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Riassunto libro "Arte romana" di Papini, Sintesi del corso di Archeologia

Riassunto libro per esame di archeologia "Arte romana"

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 25/11/2021

NoemiFranchetti24
NoemiFranchetti24 🇮🇹

3.9

(14)

34 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto libro "Arte romana" di Papini e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! RIASSUNTO ARTE ROMANA DI PAPINI CAPITOLO 11: RAPPRESENTAZIONI STORICHE Il rapporto con i modelli greci A partire dalla fine del secolo XIX gli studiosi modemi, interessati a una definizione più autentica (e positiva) dell'arte romana, hanno individuato proprio nella narrazione “storica” una delle sue qualità più originali anche rispetto all'arte greca. E' meglio parlare in generale di rappresentazioni storiche, accomunate dalla raffigurazione di guerra, vittorie, istituzioni, cerimonie e riti romani. Anche quando il modello era greco, il contenuto del racconto o del messaggio era romano. A partire dal secolo V a.C. immagini storiche furono commissionate dalle poleis per essere collocate in templi e monumenti pubblici importanti, come ad Atene sotto forma di due megalografie nella Stoà Poikile nell'agorà. In seguito, le conquiste di Alessandro Magno fecero nascere la ricca tradizione iconografica a cui appartengono, per esempio, il “sarcofago di Alessandro” da Sidone. I sovrani ellenistici non furono ritratti solo in battaglia, ma anche in processione, a banchetto, a caccia, insieme a trofei e a figure allegoriche. L'arte greca aveva dunque già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono però la coerenza e l'universalità imposte in età imperiale dalla presenza di un solo sovrano e di un unico "centro" di elaborazione. Non si trattò soltanto della rappresentazione di eventi storici in sé, ma anche della creazione di modelli ideologici, compositivi e iconografici, poi adottati anche nei monumenti romani, naturalmente adeguandoli alle mutate condizioni politiche. Il pilastro di cui L. Emilio Paolo si appropriò a Delfi per diritto di conquista dopo la vittoria di Pidna (era collocato nel tempio di Apollo)può essere definito un monumento di raccordo tra arte greca e romana: il pilastro divenne simbolo dell'egemonia romana in Grecia. Era infatti accompagnato da una iscrizione latina che ne prendeva possesso in nome di Emilio Paolo, sosteneva la statua equestre dorata del generale ed era completato sulla sommità da un fregio corrente su tutti i lati e raffigurante una battaglia tra Romani e Macedoni, evidentemente quella di Pidna. Il fregio mostrava l'esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale, al quale alludeva forse solo l'immagine di un cavallo “scosso” la cui fuga dalle file romane aveva dato inizio al combattimento. Vi è un'estrema cura nel riprodurre le uniformi e le armi. Al tempo di Pidna la tradizione ellenistica delle scene di battaglia era comunque già nota anche in Italia grazie al tramite delle città italiote e siceliote. In particolare nei secoli III-Il a.C. la galatomachia era entrata anche nel repertorio delle urne e dei sarcofagi etruschi per alludere ai nemici gallici. I modelli d'ispirazione, scultorei o pittorici, dalla Grecia o dall'Asia Minore, furono così adattati per ribadire l'empietà delle popolazioni celtiche, un concetto nato a sua volta in Grecia per condannare i Galati alla sconfitta, ma facilmente applicabile anche ai Galli nel nuovo contesto della “romanizzazione” della penisola. Nello stesso periodo i fregi fittili continui iniziarono a ospitare rappresentazioni storiche mutuate dal repertorio pubblico anche in contesti domestici, come si vede negli atri e nei tablini di alcune ricche domus della colonia latina di Fregellae, sulle cui pareti erano inserite le lastre di terracotta raffiguranti Vittorie, trofei e battaglie terrestri e navali. Trionfo e cerimonie di Stato in età repubblicana All'influenza dei modelli greci si aggiunse l'esigenza della nobilitas di documentare le imprese belliche sulle quali si basava il conseguimento dell'onore del trionfo e di vedere garantita nel tempo la memoria delle proprie res gestae in ogni possibile contesto. Alla base della tradizione della commemorazione storica nell'arte romana si trova la pittura trionfale, categoria comprendente i quadri su tavola raffiguranti le vicende belliche ed esibiti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi svolgevano la funzione insieme didascalica e documentaria di fornire l'evidenza concreta della vittoria ai cittadini romani. Le immagini, realizzate spesso a breve distanza dagli eventi, dovevano riprodurre la sequenza e, ove possibile, i siti delle res gestae e avevano uno scopo prima di tutto informativo, a integrazione dei resoconti scritti dei comandanti militari. L'unico documento superstite esempio di pittura trionfale, è un frammento di affresco proveniente dalla decorazione forse esterna di una tomba. In esso, la costruzione di una narrazione continua derivava da esperienza ellenistiche, ma lo scopo didascalico/documentario di presentare passo dopo passo e con strategie compositive chiare l'evidenza della vittoria era un'esigenza romana. Si affermò rapidamente anche una differente tradizione che mostrava piuttosto il rango o i doveri assolti dai protagonisti. | monumenti funerari che dovevano presentare l'intera carriera e i meriti pubblici del defunto, illustravano, oltre alle consuete scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi (di solito gladiatori offerti al popolo). La rappresentazione fedele di una cerimonia poteva quindi costituire il fulcro del programma decorativo di un edificio, verosimilmente allo scopo di glorificare ancora di più il suo costruttore. Allo stesso filone appartiene l'ara di Cn. Domizio Enobarbo. Il monumento, di forma rettangolare, è decorato su ogni lato da un rilievo inquadrato da pilastrini: tre lastre in marmo microasiatico illustrano un tema mitologico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta in marmo pario rappresenta un tema romano, lo svolgimento di un censimento e del sacrificio a Marte. I rilievi di soggetto marittimo sono più antichi e giunsero probabilmente a Roma dalla Grecia come bottino bellico. L'iconografia, molto scrupolosa nel riprodurre diversi aspetti delle procedure e dei costumi militari romani del tempo, condivide lo stesso linguaggio di molti rilievi votivi greci ellenistici, caratterizzati dall'applicazione di una moderata gerarchia delle proporzioni. La scena riproduce con cura i momenti salienti di una cerimonia di Stato che si ripeteva ogni cinque anni nel Campo Marzio di Roma. Di per sé il rilievo intendeva rendere subito riconoscibile il rito romano, ma può essere considerato anche una rappresentazione storica? Per rispondere si deve guardare allo scopo dell'immagine che non era di mostrare il funzionamento ideale di una cerimonia pubblica, ma di celebrare il censore stesso, ossia il (probabile) committente del monumento, per mezzo del quale egli intendeva comunicare che l'edificio in cui la base si trovava era stato da lui realizzato mentre era in carica. Nel quasi generale naufragio della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell'attività dei triumviri monetali che nel corso del secolo | a.C. scelsero spesso di rappresentare le vicende delle proprie famiglie sulle monete coniate in loro nome. Riconosciamo così molte grandi figure della storia romana, come Numa Pompilio, A. Postumio Albino, M. Claudio Marcello, M. Emilio Lepido, L. Emilio Paolo e L. Comelio Silla. Vi sono molte immagini che documentano l'esistenza di un ricco patrimonio di scene storiche gentilizie, che perse di attualità in età imperiale, lasciando però come eredità schemi figurativi e consuetudine a simili narrazioni. Lo stretto collegamento tra queste memorie familiari e i monumenti pubblici è inoltre documentato dal “fregio” scultoreo della basilica Emilia. L’età di Traiano I monumenti di età traianea testimoniano più di altri la centralità delle immagini nella comunicazione di vittorie e provvedimenti imperiali e nella celebrazione dell'imperatore. > Colonna Traiana: l'invenzione della colonna coclide istoriata diede l'opportunità di costruire un racconto continuo delle guerre, offrendo una versione artisticamente colta della tradizione della pittura trionfale, trasformata in monumento perenne dalla realizzazione in marmo. Le 2 guerre daciche sono presentate rispettando la sequenza annuale degli eventi e indicando molti dettagli topografici, descrivendo fedelmente costumi, armi e tattiche militari di entrambe le parti. La narrazione si sviluppa introducendo molte scene convenzionali che dovevano aiutare lo spettatore a orientarsi meglio nel racconto. Il racconto è manipolato e ciò si coglie in un episodio: viene raffigurata la figura di Traiano che svolge di persona svolge compito di timoniere in una flotta di soccorso. L'illustrazione vuole comunicare un messaggio: Traiano è il timoniere che guida il suo esercito così come regge il timone dello Stato. Un altro aspetto da sottolineare è costituito dalla profondità di campo delle scene, ottenuta con la prospettiva a volo d'uccello, la rappresentazione simbolica dello spazio per la quale ciò che in un rilievo si trova più lontano dallo spettatore, e dovrebbe quindi essere posto in secondo piano, è invece spostato verso il margine superiore, dando l'impressione di essere visto dall'alto. > “Grande fregio” di Traiano è un rilievo monumentale reimpiegato in gran parte nell'arco di Costantino. Rispetto alla colonna, in cui Traiano era presentato come il “bravo generale" che organizza l'esercito, lo motiva, lo premia e non mette mai a rischio la sua vita in prima linea, il “grande fregio” riafferma nello scontro equestre la virtus personale dell’imperatore, paragonandolo ad Alessandro Magno. Evoca la conquista della Dacia. > Il trofeo (Tropaeum Traiani) terzo importante monumento traianeo, dedicato a Marte Ultore nel 109 a.c e realizzato in mesia. La guerra è rappresentata in una serie di 54 metope del fregio dorico sulla sommità del tamburo dell'edificio. Le metope celebravano la vittoria dacica nel complesso, in modo molto semplificato e influenzato dalla tradizione locale nella resa delle figure. I monumenti di Stato traianei affiancano all'esaltazione della vittoria anche la rappresentazione dei meriti civici dell'imperatore e della sua generosità verso i sudditi. Arco di Benevento: l'arco beneventano costituisce il culmine del processo di accrescimento della decorazione figurata dei monumenti pubblici nonché il documento dell'estrema sofisticazione del linguaggio del panegirico imperiale, che intendeva far scaturire dall'insieme dei vari rilievi, ciascuno con una scena in sé conclusa e riferita alla biografia del principe, l'illustrazione complessiva della sua politica provvidenziale dall'inizio del suo regno. I rilievi del fomice di passaggio dell'arco illustravano la providentia imperiale verso l’Italia: ad es. institutio alimentaria nella scena in cui Traiano distribuiva gli alimenta a padri e figli. Continuità e differenze da Adriano a Marco Aurelio Il legame con il trionfo rimane. | rilievi urbani si concentrarono su nuovi soggetti: i tondi adrianei raccontavano per esempio un tema inedito per l'arte ufficiale come quello venatorio, di per sé pertinente al mondo dell'otium, ma adottato da Adriano quale testimonianza del suo coraggio personale (virtus), del suo amore per la caccia e forse anche per emulare Alessandro Magno. La cronaca di una caccia multipla si dispiegava in rilievi alternanti le scene venatorie a quelle di sacrificio, collegate tra loro dalla rappresentazione della stessa presa, prima cacciata e poi offerta alla divinità. Altro tema che ebbe più spazio fu l'apoteosi degli imperatori defunti. * ll“monumento partico” di Efeso prova che le singole città dell'Impero continuavano a dimostrare la propria lealtà alla famiglia imperiale, celebrandone le imprese mediante rappresentazioni storiche. Durante il secolo Il d.C. anche lo sviluppo di una forma di racconto suddivisa in una serie di rilievi, ciascuno dedicato a un momento esemplare della narrazione, mostra il prevalere della componente allegorica su quella più narrativa anche nei resoconti strettamente bellici. Almeno 12 rilievi decoravano in origine un arco eretto per Marco Aurelio nei pressi della curia lulia. 8 di questi sono stati reimpiegati nell'arco di Costantino. | rilievi, soffermandosi sulle cerimonie e sulle virtù personali di Marco (devozione, clemenza..), inscenavano una sorta di campagna militare ideale, con tappe ormai prestabilite e in assenza di ogni riferimento a episodi bellici specifici, salvo forse la designazione del re vassallo, come se la ripetizione di determinate azioni fosse diventata più Importante del singolo e risolutivo a livello militare. Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella colonna Aureliana. Nella nuova colonna coclide le guerre danubiane combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene esemplari e cerimoniali sembrano talvolta inserite soprattutto per illustrare un ruolo e virtù dell'imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto, privo di quei nessi interni caratteristici della colonna Traiana, come se si volesse creare un effetto di ridondanza proprio insistendo sulla ripetizione di determinate azioni. Dai Severi al Tardoantico: nuovi linguaggi La nuova dinastia, bisognosa di legittimazione, diede grande rilievo alla celebrazione delle proprie vittorie, a Roma, Napoli e nella natia Africa. Il più importante monumento urbano fu l'arco di Settimio Severo eretto nel foro romano per celebrare la guerra partica: 4 grandi pannelli furono posti, 2 per facciata, sui fornici laterali per rappresentare ciascuno la presa di una città partica nemica. Su questi il racconto procede dal basso verso l'alto e perlopiù da sinistra a destra e sembra quasi voler trasportare sulla superficie dell'arco il tipo di narrazione continua spiraliforme adottato nelle colonne coclidi, come se il prestigio di quelle avesse indotto a emularne l'aspetto. Le scene mettevano inoltre in evidenza l'organizzazione dell'esercito romano rispetto al caos del nemico. Nei pannelli dell'arco di Settimio Severo la funzione divulgativa attribuita a queste scene storiche non le trasformava in reportage della guerra o in fonti documentarie nel senso moderno del termine. La selezione degli episodi di contorno associati alle grandi scene d'assedio conferma inoltre l'idea che il racconto di una campagna militare vittoriosa dovesse ormai necessariamente prevedere la ripetizione di alcune situazioni fisse. La presentazione per lo più frontale dell’imperatore (come ad es. nell’arco di leptis Magna) contrapposta alla massa dei suoi soldati era un ulteriore effetto dell'accentuazione della componente simbolica già rilevata RIASSUNTO ARTE ROMANA DI PAPINI CAPITOLO 11: RAPPRESENTAZIONI STORICHE Il rapporto con i modelli greci A partire dalla fine del secolo XIX gli studiosi modemi, interessati a una definizione più autentica (e positiva) dell'arte romana, hanno individuato proprio nella narrazione “storica” una delle sue qualità più originali anche rispetto all'arte greca. E' meglio parlare in generale di rappresentazioni storiche, accomunate dalla raffigurazione di guerra, vittorie, istituzioni, cerimonie e riti romani. Anche quando il modello era greco, il contenuto del racconto o del messaggio era romano. A partire dal secolo V a.C. immagini storiche furono commissionate dalle poleis per essere collocate in templi e monumenti pubblici importanti, come ad Atene sotto forma di due megalografie nella Stoà Poikile nell'agorà. In seguito, le conquiste di Alessandro Magno fecero nascere la ricca tradizione iconografica a cui appartengono, per esempio, il “sarcofago di Alessandro” da Sidone. I sovrani ellenistici non furono ritratti solo in battaglia, ma anche in processione, a banchetto, a caccia, insieme a trofei e a figure allegoriche. L'arte greca aveva dunque già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono però la coerenza e l'universalità imposte in età imperiale dalla presenza di un solo sovrano e di un unico "centro" di elaborazione. Non si trattò soltanto della rappresentazione di eventi storici in sé, ma anche della creazione di modelli ideologici, compositivi e iconografici, poi adottati anche nei monumenti romani, naturalmente adeguandoli alle mutate condizioni politiche. Il pilastro di cui L. Emilio Paolo si appropriò a Delfi per diritto di conquista dopo la vittoria di Pidna (era collocato nel tempio di Apollo)può essere definito un monumento di raccordo tra arte greca e romana: il pilastro divenne simbolo dell'egemonia romana in Grecia. Era infatti accompagnato da una iscrizione latina che ne prendeva possesso in nome di Emilio Paolo, sosteneva la statua equestre dorata del generale ed era completato sulla sommità da un fregio corrente su tutti i lati e raffigurante una battaglia tra Romani e Macedoni, evidentemente quella di Pidna. Il fregio mostrava l'esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale, al quale alludeva forse solo l'immagine di un cavallo “scosso” la cui fuga dalle file romane aveva dato inizio al combattimento. Vi è un'estrema cura nel riprodurre le uniformi e le armi. Al tempo di Pidna la tradizione ellenistica delle scene di battaglia era comunque già nota anche in Italia grazie al tramite delle città italiote e siceliote. In particolare nei secoli III-Il a.C. la galatomachia era entrata anche nel repertorio delle urne e dei sarcofagi etruschi per alludere ai nemici gallici. I modelli d'ispirazione, scultorei o pittorici, dalla Grecia o dall'Asia Minore, furono così adattati per ribadire l'empietà delle popolazioni celtiche, un concetto nato a sua volta in Grecia per condannare i Galati alla sconfitta, ma facilmente applicabile anche ai Galli nel nuovo contesto della “romanizzazione” della penisola. Nello stesso periodo i fregi fittili continui iniziarono a ospitare rappresentazioni storiche mutuate dal repertorio pubblico anche in contesti domestici, come si vede negli atri e nei tablini di alcune ricche domus della colonia latina di Fregellae, sulle cui pareti erano inserite le lastre di terracotta raffiguranti Vittorie, trofei e battaglie terrestri e navali. Trionfo e cerimonie di Stato in età repubblicana All'influenza dei modelli greci si aggiunse l'esigenza della nobilitas di documentare le imprese belliche sulle quali si basava il conseguimento dell'onore del trionfo e di vedere garantita nel tempo la memoria delle proprie res gestae in ogni possibile contesto. Alla base della tradizione della commemorazione storica nell'arte romana si trova la pittura trionfale, categoria comprendente i quadri su tavola raffiguranti le vicende belliche ed esibiti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi svolgevano la funzione insieme didascalica e documentaria di fornire l'evidenza concreta della vittoria ai cittadini romani. Le immagini, realizzate spesso a breve distanza dagli eventi, dovevano riprodurre la sequenza e, ove possibile, i siti delle res gestae e avevano uno scopo prima di tutto informativo, a integrazione dei resoconti scritti dei comandanti militari. L'unico documento superstite esempio di pittura trionfale, è un frammento di affresco proveniente dalla decorazione forse esterna di una tomba. In esso, la costruzione di una narrazione continua derivava da esperienza ellenistiche, ma lo scopo didascalico/documentario di presentare passo dopo passo e con strategie compositive chiare l'evidenza della vittoria era un'esigenza romana. Si affermò rapidamente anche una differente tradizione che mostrava piuttosto il rango o i doveri assolti dai protagonisti. | monumenti funerari che dovevano presentare l'intera carriera e i meriti pubblici del defunto, illustravano, oltre alle consuete scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi (di solito gladiatori offerti al popolo). La rappresentazione fedele di una cerimonia poteva quindi costituire il fulcro del programma decorativo di un edificio, verosimilmente allo scopo di glorificare ancora di più il suo costruttore. Allo stesso filone appartiene l'ara di Cn. Domizio Enobarbo. Il monumento, di forma rettangolare, è decorato su ogni lato da un rilievo inquadrato da pilastrini: tre lastre in marmo microasiatico illustrano un tema mitologico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta in marmo pario rappresenta un tema romano, lo svolgimento di un censimento e del sacrificio a Marte. I rilievi di soggetto marittimo sono più antichi e giunsero probabilmente a Roma dalla Grecia come bottino bellico. L'iconografia, molto scrupolosa nel riprodurre diversi aspetti delle procedure e dei costumi militari romani del tempo, condivide lo stesso linguaggio di molti rilievi votivi greci ellenistici, caratterizzati dall'applicazione di una moderata gerarchia delle proporzioni. La scena riproduce con cura i momenti salienti di una cerimonia di Stato che si ripeteva ogni cinque anni nel Campo Marzio di Roma. Di per sé il rilievo intendeva rendere subito riconoscibile il rito romano, ma può essere considerato anche una rappresentazione storica? Per rispondere si deve guardare allo scopo dell'immagine che non era di mostrare il funzionamento ideale di una cerimonia pubblica, ma di celebrare il censore stesso, ossia il (probabile) committente del monumento, per mezzo del quale egli intendeva comunicare che l'edificio in cui la base si trovava era stato da lui realizzato mentre era in carica. Nel quasi generale naufragio della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell'attività dei triumviri monetali che nel corso del secolo | a.C. scelsero spesso di rappresentare le vicende delle proprie famiglie sulle monete coniate in loro nome. Riconosciamo così molte grandi figure della storia romana, come Numa Pompilio, A. Postumio Albino, M. Claudio Marcello, M. Emilio Lepido, L. Emilio Paolo e L. Comelio Silla. Vi sono molte immagini che documentano l'esistenza di un ricco patrimonio di scene storiche gentilizie, che perse di attualità in età imperiale, lasciando però come eredità schemi figurativi e consuetudine a simili narrazioni. Lo stretto collegamento tra queste memorie familiari e i monumenti pubblici è inoltre documentato dal “fregio” scultoreo della basilica Emilia. L’età di Traiano I monumenti di età traianea testimoniano più di altri la centralità delle immagini nella comunicazione di vittorie e provvedimenti imperiali e nella celebrazione dell'imperatore. > Colonna Traiana: l'invenzione della colonna coclide istoriata diede l'opportunità di costruire un racconto continuo delle guerre, offrendo una versione artisticamente colta della tradizione della pittura trionfale, trasformata in monumento perenne dalla realizzazione in marmo. Le 2 guerre daciche sono presentate rispettando la sequenza annuale degli eventi e indicando molti dettagli topografici, descrivendo fedelmente costumi, armi e tattiche militari di entrambe le parti. La narrazione si sviluppa introducendo molte scene convenzionali che dovevano aiutare lo spettatore a orientarsi meglio nel racconto. Il racconto è manipolato e ciò si coglie in un episodio: viene raffigurata la figura di Traiano che svolge di persona svolge compito di timoniere in una flotta di soccorso. L'illustrazione vuole comunicare un messaggio: Traiano è il timoniere che guida il suo esercito così come regge il timone dello Stato. Un altro aspetto da sottolineare è costituito dalla profondità di campo delle scene, ottenuta con la prospettiva a volo d'uccello, la rappresentazione simbolica dello spazio per la quale ciò che in un rilievo si trova più lontano dallo spettatore, e dovrebbe quindi essere posto in secondo piano, è invece spostato verso il margine superiore, dando l'impressione di essere visto dall'alto. > “Grande fregio” di Traiano è un rilievo monumentale reimpiegato in gran parte nell'arco di Costantino. Rispetto alla colonna, in cui Traiano era presentato come il “bravo generale" che organizza l'esercito, lo motiva, lo premia e non mette mai a rischio la sua vita in prima linea, il “grande fregio” riafferma nello scontro equestre la virtus personale dell’imperatore, paragonandolo ad Alessandro Magno. Evoca la conquista della Dacia. > Il trofeo (Tropaeum Traiani) terzo importante monumento traianeo, dedicato a Marte Ultore nel 109 a.c e realizzato in mesia. La guerra è rappresentata in una serie di 54 metope del fregio dorico sulla sommità del tamburo dell'edificio. Le metope celebravano la vittoria dacica nel complesso, in modo molto semplificato e influenzato dalla tradizione locale nella resa delle figure. I monumenti di Stato traianei affiancano all'esaltazione della vittoria anche la rappresentazione dei meriti civici dell'imperatore e della sua generosità verso i sudditi. Arco di Benevento: l'arco beneventano costituisce il culmine del processo di accrescimento della decorazione figurata dei monumenti pubblici nonché il documento dell'estrema sofisticazione del linguaggio del panegirico imperiale, che intendeva far scaturire dall'insieme dei vari rilievi, ciascuno con una scena in sé conclusa e riferita alla biografia del principe, l'illustrazione complessiva della sua politica provvidenziale dall'inizio del suo regno. I rilievi del fomice di passaggio dell'arco illustravano la providentia imperiale verso l’Italia: ad es. institutio alimentaria nella scena in cui Traiano distribuiva gli alimenta a padri e figli. Continuità e differenze da Adriano a Marco Aurelio Il legame con il trionfo rimane. | rilievi urbani si concentrarono su nuovi soggetti: i tondi adrianei raccontavano per esempio un tema inedito per l'arte ufficiale come quello venatorio, di per sé pertinente al mondo dell'otium, ma adottato da Adriano quale testimonianza del suo coraggio personale (virtus), del suo amore per la caccia e forse anche per emulare Alessandro Magno. La cronaca di una caccia multipla si dispiegava in rilievi alternanti le scene venatorie a quelle di sacrificio, collegate tra loro dalla rappresentazione della stessa presa, prima cacciata e poi offerta alla divinità. Altro tema che ebbe più spazio fu l'apoteosi degli imperatori defunti. * ll“monumento partico” di Efeso prova che le singole città dell'Impero continuavano a dimostrare la propria lealtà alla famiglia imperiale, celebrandone le imprese mediante rappresentazioni storiche. Durante il secolo Il d.C. anche lo sviluppo di una forma di racconto suddivisa in una serie di rilievi, ciascuno dedicato a un momento esemplare della narrazione, mostra il prevalere della componente allegorica su quella più narrativa anche nei resoconti strettamente bellici. Almeno 12 rilievi decoravano in origine un arco eretto per Marco Aurelio nei pressi della curia lulia. 8 di questi sono stati reimpiegati nell'arco di Costantino. | rilievi, soffermandosi sulle cerimonie e sulle virtù personali di Marco (devozione, clemenza..), inscenavano una sorta di campagna militare ideale, con tappe ormai prestabilite e in assenza di ogni riferimento a episodi bellici specifici, salvo forse la designazione del re vassallo, come se la ripetizione di determinate azioni fosse diventata più Importante del singolo e risolutivo a livello militare. Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella colonna Aureliana. Nella nuova colonna coclide le guerre danubiane combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene esemplari e cerimoniali sembrano talvolta inserite soprattutto per illustrare un ruolo e virtù dell'imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto, privo di quei nessi interni caratteristici della colonna Traiana, come se si volesse creare un effetto di ridondanza proprio insistendo sulla ripetizione di determinate azioni. Dai Severi al Tardoantico: nuovi linguaggi La nuova dinastia, bisognosa di legittimazione, diede grande rilievo alla celebrazione delle proprie vittorie, a Roma, Napoli e nella natia Africa. Il più importante monumento urbano fu l'arco di Settimio Severo eretto nel foro romano per celebrare la guerra partica: 4 grandi pannelli furono posti, 2 per facciata, sui fornici laterali per rappresentare ciascuno la presa di una città partica nemica. Su questi il racconto procede dal basso verso l'alto e perlopiù da sinistra a destra e sembra quasi voler trasportare sulla superficie dell'arco il tipo di narrazione continua spiraliforme adottato nelle colonne coclidi, come se il prestigio di quelle avesse indotto a emularne l'aspetto. Le scene mettevano inoltre in evidenza l'organizzazione dell'esercito romano rispetto al caos del nemico. Nei pannelli dell'arco di Settimio Severo la funzione divulgativa attribuita a queste scene storiche non le trasformava in reportage della guerra o in fonti documentarie nel senso moderno del termine. La selezione degli episodi di contorno associati alle grandi scene d'assedio conferma inoltre l'idea che il racconto di una campagna militare vittoriosa dovesse ormai necessariamente prevedere la ripetizione di alcune situazioni fisse. La presentazione per lo più frontale dell’imperatore (come ad es. nell’arco di leptis Magna) contrapposta alla massa dei suoi soldati era un ulteriore effetto dell'accentuazione della componente simbolica già rilevata per l'età aureliana e si rifletteva sempre di più sulle strategie compositive. Nel periodo dopo i Severi, le testimonianze concrete di nuove rappresentazioni storiche diminuiscono. Nel secolo IV d.C. Roma aveva cessato di essere l'unico centro dell'Impero. La suddivisione del potere tra i componenti della tetrarchia ebbe come esito anche la scelta di nuove “capitali”, oggetto di programmi edilizi ambiziosi per adeguarle al ruolo di residenze imperiali. A Tessalonica (Salonicco), intorno al 303 d.C., Galerio fece costruire una sorta di doppio tetrapilo che serviva da padiglione d’ingresso e di smistamento tra il palazzo e la Rotonda in corso di costruzione. I rilievi presentano la guerra condotta in Assiria e in Armenia e conclusa nel 298 d.C., altemando episodi specifici, come la cattura dell'harem persiano, scene ormai tradizionali in questi racconti bellici (battaglie, clemenza e sottomissione) e altre invece celebrative della tetrarchia nel suo complesso — in particolare il legame tra Galerio e il suo Augusto, Diocleziano, effigiati insieme in una scena di sacrificio. In seguito toccherà alla nuova Roma, Costantinopoli, accogliere gli ultimi esempi di monumenti ufficiali decorati da rilievi storici: la colonna coclide istoriata fu riportata in auge a imitazione di Roma da Teodosio | e dal figlio Arcadio nell'omonimo foro, ma di entrambe si conservano oggi solo pochi frammenti. Sopravvive invece il basamento dell'obelisco collocato nell'ippodromo di Costantinopoli nel 390-392 per celebrare la vittoria di Teodosio | sull'usurpatore Magno Massimo e composto da due basi sovrapposte. Quella superiore presenta quattro rilievi, nei quali in alto è ripetuta la raffigurazione frontale del gruppo imperiale isolato in un loggiato o in un palco e fiancheggiato da guardie e funzionari dietro transenne, mentre in basso appaiono barbari inginocchiati oppure spettatori dei giochi accompagnati dall'esibizione di danzatori al suono di flauti e organi. La base inferiore ospita invece le iscrizioni di dedica e alcune vivaci scene narrative fedeli alla tradizione più didascalica dei monumenti di Stato. CAP. 11 RITRATTI | ritratti furono moltissimi, sotto forma di statue, erme e busti di vario formato, dal colossale alla miniatura e in tanti materiali, per non parlare delle immagini a rilievo su monete, sigilli, cammei, gemme e vetri e di quelle dipinte. I ritratti si trovavano ovunque: in aree pubbliche, come fori, santuari, ninfei, teatri e terme, negli accampamenti militari, in spazi corporativi a carattere semipubblico di collegi, in abitazioni e sepolcri. | ritratti non erano destinati a una fruizione estetica, ma costituivano uno degli onori più adatti a perpetuare la memoria di uomini benemeriti. Le dediche offrivano una chance di presentazione pubblica anche a cerchie altrimenti impossibilitate a farlo per mezzo della statuaria, come soldati, schiavi e liberti, malgrado di norma il testo delle iscrizioni dia solo scame indicazioni funzionali sul dedicante e di rado contribuisca a esaltarlo. Molte sono le opere conosciute, ma ben più gravi le perdite. | quasi trecento ritratti a tutto tondo di Augusto conservati formano una quota minima dei venticinquemila/cinquantamila ipotizzati. Ritratti dipinti Oltre ai ritratti del Fayyum (necropoli dell'egitto romano ha offerto un vasto repertorio di ritratti dipinti funerari), è celebre un frammento di affresco in età neroniana proveniente da Pompei: i probabili abitanti della dimora si presentano, lui come cittadino romano, con il rotolo nelle mani che sottolinea il possesso della cittadinanza e quindi il livello sociale raggiunti, lei con tavoletta cerata e stilo alle labbra, probabilmente nell'atto di svolgere attività di computo connesse con l'amministrazione e l'economia della casa o delle proprietà di famiglia. Un’officina al lavoro Alcuni rilievi illustrano i ritrattisti al lavoro: un esempio da Efeso mostra un'officina con un team di scalpellini, uno intento a lavorare un busto con himation (mantello) e un altro davanti a una statua intera abbigliata allo stesso modo. Sin qui si è parlato di un'esigenza di preservazione dell’individualità tanto ben ottenibile nelle cere da non potere restare senza conseguenze almeno sui principi costitutivi della ritrattistica in bronzo e in marmo della Repubblica. Si possono però cogliere più concreti riflessi delle prime sulla seconda almeno nell'uso di determinate formule ritrattistiche? Per rispondere, bisogna prima figurarsi l'aspetto delle imagines maiorum: uomini in là con l'età, dai quaranta in su, immaginabili con sguardi impassibili e ammonitori, senza pathos e a bocca chiusa, un po' come sul “togato Barberini". Poiché il ricordo che l'uomo lascia di sé è importantissimo, Plinio il vecchio in una tirata moralistica lamenta come la perdita di valore della personalità individuale si rivelasse ai suoi giomi principalmente nella preferenza conferita alla materia preziosa più che alla propria immagine, alla quale si rinunciava anche a favore di quella altrui. Il ritratto in epoca imperiale (secoli I-VI d.C.) Dal primo periodo imperiale, specie a Roma, le possibilità rappresentative dell’élite si restrinsero a causa degli imperatori, onnipresenti con i loro palazzi luoghi ed edifici di culto, sepolture e statue. Augusto riassunse nella hall of fame del suo foro gli avi e i protagonisti dell'intera storia romana, presenti sotto forma di statue in marmo accompagnate da elogia e offerte come modello ai propri concittadini. Il riconoscimento dei volti di imperatori, imperatrici, principi e membri della famiglia imperiale, oltre che dai contesti archeologici, dalle iscrizioni e dalle rappresentazioni storiche, è stato per lo più reso possibile dai confronti con quelli presenti di profilo sulle monete (ben datate); le incertezze persistono per gli imperatori effimeri del secolo III e poi per alcuni del IV d.C. | ritratti erano replicati in tantissimi esemplari, dalla cui trama, costitutiva di un tipo, si ricava il modello comune. L'accostamento delle repliche consente di ottenere un'idea dell'archetipo perduto alla base, in gesso, cera o terracotta, affidato a un artista di corte, approvato dall'imperatore, rapidamente diffuso per mezzo di calchi e riprodotto con fedeltà specie nelle proporzioni del viso, nella linea del profilo e nei motivi della chioma grazie al metodo della traslazione dei punti come nella scultura “ideale”. | tipi creati prima dell'assunzione del potere e durante il governo degli imperatori, che oggi recano nomi convenzionali, sono ben distinguibili specie nei secoli |-Il d.C. Augusto ne vanta cinque, Traiano sei, Adriano otto, Marco Aurelio quattro, per non parlare dei nove di Faustina Minore in connessione con le nascite dei tanti figli. Le singole elaborazioni successive con un restyling più o meno radicale, concernente in particolare l'acconciatura, paiono coincidere con eventi di rilievo come: ascesa al potere, matrimonio, nascite nella famiglia imperiale, ritorno da campagne militari, trionfo, decennali del regno e così via. L'esame di ogni opera da parte degli studiosi verte in particolare sulla chioma e sul preciso conteggio delle ciocche; ben più della faccia, per gli Antichi specchio del carattere, è proprio lo studio della capigliatura a offrire comodi criteri per la definizione dei tipi. Se gli archeologi sono diventati tanto sensibili alle acconciature, lo erano anche gli imperatori, tanto nei ritratti quanto nella realtà. Domiziano, bello in gioventù, ma con il tempo frustrato dalla calvizie e poco incline a scherzarci su, divenne tanto ossessionato dalla cura dei capelli da scrivere sull'argomento un trattato dedicato a un amico con lo stesso “problema”; Otone, anch'esso calvo, portava una parrucca tanto ben fatta e perfettamente sistemata che nessuno se ne accorgeva. Mimiche e chiome, insieme, rispondevano a una strategia di comunicazione, perché l'ascesa al potere e la conferma nel ruolo dipendevano anche dalla costruzione dell'immagine, ieri come oggi. Caracalla, smanioso di assomigliare ad Alessandro Magno, aveva fatto innalzare numerose statue di se stesso, tra cui alcune, risibili, fatte di un solo corpo con un'unica testa a due facce: da una parte la sua, dall'altra quella del Macedone. Con le chiome si poteva volere enfatizzare la continuità con l'imperatore precedente a fini legittimanti, come ad es. nel secondo tipo del ritratto di Settimio Severo, molto simile per acconciatura a Marco Aurelio; o distaccarsi nettamente dal predecessore, come Vespasiano, la cui calvizie ostentata spicca ancora di più di fronte alla chioma affettata di Nerone. Ritratti di privati Come gli imperatori, i privati potevano essere raffigurati più volte, grazie allo stesso modello realizzato da officine di eccellente qualità. Come distribuire i privati in griglie cronologiche? A parte il discrimine generale dell'indicazione di pupilla e iride con il trapano, una novità riscontrabile dal 130 d.C. circa in poi, e il taglio dei busti, di dimensioni sempre più grandi, le datazioni si possono ricavare dall'esame stilistico. Parecchi ritratti privati di ogni età rivelano, per fortuna, grandi affinità con quelli degli imperatori e, nel caso di personaggi femminili, delle imperatrici, non limitate alla chioma, ma estese fino alle componenti del volto e alle formule mimiche. Può però accadere che si continuassero a riproporre mode del vicino passato, come per l'acconciatura di Nerone in voga sino all'età adrianea. Il fenomeno si intensificò specie sotto Traiano: la moda dei “piccoli Traiani” realizzati in officine non di prima qualità persistette per l'intero secolo Il d.C. Nella ricerca, l'aspetto in parte uniforme dei privati durante il governo di un dato imperatore è ora battezzato con il termine inglese di “assimilated portraiture” e tedesco di “Bildnisangleichung”. Perché il desiderio di imitare? Il volontario conformismo figurativo rispondeva a una moda, con l'accettazione dei “grandi” quali modelli, per cui, senza uno specifico attributo o la conoscenza del contesto di rinvenimento, gli archeologi a volte riescono a stento a distinguere tra honorati privati e imperatori. In che misura gli antichi volti scolpiti e dipinti si avvicinavano oggettivamente agli effigiati? Nell'arte greco-romana, ritrattistica e somiglianza sono sinonimi. Non era affatto semplice creare un ritratto che conservasse la somiglianza secondo natura (similitudo ex vero), tanto più quando si dovevano eseguire quelli di personaggi del passato basati su una imago già disponibile, compiendo di conseguenza un imitazione di un'imitazione: ciò era esattamente quel che accadeva pure con i visi degli imperatori, duplicati anche in luoghi che non li videro mai dal vivo. Non sorprende che le descrizioni antiche e in particolare le annotazioni di Svetonio sull'aspetto fisico degli imperatori all'interno delle loro biografie non possano essere del tutto sovrapponibili ai ritratti, visto che gli intenti di un testo e delle immagini divergono, quantunque entrambi i “generi” condividano il fatto di non puntare a descrizioni oggettive e fotografiche: per il biografo, la bellezza, pur mai “idealizzata”, appartiene ai migliori imperatori, mentre la laidezza morale implica anche quella fisica. Secondo lui Augusto aveva il naso sporgente in alto e ricurvo in basso, un tratto in effetti ricorrente sui tre tipi chiamati “Alcudia”, “Louvre MA 1280" e “Prima Porta”; inoltre il suo viso emanava calma e serenità, altra peculiarità ben ravvisabile specie sul tipo principale e di maggiore successo per tutta l'età giulio-claudia, il “Prima Porta”, appunto. Alla somiglianza potevano concorrere anche i colori. | marmi erano colorati, ed è un peccato che solo pochi esemplari con tracce di pigmenti, rivalorizzate anche tramite analisi tecniche, abbiano consentito almeno ricostruzioni pur discutibili, come per un ritratto di Caligola alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, con residui di nero su capelli, sopracciglia, ciglia e pupille e con tracce di colore tra il rosa e il rosso su bocca e ghiandole lacrimali nonché lungo i margini delle palpebre. | ritratti non documentavano in modo pedissequo il trascorrere degli anni e, se tenevano conto del fattore temporale, era semmai per negarlo ringiovanendo i volti, come poteva capitare alle effigi postume. Anche le iscrizioni collegate alle statue tacciono sull'età degli effigiati, malgrado eccezioni, come a Volubilis, capitale della provincia di Mauritiana Tingitana. Qui parecchie epigrafi sulle basi di statue dedicate (postume) dai parenti stretti nel foro e in altri luoghi di rilievo precisano l'età dei membri di famiglie municipali prematuramente scomparsi (sotto i venti o venticinque anni), in quanto la immatura mors aveva loro impedito di rivestire le cariche pubbliche previste dalle aspettative sociali; indicare l'età equivale in tal caso ad addurre una sorta di scusante per imprese e benemerenze non compiute. Al conseguimento della somiglianza nella ritrattistica si frapponevano altri ostacoli, e determinate classi di individui. Le donne esigevano dai pittori di risultare più belle di quanto fossero. Maggiore esattezza era però ricercata nella resa delle loro acconciature, denotanti l'amore per il luxus. Infine, talora non si raggiungeva la somiglianza semplicemente perché i ritratti erano mal eseguiti. Somigliante o meno, la ritrattistica sino al secolo III d.C. inoltrato mantenne un aspetto naturalistico. Un tramonto della coerenza organica a favore di modi più astratti si verificò dalla fine del secolo III d.C. e in particolare a partire dal ritratto pacato di Costantino, un modello poi vincolante per i successori, a fatica distinguibili l'uno dall'altro. Di qui la riduzione dei tratti più personalizzati e la trasformazione dei volti in maschere immobili e imperturbabili dalle grandi superfici lisce e dai grandi occhi spalancati, con il progressivo viraggio verso forme semplificate e schematizzate, anche nelle chiome. Alla testa era affidato il compito di esprimere la personale identità di un effigiato; ciò spiega sia la popolarità della raffigurazione abbreviata a erma o a busto, formato facilmente maneggevole, sia la disinvolta pratica ben documentata in epoca imperiale di aggiungere una nuova testa a vecchie statue. I corpi dei ritratti e i tipi statuari Le statue erano ancora più distanti dalle individuali caratteristiche dei corpi e si attenevano a un ristretto ma flessibile vocabolario di vestiari, schemi iconografici e gesti, che assieme agli attributi contribuivano a visualizzare rango e ruoli degli effigiati, con disparati gradi di aderenza ai costumi reali. La toga, appropriata per le immagini negli spazi civili, in particolare fori, assurse a costume nazionale e a segno dello stato cittadino romano, indossata sopra la tunica, un indumento non marcato usato in modo invece esclusivo dagli schiavi e dal “popolino”; il mantello fu invece un simbolo di grecità e paideia; ma gli imperatori anche in Oriente, nelle statue portavano sempre la toga. Le toghe erano dotate di complementi cromatici per segnalare il livello sociale degli onorati: una magistratura era indicata dai clavi (strisce di color porpora), e si conoscono anche esempi dove il colore rosso ricopre tutta la toga. - In età imperiale la toga prevede quali componenti caratterizzanti balteus, umbo, sinus e lacinia. - Dai secoli II-IIl le statue togate conobbero modifiche nella parte superiore, con una fascia rigida che attraversa orizzontalmente il petto formando la “toga contabulata”. Un costume sempre calato nella realtà era quello della statua con lorica, corta tunica e paludamentum affibbiato (mantello generale), consona alla rappresentazione di individui dotati di comando militare, imperatori e membri della famiglia imperiale e della più alta élite; la lorica nei tipi a corazza anatomica e a corsetto cilindrico, poté trasformarsi in medium figurativo per ricevere una ricca decorazione a rilievo. Le statue equestri, mutuate dal mondo greco, erano un massimo onore, e nell'Urbe solo gli imperatori potevano riceverne una. La statua equestre era concessa invece nei municipi e nelle colonie a personaggi di rango equestre o senatorio. Plinio il vecchio sottolinea l'uso romano e militare della corazza, contrariamente all'abitudine greca che non prevedeva alcuna copertura del corpo; ma anche le statue nude, definite “achillee” sul modello degli Sia le copie stricto sensu di capolavori sia le numerose rielaborazioni o ricreazioni in stile facevano del resto parte dello stesso fenomeno di appropriazione cosciente della tradizione greca. Si dovrebbe semmai distinguere la ricerca dello stile personale dei grandi scultori greci, un traguardo troppo ambizioso almeno a partire dalla documentazione esistente, da un obiettivo difficile ma perseguibile, come la ricostruzione di quali tipi statuari facessero parte del repertorio noto agli scultori in età imperiale. Storia e contesti Tra i secoli III e Il a.C., si sviluppò una letteratura critica che individuò negli scultori “classici” i maestri da imitare o ai quali rifarsi, creando le premesse di un fenomeno consapevolmente imitativo. Uno degli esempi più antichi è la statua in marmo dell'Atena Parthenos collocata nella biblioteca di Pergamo all'interno del santuario di Atena Nikephoros, chiaramente ispirata all'opera crisoelefantina fidiaca, ma molto ridotta di scala e realizzata con una tecnica meno costosa. Il regno di Pergamo sembra quindi essere stato all'avanguardia in questo campo. Anche le officine attiche furono subito molto attive: nelle firme degli artisti l'etnico athenaios era un marchio di qualità, e non è poi un caso che parecchie sculture nell'agorà e sull’Acropoli di Atene, mete per eccellenza dei viaggiatori antichi in Attica siano state replicate. | carichi dei relitti di Mahdia e Anticitera illustrano la vitalità del commercio di opere d’arte tra i secoli Il e | a.C., comprendente originali greci più antichi, ma anche opere nuove realizzate appositamente per il mercato romano. Le officine erano ancora dislocate nel mondo greco, ma ormai lavoravano per esportare verso l’Italia. Negli stessi anni, mentre le officine greche rifomivano i collezionisti romani, avvenne anche in Italia un vero e proprio salto di qualità nella produzione scultorea. Il nome più celebre è quello di Pasitele che, attivo nella prima metà del secolo | a.C., fu un artefice versatile e colto, in quanto conoscitore della storia dell'arte greca e dei suoi capolavori e autore di un trattato (perduto) in cinque libri sui “nobilia opera" in tutto il mondo. Pasitele e la sua “scuola” non furono però copisti in senso stretto, visto che essi preferirono semmai rielaborare i modelli greci, spartendo con le officine di copisti l'indispensabile familiarità con la coroplastica, necessaria per plasmare matrici, bozzetti e calchi, pronti per essere usati anche per realizzare sculture in marmo e in bronzo ed eventualmente per essere venduti a caro prezzo ad altre officine. A partire dalla seconda metà del secolo | a.C. le ville dell'aristocrazia romana cominciarono ad accogliere programmi decorativi sempre più complessi per accompagnare l'otium dei proprietari ansiosi di “vivere alla greca”, come nella Villa dei Papiri a Ercolano; l'arredo, messo in opera in gran parte nel 40-30 a.C., costituisce un caso esemplare sia per ricchezza e qualità artistica delle sculture sia per l'ambizione “intellettuale” della loro composizione. Nel programma decorativo convivono copie fedeli, varianti e libere rielaborazioni. Nel peristilio rettangolare possiamo verosimilmente riconoscere delle repliche nelle statue dei corridori pronti a scattare, nel satiro ebbro e in quello addormentato; sono invece ricreazioni “severizzanti" le cinque statue in bronzo con peplo e un Atena “Promachos” “arcaistica" in marmo. In ogni caso copie e rielaborazioni furono quindi accostate indistintamente per illustrare i temi legati a otium e negotium che caratterizzano la decorazione della villa, segno di quanto sia appunto difficile separare, almeno nei contesti d'uso, le copie fedeli dalle varianti o dalle creazioni “in stile", comunque esposte con pari dignità. Le statue della Villa dei Papiri sono utili a illustrare anche il processo di decontestualizzazione delle opere illustri greche, adattate a funzioni e significati nuovi, decisi dai committenti. E proprio nei nuovi contesti poterono dare un'ulteriore spinta a modificare i modelli per ottenere un adattamento migliore. La seconda metà del secolo | a.C. è l'epoca in cui molte officine greche si trasferirono o aprirono filiali in Italia, spesso in Campania dove trovarono le committenze più ricche. Nacquero anche officine specializzate in copie derivanti da modelli “classici”, frutto delle richieste del mercato romano, interessato soprattutto al repertorio figurativo attico; non bisogna però dimenticare l'attività di scultori come i rodi Atanadoro, Agesandro e Polidoro, capaci di usare un linguaggio ricco di pathos sia per realizzare sculture probabilmente del tutto nuove sia per rielaborare o replicare modelli celebri adattandoli a nuovi contesti, come avvenne nella grotta di Sperlonga. I bisogni di Augusto in funzione della trasformazione monumentale di Roma orientarono comunque in senso soprattutto “classicistico” le scelte del repertorio di tipi statuari, che, prima di diffondersi anche nei contesti privati, fu impiegato sia nell'arredo di nuovi edifici pubblici sia nelle statue onorarie. In età augustea il processo di appropriazione della scultura greca consentì la realizzazione di nuovi e autorevoli “nobilia opera” destinati a essere replicati a loro volta. Nel foro di Augusto l'esempio più significativo è la statua di culto di Marte Ultore realizzata per il tempio dedicato al dio e costruita grazie a un'attenta selezione dei modelli. La statua di culto del tempio augusteo s'ispirava chiaramente a modelli attici del secolo IV a.C. nel tipo di corazza anatomica, nel panneggio del mantello intorno alle spalle e nell'immagine barbata ed elmata del dio, che, scelta per alludere al suo ruolo paterno rivalutato da Augusto, si distaccava così dalla tradizione iconografica ellenistica che preferiva raffigurare Marte giovane e imberbe. L'atteggiamento stesso del dio e il tipo di elmo decorato da una sfinge citavano invece l'Athena Parthenos di Fidia nell'intento sia di costruire l'immagine di Marte nel linguaggio formale più elevato proprio delle statue di culto sia, forse, di attribuire al simulacro un ruolo analogo a quello della dea ad Atene. Villa Adriana a Tivoli A partire dall'età augustea sono spesso le ville imperiali a offrire una documentazione eccezionale del repertorio a disposizione degli scultori. Tra tutte emerge naturalmente Villa Adriana a Tivoli, la cui decorazione vide uno straordinario sforzo anche produttivo per realizzare le migliaia di statue impiegate. Si ritiene che nell'arredo scultoreo della villa vi sia stata una supervisione unitaria che spiega la coerenza delle scelte generali, e che le officine abbiano di norma rifinito le opere sul posto, visto che le lavorazioni tengono sempre conto della collocazione finale prevista. Lo studio dell'arredo è molto importante anche perché consente di riflettere sulle modalità espositive delle sculture, sulle loro associazioni reciproche e in particolare sul fenomeno della reduplicazione, una formula di attenzione ben attestata fin dalla prima età imperiale che implicava la collocazione di più repliche o varianti dello stesso modello nello stesso ambiente. La ricostruzione di contesti e programmi decorativi è dunque fondamentale per capire le ragioni stesse del favore di cui godevano queste sculture. A Tivoli, per esempio, all'illustrazione del tema del ginnasio partecipavano due repliche del Discobolo di Mirone e un gruppo eclettico raffigurante Apollo mentre insegnava a Giacinto proprio il lancio del disco creando così uno stretto legame tematico e forse anche un vero e proprio racconto, almeno se si tiene conto del collegamento stabilito in età imperiale tra il Discobolo e Giacinto. Altro spazio di grande interesse è l'area del Canopo, dove lungo il bacino si trovavano da un lato 4 cariatidi copie delle korai dell'Eretteo e 2 sileni canefori da modelli ellenistici e dall'altro 3 personificazioni fluviali, 2 tipi di amazzoni dal celebre “concorso” di Efeso e le figure di Mercurio e di un eroe guerriero replicanti il medesimo tipo statuario con attributi variati. Probabilmente l'insistenza sul tema del doppio, enfatizzato dalla presenza dell'acqua in cui le statue si riflettevano, si collega, oltre all'amore per la simmetria, anche a un gusto per le figure retoriche e la ridondanza che si inquadra bene nel periodo della nascente Seconda Sofistica. Non erano solo le ville ad accogliere programmi decorativi basati sui “nobilia opera”. Nel corso dell'età imperiale teatri e ninfei, con le loro facciate scenografiche, ginnasi, terme e biblioteche cominciarono a ospitare moltissime sculture tratte dallo stesso repertorio di domus e ville e variamente ricombinate tra loro sfruttando nicchie e porticati. In particolare nell'arredo scultoreo dei teatri si riconosce un progressivo incremento quantitativo e qualitativo delle copie. Dopo avere riprodotto un repertorio legato perlopiù al mondo bacchico o al culto imperiale, nel corso del secolo Il d.C. alcuni teatri cominciarono a offrire quasi delle piccole antologie dei “nobilia opera" più celebri, come Doriforo e amazzoni. | “nobilia opera” si trovavano in questo caso a fare da contomo, collocati per esempio sul pulpitum o tra le colonne del fronte scena, come nella fase adrianea del teatro di Corinto. L'ampia presenza di dei ed eroi potrebbe essere collegata all'importanza assunta dal pantomimo nei ludi. Anche le terme presentavano arredi scultorei ricchi e ambiziosi, nei quali prevalevano il mondo di Venere per il legame con l'acqua e quello del ginnasio per la presenza delle palestre; e anche qui non mancavano gli imperatori. Un caso estremamente interessante di reduplicazione e di attenzione alla scelta della collocazione e all'appropriatezza del soggetto al contesto è rappresentato da 2 grandi statue di Ercole in riposo nelle thermae Antoninianae. La decorazione dell'edificio era caratterizzata proprio dalla colossalità delle sculture e dal gusto per le iterazioni dei capolavori. La parte più impegnativa dell'arredo scultoreo fu riservata ai cortili porticati delle palestre segnalandone l'importanza nella gerarchia degli spazi. 1 2 tipi di Ercole furono affidati a due differenti officine: l'Ercole “famese”, alto 3.17 m, dipendente da un originale di Lisippo, firmato dallo scultore Glicone di Atene e ripreso anche in un capitello figurato, e l'Ercole oggi al piano terreno della Reggia di Caserta, ritenuto derivante da un archetipo tardo ellenistico, in cui la roccia su cui si appoggia la clava è sostituita dalla testa del toro di Creta. Essi furono collocati esattamente nei due intercolunni laterali del passaggio tra il frigidarium e la palestra ovest; così le statue mostravano a chi passava i punti di vista più efficaci, frontale e posteriore, senza indurre gli osservatori a soffermarsi troppo sui fianchi, ossia il punto più debole degli originali. Prassi scultorea L'importanza attribuita alle copie richiedeva fedeltà nel processo di produzione. Anche un solo errore poteva costringere all'abbandono di un intero blocco di marmo. Gli scultori ellenistici e imperiali avevano perciò elaborato metodi affidabili e piuttosto veloci, benché tecnicamente complessi, per ottenere una copia dell'originale. Il procedimento si basava in primo luogo sul possesso dei calchi degli originali da copiare, preferiti alle repliche in marmo per la maggiore maneggevolezza, e poi sul riporto dei punti dal modello alla copia mediante una forma di triangolazione. Nelle copie i punti di misurazione presi non erano moltissimi, e il resto era affidato all'occhio e all'abilità dello scultore, anche se calibri e altri strumenti potevano aiutare a rispettare le distanze esatte. Proprio la libertà di una parte del procedimento faceva quindi sì che le copie fossero di qualità diversa, facendo anche affiorare, oltre alle capacità personali degli artigiani, gli “stili d'epoca”, riconoscibili anche nel confronto con la ritrattistica contemporanea e nella lavorazione di panneggi, occhi, sopracciglia e ciocche. La copia augustea in marmo del Doriforo di Policleto dimostra che era possibile riformulare un celebre originale realizzato in bronzo anche in altri materiali, il che comportava comunque diversi adattamenti nel passaggio da un materiale all'altro e in particolare l'inserimento di sostegno strutturali di fianco ai piedi e puntelli per esempio tra il corpo e le braccia o i panneggi. La scultura romana, come quella greca, era policroma. Ciò vale anche per la scultura “ideale” e recenti studi hanno dimostrato l'importanza del colore come elemento sia di riproduzione dell'aspetto degli originali in bronzo sia di diversificazione reciproca nelle repliche in marmo. Stendere i colori sul marmo non era l'unica strategia per ottenere la policromia, poiché si potevano usare i marmi colorati, scelti anche per la preziosità o per l'elemento di novità così introdotto nella replica di un 2. Una seconda cesura si verifica verso la metà del secolo III a.C., dopo la prima guerra punica, quando si assiste a un ripiegamento su se stesse delle zone produttive di ceramica a vemice nera, con una proliferazione di officine anche di qualità, ma dai circuiti commerciali abbastanza ristretti. 3. Gli anni dopo la seconda guerra punica registrano una terza rottura, riflessa nell'esplosione della “Campana A” di Neapolis, città greca alleata di Roma fin dal 326 a.C. Rispetto al passato, il secolo IV a.C. presenta anche a livello ceramologico un salto di qualità con la nascita a Roma di officine di ceramica fine nella tradizione della ceramica a figure rosse, e nella tradizione della ceramica attica a vemice nera, progressivamente assente dai mercati. L'unica ceramica fine largamente esportata al di fuori dell'Italia è prodotta dall'officina o meglio da un insieme di officine note sotto il nome di “Gruppo dei Piccoli Stampigli”. | prodotti sono soprattutto forme aperte rivestite da una vemice nera, lucida, brillante e caratterizzate sul fondo da piccoli bolli (stampigli) all'inizio molto elaborati (palmette, rosette, più di rado elementi figurati). Alle stesse officine sono attribuiti anche i “pocola deorum": coppe, piatti o brocche, sui quali è sovradipinta la dedica a una divinità (seguita dalla parola pocolom, vaso) o con eventuale apposizione in bianco, in giallo, in rosso di una decorazione figurata. “Coppa di Eracle” Ai decenni dopo la metà del secolo Ill a.C. si assegna la produzione delle “Heraklesschalen” (“coppe di Ercole"): in tale categoria rientrano vasi di forme diverse, sempre a vernice nera, che portano impresso sul fondo un bollo raffigurante Eracle, e coppe ugualmente a vernice nera, a di qualità mediocre, che hanno sul fondo una “H", anch'esse da collegare al culto dell'eroe-dio. La tarda Repubblica (secoli II-I a.C.) Dopo il 200 a.C. dobbiamo lasciare Roma, perché è la ceramica a vernice nera di Neapolis (“Campana A") e quella dell'Etruria di Cales (‘Campana B") a diffondere quantità enormi di vasellame da mensa in Gallia, in Spagna, nel Nord-Africa, e — con circuiti più ridotti e volumi più contenuti — quella della Sicilia (“Campana C" da Siracusa e dintorni). “Campana A” Le officine localizzate a Neapolis conoscono un'esplosione produttiva dopo la seconda guerra punica. Il salto impressionante di scala si unisce alla nascita di forme diverse da quelle adottate in passato e all'assoluta standardizzazione del vasellame, con una ripetizione monotona e quasi obbligata di forme e schemi decorativi. “Campana B” Dagli inizi del secolo Il a.C. la “Campana B" è prodotta in Etruria, a Cales e in una certa quantità di imitazioni (“B-oidi") che denotano il successo del vasellame a pasta calcarea e con vemice nera o bluastra, brillante; una produzione che tende a imporsi sui mercati italici e transmarini. | vasi “a pareti sottili”, così chiamati per la sottigliezza del corpo ceramico, sono attestati dagli inizi del secolo Il a.C. nell'Italia centrale tirrenica e si distingue per forme lontane dalla tradizione ellenistica. Gli antecedenti vanno cercati nei vasi per bere dell'Italia settentrionale preromana e della Gallia, mentre il tipo più basso e panciuto ricorda vasi analoghi a vernice nera dell'Etruria. Roma conserva ancora un ruolo a livello sia di esportazione degli oggetti sia di modelli nella produzione delle lucerne. Si tratta del tipo chiamato “biconico dell'Esquilino” dal luogo di ritrovamento, realizzato al tornio, con corpo biconico e becco allungato con estremità rettilinea, verniciato di nero, generalmente privo di anse o con piccole prese laterali, il primo ad essere fabbricato nell'Italia centrale, nel Lazio e a Roma. Coevo è un altro tipo con corpo cilindrico o giobulare con le medesime caratteristiche del becco e con prese laterali in “Campana A”. Il ritardo con cui l'Italia centrale inizia a utilizzare le lucerne per l'illuminazione (e quindi l'olio d'oliva come mezzo) rispetto al mondo greco, ove esse erano già presenti dal secolo VII a.C., si spiega con la presenza di fonti alternative, come il sego, la cera d'api e il legno per fabbricare torce e con la volontà di non disperdere un bene prezioso per l'alimentazione come l'olio. L’età augustea e la prima e media età imperiale Nell'età augustea le province esportano verso il centro, in contrasto con il “miracolo economico" del periodo precedente = emancipazione delle province rispetto al centro sia nella produzione che nello sviluppo tecnologico. Dall'età antoniniana sino alla fine del secolo V d.C. l’Italia non produrrà, se non per uso locale o regionale, ceramica fine, sostituita sui mercati dalle sigillate galliche, orientali e, infine, africane, così come olio e vino solo per autoconsumo. La “rivoluzione” implica anche la “globalizzazione” della domanda e dell'offerta: la città riceve i beni più preziosi del mondo intero, dall'India, dall’Arabia Felice, da Babilonia. È l'Urbe a distribuire ricchezza e opulenza negli aurei anni degli Antonini, tempi in cui nessuno poteva prevedere a quale epilogo sarebbe andato incontro quel mondo, poiché — nelle conquiste e nella floridezza — oltre non era possibile spingersi. Ostia diventa con Claudio e poi con Traiano il porto di Roma. All'asse Puteoli/Alessandria, lungo il quale si era orientato il traffico marittimo repubblicano, subentra quello Roma/Cartagine, riflesso dall'emergere di forze incentrate su un modello diverso di produzione (famiglie di coloni su grandi latifondi; agricoltura estensiva e promiscua, volta a produrre grandi quantità di mercanzie di derrate per il mercato e per la domanda fuori del mercato; qualità sostituita dalla quantità). Un modello pervasivo che si generalizza, omologando le più diverse realtà, tra le quali l'Italia stessa. Diventa così possibile parlare di “meridionalizzazione”, ossia dello spostamento delle forze produttive e commerciali da un blocco geografico (Spagna, Italia, Gallia) a un altro (Africa settentrionale). La terra sigillata italica: prima (relativa) novità L'età augustea e protoimperiale sono dominate da una classe di vasi che dall'uso di punzoni (sigillum) per la sua decorazione prende il nome di terra sigillata italica, caratterizzata da un repertorio morfologico originale e da una brillante vemice rosso-corallina. La vemice rossa non è una novità, in quanto altri centri del Mediterraneo avevano già sperimentato tecnologie capaci di restituire a cottura un rivestimento di questo colore. Seconda novità Scompaiono quasi tutti i centri che avevano realizzato ceramica a vemice nera. Solo per Arezzo è possibile provare il passaggio dalle vernici nere a quelle rosse (sigillata aretina o arretina). Le officine, tutte urbane e concentrate in poche aree e con una produzione destinata a una massiccia esportazione, consistono nei casi di maggiore successo in stabilimenti medio-grandi, con elevato numero di lavoranti e alto grado di specializzazione nella suddivisione dei compiti. Per prime nascono le forme lisce. Le decorazioni nella produzione liscia sono ad appligues (piccoli rilievi in argilla modellata) con motivi vegetali, animali, mitologici sull'orlo, o “à la barbotine”. In età augustea inizia la produzione di calici, coppe su alto piede, bicchieri decorati a matrice: una controforma contiene sulle pareti interne in negativo, tratti da punzoni singoli, i motivi figurati e omamentali che si trasferiscono a rilievo all'esterno del vaso nella fase della modellazione al tomio. In seguito, l'impiego in Italia di matrici nella fabbricazione dei vasi era quasi del tutto scomparso, mentre in altri ambienti la possibilità di riprodurre in migliaia di esemplari lo stesso manufatto, unita a quella di valorizzare il prodotto con decorazioni raffinate a imitazione del vasellame in metallo, ne aveva determinato il successo. La sigillata aretina e i temi A eccezione della lupa con i gemelli e le corse circensi, i cicli figurati sono in gran parte mitologici, di volta in volta confrontati nella storia degli studi con opere di artisti tardo classici, con la toreutica attica del secolo IV a.C. e persino con la pittura. Intomo al 60 d.C. la produzione in alcune aree prosegue con la sigillata tardo-italica liscia, ma il repertorio morfologico si restringe a un numero ridotto di tipi, la bollatura è meno attestata, la qualità delle vernici e degli impasti è talvolta modesta e le decorazioni sono in genere “à la barbotine” o a rilievo applicato. La produzione a matrice riprende solo dopo l'80 d.C. (sigillata tardo-italica decorata), assumendo dal repertorio della Gallia Meridionale (sigillata sud-gallica) un tipo di grande coppa carenata e un secondo tipo di grande coppa emisferica e modificando i suoi registri decorativi a imitazione di quest'ultima classe: fregi a festone, ad arcate, a metope, sotto e dentro i quali compaiono soggetti figurati e non, ricavati da punzoni spesso ripetuti più volte e affastellati prescindendo dal loro valore semantico. Il decoro è sciatto, e i bolli sono apposti sul fondo del vaso in planta pedis o in una mezza luna, più raramente sulle parti esterne. La diffusione è unicamente marittima. La fine della produzione intomo alla metà del secolo Il d.C. è stata spiegata con la “concorrenza” delle classi ceramiche provinciali. Eppure, il crollo non riguarda solo le sigillate, ma anche altre classi di materiale e si accompagna nella seconda metà del secolo Il d.C. alla scomparsa dai contesti mediterranei dei prodotti dell'agricoltura intensiva sviluppatasi nell'Italia centrale tirrenica a partire dalla tarda Repubblica. Bicchieri, boccalini, piccole coppe, tazze in età augustea assumono forme di derivazione metallica e decorazioni “è la barbotine" con motivi eleganti e raffinati, incisioni a rotella e a pettine, costolature, decori ottenuti attraverso la sabbiatura, inserimento di perle in pasta vitrea. | centri di produzione dalla metà del secolo | a.C. sono distribuiti ora su quasi tutta la penisola, disponendo di mercati locali e regionali e, a seconda della posizione geografica delle officine, di mercati esteri preferenziali. I bicchieri di Aco = Classe intermedia tra le terre sigillate e la ceramica “a pareti sottili”. Prendono il nome dal ceramista più noto, derivati anch'essi da matrici: bicchieri di forma troncoconica caratterizzati da una decorazione a rilievo che consiste in triangolini lungo il corpo del vaso, in racemi vegetali, in archetti inscriventi figure di amorini e così via. Prodotta in quantità considerevoli in età proto- e medio-augustea in Italia settentrionale, è esportata su vasta scala in Gallia, negli accampamenti militari sul Reno, in Belgio, Carinzia, Spagna e in proporzioni minori anche in Arabia sud-occidentale, Palestina, Asia Minore. Le lucerne Nel periodo augusteo in Italia nuovi tipi di lucerna vengono prodotti in quantità senza confronto con i gruppi dell'età tardo repubblicana. | nuovi tipi sono accomunati da un becco triangolare affiancato da volute e dall'espansione — a danno della spalla — del disco, che diventa il luogo di motivi decorativi eleganti. Si creano luceme a più becchi; si cura la decorazione anche delle anse che bilanciano il peso della vasca, come avviene nelle lucerne in metallo; le firme dei ceramisti sono incise sul fondo a stilo, a mano libera. Con l'età flavia si delinea la tendenza all'autonomia delle province dalle importazioni dall'Italia, con progressivo scadimento decorativo. Le lucerne La tecnica a matrice non è solo appannaggio della sigillata “C", ma interessa altri manufatti africani in argilla rossa: i vasetti per oli profumati e le brocche antropomorfe dei secoli II-Ill d.C., realizzate nelle officine di lucerne dei Satumini e dei Pullaeni; la ceramica detta di Navigius dal nome del ceramista più noto, specializzata nella fabbricazione di brocche a forme di teste maschili e femminili nonché di bottiglie decorate con motivo di vario genere. 2 sono le forme principali prodotte in sigillata: 1. La prima, con numerose varianti, presenta un corpo ovoide, un disco leggermente concavo unito al becco da un canale, una spalla convessa e Il un'ansa verticale piena o forata percorsa da scanalature che si prolungano sulla spalla e sul fondo, su cui sono apposti motivi decorativi o lettere isolate. 2. La seconda forma (l'’africana classica"), prodotta dall'inizio del secolo V d.C. al VII, ha il corpo e il disco rotondi, un lungo becco prominente e una spalla piatta e larga su cui si distende un numero vasto di motivi geometrici a matrice vegetali e figurati in serie o alternati; l'ansa piena è posta obliquamente sul disco, il fondo è anulare con rari bolli incisi. In generale le lucerne della Tunisia centrale sono caratterizzate da una pasta fine con “vernice” liscia di colore arancio chiaro, una decorazione molto accurata, con motivi ben disegnati di piccole dimensioni; quelle della Tunisia settentrionale hanno un'argilla più grossolana, “vemice"” rosso-mattone e decori più grandi. Sul disco sono scene mitologiche, bibliche e cristiane. Il vasellame in sigillata per i sette secoli di produzione è anonimo. Le più grandi e principali officine non si situano di norma nei centri urbani o periurbani, ma in villaggi, ville e fattorie sparsi nei territori dell'interno. Ciò darebbe credito all'ipotesi che la sigillata africana sia un fenomeno produttivo legato alle campagne piuttosto che alle città e sia cioè di carattere rurale. Sembra inoltre che gli impianti nelle città avvengano in epoca tarda e in edifici in rovina e in abbandono. Se è certa l'esistenza di una forma di artigianato urbano autonomo dai processi produttivi dell'agricoltura, è altrettanto certo che la diffusione della ceramica africana è da collegare ai prodotti agricoli. Si è talora accennato ai rapporti tra la ceramica e gli argenti, gli ossi lavorati, gli avori e i vetri per la forma dei recipienti, la scelta delle figurazioni, gli schemi decorativi, e ai collegamenti con pitture e mosaici; rapporti che però non si traducono quasi mai in pedisseque imitazioni, piuttosto in equivalenze; del resto, la decorazione a stampo appare un'originale invenzione degli artigiani africani, in parte debitrice di antiche tradizioni locali di natura popolare. Capitolo 17 — Il vetro Il vetro antico è in genere considerato una classe di materiale il cui studio richiede grande specializzazione. Questa convinzione, da superare, è in effetti giustificata da una serie di motivi. Negli scavi il vetro non è molto comune, perché anche nell'Antichità veniva riciclato; data la sua fragilità è quasi impossibile trovare esemplari più o meno interi, a meno che non si tratti di contesti funerari; le caratteristiche del materiale e le forme, spesso prodotte in centri diversi, non consentono in genere di risalire all'area di origine, al contrario di quanto avviene per la ceramica, definibile attraverso argille, vemici e repertori tipologici. Componenti del vetro e organizzazione della produzione Tecnologia La miscela delle materie prime dalle quali si otteneva il vetro, rimasta invariata tra la fine del millennio | a.C. e buona parte del millennio | d.C., prevedeva 2 componenti principali: la silice, presente in natura nelle sabbie e il natron, un minerale naturale composto da sodio, necessario ad abbassare la temperatura di fusione della sabbia, altrimenti troppo alta per la tecnologia antica, e a conservare il vetro nello stadio di viscosità che ne consentiva la lavorazione. Il vetro grezzo, ottenuto dalla fusione di sabbia e natron, veniva colato in lingotti o, una volta raffreddato, spaccato in blocchi informi e avviato nei siti che, dovendo semplicemente rifonderlo per dargli una forma finita, con l'eventuale aggiunta dei componenti necessari a colorarlo o a decolorarlo, non necessitavano di grandi impianti. Da questa breve introduzione emergono alcuni elementi che sono alla base della produzione vetraria antica: e la presenza di pochi centri specializzati = officine primarie; e la grande diffusione di piccoli impianti dotati di strutture più semplici per la realizzazione degli oggetti = officine secondarie; ® l’esistenza di una rete commerciale complessa destinata al trasporto di materiale grezzo. Se dunque l'installazione delle officine primarie fu condizionata dalla presenza della materia prima, quelle secondarie poterono impiantarsi dovunque vi fossero le condizioni e le esigenze per avviare un'attività artigianale. Nell'Antichità, così come oggi, il vetro veniva riciclato: questa prassi aveva un grande vantaggio economico e tecnico, in quanto l'aggiunta di materiale già lavorato consentiva da un lato di risparmiare sulle quantità di vetro grezzo e contribuiva dall'altro ad abbassare la temperatura di fusione. Origini Le officine del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente rappresentarono non solo la fonte principale di vetro grezzo: in Oriente, ad Alessandria, a Rodi, sulla costa levantina e all'interno erano anche le officine secondarie, grandi e famose produttrici di oggetti finiti. Solo all'inizio del millennio | d.C. le officine occidentali avviarono una consistente produzione autonoma. La tecnologia della produzione vetraria e la varietà delle tecniche decorative raggiunsero l'apice in età imperiale. Le più antiche testimonianze archeologiche sulla lavorazione del vetro risalgono al millennio III a.C. Non si tratta ancora di recipienti, ma di piccoli monili e intarsi che imitano le pietre preziose. I recipienti più antichi Si tratta di forme chiuse, di piccole dimensioni, destinate a contenere cosmetici, unguenti e profumi, che in mancanza di un repertorio specifico imitano la ceramica coeva, ma sono impreziositi dall'elemento della policromia. Il procedimento con il quale erano realizzati consisteva nel plasmare, all'estremità di un'asta metallica, un nucleo di sabbia, argilla e sostanze organiche, della forma grosso modo corrispondente alla parte interna del recipiente, e nel rivestirlo poi omogeneamente di vetro monocromo, al quale venivano applicati filamenti di colori diversi, spesso sagomati a zig-zag. La lavorazione si concludeva con l'aggiunta dell'orto, del fondo e delle anse, e con l'estrazione della massa interna. Le grandi innovazioni in età ellenistica A partire dal secolo III a.C. si moltiplicarono i centri produttori e si diffuse un nuovo repertorio di forme, di maggiori dimensioni, derivate da prototipi in argento e in ceramica. Cambiò anche la tecnica che, utilizzando matrici, consentiva una produzione più veloce e la realizzazione di esemplari anche complessi. Il vetro è in genere decolorato intenzionalmente, ma non mancano esemplari dai colori vivaci o con decorazioni dipinte. Anche l'oro è usato, o come pigmento, o in forma di lamina sottilissima, racchiusa tra due strati di vetro. Comparve in questo periodo anche il vetro policromo, ottenuto assemblando sezioni di canne con motivi e colori diversi. Nuovi passsi in avanti risalgono agli anni tra la metà del secolo Il e inizio | a.C. con le Officine dell'area costiera siro-palestinese. Qui cominciarono ad essere fabbricate coppe dal profilo molto essenziale, conico e poco più tardi emisferico, prive di decorazioni, eccetto scanalature e costolature. La loro realizzazione era facile e tanto veloce da non richiedere, secondo le stime, più di uno o due minuti. Dalla metà del secolo Il a.C. l'impiego del vetro si diffuse anche nei mosaici, consentendo di ottenere una gamma cromatica molto più ampia rispetto a quella possibile con pietre e ceramica. La rivoluzione in età augustea e lo sviluppo della produzione a Romae in Occidente nella prima età imperiale Anche nel campo della produzione vetraria l'età di Augusto segnò una svolta epocale. L'artigianato e il commercio, favoriti dal lungo periodo di pace, videro allora un'espansione senza precedenti, mentre la conquista dei regni ellenistici determinò un afflusso in Occidente di artigiani esperti anche nella lavorazione del vetro, portatori di una tradizione che aveva reso famosi i centri dell'Oriente e dell'Egitto. Nel corso di pochi decenni il patrimonio, e gli impianti vetrari si diffusero in Italia e nelle province occidentali, in un processo di emancipazione delle “periferie” che caratterizzò tutta l'economia antica. Da Strabone, il geografo di età augustea, si apprende che nelle officine di Roma erano avvenute innovazioni nel campo dei colori e della semplificazione dei processi esecutivi, tali da ridurre di molto il costo del vetro. | vetri che Strabone avrebbe potuto vedere erano quelli tipici del suo tempo, eseguiti con il metodo della semplice matrice: le coppe, con o senza costolature, di derivazione ellenistica, ma ora realizzate con colori smaglianti; i servizi da mensa ispirati alle argenterie e alla sigillata italica contemporanee; i vasi eseguiti nella tecnica del vetro mosaico, anch'essa di eredità ellenistica. Il vetro cammeo Si tratta di un vetro per lo più a 2 strati di colore contrastante, probabilmente lavorato secondo la tecnica della glittica, asportando lo strato superiore per creare raffigurazioni che risaltavano sul fondo scuro: celebri sono il “vaso Portland” o il “vaso blu” con eroti vendemmianti dalla nicchia di una camera sepolcrale a Pompei. Il vetro cammeo è molto raro: se ne conoscono attualmente poco meno di quattrocento esemplari e si stima che la produzione abbia superato di poco il migliaio. Per il 90% almeno degli esemplari noti si può infatti ricostruire una provenienza romana. Gli studi più recenti suggeriscono che la produzione abbia avuto una durata molto breve, dal 15 a.C. al 25 d.C. circa, svolgendosi in poche e piccole officine altamente specializzate. In vetro cammeo si realizzarono anche pannelli, destinati forse a essere inseriti nelle pitture parietali come pinakes o, piuttosto, a essere esposti in modo che la luce li attraversasse, per fare risaltare il colore del vetro di fondo. Materiale versatile per eccellenza, il vetro cominciò ora ad avere un ruolo importante anche in architettura. Infatti, con l’inizio dell'età imperiale si diffuse il vetro da finestra che, consentendo una maggiore introduzione di luce negli edifici pubblici e privati, determinò certamente non solo un notevole miglioramento nella qualità della vita, ma anche la possibilità di valorizzare i volumi e gli apparati decorativi degli interni. I grandi edifici termali di età imperiale disponevano dunque di ampie superfici vetrate, con lastre inserite in telai di legno fissati alle murature; il problema della dispersione di calore nelle sale riscaldate era risolto con sistemi di doppi vetri.
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