova umanità, che deve essere libera e eroica. Questi ideali devono essere trasmessi tramite l’arte. Il fine ultimo dell’arte e della letteratura è l’utile sociale. In questo trattato si annida anche la poetica del forte sentire. Qui infatti Alfieri consegna ai lettori delle vere e proprie dichiarazioni di poetica: “il poeta deve essere mosso necessariamente da un impulso naturale, guidato da un forte sentire. Solo così si ha una letteratura che può tradursi in utile sociale”. Poeta come spirito libero, portatore di possibili verità da rivelare agli uomini. Non solo attraverso le opere, ma la sua stessa vita, il suo stare al mondo da uomo libero. 11. TRAGEDIE DI LIBERTà I testi di Machiavelli suggestionano le tragedie di libertà. VIRGINIA. Dopo le tragedie di ambientazione greca, conduce alla Roma antica. Eroina della libertà, violentata dal tiranno Appio Claudio. Sarà poi uccisa in realtà proprio dal padre, Virginio, per liberarla dalla violenza del tiranno. Muore dissanguata. La sua morte è emblema della violenza mostruosa del tiranno e della purezza di questa donna. CONGIURA DEI PAZZI, strettamente legata alle Historie di Machiavelli. Si passa alla Roma repubblicana, a cui sia Machiavelli che Alfieri guarderanno come una patria ideale e ormai irraggiungibile. La stesura sarà molto tormentata, Alfieri rifletterà a lungo sulla tragediabilità dell’argomento, e sul numero dei personaggi della congiura, che lo costringeva ad allargare il numero dei personaggi in scena. Tema è la congiura collettiva del tiranno, dalla Roma repubblicana alla Firenze medicea. La congiura è ordita da Raimondo dei Pazzi, contro Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Lorenzo esce illeso, mentre Giuliano muore nella rivolta. È una tragedia che fa riflettere sull’odio anti-tirannico. Questa congiura inoltre consente ad Alfieri un viaggio nella lingua di Machiavelli, con il conseguente aumento di fiorentinismi. Oltre a forgiare la propria ideologia politica, sta forgiando la sua lingua. Secondo Alfieri, il metodo della congiure per abbattere il tiranno, trova nella realtà delle teorie contrarie. Il tirannicidio, per valere d’esempio, non deve provenire da un gesto collettivo della congiura, ma da un gesto individuale di un soggetto che si vota al sacrificio. Il difetto che però secondo Alfieri gli impedisce di essere teatrale è che mancano i vincoli familiari (vedi 4. della tragedia alfieriana). I congiurati non sono né parenti del tiranno né sono soggetti ad altri vincoli. Mancano quindi le intense passioni che sono le uniche in grado di essere tragediabili. La passione deve generare un climax di commozione. TIMOLEONE. Deriva da una lettura appassionata delle Vite parallele di Plutarco, ripreso nel 1779, in una traduzione 500esca italiana. Rimane colpito dalla figura di Timoleone. La prima verseggiatura avviene già nel 1780. Ancora una volta il tema è quello dell’ossessione familiare, i protagonisti sono 2 fratelli. Timofane è il tiranno di Corinto, che sulla fine offre di sè un’immagine meno cupa della vulgata. La sua figura tende a essere un po’ alleggerita anche rispetto alla fonte plutarchiana, dove è molto connotata in senso negativo. Timoleone è più giovane, ma è un sovrano più assennato, pacato, si rivela il vero eroe della libertà. In Plutarco però l’opposizione tra il tiranno malvagio e l’eroe buono è molto più netta. Fu una tragedia gradita dai teorici, es Melchiorre Cesarotti. Alferi invece vi si interroga ripetutamente. La ritiene troppo improntata sul tema politico e non in grado di indagare l’abisso psicologico che connota i personaggi. Gli appaiono ancora un po troppo stereotipati, come in Plutarco. ALGIDE. Considerata la quarta tragedia di libertà. Composta più tardi (vedi 15. della produzione). 12. TRAGEDIE 1778-82 Sono anni importanti, perché Alfieri è costretto agli spostamenti un po’ tormentati, condizionati dal legame con Luisa. Nonostante ciò, anzi quasi sospinto da questo inquieto andare, il cantiere tragico persiste. DON GARZIA. Si torna nella Firenze medicea, non di Lorenzo e Giuliano, ma di Cosimo de’ Medici. Racconta la trama ordita dal principe per uccidere il suo acerrimo nemico, Lorenzo Salviati. Al centro si accampano anche le contese che dilaniano i figli del sovrano. È per Alfieri una delle peggiore tragedie riuscite, proprio per il groviglio dell’intreccio. MARIA STUARDA. È il degno amore a commissionarla, a suggerire il soggetto della tragedia. Alfieri dirà però “la sola che non vorrei aver mai fatto”. Ma assolve a un debito d’amore per Luisa. La regina di Scozia appare ad Alfieri una donnetta, non animata da nessuna passione. Già questa debolezza crea difficoltà con la tragediabilità, rispetto ai tiranni e agli eroi libertari. Le passioni si devono agitare sulla scena. Dunque non è proprio del tutto lei al centro della tragedia, quanto un intrigo di corte che porterà alla morte di suo marito, Arrigo D’Anley., anche lui personaggio che appare una nullità, non animato da passione. ROSMUNDA. Quasi sempre fin qui abbiamo avuto certi i modelli presi come fonte. Invece qui la storia è del tutto inventata da Alfieri, sia rispetto alla realtà storica che rispetto ai modelli precedenti. Secondo alcuni è stata suggestionata dalle Historie machiavelliane, ma non sembra. Ambientato nella corte longobarda. Tema debole, perché l’intreccio è complesso e si snoda attorno alla protagonista femminile, Rosmunda, che era stata la sposa del re longobardo Alboino e aveva avuto contrasti con la figliastra Romilda, avuta dal precedente matrimonio. In questo contrasto di amore, anche geloso, si scaglia la donna tiranno. Tragedia considerata extravagante. OTTAVIA . Si colloca come tempi di stesura in prossimità della Rosmunda, ma è in realtà molto più vicina alla Virginia per la tematica. Stessa ambientazione, della antica Roma repubblicana. I personaggi, specie la protagonista, sono ricalcati dagli Annali di Tacito. Lei è la moglie ripudiata di Nerone. Il suo ritorno a corte viene festeggiato dal popolo, che ama la regina. Viene invece prefigurato il personaggio losco di Nerone. 13. MEROPE Nel 1781 torna a Roma, dove rincontra Luisa che, in seguito alla separazione dal marito, si era rifugiata a Roma dal cognato. Passano 2 anni alle terme di Diocleziano e qui Alfieri si dedica alla pubblicazione delle tragedie e inizia a riverseggiare le tragedie, limandone lo stile. Pensa di aver concluso la sua attività di autore tragico, ma gli capita tra le mani la Merope di Scipione Maffei. L’aveva già letta e apprezzata 7 anni prima. Nella prima lettura ne aveva ammirato alcuni squarci. Lo racconta nelle Lettere e nelle Satire, dove parla delle opere troppo ammirate e sopravvalutate, tra cui la Merope di Maffei. Ne racconta la lettura nella Vita (epoca IV cap 9): racconta la collera che ha provato nel vedere la nostra Italia in tanta miseria teatrale, che ha fatto sembrare quella come la sola tragedia (nel momento in cui rilegge il testo, la Merope di Maffei era ritenuta all’unanimità il capolavoro dell’arte tragica italiana). È d’accordo nel dire che, rispetto a quanto fatto finora, sia tra le migliori riuscite, ma conclude che si potrebbe aspirare a molto meglio nel teatro italiano. Il suo agonismo lo porta a volerlo sfidare, scrivendo la sua Merope. Già Voltaire vi si era cimentato, adattandola al gusto francese, dunque enfatizzando le vene sentimentali e patetiche. Quindi l’opera di Alfieri si avvale e sfida scopertamente i 2 antecedenti. Si riaccende il cantiere tragico alfieriano. È un testo insolito nel panorama tragico alfieriano. In primis per la presenza in Maffei del lieto fine. Alfieri inserise l’uccisione finale del tiranno, Polifonte, ad opera del figlio ritrovato di Merope, Egisto. Si conclude quindi positivamente, con l’acclamazione del popolo nell’accogliere il nuovo re. È stata ideata e composta nel giro di un’estate, in preda ad un entusiasmo compositivo. Non ne sarà del tutto soddisfatto, perché il soggetto non è particolarmente tragediabile. Al centro della tragedia vi è infatti l’amore materno. Per questo possiamo definirla tragedia degli affetti familiari. Alfieri riconosce una personale difficoltà nei confronti di questo argomento. Nel Parere sopra le tragedie, ritiene che il “genere di passione molle”, che è quella materna, non sia propriamente il genere dell’autore tragico. TRAMA. Merope è una principessa troiana, che sposa Cresfonte e vive intanto sulla propria pelle l’assassinio di 2 dei 3 figli, assassinati da Polifonte, che usurpa il potere reale e tenta di forzare la regina a sposarlo. Alfieri non è a suo agio con questo testo, in cui lei esibisce da subito il suo ruolo di sposa fedele e di madre premurosa, pronta a rinunciare a tutto per amore dei figli. Alfieri corregge allora un po' il tiro, intanto mediante la lettura delle Tragedie di Seneca, che danno maggiore coloritura politica. Infatti Alfieri stesso dichiara la chiara intenzione di investire di toni politici il più possibile questo esserci un groviglio di affinità con i tiranni e le tragedie precedenti, ma tutto è mutato. Alfieri sottolinea la caratteristica di assolutezza del personaggio di Saul in cui “vi è di tutto, di tutto assolutamente” (anafora e avverbio di grandiosità). Si ritrovano nel nuovo protagonista alcuni tratti distintivi dei tiranni delle precedenti tragedie, ma va anche oltre. Non sono riassunte in Saul tutte le precedenti caratteristiche dei tiranni, ma come sempre il conflitto principale è quello tra il potere regio e la paternità. È quindi simile ma non completamente sovrapponibile alle altre tragedie. Ricorda: 1. Il rapporto tra Saul e David ( marito di Micol, figlia prediletta), a primo impatto, ricorda Filippo- Carlo, ma in realtà la questione è più complessa, qui gli affetti familiari sono reali. 2. Vi è l’impossibilità di abbandonare il potere regale e in ciò ricorda altri tiranni alfieriani, es Teocle. 3. La percezione che Saul ha di una forza superiore, sottratta al suo controllo, che è la giustizia divina ma anche la follia, può rinviare al Creonte dell’Antigone. 4. Le malinconie di Saul sono molteplici e ricordano le lampeggianti malinconie e i sospetti di infelicità di Filippo, che però si annidano solo sul finale, mentre in Saul arrovellano il personaggio dall'inizio. Ma TRATTI DI NOVITà sono: a) La stessa scena non è più la reggia ma il campo militare. Ambientato in Palestina, nel campo degli israeliti. Quel che colpisce è la designazione chiara degli elementi della tragedi, dove tutto è simile ma non uguale. L’accampamento riproduce le logiche della reggia, luogo infido e pieno di tradimenti. b) La notte domina i paesaggi e gli scenari delle tragedie alfieriane. Ma la notte qui non presenta solo le sue topiche caratteristiche di ostilità: è portatrice di minacce non solo per gli altri personaggi, ma anche per il tiranno, che nella notte dell'atto V vedrà compiere il suo destino. Vi è un’insolita attenzione alle mutazioni di luci, che sono legate allo svolgimento della scena. Dalla notte fosca del primo atto, si cede progressivamente all’ “almo sole”, che poi si tramuterà lentamente nella notte aborrita ed eterna che chiude solennemente la tragedia. Quindi la tragedia è chiusa nella notte (I e V atto), ma è anche presente un'alba che “si aggiorna del tutto”, che è preludio in realtà di una nuova vita. La tragedia alfieriana si era sempre chiusa nel buio. Qui c’è un'alba, una speranza, per quanto solo allusa. c) Il tiranno non è solo un orco. Non è solo l'incubo delle tante altre sue tragedie. È la summa degli altri personaggi, è sia vittima della giustizia divina e della follia, che oppressore e tiranno. È una tragedia insolita, perché finora i due ruoli erano distinti, qui sono interiorizzati in un unico individuo. d) Saul è degno anche di pietà e compassione (perché non capisce e per il confronto con il perfetto David). È dilaniato, lacerato dall’interno. È drammaticamente infelice e questo non solo per una minaccia interna, ma per una crisi d’identità, che gli impedisce in primo luogo di accettare la propria vecchiaia, l'essere messo da parte della storia. e) Saul è moderno, non ha più nulla dei personaggi 700eschi, è già un personaggio proto- romantico che tende al conflitto interiore. Non riesce più a esser completamente né padre né sovrano, che sono i ruoli più importanti della sua esistenza. Non è più se stesso, ha smarrito la luce divina che lo guidava e anche la volontà eroica che era stata in grado di tenere insieme le forze dirompenti della sua personalità. Alfieri sembra farci capire che queste fratture erano già presenti in Saul, ma protette fino ad allora dalla luce divina. f) Saul vive un ulteriore conflitto in se, che è l'amore per i figli. Ama profondamente Micol e Gionata ed è un amore filiale sincero e corrisposto. I due fratelli, verso il padre, rivolgono parole di sincero affetto e preoccupazione, pur di fronte alla sua intransigente ostilità. g) I personaggi, anche minori, hanno una vita indipendente dal tiranno. Nessuno di loro si esaurisce nella condizione di vittima di Saul. Per la prima volta hanno comunque un'identità. Infatti, David e Micol si salveranno e proseguiranno la loro vita, al di là della vita tragica. Non era mai successo prima. Perfino Abner ha una propria dignità, ad es quella di essere un valoroso comandante, non solo mero esecutore del tiranno. La sua lealtà nei confronti di Saul non è mai la complicità abietta e meschina di Gomez. Abner è fedele ministro di Saul, anch’egli prigioniero di una visione tutta laica e politica dell'esistenza, che però non esclude una forma di affetto che Abner sembra mostrare per il tiranno. Altro personaggio, che insieme ad Abner, rappresenta il versante politico dei rapporti del protagonista, è Achimelech, capo dei sacerdoti. Quindi Abner rappresenta la visione politica e laica dell'esistenza; dall’altra c’è Achimelech che incarna la fede incrollabile nella giustizia divina. Saul vedrà in lui il traditore che ha dato asilo a David, durante il suo esilio. h) Micol, Gionatan a David sono tutt’altro che personaggi accessori, anzi compiutamente delineati. Non sono convocati, come di solito, a rappresentare il mondo normale opposto al tiranno che si erge con la sua prepotenza. Anzi incarnano l’aspirazione a un idillio di affetti familiari, che è però sentito fin dal principio come impossibile quindi ancor più doloroso. Gli affetti sono reali, i figli amano profondamente il padre e sono dannati dall'impossibilità di salvare il padre che è sul precipizio della follia. i) Saul è un re che è stato delegittimato dalla casta sacerdotale, che ha già unto David, nuovo re. Quando si presenta sulla scena, ha perso la certezza della propria autorità e quindi vacilla. Nei confronti di David non prova solo spietato odio, ma anche ammirazione e una molto umana invidia. Vede in David il se stesso giovane che non c’è più. Vede un uomo valoroso, amato da tutti, designato a succedergli. Vede in David il futuro che a lui è inesorabilmente negato. David incarna alla perfezione tutto ciò che Saul non potrà più essere. È un genere odioso e amato, il rapporto è tormentato. Genero baciato non solo dalla giovinezza, ma anche dal favore di Dio. Concilia tutti gli ideali che Saul aveva incarnato in passato. Saul e David incarnano una diversa concezione eroica. La rappresentazione eroica di David, idealizzata ancor più che nella fonte biblica, lo rende quasi meno vero di Saul. Lui è invece tutto originalmente e modernamente lacerato, già vicino ai personaggi romantici. Non più biblico, ma già eroe moderno. Anche sul piano metaforico, la solarità accompagna David, in contrasto col buio che caratterizza il re ebreo. Luci e ombre portano alla composizione di un paesaggio interiore dei due personaggi. j) I dialoghi con i personaggi sono in realtà monologhi di Saul, che è sempre perso tra sé e sé. Emergono dalle sue parole varie antitesi: (ricercali nel testo) 1. Pace e guerra. Qui delineano la pazzia di Saul. Alfieri si serve di alcuni modelli. Il primo è quello petrarchesco. Quando Petrarca rappresenta se stesso, nel primo sonetto dei Rerum vulgarium fragmenta, mette in scena un protagonista dilaniato. Si descrive come un uomo ormai giunto alla senilità. La bruciante passione per Laura si colloca in un passato lontano. Il contrasto lì è tra la pace dell'uomo ormai rinsavito, che ha rinunciato alle passioni terrene per passare a più nobili sentimenti, e la guerra d’amore che imprigiona l’uomo nella sofferenza. Petrarca non è il solo poeta citato. Nel V atto si riprende Dante, altro amatissimo poeta. In merito alla storia del Conte Ugolino, che in balia della pazzia, è spinto a cibarsi della sua stessa carne. 2. Nemico e amico. 3. Figlio padre 4. Angoscia e sonno (che è ristoratore) 5. Sogno e terrore (delle visione, come quella di Samuel che minaccia Saul). k) Saul è una delle rare eccezioni in cui compare la musica nel teatro alfieriano. Non è un caso. Per suggerimento stesso di Alfieri, alcune parti di David devono essere accompagnate dal canto o dalla musica, specie un’arpa che è melodica. La musica è non solo la capacità di innalzarsi a Dio, ma di innalzare il nostro spirito, la nostra natura umana. La parola di David è cantata, perché in lui si infonde la parola di Dio. l) Saul, per definizione esplicita di Alfieri (Parere sopra le tragedie), è l’eroe della perplessità. “Perplessità del cuore umano, magica nell’effetto. Un uomo appassionato di due cose contrarie, a momenti vuole e disvuole una certa cosa”. Incarna l'uomo che, tormentato vuole e disvuole. Questo genera commozione e sospensione nello spettatore. Questa definizione ha anche un antecedente Montaigne, modello che forgia la dipintura morale dei personaggi alfieriani. In particolare, nel primo capitolo del secondo libro degli Essais, Dell’incostanza delle nostre azioni, Montaigne dialoga con Seneca e sostiene che per comprendere la nostra vita e tutte le regole in una sola parola, si potrebbe dire che la vita è volere e non volere sempre la stessa cosa. Si vede qui l’incostanza delle nostre azioni e la perenne insoddisfazione che accompagna la nostra vita. → Il grande moralista dell’antichità, Seneca, e del 500, Montaigne, contribuiscono a donare al personaggio lo spessore morale e quindi la straordinaria verosimiglianza che lo caratterizza. Per indagare l’incostanza, bisogna avere il coraggio di riconoscere che l’uomo tende all’ondeggiamento. Non si può fornire un ritratto veritiero dell’uomo se è sempre coerente. La verità nell’individuo si trova piuttosto nel disegnarne i cedimenti e le incostanze. Qui Saul è assolutamente comprensibile umanamente. → l’ondulazione in Saul si vede nel suo essere invidioso e sospettoso di David, ma al contempo nella sopravvivenza dell'amore per la figlia. Poi prende il sopravvento l'irritazione e lo sdegno verso i sacerdoti, ma ogni tanto è ancora rapito dal timore per Dio. → ondulatorio. m) L’eroe tragico assoluto, incarnato da Saul, non è in realtà il portatore dei valori tragici principali dell’opera, poichè i valori vincenti sul piano morale e all’interno dell’intreccio, sono incarnati da David, il genuino eroe puro, il “pio guerriero” che si sottomette al volere di Dio. David così riceve il sostegno e la protezione di questo spietato dio biblico. Saul invece si erge in una rivolta titanica contro la divinità, che è empia e porta alla perdita della grazia divina. Tuttavia è anche vero che scatta una speciale identificazione dello spettatore con Saul, che lo muove più a compassione di David. → le istanze ideologiche incarnate da Saul sono fallimentari e quindi è giusta e morale la sua sconfitta. Ma ciò non esclude il sentimento di vicinanza imposto al lettore. Anche l’opposizione Saul-David non è così netta, come avviene tra Carlo e Filippo, ma più chiaroscurale. quindi più verosimile. n) L'originalità di Saul sta anche nel rapporto e nel dialogo creativo e innovativo, che Alfieri instaura con la fonte biblica. Si può quasi dire che questo incontro con la Bibbia consente di trovare nuove soluzioni espressive. Quindi la lingua di Saul diviene un terreno in cui si fondono la lingua della Bibbia, di Dante, di Petrarca e di Giovanni Marino (poeta barocco a lui amato e caduto in disgrazia nel 700) col suo Adone. Si raggiunge quindi in Saul il punto più alto della poesia lirica, che “molto concede alla meraviglia e al fantastico senza mai degenerare nell'inverosimiglianza”. Riprende il “fantastico declinato nel gotico” dei Canti di Ossian. Sono nuove movenze mai sperimentate prima. → per non cedere però all’inverosimiglianza, Alfieri interviene molto nell’alleggerire la stesura della tragedia, che presentava moltissimi eventi sulla scena, come apparizioni di fantasmi (es ombra spettrale di Samuel e altri sacerdoti trucidati che doveva apparire nella terza scena dell’atto V). Saul deve destare più pietà che meraviglia→lettura chiave. o) Saul è un tiranno sui generis nella tragedie di Alfieri, dovuto alla volontà di rappresentare anche le crepe dell’orco della fiaba e dovuto all'evoluzione della sua concezione politica. È un interessante chiaroscuro politico. LETTURA ATTO I → La vicenda si apre direttamente nell’accampamento degli ebrei, nell'imminenza della battaglia. Inizia con “la pace mi è tolta”. Il preludio di questo lamento si ha nell'incontro tra Micol e David nella scena III. Con l'invocazione alla morte (scena IV) ha inizio il viaggio rovinoso verso la catastrofe e il delirio di Saul. → rappresentazione coraggiosa dell'inconscio. È un dialogo con la follia del personaggio. Follia, che da ora, diviene sempre più dominante nella tragedia. La vita di Saul è ora presa da fosche allucinazioni, in cui Dio è solo una presenza ostile, che lo allontanano da coloro che vorrebbero salvarlo, e in cui lui vedrà solo trame e complotti. Anche qui colpisce l'approfondimento degli altri personaggi, Micol e Gionata, che sono figure di luce, disposte fino all'ultimo a concedere fiducia al padre. David sarà ancora una volta estromesso dalla battaglia. In un impeto di orgoglio Saul riprenderà le armi (con lentezza perché vecchio) e tenterà l'ultimo affronto. ATTO IV → Forte scontro tra Saul e Achimelec, in cui sacerdote ammonisce il sovrano a non dimenticare di essere solo coronata polvere, destinato all'estinzione, perché mero rappresentante in terra del potere divino. In quanto coronata polvere, si abbatterà su di lui l’ira di Dio. Saul lo condannerà a morte, insieme poi all'ordine di sterminare la città di Nob insieme a tutta la casta sacerdotale. Questo è il vertice del suo delirio. ATTO V → Saul è perduto, non ci sono più i tentennamenti e la perplessità del cuore umano. SCENA I → Duetto dei due amanti, collocati nel territorio della luce. David è creatura pura e solenne che avverte quanto il campo di battaglia sia destinato alla sconfitta, perché non più protetto dalla volontà divina. Micol decide di non abdicare al ruolo di figlia, nonostante l'allontanamento di David. È quindi incrollabile la tenerezza filiale, a cui comunque è stato inflitto il dolore dell’allontanamento di David. SCENA III → Micol rappresenta il vero, guarda sempre alla realtà. Saul invece è perduto tra le allucinazioni, ma comunque chiede che vengano risparmiati i figli, su cui non deve abbattersi la vendetta divina; c’è ancora un timidissimo appiglio alla realtà. La notte furiosa in cui è immerso Saul si contrappone al raggiornarsi dell’alba, che ovviamente non attende Saul. SCENA IV-V → Compare una delle rare didascalie. Saul pensa di avviarsi alla battaglia, ma gli viene incontro Abner, con alcuni soldati, per annunciargli intanto la sconfitta di Israele e anche, con dolore immenso e lacerante, la morte di Gionata per armi. Saul, pur nella follia, è qui colpito dalla notizia. Questa però sarà il tocco finale, che lo precipita una volta per tutte alla morte. Quando tutto è perduto, stupisce il personaggio di Micol, che resta accanto a Saul e cerca di proteggerlo, rischiando tutto, seppur devastata dal dolore. L’ultima scena vede Saul, signore assoluto, cadere trafitto sulla propria spada, dopo aver pronunciato delle parole che ancora una volta ripropongono i poli opposti dell'antitesi su cui si è giocata tutta la sua vita. Il ruolo del padre, relegato in passato lontano e assoluto. Muore nella solitudine assoluta del suo essere re abbandonato da Dio. Saul torna a essere re per morire, ma si ricorda soprattutto di essere padre, le sue ultime parole sono rivolte a Micol. Mostra la condizione psicologica di saul e del suo spazio, l'infinita solitudine di saul nella scena e nella vita. Poi, prima di morire, si rivolge a Dio. non è in fondo una richiesta di pietà. Ma è un urlo di empietà, violento. Dopo la sua ultima sconfitta, lancia un'ultima sfida, non tanto a Dio, quanto a quella forza oscura che lo dilania dall'interno. E lo dilania proprio perché ha perso la luce divina. Se Saul non può vivere, almeno può morire da re. Qui il ruolo del padre dismesso in quel “fu” che lo condanna in un passato remoto e dunque irripetibile. L'urlo di vendetta è anche in realtà una preghiera ultima, l'unica cosa che gli rimane per il suo libero arbitrio. Anche Abner, perfido per tutta la tragedia, qui manifesta una strenua fedeltà nei confronti di Saul. Per mandato del re deve proteggere Micol. Altro atto di amore: se la trovano, non deve dire che è sua figlia, ma che è la moglie di David, e gli costa molto dirlo. La spada è l’unico fido ministro, che rimane di ultima necessità. v. 225 “Empia…morto” → Ultimo verso, uno dei più tormentati della filologia alfieriana. Grande interrogativo su cosa sia in realtà per Saul la morte. Morire diviene il suo ultimo estremo tentativo di possedersi di nuovo, in un momento in cui è fuori di se. La morte gli concede la possibilità di coincidere con se stesso, di riaversi per l'ultima volta. Si rivedono qui anche gli stoici, nella teoria della morte e dell'accettazione del proprio destino. Per Saul in confronto, nudo e solitario, col proprio destino di morte, è l'unica possibilità di riappropriarsi di un’identità perduta, della sua interezza. Riafferma così la dignità regale di tutta la sua esistenza. Affermazione ultima del senso della propria esistenza. → Walter Binni parlava di titanismo dell’eroe tragico alfieriano. Titanismo che poi incarnerà Leopardi, che avrà un rapporto col tema del suicidio, con Seneca e con la concezione stoica del suicidio. “Me” in prolessi, a principio dell’ultimo verso come apposizione enfatica. Di questo Saul che trova se stesso nella morte. Ed è in rima interna con l’altro martellante monosillabo, “re”. Dopo questo re c’è una cesura dell'endecasillabo. L’abisso dopo il re, porta a “morto”, anche questo in allitterazione con “me”. “Qui” è il campo di battaglia, non muore nella reggia Saul. La morte coinvolge l’ellittico “io” su cui si apre il verso. 15. TRAGEDIE 1784-7 Nel periodo propizio di riunione con Luisa, nascono 3 nuove tragedie, ideate, stese e verseggiate in un arco di tempo non breve, fino al 1787. ALGIDE. Tragedia di libertà. Si vede la caratteristica tipica alfieriana di emulazione attiva: il soggetto è mutuato dalle Vite parallele di Plutarco, ma viene trattato con la solita originalità alfieriana. Il protagonista è definito da Alfieri ’eroe della libertà per eccellenza”, perché in grado di sfidare le sacrosante leggi del potere politico. Algide deve infatti succedere al trono, ma le lotte politiche impediscono un passaggio sereno. Per la pace del popolo, lui si dichiara disposto, in un atto di estrema magnanimità, a cedere il trono al suocero Leonida, che minaccia di essere l’incarnazione del tiranno e non certo un sovrano benevolo. Contrasto tra i 2: Leonida incarna il potere tirannico assoluto, Algide incarna il nuovo ideale politico di passione politica pura, che si nutre anche di possibili forme politiche del potere monarchico, con l'appoggio dei ceti popolari. Ricorda un po’ il finale della Merope, con Egisto che invoca il potere popolare. Algide tiene un appassionato discorso al popolo, che suscita l’ira funesta di Leonida, che lo condanna a morte. Algide si uccide sulla scena, prima ancora che possa essere eseguita la condanna. L’orizzonte politico di Alfieri sembra qui mutare il proprio orientamento. Si vedano le date di composizione (1784-87) in preda a vari fenomeni storici che accadono in Italia: non si ha più la fiducia di Maffei nel dispotismo illuminato. SOFONISBA. Alfieri prende a modello la Sofonisba di Trissino. Ma l’idea dell'opera nasce leggendo Tito Livio, che racconta la storia di Sofonisba. I personaggi sono il celeberrimo Scipione l’Africano (siamo nella seconda guerra punica, nel 200 a.C.) conquistatore di Cartagine, Siface re della Numidia (a nord del Marocco) e Sofonisba. Lei offre un soggetto tragediabile. È la figlia del cartaginese Asdrubale. Divenuta poi moglie di Siface. È una delle vicende più fortunate della tradizione classica, che aveva portato in scena la storica rivalità tra Roma e Cartagine. Il soggetto tuttavia risulta poco tragediabile per un problema: Sofonisba, per un certo periodo della sua vita, è la moglie di 2 mariti. Viene persuasa e inizialmente promessa sposa dal padre a Massinissa. Ma poi data in sposa dai cartaginesi, durante l’assenza del padre, che era ritenuto morto. Si creano quindi equivoci poco tragediabili. Questo turberà non poco Alfieri, perché la vicenda rischia più volte di scivolare nella comicità. È tra gli esiti meno fruttuosi del teatro tragico alfieriano. MIRRA. 16. MIRRA IDEAZIONE Non viene composta nella dimora romana di Alfieri, ma nel castello di Martinsburg in Alsazia. Nel 1784 butta giù l’idea, secondo i canonici 3 respiri. Poi la stende nell’anno successivo e la versifica nel 1786, anche se poi la verseggiatura non è definita e ci torna più volte. È anche questa una tragedia inaspettata, quando Alfieri pensava di aver chiuso con la scrittura tragica e dedicarsi alla raccolta di tragedie. La vena tragica alfieriana, non appena sembra vicina all’estinzione, produce un capolavoro. Dalla cenere, Alfieri, è sempre pronto a nascere. Lo spirito agonistico del poeta tragico è sicuramente una delle scintille che consente la riaccensione della sua officina tragica. Qui per la volontà di emulazione attiva del teatro antico. Infatti in questo caso la scintilla nasce dalla lettura del libro 10’ delle Metamorfosi di Ovidio. Nella Vita (epoca IV cap 14) spiega la genesi di quest'opera: si imbatte “in quella caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice”, nell’opera ovidiana, che era “o felicem coniugem matrem”. Questa lettura lo fa prorompere in lacrime, da queste lacrime nasce l’opera. Gli parve che potesse uscirne una tragedia originale, poiché Mirra, già qui, è tratteggiata come più infelice che colpevole. Vengono descritte “le orribili tempeste del cuore, infuocato e impurissimo”, con le solite antitesi di chiaroscuro. → Saul e Mirra rappresentano un dittico, maschile e femminile, della tragedia alfieriana. DEDICA La dedica della Mirra è in forma di versi, un sonetto indirizzato al degno amore, Luisa Stolberg. A lei dobbiamo la serenità e la pace interiore che consentirà ad Alfieri di trovare se stesso. PERSONAGGI→ ridotti, ma non all’estremo. Ciniro (padre), Cecri (madre), Mirra (protagonista), Pereo (promesso sposo ed erede al trono d’Emiro), Euriclea (nutrice), coro, sacerdoti, popolo. Mirra→ Da Isabella, che sembra non essere in grado di decifrare la realtà, siamo passati a Micol, leggiadra e pura, figlia e sorella devota, sposa unta dalla benevolenza divina. Molte altre sono le donne in Alfieri. Mirra è uno dei più riusciti personaggi dal punto di vista psicologico del teatro italiano. Anche perché Mirra, tutto sommato, è un personaggio non trasgressivo. Dominata da un'etica dell'amore, che rifugge ogni forma di violenza e dolore se non rivolta a se stessa. Ciniro→ È un tiranno atipico, un re eccezionalmente buono, che vuole solo il bene della figlia. È un buon padre e un buon re, che a differenza degli altri monarchi alfieriani, egli non antepone mai la ragion di stato alla condizione di padre. A prezzo del regno e della gloria, si dichiara disposto a mandare all’aria il matrimonio, che avrebbe saldato i due regni. Pereo→ giovane gentile e leggiadro e buono e profondamente innamorato di lei. Euriclea→ Il nome è un omaggio alla nutrice dell’Odissea, che è la nutrice per eccellenza. AMBIENTAZIONE → Si torna nel canonico ruolo della reggia, a Cipro. Atipica, perché non è un luogo politico, ma è un luogo semmai d’amore. L'incubo è ancora una volta tutto interiore, nell'animo della protagonista, che in realtà da questa reggia non vuole allontanarsi, perché non vuole sposarsi. CARATTERISTICHE INEDITE rispetto al modello ovidiano 1. Alfieri intende far sì che per tutta la tragedia, Mirra non confessi, neppure a se stessa, il nefando amore. Lei tace e questo fa precipitare ancor più nello sconforto i genitori. Chiusa in un silenzio che sembra invalicabile, prigioniera di un segreto. Ogni comunicazione tra i personaggi è quindi impossibile. È però complicato: riuscirà per 5 atti a far tacere questo dolore, senza però far annoiare il lettore? Si incontra quindi da subito la caratteristica del silenzio, della reticenza di Mirra. Viene definita la tragedia del non detto. → Debenedetti sottolinea che in questa tragedia la parola detta e non detta è la vera protagonista del dramma. È una parola silenziosa che vuole quasi negare la realtà e rimuovere i sentimenti. Protagonista non è tanto l'amore per il padre e l'orrore dell’incesto, ma l’asfissia (= non poter dire) di non poter dichiarare ciò che la tiene viva. Non è tanto la pena d'amore, ma il dolore di dover confinare la pena d'amore al di sotto della coscienza. La confessione è prorogata fino alle estreme possibilità di resistenza. Ci possono essere spettatori che ignorano il mito e la storia di Mirra, quindi non capiscono fino alla fine. La volontà di portare la disgustato e con orrore le scene in cui la Fedra tenta di far suo l’oggetto d’amore e a queste scene contrappone la costruzione della reticenza e dell'innocenza di Mirra. RAPPRESENTAZIONI Le rappresentazioni delle tragedie di Alfieri ottengono una grande fortuna scenica. Memorabile è la rappresentazione a Parigi della Mirra, nel 1855. Vi sono molte cronache teatrali a riguardo. A interpretarla è una delle più grandi attrici dell'epoca, Adelaide Ristori. I recensori sono colpiti della sua interpretazione straordinaria: la sua straordinaria gestualità (gesti che suppliscono ai silenzi di Mirra), la poetica della dissimulazione (parola cara al 600, che Alfieri impone alle attrici che reciteranno Mirra e poi difficilmente realizzabile sulla scena) che risulta contraddetta dall’azione attoriale. L'enfasi gestuale rappresenta i segni della battaglia interiore di lei. La Mirra di Ristori sovrappone per un attimo l'innocenza e l'empietà del verso finale, poi torna a essere la Mirra innocente della tragedia; restituisce nuova vita al personaggio. LETTURA ATTO I → Come sempre, Mirra non compare, ma tutto il primo atto dice di lei, ogni parola parla del dolore di questa creatura. SCENA I → Non abbiamo un monologo in apertura, ma già un dialogo, tra la nutrice (in primo piano da subito) e la madre. La tragedia ha inizio la notte prima delle nozze, quando Euriclea sorprende Mirra a letto, nel suo dolore e nella sua inquietudine. Tutto già il primo atto è consacrato alla definizione del dolore di Mirra. Che è presente perché evocata nel dialogo (come nel Filippo e in Saul). SCENA II → Breve soliloquio di Cecri, la madre, che incarna il mito della tradizione. Viene invocata Venere, in balia di un sentimento di invidia nei confronti della bellezza di Mirra. Dunque Alfieri non rinuncia del tutto al tema ovidiano della vendetta di Venere, ma lo circoscrive alle battute di Cecri. La madre è colpevole di aver smodatamente lodato la bellezza di Mirra. SCENA III→ Qui la delineazione del personaggio di Mirra è affidata al dialogo tra la madre e il padre. Sono pieni di sconcerto sulle ragioni che possono affliggere cosi tanto una fanciulla che dovrebbe vivere i giorni più felici della sua vita. Mirra è prossima alle nozze, ma in quelli che dovrebbero essere giorni lieti di festa, lei appare anzi disperata. I genitori confondono il dolore con un cambiamento di idea sulle nozze, che non voglia più sposare Pereo, che Mirra stessa però ha scelto tra diversi pretendenti. Il padre, non come di consueto, non impone l’uomo alla figlia, ma le permette di scegliere. Una battuta epigrammatica nella scena III dell’atto I: “padre mi fea (fece) natura, il caso re”. In un solo verso Alfieri oppone i due ruoli, ma qui il re predilige il ruolo di padre, l'affetto per la famiglia. La ragion di stato, che pure dovrebbe preoccuparli, viene dopo al loro ruolo di genitori. Sono sì dediti alla pace del regno, ma soprattutto a quella della figlia. ATTO II SCENA I→ Compare Pereo che, nel dialogo col sovrano, disegna tutta la purezza del proprio animo. Ricorda un po’ Gionata, Carlo e la fusione degli eroi tragici luminosi. Anche questo dialogo è portato a enfatizzare il ruolo della confessione mancata di Mirra. SCENA II→Ulteriormente dilazionata nel tempo tragico è l’apparizione della protagonista, che appare qui a dialogo con Pereo. SCENA III→ Mirra si dichiara dilaniata, tra la possibilità di affrontare le nozze con Pereo, o la morte. Poi vi sarà un barlume di luce: Mirra sembra credere alla possibilità che, abbandonata la reggia, possa svanire anche l'amore per il padre. Nel dialogo con Pereo si lascia sfuggire una frase importante, che racchiude il suo dramma “a lui non può nascondere nulla….a se stessa”. La fatica più grande è quindi quella di non parlare agli altri del dolore, quasi come se l'assenza della parola riuscisse a cancellare l'orrore della passione incestuosa. ATTO III→ C’è un clima di famiglia quasi borghese, alimentata dalla presenza della nutrice. Il costume borghese impone in qualche modo che nonostante tutto si giunga al sacro rito del matrimonio, sentito necessario soprattutto da Mirra, che si illude però col matrimonio di potersi liberare dalla prigionia della passione. I genitori favoriscono il celebrarsi delle nozze, perché rassicurati, come se il matrimonio potesse placare ogni difficoltà. SCENA II→ Domina la sofferenza che riempie le parole di Mirra, che al dialogo coi genitori tenta di comunicare la sua volontà di allontanarsi precipitosamente da Cipro dopo il matrimonio. Cerca di arginare la sua passione. Viene enfatizzato il topos dei genitori straziati dal pensiero di dover subire l'allontanamento della figlia. Ciò è mitigato dalla speranza di poter vivere una vecchiaia rasserenati dalla presenza di nipoti (pensiero straziante per Mirra). Alla fine Alfieri stabilisce una distanza ancor più netta tra il linguaggio degli altri e quello di Mirra che, presa da una forza sconosciuta a tutti, che in lei favella e che parla solo a lei, la spinge verso la catastrofe. Per la prima volta indirizza alla madre delle parole che pesano. Cecri appare invece quasi stonata, non capisce e risponde con amore materno. → c’è un abisso tra il dolore di Mirra e la madre che tenta di ristorarla. ATTO IV SCENA III→ Celebrazione agognata delle nozze. Scena insolitamente popolata nella tragedia alfieriana. Qui abbiamo il coro. L'urlo irrefrenabile di Mirra sancisce però l'urlo di non ritorno della tragedia. (vv.184-200)→ le parole di Pereo pesano come macigni su Mirra, perché il suo tormento interiore collide con l’affetto altrui. Le richieste affettuose degli altri non fanno altro che acuire il dolore di lei e da qui nasce la sua reticenza, le sue frasi ambigue, le allusioni oscure. SCENA VII→ Euriclea esce e rimangono solo la madre e Mirra. Colpisce di Mirra il dire che in realtà è presente a se stessa, consapevole del male che la divora. La definisce (v. 293) “un’incognita forza in me favella”, forza mostruosa, incestuosa e peccaminosa che la domina. ATTO V → Qui le parole di Mirra vengono finalmente pronunciate, in un crescendo, come se svelare la realtà consacri la catastrofe. Le parole divengono finalmente lo specchio distruttivo del personaggio. La pulsione dell'informe genererà morte (cit Debenedetti). Fino all'esplosione del V atto, tutta la tragedia è dominata dall'ordine della razionalità, che si riflette anche nella lingua, chiara e cristallina, rispetto alle altre tragedie. La ragione tenta di porre un argine alla nascosissima passione. Mirra, nel finale, viene ferita dalle parole di Pereo, che si uccide. A questo punto Mirra muore, da empia, perché ha dovuto confessare il suo amore. Le ultime battute di Mirra verso Euriclea dicono proprio questo. SCENA I→ È Ciniro a parlare in un lungo monologo di 36 versi, che si apre su un epicedio, il resoconto della morte del misero Pereo. SCENA II→ Primo dialogo rivelatore, senza alcuna ambiguità, tra padre e figlia, che sembra per un momento arrestarsi alla certezza condivisa che Mirra ami un altro uomo. Ciniro cerca un ultimo appiglio e illusione. Concorre la natura martellante del verso (cit Debenedetti) “qual che sia…io ‘l vo far tuo”, che esprime tutto l'amore del padre, che cerca di attaccarsi alla speranza di vedere finalmente la figlia felice accanto all'uomo che ama. Ma sono parole che sortiscono l'effetto opposto in Mirra, risultando terribili per cuore e orecchie di lei. Il padre la minaccia di perdere l'amore paterno se non rivelerà l’oggetto della sua passione. Segue il crollo di Mirra, attraverso lo sgretolamento di un’armatura, di una corazza che lei si è costruita nel corso della tragedia. (vv. 192-) sembra quasi che Alfieri stia sgretolando anche l'armatura verbale di lei, che era stata tessuta per proteggerla: le parole, fin troppo chiare, sono equilibrate dall'espediente dei puntini di sospensione, connotato distintivo dei tentennamenti dell'eroe tragico. C’è anche una violenza affettiva. Per la prima volta nella tragedia, queste parole sono in grado di cancellare di colpo il rapporto padre-figlio. Viene restituito a Ciniro il suo ruolo, non di padre, ma di oggetto di amore. Lei non dice “padre”, ma lo chiama “Ciniro”. Questo nome strania il suo personaggio dal ruolo di padre, come avvertono le parole che subito dopo lui rivolge a Cecri. Sono parole che tendono a sconfessare e depositare il suo ruolo di padre. “Piu figlia non c’è costei”. A questo punto della tragedia, i ruoli paiono definitivamente cancellati. Mirra scongiura di risparmiare almeno Cecri da questo abisso, nascondendole la verità. Anche questa speranza viene sconfitta. Mirra si trafigge con la spada del padre. SCENA IV→ Mirra, nella sua morte atrocemente lenta, decide di rivolgere le sue ultime parole non al padre né alla madre, ma alla nutrice. Sono parole colme di rimpianto. “Io moriva….muoio”. È un verso perfetto, ma è anche la summa di tutta la tragedia. C’è il “rimpianto disperato”, di non esser riuscita a seppellire dentro sé questa passione. Ora è stata costretta a dirla e quindi non è più empia solo per se stessa, ma per tutti, per questo dice a Euriclea che doveva darle la spada prima. L'ultima didascalia di Alfieri è singolare, la parola “strascinata” è quasi ironica. I puntini di sospensione sembrano tradurre nel verso il sospiro ultimo di Mirra, quasi sillabato. Allo stesso tempo, questo sospiro non riesce a spegnere la forza del verso finale, lapidaria. Balza la figura retorica del chiasmo. Al centro i termini chiave: innocente e empia. La separazione del punto e virgola enfatizza l’antitesi tra i due termini, scissi da questa pausa. Ma al tempo stesso Alfieri non vuole troppo insistere su questa antitesi e allora la attenua con un'altra figura metrica, la sinalefe: causa un incontro tra due vocali, che nel conteggio delle sillabe del verso sono unificate in un’unica sillaba. C’è quindi una pausa, imposta dalla virgola, che deve però essere come superata e letta di seguito. Alfieri sembra allora ribadire in fondo che Mirra ha tentato di salvarsi per tutta la tragedia, salvando così la sua innocenza, ma l'innocenza del passato lascia il passo all’empietà del presente, che le è intollerabile. Lei si consegna all’inferno della passione incestuosa. 17. BRUTO La stessa vena agonistica si rivede quando prende tra le mani il Bruto di Voltaire. Mentre Alfieri era rimasto in Alsazia, Luisa si era trasferita a Parigi per cercare una degna residenza. Le manda lettere con recensioni teatrali e gli parla del Bruto, commettendo l’errore di elogiare l’opera di Voltaire. Alfieri risponde con toni non pacati e colpisce Voltaire come “servo, gentiluomo del re”, come si era firmato per tanti anni. Decide allora di scrivere un doppio Bruto. Sono due tragedie che hanno stesso nome e dominati dalla stessa passione di libertà. Contengono una la nascita di Roma e l’altra la sua morte. BRUTO I. Viene dedicato a George Washington, liberatore dell’America. Al centro vi è la caduta di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, per mano di Lucio Giunio Bruto. Tema della congiura, per riportarlo sul trono. Nella congiura sono reclutati, mediante l’inganno, i figli di Bruto, Tiberio e Tito. Vi sono elementi delle tragedie politiche e di libertà già sperimentate da Alfieri. Tragedia caratterizzata dal discorso oratorio di un genitore che manda a morte i propri figli, condannati perché traditori della patria. Padre canta un’orazione al popolo per legittimare la necessità di condannare a morte i propri figli: dice che farà il proprio dovere per il paese, non facendo distinzione tra le colpe dei congiurati, (→ siamo molto lontani dal Filippo). Da questa scena crudele, a cui il popolo è costretto ad assistere, potrà tuttavia nascere la libertà di Roma. Alfieri parla qui di un soggetto dotato di massima tragediabilità, sublime, perché la più alta e nobile passione dell’uomo è l’amore per la libertà. Questo viene qui contrastato dall’altro grande amore, quello di un padre. Sono due amori che collidono sulla scena. BRUTO II. Introdotto da una dedica rivolta a noi, popolo italiano futuro. Il soggetto era ritenuto altamente tragediabile. Vi erano già il Bruto del Giulio Cesare di Shakespeare, Cesare di Voltaire, Cesare di Augusto Conti (importante poeta tragico italiano). Tutte tragedie note ad Alfieri, che però introduce nell'intreccio una novità non di poco conto e che dichiara di aver ereditato da Voltaire: il cesaricida, figlio dell’aspirante tiranno, diviene a tutti gli effetti un eroe della libertà. Viene portata in scena la morte di Roma, che si identifica per Alfieri con la morte della Repubblica. di Cleopatra. Il conflitto irrisolvibile in cui si trova attanagliato l’eroe tragico alfieriano è il conflitto tra le ragioni di sangue e di potere, ed anche tra la passione della libertà e i vincoli della vita politico sociale. L’io dei personaggi deve infatti essere scisso tra il proprio essere intimo, che è vero e autentico, e il proprio ruolo sociale e pubblico. Il fulcro dell’opera devono essere allora le passioni assolute, estreme, smisurate, che sono le uniche per lui in grado di dividere il personaggio. 5. Per quanto riguarda il sentimento d’amore, Alfieri ci dice che non è una passione tragica. Perché la tragedia non può soffermarsi, come invece fa il madrigale, in sospiri, saette d’amore, auree chiome (bersaglio critico è il melodramma metastasiano). Tuttavia l’amore è sempre presente in Alfieri, perché deve far vedere fin dove quella passione terribile possa arrivare. Alfieri dimostra i funesti effetti che può avere l’amore tragico. Lo mostra in scena, così che “impereranno gli uomini a non rifuggire, ma in tutta la sua estrema passionalità - o essere uomini profondamente appassionati o profondamente disingannati” (cit. lettera a Ranieri de’ Calzabigi). Su questo il modello è Voltaire, che aveva preso le distanze dagli autori francesi che facevano ricadere l’amore in circostanze d’occasione. La passione smisurata deve essere invece in grado di educare il lettore alla consapevolezza che può e deve essere dominata dalla luce della ragione (questo diverso in Alfieri). 6. Un tema fondamentale in un autore che è anche teorico politico è poi la tragedia della libertà e il tema della congiura. Scrive una tragedia intitolata La congiura dei pazzi. Il difetto che però secondo Alfieri gli impedisce di essere teatrale è che mancano i vincoli familiari (vedi 4. ). I congiurati non sono né parenti del tiranno né sono soggetti ad altri vincoli. Non prende bene le critiche, su alcuni punti si difende in modo irremovibile: 6.1. La rarefazione del numero dei personaggi, a seguito il bisogno di brevitas e di climax. Sottolinea poi la novità del suo metodo, rispetto ai francesi che dilatano lo spazio tragico in scene e personaggi inutili. Alfieri si limita ai personaggi primari, che devono essere pochi e ben carattrizzati. L’Antigone è centrale nella presa consapevolezza del proposito di ridurre il numero di personaggi nella tragedia alfieriana. Lo stesso proposito si radicalizzerà nella Rosmunda e Sofonisba, in cui si arriva al minimo di 4 personaggi. Anche su questo Voltaire crede di aver fatto la sua parte, ma Alfieri dichiara di essere andato oltre a Voltaire e ne critica l’Oreste. Infatti la tradizione del teatro francese è amata e odiata da Alfieri. 6.2. Una consuetudine francese contribuiva in particolar modo all’inverosimiglianza sulla scena. Ricerca il criterio di verosimiglianza dell’azione tragica, ma anche di essenzialità della trama, che non deve perdersi in mille rivoli. Elimina quindi i “mezzucci” di cui gli altri autori di teatro parevano abusare. Dichiara che nelle sue scene non vi saranno ombre, né tuoni, né aiuti dal cielo. Mette al bando l’inverosimile che proliferava a teatro. Era caduto nel tranello dell’inverosimile anche Voltaire, lo dice lo stesso Calzabigi. Uno dei “mezzucci” era in Francia la presenza della figura del confidente, a cui è spesso affidato il compito di ascoltare e di raccogliere i segreti dei personaggi principali. Con la presenza di questi personaggi secondari quindi, lo scrittore francese aveva modo di narrare gli antefatti della storia. Ma allora Alfieri si chiede perché tradurre in un dialogo fittizio quello che potrebbe direttamente essere detto in un monologo, poiché nella vita vera accade che si parli tra sé e sé. È più verosimile l’abisso dell’Io del dialogo con un confidente. Ad esempio nell’Oreste, Elettra contravviene al divieto di Egisto e sceglie di onorare nell’anniversario della morte la tomba del padre: 24 versi fa pronunciare ad Elettra nell’inizio della scena. Versi importanti, perché spesso Vittorio colloca i versi di monologo all’inizio della scena. 6.2.1 Un’altra caratteristica comune infatti, che presenta ben poche eccezioni, è l’apertura delle tragedie con un monologo, che prepara l’ingresso in scena del protagonista (iponimo della tragedia). Il suo ingresso viene preparato dalle parole degli altri personaggi. Continuamente evocato. La sua presenza, la sua ombra nera, incombe e aleggia già in tutto il primo atto. Questo compare di norma solo dal secondo atto. 6.3. Il soliloquio deve essere rotto e frammentato. Deve dire il necessario ma essere solo accennante sulle cose, non narrando tutto. Questo rende meno stucchevole le scene e fa commuovere lo spettatore. Perché i personaggi non racchiudono il senso della tragedia attraverso la narrazione ma attraverso la passione. Così Isabella, nel Filippo, accenna al dramma di Filippo, non lo narra. Isabella accenna all’amore indicibile che porterà alla morte finale. Anche Antigone, giunta a Tebe per onorare la tomba dell’amato, in un solenne monologo sancisce il suo destino di morte. 7. Nella tragedia alfieriana non prevalgono le parti narrate, che portano in scena l’azione soprattutto nel momento della catastrofe, ma le voce dei personaggi, mediante un accentuato ricorso al dialogo. 8. Unità aristoteliche → A partire dal 1500 era stato fissato in Italia il rispetto delle 3 unità aristoteliche per la tragedia. Aristotele aveva teorizzato che il testo teatrale deve avere una forma compiuta e perfetta, rispetto ad altri generi letterari. Le sue riflessioni descrivono ciò che vedeva nel teatro greco e la sua disamina si muove a partire dall’Edipo Re di Sofocole. Per volontà di critici 500eschi (Giraldi Cinzio, Trissino ecc), le sue teorie diventano normative. Nel 1600 le 3 unità vengono poi canonizzate come un blocco indissolubile da rispettare. Nel 1550 il trattato di Vincenzo Maggi “In Aristotelis librum de poetica communes explanationes” viene sancito questo canone. 1. Unità di tempo. La tragedia deve svolgersi nel tempo limitato della narrazione e va oltre, dicendo che il dramma si deve svolgere “in un giro di sole” cioè nell’arco di una giornata. 2. Unità di luogo. Limita lo spazio dell’azione a un unico ambiente. Non sono ammessi continui scambi di scenario. 3. Unità di azione. Impone che l’argomento della tragedia si limiti a un unico avvenimento, sviluppato a partire da una situazione iniziale a una finale in modo coerente, senza continue interferenze accessorie. In merito, l’atteggiamento di Alfieri è quello di una sostanziale, ma non pedissequa, conservazione. Contesta il teatro francese che infrange l’unità di azione, perché dice “la tragedia è di un sol fil ordita”. È molto fedele a quest’unità. Il rispetto verso quest’azione è tipicamente 700esco. Si concede invece alcune libertà in merito alle altre unità. L’unità di luogo viene ad esempio violata nell’ultimo atto del Filippo. 9. Rimane molto fedele alla tradizione nella realizzazione di 5 atti per le sue tragedie. L’ultimo è quasi sempre il più breve e qui si svolge la morte dell’eroe, a cui l’autore affida poche parole ma significative. L’atto da lui prediletto è l’ultimo, in cui si verifica la CATASTROFE FINALE. Questa viene sapientemente costruita negli atti precedenti, poiché l’intera tragedia corre verso quell’ultima scena (l’unica secondo lui ben riuscita nella Cleopatra). Altra innovazione è il portare in scena i corpi uccisi degli eroi. Nel 1782 a Roma viene rappresentata l’Antigone. Il corpo dell’eroina uccisa emerge dal fondo della scena, inaugurando una forma di spettacolarità della morte. È una morte violenta ma che non supera mai i limiti del verosimile e della decenza. Presenta sulla scena la dimensione intellettuale della morte e al contempo le emozioni intense, senza però creare disordine: lo spettatore è sempre in grado di decodificare la scena. 10. Nella Vita e nelle opere che emerge la sua ricerca di una lingua letteraria. LINGUA. La sua lingua madre non è l’italiano. La sua lingua di prima educazione è il francese e il dialetto astigiano. Ciò genera grande tormento linguistica e fatica di appropriarsi di una lingua letteraria. Alfieri consapevole della proprio grandezza e eccezionalità, ma deve dimostrarlo. Non devono essere gli altri ad attribuirgliela, ma deve essere lui in grado di brillare tanto da costringere gli altri a riconoscerla. Deve compiere imprese sublimi, lasciare il segno. Difficile per lui che è cresciuto in un ambiente arretrato e non ha padronanza della lingua italiana. Ma lui tramuta queste condizioni sfavorevoli in una spinta motivazionale. Gianluigi Beccaria dedica molti studi alla lingua di Alfieri. Afferma che fin da subito sosteneva di un armamentario di idee tragiche, ma gli mancava il possesso della lingua adeguata, “delle ali per volare come fossero sue” (cit. Vita). Gli manca una forma a cui sottomettere le idee che già possiede al massimo grado, così da poterle comunicare a tutti. Questo risulta necessario anche per far piazza pulita sula lingua poetica che risuonava nei teatri italiani dell’epoca, considerata stucchevole. Alfieri sostiene infatti che in Italia manchi una lingua tragica, e lui accetta la sfida di trovarla. VERSO TRAGICO. Nel 1776 a Pisa legge le tragedie di Seneca e traduce il suo verso giambico in versi sciolti. Riflette dunque sul verso tragico (epoca IV cap 2), come un vero e proprio manifesto di poetica tragica, dove elenca tutti i tratti del verso che sarà poi caratteristica principale della sua tragedia. Il verso sciolto tragico si deve distinguere da ogni altro verso rimato, sia epico che lirico. Serve quindi : 1. creare una “giacitura di parole”, cioè una precisa collocazione delle parole in rapporto tra loro. Ne offre un esempio un verso della scena V dell’atto IV del Filippo. Le varie versificazoni sono: a). “ai figli che usciranno dal tuo fianco” → giacitura troppo banale. b). “quèi che uscir den dal tuo fianco figli” → riconosce di essere caduto nell’eccesso opposto. Da troppo familiare e colloquiale a troppo aggrovigliato, per via dell’intralcio generato dall’iperbato e dalla serie di monosillabi mal collocati (den, dan). c). “a quei figli che uscir den dal tuo fianco" → ha risolto il problema del groviglio precedente, ma non quello dello stento che deriva dalla disarmonia del suono, per il “uscir den dal”. d). “ai figli, che uscir denno dal tuo fianco” → stesura definitiva. “Questo maledetto e nullissimo verso, trova finalmente una forma soddisfacente a lingua d’arte”. Alfieri si arrovella sulla giacitura delle solite parole e finalmente riesce a conferire la naturalezza acquisita. Ciò fa capire anche cosa intendesse Alfieri per linguaggio naturale: lingua del dialogo, che da una parte deve evitare la violazione delle norme sintattiche (seconda e terza versione), dall’altra deve studiare bene la giacitura delle parole (al contrario della prima versione). 2. un “rompere sempre variato di suono”, che sia sonante, spezzato, vitale. I giambi di Seneca in parte gliene procacciano i mezzi, perché pieni di energia verbale. L’intenzione di Alfieri è di evitare i versi cantilenanti e melodiosi della contemporaneità, che risultano monotoni. Questa frantumazione sintattica è mutuata da Seneca. L’andamento prosodico del suo verso è tachicardico: rotto da pause o accelerato dall’enjambemant, che spezza il verso. Soltanto raramente il verso prevede la coincidenza tra metro e sintassi. È una verseggiatura dissonante. Es scena II atto II Saul: sintassi impervia, non segue la misura endecasillabica tradizionale. Dominano pause e mezzi di interpunzione: punti esclamativi, puntini di sospensione (specie nei personaggi in via di morte), che non sono ornativi ma distintivi. La sintassi tragica alfieriana infatti ricerca l’allusione, non l’enunciazione. Alfieri gioca con il silenzio, con il non detto (vedi atto V Mirra). Tanto più cresce la tensione drammatica, tanto più Alfieri ricorre alle figure di sospensione e reticenza. 3. brevità della frase. La forza delle parole è sprigionata dalla “densità sonora dei monosillabi alfieriani” (cit Beccaria). L’endecasillabo si frantuma in brevissime battute dei vari personaggi. Battute spesso costituite da una sola parola, uno scambio rapidissimo tra i personaggi. Anche qui l’archetipo è Seneca. La brevità della frase serve a intensificare le battute. Viene in realtà accusato di abusare di monosillabi, considerati “inutili riempitivi”. Alfieri risponde che non vengono mai messi a caso, non sono accessorie, ma sostengono il verso e impediscono la cantilena. Oltre a Seneca, modello per il verso alfieriano è anche Melchiorre Cesarotti, traduttore di Voltaire. Alfieri ne imita soprattutto le traduzioni dei Canti di Ossian (romanzo di Macpherson). Critica invece il fatto di aver tradotto le tragedie di Voltaire in endecasillabi tragici, rendendo un modello quel verso cantabile.
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