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Riassunto Libro "Arte delle città, Arte delle corti" di Enrico Castelnuovo, Appunti di Storia dell'arte medievale

Libro "Arte delle città, Arte delle corti" di Enrico Castelnuovo riassunto in 10 pagine, suddiviso nei 6 capitoli, racconta in maniera dettagliata il Gotico in Europa, con un focus in Italia, e degli artisti medievali. Con questa sintesi del libro ho preso il punteggio massimo all'esame di Storia dell'Arte Medievale.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 06/03/2022

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Scarica Riassunto Libro "Arte delle città, Arte delle corti" di Enrico Castelnuovo e più Appunti in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! Capitolo 1 La coscienza che in questo periodo si fosse verificato qualcosa di molto importante è presente in Giorgio Vasari il quale fa iniziare di qui la prima epoca delle sue Vite. È risaputo che Vasari non avesse grande stima per la produzione artistica medievale, ma che tuttavia ne apprezzasse per certi caratteri maggiormente classicheggianti, un certo numero di monumenti, tra cui il fiorentino Sant’Iacopo che aveva ispirato Brunelleschi, Sant Miniatomal Monte, la cattedrale di Pisa, quella di Lucca ecc. I giudizi di Vasari sull’arte italiana del duecento ci fanno conoscere quale grande diversità egli avvertisse nella situazione e nello sviluppo delle singole tecniche. L’arte italiana faceva da guida per l’arte Europea, e ciò comportò una coscienza della sua superiorità spinta anche nel passato e un certo disprezzo per gli aspetti formali di altre espressioni artistiche considerate come estranee alla tradizione italiana. Nella Vita del Pontormo, Vasari proiettandosi all’indietro si immagina un italocentrismo o meglio una centralità della Toscana. Ciò che gli sembra poter entrare nello stabilirsi nella nostra tradizione è accettato ed esaltato, il resto è respinto. Il XIII secolo vedrà diffondersi in gran parte d'Europa un nuovo modo di costruire, quello che noi chiamiamo gotico e che un contemporaneo segnalava come Opus Francigenum. Non veniva utilizzato allora un concetto quale quello di Stile, ma a leggere gli inventari del tempo ci imbattiamo frequentemente nel termine Opus, accompagnato da un aggettivo che ne specifica la localizzazione: lemovince, anglicanum, romanum, theutonicum ecc. Essi venivano a indicare in questo modo i prodotti di una certa tecnica originaria di luoghi particolari o in essi attivamente praticata. Il termine più spesso ricorrente negli inventari è quello di Opus Anglicanum, che indicava gli ammirevoli ricami inglesi i cui prodotti, largamente diffusi in Europa, tanto contribuirono alla divulgazione e conoscenza del disegno gotico. La varietà e la ricchezza degli indumenti liturgici così ricamati, conservati fuori dell'inghilterra, prova la loro straordinaria diffusione; le loro date si scagliano negli ultimi decenni del duecento. Fu un cronista tedesco Burkhard di Hall ad utilizzare una delle prime volte il termine Opus Francigenum per parlare di un edificio. Egli lo usa infatti a proposito di una nuova costruzione, iniziata nel 1269. È probabile che con questo termine Burkhard volesse alludere a certi particolari tecnici e di esecuzione che potevano essere stati spiegati, dimostrati, messi in evidenza dall'architetto parigino, per indicare certi elementi tipici, addirittura certi trucs d’atelier identificabili nella costruzione. Ma attenzione, sarebbe illegittimo e antistorico tradurre Opus Francigenum con stile gotico, doveva essere sviluppata la coscienza che un certo modo di costruire avesse un’origine e che questa fosse da riconoscere in Francia, e più precisamente nella regione parigina, nell’Ile-de-France. È un termine riduttivo e complesso, con il quale distinguere i dettagli e maniere è complicato. È assai difficile e artificioso identificare o piuttosto inventare dei minimi comuni denominatori presenti nei prodotti delle varie tecniche e identificabili particolarmente dal punto di vista formale. Se si definisce l'architettura gotica in base al modo della distribuzione delle forze, all'uso della volta a crociera con costoloni, dell'arco acuto, del sistema di contrafforti e archi rampanti, allo svuotamento delle pareti, alla concentrazione dei pesi su determinati elementi, sarà possibile applicare questi criteri a una scultura o una pittura, anche se una tendenza all'allungarsi delle figure potrà prestarsi al paragone con il verticalismo dell'architettura gotica. E tuttavia le difficoltà che incontriamo a voler ridurre ogni opera a quella matrice comune che chiamiamo stile continuano ad accumularsi. Ora un carattere unificante di ciò che chiamiamo lo stile gotico è dato dal metodo progettuale, dal disegno. In un periodo in cui gli architetti, capo maestri dei grandi cantieri delle cattedrali proponevano, attraverso il disegno soluzioni e indicazioni degli scultori e ai maestri vetrai, in cui uno scultore, un orafo, un pittore potevano essere chiamati da assume la responsabilità di Capo-maestro (tra cui Giovanni Pisano, Giotto, Tino di Camaino, Andrea Pisano, Lando di Pietro), il problema dell’elaborazione di un repertorio comune di forme va visto nell'ottica che deriva da questa particolare situazione. È essenziale dall'altra parte che si tenti di restituire la coscienza che i contemporanei avevano del distacco esistente tra i due modi di costruire, di scolpire, di dipingere. E tuttavia poiché il gotico è il termine che gli storici dell'arte usano non solo in presenza di un certo sistema architettonico, ma anche di un certo modo di strutturare e di definire le forme, di un certo tipo di panneggio, di una maniera di trattare la linea, di raffigurare i volti, gli atteggiamenti, le figure, di fronte a un certo naturalismo che si manifesta nella creazione di formule nuove, più ricche di informazioni sull’apparenza di un ramo, di una foglia, di un animale, di quanto non fossero le radicali, talora visionarie, stilizzazioni dell'epoca precedente, sarà opportuno usarlo, a condizione di rispettarne il carattere convenzionale, anche se si vengono così ad accomunare fenomeni diversi tra cui forse i contemporanei non avvertivano alcuna parentela. L'accettare questo termine non significa che si diano per risolti i problemi di classificazione che restano sempre aperti, come mostra la creazione di nuovi stili di cui sia un esempio nel tentativo di battezzare come ‘stile 1200’ quella tendenza artistica caratterizzata da una forte accentuazione classicista. L'aver avuto bisogno di introdurre un nuovo strumento classificatorio indica in modo molto chiaro come quelli utilizzati in precedenza siano apparsi a un dato momento inadeguati a caratterizzare certi fenomeni che non sembravano più riconducibili alle definizioni tradizionali del romanico e del gotico. Ciò appare evidente anche quando si osservi come, per presentare una certa immagine dello svolgimento dell'arte italiana, si abbia spesso la tendenza a mettere in opposizione gotico a bizantino. Nel testo ‘Giudizio sul Duecento’, Roberto Longhi ha dettato luce su un paesaggio in cui qualcuno pensava che tutte le vacche fossero nere, permettendo di guardare con occhi nuovi la pittura Toscana di questo secolo proponendo nuove griglie di selezione e nuove interpretazioni. L'aver chiarito con forza certe fratture mostrando i danni che potevano derivare da un'immagine non problematiche della continuità evolutiva ha permesso di rintracciare le mappe della storia artistica italiana. Gli elementi gotici entrarono infatti in modi diversi in Italia; Talora furono profondamente intrecciati a quelli bizantini, come nel caso dei dipinti murali frammentari attribuiti al maestro di San Francesco nella Basilica inferiore di San Francesco d'Assisi, o come in tanti casi i romani, bolognesi, meridionali attorno alla corte Sveva, siciliani. Il mischiarsi degli stili può essere spiegato come chi impara una lingua straniera cominci Innanzitutto a servirsi del patrimonio fonetico che a disposizione per riprodurre quei suoni che non esistono nella propria lingua ma esistono in quella che sta apprendendo. Possiamo interpretare, seguendo lo schema Zackenstil, tedesco del 200, lo stile a zig zag dai panneggi bruscamente spezzati, come una forma di adattamento o meglio di risposta al Gotico francese, che tenta utilizzando quelle formule e quegli schemi che gli artisti sassoni erano abituati a impiegare. Fu l'architettura la prima tecnica gotica ad espandersi in Italia, pur incontrando delle resistenze più tenaci che altrove. In realtà l'Italia settentrionale era stata assai precocemente luogo di esperimenti condotti su un tipico elemento costruttivo dell'architettura gotica: la volta a crociera su costoloni. Arthur Kingsley ha addirittura visto nella Lombardia uno dei punti focali della sperimentazione delle nuove formule architettoniche dall'alto di San Nazzaro Sesia a Sant'Ambrogio di Milano, della cattedrale di Novara, alla chiesa di Casalvolone. Le date sai precoci indicate da Kingsley sono state modificate da altri studiosi e oggi si pensa che le più antiche volte costolonate Lombardi non siano anteriori al 1080 circa. Certo è che in Piemonte, in Lombardia e in Emilia si svolge un fenomeno in qualche modo parallelo a quello che ebbe luogo in Normandia e in Inghilterra, senza tuttavia provocare quelle conseguenze e quegli stimoli che si verificarono nel nord. Le prime chiese gotiche del Duecento: il Battistero di Parma è quasi un unicum, con una struttura evidente e nervosa che Benedetto Antelami doveva aver appreso nella Francia del nord; Sant Andrea di Vercelli, edificato rapidamente a partire dal 1219, grazie a cospicui lasciti del cardinale Guala Bicchieri. Elementi francesi e inglesi si univano secondo la personalità del committente e delle regioni di una ricezione favorevole a nuovi modi; E certo l’origine, la cultura, i viaggi e le esperienze dell’artista e del committente influivano sull’opera. Per tracciare una storia dell’accoglimento e dello sviluppo delle forme architettoniche gotiche in Italia occorrerà tener presenti molti dati. In primo luogo il fatto che gli elementi gotici di diversa provenienza, sia francese che inglese, vi arrivano precocemente e vi vengono utilizzati in modo non sempre coerente, o almeno non coerente con la logica costruttiva dell’edificio gotico così come si era sviluppata nel nord. Comunque questi elementi vengono modificati per tentare di adeguarli e accordarli alle tradizioni locali. Resistenza caparbia alle tradizioni formali, una volontà di riportare tutto sul modello di Roma non permetterà all’Italia di avere una chiesa che possa definirsi gotica. Basilica San Francesco D’Assisi San Francesco d’assisi, fondata da Gregorio IX nel 1228 e consacrata da Innocenzo IV nel 1253, fu costruita su modelli occidentali di chiese a due piani. La chiesa superiore presenta soluzioni architettoniche marcatamente nordiche: paragoni sono stati avanzati per pianta e per certi modi dell’elevazione con la cattedrale di Angers, con Notre Dame di Digione, con la cattedrale di Auxerre. Il suo aspetto è decisamente gotico, forse diverso dal progetto originale, forse il progetto prese una svolta diversa per i comandi del generale inglese Aimone da Faversham. La basilica di Assisi è uno dei punti nodali del gotico italiano in quanto si integrano qui molte esperienze portate avanti in tecniche diverse: vetrate e pittura architettonica. I primi pittori che lavorarono nel transetto settentrionale furono certamente nordici, forse inglesi come è stato proposto; ma sarà Cimabue a dirigere e a coordinare la grande impresa della decorazione che si svolse in gran parte nel nono decennio del Duecento e che vide all'opera accanto a lui e ad artisti ancora anonimi, come il Maestro della Cattura, forse Duccio di Buoninsegna, maestranze romane come il Torriti e infine il Maestro di Isacco, vale a dire assai probabilmente, il giovane Giotto. Lo stesso Giotto, dirigendo il ciclo delle storie di San Francesco, terminerà l'impresa nel corso dell'ultimo decennio del secolo. Il sancta sanctorum è stato oggetto di studi approfonditi e sono legati da stretti vincoli, che si intrecciano strettamente anche all'attività romana di Arnolfo e alla formazione del grande Guccio di Mannaia, l'autore del Calice assistiate di Nicolò IV. Un altro centro propulsore nell'elaborazione e diffusione del nuovo linguaggio fu la Corte degli ultimi Svevi con Federico II, Manfredi, cui subentrerà una dinastia francese che chiamerà a Napoli artisti transalpini, quali furono gli autori del busto straordinario di San Gennaro nel tesoro della cattedrale di Napoli; e alla cultura Angioina andranno ricondotti temi e forme pittoriche che andranno dal Mezzogiorno all'Umbria, dalla Toscana al Piemonte. E mentre nei tesori delle cattedrali e delle basiliche più venerate, da Assisi a Bologna, da Padova ad Ascoli Piceno. Al termine di una lenta penetrazione che era durata oltre un secolo e malgrado una resistenza molto tenace, diversamente motivata e fortemente selettiva, l'Italia intera, nella varietà dei suoi paesaggi artistici, accetta e prende a elaborare alcuni tra gli elementi essenziali del Opus Francigenum. Capitolo 2 Un importante ruolo nell'introduzione in Italia di maestranze, di modelli del Nord fu svolto dalla corte di Federico II. L'imperatore conferì un grande significato agli investimenti simbolici e proseguì attraverso la propria politica artistica una grande strategia di È possibile che il primo soggiorno di Nicola in Italia centrale abbia avuto luogo a Siena. Ce lo fa pensare il fatto che si trovi precocemente a Piombino e che la sua traccia sia così evidente nelle stupefacenti teste e nelle figure di animali che fungono da mensole del triforio e della Cupola della cattedrale di Siena. L'impiego di teste scolpite come sostegni e come mensole fu particolarmente diffuso nell'arte gotica. Le teste di Siena ci riportano un preciso ambiente con la loro varietà tipologica (Scultura federiciana) e con le curiosità naturalistiche di cui danno prova, e all'ambiente della corte imperiale ci riporta anche l'aspetto nordico di alcuni personaggi. Dopo questa scoperta appare assai verosimile la tradizione locale secondo cui Nicola sarebbe stato il primo maestro della cattedrale di Siena. Passato quindi a Pisa, Nicola dirige il cantiere del battistero ed esegue il pulpito per l'interno dell'edificio. È questo uno straordinario monumento, splendida ed emblematica immagine della città celeste, dove confluiscono e vengono superate le lezioni dei pulpiti della Toscana e dell'Italia meridionale, dove gli elementi della tradizione progettuale gotica e del classicismo federiciano trovano un luogo di sintesi, dove la sensibilità anticheggiante del ceto dirigente Pisano trova un accordo con l’archeologismo Imperiale. La vena classica di Nicola nel pulpito del battistero andrà molto al di là di tanti episodi revivalisti. La tradizione cromatica del sud è messa a profitto per distinguere le strutture architettoniche delle lastre scolpite mediante l'uso di materiali diversi, mentre sono forse suggerimenti nordici quelli che spingono a far risaltare i rilievi contro sfondi, non musivi come nel Sud, ma fatti di vetri colorati insieme commessi. Lo stile di Nicola si evolve verso una maggiore sensibilità gotica negli ultimi due riquadri e continuerà a crescere nel pulpito di Siena, Dov'è con lui collaborano il figlio Giovanni, Arnolfo di Cambio, e i discepoli Lapo e Donato. Da Nicola, come sarà il caso di Giotto per la pittura, discende tutta una generazione di artisti e al di là di essa tutta la nuova scultura italiana. Arnolfo di Cambio lavorerà a Roma, Giovanni Pisano erediterà il cantiere e la posizione paterna di assoluta preminenza a Pisa, ma la situazione non evolve secondo le linee di non sviluppo armonico. Arnolfo e Giovanni seguono itinerari diversi: Giovanni impone quella che sarà chiamata da Erwin panofsky la controrivoluzione gotica: una scultura espressiva, drammatica, piena di pathos e di contrasti che si oppone agli equilibri e all’armonia classica. Evocare per l'arte di Giovanni Pisano l'ombra di una controrivoluzione gotica rischia di dare un'immagine tendenziosa della scultura toscana del Duecento e di interpretare l'arte di Nicola come un’anticipatrice rivoluzione classica che annuncia il Rinascimento. Un’improbabile continuità che avrebbe permesso di passare direttamente da Nicola al Quattrocento se non fosse stata interrotta è messa in crisi dalla controrivoluzione di Giovanni, che proiettò in Toscana l'inquietudine drammatiche della scultura gotica. Sul finire del 200 Giovanni è il più personale, il più geniale degli scultori europei. Quando realizza la facciata della cattedrale di Siena, compito che interrompe bruscamente per contrasti con i committenti, modifica fortemente rapporto scultura-architettura a favore della prima; non è un architetto-scultore come lo sono i capo maestri delle grandi cattedrali francesi, per lui l'aspetto plastico viene in prima linea e prevale sugli altri. Intanto, fin dalla fine del Duecento, si sviluppa Siena una cultura plastica particolare che cerca i suoi modelli non tanto nelle sculture di Giovanni, ma nella pittura di Giotto. Nasce così un nuovo rilievo, attento ha una resa pittorica e sfumata, più drammaticamente plastica. Una straordinaria inventività si manifesta nel campo del ritratto, dove gli scultori sembrano precedere i pittori nella resa psicologica e fisiognomica. Il ritratto in scultura aveva dietro di sé una storia già consistente con la ritrattistica federiciana, con Carlo d'Angiò di Arnolfo, con la tomba della regina Isabella D'Aragona, moglie di Filippo l'Ardito nella cattedrale di Cosenza. Ora i ritratti diventano più complessi, i personaggi sono definiti attraverso una sottile caratterizzazione che va al di là della tipizzazione. Questo è stato possibile attraverso il tentativo di utilizzare capacità analoghe a quelle che la pittura andava mostrando. Gli scultori guardano i pittori e nei loro ritratti funebri realizzano ciò che i pittori non erano ancora arrivati. Giotto aveva guardato la scultura di Arnolfo ma anche quella di Nicola, Pietro Lorenzetti guarderà quella di Giovanni Pisano e gli scultori Senesi guarderanno a loro volta verso la pittura di Giotto. Capitolo 4 Siena alla fine del Duecento è un attivissimo luogo di produzione per le tecniche suntuarie e gli elementi francesi vi ritrovano circolazione e una rielaborazione che non vengono necessariamente limitate nella vischiosità e dalle regole della tradizione che invece si fanno sentire in modo particolarmente forte in pittura. Tra i pezzi più moderni qui prodotti sono i sigilli, oggetti di straordinario prestigio, sentiti pressoché come magici a causa dello strettissimo nesso che li legava al committente, che attraverso di essi marcava del suo segno ogni suo atto, ogni documento. Nella gerarchia medievale degli oggetti il sigillo occupa una parte di primissimo piano; per avvertirlo basti ricordare come, a suggellare il valore civile del suo affresco con la Maestà in Palazzo Pubblico, Simone Martini abbia voluto rappresentare il gran sigillo del comune di Siena. Il calice che papà Niccolò IV donò al Tesoro della Basilica di Assisi, che porta la firma di Guccio di Mannaia, è la prima opera in cui troviamo splendidi esempi della nuova tecnica degli smalti translucidi, posti su placche d'argento incise lavorate in modo da essere visibili attraverso la pasta trasparente e colorata dello smalto sì da arrivare, come scrive il Vasari, ha una <<spezie di pittura mescolata con la scultura>>. È possibile che sia stato Guccio di Mannaia a inventare questa maniera, che con la sua capacità di integrare gli effetti cromatici dello smalto a quelli lineari e plastici dell’incisione e del rilievo avrà straordinario successo. Certo è che Guccio di Mannaia sembra conoscere perfettamente e saper utilizzare i modi gotici francesi della seconda metà del Duecento, che tendono verso un'espressività sempre più accentuata, contorcendo i riccioli delle chiome e delle barbe, imprimendo ai corpi un'inclinazione ondeggiante, mentre le ombre tendono a rilevare le vesti e le pieghe divengono più profonde, carattere tutti che appaiono ad esempio nelle illustrazioni del miniatore parigino Maitre Honorè, che lavorò per Filippo il Bello. Negli smalti del Calice di Guccio di Mannaia ad Assisi, le capigliature, i volti, le lunghe dita angolose, e pieghe profonde dei panneggi degli abiti dei personaggi rappresentati mostrano come l'artista avesse compreso lo spirito e le forme del momento di espansione Europea della pittura gotica, che ha nell'espressività e nella drammaticità i suoi denominatori comuni. In questo senso lo stile di Guccio di Mannaia presenta delle convergenze, dei parallelismi estremamente interessanti con quello delle vetrate della grande quadrifora nel braccio sinistro del transetto Sud della Chiesa Superiore di Assisi. Un fatto molto significativo, perché da una parte mostra incidenza di queste vetrate transalpine sul campo artistico italiano e dall'altra parte permette di immaginare esistenza presso i francescani di una grande ricettività verso certi aspetti patetici e drammatici della pittura gotica, frutto di un'intensa sensibilità visiva. Lo stile di Guccio non riesce ad affermarsi come possibile alternativa a Giotto, ma tuttavia influenza straordinariamente la più giovane generazione di orafi senesi. Possiamo addirittura considerare che il gotico espressivo di Guccio di Mannaia abbia rappresentato una carta vincente per l'espansione dell'arte Senese, poiché questa conoscerà in Europa una diffusione grande. Al tempo di Guccio ha inizio il primo momento dell'espansione di Siena. Nel 1301 un ramaio Senese, Manno Bandini, creerà a Bologna l'immagine dominante ed enigmatica di Bonifacio VIII. Lo smalto traslucido acquisterà un vasto prestigio e una grandissima fortuna: è in questa tecnica preziosa e suggestiva che sono state eseguite alcune delle più importanti opere della storia dell'arte senese del Trecento, come lo stupendo ciclo con le Storie di San Galgano del reliquiario di Frosini. Questa pittura fatta di un materiale eletto, duro e colorato come le gemme, lascia trasparire il rilievo intagliato della placca d'argento per comporre un'unica immagine dall’incerto spessore, prodigiosa e accattivante. Nei micro monumenti degli orafi il suo prestigio e il suo ruolo possono essere simili a quelli delle vetrate, con in più qualcosa di prezioso e di sofisticato. Capitolo 5 Nel sottotetto della cattedrale di Modena nascosti dalle volte quattrocentesche, sono stati ritrovati frammenti di pitture murali che riprendono i motivi architettonici, le archeggiature, le modanature del paramento esterno, opera di maestri campionesi. Generalmente in Italia i tempi della pittura non concordano infatti con quelli dell'architettura o della scultura. Le strade e i tempi della pittura Toscana intorno alla metà del secolo erano molto diversi da quelli del Nord. Penetrano, è vero, nella pittura singoli elementi gotici, ma sono dati marginali e certi racemi che, nelle Storie di San Francesco sopravvissute in modo tanto frammentario nella navata della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, trovano paralleli nelle pitture murali del Petit-Quevilly e in altre opere nordiche. La penetrazione di nuovi modi e soprattutto la loro favorevole ricezione, che è quello che conta, avverrà nel corso della seconda metà del 200 e avrà straordinarie conseguenze: porterà a una fusione di elementi diversi, di spunti naturalistici gotici e di rinnovata capacità di rappresentare lo spazio studiato e sperimentato su esempi tardoantichi, a una convergenza tra due tradizioni che offrirà una risposta a molti problemi. In tempi brevi, nel corso dell'ultimo quarto del 200, nasce a Roma e Assisi una pittura che dominerà la scena Europea. Tutto si giocò in pochi anni, attorno alle basiliche romane che Niccolò III Orsini voleva restituire alla loro splendida decorazione, attorno alla nuova chiesa di Assisi, tempio del grande ordine religioso in cui confluivano tensioni e spinte tanto diverse e su cui Roma voleva mantenere, anche attraverso i simboli e le immagini, uno stretto controllo. Negli ultimi decenni del Duecento Assisi e Roma furono luoghi di conflitti di contrasti che si estendono anche al campo artistico. Ad Assisi una lunga contesa tra conventuali e spirituali, tra sfarzo e austerità, a segnare gli arresti e le riprese della decorazione della chiesa Superiore; furono gli interventi della curia, il succedersi dei padri generali e dei cardinali protettori. A Roma furono il contendersi delle grandi famiglie e le resistenze dell'egemonia francese. Le grandi famiglie romane concentravano i loro interventi su determinate basiliche tradizionalmente legate alla loro committenza, gli Orsini favorivano San Pietro e San Paolo, i Colonna San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore. Così Niccolò III Orsini si fece costruire un palazzo presso la basilica vaticana e Niccolò IV, legato ai Colonna, erese il proprio presso la basilica liberiana di Santa Maria Maggiore, la chiesa su cui si concentrano gli investimenti artistici del pontificato. Fatti apparentemente disparati, ma estremamente significativi, devono essere presi in considerazione per illuminare la situazione romana: il soggiorno documentato di Cimabue, la decorazione del Sancta Sanctorum (1278-80) gli affreschi anticheggianti commissionati da Nicolò III nel palazzo Vaticano, gli interventi papali sulle antiche Basiliche, il soggiorno di Arnolfo e del giovane Giotto, il gusto di Niccolò IV per l'arte gotica i suoi prodotti (arredi in opus anglicanum), fino alla ventata naturalistica che investe i mosaici del Torriti a Santa Maria Maggiore, le sue pitture ad Assisi e gli affreschi dell'Abbazia delle Tre Fontane. Sono questi gli elementi che entrarono nella complicata vicenda di quella splendida ma breve stagione artistica che fu l'estate di San Martino di Roma negli ultimi decenni del Duecento. L'emulazione nelle commissioni artisti che suscitata dai conflitti per il controllo sulla città e sulla chiesa, i grandi restauri alle Basiliche paleocristiane, la presenza di tanti prelati e cardinali nordici che si trovavano di fronte una tradizione artistica sviluppatosi diversamente e altrimenti alimentata da quella che era loro familiare e in cui non cessavano di introdurre elementi nuovi e diversi, convergono nel fare di Roma il luogo della sperimentazione. Fu Roma a esercitare una continua influenza, un permanente controllo sui programmi iconografici della basilica di San Francesco ad Assisi, fu da Roma che l'equipe di pittori mossero verso l'Umbria. Il che non significa certo l'esclusione di Firenze, dato che artisti fiorentini, primi fra tutti Cimabue, Arnolfo e quindi Giotto, sono a Roma; significa solo che Roma, almeno geograficamente, è stata il luogo generatore di importanti esperienze, il luogo dove l'incontro tra la spazialità della pittura antica e le capacità dinamiche ed espressive del disegno gotico è stato possibile. Roma e Assisi sono i centri di elaborazione della nuova pittura, che attraverso le sue capacità di rappresentazione tridimensionale mette a punto strumenti che permetteranno di dare un'organizzazione al discorso figurativo, di cercare una rappresentazione naturale e non solo di singoli elementi, ma anche nell'impaginazione dell'insieme, nella sistemazione dei rapporti tra le diverse immagini. Un problema fondamentale della pittura come della scultura gotica era stato proprio quello della rappresentazione dello spazio. Nella pittura romanica occidentale un insuperabile resistenza alla rappresentazione illusionistica dello spazio nelle scene sacre. Nel corso del Duecento, i mutamenti culturali offrono la possibilità dell'emergere di una nuova figurazione. É a questo punto che si avverte l'urgenza dell'Innovazione, dell'introduzione di formule che affrontassero e risolvessero il problema della rappresentazione tridimensionale e si pone a questo punto il problema di Giotto. Non c'è dubbio che sia stato lui a portare nuove soluzioni al più alto grado di elaborazione, che sia stato lui a formulare coerentemente e a proporre un paradigma destinato a trionfare. É stato fin dagli inizi Giotto che ha dato nuove soluzioni ai problemi della rappresentazione dello spazio? Qual è stato il ruolo di Cavallini, il cui periodo più antico di attività - quando, tra il 1277 e il 1290 dipinge in San Paolo fuori le mura- ci rimane oscuro? É chiaro che per i contemporanei l'autore della grande mutazione su Giotto. Di fatto il mito di Giotto nasce e si sviluppa a Firenze, mentre per la cultura e la vita intellettuale di Roma l'allontanamento della Curia costituì un colpo gravissimo, tanto che potremmo attribuire a questa ragione la mancanza di qualsiasi apprezzamento o riconoscimento per gli artisti romani, dimenticati perché la loro stessa memoria era stata travolta dalla crisi traversata dalla città. Agli inizi del Trecento in ogni modo, dopo un importantissima attività assisiate e romana, Giotto è l’astro fulgente del firmamento artistico italiano. Ciò che veniva fatto d'Assisi aveva un'eco molto vasta. Era stato questo il caso di Cimabue, le cui influenze si fecero immediatamente intendere in Umbria, in Toscana, a Bologna, a Genova; ed è questo il caso di Giotto, cui spettano nella Chiesa Superiore di Assisi sia gli affreschi raggruppati attorno al nome del Maestro di Isacco sia, per quanto riguarda la progettazione ma con capitali interventi diretti, le Storie di San Francesco. Ed è probabile che le quattro storie a mosaico del Rusuti sulla facciata di Santa Maria Maggiore, verosimilmente anteriori al 1297, riflettano precocemente soluzioni giottesche piuttosto di esserne, come è stato proposto, possibili modelli. Il successo di Giotto è marcato, sanzionato, dalle commissioni che riceve, in una sorta di emulazione, da vari centri italiani: a Roma dalle cardinale Stefaneschi, a Padova dai francescani e dal ricchissimo Enrico Scrovegni, banchiere papale, a Rimini dai Francescani, a Firenze dalle massime famiglie di banchieri - i Bardi e Peruzzi -, a Milano Dai Visconti, a Napoli dal Principe Carlo di Calabria. Quindi di nuovo a Firenze, dove il comune gli conferisce l'incarico di sovrintendere ai grandi lavori cittadini, dal duomo alla cinta muraria. Le sue opere vengono richieste a Pisa (tavola con le Stimmate di San Francesco ora al Louvre), a Bologna e ad Avignone. Il modo in cui il suo nome e le sue opere vengono indicati in documenti e testimonianze contemporanee è un indice della sua fama straordinaria: un testamento del 1312 ricorda il Crocifisso dipinto in Santa Maria Novella dall' egregio pittore Giotto di Bondone, l'Invidia dipinta sullo zoccolo della Cappella degli Scrovegni è citata nel 1313 da Francesco de Barberino; Quando lavora a Napoli lo si trova indicato come familiare del re, ‘protopictor’, ‘protomagister’ e nell'occasione della sua chiamata a Firenze, tre anni prima della morte, si dichiara solennemente che nessuno è più capace di maestro Giotto fiorentino. Nel frattempo dopo la celeberrima citazione di Dante, il nome di Giotto viene citato anche da altri autori come Boccaccio nella Novella del Decameron dove Giotto ne è protagonista, da Petrarca che lascia nel suo testamento del 1370 una tavola di Giotto al signore di Padova, si esprime significativamente in modo analogo, notando che la bellezza di essa non compresa dagli ignoranti faceva stupire maestri. É questo un momento capitale del processo di legittimazione dell'artista e della sua attività portato avanti nel trecento dagli intellettuali di Firenze, che condurrà al precoce ingresso delle arti figurative nel sistema culturale Fiorentino. Vitruvio, che durante tutto il medioevo fu in diversi modi letto e conosciuto, voleva che l'architetto fosse onorato come doctus e fu questa la strada seguita da molti artisti, che nel corso del Duecento insistettero particolarmente su un tale concetto, con una sorta di pretesa accademica. Solo la menzione dei letterati, vale a dire coloro che esercitavano attività per definizione liberali, potè aver valore legittimante; questa convergenza o addirittura alleanza, tra intellettuali e artisti avrà gran peso, portando un precoce allargamento del campo artistico a Firenze e una sua più complessa e moderna strutturazione. Con Giotto la pittura vede superate quelle distanze e abbattuta quella separatezza rispetto alle altre tecniche che ne marcavano la condizione in Italia. Sarà possibile trovare un pittore alla testa di un grande cantiere perché ormai egli sarà in grado di dominare gli strumenti progettuali e le tecniche grafiche necessarie. Se la leggenda di Giotto si crea molto rapidamente è grazie al fatto che egli percorre il proprio itinerario stilistico a una cadenza del tutto inconsueta, che manifesta eccezionali capacità di innovazione e che i caratteri nuovi e moderni del suo operare colpiscono per la loro singolarità l'immaginazione dei contemporanei. La sua strada è così ricca di svolte e percorsa a una tale velocità che i seguaci non arrivano a seguirlo. Si hanno così pittori 'giotteschi' partiti da momenti differenti dell'itinerario di Giotto e che nei loro modi hanno sempre conservato il segno della loro formazione: coloro prevalentemente influenzati dagli affreschi della chiesa superiore di Assisi come Memmo di Filippuccio, o il maestro di Santa Cecilia; e coloro che si muovono dagli freschi di Padova, dalle opere di Rimini, dalla nuova attività assisiate, dalle opere fiorentine più avanzate. Solo il Giotto monumentale della Cappella
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