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Riassunto libro arte: una storia naturale e civile 3-4 fino al neoclassicismo, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto di tutte le opere trattate nel libro

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 09/05/2023

claus199
claus199 🇮🇹

4.6

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Scarica Riassunto libro arte: una storia naturale e civile 3-4 fino al neoclassicismo e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! INTRODUZIONE Jacob Burckhardt pubblicò nel 1860 un libro intitolato La civiltà del Rinascimento in Italia dove dimostra che tra il 400 e il 500 l’Italia, attraverso centri artistici come Firenze, Roma e Venezia, aveva vissuto una fase di rinascita grazie al recupero della cultura antica e allo studio della natura. Una rinascita che avrebbe rotto definitivamente con il passato medievale, in virtù di una visione del mondo antropocentrica andando a segnare l’inizio dell’era moderna. A mettere in discussione le posizioni di Burckhardt fu l’olandese Johan Huizinga sostenendo la profonda continuità tra il Medioevo e Rinascimento. Dal punto di vista storico è di norma la scoperta dell’America (1492) a segnare la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento: ciò non può funzionare in un’ottica storico-artistica. Giotto aveva troncato con la tradizione bizantina attorno al 1300 e con lui alcuni fanno partire l’Età rinascimentale, mentre in Inghilterra il Rinascimento inizia solo nel 500 e i suo vertice è nel teatro e nella poesia di Shakespeare. Anche se l’etimologia del termine rimanda a una “nuova nascita” dell’antico, spesso il Rinascimento ha finito con l’essere inteso come un semplice periodo di piena fioritura dell’uomo e delle arti. L’Italia del 400 e del 500 era divisa in tanti Stati che si facevano la guerra e i centri urbani erano di dimensioni minori, chiusi in delle mura. La passione per le lettere antiche si diffuse anche tra gli artisti. Agli inizi del 400, Brunelleschi e Donatello cominciarono a studiare le rovine di Roma e a capire che da lì poteva nascere un nuovo linguaggio attento alla realtà delle cose. L’architettura antica si fondava sulle razionali proporzioni degli edifici e le statue romane indicavano la via all’indagine della figura umana. L’arte del 400 avrebbe supplito all’assenza della pittura antica con l’invenzione della prospettiva: un messo per rendere la terza dimensione in uno spazio bidimensionale. Agli inizi del 500 con artisti come Leonardo, Raffaello, Michelangelo, lo studio dell'antico e della natura giuse a vertici tali che gli artisti successivi, per proporre qualcosa di nuovo, dovettero elaborare un linguaggio più artificioso che prese il nome di Manierismo. Tre secoli prima di Burckhardt ,era stato un pittore toscano i nome Giorgio Vasari a forgiare il concetto, se non il termine, di Rinascimento scrivendo le Vite de più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a tempi nostri (Firenze 1550 e 1568). In tale libro si tratteggia l’idea di una rinascita artistica occorsa tra i secoli XV e XVI in Italia e particolarmente a Firenze e Roma. Spesso nella storia dell’arte di sveglie il 1401 come data di inizio del Rinascimento, facendo riferimento al concorso vinto da Lorenzo Ghiberti per la seconda Porta del Battistero fiorentino. E’ tuttavia pericoloso voler individuare una data di nascita per un fenomeno complesso, con il quale si vuole classificare un certo periodo della storia dell’arte. I SEZIONE Il 400 è considerato di norma il secolo dell’Umanesimo e del Rinascimento, grazie alle novità che emersero proprio in Italia. A partire dalla seconda metà del 300 si diffuse in Europa un linguaggio artistico prezioso e aristocratico. Per definirlo si utilizza l’etichetta di Gotico internazionale che allude da un lato alla matrice gotica di questo stile e dall’altro alla sua inarrestabile propagazione resa possibile dai continui viaggi degli artisti e delle opere. I CAPITOLO->LE MINIATURE DEI FRATELLI DE LIMBOURG Nel castello di Chantilly,a nord di Parigi, si conserva il più bel codice miniato del tramonto del Medioevo: Le ricchissime ore del duca di Berry. Si tratta di un libro d’ore o breviario,cioè una raccolta di preghiere da recitare secondo diversi periodi dell’anno e del giorno. Il titolo del codice si riferisce all’eccezionale ricchezza del volume, corredato di preziose pagine miniate. -IL MESE DI APRILE:le immagini più significative del codice sono quelle dei dodici fogli di apertura , dove sono illustrate a tutta pagine le allegorie dei mesi dell’anno, riallacciandomi a un soggetto caro alla cultura medievale fin dall’Età romanica e qui interpretato con un timbro raffinatissimo. Aprile è rappresentato come il mese del fidanzamento. Nel semicerchio in alto è raffigurato un calendario astrologico, con il carro del sole al centro e la volta celeste con i segni zodiacali del mese: l’Ariete e il Toro. Tutto intorno si riconoscono delle piccole caselle vuote, dove avrebbero dovuto trovare posto le scritte dei giorni, dei mesi, dei segni zodiacali. Sotto si dipana una scena simbolica di quanto avviene nel corso del mese. Siamo in primavera, e l’episodio è quello di una nobile copia che, in primo piano, si scambia l’anello di fidanzamento, accompagnata da pochi spettatori. I protagonisti vestono elegantemente,alla moda; le acconciature e i corpi capo sono curiosi, gli abiti sono ornati e lunghi. La figura slanciata della fidanzata, con il collo allungato, le braccia sottili e la posa impostata su di un’ampia curva, ha tutte le caratteristiche di una statua gotica. Alle sue spalle, due giovani stanno raccogliendo fiori, dimostrando una passione per la natura. Sul fondo, sopra ad un’altura, c’è il castello del signore, una fortezza che è una dimora di lusso. A ridosso delle mura sorgono le case di un piccolo villaggio e poi, scendendo verso il primo piano,uno specchio d’acqua con una chiusa e un paio di barche di pescatorio, gli alberi, il prato. A destra si intravede la muratura di un palazzo merlato con il giardino. -IL MESE DI LUGLIO: il soggetto e i protagonisti cambiano ma l’interpretazione è sempre la stessa. Il calendario questa volta ha le didascalie, e i segni sono quelli del Cancro e del Leone. Nel caldo dell’estate la scena non è riservata agli svaghi del signore, ma al lavoro degli contadini. Sotto il controllo di un poderoso castello, contadini e pastori sono impegnati nella mietitura di un campo di grandi e nella tosatura delle pecore. Sono attività due e faticose ma i lavoratori sembrano lavorare per hobby o per divertimento. Con il cappello di paglia e la falce nella mano destra il contadino in veste bianca si atteggia in maniera aggraziata. La tosatura delle pecore è quasi una scusa per mettere in mostra i colori accesi del panneggio degli abiti dei pastori. In parallelo con questa visione idealizzata, una minuziosa attenzione per il mondo reale percorre l’intera scena: ovini, le spighe di grano, gli alberi. La novità sta nella rappresentazione del cielo che fa da sfondo alla cena; solitamente il fondale restava astratto. LO STILE CORTESE Il linguaggio adottato nelle miniature rispecchia uno stile cortese, nel senso che riflette i gusti raffinati del signore e della sua corte. Sul piano sociale denota un carattere laico e profano, in funzione del suo pubblico e dei suoi committenti, mentre su quello dello stile predilige i colori preziosi, l’attenzione nella moda, la fantasia ma anche un’indagine della natura che ritrae con attenzione. Scarsa o nulla è l’attenzione per la resa tridimensionale dello spazio, che mai è concepito con razionale concretezza. -LA MADONNA DELL’UMILTÀ’: l’iconografia prevede la raffigurazione della Vergine col Bambino seduta a terra elaborata da Simone Martini nel momento in cui era al servizio della corte pontificia di Avignone. Lo testimonia una lunetta affrescata per la cattedrale della città provenzale, nella quale si riconosce la Madonna seduta a terra, col Figlio sulle ginocchia e due angeli. Maria siede sul parto, ma poggia su vesti meravigliose in una perfetta sintesi dell’immaginario cortese. -LA MADONNA DELLA QUAGLIA DI PISANELLO (1420): troviamo Maria seduta a terra; il Figlio si inarca sul suo ginocchio come un piccolo leone, e due angeli la incoronano. Il pittore stremisca l’eleganza della figura principale, rendendone realisticamente la dolcezza delle carni e sottolineandone la posa attraverso la curva, tipicamente gotica, del panneggio del manto. Pisanello, da buon protagonista del Gotico internazionale, circonda Maria di uccelli e l’eleganza delle figure femminili, la lavorazione dell’oro degli angioletti nascosti nei alberi, le forme guizzanti del Bambino. -IL POLITTICO DI VALLE ROMITA (1410): il registro principale raffigura al centro l’Incoronazione della Vergine, dove i protagonisti principali (Gesù nell’atto di incoronare sua Madre) sembrano galleggiare sul fondo dorato, sovrastati dall’Eterno e da una selva di creature angeliche. Nei 4 scomparti laterali i santi Girolamo, Francesco, Domenico e Maria Maddalena assistono alla miracolosa visione su un prato fiorito, mentre sopra di loro vediamo 4 scenette in cui si riconoscono il Martirio di San Pietro martire, San Giovanni Battista nel deserto, le Stimmate di San Francesco e Sant’Antonio da Padova che legge. Svettante in guglie e pinnacolo, la cornice dorata rimanda al linguaggio gotico. Il pittore si concentra sulla brillantezza dei colori e ai loro accordi piuttosto che l'efferatezza del gesto, riservando una grande attenzione alla resa delle carni della mani e dei volti. -L’ADORAZIONE DEI MAGI (1423) Uffizi: l’opera più importante eseguita da Gentile per Firenze è una pala raffigurante l’Adorazione dei Magi, che reca la firma del pittore. A commissionarla fu Palla Strozzi: uno degli uomini più facoltosi di Firenze. Per questo personaggio Gentile eseguì la tavola che non è suddivisa in tanti scomparti occupati da singole figure, ma presenta un unico palcoscenico deputato a narrare una storia , senza espressa suddivisione tra una scena e l’altra. L’avventuroso romanzo inizia in alto a sinistra con i Magi che avvistano la stella cometa sul monte Vettore e prosegue nell’arcatella centrale con il lungo viaggio di sovrani orientali, accompagnati da una fastosa scorta. In primo piano si compie l’epilogo: giunti di fronte alla capanna di Betlemme, rischiarata dalla stessa, i Magi rendono omaggio al Bambino e alla Sacra famiglia. Alle loro spalle si accalca un affollato seguito che, preceduto dai ritratti di Palla Strozzi e del figlio Lorenzo, riunisce servitori fedeli, guardie, cavalcature, mastini, scimmiette. Si tratta di una scena di corte gremita di attori vestiti alla moda e rilucente d’oro, nella quale predomina un gusto per gli episodi divertenti, senza interesse per la visione tridimensionale e prospettica. -SAN GIOVANNI IN LATERANO: sul finire del 1425 Gentile da Fabriano si trasferì a Roma, dove il papa Martino V aveva grandi progetti. Gli fu commissionata la navata della Cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, un colossale ciclo di affreschi, che non è giunto a noi (decorazione distrutta per offrire un volto barocco progettato da Borromini). Un disegno tracciato testimonia il ciclo gentiliano,che al di sopra delle arcate della basilica proponeva due registri: uno narrativo con la successione di Storie del Battista, l’altro ornamentale e illusionistico, con una serie di figure di profeti dipinte al centro di tabernacolo gotici. Fu il suo miglior allievo, Pisanello, a concluderla. -PISANELLO,IL MONUMENTO BRENZONI: Antonio Pisano, soprannominato Pisanello, si chiamava così perché era nato in una famiglia originaria di Pisa ma trasferitasi a Verona, dove rimangono le sue opere più significative. All’interno della chiesa francescana di San Fermo, Pisanello lavorò per il monumento sepolcrale del veronese Niccolò Brenzoni. Il monumento è centrato sul gruppo scultoreo in marmo che raffigura la Resurrezione di Cristo, dovuto al maestro fiorentino (Nanni di Bartolo). Pisanello si occupò delle parti dipinte: la finta tappezzeria, il giardino gotico che incornicia il monumento, la scena dell’Annunciazione disposta ai lati del tendaggio aperto a proteggere la figura di Cristo come fosse una volta architettonica. La dipendenza dalla lezione di Gentile si riconosce nella tenerezza delle carni e nella raffinatezza cromatica della scena con la Vergine annunciata, che Pisanello fa accompagnare a un cagnolino e dispone entro un eburneo tempio gotico. Il monumento dimostra come maestri differenti per origine e specializzazione potessero facilmente dialogare e collaborare. -LA STORIA DI SAN GIORGIO E LA PRINCIPESSA: Pisanello affrescò sopra l'arcone d’ingresso della cappella della famiglia Pellegrini, nella chiesa domenicana veronese di Sant’Anastasia, una fiabesca Storia di San Giorgio e la principessa. Il pittore rappresenta il cavaliere Giorgio di fronte alla principessa, mentre sta salendo sul destriero con il quale andrà a fronteggiare il drago. E’ evidente che, nel raffigurare un simile episodio, l’artista privilegiò il registro cavalleresco rispetto a quello devoto. Pisanello alterna un registro avventuroso, sostenuto dai dettagli dei due impiccati e del drappello di cavalieri tra i quali da capolino un esotico mongolo, e uno più cortese, evidente nel nobile profilo della principessa con la fronte nuda e i capelli raccolti in una complicata acconciatura. -LA MEDAGLIA DI GIOVANNI VIII PALEOLOGO:Pisanello ritrasse il sovrano in quello che si crede essere stato il più antico modello di medaglia rinascimentale. Utilizzata come dono diplomatico o memoria da murare nelle donne azioni di chiese e castelli, la medaglia si impose come oggetto privato del signore e forma di autorappresentazione del potere, trovando in Pisanello il suo profeta. Al veronese si deve la norma di dedicare il diritto della medaglia a un ritratto di profilo, e il rovescio a un emblema o a un episodio narrativo. Tale consuetudine fu derivata dalla monete antiche. Nella medaglia di Giovanni VIII PALEOLOGO il diritto mostra il profilo barbuto dell’imperatore; nel rovescio Giovanni,accompagnati da un cavaliere visto di spalle, appare di fronte al crocifisso, cavalcando un cavallo. JACOPO DELLA QUERCIA: scultore che meglio seppe fare da ponte con il nuovo linguaggio rinascimentale. -LA TOMBA DI ILARIA DEL CARRETTO A LUCCA: Ilaria del Carretto aveva 26 anni quando morì di parto. Era la bellissima moglie del signore di Lucca Paolo Guinigi, che per lei volle un sepolcro in Duomo. Al monumento sepolcrale a parete di tipologia italiana, Jacopo preferì una tomba isolata di gusto borgognone. La defunta è distesa sul sarcofago con ai piedi un fedele cagnolino e si distingue per il naturalismo del volto incantevole e dall’ elegantissimo abito alla moda, solcato da pieghe affilate e chiuso sopra la gola dall’ altissimo colletto. Sui fianchi del sepolcro, in luogo dei nordici pleurants, corre un motivo di spiritelli reggifestone, nei quali Jacopo recupera un tema iconografico della scultura antica, interpretandolo con uno spirito gotico. -LA FONTE GAIA A SIENA (1408) piazza del campo: la fonte di Jacopo andò a completare il paesaggio della piazza trecentesca e per la sua decorazione si scelsero soggetti connessi con i temi civili espressi nel Palazzo Pubblico attraverso cicli di affreschi, come quello del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Essa appariva come un trono con ali aggettanti intorno alla vasca, al centro del quale sedeva la Vergine con il Figlio, accompagnata nella nicchie dalle Virtù. A chiudere la decorazione sui fianchi c’erano le scene della Creazione di Adamo e del Peccato originale, al di sopra delle quali si ergevano le statue di Rea Silivia e Acca Larentia, rispettivamente madre e nutrice di Romolo e Remo. La figura pagana di Acca Larentia si erge nuda, possente e gentile allo stesso tempo, con un figlio raccolto in braccio e l’altro in piedi. -PORTALE CENTRALE BASILICA DI SAN PETRONIO: allo scultore si deve il progetto del portale centrale. Egli riuscì a realizzare tutti i rilievi dei fianchi con Profeti e Storie dell’Antico Testamento. In quest’ultimo le figure umane si ergono sulla superi e liscia del fondo, a dare conto di un aggressivo plasticismo e facendo l’effetto di statue a tutto tondo. Lo si intende bene dalla scena del Peccato originale, dominata dai possenti nudi dei progenitori, affiancati all’albero del bene e del mali da cui spunta il serpente tentatore. Il giardino dell’Eden è spoglio, privo del prato fiorito. Jacopo riduce l’episodio ai soli protagonisti, inarcando il vigoroso Adamo in un fiero contrapposto creando un attrito di forze contrastanti per enfatizzare il movimento e l’espressione della figura. In questo caso particolare, dove il braccio destro si stira violentemente e la sottostante gamba si piega, mentre gli arti all’opposto rimangono in riposo. Perciò l’Adamo quercesco può essere considerato un antenato del David di Michelangelo. II SEZIONE L’umanista Coluccio Salutati all’inizio del 400 affermò che Firenze si proclamava erede dell’antica Repubblica romana e del suo modello di vivere civile, che prevedeva una forma antitirannica di governo e l’impegno di ogni cittadino per la difesa della materia e della libertà. Si parla di “umanesimo civile” poiché si riscoprirono i valori fondanti di una società libera e giusta. La Repubblica di Firenze era fondata sul lavoro. Per essere ammessi agli uffici pubblici si doveva essere iscritti a un’ Arte: una delle Corporazioni che riunivano i membri di una categoria professionale, per difenderne gli interessi. Delle 21 Corporazioni, 7 erano dette “maggiori” e raccoglievano professioni che richiedevano minore fatica fisica e permettevano più lucrosi guadagni. Le altre 14 erano dette “minori” e riunivano i mestieri più artigianali. A memoria del ruolo determinante svolto dalle Arti resta nel centro di Firenze la loro antica chiesa, detta di Orsanmichele. L’anno 1434 vide due eventi fondamentali per Firenze: papa Eugenio IV arrivò in città e rientrò da un breve esilio a Venezia Cosimo de’ Medici, ricchissimo capo di una grande banca. Cosimo seppe essere uno dei più grandi mecenati di ogni tempo, animato dalla convinzione che i monumenti rappresentassero nel modo più potente e d efficace l’autorità e la magnificenza medicea sia a Firenze sia oltre i confini della Repubblica. Il simbolo del Rinascimento a Firenze fu la Cupola del Duomo, prodigio strutturale di una modernità che guarda l’antichità da pari a pari, anzi dall’alto in basso. La nuova generazione di maestri elaborava un linguaggio inedito che trovava ispirazione nella letteratura e nell’arte antica , scoprendo nella prospettiva lo strumento per riprodurre scientificamente la tridimensionalità sulla superficie bidimensionale di un dipinto. Filippo Brunelleschi, Donatello, Masaccio furono i promotori del rinnovamento artistico e culturale cui si dà il nome di Rinascimento. Nel 1401 fu bandito un concorso: il vincitore avrebbe realizzato una grande porta bronzea per il Battistero fiorentino di San Giovanni. La chiesa aveva tre ingressi, uno dei quali era già chiuso da due battenti bronzei compiuti da Andrea Pisano (ora ingresso meridionale): a tale modello doveva attenersi la nuova porta. Per il concorso ogni maestro doveva eseguire una formella mistilinea (cornice gotica) con una storia tratta dall’Antico Testamento: il Sacrificio di Isacco. I partecipanti al concorso furono 7 e tra i nomi illustri vi furono Brunelleschi e Jacopo della Quercia. Ghiberti alla fine vinse. Una lunga tradizione storiografica vorrebbe vendere l’opera di quest’ultimo come un manifesto del Rinascimento, contro un Ghiberti ancora del tutto gotico. -IL SACRIFICIO DI ISACCO DI GHIBERTI: figlio di un orafo, Ghiberti aveva un’ottima dimestichezza con la lavorazione del bronzo e mise in scena un Sacrificio di Isacco gotico. Il paesaggio è contraddistinto dalle rocce di tradizione trecentesca e la composizione è centrata sulla figura di Abramo che, in una elegante posa arcuata,viene bloccato dall’arrivo dell’angelo mentre sta per sacrificare il figlio. Solo nella figura di quest’ultimo si può riconoscere qualcosa di non troppo medievale, poiché il giovanile nudo appare ispirato all’anatomia di un torso antico. -IL SACRIFICIO DI ISACCO DI BRUNELLESCHI: i caratteri della formella di Brunelleschi sono simili: nella scena non vi è ancora alcun segno di un rigore spaziale prospettico e tutto altrettante vele, costruita senza cantine, grazie a una serie di espedienti tecnici e architettonici. Filippo pensò a una copertura a doppia calotta, utilizzò una particolare muratura con mattoni a spina di pesce e concepì per il cantiere specifici macchinari edili. Nel 1436 la cupola fu finalmente ultimata. In questa vicenda Filippo guardò all’antico per le tecniche, ma non per la forma: ragioni di strutturali imposero il ricorso a grandi costoloni ogivali e a un verticalismo ancora di matrice gotica, diverso dal formato della cupola romana (pantheon). Gli elementi antichi dell’arco a tutto sesto e della colonna sono recuperati per definire spazi razionali e ben proporzionali. Sorgono due edifici con i quali si fa iniziare il Rinascimento in architettura: la loggia dell’Ospedale degli Innocenti e la chiesa di San Lorenzo. -LA LOGGIA DEGLI INNOCENTI (1419): Filippo Brunelleschi (membro dell’Arte della Seta, committente dell’opera) ricevette l’incarico di progettare l’Ospedale degli Innocenti: una pubblica istituzione deputata ad accogliere e crescere i bambini abbandonati. Il loggiato dell’ospedale, costruito dal regolare succedersi di campate contraddistinte da identiche proporzioni in larghezza e in altezza, e dal susseguirsi di arcate a tutto sesto impostate su colonne. L’importanza del portico degli Innocenti è che essa è la prima architettura del Rinascimento, il primo spazio urbano rinascimentale. -SAN LORENZO:Fin dal primi anni 20, l’architetto si occupò anche della ristrutturazione della chiesa di San Lorenzo poiché vi era un legame tra Brunelleschi e Giovanni di Bicci de’Medici, al quale Filippo stava ricostruendo la cappella di famiglia , dedicata ai santi Cosma e Damiano (santi medici che proteggevano la famiglia), che si trovava all’estremità meridionale del futuro transetto. Il progetto prevedeva una suddivisione i. Tre navate, alternando a copertura piana al centro con le volte nei corridoi laterali, e utilizzando per le campate il proporzionale modulo cubico: un modulo generato dalle colonne monolitiche di pietra ribattute sulle pareti retrostanti dalle paraste. MASACCIO E MASOLINO Masaccio era un giovane pittore che proveniva dal contado e che affermarsi si mise in società con un pittore più anziano: Masolino da Panicale. Masolino dipinse la Madonna col Bambino: un’immagine per la devozione privata, nata per festeggiare un matrimonio tra le famiglie Boni e Carnesecchi e tutta giocata sui colori preziosi e il registro delicato tipico del Gotico internazionale. -LA SANT’ANNA METTERZA:in questa tavola il maestro più anziano si fece aiutare dal pittore più giovane. A Masaccio spettano le figure dell’ angioletto in alto a destra e quelle centrali del gruppo della Madonna con Bambino, che si distingue per una solida volumetria, fondata sugli ideali di Brunelleschi e Donatello. La Vergine e il Figlio manifestano una concretezza tridimensionale e il neonato si contraddistingue per uno studio di anatomie moderno, generato dal Crocifisso brunelleschiano di Santa Maria Novella. -LA CAPPELLA BRANCACCI:Masolino e Masaccio rappresentavano due mondi profondamente diversi e apparentemente inconciliabili, che per necessità dovettero incontrarsi nella loro impresa più grande: la decorazione di una cappella nella chiesa del Carmine, che apparteneva al mercante di seta Felice Brancacci. Il lavoro prevedeva di raccontare sulle pareti un ciclo di Storie di San Pietro, cui la cappella era dedicata. Gli affreschi delle vele e delle lunette sono andati distrutti in seguito a una ristrutturazione, cui si devono le pitture tardobarocche della parte alta. La duecentesca tavola della Madonna del Popolo fu posta sull’altare quando la cappella ebbe un nuovo titolo a seguito dell’esilio da Firenze della famiglia Brancacci. In tale occasione fu rovinata la scena del Martirio di San Pietro che occupava la parete di fondo. Filippo Lippi, adottando uno stile “Masaccio of”, completò il registro più basso. -ADAMO ED EVA: l’uno di fronte all’altro, nel registro superiore della parete d’ingresso, sono rappresentati due episodi della Genesi: gli antefatti fondamentali della venuta di Cristo, a cui fanno poi seguito le vicende che hanno come protagonista Pietro. A Masolino spetta la Tentazione di Adamo ed Eva, dove i progenitori biblici sono ritratti nudi come imponeva l'Antico Testamento , ma quasi senza corpo: tanto nobili quanto bidimensionali, essi galleggiano contro un neutro fondale, appena ravvivato dall’albero cui è avviluppato il diabolico serpente dalla testa umana. Masaccio racconta in tutt’altro modo la Cacciata dal Paradiso terrestre. Sotto lo sguardo truce di un angelo che piomba loro addosso, Adamo ed Eva escono da un elementare portale disposto in tralice e camminano in un paesaggio brullo e concretissimo, sul quale proiettano le ombre reali dei loro corpi umanissimi. L’Adamo e l’Eva di Masaccio sono figure tormentate da un estremo dolore che le apparenta alla iperbolica espressività dei Profeti scolpiti da Donatello (Abacuc, ascetica figura) -IL TRIBUTO:la scena illustra il brano del Vangelo in cui Matteo narra il miracoloso pagamento della tassa d’ingresso alla città di Cafarnao. La storia è di vita in tre momenti:al centro Cristo, accerchiato dagli Apostoli è bloccato dal gabelliere, indica a Pietro di andare a pescare la moneta necessaria per entrare in città dalla bocca di un pesce; Pietro, a sinistra, esegue l’ordine di Gesù e recupera la moneta, che utilizza poi, a destra, per pagare l'imposta. I tre episodi sono allestiti entro una scenografia unica e tridimensionale, che applica le novità prospettiche brunelleschiane. Il disadorno paesaggio collinare del fondo è illuminato da un vero cielo atmosferico solcato da nubi; l’edificio con il porticato sulla destra suggerisce una costruzione prospettica che indirizza verso il centro della composizione, dov’è la testa di Cristo. Quest’ultima è la sola parte dell’ affresco a cui ha messo mano Masolino. Gli apostoli statuari e Donatello ai che lo circondano sono di Masaccio, il quale li ha dotati di Aurelie in scorcio. E infine bisogna sottolineare l’invenzione delle ombre reali proiettate a terra da ogni personaggi. -UN’OMBRA MIRACOLOSA E UN GIOVANE INFREDDOLITO: nella Cappella Brancacci le ombre diventano protagonista del miracolo di San Pietro che risana con la propria ombra predisposto da Masaccio in uno spoglio paesaggio urbano, reso in prospettiva: una popolare via di Firenze in cui un bel palazzetto con il prospetto a bugnato è accostato a più povere abitazioni. La Firenze contemporanea era la scena in cui si dipanava la storia della salvezza. Lo sconcertante verismo del brano riflette anche nell’episodio del Battesimo dei neofiti. La studiata scenografia contempla un’ariosa quinta di monti ben disposti in prospettiva che sovrastano in lontananza le figure umane; ma qui il soggetto permette la raffigurazione dei corpi nudi, indagati nelle scrupolose anatomie e nelle istintive sensazioni. In secondo piano, a destra Masaccio ha raffigurato un giovane che si è spogliato dalle vesti e attende che Pietro lo battezzi: è impaziente perché sta tremando dal freddo. -IL POLITTICO DI PISA (1426) Masaccio si spostò a Pisa per realizzare un polittico commissionato dal notaio ser Giuliano degli Scarsi per la sua cappella dedicata ai santi Giuliano e Nicola. Si tratta dell’unica opera del pittore attestata da documenti. Masaccio dipinse una pala di formato ancora gotico e con il fondo dorato, ma è verosimile che nel registro principale la composizione fosse unificata in un solo spazio. Nell’ipotizzare una ricostruzione dell’insieme, lo storico dell’arte John Shearman immaginava i perduti santi laterali (Pietro, Giovanni Battista, Giuliano e Nicola) come figure disposte accuratamente su piani diversi rispetto alla Madonna col Bambino centrale, secondo le regole prospettiche. Nonostante l’oro del fondale avrebbe reso l’opera tridimensionale. -LA PREDELLA: alla base del polittico vi era una predella costituisca da 5 scenette, ognuna delle quali corrispondeva alle figure soprastanti. Nell’Adorazione dei Magi che stava al centro si possono ritrovare lo spoglio paesaggio montano, il cielo atmosferico, l’accurato studio delle ombre, le aureole in scorcio,la ponderata posizione delle figure nello spazio. Di fronte alla capanna i Magi si presentano con una severa solennità; unica concessione al lusso è la sedia dorata della Vergine. A dispetto dell’identità soggetto, la differenza con l’Adorazione di Gentile da Fabriano è enorme: la stessa differenza tra una lunga e dettagliata descrizione e un’istantanea. -MASACCIO E GENTILE: DUE MADONNE: le due Madonne si conservano nello stesso posto (N.G.L); il soggetto è lo stesso, ma il linguaggio è antitetico. Nella tavola di Gentile regna l’eleganza delle figure e lo sfarzo dei broccati che rivestono il treno. L’assenza di una ricerca della terza dimensione è lampante al confronto con la prova masaccesca. Sul palcoscenico due angioletti musicanti, oltre al ritmo, danno con la disposizione dei loro strumenti le quinte della composizione; la Vergine veste un mantello panneggiato che struttura la figura, avendo a mento Donatello (San Giovanni evangelista). Il Bambino è un piccolo Ercole che si protende verso lo spettatore. Colpisce infine l’utilizzo di una luce fortissima, cui si deve il netto contrasto tra le parti in ombra e quelle illuminate. -LA CROCIFISSIONE DI CAPODIMONTE: l’opera originariamente costituiva il vertice del polittico pisano. Masaccio vi esplicita la terza dimensione attraverso il poderoso gesto della piangente Maddalena, che allarga le braccia di spalle, la disposizione dei piedi del San Giovanni e la scelta di raffigurare il Cristo quasi senza collo, in un realistico scorcio di sottinsù della testa ormai senza vita. -LA TRINITÀ DI SANTA MARIA NOVELLA: Masaccio utilizzò la prospettiva per affrescare sulla parete un’architettura illusionistica che audacemente finge un’intera cappella: in mezzo a questa sorta di arco trionfale all’antica, un Padre eterno colossale sorregge la croce da cui pende il Figlio, mentre la colomba dello Spirito Santo si getta in picchiata verso lo spettatore. Ai piedi della croce, la Vergine e San Giovanni saldano l’immagine della Trinità a quella della Crocifissione. Sulla soglia di questo spazio pregano, in adorazione eterna, Berto di Bartolomeo e sua moglie Sandra. Immediatamente sotto di loro doveva trovarsi la mesa che dava a tutto l’affresco il senso di una pala d’altare, di una vera cappella funebre. Nel registro inferiore, sotto l’ala tre, giace uno scheletro: alludendo a quello di Adamo, esso proclama che la passione, la morte e la resurrezione di Cristo hanno sconfitto la morte di ogni uomo. Una morte fisica che rimane a dominare l’esperienza quotidiana. Nell’arte medievale era consueto che committente e devoto fossero raffiguranti sottodimensionati rispetto alla divinità e ai santi. Masaccio scardina questa tradizione: per lui le ragioni della realtà e della prospettiva contano di più delle abituali gerarchie. L’architettura della cappella utilizza eletti del linguaggio antico:paraste scanalate, colonne con capitelli ionici, arco a tutto sesto, volta a botte decorata a lacunari. -POLITTICO DI SASSETTA: tra i primi a intendere le novità fiorentine fu Sassetta, protagonista della pittura senese del primo 400. Sassetta dipinse un polittico per l’Arte della Lana di Siena che è andato smembrato. Nel frammento di predella con il Sant'Antonio battuto dai diavoli proveniente da quella pala compare un cielo atmosferico e tre demoni sembrano disporsi a semicerchio intorno all’eredità, a dare il senso dello spazio. E tuttavia le figure conservano una sottigliezza gotica. Con la tradizione del Gotico internazionale si trovò a fare i conti anche il fiorentino Beato Angelico. -IL TRITTICO DI SAN PIETRO MARTIRE: verso il 1429 l’Angelico ultimava il trittico per il convento femminile domenicano di San Pietro Martire. Anche qui il formato gotico della carpenteria, il fondo dorato e la scelta di unificare lo spazio del registro principale, dove la Vergine si staglia con la grazia di una regina gotica, ma i 4 santi laterali, 3 dei quali con la comparse, che nelle vesti allungate e nei bizzarri copricapo ricalcano l'abbigliamento della delegazione bizantina intervenuta al Concilio di Firenze. Il formato sagomato ad arco del dipinto non deve illudere: il Battesimo era nato per stare al centro di un grande trittico cuspidato. -IL POLITTICO DELLA MISERICORDIA (1445): l’opera venne commissionata dalla Confraternita della Misericordia di Sansepolcro. Le figure dovevano stagliarsi sul fondo dorato. Nello scomparto centrale, dove il soggetto tipicamente medievale della Madonna della Misericordia (la Vergine che accoglie i fedeli sotto il proprio manto) è riletto con un linguaggio moderno: pur sovradimensionata , la Vergine allarga il manto a proteggere un piccolo gruppo di devoti che, nell’ inginocchiarsi, si posizionano a dare il senso di un cerchio, di uno spazio autentico e definito. -LE STORIE DELLA VERA CROCE: Piero della Francesca deve la sua celebrità al ciclo di storie illustrate nella Cappella Maggiore della chiesa di San Francesco. Fu commissionata dalla famiglia Bacci. L’artista dispiegò sulle pareti una serie di affreschi che raccontano la storia del legno della croce di Cristo: uno degli oggetti maggiormente legati alla devozione francescana.seguendo un ordine che guarda più alla corrispondenza della tipologia di scene che alla successione cronologica degli eventi, la solenne narrazione inizia dalla lunetta destra, con la scena della morte di Adamo: a lui il figlio Seth mette in bocca il germoglio dal quale crescerà l’albero donde sarà ricavato il futuro legno della croce. -SALOMONE E LA REGINA DI SABA:nel successivo riquadro vi sono due episodi: in un paesaggio brullo la regina di Saba, si inginocchia di fronte a un ponte ma avendo avuto la preveggenza che il legno con cui esso era stata costruito sarebbe poi servito a formare lo strumento di morte del Salvatore del mondo. Il cerimonioso incontro tra la ricca regina e il saggio sovrano israelita si compie quindi nell’altra metà del riquadro, entro un porticato all’antica che, nella preziosità delle colonne e dei marmi policromi delle pareti, rimanda al gusto architettonico di Leon Battista Alberti. Per quanto un episodio si svolga in esterno e l’altro in interno, Piero riesce a rendere l’effetto di un ambiente unificato, sfruttando la colonna centrale come perno per la piramide prospettica. -LA FLAGELLAZIONE DI URBINO: il supplizio di Cristo ha luogo a sinistra, in un porticato simile a quello in cui si incontrano Salomone e la regina, mentre in primo piano a destra tre personaggi sono disposti sul proscenio di un fondale urbano. Per il profilo di Pilato, seduto in fondo a sinistra ad assisterà alla tortura i Gesù, il pittore ha preso spunto dall’effigie dell’imperatore Giovanni VIII PALEOLOGO ritratta nella medaglia di Pisanello. Nonostante il soggetto sacro, la singolarità della composizione mostra come essa non dovette essere concepita per una chiesa. Gli abiti ricchi e solenni delle tre figure sulla destra ma anche i loro gesti, i piedi scalzi del giovane al centro. -COSTANTINO: LA BATTAGLIA E IL SOGNO: il volto di Giovanni VIII Paleologo compare anche in una scena del ciclo aretino: lo si riconosce nella figura di Costantino che, ostentando la croce, guida le sue truppe contro Massenzio nella Battaglia di Ponte Milvio. E’ un’alluvione a quotidiani fatti che preoccupavano l’Europa: nel 1453 Costantinopoli fu presa dai turchi. Nell’ottica di Piero e dei suoi spettatori il vincitore di Ponte Milvio poteva ben essere rappresentano con il volto del suo legittimo erede Giovanni VIII Paleologo. Nel ritrarre con quel volto il protagonista di una simile scena, Piero vuole evocare una possibile rivincita cristiana e bizantina. Nel Sogno di Costantino si riconoscono tutte le migliori qualità della pittura pierfrancescana: la resa tridimensionale del padiglione in cui dorme l’imperatore, lo scorcio dell'angelo che dall’alto cala a mostrargli la croce, la verità del cielo stellato, lo studio luminò stitico, culminante nei netti contrasti tra le superfici oscure e i lucenti profili della creatura angelica e del soldato di spalle in primo piano. -LA CROCE RITROVATA: fu la madre di Costantino, Elena; a ritrovare la reliquia della croce in Terrasanta: la si vede dapprima osservare il recupero delle tre croci del Golgota, che erano state sotterrate poco lontana da Gerusalemme, e poi inginocchiarsi di fronte alla croce che, col solo contatto, aveva resuscitato un morto, facendosi così riconoscere per quella di Cristo. Piero fa risaltare il sacro legno con il virtuosismo di uno scorcio, dovendo alludere all’architettura di un antico tempio di Venere, innalza il prospetto tripartito e timpanato di un sacro edificio. Ancora una volta troviamo due episodi in uno spazio unico, che in questo caso alterna una scena agreste e una urbana. LUCA DELLA ROBBIA, LE CANTORIE DEL DUOMO DI FIRENZE Nella Firenze del primo Rinascimento anche la scultura seppe crearsi un nuovo linguaggio nel quale il colore e la luce riuscirono a giocare un ruolo decisivo grazie all'invenzione di una tecnica inedita: la terracotta invetriata. Il merito di ciò spetta a Luca della Robbia, uno scultore nato in una famiglia che produceva tinture per i vestiti. Ma prima di cimentarsi con la terracotta invetriata, Luca seppe dimostra di essere un grande scultore in marmo, confrontandosi con Donatello nell’esecuzione delle cantorie per il Duomo di Firenze. Filippo Brunelleschi aveva progettato l’arredo della zona intorno all’altare maggiore, dotandolo di una coppia di cantorie, di due balconi deputati ad accogliere il nuovo organo e i coristi della cattedrale, affacciandosi l’uno di fronte all’altro, al di sopra delle parte delle due sagrestie. Quella del lato sinistra, sopra l’ingresso della Sagrestia delle Messe era stata commissionata a Luca della Robbia e l’altra a Donatello, collocata sopra l’ingresso della Sagrestia dei Canonici. -LA CANTORIA DI DONATELLO:l’artista, volendo richiamare il tema della musica, allestisce sul prospetto del balcone una sfrenata danza di putti alati che volteggiano entro uno spazio continuo di una galleria, impreziosita sul fondo e nelle colonne da colorati inserti musivi. Donatello sembra andare in direzione opposta rispetto all’equilibrio dell’architettura di Brunelleschi , per l’irrefrenabile vitalità della scena, l’utilizzo delle tessere vitree colorate, il rifiuto di una rigida composizione e la scelta di lasciare le figure poco più che abbozzate. -LA CANTORIA DI LUCA DELLA ROBBIA:il balcone è popolato di fanciulli che hanno voti altissimi in condotta. Lo sputo è il Salmo 150, che si legge nella doppia iscrizione latina della cornice, e invita a lodare Dio al suono della tromba, con arpe, con tamburi e danze. Grazie alla sapienza scultorea maturata nella bottega di Nanni di Banco, Luca mette a punto una serie di rilievo quadrati, dove gruppi di cantori e danzatori ben in carne sono torniti e levigati nel candido marmo; talvolta le pose sono tratte dall’antico, altre teste si muovono a cercare scorci, ma sempre domina un’armoniosa serenità. Inflessibile è l’ordine architettonico, scandito su due registri delle mensole del balcone e da coppie di paraste. -UN PICCOLO TRITTICO DI FILIPPO LIPPI: il fondo è ancora dorato, ma la carpenteria rinunci alla cuspidi gotiche, innalzando sullo scomparto centrale un timpano all’antica che contiene lo stemma del committente. Costui compare d profilo e in abisso (con la metà inferiore del corpo tagliata dalla cornice) a raccogliere la benedizione del Bambino: un paffuto bambolotto degno figlio della corpulenta madre che lo tiene in collo, in mezzo a un gruppo di angeli fanciulli che le reggono un cuscino. Le figure, compresi il San Giovanni Battista e il San Giorgio nei laterali sono intercambiabili con quelli della cantoria di Luca della Robbia. La Vergine sembra accoccolata a terra, ma in realtà è sospesa sopra a un tappeto di nuvole, dalle quali piovono raggi dorati. -UNA MADONNA DELL’UMILTA’ DI DOMENICO DI BARTOLO: nonostante il fondo oro, la talvolta è di formato rettangolare e ha lasciato i complicati ornati delle cornici gotiche; l’esuberanza vegetale e animale chiede il passo a una scena che conserva il prato fiorito, ma è tutta centrata sulla possente figura di Maria, dal volto lippesco e con il manto azzurro accartocciato a rendere le forme delle sottostanti gambe grassocce. Il solido Bambino nudo, con l’auto la in scorcio, denota una buona conoscenza di Masaccio, e il drappello di angeli musicanti in secondo piano pare over tradurre in pittura i gesti e la quiete a consistenza delle figure di Luca della Robbia. -LA RESURREZIONE PER IL DUOMO DI FIRENZE: Luca ebbe l’incarico di eseguire la lunetta con la Resurrezione per la porta della Sagrestia delle Messe. La scena fu interamente realizzata con la tecnica della terracotta invetriata, scegliendo di far risaltare su un vivo fondo azzurro il bianco latte delle figure. Un episodio che ha il suo perno nella serafica figura di Cristo risorto, adorato da 4 angeli di aspetto classicheggiante, mentre svetta sul sepolcro scoperchiato, attorno al quale i soldati dormono. La misura della composizione è esaltata dal netto contrasto cromatico tra l’azzurro del fondo piatto e le candide figure ad altorilievo. LA TECNICA DELLA TERRACOTTA INVETRIATA: la scultura in terracotta consiste nel plasmare con l'argilla sia rilievi che figure a tutto tondo, poi cotti in forno per assumere una definitiva solidità. Luca della Robbia procedette a sperimentare un particolare tipo di terracotta colorata,realizzata attraverso uno speciale smalto superficiale, capace di aumentare tanto la resistenza della terra, quanto di conferire una lucentezza vitrea ai rilievi e alle figure. -IL TABERNACOLO DI SANT’EGIDIO: Luca aveva collaudato l’uso della terracotta invetriata in un tabernacolo eucaristico per la chiesa di Sant’Egidio. Luca proponeva una variante architettonica allestendo un tempio etto all’antica, inquadrato da lesene scanalate e coronato da un timpano. E’ un’opera in cui lo scultore si cimenta con materiali diversi: la struttura è in marmo come le principali figure, dal Dio Padre benedicente del timpano la gruppo della Pietà nella lunetta e alla coppia di angeli che presenta il disco metallico della colomba dello Spirito Santo. L’investitore compare a impreziosire il fondo azzurro della lunetta, il motivo decorativo colorato del basamento, i festoni e le teste di cherubini e serafini che ornano l’architrave e gli ornati vegetali dei pennacchi. -UNA PRODUZIONE PROTOINDUSTRIALE: Luca della Robbia scelse di dedicarsi esclusivamente alla terracotta invetriata, organizzando una bottega capace di dare origine a una produzione dal carattere protoindustriale, per la capacità di usare gli stampo e soddisfare in tempi brevi le committenze più diverse e lontane. Dalla bottega Robbia o uscivano di volta in volta Madonne col Bambino per devozione privata, pale d’altare, elementi decorativi e tanto altro, in virtù di una produzione che, a seconda della committenza, poteva replicare opere seriali, oppure creare eccezionali pezzi unici. -LA SAGRESTIA VECCHIA DI SAN LORENZO:il progetto della ristrutturazione fu affidato a Brunelleschi. Il luogo è costituito da un’aula che appare come uno spazio cubico,rasserenato dal colore neutro delle pareti e scandito da elementi architettonici classicheggianti in pietra serena. Su ogni lato si sviluppano grandi lunette a tutto testo, sopra le quali si alza una cupola impostata su 4 grandi pennacchi, nei quali si riconosce lo stemma mediceo, con le palle rosse in campo oro. Al centro si trova la tomba di Giovanni de’Medici. Il grande vano si riflette proporzionalmente, ma in dimensioni minori, nella scarsella, un vano a piñata rettangolare che ospita l’altare. Nello spazio architettonico risaltano una serie di rilievi eseguiti da Donatello per arconi, i pennacchi e i sovrapporta della sagrestia. Agitate figure di evangelisti e santi si alternano con le storie di San Giovanni Evangelista, allestite con monumentali scenografie prospettiche. Lo si vede nell’episodio della Resurrezione di Drusiana, dove la donna in nero risorge dal letto funebre, provocando un’esaltazione nelle forme dei presenti che risaltano sul fondo color marrone di un’enorme d’ala ordinata da arcate a tutto sesto. pittura di Masaccio , ma sono ispirati alle novità della pittura fiamminga. Con intento sperimentale, novità fiamminga e novità fiorentine convergono e si fondono in questa tavola. -L’ANNUNCIAZIONE MARTELLI (1440): Filippo dipinse la pala dell’altare della famiglia Martelli nella chiesa di San Lorenzo a Firenze. Brunelleschi, occupandosi della ristrutturazione dell’edificio, aveva auspicato a nuovi altari con pale di formato quadrato. Lippi illustrò l’episodio dell’Annunciazione nello spazio unificato da un’ingegnosa scenografia architettonica. La scena si compie al di là delle due grandi arcate di un loggiato all’antica, aperto sul fondo a mostrare la fuga prospettica di un giardino urbano, delimitato da palazzi. Dall’arcata di destra si vede Gabriele inginocchiato di fronte a Maria, che in prossimità di un leggio si mostra sorpresa dalla miracolosa apparizione. A bilanciare la composizione, Filippo ha dipinto nell’arcata di sinistra, sopra un gradino, una coppia di angeli. Dentro alla cornice spicca l’iperralistico dettaglio di un’ampolla di vetro che sembra pronta per ospitare il giglio dell’arcangelo. L’ampolla risalta in primissimo piano, così importante da essere ospitata in una specie di nicchia. -IL RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI (1434) National Gallery di Londra: la tavola presta a illustrare gli elementi cardine della pittura fiamminga. In essa è utilizzata una tecnica destinata ad avere un enorme successo: la pittura a olio, che permette di avere colori più brillanti e una resa luministica di notevole intensità. A ciò si deve sommare una volontà di rappresentare analiticamente la realtà, che si realizza nella minuta descrizione di ogni dettaglio, pur in assenza di una razionale scatola tridimensionale. I pittori fiamminghi ricostruiscono lo spazio empiricamente e ciò viene mostrato nel dipinto: l’accentuato verismo dei particolari del pavimento di legno, degli zoccoli che giacciono in primo piano, dei frutti sul davanzale e sul mobile sottostante, del lampadario e del rosario appeso al muro di fondo, della firma e dello specchio convesso che riflette la coppia di spalle e il pittore dell’atto di ritirarli. L’opera offre, per la prima volta nella storia dell'arte europea, una sorta di fotogramma di una coppia di sposi ritratti nella propria camera. Dovrebbero essere il mercante lucchese Giovanni Arnolfini e sua moglie Giovanna Cenami. Manca la tensione sentimentale, le pose lasciano intendere che sia un ritratto celebrativo a commemorare il fidanzamento tra i due dove l’attenzione al dettaglio riguarda la descrizione delle fisionomie e la resa tattile delle carni e delle vesti preziose dei personaggi, che gioco a disporsi frontale te e di 3⁄4. L’efficienza dei due sposi lucchesi si deve a Jan van Eyck, capostipite della pittura fiamminga e specialista nell’arte del ritratto. -L’UOMO COL TURBANTE ROSSO National Gallery di Londra (1433): appare a mezzo busto e di ¾ il ritratto dell’uomo con il turbante rosso. E’ un’immagine di ridotte dimensioni che sorprende per l’evidenza veristica della stoffa del copricapo, della pelliccia del colletto della pelle e dell’intensità dello sguardo. Gli strumenti per l’indagine della realtà sono la pittura a olio e una luce radente, proiettata a far risaltare le forme del volto contro il fondo scuro. L’opera rappresenta la sintesi perfetta delle caratteristiche della pittura fiamminga che seppe diffondersi in Italia, trovano il suo più convinti paladino in Antonello da Messina. -IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO (1432) Cattedrale di San Barone a Gand: è una grande macchina d'altare ancora tardomedievale nel soggetto e nel formato, contraddistinta da sportelli distinti sia davanti che dietro, così da poter alternare due immagini differenti. La pala era destinata alla cappella privata del ricco mercato Joos Vyd. Quando gli sportelli sono chiusi, il committente si vede ritratto in basso, insieme con la moglie , inginocchiato di fronte alle statue dei santi Giovanni Battista ed Evangelista, mentre nel respirato soprastante si dispiega la scena dell’Annunciazione, e nel coronamento appaiono sibille e profeti. Aprendo i battenti, ci si trova immersi in un giardino, al centro del quale è il divino Agnello, simbolo di Cristo, adorato dagli angeli e da una varia umanità, divisa gerarchicamente. Nello scomparto superiore dominano le figure del Dio Padre, della Vergine e dei Battista, affiancate da un gruppo di angeli cantori così vivi e rese ti da sembrare parte del clero reale della cattedrale, e, nelle ante laterali, delle figure di Adamo e Eva. Il paesaggio è illuminato dal chiarore del cielo e indagato nei più precisi elementi di natura, ma sfugge a ogni rigore prospettico. -LA MADONNA DEL CANCELLIERE NICOLAS ROLIN: è una pala dal formato quadrato, ambientata nella sala della dimora che, oltre alle figure del devoto abbigliato con una veste broccato e della Vergine col Figlio incoronata da un angelo, si apre un un luminoso loggiato. Da qui van Eyck ci fa gettare lo sguardo su di un sottostante hortus conclusus, delimitato da una merlatura dalla quale due uomini, effigiati di spalle, si affacciano verso il lontano paesaggio, solcato da un fiume che riverbera la luce diffusa dal cielo, le architetture gotiche di una città e la vegetazione delle colline circostanti. La capacità di raccordare alla descrizione minuziosa e realistica di un interno contemporaneo la lettura del paesaggio naturale era sconosciuta in Italia: presto essa si fece strada con Piero della Francesca. ROGIER VAN DER WEYDEN L’altro protagonista della prima stagione della pittura fiamminga fu Rogier van der Weyden. -LA DEPOSIZIONE DI LOVANIO (1443) Museo del Prado, Madrid: egli dispense per la cappella della Corporazione dei Balestrieri della città di Lovanio una pala d’altare. Un manifesto di sentita devozione, in cui i personaggi si accalcano senza interesse alcuno per una razionale organizzazione spaziale e si distinguono per l'immancabile precisione dei dettagli (lacrime della dolente) e per la concreta solidità e la gestualità teatrale. -IL GIUDIZIO DI BEAUNE: il complesso si caratterizza per la possibilità di alternare, attraverso l’apertura e la chiusura delle ante, due immagini diverse: la dilatata e terribile visione dell’Arcangelo Michele che, sotto gli occhi della corte celeste, divide i beati dai dannati , e la più serena e domestica scena del committente (Nicolas Rolin) e della moglie in atto di venerare le statue dei santi Sebastiano e Antonio abate. -MINIATURA IN CUI FILIPPO IL BUONO RICEVE LE CHRONIQUES DE HAINAUT: si tratta di una scena di corte, in cui l’offerta del libro sottointende un atto di vassallaggio nei confronti del signore della contea. L’uomo inginocchiato in grigio, con il volume tra le mani, non è l’autore del volume ma il committente (Simone Nockart). A ricevere il dono, si erge di fronte a lui Filippo di Buono, in elegantissimo abito nero corredato da collare del Toson d’oro, l’illustre ordine cavalleresco da lui fondato. Lo stesso collare è indossato da tutti i membri della corte disposti alla sua sinistra, mentre dal lato d’onore del duca si riconoscono: in blu il cancelliere Nicola Rolin, in rosso il vescovo di Tournai Jean Chevrot e , alle sue spalle e in grigio, Guy Guilbault, altro personaggio chiave dell’amministrazione ducale. Un docile cane appare ai piedi del signore. Il pittore predilige la fedeltà al vero dei ritratti, la resa materica delle stoffe e delle cose, creando tra i presenti un clima di intimità. -DEPOSIZIONE NEL SEPOLCRO: è una tavola in cui il modello della Deposizione di Cristo nel sepolcro dipinta da Beato Angelico è tradotto nei termini di un verismo fiammingo, capace di sottolineare il dolore degli attori (soffermandosi su ogni minimo particolare) e di allargare lo sguardo in lontananza, seguendo le due strade che, ai lati del sepolcro, si inerpicano nel paesaggio. - IL GIUDIZIO UNIVERSALE DI DANZICA DI HANS MEMLING (1473): il dipinto era stato commissionato da Angelo Tani, il direttore del banco mediceo di Bruges. MEMLING riduce gli scomparti da 9 a 3, compattando così la dilatata composizione di van der Weyden (suo maestro) in una struttura tripartita: alla corte celeste è riservata la sola parte alta dello scomparto centrale, in mezzo al quale l’arcangelo Michele si erge a dividere una folla in beati e dannati. I primi, nello scomparto sinistro, sono accolti da san Pietro ai piedi della porta celeste del Paradiso, raffigurata nelle forme della facciata di una cattedrale gotica. Ai dannati spettano, nello scomparto destro, le fiamme dell’inferno. -IL TRITTICO DONNE: MEMLING alternò papale d’altare di grandi dimensioni con altre più piccole, destinate alla devozione privata. Uno di questi fu dipinto per un cliente Galles Sir John Donne. Nel trittico, Memling si allinea al più tipico verismo fiammingo, ma dimostra anche la volontà di aprirsi alla pittura italiana, unificando lo spazio dei tre scomparti. Al centro, la Madonna col Bambino è affiancata da un paio di angeli musicanti e dalle sante Caterina d’Alessandria e Barbara. Il committente, la moglie e la figlia si inginocchiano a riverire le figure divine, mentre negli scomparti laterali si stagliano i santi Giovanni Battista ed Evangelista. Il tutto avviene in una camera, di cui l’artista vuole sottolineare la tridimensionalità tramite la fuga prospettica degli elementi geometrici del pavimento. La porta e la finestra delle pareti laterali, così come il loggiato sul fondo, si aprono a mostrare un quieto paesaggio, facendo entrare una luce tenue, che lascia in ombra le colonne all’antica del portico alle spalle della Vergine. -I RITRATTI CON IL PAESAGGIO: la predilezione per il paesaggio condusse il pittore ad apportare una decisiva novità alla tipologia del ritratto nordico, sostituendo al tradizionale fondo scuro un servendo fondale di paese. Nella tavola del museo di Anversa, le alture di una campagna verdeggiante di vegetazione, solcata da uno specchio d’acqua e illuminata dal cielo, stanno alle spalle di un distinto uomo in nero, effigiato a mezzo busto, con il volto di ¾. L’uomo in nero presenta con la sinistra un piccolo oggetto metallico circolare, riconoscibile in una moneta romana con l’effige dell’imperatore Nerone. E’ un omaggio alla passione per l’antico e al collezionismo che era in voga in Italia. - IL TRITTICO DI AIX-EN-PROVENCE (1443-1445): si assegna a Barthélemy d’Eyck (maestro di fiducia di Renato d’Angiò) un trittico per la Cattedrale di Aix-en Provence. Fu il mercante Pierre Corpici a volere questo complesso pittorico, in cui le figure si stagliavano isolate. Lo scomparto centrale inquadra l’episodio dell’Annunciazione entro un solenne edificio gotico, che alle spalle della Vergine inginocchiata si prolunga diagonalmente in due navate. Attraverso i finestrini, il tepore di un lume fiammingo si diffonde a rischiarare gli spazi, e un’identica luce definisce, nelle tavole laterali, le realistiche ombre delle figure dei profeti Isaia e Geremia, inserite nelle nicchie alla stregua di statue. Al di sopra di ogni profeta il pittore ha ritratto uno scaffale colmo di libri e gremito dei più vari oggetti, come se si trattasse di un brano di natura morta a sé stante (marchio di fabbrica dell’artista) -L’INCORONAZIONE DELLA VERGINE DI ENGUERRAND QUARTON (1453): la tavola è ordinata secondo una gerarchia che ingigantisce i personaggi principali al centro della composizione, ai danni della corte celeste ai lati della sottostante visione in cui si compie il Giudizio, che l’artista immagina distendersi tra le città murate di Roma e Gerusalemme. In totale assenza della prospettiva, il compito di uniformare il tutto spetta a una luce zenitale (proveniente dall’alto) che pervade l’intera composizione, definendo il compatto volume del volto e la veste della Vergine e le finezze di un paesaggio osservato a volo d’eccellenza e dilatato in lontananza. Quello dell’artista non è un paesaggio realistico: il crocifisso che lo domina al centro annienta la distanza geografica tra Roma e Gerusalemme, e trasforma le due città in entità simboliche, degne di fare da contrappunto alla scena celeste che le sovrasta e alle figure del Giudizio che corre al di sotto. Risalta l’accanita osservazione dei dettagli nelle mura, nelle strade, negli edifici delle due città, nel verde prato che le circonda, nel braccio di mare che le separa. -UN PAESAGGIO ALPINO DI KONRAD WITZ (1444): egli dipinse per la Cattedrale di Ginevra una pala d’altare cui appartenne la Pesca miracolosa dove il brano evangelico è ambientato nel lago ginevrino. Il panorama padroneggia la scena, rasserenata da una luce Chiesa. Piero fu chiamato a dipingere una scena di corte, ambientata nello scrupoloso spazio prospettico di un’aula chiusa da una coppia di lesene architravate all’antica e ornate di festoni. Sigismondo spicca al centri nel netto profilo che rimanda ai ritratti di stile Pisanello amo. Alle spalle del signore sono sdraiati due aristocratici levrieri, uno bianco e uno nero, mentre sulla sinistra si erge di ¾, seduto su uno scranno, un San Sigismondo che ha il volto dell’omonimo imperatore Sigismondo del Lussemburgo. AGOSTINO DI DUCCIO SCULTORE Nella cornice della navata del Tempio si legge la firma dell’autore della decorazione scultore: Agostino di Duccio, uno scultore toscano che doveva essersi formato nella bottega di Donatello. Agostino si occupò dell’esterna decorazione della navata e delle sei cappelle, trovandosi a raffigurare soggetti per nulla banali, dettati spesso dagli umanisti malatestiani. -LE CAPPELLE E I SOGGETTI: sono per lo più temi raffigurati nei pilastri o sugli altari a dare il nome alle cappelle del Tempio. Entrando in chiesa, a destra si trovano la Cappella di San Sigismondo (con al centro la statua del titolare), quella di Isotta degli Atti (con il sepolcro di lei) quella dei Pianeti (poiché il pilastri raffigurano un ciclo astronomico). Dall’altro lato si susseguono la Cappella delle Sibille, dei Giochi infantili, e delle Muse e delle Arti liberali. Per il tema dello zodiaco e dei pianti, Agostino scelse di rappresentare le costellazioni e i corpi celesti nelle vesti di figure mitologiche dell’antichità. Marte compare alla guida del suo carro da guerra, preceduto dall’altra divinità della guerra, Bellona, e accompagnato dai suoi animali sacri: il lupo e il picchio sull’albero. In questo riquadro lo scultore adotta lo “stiacciato” donatelliano per le forme addolcite e lineari. Molti rilievi di Agostino di Duccio hanno come protagonisti gruppi di putti: rispetto ai fanciulli scolpiti da Luca della Robbia e Donatello per le cantorie del Duomo, quelli di Agostino appaiono del tutto bidimensionali e privi di consistenza. -LA FACCIATA DI SANTA MARIA NOVELLA: Giovanni Rucellai, si rivolse a Leon Battista Alberti per un paio di progetti: il palazzo di famiglia e il completamento della facciata della chiesa di Santa Maria Novella. Alla metà del 400 la chiesa medievale domenicana attendeva ancora di vedere ultimata la decorazione del prospetto, avviata con un rivestimento di marmi bianchi e verdi ispirati ai motivi decorativi del Romanico fiorentino che caratterizzano edifici acri. Nell’elaborazione una soluzione, Alberti non poteva procedere a pianificare un nuovo involucro come a Rimini, ma doveva armonizzarsi con quanto era stato già fatto. Egli dimostrò attenzione al recupero della tradizione architettonica tardomedievale fiorentina. Lo spirito classicista irrompe dalla cornice del portale principale, dalle 4 colonne dell’ordine inferiore e dal formato del timpano, ornato da motivi geometrici e decorativi suggestionati dagli edifici del Romanico fiorentino. Leon Battista approfittò dell’occasione per formulare nuovi espedienti, con particolare riferimento alla volere di raccordo tra la zona inferiore e l'attico della facciata, utili a mascherare la differenza di altezza tra la navata centrale e le laterali. -PALAZZO RUCELLAI: Leon Battista Alberti aveva ricevuto da Giovanni RUCELLAI l’incarico di progettare il suo nuovo palazzo fiorentino. Si trattava di intervenire su edifici preesistenti, per accoppiarli in maniera razionale e dotarli di un’unica facciata monumentale. La direzione del cantiere fu affidata a Bernardo Rossellino. Il prospetto del palazzo, suddiviso in tre piani e coronato da un ampio cornicione, a prima vista non diverso da quello di Michelozzo dei Medici; entrambi gli edifici, al piano terra, sporgono con un sedile, pensato come uno spazio di collegamento e dialogo tra la dimora privata e la città. Si notano delle differenze: il bugnato è piatto e uniforme, mentre del palazzo mediceo si alleggerisce a ogni piano. Per la scansione dei livelli Alberti adotta una soluzione più archeologica, scegliendo di recuperare gli ordini dell’antica architettura romana. Le finestre sono bifore con arco a tutti sesto, ma nel Palazzo Rucellai risultano inquadrate da lesene decorate da peducci (capitelli incassati al muro che sostengono un arco o una volta). La forma di questi varia dal basso verso l’alto: al piano terra abbiamo l’ordine dorico, al primo piano quello ionico e al secondo quello corinzio (Colosseo). -IL MONUMENTO BRUNI DI BERNARDO ROSSELLINO: Bernardo innalzò un monumento sfacciatamente all’antica. Guardando all’esempio degli archi romani, il monumento è impostato sul modello di un grande arcosolio, un sepolcro inserito entro una nicchia sormontata da un arco a tutto sesto, affiancata da lesene scanalate e sovrabbondate di elementi decorativi di gusto archeologico, che impreziosiscono il catafalco, sul quale si innalza il letto funebre con la realistica figura del defunto. Dietro, nel fondo, è un motivo dei riquadri in porfido, mentre soltanto nella lunetta soprastante, con il tondo della Madonna col Bambino e gli angeli, c’è spazio per il tema cristiano. -IL MONUMENTO MARSUPPINI DI DESIDERIO: il compito di scolpire in suo onore fu affidato a Desiderio da Settignano. Desiderio rispose con una coppia di arpie dal piumaggio mosso e naturalistico, eccitate da un fervore di origine donatelliana. -I SORRIDENTI BAMBINI DI DESIDERIO: nel gioioso Bambino sorridente di Desiderio viene colta la spensieratezza del fanciullo che appare come perfetto esempio dell’ imitazione della natura cui si riferiva Leon Battista Alberti quando parlava della scultura, e di cui anche Bernardo Rossellino offre un notevole saggio nel realismo del volto di Leonardo Bruni, tratto da una maschera funebre. -PALAZZO DUCALE: nel 400 la città di Urbino, capitale del Montefeltro, dominava su di un territorio vasto. Urbino divenne uno dei centri artistici di maggiore rilievo del Rinascimento perché il suo signore fu uno dei più grandi condottieri del tempo e scelse di investire i notevoli guadagni della guerra nella sua città e nel suo territorio. Il protagonista della storia è Federico da Montefeltro. Egli seppe coniugare l’abilità militare con la passione per le lettere e le arti, allo stesso modo del signore riminese. Il palazzo si estende su un’area considereremo le del centro della città, anche perché andò a incorporare una serie di edifici preesistenti nel corso di una lunga serie di lavori. Il volto che il palazzo offre di sé verso l’esterno della città è quello della “facciata dei torricini”, dove le allungare torri rotonde angolari fiancheggiano un prospetto slanciato al centro dal sovrapporsi di 4 logge. Le due più in alto si distinguono per il paramento murario di marmo, palesano un richiamo all’antichità, nelle forme e nella decorazione a lacunari delle volte. -LUCIANO LAURANA E IL CORTILE D’ONORE DEL PALAZZO DUCALE: a sovraintendere alla costruzione della facciata disposta a dominare la sottostante vallata fu Luciano Laurana. All'architetto fu assegnato il progetto del cortile d’onore intorno al quale è organizzato il Palazz, il luogo in cui Federico accoglieva i suoi ospiti. Il cortile è contraddistinto dalla successione sui 4 lati di loggiati con archi a tutto sesto, combinati tramite la inedita soluzione dei pilastri agli angoli. Sopra le arcate corre un’iscrizione in latino che ricorda le imprese del committente. -LO STUDIO DI FEDERICO E LE TARSIE PROSPETTICHE: alla magnifica e monumentale dimensione degli altri ambienti si contrappone il carattere molto più privato del piccolo studiolo riservato al duca. E’ una stanzina, attigua alla loggia dei torricini, decorata nella parte alta delle pareti da un ciclo di Uomini illustri, dipinto da Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Il vero protagonista è l’arredo ligneo, rivestito da una serie di tarsie prospettiche. I pannelli urbinati, dove non manca la riproduzione dell'armatura del signore, dimostrano come nel 400 la tecnica medievale della tarsia potesse essere trasformata in uno strumento per creare effetti di illusione spaziale e minuziosa resa veristica dei dettagli. -IL DITTICO MONTEFELTRO (1460-1465):tra i molti maestri ai quali Federico da Montefeltro affidò la sua immagine il più celebre è Piero della Francesca. Il pittore ritrasse il duca Federico e la moglie Battista Sforza. La coppia è effigiata di profilo (Pisanello), ma le due figure a mezzobusto si stagliano su di un fondo di paesaggio: è come se Piero li avesse disposti davanti a una finestra del Palazzo Ducale. Nella fuga in lontananza dalla veduta di paese a volo d’eccellenti, Piero si sofferma a fare risaltare ogni dettaglio, attraverso una pittura minuziosa e luminosa, ispirata alle novità fiamminghe. Gli effetti sono ottenuti grazie all’utilizzo della pittura a olio e si riflettono nella concretezza delle carni e dei tessuti delle vesti dei due protagonisti: Federico, con la parte alta del naso smussata e Battista dal volto pallido, con acconciatura alla moda che lascia la fronte altissima e il corredo di gioielli. I due pannelli sono dipinti anche sul retro, dove Piero ha raffigurato un trionfo dei fue personaggi, accompagnati da allegoriche figure di virtù. Federico e Battista guidano i loro carri, sullo sfondo è Montefeltro, e in basso, come epigrafi antiche, due iscrizioni in versi latini celebrano il condottiero e la moglie. -LA MADONNA DI SENIGALLIA: le figure a mezzo busto si adattano al’atmosfera ovattata e domestica di un interno risciarato dai raggi di luce filtrati dalla finestra. Dall’altro lato è una piccola nicchia rinascimentale dove un paio di mensole sorreggono i brani di natura morta del cesto di panni e del contenitore, secondo un gusto nordico. -LA PALA MONTEFELTRO: Chiuso in un’armatura. Il duca è ritratto di profilo, a mostrare il lato del volto con l’occhio buono, ci appare come un devoto committente inginocchiato di fronte alla Vergine, la quale reca sulle ginocchia il Figlio ed è accompagnata da una corte di santi e angeli. E’ Lei il centro di una rigorosa composizione prospettica che ha il punto di fuga in mezzo al viso. E’ uno spazio all’antica con pareti decorate con riquadri di marmi policromi, lesene scanalte e capitelli, una perfetta valva di conchiglia nella calotta absidale, i possenti lacunari della volta a botte. Ll’uovo di struzzo appeso al di sopra della Vergine è un oggetto non troppo raro tra le suppellettili liturgiche del tardo medioevo. Piero ha deciso di raffigurarlo per accentuare la tridimensionalità dell’architettura. Il crudo dettaglio della mano di Federico, gonfia per la gotta, svela la responsabilità del pittore spagnolo Pedero Berruguete. -GIUSTO DI GAND E LA PALA DEL CORPUS DOMINI: alle st Oriette prospettiche della predella di Paolo Uccelo nel gradino, rispondeva nella tavola principale con un linguaggio nordico. Giusto di Gand fu chiamato a dipingere la Comunione degli Apostoli. E’ il culmine dell’ultima cena e tutti hanno abbandonato la tavola; i discepoli sono inginocchiati intorno a Cristo che, in piedi, offre il sacramento al primo di loro. Dalla scenografia alla cura dei dettagli, dalle fisionomie dei personaggi alle forme degli angeli: non c’è nulla di italiano fatta eccezione per il personaggio del duca di Montefeltro, ritratto sulla detsra a precedere un gruppo di cortigiani. -LA PREDELLA DI PAOLO UCCELLO: il pittore aveva narrato nel giardino, in 6 episodi, il Miracolo dell’ostia profanata: la storia, appartenente alle persecuzioni antisemite, di un ebreo parigino che, avendo oltraggiato il sacramento ed essendo scopero, finì sul rogo con la famiglia. La vicenda inizia con la sacrilega vendita dell’ostia all’ebreo. -PEDRO BERRUGUETE E UN RITRATTO DI FEDERICO COL FIGLIO: il duca si è preso un attimo di riposo dalle incombenze quotidiane; ancora in armi, siede su di uno scranno intento alla lettura di un libro, mentre un fanciullo elegante si appoggia al suo ginocchio e non lo vuole disturbare. L’atmosfera è intima, la luce suffissa e la pittura oleosa indaga ogni dettaglio, soffermandosi sui bagliori metallici dell’armatura,sulla coperta rossa del volume e sulle carni dei due protagonisti. Il bambino è Guidobaldo da Montefeltro, erede di Federico e llora non più grande di 6 anni. della scena, attentamente spartita da una colonna scanalata in un ambiente unitario, che alterna il geometrico reticolato prospettico di una rustica pergola di viti con la veduta urbana, dominata da edifici all’antica. Le figure tendono a essere scrociate di sotto in su, così da amplificarne l’aspetto monumentale, come aveva fatto Donatello nelle Storie di Sant’Antonio. La veduta d’insieme di queste rivela la capacità di Andra di evolvere dall’apprendistato squarcionesco, per farsi regista di una narrazione teatrale altissima e tragica. -LA PALA DI SAN ZENO A VERONA: nel formato del dipinto, Mantenga offrì una propria variante dell’allestimento donatelliano dell’altare maggiore della Basilica del Santo, ch era completato da una struttura architettonica in pietra: un quadriportico sormontato da una lunetta, entro il quale le statue erano raggruppate in una sacra conversazione, a fare l’effetto di una pala tridimensionale. Bella tavole di Mantenga il quadriportico è costruito attraverso l’interagire tra la cornice lignea e l’architettura illusionistica di gusto antiquariato, dipinta in prospettiva e aperta sul fondo a mostrare il cielo. Nello spazio unificato si ergono le figure statuarie della Madonna col Bambino e di 8 santi, accompagnate da alcuni spiritelli:figure dallo spudorato carattere donatelliano, nella fierezza di certi volti, nella difficoltà di alcuni scorci. E’ una conseguenza della formazione con Squarcione la decorazione che alterna i rilievi all’antica dagli elementi architettonici sureggianti festoni di frutta calanti dall’ architrave. -.LA PREDELLA DELLA PALA DI SAN ZENO: nel gradino sottostante al registro principale sono raffigurate tre storie di Cristo: l’Orazione nell'orto, la Crocifissione e la Resurrezione. In tutti e tre i casi si tratta di copie. Narrato con colori esuberanti, il doloroso evento evangelico appare come pietrificato nella consistente compattezza dei protagonisti, colti in scorci arditi, studiati nelle anatomie e disposti su di un selciato fatto di macigni squadrati. Rocce appuntite svettano a fare da quinte , mentre in lontananza una salita conduce a una città sulla cima di un colle, torri ed edifici con una cupola simile a quella del Pantheon. -UN’ORAZIONE NELL’ORTO: un commovente racconto in cui gli apostoli dormono serenamente, mentre Cristo recita la sua ultima preghiera, in attesa dei soldati che vengono ad arrestarlo. Costoro arrivano da Gerusalemme che dentro le sue mura, alterna architetture venete e romane, in omaggio alla passione antiquaria del pittore. ANDREA MANTEGNA Mantegna si trasferì a Mantova, presso la corte del marchese Ludovico Gonzaga. Ludovico combinava la dimestichezza con il mestiere delle armi e la passione per le lettere e l’antichità. -LA MORTE DELLA VERGINE E LA VEDUTA DEL PONTE DI SAN GIORGIO: il dipinto si trova nella cappella privata all’interno del castello. La vecchia è distesa, senza vita, nel letto funebre, circondata da un gruppo di apostoli profondamente donatelliani, per vigore e temperamento, sul fondo della sala, ben messa in prospettiva, si apre una grande finestra, a mostrare un paesaggio: la realistica veduta di quanto si poteva ammirare affacciandosi dalla dimora dei Gonzaga. E’ uno scorcio dell’antico ponte di San Giorgio e del circostante bacino lacustre. -LA CAMERA DEGLI SPOSI: Gianfrancesco Gonzaga, padre di Ludovico aveva chiamato Pisanello, per fargli affrescare una sala nel Castello di San Giorgio. Pisanello aveva dipinto un ciclo cavalleresco che reca i nomi dei protagonisti di romanzi arturiani francesi, ispirato alle tendenze del Gotico internazionale. Gli affreschi che Mantegna realizzò furono nella “camera picta", la Camera degli Sposi. In questa aula di rappresentanza si preferisce la concretezza del racconto di quotidiane scene di corte illustrate tramite un finto loggiato coronato di festoni, dove i tendaggi si aprono a mostrare solidi personaggi su sfondi di paese. In una scena, Ludovico Gonzaga, seduto accanto alla moglie e di fronte alla sua corte, riceve da un fido segretario una lettera, che si è creduto riferisse la notizia delle cattive condizioni di salute del duca di Milano Francesco Sforza. In un’altra scena il signore mantovano incontra il figlio Francesco, ormai divenuto cardinale. L’altro prelato reca per mano il fratello minore Ludovico, che tiene a sua volta il piccolo Sigismondo, mentre accanto al marchese si riconosce il nipotino Francesco, che ne erediterà il titolo. Il dipinto è una celebrazione dinastica. Alle spalle del cardinale, Mantegna allestisce un paesaggio dominato da una città fortificata, dove la cinta muraria è ispirata alle mura aureliane di Roma. -IL SOFFITTO DELLA CAMERA DEGLI SPOSI: nella volta della Camera degli Sposi Mantegna finge con la pittura una serie di elementi architettonici e una festosa sequenza di busti di Cesari clipeati (inseriti entro un cerchio, che richiama la forma di un clipeo, di uno scudo rotondo) i medaglioni con gli imperatori, ognuno identificato da una scritta, fanno da contorno all’idea di sfondare il centro del soffitto con un ovulo prospettico aperto sul cielo (omaggio al Pantheon) dal quale si affacciano con curiosità alcuni spiritelli. -IL CRISTO MORTO: l’oculo della Camera degli Sposi è una prova delle capacità prospettiche di Mantegna sia nella concezione sia nella resa tridimensionale dello spazio. L’immagine è dipinta su tela: cosa inconsueta nel 400. Il soggetto è un compianto sul Cristo morto, ma i dolenti si fanno di lato, ridotti a poco più che teste piangenti. Il corpo nudo di Gesù, poggiato sulla dura pietra dell’Unione, monopolizza la scena: il sudario dalle piaghe metalliche che cala dal bacino poco sopra le caviglie, così Mantegna può dedicarsi allo studio dell’anatomia. L’atmosfera è cupa, i colori sono spenti, l’effetto è scultoreo. -LA CHIESA DI SAN SEBASTIANO: a Leon Battista Alberti si devono i progetti di un paio di chiese mantovane che avrebbero necessitato un direttore dei lavori. In questo caso il compito toccò a Luca Fancelli. La struttura si sarebbe distinta sia per l’aspetto classico del prospetto, ma anche per la struttura rialzata su di una cripta e concepita con una pianta centrale che giocava a mettere proporzionalmente insieme le forme geometriche del cerchio e del quadrato. Il risultato fu molto moderno. -LA CHIESA DI SANT’ANDREA: Ludovico diede avvio al cantiere inteso a ricostruire, in forme moderne, la chiesa medievale di Sant’Andrea, che custodiva la venerata reliquia del sangue di Cristo. Alberti studiò un’ennesima facciata ispirata a un tempio antico e un maestoso interno a pianta basilicale, che nelle imponenti arcata a lacunari della navate e delle cappelle laterali ricorda l’antica Basilica di Massenzio a Roma. -L’ARCO DEL CAVALLO: prima di trasferirsi a Mantova, Mantegna aveva fatto una breve apparizione anche a Ferrara, presso la corte del marchese Lionello d’Este. Nella principale piazza ferrarese, ai piedi del Palazzo Ducale e di fronte alla facciata romanica della Cattedrale, si innalza un monumento pubblico che reca il segno del passaggio in città di Leon Battista Alberti. Si tratta dell’ “arco del cavallo” eretto dal fiorentino Niccolò Baroncelli. Baroncelli si era occupato del dettero, mentre la soprastante statua del padre di Lionello era stata eseguita da un altro fiorentino Antonio di Cristoforo. La tipologia di monumento evoca immediatamente il Gattamelata di Donatello, ma si distingue per un’invenzione antiquario più sofisticata: porre la statua equestre in cima ad un arco. -SAN CRISTOFORO: Bono da Ferrara affrescò il lato destro della Cappella Ovetari agli Eremitani, nel cantiere che avrebbe visto protagonista Mantegna. Nella monumentalità del gigante che reca Gesù fanciullo sulle spalle e nella raffigurazione del paesaggio, l’immagine ricorda la pittura di Piero della Francesca. -LA MUSA PER BELFIORE: il tempo di Borso d’Este vide la nascita di una vera e propria scuola pittorica ferrarese, che ebbe il suo primo protagonista in Cosmè Tura e trovò la sua icona in una Musa. La tavola faceva parte di una serie di 9 Muse, destinata a decorare lo studiolo della “delizia” di Belfiore, una residenza degli Estensi che non è giunta a noi. Tura si distingue per un temperamento davvero estroso. Nella figura sembra di riconoscere qualcosa di ogni grande artista che aveva frequentato Ferrara negli anni di Lionello: Pisanello è evocato nel tono cortese, mentre il perfetto ovale del volto, la saldezza strutturale della giovane, la luce tersa e il panneggio aderente alle gambe attestano una buona conoscenza della pittura di Piero della Francesca. Per le accese cromie e la precisione descrittiva dei dettagli viene in mente la pittura fiamminga di van der Weyden. Questa miscela esplosiva vira verso un linguaggio eccentrico: nella posa della Musa, nell’ irrefrenabile fantasia del trono su cui siede, nel tenore metallico delle superfici e dei panneggi. Cosmè Tura lavorò con la frequentata bottega di Francesco Squarcione a Padova. - I MESI DEL PALAZZO SCHIFANOIA: la migliore finestra per gettare uno sguardo sulla Ferrara artistica del 400 è il Salone dei Mesi di Palazzo SCHIFANOIA: un edificio sorto per godersi le gioie della vita. Per il salone di rappresentanza, Borso d’Este chiese all’umanista e astrologo Pellegrino Prisciani di imbastire un erudito programma, finalizzato a celebrare la corte attraverso un ciclo allegorico dei 12 mesi dell’anno. -FRANCESCO DEL COSSA: il solo nome documentato è quello di Francesco del Cossa per l’esecuzione delle scene di Marzo, Aprile e Maggio. Il tema dei mesi, che tanta fortuna godeva in ambito cortese din dal Gotico internazionale è organizzato su 3 registri paralleli: in alto è il trionfo della divinità mitologica del mese, al centro il segno zodiacale con le relative figure allegoriche, in basso uno scorcio della vita di corte. A dominare Aprile, sotto il segno del Toro, è Venere, trionfante su un carro trainato da una coppia di cigni e sul quale compare anche Marte incatenato: tutto intorno un gruppo di giovani, accompagnato solo sfondo dalle 3 Grazie e qua e là da gruppetti di fertili conigli. Nel registro inferiore compare il duca Borso: in mezzo al fidato seguito rientra prima da una battuta di caccia e dona una moneta al giullare di corte Scocola, mentre in lontananza, a coronare il fondale, si scorge il racconto del palio di San Giorgio. Il dettaglio del giovane seduto sul cornicione nel proscenio, a dividere i due episodi in cui il duca è protagonista, è sufficiente a rivelare quanto Francesco del Cossa sapesse ben conflo are le figure nello spazio. -L’ESORDIO DI ERCOLE DE’ ROBERTI: alcuni episodi del mese di Settembre protagonista della pittura ferrarese del 400, Ercole de’ Roberti. Mentre il divino Vulcano trionfa sul suo carro, un grottesco gruppo di Ciclopi è duramente impegnato a realizzare armi nella sua Fucina, in cui mostra uno scudo con la lupa, Romolo e Remo. Marte e la vestale Ilia, dentro un letto coperto da un lenzuolo oltremodo increspato, si accoppiano: dal loro amore nasceranno i gemelli ai quali il mito assegna l’origine di Roma. -LA PALA ROVERELLA: Cosmè Tura dipinse un trittico centinato per la cappella della famiglia Roverella, nella chiesa ferrarese di San Giorgio fuori le Mura. Lo scomparto centrale con la Madonna col Bambino e angeli è alla N.G.L. Nonostante le cornici che articolano la composizione come a citare la tipologia del polittico, lo spazio della pala vuole essere unico, grazie alla prospettiva e alle grandi arcate in scorcio degli elementi superiori, e le figure sacre sono innervate dal medesimo estro della Musa di Belfiore e dei Mesi di Palazzo Schifanoia. -LA PALA GRIFFONI: a seguito dei dissapori sorti con Borso d’Este per i pagamenti dei Mesi ferraresi, Francesco del Cossa si trasferì a Bologna, dove dipinse una pala per la Cappella Griffoni nella chiesa di San Petronio. Era un trittico di formato rinascimentale, che al centro rendeva omaggio al domenicano San Vincenzo Ferrer e del registro superiore faceva affacciare, ancora da un fondo dorato, l’elegante copia dei Santi Floriano e Lucia. Per la predella con le storie del domenicano spagnolo e i santini dei pilastrini, Cossa si fece aiutare da Ercole de’ Roberti, che lo seguì a Bologna. senso dei volumi, tipicamente italiano, capace di evocare il solido rigore geometrico di Piero della Francesca. -IL POLITTICO DI SAN GREGORIO (1473): il polittico, corredato nel piedistallo da un cartellino dipinto con fiamminga sapienza illusionistica, per apporre la firma e attestare l’anno di esecuzione. Nella pala, giunta fino a noi senza l’elemento centrale di coronamento e la ricca cornice gotica, Antonello crea uno spazio unificato, nonostante l’astratto oro del fondo. E’ uno spazio costruito attraverso il basamento del trono della Vergine col Figlio, che si estende pure negli scomparti laterali e al centro nel quale pende un verissimo rosario. Di fianco a Maria, alludono alla profondità dello spazio le forme volumetriche dei santi Gregorio, a sinistra, e Benedetto, a destra, effigiati per rendere onore al titolare della chiesa e dell’ordine cui la stessa badessa apparteneva; i due santi pongono un piede in bilico sul gradino. -L’ANNUNCIAZIONE: il dipinto ripropone nella Vergine e nell’Angelo quasi gli stessi modelli delle cuspidi del polittico messinese, che qui sono saldamente inseriti in un interno domestico; campeggiano sul fondo scuro di una parete, confinante con altri vani illuminati da finestre aperte, in lontananza, su di una verdeggiante campagna. E’ una descrizione della casa di Nazareth in cui Maria ricevette l’annuncio di Gabriele: qui Antonello è capace di amalgamare la luce e la definizione fiamminga con un’efficace resa tridimensionale. GLI ESORDI DI GIOVANNI BELLINI Alla metà del 400, la Padova di Donatello, Squarcione e Mantegna stimolò Venezia ad aprirsi al Rinascimento. Il principale protagonista di questa vicenda fu Giovanni Bellini, detto Giambellino. Le prime opere di Giovanni somigliano a quelle di Mantegna e le ultime a quelle di Tiziano. Giovanni Bellini era nato a Venezia in un ambiente artistico profondamente devoto al linguaggio del Gotico internazionale. -LA PIETA’: la prima fase dell’attività di Giovanni Bellini fu connotata da uno stile padovano. Questo dipinto rappresenta una sorta di variante della Pietà di Donatello per l’altare del Santo, e intenerisce le durezze delle figure tipiche di Squarcione e di Mantegna attraverso una luce calda,che leviga le forme del Cristo morto e degli spiritelli ai suoi lati. Nel paesaggio sullo sfondo Bellini sembra aver voluto raffigurare un borgo murato dell’ entroterra veneto, ma arricchito di alcune architetture all’antica. -UN’ORAZIONE DI CRISTO DELL’ORTO: Bellini e Mantegna dipinsero il medesimo episodio. Giovanni Bellini cerca di intenerire le durezze mantegnesche attraverso la luce calda che rischiara il cielo, e si diffonde nella campagna in cui Cristo si inginocchia a recitare la sua preghiera. -LA TRASFIGURAZIONE CORRER: nella zona superiore della tavola si notano i segni di una originaria cornice cuspidata, poi mutilata dalla volontà di ridurre a quadro da Valeria una tavol nata per stare al centro di una pala d’altare. L’episodio in cui Cristo conversa sul monte Tabor con Mosè ed Elisa, al cospetto dei discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, è narrato ancora alla maniera di Mantegna, particolarmente nella saldezza delle figure, nelle pieghe indurite dei loro panneggi e nell’’aspra base rocciosa in primo piano. -LA TRASFIGURAZIONE DI CAPODIMONTE: Bellini avrebbe dipinto nuovamente la medesima scena. La distanza tra le due versioni è enorme: lo stile del pittore appare radicalmente diverso. Le asperità mantegnesche sono circoscritte alla sedimentazione rocciosa sul proscenio e la superficie del dipinto brilla d'una luce estiva, dovuta alla scelta di utilizzare la pittura ad olio, capace di addolcire le figure e modellarne le forme con colori splendenti; una luce che si irradia sulla verdeggiante campagna veneta, eletta d attrice principale dell’episodio. Pittura a olio, colore e natura: sono questi i cardini della nuova pittura veneziana di cui Giovani appare profeta. -LA PALA DI SAN CASSIANO DI ANTONELLO: Antonello giunse a Venezia dove fu impegnato a dipingere tale pale d’altare. Il committente era il patrizio veneziano Pietro Bon, che era stato console di Tunisi. Di quel dipinto, purtroppo, resa solo un lacerto della zona centrale con la Madonna col Bambino accompagnata dalle frammentarie figure dei santi Nicola, Maddalena, Orsola e Domenico. Gli studi sono riusciti a mostrare il gruppo della Vergine col Figlio in trono, al di sopra di un alto basamento, accompagnata dai santi laterali entro la solenne architettura di un’abside spaziosa. Questa tipologia di pala d’altare sembra essere una sorta di risposta veneziana alla Pala di Montefeltro di Piero della Francesca. -LA PALA DI SAN GIOBBE DI BELLINI: è un opera che dalla Pala di San Cassiano riprende non solo il modello, ma anche le qualità luministiche e naturali delle figure e degli oggetti. In entrambi i dipinti San Domenico appare con la tosatura dei capelli tipica dei frati e sprofondato nella lettura; ma la corrispondenza non è solo nelle soluzioni iconografiche:è soprattutto una convergenza di stile. Entrambe le scene si compiono in un’abside spaziosa e moderna, messa in prospettiva e con una calotta decorata a mosaico che esalta le radici bizantine della decorazione musiva veneziana. -IL SAN GIROLAMO NELLO STUDIO: a Venezia Antonello lasciò una piccola tavola in cui raffigurò San Girolamo nello studio come se fosse un umanista del 400 seduto di fronte alla sua scrivania e in mezzo ai suoi libri. La scena si svolge al di là di una sorta di finestra illusionistica,che ha le forme di un arco gotico catalano. Sono di gusto catalano anche le maioliche del pavimento, che tuttavia seguono un ordinatissimo ordito spaziale. L’intera composizione è sorretta da una rigorosa prospettiva italiana, ben evidente nella costruzione tridimensionale del palchetto in cui siede la solida figura del santo e nella fuga prospettica della galleria in cui passeggia il leone. I paesaggi al di là delle finestre sul fondo, l’architettura gotica della grande aula con i pilastri e la volta a crociera , il particolare uso della luce e la minuziosa cura per i dettagli parlano un linguaggio nordico. -DUE RITRATTI: il gioco dei paragoni fra Antonello e Bellini si può estendere anche alla categoria del ritratto. Tra questi vi era un Giovane con veste rossa rappresentato di ¾ su fondo scuro, corredato in basso dal solito cartellino con la firma del messinese. Dipingendo a sua volta un ritratto qualche anno dopo, Giovanni usa l’identico schema, adottando la posa di ¾ e dimostrando di avere compreso appieno il valore delle novità antonelliane. -L’ANNUNCIATA: fa l’effetto di un ritratto, che emerge dal fondo scuro di radice fiamminga con una concretezza tutta italiana, anche la malinconica ed essenziale Annunciata. Al di sotto del suo solido velo, ella guarda umilmente verso di noi, a cercare l’Angelo che l’ha distolta dalle lettura; il libro è aperto sul leggio, posto di spigolo e delineato dalla luce, a dare il senso di uno spazio tridimensionale. - IL SAN SEBASTIANO: un dipinto in cui Antonello appare più italiano che mai, nei comignoli tipicamente veneziani degli edifici, nella perfetta scansione spaziale e nel plasticismo di un nudo che ricorda le figure di Piero della Francesca. La profondità del palcoscenico in cui Sebastiano subisce il martirio delle frecce è enfatizzato dalle linee prospettiche della pavimentazione, dagli arditi scorci del frammento di colonna in primo piano dell’uomo sdraiato sulla sinistra. -CARLO CRIVELLI NELLE MARCHE: il pittore Carlo Crivelli ebbe un grande successo nelle Marche dove divulgò una pittura che si esaltava proprio in colossali politici di formato gotico. Uno di questi fu compiuto nella Cattedrale di Ascoli Piceno. Si tratta di un complesso a 5 scomparti e due registri, sul fondo oro dei quali risaltano i caratteri tipici di Squarcione, tanto nelle espressioni nervose e nei panneggi metallici delle figure, quanto nel festone di frutta che corona il trono su cui siede la Vergine col Figlio, al centro. -ALVISE VIVARINI E IL POLITTICO DI MONTEFIORENTINO: Alvise dipinse un polittico per il convento francescano di Montefiorentino nel Montefeltro dimostrando di aver ben assimilato le novità padovane. Lo spazio è unificato attraverso il pavimento sul quale si innalzano i protagonisti: i santi Francesco, Pietro, Paolo e Giovanni Battista degli scomparti laterali, e la Vergine al centro, la quale siede su di un trono solido e molto semplice, tenendo il Bambino disteso sulle ginocchia. -LA PALA DI PESARO DI GIOVANNI BELLINI: il dipinto illustra l’Incoronazione della Vergine con 4 santi: un soggetto che nella tradizione veneziana era associato alla forma del polittico gotico e Giovanni interpreta in maniera nuova. Le figure dei santi che avrebbero potuto trovare posto negli scomparti laterali si raccolgono di fianco alla Vergine, nell’unica scena di una tavola quadrata, delimitata da una cornice intagliata, in cui risaltano le storiette della predella e le piccole figure di santi nei pilastrini laterali; sul coronamento era una Pietà. L’aspetto più innovativo di questa immagine è nella rigorosa razionalità prospettica del pavimento e del trono, decorato con motivi di gusto antiquariato e che nella spalliera si apre a mostrare un quadro nel quadro: un’inedita veduta di paese, sovrastata da un castello. E’ come se Bellini volesse combinare due mondi diversi: la natura e il colore. -MAURO CODUSSI E SAN MICHELE IN ISOLA: Mauro Codussi avviò il cantiere della chiesa di San Michele in Isola, dando svolta all’architettura veneziana. L’edificio sorge nell’isola della Laguna intitolata a San Michele e si distingue per la candida facciata, coronata ai lati da una coppia di volute a al centro da un ampio timpano arcuato: una soluzione ispirata a quella che Leon Battista Alberti aveva progettato per il Tempio Malatestiano a Rimini, dove non sarebbe stata portata a compimento. San Michele in Isola è il primo edificio rinascimentale della Laguna. -PIETRO LOMBARDO E SANTA MARIA DEI MIRACOLI: il motivo del timpano arcuato si trova anche in tale chiesa: uno scrigno di marmi policromi, costruito in una centralissima zona di Venezia e su progetto di Pietro Lombardo. L’edificio testimonia il diffondersi del gusto albertiano nella Laguna, per tramite di un maestro che era architetto e scultore. L’artista si formò a Padova dove ultimò il monumento sepolcrale del giurista Antonio Rosselli nella Basilica del Santo: un complesso che deriva dai modelli delle tombe Bruni e Marsuppini scolpite da Bernardo Rossellino e Desiderio Settignano in Santa Croce a Firenze. -IL BARTOLOMEO COLLEONI DEL VERROCCHIO: nella città si iniziò a ristrutturare la Scuola Grande di San Marco, che avrebbe avuto una facciata progettata da Mauro Codussi. Nella prospiciente piazza si era frattanto in procinto di innalzare un colossale monumento equestre, che avrebbe superato in audacia il Gattamelata di Donatello. Per rendere onore al condottiero Bartolomeo Colleoni la Repubblica di Venezia reclutò il fiorentino Andrea del Verrocchio, che dovette realizzare un modello a grandezza naturale della scultura. Per vederne la versione finale in bronzo fu necessario attendere diversi anni: alla morte del Verrocchio il lavoro non era finito e fu compito in seguito dal veneziano Alessandro Leopardi. Nel monumento questore egli dimostra di sapere andare oltre l’esempio del Gattamelata donatelliano in due modi: accentuando tanto la resa espressiva del volto del condottiero, quanto il dinamismo del cavallo, che qui si erge su 3 zampe, alzando l’anteriore destro nel vigoroso incedere, laddove l’equino donatelliano poggi a tre zampe a terra e una su di una sfera. SEZIONE V POLLAIO E VERROCCHIO riconoscono i segni della lezione del Verrocchio nei panneggi delle vesti plasmati dalla luce, nell’eleganza dei volti e nelle fisionomie, nella composizione piramidale della figura di Maria, e nel piede del leggio che evoca il gusto archeologico della tomba di Piero e Giovanni de’ Medici. Riconosciamo anche gli elementi personali grazie ai quali Leonardo si era distinto nel Battesimo: la morbidezza delle capigliature e il dettaglio di un lontano paesaggio in cui, tra la nebbia, si ergono rocciose montagne, un tema che sarebbe rimasto nel cuore del pittore. -UN’ADORAZIONE DEI MAGI INCOMPIUTA: le giovanili sperimentazioni di Leonardo culminarono nell’Adorazione dei Magi. La pala appare come una sorta di grande disegno, corredato di pochi colori, ma vibrante di una nuova animazione. Di norma, come insegna la tavola di Gentile da Fabriano, l’Adorazione dei Magi era illustrata ordinando la capanna di lato in primo piano e l’arrivo del corteo dei Magi sul proscenio. Leonardo, invece, dispone la Madonna con il Bambino al centro e fa ruotare intorno a costoro il folto gruppo dei sovrani orientali e del loro seguito. In secondo piano le mole delle scale e degli archi di un edificio in costruzione si alterna con il collaudato paesaggio roccioso. Un disegno preparatorio per il dettaglio dell’architettura dimostra l’assoluta competenza prospettica di Leonardo. -L’ADORAZIONE DEI MAGI DI BOTTICELLI: oltre a Leonardo, Firenze poteva contare su altri pittori emergenti, primo fra tutti Sandro Botticelli, che per primo allestì un’Adorazione dei Magi, mettendo per il gruppo di Maria e di Cristo fanciullo entro un fabbricato in rovina al centro del dipinto. La tavola stava in origine a Santa Maria Novella, nella cappella di Gaspare del Lama. L'omonimia tra il committente e uno dei Magi giustifica la scelta del soggetto omaggiati con una serie di ritratti: nel mago anziano inginocchiato ai piedi di Cristo, Vasari riconosceva Cosimo il Vecchio, nei Magi chinati sotto sono ritratti i suoi figli Piero il Gottoso e Giovanni (in veste rossa e bianca), mentre i nipoti Lorenzo e Giuliano si individuano nel giovane pensoso nel gruppo di destra e in quello in primo piano all’estremità sinistra. Come Leonardo, anche Botticelli si affida alla recitazione dei suoi attori, ma il risultato è diverso, l’effetto è meno concitato e le figure sono costruite attraverso netti contorni (Antonio del Pollaiolo). -GIULIANO DA SANGALLO, LA VILLA DI POGGIO A CAIANO: la principale commissione architettonica di Lorenzo il Magnifico giunta a noi è la villa di Poggio a Caiano, nei dintorni di Prato. L’impresa fu affidata a Giuliano da Sangallo, eclettica figura di architetto e scultore in legno. Poggio a Caiano rinuncia a ogni allusione al carattere difensivo e l’architettura realizza un dialogo con il territorio circostante. Non ci sono più torri e merlature: la villa ha l’aspetto di un elegante palazzo, con un solido porticato alla base, utile a immettere in locali di servizio sottostanti l’abitazione, ma anche a permettere una panoramica passeggiata nella soprastante terrazza. Alla dimora signorile si accede tramite una doppia rampa a tenaglia (frutto di un intervento successivo: l’originalità progetto prevedeva una coppia di scale perpendicolari) e un pronao all’antica con colonne ioniche e timpano: da qui si entra nel luminosa interno, dominato da un grande salone. Dall’altra parte della valle, a Tavola, Lorenzo volle costruire un secondo polo della sua tenuta: le Cascine, cioè un complesso agricolo articolato e moderno. -SANTA MARIA DELLE CARCERI A PRATO: Lorenzo il Magnifico decise di finanziare la costruzione della chiesa chiamata così perché sorse, in seguito a un miracolo, sul sito in cui si trovavano le prigioni: un’antica immagine della Vergine aveva preso vita di fronte a un bambino. Progetto e cantiere furono affidati allo stesso Giuliano da Sangallo, che impostò l’edificio su di una pianta a croce greca. Insieme con la chiesa di San Sebastiano, progettata da Leon Battista Alberti per Mantova, è uno dei primi esempi della tipologia di chiesa a pianta centrale che tanto successo avrebbe avuto nei decenni successivi,a partire dal disegno di Donato Bramante per la nuova Basilica di San Pietro. Il paramento murario esterno si contraddistingue per le preziose partiture architettoniche rinascimentali bicrome, realizzate in marmo bianco di Carrara e verde di Prato. -PALAZZO STROZZI A FIRENZE: Lorenzo non ebbe bisogno di fare costruire una dimora in città perché abitò la casa di famiglia che il nonno Cosimo aveva fatto fabbricare a Michelozzo. Ma quel moderno edificio rappresentò il modello per altri palazzi tra cui spicca quello voluto da Filippo Strozzi, mercante e banchiere, capofamiglia di un clan ostile ai Medici. Palazzo Strozzi riprende le originarie forme cubiche di Palazzo medici e si innalza su tre piani intorno a un cortile centrale, guardando all’esterno con un prospetto a bugnato digradante in altezza, sul quale si aprono finestre quadrate al pian terreno e bifore con arco a tutto sesto ai due piani superiori. Del pala si conserva un modello ligneo,consuetudine degli architetti che mostravano ai committenti il prototipo. SANDRO BOTTICELLI In pittura il mito dell’Età Lauren zia a associato al nome di Sandro Botticelli e a due dipinti la Primavera e la Nascita di Venere. Probabilmente destinati in origine al Palazzo Medici di Via Larga, essi non furono commissionati da Lorenzo il Magnifico, ma dal più giovane cugino Lorenzo Pierfrancesco. -LA PRIMAVERA: al centro della scena della Primavera è la dea dell’amore Venere, che si erge vestita in mezzo a un bosco di aranci verdeggiante di infinite specie vegetali, accompagnata in alto da Cupido bendato;alla sua sinistra il vento di primavera Zefiro rapisce per amore la ninfa Clori.Unitasi al vento,Clori rinasce nelle forme di Flora:personificazione della Primavera,che veste un abito ricamato di piante e incede spargendo fiori. A destra di Venere danzano le tre Grazie,mentre mercurio scaccia le nubi. -LA NASCITA DI VENERE:nell’altro dipinto è rappresentata la nascita di Venere, con la dea che, al di sopra di una conchiglia, approda sull’isola Cipro, sospinta dal vento di Ponente (Zefiro, abbracciato a una figura femminile) e accolta da una ancella nelle vesti della Primavera, che le porge un manto fiorito per coprirla. La seconda delle due favole antiche è tratta da uno degli episodi narrati da Ovidio nelle Metamorfosi. Sono opere della maturità di un Botticelli che rinuncia alle predilezioni prospettiche della pittura fiorentina del 400 e propone grandi scene in cui la resa spaziale viene di fatto elusa. Attentamente disegnate nei contorni, le figure appaiono bidimensionali e prive di vigore plastico: Botticelli rinuncia alla maternità, proponendo la visione di un paradiso divino e ideale, distante dal lessico propugnato da Brunelleschi, Donatello e Masaccio. -IL COMPIMENTO DELLA CAPPELLA BRANCACCI: la cappella Brancacci era la palestra per eccellenza per la formazione dei giovani fiorentini. Le Storie di San Pietro che Masaccio e Masolino avevano lasciato incompiute erano state ultimate da un altro pittore. Filippino Lippi, figlio di Filippo, ovvero di quello che era stato il più masaccesco tra i masacceschi. Quando il padre morì, Filippino era già con lui, in bottega, e negli anni successivi avrebbe proseguito il suo apprendistato con Botticelli: dalla pittura di Sandro dipendono le due opere più antiche, come i Tre arcangeli e Tobiolo. Quando si trovò a terminare il ciclo della Cappella Brancacci, Filippino capì quanto fosse necessario in quel contesto dialogare con l’austerità masaccesca. Lavorando al registro inferiore, adottò per le sue scene una composizione severa e semplificata, priva di attenzione agli ornati, come si vede nella Crocifissione di San Pietro. A guardare le forme dei volti e dei panni, non è difficile riconoscere una resa grafica simile alla pittura di Botticelli. GHIRLANDAIO E FILIPPINO Nella Firenze di redò 400 non mancarono grandi cicli ad affresco destinati a cappelle familiari in edifici pubblici. I più importanti furono realizzati da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in Santa Trinita e in quella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove Filippino Lippi si deve la Cappella Strozzi. -GHIRLANDAIO E LA CAPPELLA SASSETTI: Francesco Sassetti volle che la sua cappella nella chiesa dell’ordine benedettino di Santa Trinità fosse decorata con una serie di episodi della vita del suo santo onomastico, Francesco d’Assisi, e affidò il lavoro a Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio. Egli elaborò un linguaggio affabile, chiedo e sereno, che gli permise di riscuotere notevole successo. Nell’ illustrare le storie francescane, Ghirlandaio scelse di ambientare alcuni episodi a Firenze, al fine di sottolineare la stretta consuetudine con il Magnifico di Sassetti. La scena della Conferma della regola appare quasi un pretesto per allestire sul fondo una veduta quasi da cartolina di Piazza della Signoria. Sul proscenio, ad assistere all’evento, sono ritratti una serie di personaggi: a destra, in abito rosso, è Francesco Sassetti, significa mente affiancato dal giovane figlio e da Lorenzo de’ Medici; di fronte sono i figli maggiori del committente , mentre dalla scala centrale sta salendo Agnolo Poliziano, accompagnato dai rampolli di casa medici. -LA PALA SASSETTI E IL TRITTICO PORTINARI: al centro della cappella è sorta di trittico, costituito dalla pala d’altare con l’Adorazione dei pastori e le figure inginocchiate dei Sassetti e della moglie affrescate di lato. Nel formato, nel sarcofago adattato a mangiatoia e nelle lesene della capanna, la pala d’altare palesa una serie di fin troppo espliciti richiami all’antico. Lo spiccato verismo dei pastori e dei committenti, frutto di un consapevole omaggio alla pittura fiamminga. Il riferimento è al Trittico Portinari che fu dipinto dal principale pittore di Gand, Hugo van der Goes su commissione di Tommaso Portinari. Nel trittico il pittore illustra al centro la Natività, contraddistinta dal tono rustico dei pastori adoranti e accompagnata nei laterali dagli uomini e dalle donne di casa Portinari, inginocchiati e protetti da un paio di coppie di santi. -FILIPPINO LIPPI E LA PITTURA FIAMMINGA: per comprendere gli effetti del Trittico Portinari si può guardare anche alla pala con l’Apparizione della Vergine a San Bernardo da Chiaravalle di Filippino Lippi. Il dipinto è carico di suggestioni nordiche nella scrupolosa definizione dei dettagli (libri del santo), nel realismo del committente Francesco del Pugliese raffigurato “in abisso”, nella vibrante accensione cromatica e nella suggestione dell’ accidentato paesaggio. -GHIRLANDAIO E LA CAPPELLA TORNABUONI: Domenico Ghirlandaio stipulò un contratti per affrescare la cappella maggiore della chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Il committente era Giovanni Tornabuoni, zio di Lorenzo il Magnifico, e il programma prevedeva una serie di Storie della Vergine e di San Giovanni Battista. Le peculiarità del ciclo sono riassunte da un paio di episodi. Nella Natività della Vergine, Giorgio Vasari riconosceva una grande diligenza, soffermandosi sulla qualità illusionistica della finestra e sulle donne che lavano la Maria con gran cura. Questa accurata descrizione di un scarna domestica, con le donne della casa attentamente ritratte nel fare visita alla partoriente, testimonia anche i ricchi arredi di una camera fiorentina di fine 400, decorata di spalliere e fregi intagliati all’antica. Una stanza simile torna nella scena della Nascita di San Giovanni Battista. Il registro antiquario si esalta nell’episodio in cui l’angelo compare nel tempio ad annunciare a Zaccaria la futura nascita del Battista, grazie alla scenografia ispirata a un arco romano, ad assistere alla divine apparizione si affollano alcuni membri della famiglia Tornabuoni e della cerchia medicea. -FILIPPINO LIPPI E LA CAPPELLA STROZZI: accanto, nel transetto destro di Santa Maria Novella, è la cappella di Filippo Strozzi volle fare affrescare a Filippino Lippi con le Storie di San Filippo e Giovanni Evangelista. Studiando l’antico a Roma, Filippino dette al suo linguaggio una svolta in senso archeologico, ben manifestata nella Cappella Strozzi. La di Spagna sul secondo registro, raccontando da un lato la vicenda di Mosè, uno degli eroi dell’Antico Testamento, e dall’altro quella di Cristo, il protagonista del Nuovo Testamento. Mosè, in quanto guida del popolo eletto, appare come una prefigurazione di Gesù, che a sua volta trova continuità, attraverso San Pietro, nella figura del papa, quale legittima autorità del popolo cristiano. FIORENTINI A ROMA, GHIRLANDAIO: per dipingere il più rapidamente possibile, Sisto IV arruolò una folta équipe di pittori, giunti a Roma dalla Toscana e dall’Umbria. Si trattò in particolare di Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e del più debole Cosimo Rosselli. Ghirlandaio, insieme con la bottega, aveva già lavorato per Sisto IV alla decorazione della Biblioteca Vaticana e nella cappella ebbe il compito di dipingere la Vocazione di Pietro e Andrea. La scena si apre su una serena veduta del lago di Tiberiade, dove si riconoscono sul fondo le barche dei pescatori che si faranno apostoli: da un lato Cristo chiama a sé Pietro e Andrea, dall’altro Giovanni e Giacomo. Sul proscenio, di fronte a una folla, Pietro e Andrea si inginocchiano di fronte a Gesù, in un’atmosfera di ordinata serenità, che mette insieme il rigore di Masaccio e lo splendore della “pittura di luce”. -BOTTICELLI: a Sandro Botticelli furono affidate ben 3 storie: le Prove di Mosè, le Prove di Cristo e la Punizione dei ribelli. Quest’ultima aveva grande significato, poichè voleva sottolineare quale fosse la pena riservata a chi non rispettava l’autorità ecclesiastica derivata da Dio, attraverso la raffigurazione di un episodio dell’Antico Testamento, ambientato in un paesaggio lacustre dell’Italia centrale, dominato dalla mole di un arco di trionfo antico. Core, Datan é Abiram capeggiarono la rivolta di 250 Israeliti contro la guida di Mosè, che riconosciamo a destra, con l’abito verde e la lunga barba grigia, mentre il giovane Giosuè lo difende dagli assalitori armati di sassi. Al centro, una volta che Dio gli ha dimostrato benevolenza accogliendo il suo sacrificio, Mosè disperde i ribelli che, a sinistra, finiscono per essere cacciati agli inferi dallo stesso Mosè. E’ una storia concitata, dove le figure tendono a essere più bidimensionali che volumetriche, e sono spesso lumeggiate d’oro. Notevole è la differenza con la scena dipinta di fronte e fu affrescata da un pittore umbro, chiamato Pietro Perugino. -IL PERUGINO E LA CONSEGNA DELLE CHIAVI: così come Mosè ricevette da Dio le tavole della legge (nel ciclo per mano di Cosimo Rosselli), San Pietro ebbe da Cristo le chiavi del Paradiso; a entrambi fu riconosciuto un primato di autorità sul loro popolo, che nel caso di Pietro, primo vescovo di Roma e papa, fu eredi stato da ogni pontefice successivo. La scena è ben ordinata: in primo piano, al centro, il barbuto Pietro si inginocchia a ricevere due enormi chiavi del giovane Gesù dai lunghi capelli, sotto lo sguardo degli altri apostoli e di qualche astante in abiti quattrocenteschi; due di questi, sulla destra, recano in mano il compasso e la squadra e quindi si tende a identificare in Baccio Pontelli e Giovannino de’ Dolci, rispettivamente progettista e direttore del cantiere sistino. Il gruppo di attori è disposto sulla ribalta di un’ampia piazza, pavimentata con grandi lastre di marmo che individuano con chiarezza la fuga prospettica indirizzata sull’edificio a pianta centrale disposto sul fondo, che vuole alludere al tempio di Salomone. Lo affiancano due archi antichi che richiamano le forme di quello di Costantino. In secondo piano si muovono una moltitudine di figure, a narrare due ulteriori episodi evangelici: il tributo della moneta e la tentata lapidazione di Cristo. Anche questo quando contiene tre episodi. Nella consegna delle chiavi risaltano l’ordine e la precisione di una composizione prospettica, scandita su piani diversi e illuminata da una luce nitida e chiara, che fa risaltare le forme tridimensionali dei protagonisti e delle architetture. Quando dipinse la Consegna delle chiavi, Perugino era già un estro affermato, tanto che Sisto Iv affidò le pitture perdute dalla parete dell’altare (la pala con l’Assunta e gli episodi della Nascita di Mosè e di Cristo) e tre ulteriori storie della Cappella Sistina. In lui si può riconoscere il vero regista del ciclo, anche perchè in tutte le scene ricorre uno stesso tipo di paesaggio sereno e verdeggiante. -PERUGINO ALLIEVO DI VERROCCHIO: l’equilibrio prospettico e la nitidezza della Consegna delle chiavi si spiegano con una formazione a Firenze. Nelle figure del Cristo e degli apostoli più giovani dell’opera, che sembrano ispirati dalla grazia del gruppo verrocchiesco dell'Incredulità di San Tommaso di Orsanmichele. Deriva dal Verrocchio anche il modo di accartocciare i lunghi mantelli in ampie pieghe, messe in evidenza dalla luce cristallina; lo si vede nel Cristo, ma anche nell’apostolo di spalle al limitare sinistro. In questa figura, tra l’altro, si riconosce una variante del personaggio dal bizzarro copricapo che occupa una posizione analoga in una tavola di Perugia, dove San Bernardino risana una fanciulla. L’opera è parte di una serie di 8 Storie di San Bernardino dove vi si riconosce, per luce e prospettiva, un impianto verrocchiesco. -PERUGINO MAESTRO DI PINTURICCHIO: nella cappella sistina il Perugino ebbe numerosi assistenti, primo fra tutti il giovane pittore detto il PINTURICCHIO che con Pietro aveva collaborato anche alle Storie di San Bernardino. Evidente è la derivazione dalla Consegna delle chiavi dell’ affresco con i Funerali di San Bernardino nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli a Roma. L’episodio appartiene a un ciclo di Storie di San Bernardino in una cappella che apparteneva allora a Niccolò Bufalini. -IL LINGUAGGIO MATURO DI PERUGINO: Perugino maturò un linguaggio nuovo, ben rappresentato da una pala per la chiesa di San Domenico a Fiesole. Qui la serenità del paesaggio umbro si diffonde sull’intera composizione; davanti a un semplice e severo loggiati, la Madonna col Bambino siede al centro, su un piedistallo appena ornato di un motivo antiquario. La affiancano un devoto San Giovanni Battista, che piega la testa e addita con la destra il fanciullo, e un giovane San Sebastiano che, pur infilzato dai dardi, non esprime dolore. In Lombardia ebbe un grande successo dove Ludovico il Moro gli commissionò una pala per la Certosa di Pavia; il registro inferiore con la Madonna col Bambino e un angelo e i Santi Michele Arcangelo e Raffaele con Tobiolo e Isabella d’Este un dipinto per il suo studiolo di Mantova. Tutte queste opere condividono tanto l’utilizzo della pittura ad olio quanto un medesimo linguaggio. -I MUSCOLI DI LUCA SIGNORELLI: l’affollato cantiere della Cappella Sistina fu frequentato anche da Luca Signorelli. Egli collaborò con il Perugino, dipingendo nella Consegna delle chiavi i dettagli di tre teste di apostoli, riconoscibili per un fare più arcigno in quelli che , contando da destra, occupano il primo, il secondo e il quinto posto alle spalle di Gesù. Il linguaggio di Signorelli è differente da quello di Perugino, preferendo all’equilibrio e alla serenità, la possanza e il movimento dei corpi. Nella Flagellazione di Cristo, Signorelli preferisse una composizione più agguerrita, nel movimento e nelle torsioni dei corpi delle guardie e di Gesù, nei quali la carne non aderisce a un volume puro, ma si gonfia dell’energia dei muscoli. -LA CAPPELLA DI SAN BRIZIO A ORVIETO: Signorelli ottenne l’incarico di decorare la Cappella di San BRIZIO all’interno del duomo di Orvieto. La commissione prevedeva che Luca narrasse nelle pareti le storie della fine del mondo e del Giudizio finale. Il tema era quanto mai adatto al pittore, che lo svolse in forme drammatiche, riempiendo le scene di nudi, studiati nelle anatomie e negli scorci difficili: si osservi il dettaglio dell’episodio della Resurrezione della carne, dove i corpi emergono da un terreno, alcuni in forma di scheletri, mentre altri sono già rivestiti di muscoli e carne. L’Inferno è un trionfo di nudi colti nelle pose più complicate, che possono essere dei diavoli o dei dannati. Il ciclo comprendeva alla base delle pareti le immagini di illustri letterati antichi e moderni, tra i quali di riconosce Dantem intento alla lettura e inserito entro un ornato all’antica, corredato di 4 medaglioni con episodi del Purgatorio e di motivi decorativi detti “grottesche”. La partitura che inquadra il ritratto dantesco richiama quella di alcune sale della Domus Aurea: l’antica villa urbana dell’imperatore Nerone. Le colazioni pittoriche romane conservate al suo interno ebbero un successo immediato presso gli artisti e i committenti, tanto che questa tipologia ornamentale, fatta di figure esili e mostruose, intrecciate o simmetriche, svelte e fantasiose, si diffuse con rapidità. -FILIPPINO LIPPI E LA CAPPELLA CARAFA: Filippino Lippi aveva già manifestato la sua passione per l’antico nella Cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze. Questa impresa fu rallentata dall’incarico di affrescare, nella chiesa domenicana di Santa MAria sopra Minerva a Roma, una cappella per il cardinale napoletano Oliviero Carafa. La parete principale della cappella presenta una soluzione curiosa. Al centro è una pala d’altare, realizzata ad affresco, in cui si compie l’episodio dell’Annunciazione, alla presenza del cardinale committente inginocchiato, che è presentato alla Vergine da San Tommaso d’Aquino. La Vergine è protagonista non solo nell’Annunciazione, ma anche nella storia che si svolge intorno alla pala: una vasta Assunzione popolata di figure bizzarre e capricciose, secondo un registro che si estende alle Sibille della volta soprastante. Per incorniciare le storie della cappella, Filippino finse ad affresco delle paraste ornate a grottesche. -PINTURICCHIO E ALESSANDRO IV: Pinturicchio fu uno dei primi interpreti della decorazione grottesca e ciò permise di imporsi presso una clientela romana affascinata dalla ricchezza di simili ornati, oltre che dal loro richiamarsi all’antico. Alessandro IV si rivolse al Pinturicchio per affrescare il suo appartamento in Vaticano. Egli affrescò le 5 sale con una pittura decorativa, ridondante d’oro, di colori e di grottesche, come si vede nella Resurrezione con Alessandro IV inginocchiato in primo piano, o nell’ affollata Disputa di Santa Caterina d’Alessandria. -ANTONIO DEL POLLAIOLO E DUE MONUMENTI SEPOLCRALI: il trasferimento da Firenze a Roma fu definitivo per i fratelli Pollaiolo. Antonio giunse nell’Urbe mentre Sisto IV stava morendo. Il proposito era di occuparsi del sepolcro del pontefice,che avrebbe dovuto essere di assoluta magnificenza: dietro la commissione vi era l’ambizioso nipote futuro Giulio II. Successivamente lo raggiunse il fratello Pietro, prematuramente scomparso. Entrambi furono sepolti nella chiesa di San Pietro in Vincoli, dove resta il monumento funebre che ne reca i ritratti. -IL MONUMENTO SEPOLCRALE DI SISTO IV: tra le molte imprese finanziate da Sisto IV vi era anche una cappella personale, dove Perugino aveva affrescato la madonna adorata dal pontefice. Davanti a questa immagine fu collocato il colossale monumento sepolcrale. Antonio del Pollaiolo concepì una tomba isolata su tutti i lati, al centro della quale Sisto IV è effigiato con grande naturalezza sul letto di morte, affiancato da rilievi con stemmi araldici e figure di Virtù, resa con il tipico dinamismo dello stile dell’artista. Antonio ha inoltre riservato i lati concavi del basamento del catafalco a un ciclo di 10 immagini allegoriche delle Arti liberali, in veste di eleganti giovani. E’ un corredo adatto al sepolcro di un papa colto come era stato Sisto IV e vi troviamo tutte le discipline apprezzate da un buon umanista. -IL MONUMENTO SEPOLCRALE DI INNOCENZO VIII: Antonio del Pollaiolo si occupò anche nel monumento sepolcrale di Innocenzo VIII, successore di Sisto IV. La tomba fu realizzata secondo un più tradizionale schema parietale, e si conserva nella Basilica di San Pietro. Antonio usa il bronzo, rifinendolo con preziose dorature: in basso disteso sul letto di morte, e in alto, seduto in posa benedicente, mentre con la sinistra tiene la reliquia della punta della lancia con cui Longino avrebbe trapassato il corpo di Cristo durante la Crocifissione. Ad accompagnare l’immagine del pontefice vivo non mancano le virtù; le 4 cardinali si dividono a coppie ai suoi lati, mentre quelle teologali occupano la lunetta. è più definito: l’angelo evita di indicare e le aureole sono sospese sulle teste di Maria, di Cristo e di Giovanni, che ha la croce. -LA DAMA CON L’ERMELLINO: la fama milanese di Leonardo fu dovuta anche alla notevole abilità di ritrattista, che trova conferma in un dipinto come la Dama con l’ermellino. Dal fondo scuro emerge una giovane ben vestita, con il perfetto ovale del volto sottolineato dai capelli lisci, raccolti da un verso e uniti sulla nuca in una lunga treccia, secondo la moda lombarda dell’epoca; tra le mani il candido animale: elemento di natura eletto a simbolo di purezza e possibile richiamo all’ordine cavalleresco dell’Ermellino, a cui appartenne Ludovico il Moro. Nel ritratto si riconosce Cecilia Gallerani, la giovane donna amata dal signore di Milano. Il contrasto tra l’oscurità del fondo e le figure di ¾ , messe in evidenza da una luce intensa, ricorda i ritratti alla fiamminga di Antonello da Messina. -IL CENACOLO DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE: la più ambiziosa impresa milanese di Leonardo è quella dell’Ultima cena, nella parete principale del refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie. E’ un dipinto molto famoso, che Leonardo aveva compiuto entro il 1498, utilizzando non L’affresco, ma una tecnica particolare: dipingeva sull'intonaco asciutto della parete e ritoccava continuamente le figure per perfezionarle. Fu un lavoro accurato, lento e lungo. A causa della tecnica, inadatta all’umidità del luogo, il dipinto murale è arrivato a noi assai deteriorato. Per la luce soffusa e l’adozione dello “sfumato” si respira un’atmosfera non troppo dissimile dalla Vergine delle rocce, ma si preferisce adesso il rigore spaziale di un salone privo di ornati, aperto sul fondo in tre semplici finestroni rettangolari, dai quali filtra la luce. La predilezione per le figure e i gruppi piramidali scandisce ritmicamente la composizione: piramidale è la figura di Cristo al centro, e piramidali sono ai suoi fianchi i gruppi in cui gli Apostoli si raccolgono a terzetti. Al di l degli aspetti realistici, la decisiva novità è nella scelta del tema e nel modo in cui lo stesso viene trattato. La tradizionale istituzione dell’eucarestia, che comportava un fermo momento di raccoglimento,ma l’annuncio del futuro tradimento, che prova negli Apostoli un inatteso turbamento, reso attraverso la gestualità, come se ognuno cercasse il colpevole. Gesti e movimenti, che risaltano nei dettagli del Cenacolo e differenziano il dipinto murale milanese dell’Ultima cena che Ghirlandaio aveva affrescato del refettorio di Ognissanti a Firenze. Anche qui Cristo annunciava il tradimento, ma la reazione era molto meno concitata. Le figure ghirlandesche appaiono timide e poco disinvolte, mentre quelle di Leonardo si proiettano verso la Maniera moderna. BRAMANTE PITTORE E ARCHITETTO Prima ancora dell’arrivo di Leonardo, Milano aveva colto un altro artista, destinato a farsi figura di spicco della Maniera moderna: Donato Bramante. Questo maestro proveniva da Urbino e si presentò come pittore segnato dalle esperienze di Piero della Francesca. -IL CRISTO ALLA COLONNA DELL’ABBAZIA DI CHIARAVALLE: Bramante ha raffigurato una solida mezza figura di Cristo, attentamente studiato nell’anatomia e legato a una colonna, che non è rotonda, ma ha le forme di un pilastro decorato di motivi antiquari. Il linguaggio di Bramante è diverso da quello di Leonardo, preferendo allo sfumato una luce netta e risoluta grazie alla quale il torso di Gesù appare levigato come quello di una statua di marmo e i capelli riflettono. Al dramma e al dolore, il Cristo di Bramante preferisce una gravità dedotta dalla lezione di Piero. -SANTA MARIA PRESSO SAN SATIRO E LA FINZIONE DI UN’ABSIDE: fu nel campo dell’architettura che Bramante si specializzò, dando prova delle sue competenze prospettiche quando fu coinvolto nel cantiere della chiesa di Santa Maria presso San Satiro , poco lontano da Piazza del Duomo. In questo edificio, sorto per venerare un’immagine mariana miracolosa, in prossimità del sacello di San Satiro, Bramante seppe usare la prospettiva per risolvere un problema di spazio. La muraglia in fondo alla chiesa, alle spalle dell’altare maggiore, era priva della superficie necessaria al prolungamento del coro e dell’abside, come si vede in pianta. Bramante procedette a ricavare al centro della parete rettilinea del transetto, un vano illusionistico, capace di fingere la profondità in 90 centimetri di spessore. Da lontano l’occhio è ingannato, e si ha la sensazione che dietro l’altare si estensa un coro capiente, sormontato da un’imponente arcata a lacunari. -IL PRESBITERIO DI SANTA MARIA DELLA GRAZIE: Bramante ebbe un ruolo di primo pianto nel cantiere della chiesa di Santa Maria delle Grazie, facente parte del complesso domenicano in cui Leonardo dipinse l’Ultima cena. L’architetto urbinate si occupò di rinnovare il presbiterio e il tiburio dell’edificio, che impostò sulla superficie di un grande quadrato, corrispondente nella lunghezza di ogni lato alla larghezza delle tre navate della chiesa. Sopra questo ampio spazio sorse una luminosa cupola, e l’area presbiteriale fu completata lateralmente da due absidi e sul fondo dal prolungamento del coro. La monumentalità della soluzione emerge anche all’esterno, dove risaltano i volumi dei vani che alternano la forma quadrata con quella rotonda, e le pareti evidenziano un gusto tutto lombardo per la bicromia e la profusione decorativa, reca attraverso elementi di guasto antiquario. E’ un'architettura solenne e ben proporzionata, che Ludovico il Moro avrebbe adibito a mausoleo per sé e per la moglie Beatrice d’Este. -LA CERTOSA DI PAVIA: a guardare l’esuberanza cromatica e ornamentale della facciata della Certosa di Pavia, la prima impressione che si ha è quella di un’architettura gotica, mancante delle cuspidi. Osservando meglio ci si accorge come gli elementi architettonici sono rinascimentali: bifore e lunette con archi a tutto sesto, timpani, finestre rettangolari, ornati di gusto antiquario. Il complesso monastico certosino era stato fondato da Gian Galeazzo Visconti, ma la facciata risale al tempo degli Sforza e la decorazione fu un lavoro molto lungo. Fu con Ludovico il Moro che il complicato cantiere ebbe un’accelerazione decisiva, anche grazie al coinvolgimento di Giovanni Antonio Amadeo, uno dei maggiori scultori lombardi del tempo. Il suo ruolo è definito nei rilievi con le Storie dell’Antico e Nuovo Testamento del lungo zoccolo della facciata, che documentano i caratteri della scultura lombarda. Caratteri che emergono nella scena con il Cristo deriso, dove le figure i rovente espressività sembrano avere alle spalle l’eccentrica cultura squarcionesca, mentre nel gusto archeologico e nella precisione prospettica degli sfondi architettonici si sente il peso delle novità bramantesche. -LA CAPPELLA COLLEONI A BERGAMO: Giovanni Antonio Amadeo aveva dato prova delle sue capacità, curando un prestigioso progetto architettonico e scultoreo per Bartolomeo Colleoni. Colleoni era di origine bergamasca e volle innalzare un mausoleo, nel centro della città. La facciata, abbondante di elementi architettonici rinascimentali e sculture, attesta la fortuna dell’ idioma colorato e ornamentale che percorre l’architettura lombarda del secondo 400. Tra i molti elementi della decorazione scolpita da Amadeo, risaltano un paio di edicole pienamente rinascimentali, disposte al di sopra dei due finestroni che affiancano il portale, per incorniciare i busti clipeati di Giulio Cesare e dell’imperatore Traiano. Giovanni Antonio adotta il suo stile più tipico, che rilegge l’antico con una personale espressività: il collo si allunga esageratamente, gli occhi si allargano, e le pieghe dei panni si accartocciano come se fossero di metallo, ricordando la pittura di Mantegna. -IL MONUMENTO SEPOLCRALE DI BARTOLOMEO COLLEONI: entrando all’interno del mausoleo, impostato su di una pianta quadrata, ci troviamo di fronte il monumento sepolcrale di Bartolomeo Colleoni, unico elemento superstite dell’allestimento quattrocentesco della cappella. L’arco si eleva su alti pilastrini, ed è costituita dal sovrapporsi di due sarcofagi, che illustrano sul fronte le Storie della passione e le Storie della Natività di Cristo. In alto, a richiamare la tradizione dei monumenti sepolcrale lombardi del 300, si erge la statua equestre di Bartolomeo. Purtroppo l’originale gruppo scultoreo fu rimosso perché troppo pesante; quello in legno dorato fu eseguito dal tedesco Sisto Frey di Norimberga. Tra le parti più esaltanti ci sono le tre figure di antichi condottieri che, seduti ai piedi del sarcofago, sembrano colti in un malinconico momento di meditazione sui destini del defunto. -IL MONUMENTO SEPOLCRALE DI MEDEA COLLEONI: nella parete sinistra della cappella si innalza il monumento sepolcrale che Bartolomeo Colleoni fece scolpire ad Amadeo per la figlia prediletta Medea, morta a 15 anni. Il monumento di Medea fu traslato nel mausoleo, dove oggi lo ammiriamo vicino a quello del padre. Si tratta di una sorta di versione lombarda dei modelli di sepolcri “all’antica” messi a punto a Firenze da Rossellino e Desiderio da Settignano, in cui Amadeo adotta una cornice antiquaria e un vivace fondo bicromo, mitigando le consuete asprezze del suo linguaggio nelle tenere figure femminili: la Madonna col Bambino affiancata delle sante Caterina d’Alessandria e da Siena, e la bellissima giovinetta, distesa serenamente nel letto di morte. -ADORAZIONE DEL BAMBINO DI BERNARDO ZENALE: l’Adorazione del Bambino si trovava al centro di un polittico destinato alla confraternita dell’Immacolata Concezione in san Francesco a Cantù; un dipinto dove le fisionomie dei volti o il paesaggio roccioso riecheggiano la pittura di Leonardo, mentre la luce tersa e il chiaro ordine spaziale e architettonico derivano da Bramante. -BRAMANTINO E IL CRISTO RISORTO:il bergamasco Bartolomeo Suardi fu detto Bramantino in virtù di una speciale dipendeva dall’artista di origine urbinate, che lo educò ai valori della prospettiva e al gusto per le forme grandiose e monumentali. Lo si vede nel Cristo risorto: sorta di versione enigmatica e lunare del Cristo alla colonna bramantesco in cui la particolarissima luce fredda e l’accurato studio delle anatomie danno vita a una glaciale visione del Redentore, che nella metallica articolazione delle pieghe del sudario richiama alla mente il panneggiare che tanto piaceva a Mantegna e agli scultori lombardi. -LA PALA DELLA VITTORIA DI MANTEGNA: Mantegna dipinse una pala per il nipote di Francesco Gonzaga, Ludovico Gonzaga, signore di Mantova. Si tratta della Madonna della Vittoria eseguita per celebrare l’ “esito” della battaglia di Fornovo. Entro un pergolato abbondante di frutti e animali, che evoca la formazione padovana con Squarcione, Mantegna ha inscenato una sacra conversazione, con le sue tipiche figure, solenni ed eroiche. Al centro, su di un piedistallo decorato all’antica con le Storie della Genesi, si staglia la Vergine col Figlio; oltre al piccolo san Giovannino, la accompagnano due santi “mantovani”, Andrea e il centurione Longino, e due santi “guerrieri”, Michele Arcangelo e Giorgio. A sinistra Francesco Gonzaga , in armi, si inginocchia a ricevere la benedizione di Maria, mentre all’opposto è genuflessa santa Elisabetta, patrona ed eponima della moglie del committente: Isabella d’Este. ISABELLA D’ESTE E LE ARTI: Isabella d’Este fu appassionata di lettere, di musica, di moda, di scacchi e di tanto altro. Grande collezionista di arte antica e moderna, ebbe al suo servizio uno scultore ed esperto di antiquaria come Giancristoforo Romano. Accolse Leonard, quando il maestro toscano abbandonò Milano. In tale occasione il maestro di Vinci ritrasse la marchesa, non ancora trentenne, in un foglio ora al Louvre, dove appare elegante, ben in carne e con un abito dall’ampia scollatura. -LO STUDIOLO DI ISABELLA: Isabella progettò di allestire nel castello di San Giorgio due ambienti emblematici del suo impegno intellettuale: uno studiolo e una grotta. Se la seconda era destinata a conservare un’eccezionale raccolta di antichità, lo studiolo accolse una serie di dipinti. Il primo dipinto a essere realizzato fu il Parnaso di Andrea Mantegna in cui il pittore processione dei confratelli di San Giovanni Evangelista sfila sul ponte di Rialto, e nella via vicina, dove si innalza, quasi in primo piano, lo stendardo della scuola. -LE STORIE DI SANT’ORSOLA: per la Scuola di Sant’Orsola, Carpaccio dipinse 9 teleri nei quali raccontò la leggendaria storia di Orsola, principessa cristiana di Bretagna, che sposò il principe inglese Ereo, mettendo come condizione che lui si convertisse e si recasse con lei in pellegrinaggio a Roma. Qui i due avrebbero incontrato papa Ciriaco, che decise di seguirli nel viaggio di ritorno a casa, ma giunti a Colonia, furono massacrati dagli Unni. Carpaccio narra questa fiaba sacra con grande fantasia, in un ciclo pieno di scene pompose e regali. Le ultime due scene raffigurano una il duplice episodio dell’Incontro e partenza di Orsola ed Ereo e l’altra il solitario Sogno di Sant’Orsola. Nella prima è un racconto vivace e pieno di aneddoti esotici e curiosi. Il pennone centrale scendi e due paesaggi: a sinistra una pittoresca e scoscesa Inghilterra, piena di fortificate architetture medievali, dove Ereo si congeda dai genitori; a destra una Bretagna costruita con gli edifici della Venezia rinascimentale. Qui avviene l’incontro tra i due fidanzati, che salutano il padre e la madre di Orsola; poi, sul fondo, la coppia si imbarca per andare in pellegrinaggio a Roma. Nel Sogno di Sant’Orsola, Carpaccio narra con tono intimo e fiabesco la miracolosa visione dell'angelo che annunciò alla principessa il martirio. Il palcoscenico è una camera veneziana indagata in ogni dettaglio; la principessa dorme in un elegante letto a baldacchino , e dalla porta di fronte a lei entra il giovane recante la palma del martirio, illuminato alle spalle da una luce divina. Solo i due protagonisti: e una luce di retaggio fiammingo che riscalda la stanza di senso atmosferico. -PIETRO LOMBARDO E IL MONUMENTO DI DANTE A RAVENNA: Pietro ricevette dal podestà veneziano di Ravenna Bernardo Bembo, il quale gli chiese un Ritratto di Dante per rendere omaggio alla tomba del sommo poeta fiorentino, sepolto nella città romagnola. Pietro Lombardo scolpì un rilievo marmoreo con un’intensa e veristica immagine di Dante, ritratto a mezza figura in atto di leggere presso uno scrittoio pieno di libri. -IL MONUMENTO DEL DOGE MOCENIGO: Lombardo ultimò nella chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo il maestoso monumento sepolcrale del doge Pietro Mocenigo, voluto dai suoi eredi nelle forme di un arco trionfale corredato di sculture all’antica. E’ un omaggio ai successi militari del doge, che in veste di ammiraglio aveva guidato la guerra contro i Turchi. Pietro Mocenigo sta in piedi sul suo sarcofago, decorato da rilievi che narrano le imprese in Oriente e sorretto da tre figure all'antica. Le sei nicchie laterali sono occupate da statue di guerrieri, mentre il tema sacro è limitato al coronamento con la scena delle Marie al sepolcro e la statua del Redentore. In basso, oltre all’epigrafe, sono scolpiti una serie di trofei e gli episodi classici e pagani di Ercole in lotta con il leone di Nemea e l’Idra. -IL MONUMENTO DEL DOGE VENDRAMIN DI TULLIO LOMBARDO: dalla tomba del doge Mocenigo prese spunto Tullio Lombardo, figlio di Pietro, per il monumento sepolcrale del doge Andrea Vendramin. La tomba conserva la policromia, la forma architettonica originale appare una variante veneziana dell’Arco di Costantino a Roma: è infatti tripartita con le nicchie laterali più piccole sormontate da due tondi figurati con gli episodi mitologici del ratto di Deianira e Perseo che sconfigge Medusa. Anche il ricco corredo scultoreo è di ispirazione latina: dalle Virtù disposte sul sostegno del sarcofago con il gisant del doge, ai tre angeli dalle folte chiome che lo vegliano, dai vari eletti decorativi, fino alle scene sacre del coronamento, dove si affacciano ai lati l'Arcangelo Gabriele e la Vergine annunciata, mentre nella lunetta centrale il doge è presentato alla Vergine e al Figlio dal santo onomastico, Andrea. All'estremità stavano i due guerrieri finiti a occupare le nicchie, in origine questo era il posto di due nude figure di Adamo ed Eva. -BOTTICELLI “PIAGNONE”: il Compianto sul Cristo morto per San Paolino, è una pala d’altare di un rigore assoluto. Abbandonati i temi profani e lo spirito neoplatonico dei bei tempi laurenziani, la pittura di Botticelli mantiene il suo carattere bidimensionale: sulla macchina scura dell’altro roccioso che ospita il sepolcro di Cristo si dispongono le figure di dolenti, avvilite nel pianto sul corpo senza vita di Gesù. Tra costoro ci sono i santi Girolamo, Paolo e Pietro, facilmente riconoscibili dagli attributi. Nel suo aspetto cupo e funereo, il dipinto rispecchia il clima creato dai stermini di Savonarola. -PITTURA DEVOTA: PERUGINO E FRA BARTOLOMEO: osservando la Crocifissione che il Perugino affrescò si nota come questa sia essenziale, senza orpelli decorativi, la scena narra con chiarezza il tragico evento. In uno spazio rigoroso, scandito da una severa cornice architettonica, figure solenni e al tempo stesso languide e sconsolate si stagliano su di un paesaggio lontano e sereno. Fra Bartolomeo adottò un linguaggio non troppo diverso nelle sue prime opere come l’Annunciazione. L’Angelo e la Vergine si distinguono per i gesti morigerati, e il pavimento disegna un reticolo prospettico precisissimo, indirizzando il nostro occhio verso il portale, aperto su uno sfondo di paese alla fiamminga. E i panni della veste dell’Angelo, nella luminosa consistenza, evocano la lontana lezione del Verrocchio. -MICHELANGELO E L’ARCA DI SAN DOMENICO A BOLOGNA: il giovane Michelangelo si trasferì a Bologna dove fu coinvolto nel prestigioso cantiere dell’Arca di San Domenico: il grandioso monumento sepolcrale del fondatore dell’ordine domenicano e realizzato da Nicola Pisano e dalla sua bottega. Il monumento fu ampliato con un fastoso coronamento da uno scultore giunto a Bologna dall’Italia meridionale, e chiamato da lì in poi Niccolò dell'Arca. Niccolò morì senza finire il lavoro e toccò a Michelangelo il compito di scolpire il marmo e le immagine del patrono di Bologna San Petronio, del martire San Procolo e di un angelo ceroforo posto in basso a destra, per illuminare il monumento. -UN CUPIDO SCAMBIATO PER ANTICO: Michelangelo scolpì un Cupido che, all’insaputa dell’autore, fu sotterrato perché prendesse una patina antica e poi venduto a Roma come costoso reperto archeologico. Ad acquistare il Cupido fu il cardinale Raffaele Riario, grande collezionista e nipote del defunto Sisto IV e presto si scoprì l’inganno. Il ventenne Michelangelo andò a Roma con la fama di artefice capace di imitare perfettamente l’antico. Il “Dio d’amore” purtroppo è andato perduto. -IL BACCO DI JACOPO GALLI: Michelangelo scolpì appena giunto nell’urgenza un Bacco, dopo aver approfondito lo studio dell’antico. Il Bacco appare come una statua di assoluto gusto archeologico. Il viso è lieto e gli occhi lascivi, ha nella mano destra una tazza con del vino di cui lui è stato l’inventore. Ha sul capo una ghirlanda di viti e nel braccio sinistro una pelle di tigre, animale a lui dedicato. Con la mano di questo braccio, tiene un grappolo d’uva e un satiretto di 7 anni mangia allegro e snello. -LA MADONNA DI MANCHESTER:Michelangelo si dedicò anche alla pittura. Al centro siede la Madonna, a seno scoperto, accompagnata dal Figlio, che ha come compagno di giochi un San Giovannino; ai suoi lati sono due coppie di angeli, ma queste non solo abbozzate, dal momento che il dipinto non è mai stato finito. E’ facile capire perché la tavola spetti a Michelangelo: il modo in cui le pieghe dei panni si gonfiano sulle ginocchia della Vergine ha un solo precedente: l’Angelo ceroforo di Bologna. Non mancano neanche le somiglianze con il gruppo del Bacco, anche nel trattamento delle armi nude e dell’ atteggiarsi del San Giovannino. L’aspettò più singolare del dipinto sta nella scelta di stendersi da qualsiasi ornato e sfondo architettonico: le figure si ergono solide su di una superficie neutra. -LA PIETA’ VATICANA: Michelangelo ebbe a disposizione il blocco di marmo, che era stato a scegliere a Carrara. La Pietà fu ultimata nell’estate del 1499. Il soggetto della Madonna con il Cristo morto sulle ginocchia non era troppo diffuso nella scultura italiana: deriva dai Vesperbilder nordici. Abissale è la distanza ormare tra queste immagini e la Pietà Vaticana, dove risalta una pienezza di forme scultoree. Michelangelo non ambiva a essere alla pari della natura, ma anche degli antichi scultori, la cui fama durava, leggendaria. La Pietà voleva apparire scolpita ex uno lapide, cioè “in un col sasso”. Il gruppo reca una firma, apposta rapidamente di notte sulla fusciacca che cala sul petto della Vergine, perché i pellegrini tendevano a scambiare il suo autore per un altro. La scelta del verbo all’imperfetto vuole alludere alla perenne perfettibilità dell’arte, recuperando una tipologia di firma adottata nell’antichità. Al culto per la bellezza ideale del Neoplatonismo laurenziano sembrano richiamarsi anche i volti avvenenti del Cristo e della Vergine, che Michelangelo raffigurò giovanissima, attirandosi qualche critica. La Pietà chiudeva un secolo e simultaneamente annunciva una nuova stagione, quella della Maniera moderna, che si sarebbe presto aperta a Firenze, con il ritorno di Michelangelo in patria. SEZIONE VI LA “MANIERA MODERNA” SECONDO VASARI Giorgio Vasari chiamò “maniera moderna” la fase più matura del Rinascimento, distinguendo i suoi campioni in Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Nella prospettiva vasariana di una continua evoluzione delle arti, la “maniera moderna” rappresenta il momento culminante, quello in cui i maestri riescono a superare gli antichi e la natura stessa. Numerosi artisti parteciparono a questa stagione, che trovò protagonisti anche a Venezia (Giorgione e Tiziano) e in Emilia (Correggio, Parmigianino). Ancora prima, la miccia era stata innescata a Firenze, dove, agli inizi del secolo, Leonardo, Michelangelo e Raffaello avevano convissuto per un breve ma decisivo lasso di tempo. -IL DAVID DI MICHELANGELO: gli operai della Cattedrale di Firenze commissionarono a Michelangelo una statua dell’eroe biblico David, da collocare su uno dei contrafforti del Duomo. Per questa ragione gli affidarono un enorme blocco di marmo alto più di 5 metri. Michelangelo vi avrebbe lavorato duramente per circa 2 anni e mezzo: il David era quasi finito quando si decise di nominare una commissione che raccogliesse democraticamente artisti e cittadini per stabilire il luogo dove collocarlo; si capì che sul contrafforte un’opera del genere sarebbe stata sprecata. Leonardo fece un disegno, oggi nel castello di Windsor, dove copiò il David trasformandolo in un Nettuno con sotto dei cavalli marini, in un possibile progetto per fontana. La scelta di collocare il David davanti al Palazzo Vecchio era giustificata dal significato politico della statua, eletta a simbolo della Repubblica. Il giovanetto David, molto prima di diventare re degli Israeliti, aveva ucciso il gigante Golia, capo dei Filistei, con un colpo di fionda, salvando così il suo popolo. Per questa ragione David era una figura cara ai Fiorentini, simbolo della libertà dello Stato, tanto che anche Donatello e Verrocchio lo avevano effigiato in statue di bronzo a tutto tondo. La distanza tra queste opere e quella di Michelangelo è abissale: nei bronzi David appare come un adolescente dalle orme effeminate, trionfante sulla testa mozzata a terra di Golia sconfitto. Michelangelo raffigura un giovane atleta completamente nudo, dal fisico perfetto, reso attraverso un attento studio anatomico. David non ha ancora vinto, ma è pronto alla tenzone: è come se squadrasse Golia con sguardo minaccioso e la fionda poggiata sulla spalla, pronto per lanciare il colpo mortale. La posa appare carica di energia: il peso del corpo è poggiato tutto sulla gamba destra, sopra si distende il braccio destro, mentre quello sinistro sale e scarta a impugnare l’arma; il capo è girato e la gamba sinistra flette. -LA SALA DEL CONSIGLIO GRANDE IN PALAZZO VECCHIO: Pier Soderini sentì l’esigenza di far decorare la Sala del Consiglio Grande in Palazzo Vecchio. Uno spazio vasto, che Savonarola aveva fatto costruire per accogliere le riunioni del consiglio popolare. ammiccamenti che le compattano, denota lo studio di Leonardo. A ciò si aggiunge la conoscenza di Michelangelo, cui fanno pensare la testa di Maria che scarta rispetto al corpo, e le fattezze del piccolo Giovanni. L’altra tavola si vuole commissionata da Domenico Canigiani. Si tratta di una Sacra famiglia in cui la composizione piramidale è ancora più accentuata, culminando nel San Giuseppe, piegato a guardare sotto di sé i fanciulli Giovannino e Gesù, accompagnati dalle rispettive madri, Elisabetta e Maria. Nel modo in cui la Vergine è inginocchiata si coglie un riflesso del Tondo Doni, e l’interazione tra le figure sviluppa la lezione di Leonardo. -I RITRATTI DI AGNOLO DONI E MADDALENA STROZZI: marito e moglie ci osservano di ¾ e a mezza figura, seduti su un balcone affacciato sulla campagna toscana, dipinta nello stile del Perugino. La soluzione di disporre il personaggio di fronte a un paesaggio era stata elaborata da Memling in terra fiamminga. Il confronto è con il ritratto di Francesco delle Opere, dipinto dal Perugino, e con il quale Agnolo Doni condivide i capelli vaporosi. In Raffaello vi è una concretezza maggiore del corpo e degli eleganti indumenti che lo ricoprono, ben evidenziata dalle ampie maniche rosse della veste di Doni. Un carattere che risalta anche nella moglie Maddalena Strozzi, ritratta con un’ampia scollatura ingioiellata da un prezioso pendente. Nella sua impostazione, con la mano destra poggiata su quella sinistra, ricorda il più celebre dei ritratti di Leonardo: la Gioconda. -LA GIOCONDA: la Gioconda è uno dei dipinti più famosi di tutti i tempo. E’ il ritratto di Lisa Gherardini, moglie del fiorentino Francesco del Giocondo, da ciò derivano gli appellativi Gioconda o Monna Lisa. Leonardo passò 4 anni intorno a quel ritratto e poi lo lasciò incompiuto. Così la tavola non fu consegnata al committente e il maestro la portò con sé per il resto della vita. In questo dipinto è semplice ritrovare gli elementi della pittura di Leonardo: lo sfondo di paesaggio montuoso e nebbioso, solcato da corsi d’acqua, l’attenzione a ogni dettaglio naturale, l’uso dello sfumato e l’atmosfera che ne consegue, l’espressività intesa a rendere i moti dell’animo, culminante nel sorriso della donna. -L’APPARIZIONE DELLA VERGINE A SAN BERNARDO, FRA BARTOLOMEO: la tavola esprime la devozione attraverso una composizione bilanciata come quella della giovanile Annunciazione di Volterra e un gusto per il colore denso e ricercato, con un’affermazione di matrice leonardesca e squarci di sereni paesaggi. -LA DEPOSIZIONE BAGLIONI, RAFFAELLO: fu commissionata da Atalanta Baglioni in memoria del figlio Grifonetto. La sua morte fu l’epilogo di una faida tutta interna alla famiglia Baglioni. Grifonetto aveva assassinato nel sonno tutti i parenti maschi, con la sola eccezione di Giampaolo Baglioni, che si vendicò, facendo uccidere Grifonetto sulla principale strada di Perugia, sotto gli occhi della madre. Il dipinto vuole alludere alla tragica vicenda e, più che una deposizione, pare un trasporto del Cristo al sepolcro, ambientato in un paesaggio verdeggiante, dove si riconosce il Golgota con le croci. Sotto, una luttuosa Vergina sviene tra le braccia delle pie donne: una di queste, inginocchiata a terra, si volta a sorreggerla, facendo il verso alla Madonna del Tondo Doni di Michelangelo. E’ un’azione drammatica, dove un ruolo da protagonista è svolto dal giovane atletico e di spalle, con i muscoli tesi a sorreggere cristo: un dettaglio in cui il debito michelangiolesco è evidente. -VENEZIA VISTA DA VITTORE CARPACCIO: nel Palazzo Ducale di Venezia si conserva una tela in cui Carpaccio ha raffigurato il leone di San Marco, simbolo dell’evangelista e al tempo stesso dell’antica Repubblica. Il leone alato è la forma sotto la quale un angelo sarebbe apparso a San Marco. Il leone si staglia per metà sulla terra e per metà sull’acqua, a sottolineare il potere della Serenissima nell’entroterra veneto e nell'Atlantico; sul fondo è una veduta di Venezia e della Laguna. Il dipinto proclama l’orgoglio di una Repubblica. -UNA PALA VENEZIANA DI ALBRECHT DURER: il pittore tedesco Albrecht Durer aveva dipinto, per la vicina chiesa di San Bartolomeo in Rialto, una pala raffigurante la Festa del Rosario. Sullo sfondo di un paesaggio alpino, il pittore ha allestito una scena colorata e festosa, dove la Madonna col Bambino incoronano il papa e l’imperatore, supreme autorità terrene, mentre San Domenico e alcuni angeli incoronano il largo seguito di personaggi, tra i quali anche il pittore, ritrattosi in alto a destra con la lunga capigliatura. In basso al centro, nell’’angioletto che sta suonando, Durer ha voluto rendere omaggio a un motivo caro a Giovanni Bellini, maestro per il quale aveva grande considerazione. -GIOVANNI BELLINI, RITRATTO AL DOGE LOREDAN: pur settantenne Bellini continuava a essere un assoluto protagonista della pittura veneziana. Aveva ritratto il doge Leonardo Loredan in una tavola. Bellini lo ritrae ancora alla maniera di Antonello da Messina, affacciato da un davanzale dove è fermato il cartiglio con la firma del pittore. Il doge è di ¾, il volto, la veste damascata e il copricapo dogale sono ritratti con una quasi geometrica precisione e la sua futura risalta su un inedito e luminosissimo fondo azzurro lapislazzuli. -LA PALA DI SAN ZACCARIA: il dipinto ricorre un modello di sacra conversazione cui Giovanni ci ha abituati sin dalla Pala si San Giobbe: la Madonna e il Bambino stanno su un trono sopraelevato rispetto ai santi che li accompagnano, di fronte a un’abside all’antica, decorata da un mosaico nella calotta; in basso, al centro, suona il solito angelo. Il vecchio Bellini aggiunge qualche novità, a partire dal pavimento prospettico a scacchi bianchi e rossi. L’abside è quello di un loggiato, spero lateralmente sul paesaggio. I santi alle estremità, Pietro e Girolamo, hanno un carattere assorto e ombroso, reso con un denso sfumato. Bellini stava ancora una volta mutando, grazie a Leonardo e alla novità della pittura di Giorgione, tutta giocata di una vivace naturalità, dove uomini e cose si vestono di una luce sfumata. Questa nuova maniera Bellini a a si riflette in una serie di tavole per la devozione privata, dove la Vergine col Figlio si mette in posa sul fondale di una campagna veneta d’entroterra popolata di presenze umane, e a composizione è tutta costruita tramite accort accostamenti di colore, secondo il principio del tonalismo. -UN PRESEPE NEL PAESAGGIO: il dipinto è raffigurante l’Adorazione dei pastori e contraddistinta da ‘un atmosfera crepuscolare. Questa tavola ambienta la storia della nascita di Gesù nella campagna dell’ entroterra veneto. Il minuscolo Gesù, disteso a terra secondo la formula corrente in terra di Fiandra, è venuto alla luce in una grotta naturale, che occupa circa metà del pinto, offrendosi come riparo ai genitori, al bue e all’asinello, mentre due umili pastori omaggiano il Bambino. L’altra metà del dipinto è riservata al paesaggio dove si riconosce una coppia di pastori con lo sparuto gregge, un rivolo d’acqua e una dimora contadina; lontano erge un borgo murato, all’ingresso del quale si distingue il minuscolo bagliore di una torcia. Tutto è giocato sulla luce e sul colore; si osservi come l’incresparsi del manto arancione di San Giuseppe sia reso per mezzo del cangiare della cromia. Il volto dello stesso Giuseppe o quello dei pastori sono sfumati con delicatezza. -LA PALA DI CASTELFRANCO: di Giorgione è giunta a noi una sola pala d’altare, nella chiesa parrocchiale di Castelfranco. La scacchiera prospettica in basso, i colori ricercatissimi e la Madonna col Bambino sopraelevata su di un posto rispetto ai santi laterali li avevamo già visti; la novità è nella soluzione di rinunciare all'abside tanto cara alle pale veneziane. Al suo posto un parapetto di colore cremisi divide la zona delle figure in primo piano da un retrostante paesaggio. Giorgione mette il gruppo di Maria e Gesù più in alto di qualsiasi pala e fissa su di loro l’orizzonte. La pala fu destinata alla cappella che il condottiero Tuzio Costanzo aveva fondato a seguito della morte del figlio Matteo. Lo stemma di famiglia risalta al centro del sarcofago sottostante al podio mariano, che allude alla scomparsa di Matteo e alla nobiltà dei Costanzo. Il sarcofago è il porfido, come quelli degli antichi imperatori romani. La famiglia Costanzo era originaria della Sicilia e Tuzio richiese che, insieme con San Francesco, nella pala fosse raffigurato il raro santo guerriero siciliano Nicasio. Giorgione l’ha raffigurato con una lucente armatura e l’alto vessillo dell’ordine militare gerosolimitano, la croce bianca in campo rosso. -LA TEMPESTA: il dipinto era stato commissionato dal nobile veneziano Mercantonio Michiel. Si tratta di un temporale che si abbatte su di un borgo Veneto, mentre nella vicina campagna una donna siede ad allattare un bambino, sotto gli occhi di un giovane. Otto si discute sul tema del quadro, che può essere identificato nell’episodio della condanna dei progenitori dopo il peccato originale. Il fulmine il lontananza allue all’ira dell’eterno e alla spada fiammeggiante dell’angelo che allontana Adamo e Eva dall’Eden; i due si ritrovano,un pò spaesati, in primo piano: Eva nutre Caino, mentre Adamo reca l’asta di uno strumento di lavoro con il quale dovrà procurarsi da vivere. E’ una metafora della condizione umana. -IL DOPPIO RITRATTO: il pittore di Castelfranco guardò alla realtà e ai sentimenti, esprimendo in maniera originale i moti dell’animo, con la sua pittura fatta di luce e colore. Lo testimonia la tavola dove un giovane elegante si affaccia da una finestra in atteggiamento pensieroso, con la testa inclinata a poggiare sul braccio destro, mentre con l’altra mano tiene un frutto, riconoscibile in un melangolo eletta a simbolo dell’amore infelice e malinconico. Alla sue spalle compare un secondo giovane che sembra trattenere un sorriso beffardo. -LA VENERE DORMIENTE DI DRESDA: la dea è ritratta nuda e dormiente, in una posa ispirata all’antico, ma non ha Lula di archeologico. E’ una bellissima giovane che si è addormentata in campagna e che si copre pudicamente con la mano sinistra. Con questa Venere Giorgione mise a punto un modello per esaltare la bellezza femminile che sarebbe diventato un classico della pittura erotica e avrebbe ispirato grandi maestri come Tiziano, Goya e Manet. Così si chiuse la breve carriere di un pittore che usciva di scena a poco più di 30 anni, avendo dato una svolta decisiva alla pittura italiana e lasciando come suo erede spirituale il giovane Tiziano. -GLI INTERVENTI ALLA VENERE DI DRESDA E IL NOLI ME TANGERE: nella Venere il giovane Tiziano avrebbe completato il paesaggio, aggiungendovi una figura di Cupido. Le indagini radiografiche hanno dimostrato che alla destra della dea si trovava un Cupido che giocava con un uccello e una freccia, danneggiato è nascosto da antichi restauri. Alcuni studiosi attribuiscono a Tiziano anche il panno e il cuscino sui quali è distesa Venere. Il Noli me tangere è un dipinto che Tiziano deve aver realizzato poco dopo la morte di Giorgione. E’ questo l’episodio in cui Cristo risotto, in prossimità del suo sepolcro vuoto, appare alla Maddalena per confortarla, ma non si lascia toccare da lei. Tiziano non ha raffigurato nessun sepolcro, ma ha messo in mano a Cristo una zappa, perché secondo la tradizione la Maddalena inizialmente non lo avrebbe riconosciuto e lo avrebbe scambiato per un giardiniere. Le due figure sono immerse nella natura e nel colore: le macchie bluastro, il marrone del paesaggio ravvivato dal verde della vegetazione, il bianco e il rosso acceso della veste della Maddalena e il pallore della carne di Cristo, appena coperto dal sudario. -UN RITRATTO GIORGIONESCO: un ritratto in cui il pittore potrebbe aver effigiato, di profilo e con la testa appena voltata verso di noi, il patrizio veneziano Girolamo Barbarigo. -A PADOVA NELLA SCUOLA DEL SANTO: Tiziano si rifugiò a Padova, dove realizzò i suoi primi lavori documentati: 3 Storie di Sant’Antonio da Padova affrescate nella Scuola del Santo. Tiziano illustrò 3 dei miracoli più famosi: Antonio che fa parlare il neonato per scagionare la madre dall’accusa di adulterio, Antonio che riattacca un piede a un giovane, e Antonio che risana una donna pugnalata dal marito geloso. Nell’ultima scena Tiziano ha scelto di mostrare in primo piano il momento del tragico assalto: all’ombra di una rupe, un ANDREA SANSOVINO, UN NUOVO TIPO DI MONUMENTO SEPOLCRALE: egli era uno scultore di successo, secondo solo al Buonarroti. Realizzò due tombe gemelle, contraddistinte dal medesimo assetto compositivo. La prima ad essere stata scolpita è quella per Ascanio Maria Sforza: nell’aspetto tripartito richiama la forma di un arco trionfale romano, ornato da motivi antiquari. Nel fornice centrale si erge il catafalco con il cardinale defunto che appare clonato sul fianco con la testa poggiata su un braccio, come se stesse dormendo. E’ un modo per dare sì che lo spettatore possa vedere meglio il defunto e per offrire una visione più serena della morte. Nelle nicchie laterali il cardinale è accompagnato da due statue raffiguranti le virtù della Giustizia e della Prudenza, che somigliano a due divinità pagane. Ancora più pagane appaiono le due virtù soprastanti, sedute ai lati del coronamento: la Fede e la Speranza si mostrano con la parte superiore del corpo scoperto, evocando la predilezione per il nudo degli scultori greci e romani. -LA SCOPERTA DEL LAOCOONTE: il 14 gennaio del 1506, in un terreno di proprietà del gentiluomo romano Felice De Fredis, fu fatta una scoperta archeologica che suscitò enorme clamore. Il gruppo raffigurava, con un notevole vigore espressivo, il sacerdote troiano Laocoonte che, stando a quanto aveva raccontato Virgilio nell’Eneide, fu strangolato insieme con i figli da due serpenti marini inviati da Atena, perché aveva cercato di convincere il suo popolo a rifiutare il cavallo lasciato dai Greci. Fu subito chiaro che si trattava di un’opera descritta da Plinio il vecchio nella Naturali historia. Lo scoprono Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi. L’opera attirava molti visitatori e Giulio II decise di acquistarla per la sua collezione. E così fu: l’opera finì presto nelle mani del papa, che incaricò Bramante di allestire un “cortile delle statue” nel giardino del Belvedere, facente parte del complesso del Vaticano: il gruppo stava al centro, circondato dalle altre statue antiche della collezione di Giulio II, come l’Apollo o il Torso detti del Belvedere. Fu proprio Michelangelo ad accorgersi che il gruppo non era stato scolpito in un solo blocco di marmo, come aveva affermato Plinio, ma mostrava 4 commettiture, ma congiunte in luoghi nascosti. -LE STANZE VATICANE DI RAFFAELLO: Giulio II decise di abbandonare gli appartamenti al primo piano del Palazzo Vaticano e scelse di stabilirsi al secondo piano, in una serie di ambienti che fece ristrutturare da Bramante. Raffaello giunse a Roma e fu coinvolto nell’impresa. Il giovane pittore dimostrò il suo valore, facendo licenziare gli altri maestri e conquistandosi l’intera commissione, che prevedeva di dovere affrescare le 4 sale. -LA SALA DELLA SEGNATURA: la prima sala a essere affrescata fu la Stanza della Segnatura, così chiamata perché avrebbe ospitato il supremo tribunale ecclesiastico detto “della Segnatura apostolica”. In origine lo spazio era destinato a ospitare la biblioteca personale e lo studio di Giulio II, le immagini alludono alle discipline che si studiavano nelle università e ai principali contenuti dei libri che dovevano essere conservati in appositi scaffali, poggiati alle zone basse delle pareti, dove oggi core un basamento illusionistico dipinto con finte cariatidi e scene monocrome. L’autore è Perin del Vaga, un pittore fiorentino che si era formato con Raffaello. -LA VOLTA: Raffaello avviò il suo lavoro dall’alto, dipingendo innanzitutto la volta. Bramante, si deve la scelta di un assetto all’antica della volta, che muove ancora dai modelli della Domus Aurea e di Pinturicchio, risolti in forme più monumentali, nell’alternativa tra ottagono centrale e i tondi, i rettangoli e gli altri elementi che gli orbitano intorno. L’ottavo o, con lo stemma del papa e gli spiritelli che si affacciano in scorcio dall’azzurro del cielo, è di mano del Sodoma, e comporta un omaggio all’oculo della Camera degli Sposi di Mantegna. Raffaello volle mantenere questo dettaglio, dipingendo poi il resto della volta,dove spiccano nei tondi 4 figure allegoriche, accompagnate da putti alati con tabelle recanti iscrizioni latine: la Teologia con un libro; la Giustizia con la spada e la bilancia; la Filosofia seduta su un trono all’antica, con i libri in mano; la Poesia coronata d’alloro, con il libro e una cetra. Al di sotto di ognuna di esse Raffaello ha illustrato il medesimo tema attraverso una scena. -LA DISPUTA DEL SACRAMENTO: nella lunetta sottostante la figura della Teologia Raffaello dipinse la Disputa del Sacramento o meglio ancora il Trionfo dell’Eucarestia e della Chiesa. La perfezione del pavimento prospettico ci indirizza verso l’altare centrale, sul quale è disposto un ostensorio contenente l’ostia: tutto intorno si raccolgono i santi, pontefici, ecclesiastici e altri personaggi illustri, i quali gesticolano con enfasi che sembrano disputare tra loro, quando in realtà esaltano il Sacramento. All’estrema sinistra, cavo con il libro è Bramante che si volta verso il centro; nel gruppo dei 4 padri della Chiesa che affiancano l’altare si riconosce a sinistra, nelle vesti di papa Gregorio Magno, con l’aureola e il libro aperto, lo stesso Giulio II: tra le figure di destra si vede Dante coronato di alloro; un passo avanti Sisto IV. In alto Cristo siede al centro sulle nubi, accompagnato da Maria e Giovanni Battista; in asse sopra di lui la figura di Dio Padre e al di sotto la colomba dello Spirito santo, scortata da angioletti che mostrano i 4 Vangeli. Tutto intorno, disposti su due registri, troviamo all’altezza di Cristo un drappello di patriarchi, profeti e santi. All’altezza del Padre le schiere angeliche, a comporre una sorta di calotta di un’abside. -LA SCUOLA DI ATENE: all’esaltazione della fede, nella parete di fronte, Raffaello fece corrispondere quella della filosofia, affrescando una vasta scena cui da qualche secolo si dà il titolo di Scuola di Atene, famosa come una delle immagini simbolo del Rinascimento. Il rigore compositivo è ancora maggiore della Disputa, perché l’episodio è ambientato all’interno di un enorme edificio all’antica, che nello spazio immenso e nella volta a lacunari della navata evoca i resti della Basilica di Massenzio. Raffaello ci fa vedere come Bramante aveva immaginato l’interno della Basilica di San Pietro, con l’unica grande navata interrotta nella sua fuga da un transetto, che a sua volta costituisce l’altra navata della chiesa a pianta centrale; all’incrocio di queste due navate comprendiamo che si innalza una cupola. Le pareti fingono nicchie con un abbondante corredo statuario di soggetti sacri pagani: si identificano facilmente, a sinistra e a destra, Apollo nudo con la cetra e Minerva, in armi, con lo scudo fornito dalla testa di Medusa. Questo contesto antiquario è ideali per accogliere al centro un’affollata adunanza di ben 58 personaggi che dialogano, leggono e disputano, con la gestualità cui Raffaello ci ha abituato. Al centro vi è Aristotele e Platone; spesso si tende a credere che in Platone, anziano, stempiato, con la barba e rada capigliatura allungata, Raffaello abbia ritratto Leonardo: il filosofo indica verso l’alto, ovvero verso il mondo delle idee che aveva teorizzato; Aristotele gli risponde con l’aprire la mano destra, con il palmo rivolto verso terra, manifestando la sua visione materiale delle cose. Tra la moltitudine di discepoli e maestri si possono riconoscere altri filosofi antichi, con i volti di personaggi dell’epoca: a sinistra è un pingue Epicurio, coronato di pampini e in atto di scrivere: egli dovrebbe ritrarre il bibliotecario del papa Tommaso Inghirami. Bramante veste i panni di Euclide, chinandosi a misurare con il compasso: alle sue spalle, con la sfera celeste è Zoroastrian, personificato dal letterato Pietro Bembo e poco oltre la scena si chiude con il volto di Raffaello e quello di Sodoma (rispettivamente con il cappello nero e bianco). Solitario in primo testa poggiata malinconicamente su un braccio, siede Eraclito: è un ritratto di Michelangelo. -IL PARNASO: nella scena sottostante la Poesia, Raffaello affrescò una raffigurazione del Parnaso, il monte della Grecia consacrato ad Apollo e alla 9 Muse protettrici della arti. Il pittore non potè usufruire dell’intero spazio della lunetta, perché nella parte bassa si apriva una finestra, rivolta verso la collina del Belvedere. Al di sopra di questa apertura, in un paesaggio montano, si dispone centralmente Apollo, in atto suonare una moderna lira da braccio, affiancato dalle Muse. Ai lati, dall’alto verso il basso, è una carrellata di podesti antichi e moderni coronati di alloro, tra i quali si riconosce Saffo, Dante, Omero e Virgilio. -LA TOMBA DI GIULIO II, IL PRIMO PROGETTO: Giulio II aveva chiamato a Roma Michelangelo, con l’idea di commissionargli un colossale monumento sepolcrale per sé, da innalzare nella tribuna della Basilica di San Pietro. Il primo progetto della tomba prevedeva un monumento isolato. Il miglior modo per cercare di capire di che cosa si trattasse è fare affidamento sulla descrizione del progetto che offriva Condividi. Egli ci dice che il monumento funebre avrebbe dovuto essere a pianta rettangolare. Ogni parete sarebbe stata fornita di nicchie con statue, e tra una nicchia e l’altra ci dovevano essere altre statue che rappresentavano le arti liberali, ognuna con gli attributi che l’avrebbero resa riconoscibile. Sopra questo registro, e al suo corredo statuario vi era una cornice che legava tutta l’opera, nel cui paiano erano presenti 4 grandi statue; solo una di queste è stata realizzata: il Mosè. Nel coronamento era infine l’arca, sostenuta da due angeli: uno che ride e l’altro che piange. Un portale disposto al centro di una delle testate permetteva di entrare all'interno del monumento. A completare un programma nel quale si immaginavano 40 statue di marmo, ci sarebbero una serie di rilievi in bronzo. Michelangelo si mise subito al lavoro e andò a Carrara a reperire i numerosi marmi che sarebbero serviti; tornò a roma, Giulio II era preso da altre questioni e non lo ricevette. Così lo scultore si arrabbiò e rientrò a Firenze, infischiandosene dei richiami del pontefice. -LA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA: era dal maggio del 1508 che Michelangelo era impegnato nella ciclopica impresa di dipingere la volta della Cappella Sistina: l’avrebbe inaugurata alla fine di ottobre del 1512. Michelangelo si sentiva esclusivamente scultore e interpretò anche in questo casa la pittura come scultura. Fino a quel momento la volta della cappella mostrava un semplice ciao stellato, dipinto al tempo di Sisto IV e Piermatteo d’Amelia, cui Michelangelo sostituì una decorazione articolata e ambiziosa, capace di raccordarsi con il ciclo di Storie di Mosè e di Cristo, tramite la raffigurazione di scene e personaggi tratti dall’Antico testamento o evocativi della venuta di Gesù (le Sibille). Lo spazio è scandito da una poderosa struttura architettonica dipinta, le superfici della quale rinunciano con decisione agli ornati. Nella zona centrale si susseguono 9 Storie della Genesi, che dalla Separazione della luce dalle tenebre proseguono fino all’Ebrezza di Noè; agli angoli, le affiancano una serie di figure di nudi, che raggiungono il numero di 20. Nei sottostanti scomparti verticali siedono 12 Veggenti, suddivisi in 7 Profeti e 5 Sibille, sotto ancora, le vele e le lunette delle pareti illustrano un ciclo di Antenati di Cristo, lasciano spazio nei pennacchi angolari a 4 Storie dell’Antico Testamento. -LE STORIE DELLA GENESI: nella Creazione di Adamo il paesaggio è quasi inesistente, poco più che una zona neutra, sulle quale risaltano il gruppo del Dio Padre accompagnato dagli angeli e la perfezione anatomica del corpo nudo del primo uomo; le dita si toccano e nasce la vita, resa attraverso le forme statuarie dei protagonisti, soprattutto Adamo. Tocca quindi a Eva essere creata, con quel corpo possente che torna anche nella scena del Peccato originale, dove la posa delle donna è contorta e innaturale all'inverosimile, quanto l’attorcigliarsi del serpente tentatore sull’albero; a destra il prosieguo della storia: Adamo ed Eva sono cacciati dall’Eden. Le figure di Michelangelo, nude nelle loro energiche volumetrie, risaltano in uno spazio che non ha bisogno della prospettiva. -SIBILLE CORPULENTE E PROFETI MALINCONICI: nelle Storie della Genesi abbiamo visto che le figure femminili, per Michelangelo, hanno corpi voluminosi e grandiosi come quelli maschili. Ciò si riflette anche nelle Sibile che compaiono tra i Veggenti; emblematica la Sibilla Delfica, per l’efficace scarto della testa rispetto al resto del corpo e le braccia muscolose; dietro di lei un libro di profezie è sorretto da un putto nudo. Poi ci sono i Profeti Baldassarre Peruzzi: utilizzò un modello di villa nuovo che avrebbe ottenuto un grande successo. La Villa della Farnesina appare come un palazzo a due piani che si apre con una loggia a 5 arcate e 2 ali aggettanti verso il giardino, il quale aveva in origine dimensioni maggiori ed era impreziosito da piante rare, statue, reperti archeologici e fontane. L’edificio aveva le pareti esterne dipinte all’antica con motivi architettonici di gusto antiquario. -RAFFAELLO E SEBASTIANO, GALATEA E POLIFEMO: il gusto all’antica contraddistingue anche gli interni affrescati. La Sala Galatea raffigura il trionfo della ninfa Galatea, che appare su di una conchiglia trainata da due delfini, in mezzo alla sua corte di divinità marine, e con 3 amorini che stanno puntano verso di lei le loro frecce. Il prosieguo della storia vuole che la ninfa fosse innamorata di un bel giovane chiamato ACI, che un giorno, mentre i due erano insieme, fu ucciso dal ciclope Polifemo. Anche lui era innamorato di Galatea e aveva cercato di corteggiarla con il suono del flauto. A sinistra, l’enorme Polifemo è ancora tranquillo e sta guardando verso Galatea, che pare voler fuggire da lui. A dipingere il ciclope fu Sebastiano del Piombo: l’artista adotta un linguaggio veneziano nel paesaggio e nel colore, dimostrando invece nella presenza di Polifemo di essere già stato colpito dalle novità di Michelangelo. A Sebastiano spetta anche il ciclo delle 10 lunette soprastanti con “poesie” mitologiche: la sensualità e le ampie campiture di colore pure rimandano alla pittura veneziana. In alto si intravede parte del soffitto, dove Peruzzi, in veste di pittore aveva raccontato l’oroscopo di Chigi: aveva messo insieme una serie di personificazioni di pianeti e costellazioni nelle vesti di divinità antiche, per alludere all’ordine del cielo nel giorno di nascita del committente. -IL SODOMA, LA CAMERA DI AGOSTINO CHIGI: la Sala delle Prospettive appartiene a una campagna decorativa voluta da Agostino Chigi in previsione delle nozze con la veneziana Francesca Ordeaschi. Al Sodoma toccò il compito di affrescare nella camera da letto del magnifico un paio di Storie di Alessandro Magno. Di queste osserviamo le Nozze di Alessandro e Rossane, chiara allusione a quelle tra Agostino e Francesca. Il Sodoma raffigura, in uno stile raffaellesco, una ricca camera, dove la bella Rossane siede sul letto seminuda e Alessandro si volta verso di lei. L’episodio avviene al di là di una balaustra, aperta al centro, come se si potesse partecipare alla scena: un dettaglio che tradisce un interesse per il tema della scenografia. -L’INCENDIO DI BORGO: un paio di settimane dalla morte di Giulio II, fu eletto papa Giovanni de’ Medici, con il nome di Leone X. Raffaello proseguì il lavoro nella successiva delle Stanze Vaticane,che aveva la funzione di sala da pranzo, e prese il nome di Stanza dell’Incendio di Borgo, dal primo degli affreschi raffaelleschi. Nel dipinto ci troviamo nel quartiere di Borgo, davanti al Vaticano, divampa un tremendo incendio che vediamo ai lati della lunetta, in quelle che appaiono delle quinte architettoniche, popolate di figure che fuggono da un lato e cercano di spegnere le fiamme dall’altro. Lontano, al centro, si riconosce la facciata dell’antica basilica paleocristiana di San Pietro e poco più avanti la loggia da cui si affaccia papa Leone IV, che miracolosamente placa l’incendio con la sua benedizione. -LE LOGGE VATICANE E LA LOGGIA DI PSICHE: a Raffaello fu commissionato un ciclo di 10 arazzi con le Storie dei santi Pietro e Paolo per il registro inferiore della Cappella Sistina: Raffaello si limitò a fornire una serie di cartoni. Due furono le principali imprese decorative: la loggia al secondo piano del Palazzo Apostolico e la Loggia di Psiche nella Villa di Agostino Chigi. La decorazione delle Logge Vaticane comprende una galleria di ben 13 campate, ornate in affresco e in stucco, e illustrate nelle volte con Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. La loggia della Farnesina,che affaccia sul cortile, racconta la Storia di Amore e Psiche, tratta dall’Asino d’oro dello scrittore latino Apuleio e pensata per richiamare l’amore tra Agostino e Francesca. Il ciclo è impostato su di un ordinato pergolato dal quale si affacciano personaggi e storie. UNA GARA TRA RAFFAELLO E SEBASTIANO DEL PIOMBO: nella roma di Leone X, una volta che Michelangelo era tornato alla scultura, un solo pittore poteva ambire a confrontarsi con Raffaello: Sebastiano del Piombo. Racconta Vasari che, mentre Sebastiano lavorava alla Villa di Agostino Chigi, alcuni sostenitori di Raffaello cominciarono ad affermare che l’urbinate era un pittore di eccellenza pari a Michelangelo, e superava il fiorentino nel colorito. Sebastiano non si schierò da quel lato e attirò l’attenzione del Buonarroti; Michelangelo lo prese in protezione, pensando che, se avesse fornito disegni a Sebastiano, avrebbe potuto per tramite dei suoi dipinti battere coloro che avevano sostenuto Raffaello. -LA PIETA’ DI VITERBO: la prima opera michelangiolesca di Sebastiano si riconosce nella Pietà per l’altare della chiesa di San Francesco a Viterbo. La tavola mette insieme un notturno reso con bellissimi accostamenti di colori, nel segno dell’origine veneta del pittore, con una volontà di ridurre la composizione alle sole figure della Vergine che piange il Figlio morto; tali figure si distinguono per una solidità michelangiolesca, in particolare il corpo attentamente studiato di Gesù. -LA RESURREZIONE DI LAZZARO: Sebastiano si occupò del dipinto per la Cattedrale di Narbonne: una Resurrezione di Lazzaro. Il pittore seguì un disegno preparatorio di Michelangelo che raffigura il Lazzaro sulla destra del dipinto, quasi completamente nudo, nel liberarsi delle bende con le quali era stato inumato. In mezzo a una folla di personaggi monumentali, Cristo si erge a indicare l’uomo miracolato, sotto lo sguardo delle sue sorelle, Maria e Marta. Lontano è un paesaggio dal sapore veneto, giocato sui toni scuri del cielo nuvoloso e le larghe campiture cromatiche dei personaggi della storia. -LA TRASFIGURAZIONE DI RAFFAELLO: Raffaello decise di dipingere una tavola divisa praticamente in due parti. In alto la Trasfigurazione, con Gesù che si eleva in cielo sul monte, affiancato dalle apparizioni dei profeti Mosè ed Elia, mentre gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo sono prostrati dalla miracolosa manifestazione divina. In basso, alle pendici del monte, gli altri apostoli, a sinistra, si trovano di fronte a un gruppo di persone che accompagna un fanciullo posseduto da un demonio. Una volta sceso dal monte, Gesù l’avrebbe guarito. La tavola mette insieme il sereno ordine della visione con la drammatica tensione della scena inferiore. Consapevole di doversi confrontare con Sebastiano, Raffaello adora un registro cromatico contrastato, apre uno squarcio di paesaggio in lontananza, e si sofferma sui brani di natura degli alberi; al di sotto di quello in alto a sinistra compaiono due figure di giovani inginocchiati: i santi Giusto e Pastore. -LA MADONNA SISTINA DI RAFFAELLO: Parma tornò ad essere un centro artistico di alto livello nella prima metà del 500, grazie a due pittori come Correggio e Parmigianino. Quando la città fu annessa allo Stato della Chiesa da Giulio II, fu commissionata a Raffaello una pala d’altare per la chiesa di San Sisto. Si tratta della Madonna Sistina nella quale Raffaello propone una originalissima versione di una pala d’altare. In essa cogliamo la forza spirituale di un trittico medievale, quelle pitture divise in tre parti, dove al centro c’è la Madonna, più alta, e ai lati due santi. C’è la fantasia di Mantegna, nelle ali colorate degli angioletti: mentre nei loro volti c’è tutta la leggerezza del 700 francese. C’è il colore di Tiziano, che culmina nel rosso della fodera del piviale, il mantello di San Sisto. Ci sono le nuove morbide di Correggio. C’è Santa Barbara dai colori acidi e dai gesti artificiosi, tutta la grazia complicata di ciò che chiameremo Manierismo. C’è la gloria di angeli e di luce in cui Gian Lorenzo Bernini farà dissolvere il muro di San Pietro in Vaticano. Ma c’è anche il movimento del cinema perché la storia è questa: qualcuno ha appena tirato la logora tenda verde appesa a quell’asta cadente ed ecco che anche il muro della chiesa di San Sisto si apre. Da quell’abisso di luce ci vengono incontro scendendo lungo un raggio di sole, Maria e il suo Bambino. Sisto ci indica e parla a Maria. Tra poco Maria metterà uno dei suoi piedi nudi sull’altare (dove Sisto ha poggiato la sua tiara, la corona dei papi) e poi sarà con noi, nel nostro spazio reale. -LA CAMERA DI SAN PAOLO: la Madonna Sistina fu una fondamentale testa di ponte per diffondere la cultura raffaellesca in Emilia, dove cominciava a emergere il giovane pittore Antonio Allegri, detto Correggio. La Camera della Badessa dell’antico convento benedettino di San Paolo a Parma fu voluta dalla colta badessa Giovanna da Piacenza e affrescata da Correggio con l’immagine della dea Diana sulla cappa del camino e, nella volta, un naturalismo pergolato che, allo stesso modo di quello della Pala della Vittoria di Mantegna, si apre in una successione di ovali. In ognuno di essi è dipinta una coppia di putti che giocano e alcuni sono accompagnati da animali;sono fanciulli graziosi e simpatici come quelli di Raffaello. Alla Loggia di Psiche nella Villa della Farnesina la Camera di San Paolo sembra essere una risposta, anche nell’approfondimento del tema mitologico e archeologico, svolto da Correggio nella successione di lunette illusionistiche poste alla base del pergolato, fingendo in ognuna di esse la presenza di una statua o di un gruppo scultoreo. Nella lunetta delle Tre Grazie, notiamo che, all’interpretare il celebre soggetto antico, Correggio rinuncia alla perfezione anatomica della statuaria classica, cui preferisce forme ingrandite e ridondanti. -LA CUPOLA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA: Correggio avrebbe elaborato un modo nuovo e rivoluzionario per affrescare l’interno delle cupole delle chiese, la cupola della chiesa benedettina di San Giovanni Battista fu la prima opera pubblica di Correggio a Parma. Gli fu affidata dall’ abate Girolamo Spinola. Correggio mosse da Mantegna, dall’oculo prospettico della Camera degli Sposi, che vuole sfondare il soffitto, aprendosi a mostrare il cielo. Correggio fa la stessa cosa, ma nello spazio più vasto di una cupola, dove racconta una storia che ha a che fare con il santo titolare della chiesa. Nella cupola è dipinto il libero e arioso spazio di un cielo luminoso, e la tridimensionalità è resa attraverso le figure. Al centro una figura dipinta in uno scorcio difficile, di impronta michelangiolesca, fluttua su di un cielo dorato, mentre sotto di lui, un cerchio di nubi, un gruppo di uomini quasi del tutto nudi assiste all’apparizione. E’ una rappresentazione della Parisian, ovvero una visione del secondo avvento di Cristo sulla terra. Quelli sotto di lui sono gli apostoli, dai corpi possenti e dalle pose articolate, indice dello studio della volta della Cappella Sistina. Correggio ammorbidisce e ingentilisce le forme statuarie e possenti attraverso un fare più sfumato, la grazia raffaellesca di certi volti e l’uso sapiente degli sbattimenti di luce. Tra gli apostoli c’è anche Giovanni, accompagnato dalla fedele acquila che è il suo costante attributo, appare quasi atterrito e osservando dal basso lo si può trovare seguendo l’indicazione del braccio destro del Cristo. -LA CUPOLA DEL DUOMO: al confronto della cupola di San Giovanni Battista, quella del Duomo si distingue per una libertà compositiva inaudita: il cielo è affollato da un numero infinito di figure in movimento, che sembrano creare una gran confusione sorgendo dai colossali batuffoli delle nubi. Questa volta la protagonista è la Vergine, che sta per essere assunta in cielo, e in basso allarga le braccia verso il Figlio, che risalta in posa ardita in un empireo dorato. Il suo moto ascendente è sottolineato dalla vorticosa successione di nudi e di figure: patriarchi, santi e angeli. -EFFETTI DI LUCE, IL GIORNO E LA NOTTE: Correggio non mancò di lavorare a tante opere, sia pubbliche sia private. Due pala d’altare documentano la sua capacità di rendere mirabili effetti di luce, tanto che, con il tempo, ai soggetti originali si sono sostituiti gli appellativi di Giorno e Notte, per l’ambientazione diurna dell’una e quella notturna dell’altra. La libertà cromatica di Tiziano vi appare come arrangiata a un gusto cortese, facendo risaltare la preziosità dell’abito o trasformando il paesaggio di matrice giorgionesca in una visione onirica e fantastica, dove i castelli fiabeschi e gli alberi sembrano cespugli, secondo una cifra tipica del pittore. Questa sorta di esotica sibilla, colta nel momento di fare un incantesimo è colei che libera i cavalieri cristiani e saraceni che la malvagia maga Alcina aveva trasformato in alberi, pietre e animali, restituendo loro le armi. -IL CHIOSTRINO DEI VOTI: tra le molte chiese di Firenze, quella della Santissima Annunziata ha un ingresso molto particolare. La chiesa vera e propria è preceduta da un cortile porticato detto “chiostrino dei voti”, per gli ex voto che un tempo vi lasciavano i fedeli, una volta ottenute le grazie richieste alla Vergine. Il chiostrino fu costruito su disegno di Michelozzo, e infatti appare come una severa galleria di gusto brunelleschiano costruita dal succedersi di arcate a tutto sesto sorrette da colonne con capitelli corinzi. Non si tratta di un chiostro appartato in mezzo al convento e riservato alla meditazione dei frati, ma di un atrio che chiunque voglia entrare in chiesa deve percorrere. Il chiostrino accolse il più importante ciclo di affreschi della Firenze del tempo, e vide il confronto tra Andrea del Sarto e i suoi allievi Pontormo e Rosso Fiorentino. Erano affreschi che tracciavano una nuova strada nella pittura fiorentina con un linguaggio complesso in cui i modelli di Leonardo, Raffaello e Michelangelo erano riletti da uno spirito che cominciava a farsi inquieto. La maniera moderna si faceva così più “maniera” ovvero lo stile del Rinascimento maturo mutava in qualcosa di più complicato ed eccentrico. A guardare gli affreschi del chiostrino si ha la consapevolezza che, nella pittura fiorentina, la passione per l’archeologia era ormai finita: allo studio delle grottesche e delle statue antiche si preferisce l’esercizio sulle Battaglie di Leonardo e Michelangelo e sulle novità della Roma moderna. -LA NATIVITA’ DELLA VERGINE DI ANDREA DEL SARTO: il più celebre tra gli affreschi eseguito da Andrea del Sarto per il chiostrino fu la Natività della Vergine. Il soggetto è lo stesso che Ghirlandaio aveva raffigurato in Santa Maria Novella, ma l’atmosfera è diversa. Lo spazio è grandioso e il clima meno celebrativo e più intimo; sulla ricchezza degli arredi predominano i gesti delle figure, memori della lezione leonardesca, ben presente anche nello sfumato delle carni. La posa pensierosa e malinconica del vecchio Girolamo seduto sul letto fa capire che Andrea conosceva le novità roma di Michelangelo, e la grazia dei volti femminili di Raffaello,anche se certi ghigni indirizzano su Leonardo.ad emergere è soprattutto l’equilibrio della scena. -LA VISITAZIONE DEL PONTORMO: il giovane Pontormo affrescò l’episodio della Visitazione. La scena si svolge sul severo palcoscenico di un emiciclo, preceduto da alcuni scalini. Al centro,in cima alle scale, la vecchia Elisabetta si inginocchia di fronte alla cugina Maria, e all’incontro assiste un gruppo di donne, fanciulli, giovani e vecchi, tutti affrescati con una pittura morbida, dolce e sfumata, di effetto naturale. Se questa morbidezza è figlia dello studio di Leonardo nel tono cromatico abbassato e tutto giocato sui colori dell’arancio, del rosso e del malva è facile riconoscere la volontà di guardare alla pittura romana di Michelangelo. L’ascella seduta sulle scale a sinistra è accovacciata con le gambe piegate, proprio come le Madonne che il Buonarroti aveva raffigurato nel Tondo Doni e nel Tondo Pitti, ma al cospetto delle figure michelangiolesche appare come svuotata di energia e oltremodo pensierosa. E quel fanciullo nudo adagiato sulle scale di Michelangelo sembra reclamare l’aspetto malinconico di certe figure. -L’ASSUNZIONE DELLA VERGINE DEL ROSSO: L’episodio è descritto apparentemente con grande rigore: non ci sono architetture, ornati o paesaggi a distrarre la nostra attenzione e tutto è giocato attraverso due gruppi di figure. In alto la Vergine, assunta in cielo innervato da bagliori luminosi e ci cordata a angioletti resi in arditi scorci, frutto di un attento della pittura di Michelangelo. In basso gli apostoli si dispongono sul proscenio, a osservare il miracolo. Queste figure tendono a essere irriverenti: la misura dell’insieme è stravolta dalla macchia verde del lungo mantello, che proprio al centro , deborda oltre la cornice dell’affresco ; manca il sarcofago che i Fiorentini erano abituati a vede in mezzo agli apostoli. Le teste risultano fin troppo eloquenti nel loro voltarsi verso l’alto e il San Giacomo all’estrema sinistra si distingue per un ghigno quasi diabolico, e poco consono alla devozione del chiostrino. -LA MADONNA DELLE ARPIE DI ANDREA DEL SARTO: la pala d’altare per la chiesa del convento francescano femminile di San Francesco de’ Macci si chiama in questo modo perché la Vergine col Figlio si erge al centro su un piedistallo ottagonale agli angoli del quale sono dei mostriciattoli che Vasari diceva arpie. Il pittore allestisce una composizione ben equilibrata, anche grazie alla studiata all’eterna sa tra luce e ombra; le figure solide e statutarie si dispongono davanti a una parete neutra a seguire uno schema piramidale, tanto caro a Leonardo. Al vertice superiore è la Vergine stante, dall’aria raffaellesca, abbracciata con tenerezza dal Figlio, al lato sinistro è un San Francesco. A destra un giovane San Giovanni, si dispone nell’atto di scrivere il Vangelo. Eppure qualche tratto di inquietudine, nell’ occhieggiare furbesco del Cristo Bambino o nelle pose contente dei due spiritelli, che sembrano due giovanissimi facchini, impegnati a disporre lo scultoreo gruppo mariano sul basamento di marmo; le arpie dell’ improbabile ara all'antica che fa da piedistallo alla Vergine. -LA PALA DI SAN MICHELE VISDOMINI DEL PONTORMO: i colori sono una delle cifre stilistiche della tavola, dove l'ordine della Madonna delle arpie si disgrega, tanto nella composizione quanto nei gesti. Gli angioletti finiscono agli angoli superiori, ad aprire il tendaggio dal quale si mostra Maria, che siede dentro una nicchia, in un contorto contrapposto. La sacra conversazione è animata e volutamente sgangherata: non si capisce come faccia il piccolo Gesù a stare in equilibrio sulle ginocchia del padre Giuseppe, con il quale condivide la testa inclinata e lo sguardo visionario, quando per il resto le figure paiono respingersi. San Giovanni Evangelista side in cerca di ispirazione in primo piano, con la lunga barba che lo apparenta al Mosè di Michelangelo, ma con un’aria molto più stanca e meno sicura di sé. San Francesco è un frate devotissimo, che stringe le mani in preghiera. -ROSSO FIORENTINO E LO SPEDALINGO DI SANTA MARIA NUOVA: il Fiorentino realizzò una pala per la chiesa di Ognissanti. Il dipinto è una sacra conversazione, piuttosto tradizionale nell’impostazione: la Madonna col Bambino in trono è al centro, affiancata da 4 santi in piedi. I colori sono vivaci, lo spazio è un pò compresso e il Rosso non presta attenzione a costruire una scatola tridimensionalità, concentrandosi sulla resa di figure tanto espressive. Il risultato è una recita fatta da attori stravaganti e spigolosi, con le mani che sembrano artigli, gli occhi attoniti e le arie crudeli e disperate, prima fra tutte quella del San Girolamo all’estrema destra, che nella scheletrica e alienata vecchiaia ha un aspetto demoniaco. Questa pala non fu ritenuta consona per la frequentata di Ognissanti di Firenze. Il cambiamento di sede richiese il mutamento di alcuni soggetti in corso d’opera: se i santi Giovanni Battista e Girolamo ai margini erano previsti sin dall’origine, quelli appaiati a Maria avrebbero dovuto effigiare Benedetto e Leonardo, rispettivamente il patrono dell’ordine cui apparteneva Buonafede e il suo omonimo. Al loro posto andarono Antonio Abate, il protettore degli animali venerato nelle campagne, e Stefano, patrono della chiesa di Grezzano, riconoscibile per l’attribuzione della pietra sulla testa. Anche il Rosso sapeva rasserenarsi, come provano i due simpatici spiritelli che, in basso, sono appassionati dalla lettura di un libro e si disinteressano assolutamente di quanto accade loro intorno. -ROSSO FIORENTINO A VOLTERRA, UNA STRANA DEPOSIZIONE: il Rosso si trasferisce a Volterra e gli fu richiesta una pala da parte di una confraternita per la Cappella della Croce di Giorno: un edificio gotico, adiacente alla chiesa di San Francesco, che era stato completamente affrescato con un ciclo di Storie della croce. Un ciclo che è noto come precedente iconografico per quello aretino di Piero della Francesca, ma che da questo si distingue, perché profondamente ancorato per stile alla pittura del tardo 300. La Deposizione dalla croce è una pala centinata, dall’intonazione cupa. La croce, solida e geometrica, è piantata su un paesaggio desolato, come quelli michelangioleschi, che occupa meno di un quarto del fondale, costruito da un cielo tanto azzurro, quanto astratto, sul quale risaltano i personaggi. Tragiche maschere tridimensionali, che sopra si affaccendano a calare il corpo livido di Cristo dalla croce, arrampicandosi sulle tre scale, dipinte come forme pure ed essenziali, a individuare lo spazio e a rendere la composizione instabile, nella loro asimmetria. Sotto esplode il dolore, nella contorsione del giovane Giovanni e nel raccoglimento delle tre donne, verso le quali si slancia, in rosso, la Maddalena inginocchiata. -SAN LORENZO E LA SAGRESTIA NUOVA: A seguito dell’elezione del figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni de’ Medici, a papa Leone X, la Repubblica permise il rientro in città dei Medici. Leone X dette avvio due grandi progetti per la sua città, che interessarono la Basilica di San Lorenzo e videro il coinvolgimento di Michelangelo. -UNA FACCIATA PER SAN LORENZO (MAI COMPIUTA): Leone X decise che era giunto il momento di completare con una solenne facciata la chiesa di San Lorenzo, cara alla famiglia Medici: gli avi del papa avevano finanziato la ristrutturazione progettata da Brunelleschi e scelto per le proprie sepolture la Sagrestia Vecchia. Il pontefice volle prima indire un concorso tra i migliori architetti del tempo e poi decise di affidare l’incarico a Michelangelo che elaborò un progetto definitivo. Si procedette a stipulare il contratto per avviare i lavori, ma il cantiere ebbe vita breve: il contratto du rescisso. Sappiamo bene cosa avesse in mente Michelangelo grazie ad alcuni disegni ma anche da un vero e proprio modello ligneo. Michelangelo aveva deciso di spartire la facciata su due registri, e deciso che il prospetto avrebbe dovuto nascondere la differente altezza tra la navata centrale e quelle laterali, presentando un coronamento orizzontale appena mosso dal timpano centrale. L’effetto sarebbe stato simile a quello de un palazzo maestoso e severo, e dal modello si comprende come Michelangelo avesse giocato il suo progetto sul netto contrasto tra le superfici vuote e i massicci elementi architettonici. -LA BOTTEGA LAURENZIANA: il cantiere della facciata di San Lorenzo si arenò perché in breve tempo i Medici affidarono a Michelangelo due nuovi progetti. Il cardinale Giulio de’ Medici (che poi sarebbe divenuto Clemente VII) decise di riunire la straordinaria raccolta di libri e manoscritti di famiglia in una biblioteca che allestire a fianco della Basilica di San Lorenzo, e che per questa azione fu detta “Laurenziana”. Michelangelo si occupò di progettare la biblioteca e dette avvio a un cantiere. Michelangelo collaborò attivamente nella realizzazione del progetto, disegnando per esempio la scala di accesso alla sala di lettura. Quest’ultima è uno spazio rigorosissimo e ordinato, che nella pianta longitudinale ricorda la biblioteca di San Marco di Michelozzo, senza essere tuttavia divisa in navate. Lungo i lati si dispongono i banchi lignei per i lettori; il soffitto e il pavimento ripetono i medesimi partiti decorativi, e le bianche pareti laterali sono scandite dal disciplinata ripetersi dei grigi elementi architettonici in pietra serena. -IL MAUSOLEO MEDICEO, LA SAGRESTIA NUOVA: Leone X decise di progettare un nuovo mausoleo mediceo nella chiesa di San Lorenzo, in cui collare anche le tombe dei due Magnifici, suo padre Lorenzo e suo zio Giuliano; una cappella autonoma da innalzare alla fine del transetto destro. Di questo ambiente, detto Sagrestia Nuova, Michelangelo progettò -GLI ORDINI MONASTICI: LE CERTOSE: agli ordini monastici continuarono a segnare il paesaggio tra il 400 e il 500, con nuove fondazioni o ristrutturazioni di complessi medievali. Nella pianura lombarda Gian Galeazzo Visconti aveva dato origine alle Certosa di Pavia, un vasto complesso che sarebbe stato costruito e dorato da alcuni dei maggiori lombardi. La certosa comprende una grande chiesa con la facciata impreziositi da un l’elevato numero di sculture, due chiostri, un refettorio, le celle e gli altri ambienti necessari alla vita dei monaci, elementi di una struttura che si estende con ordine nella pianura. - GIULIO ROMANO E LA SALA DI COSTANTINO: alla morte di Raffaello restava ancora una delle Stanze Vaticane da dipingere: quella più grande di tutte, destinata a cerimonie ufficiali, e per la quale il Sanzio aveva già approntato i cartoni da tradurre in affresco. Gli allievi che l’urbinate aveva cresciuto nella sua bottega, tra cui Giulio Romano, non si fecero sfilare di mano questa imperdibile occasione per dimostrarsi degni eredi del loro maestro. Il vasto ambiente è noto come “Sala di Costantino”, perché sulle pareti sono narrati 4 episodi della vita dell’imperatore romano che riconobbe libertà di culto alla religione cristiana: la Visione della croce, la Battaglia di Ponte Milvio, il Battesimo di Costantino e la Donazione di Roma. Affiancata da figure di pontefici, le storie sono pensate come estesi arazzi, riempiti di oggetti in pose spesso ardite e complicate, a indicarci quanto il Sanzio cercare di portare alle estreme conseguenze la pittura di Michelangelo. -LO STILE RAFFAELLESCO DI PERIN DEL VAGA:tra gli allievi di Raffaello seppe affermarsi Perin del Vaga, che lavorò con Giulio Romano nella Sala di Costantino. Al tempo di Clemente VII, egli affrescò le Storie della Vergine nella cappella del cardinale fiorentino Lorenzo Pucci nella chiesa di trinità dei Monti. Nella lunetta centrale dipinse una Visitazione in cui rivela la sua dipendenza dalla matura pittura raffaellesca nell’impostazione della figure, nelle vivaci cromie nella composizione. L’episodio dell’incontro di Maria ed Elisabetta è reso come se fosse una scena di teatro, con gli attori principali al centro, le comparse ai fianchi del proscenio e le quinte architettoniche sul fondo. -L’AFFERMAZIONE ROMANA DI PARMIGIANINO: a lui fu commissionata una tavola da Maria Bufalini per la chiesa romana di San Salvatore in Lauro. E’ un dipinto di formato verticale che avrebbe dovuto costruire il centro di una sorta di trittico, completato da due elementi laterali mai eseguiti: il pittore dovette interrompere il suo lavoro quando ci fu il Sacco di Roma. In alto la Vergine dal gentile volto raffaellesco, accompagnata da un corpulento Bambino che implica un profondo interesse per Michelangelo, confermato dalle figure nel registro inferiore: San Girolamo, raffigurato in scorcio, dorme serenamente e sogna San Giovanni Battista, che compare in primo piano, in atto di indicare il piccolo Gesù, in una posa tortuosa e con una corporatura atletica, di chiara matrice michelangiolesca. Raffaello e Michelangelo sono riletti in maniera originale, attraverso una pittura in cui la luce emiliana di Correggio addolcisce le carni, fa vibrare il sottobosco dove riposa Girolamo ed esplode nel bagliore che illumina Maria di spalle. Tramite lo studio del panneggio delle statue antiche, Parmigianino scopre una pittura filamentosa, evidente nella veste della Vergine, destinata a essere in seguito la sua peculiare cifra stilistica insieme alla predilezione per le figure allungate. -ROSSO FIORENTINO A ROMA: Roma Fiorentino realizzò una tavola per il vescovo di Sansepolcro Leonardo Tornabuoni: il tema della Pietà è risolto con estro eccezionale, evitando quella eccessiva carica espressiva con la quale il pittore aveva turbato alcuni dei precedenti committenti. La scena è dominata dal possente corpo di Cristo morto: tanto impotente che, se si alzasse in piedi, sarebbe alto il doppio degli angeli. Con il torso attentamente studiato, egli compare infatti con le ginocchia piegate per entrare nella tavola. Quest’ultima soluzione ci fa subito pensare a Michelangelo, ma qui la figura non è compressa a caricarsi di energia, e appare rilassata e sensuale. Gesù è come assopito in una complicata contorsione accompagnato da 4 angeli che recano i ceri funerari. Sono giovani di grande bellezza, con le loro capigliature ricciolute e bionde che alle lacrime preferiscono uno scambio di sguardi. -IL SIGNIFICATO DI MANIERA: dalla morte di Raffaello al Sacco di Roma qualcosa cambia: gli storici dell’arte definiscono con due termini molto discussi, Maniera e Manierismo. Nelle Vite di Vasari la parola “maniera” è di norma sinonimo di stile: per esempio “maniera greca” significa stile bizantino, e “maniera moderna” indica lo stile che, tra fine 400 e inizio 500, trovò i suoi campioni in cui Leonardo, Michelangelo e Raffaello, capaci di raggiungere vertici insuperabili nell’ imitazione della natura e degli antichi. Ed è proprio a questa tendenza che si assegna il nome di Maniera, volendo alludere a uno stile che non si ispira più alla natura, ma alla maniera di altri maestri. Da principio questo linguaggio ebbe carattere sperimentale, ma poi divenne una moda. La fase sperimentale comprende opere di pittori come Pontormo, Rosso Fiorentino, Parmigianino e Giulio Romani. Prima ancora, il manierista per eccellenza fu lo stesso Michelangelo che, fin dal Tondo Doni, e poi con la volta della Cappella Sistina, iniziò a rompere i ponti con la tradizione; il Giudizio universale, dipinto nella Sistina che avrebbe rappresentato il manifesto della Maniera, per l’assoluta libertà della composizione e il ricorrere di possenti figure umane colte in pose innaturali e contorte. Condannate dalla Controriforma, le artificiose licenze della Maniera furono soppiantate dalla nuova pittura dei Carracci e di Caravaggio. Nei secoli successivi l’insuccesso di questo stile anticlassico fu tale che il più importante ciclo di affreschi di Pontormo, nel coro della chiesa di San Lorenzo a Firenze, andò distrutto. Era un complicato racconto che intrecciava le Storie della Genesi e il Giudizio universale. Nei bozzetti disegnati dal Pontormo per quell’impresa, dove la Creazione di Eva è sormontata da un Cristo giudice, e si riconosce una profusione di figure “serpentinate”. IL SACCO DI ROMA E LA DIASPORA DEGLI ARTISTI:il tragico Sacco di Roma del 1527 ebbe conseguenze decisive per la diffusione della Maniera in Italia e non solo. I maggiori artistici che avevano affollato l’Urbe al tempo di Clemente VII, infatti, fuggirono dalla furia dei lanzichenecchi e furono accolti da altri signori e in altre città. Quando i lanzichenecchi presero Roma, tra i maestri più affermati in scultura e architettura vi era il fiorentino Jacopo Tatti, detto il Sansovino, per essere stato allievo dell’Andrea. Il giovane Jacopo seppe muovere invece dai maestri moderni, proponendo un linguaggio nuovo e allineato con quello dell’amico pittore Andrea del Sarto. -IL BACCO: Jacopo scolpì per il giardino del palazzo del mercante fiorentino Giovanni Bartolini una statua di Bacco. Immaginandolo accanto al Bacco da Michelangelo, ci si accorge che il mito antico è trattato in modo diverso: la statua michelangiolesca è quasi un falso archeologico, mentre il Bacco di Jacopo è innervato di movimento, cerca la posa serpentinata e mostra una grazia raffaellesca. -LA ZECCA DI VENEZIA: Jacopo per sfuggire al Sacco imperiale, si rifugiò a Venezia, dove sarebbe rimasto per tutta la vita, dando una svolta all’ambiente artistico lagunare. Jacopo Sansovino progettò tre edifici. Dal lato del Canal Grande si erge il palazzo della Zecca, dove la Repubblica coniava le monete conservava il tesoro dello Stato; un edificio quadrato, realizzato in pietra d’Istria, che si affaccia verso il molo con una possente facciata su tre registri, segnata da un robusto bugnato in quello inferiore, ma anche nelle soprastanti colonne doriche e ioniche, che affiancano le grandi aperture rettangolari delle finestre. Oggi il fabbricato accoglie parte della Libreria Nazionale Marciana, ovvero l’antica biblioteca pubblica della Serenissima. -LA LIBRERIA MARCIANA: il grande palazzo della Libreria fu avviato dal Sansovino e sarebbe stato ultimato, con le 5 arcate verso il molo dall'architetto Vincenzo Scamozzi. Sansovino progettò un ampio loggiato su due livelli, con ordine dorico in basso e ionico in alto, coronato da una balaustra intervallata da statue. In entrambi i piani, un colonnato con trabeazione è sovrapposto a una galleria di arcate. Nel loggiato superiore compare un motivo tipico della Maniera: la serlina. Si tratta di un particolare tipo di trifora, costituita da tre aperture: quella centrale ad arco e le laterali trabeate, il nome deriva dall’architetto Sebastiano Serlio. -SANSOVINO STATUARIO: Jacopo si occupò anche della costruzione di una loggetta ai piedi del campanile di San Marco, allineata ai gusti del prospetto della Libreria. Quella che vediamo oggi è una puntuale ricostruzione che sostituisce quella originale, distrutta dal crollo del campanile. Il piccolo edificio fu corredato di un ciclo di statue bronzee dovute allo stesso Sansovino, nelle quali domina il tema antico; fra esse, l’Apollo dimostra la continuità con il Bacco fiorentino. Poco lontano, alla sommità dello scalone di accesso al Palazzo Ducale, Sansovino pose due colossi di marmo, posti nel luogo utilizzato per l’incoronazione del doge e dunque dal significato politico e civile. Marte e Nettuno per la Repubblica di Venezia, erano il corrispondente di quello che il David di Michelangelo era stato per la Repubblica fiorentina. GIULIANO ROMANO NELLA MANTOVA DEI GONZAGA: tra i migliori maestri romani vi fu anche chi ebbe la fortuna di evitare il Sacco. Si tratta di Giulio Romano, trasferitosi alla corte mantovana di Federico Gonzaga. -PITTURA EROTICA, DUE AMANTI: Correggio eseguì per lui gli Amori di Giove che documentano la predilezione per una pittura sensuale, di cui anche Giulio Romano era un campione. Lo attesta l’atmosfera erotica dei Due amanti, un dipinto che dovette nascere parallelamente all’impresa dei Modi, che tanto scandalo creò a Roma. Giulio aveva fornito i disegni per 16 incisioni erotiche che, tramite un linguaggio fortemente antiquario, mostravano i possibili modi di accoppiamento tra uomo e donna. -IL RUOLO DI BALDASSARRE CASTIGLIONE: il pittore arrivò in città insieme con Baldassarre Castiglione, umanista e diplomatico,che fu al servizio di Federico Gonzaga. Il Sanzio stesso aveva dipinto un ritratto a mezzo busto, dove Baldassarre appare di ¾, e abbagliato con grande classe. Castiglione era uno degli uomini di corte più celebri del suo tempo e avrebbe pubblicato il Cortegiano, un vero trattato sulla vita di corte, scritto in forma di dialogo e ambientato a Urbino. -GIULIANO ROMANO E PALAZZO TE: si tratta di una dimora suburbana, costruita ai margini della città, sull’isola di Teieto, da cui deriva il nome. L’isola non esiste più, da quando il lago Paiolo è stato interrato. Nacque un’opera imponente, che Federico utilizzò per i propri svaghi con l’amata Isabella Boschetti, ma anche per grandi ricevimenti istituzionali di corte. Il palazzo è organizzato su di una pianta quadrata, intorno a un grande cortile centrale, e prevede un solo piano, che nelle superfici dei prospetti annuncia le predilezioni per il bugnato rustico e le serliane adottate dal Sansovino a Venezia. -GLI AFFRESCHI DI GIULIO ROMANO, LA SALA DI AMORE E PSICHE: Giulio Romano si occupò anche della decorazione ad affresco degli interni. Nell’ambiente più sontuoso, destinato a banchetti e ricevimenti, Giulio Romano narrò quella stessa Storia di Amore e Psiche con la quale aveva già fatto esperienza nella loggia della Villa di Agostino Chigi a Roma, quando era nella bottega di Raffaello. Le scene mostrano un maggiore senso di movimento e più accesi scarti cromatici, nelle scene delle pareti, dove i protagonisti sono coinvolti nella preparazione del loro banchetto nuziale. Nella cornice soprastante corre una lunga iscrizione in latino che allude alla funzione del palazzo. attualissimo esempio di civiltà repubblicana, nel sottolineare attraverso i vari episodi il valore della politica come servizio, la necessità di sacrificare l’interesse personale a quello dello Stato e l’esigenza del rispetto delle leggi. La scena con il Sacrificio del re Codro: al centro un uomo si sveste delle armi e degli abiti regali. E’ Codro, l’ultimo re di Atena, con alcuni dei sudditi; la sua città è in guerra contro Sparta e l'oracolo di Delfi ha profetizzato che gli Ateniesi vinceranno se il loro re sarà ucciso. Dal momento che la notizia è nota nel campo spartano, e il nemico eviterà dunque di uccidere il re, Codro smette i suoi abiti e si traveste da vecchio. Così egli sarebbe andato a provocare alcuni soldati spartani che lo avrebbero ucciso. Il suo sacrificio fece vincere la guerra ad Atene, che da monarchia divenne Repubblica. Beccafumi mostra come gli esempi tratti dall’antichità classica a essere ritrovato nel 500 una loro attualità anche politica. -PARMIGIANINO ALCHIMISTA: Parmigianino, che abbiamo visto affermarsi nella Roma di Clemente VII. Anche lui subì le angherie dei lanzichenecchi. Anche Francesco fuggì da Roma e prese la strada di casa, stabilendosi a Bologna, prima di rientrare definitivamente a Parma. Allora gli fu commissionata la decorazione del catino absidale della chiesa di Santa Maria della Steccata: un venerato santuario mariano cittadino. Parmigianino aveva 18 mesi di tempo per ultimare un’impresa che non avrebbe mai finito dopo una serie di liti e ritardi, il suo incarico fu revocato. Il pittore era stato distolto dal prestigioso cantiere dalla bizzarra passione per l’alchimia. L’unica parte completata della decorazione della Steccata: il sottarco. Uno spazio dominato dagli accecanti colori di un assetto architettonico iodato su possenti lacunari all’antica circondati da rigogliosi festoni di frutta, prevedendo, alle basi laterali dell’arco e, due coppie di nicchie con figure monocrome di personaggi biblici (Adamo ed Eva da un lato, Mosè e Aronne dall’altro), e due terzetti di eleganti figure femminili che paiono danzare, tenendo dei raffinati vasi sulla testa. Sia le 6 Vergini sia le 4 figure a monocromo compongono una felice ed elegante interpretazione della figura serpentinata. -LA MADONNA DAL COLLO LUNGO: Parmigianino adotta un linguaggio di un’eleganza tanto aristocratica e astrattiva, da tendere ad allungare esageratamente le figure: allungata è la gamba dell’angelo che, a sinistra, tiene il vaso in cui è rispecchiata l’immagine della croce; allungato è il corpo del Bambino addormentato in braccio alla Madre, la quale si distingue per il lungo collo, cui il dipinto deve il nome. Si tratta di una pala commissionata per la cappella della famiglia Baiardi nella chiesa dei Servi di Parma. Parmigianino l’aveva lasciata incompleta, come si intende dalla zona d’ombra retrostante Maria o dal piede di un personaggio mai realizzato, che si riconosce in basso a destra, accanto alla figurina di San Girolamo impegnato a srotolare un papiro. -IL COMPIANTO DI SANSEPOLCRO: al Rosso Fiorentino nel Sacco di Roma andò molto peggio che al Parmigianino. Egli scappò a Perugia e poi a Sansepolcro: città natale di Piero della Francesca e sede vescovile del Leonardo Tornabuoni, per il quale aveva dipinto la Pietà. Rosso eseguì una pala per la Compagnia di Santa Croce. Rispetto alla Pietà, il Rosso torna a essere demoniaco: l’atmosfera è oltremodo tenebrosa, sullo sfondo ricompare l’inquietante croce con le scale della Deposizione di Volterra e in primo piano si assiepano protagonisti e comparse, in un clima di struggente dolore ed eccentrica tensione. Al centro è il Vesperbild: Maria, velata e svenuta, tiene sulle gambe il corpo livido del figlio, studiato nelle anatomie, scheletrico e disposto di profilo. Il giovane Giovanni, dai capelli d’oro, ne sostiene le spalle, mentre la Maddalena si dispera, nascondendo il volto, ai piedi di Cristo. Tutto intorno è un’angosciante afflizione, nelle pie donne, in Nicodemo e in Giuseppe d’Arimatea, mentre un pò dietro, tra i soldati che guardano, ve n’è uno bestiale, con il volto di scimmia. -FRANCESCO I E LA REGGIA DI FONTAINEBLEAU: a giustificare il definitivo trasferimento del Rosso Fiorentino in Francia fu l’amore del re Francesco I per l’arte italiana. Francesco I era un mecenate ideale e garantì al Rosso una vera e propria vita da signore, impiegandoli nel suo cantiere più prestigioso: il castello di Fontainebleau. Il vasto complesso è costituito da una serie di edifici, che mettono insieme prospetti rinascimentali con gli aguzzi tetti di ardesia della tradizione transalpina,circondati da ampi giardini. -LA PORTE DOREE: nel cantiere di Fontainebleau fu impregnato pure il fiorentino Benvenuto Cellini al servizio di Francesco I, presso il quale iniziò a confrontarsi anche con la scultura monumentale in bronzo. Gli fu infatti commissionata la decorazione plastica del principale accesso al castello di Fontainebleau, la Porte dorée, della quale oggi rimane soltanto una grande lunetta in bronzo, con la nuda figura di una ninfa elegantemente distesa, in una posa michelangiolesca. Si tratta della divinità della fonte che era stata scoperta da un cane di nome Bleau, nell’area boscosa in cui sorse quindi il castello. La fonte d’acqua scorre infatti al di sotto della ninfa, trovando origine nel vaso su cui è poggiata; tutt’intorno sono gli animali del bosco, tra i quali si distingue il grande cervo cinto della ninfa. La testa dalle lunghe corna risalta al centro come un trofeo di caccia, ricordandoci uno dei principali svaghi della corte. -LA SALIERA PER FRANCESCO: il re di Francia offrì a Benvenuto l’occasione di realizzare un vero e proprio complesso scultoreo in miniatura, realizzato in oro e smalti grazie a un ingegnoso meccanismo inserito nella base di ebano simile ai moderni cuscinetti a sfere, la saliera poteva facilmente scorrere lungo la tavola imbandita, da un commensale all’altro. Lo stesso Benvenuto a descriverla, partendo dalle due figure principali, nelle quali raffigurò il Mare e la Terra seduti e nudi. Il primo è in veste di Nettuno, con il tridente in una mano , una piccola barca, destinata a contenere il sale, nell’altra, e 4 cavalli marini presso di sè. La Terra è invece una bellissima donna, con gli attributi della cornucopia, simbolo di abbondanza, e di un tempietto di ordine ionico, che aveva la funzione di contenitore del pepe. Sotto di lei ci sono degli animali. Per decorare la base d’ebano, Cellini realizzò infine 8 rilievi in oro, alterando immagini della Notte, del Giorno, del Crepuscolo e dell’Aurora. -MICHELANGELO E IL GIUDIZIO UNIVERSALE: alla soglia dei 60 anni, Michelangelo abbandonò per sempre Firenze e si trasferì a Roma, dove sarebbe rimasto per il resto della sua vita. Una scelta clamorosa e sofferta, dovuta a differenti ragioni. Da un lato il Buonarroti era decisamente ostile al nuovo regime tirannico del duca Alessandro de’ Medici; dall’altro vi erano grandi imprese ad attenderlo nell’Urbe: alla necessità di ultimare finale te la tomba di Giulio II si era aggiunto un nuovo di Clemente VII, che aveva in mente di fare affrescare un Giudizio universale nella parete principale della Cappella Sistina. L’idea di dipingere un Giudizio universale nella parete soprastante l’altare maggiore andava ad alterare il ciclo tardo quattrocentesco della Cappella Sistina, distruggendo tre fondamentali affreschi del Perugino: l’Assunzione della Vergine con il committente Sisto VI( che stava al centro), e le scene con la Nascita e il ritrovamento di Mosè e la Natività di Cristo. Sopra queste ultime erano un paio di finestre che furono chiuse, quindi le figure di Papi dipinte ai loro lati vennero cancellate, così come alcuni personaggi dell’Antico Testamento che Michelangelo medesimo aveva affrescato nelle soprastanti lunette. Prima dell’inizio dei lavori vi fu dunque una lunga fase progettuale. -UN ORDINE DISORDINATO: il Giudizio porta alle estreme conseguenze e il linguaggio giocato sullo studio di nudi possenti e articolati, che Michelangelo aveva adottato nella volta della cappella, e che qui ripropone con inaudita libertà: mancava la robusta e ordinata intelaiatura architettonica che egli aveva potuto utilizzare per scandire le scene e i personaggi del ciclo compiuto sul soffitto. Le figure, libere da ogni costrizione di preesistenti partizioni architettoniche, sono dunque le protagoniste della rappresentazione, ma al tempo stesso ne articolano la struttura. Così il Giudizio appare come un fuoco di artificio di nudi contro un cielo azzurro: na a guardare bene è facile seguire la narrazione, tanto la struttura dell’insieme è chiara. Tutto ruota intorno al nudo Cristo giudice che, illuminato alle spalle da un vivo bagliore, alza il braccio al centro della parte alta; alla sua destra è la figura serpentinata della Madre velata, e intorno è una moltitudine di santi; tra questi, poco sotto il piede sinistro di Gesù si riconosce San Bartolomeo: nudo, tiene il coltello col quale fu scuoiato e, a ricordare il suo crudele martirio, ostenta con la sinistra e la propria pelle, nel volto della quale Michelangelo si è dipinto in un terribile autoritratto ultimo. In alto, nelle lunette sono gruppo di angeli, curiosamente effigiati senza le ali, con gli strumenti della Passione, mentre al di sotto dell’Empireo dominato da Cristo, altri senz’ali suonano le trombe del Giudizio e si occupano di salvare le anime dei beati o cacciare all’inferno quelle dei dannati. Nel desolato paesaggio della fascia inferiore possiamo vedere, a sinistra, la resurrezione dei corpi dalle viscere della terra, mentre a destra è l’infuocato inferno con il tormento dei dannati. In mezzo un fiume, solcato da una barca con un nocchiero severo, che alza il remo a intimorire un gruppo di dannati. E’ Caronte, il traghettatore dell’Ade degli antichi. Poco lontano, al margine destro degli Inferi, troviamo Minosse, il re di Creta che nella mitologia antica svolgeva il compito di giudice delle anime. Minosse appare come una orribile creatura avvinghiata nella sua stessa, lunga coda. Il volto è quello di Biagio da Cesena, il maestro delle cerimonie che, durante i lavori, biasimò il Giudizio di ferro te a Paolo III e al pittore affermando “essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi”. Così, per vendicarsi, Michelangelo lo ritrasse come Minosse, in mezzo ai diavoli dell’Inferno. -GIUDIZI SFAVOREVOLI E CENSURE: Biagio da Cesena uno dei molti ai quali il Giudizio non piacque, e la moltitudine di nudi era solo la Cristina più ricorrente. Nell’impaginare il grande affresco, Michelangelo si era preso infatti enormi licenze: l’inarrestabile dinamismo delle figure domina sull’organizzazione spaziale; contro la tradizione, gli angeli non hanno ali e i santi non hanno aureole; Caronte e Minosse sono personaggi del mondo pagano e nulla hanno a che fare con le Scritture cristiane. A guardare con attenzione, nel Giudizio si scoprono pose veramente sconvenienti e licenziose: bel gruppo di destra, inn alto, si notano due giovani intenti a baciarsi appassionatamente, mentre in basso Caterina d’Alessandria, riconoscibile per la ruota, è chinata e dietro di lei San Biagio, che reca l’attributo dei pettini, può dare l’impressione di possederla. Quella che vediamo è poi una versione emendata: nell'originale la santa era completamente nuda e il santo aveva la testa voltata verso di lei. La correzione si deve a Daniele da Volterra, uno dei migliori seguaci di Michelangelo. A Daniele fu affidato il compito di nascondere le oscenità del Giudizio, cosa che fece con grande discrezione; si limitò a dipingere panni per coprire le nudità. -LA CAPPELLA PAOLINA: fu Michelangelo stesso a mostrare che il linguaggio del Giudizio poteva essere facilmente adattato ad altri soggetti. Paolo III aveva fatto costruire una nuova cappella, intitolata ai santi Pietro e Paolo. Fu detta Cappella Paolina dal nome del papa che chiese a Michelangelo di affrescare al centro delle pareti laterali, l’uno di fronte all’altro, due episodi chiave della vita dei titolari, la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro. Sono due scene in cui la narrazione si gioca sul movimento e sullo studio delle grandiose figure, in un paesaggio scabro e con i colori dai toni abbassati, dove risalta il vivo contrasto fra il livido cielo sovrastante il martirio di Pietro e la folgorante apparizione celeste che disarciona Paolo sulla via di Damasco. Gli abiti non hanno nessuno sfarzo e paiono come una seconda pelle. Colpisce la scelta di disporre in tralice i principali protagonisti: Cattedrale di Firenze. Michelangelo non avrebbe mai visto la fine di questo progetto, perché la cupola fu completata soltanto alla fine del 500, sotto la direzione di Giacomo della Porta e Domenico Fontana. Il Buonarroti era giunto fino alla realizzazione del massiccio tamburo, contraddistinto da un ordine gigante che alterna una coppia di possenti colonne a finestrini coronati d timpani, a turno triangolari o arcuati. -TIZIANO, LA DANAE PER ALESSANDRO FARNESE: nella Roma Farnesina giunse anche uno dei pittori più famosi dell’Europa di allora: il veneto Tiziano. Era stato il cardinale Alessandro a inibitore in città Tiziano che stava dipingendo per lui la Danae. Si tratta della prima versione di un soggetto mitologico ed erotico al tempo stesso- la figlia del re di Argo posseduta da Giove sotto la forma di una pioggia dorata-, che Tiaziano avrebbe raffigurato molte altre volte. La nudità femminile tanto cara alla pittura veneziana fin da Giorgione assume qui forme corpulente, nella precisa volontà di un aggiornamento sulle novità di Michelangelo, che Tiziano aveva studiato attentamente attraverso disegni e incisioni. Ciò che tuttavia colpisce in questo dipinto è il colore liquido, vibrante e luminosissimo, tipico della pittura veneziana. La Danae fu attentamente esaminata a Roma da Michelangelo. -UN RITRATTO DI FAMIGLIA: presso la corte pontificia Tiziano si dedicò a ritrarre Paolo III nel Ritratto di Paolo III con i nipoti ALessandro e Ottavio Farnese. La tipologia è la stessa del Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi dipinto un quesito di secolo prima da Raffaello; l’atmosfera è radicale te diversa. Il vecchio papa ingobbito allo scrittoio si volta verso il nipote Ottavio, che accenna un inchino, mentre, alle spalle di Paolo III, il cardinale Alessandro ci guarda con autorevole devozione. Il verismo è estremo e, grazie ai colori accesi, tutti giocati sulle differenti tonalità di rosso, l’intonazione appare assai cupa. -VIGNOLA E CAPRAROLA: la famiglia Farnese era di origine feudale, e proveniva dall’alto Lazio; qui, nel 500, continuava a mantenere enormi proprietà, e ancora oggi rimane, su una rupe di tufo al confine con la Toscana, l’omonima cittadina medievale di Farnese. Il cardinale Alessandro fece costruire un imponente palazzo a ridosso del borgo di Caprarola. Già Paolo III, quando era ancora cardinale, aveva pensato a innalzare una struttura fortificata in questo luogo, affidando il lavoro ad Antonio da Sangallo il Giovane, ma l’edificio attuale è frutto dell’impegno del nipote Alessandro e della perizia di uno dei maggiori architetti dell’epoca: l’emiliano Jacopo Barozzi da VIGNOLA. Si tratta di un’architettura molto particolare: una vera e propria esibizione del potere farnesiano che domina sul paesaggio della campagna altolaziale e del borgo sottostante. Al tempo stesso è una villa, una fortificazione e un palazzo signorile. -I FASTI FARNESIANI: il palazzo è organizzato intorno a un cortile circolare e una scala elicoidale, conduce al piano nobile, dove si succedono una serie di ambienti affrescati, con grottesche e illustrazioni celebrative del casato, da alcuni dei migliori pittori attivi a Roma. Il salone principale è detto dei “Fasti farnesiani”, perché la volta e le pareti narrano la gloriosa storia familiare del Medioevo al 500, quando i Farnese assurgono a protagonisti della politica europea. -LA CHIESA DEL GESÙ E JACOPO VIGNOLA: I Farnese ebbero oltremodo a cuore l’ordine dei Gesuiti: Paolo II approvò e il cardinale Alessandro, suo nipote, cominciò a pensare al progetto della chiesa del Gesù, dove tra l’altro sarebbe stato sepolto. La costruzione fu iniziata su un progetto elaborato del cardinale insieme con il suo architetto di fiducia, il Vignola. Egli, per la chiesa, pensò a una pianta longitudinale a croce latina, contraddistinta da un’ampia navata, affiancata da cappelle, così che alle folle di fedeli non mancasse lo spazio per ascoltare la messa e le prediche. La navata si apriva senza ostacoli sulla vasta superficie del presbiterio, così da rendere più diretto il rapporto tra il clero e il popolo, proprio come era stato richiesto dai dettami della Controriforma. -LA PITTURA DEVOTA DI SCIPIONE PULZONE: una delle prime pale d’altare della chiesa del Gesù è un commovente Compianto sul Cristo morto che stava al centro della cappella intitolata alla Passione e reca la firma di Scipione Pulzone. Questa tela è molto diversa dai dipinti della Maiera: il contenuto è estremamente chiaro, grazie una composizione ordinatissima e a un linguaggio diretto, fatto di forme nitide e di colori non troppo accesi; ne consegue un’atmosfera simultaneamente devota e pietistica. Le figure serpentinate e gli artifici dei seguaci di Michelangelo sono ormai banditi: corrispondendo perfettamente ai nuovi gusti dei Gesuiti e attenendosi ai precetti della Controriforma, la pittura di Scipione appare come un’ “arte senza tempo”. Il Compianto di Scipione Pulzone ci insegna quanto la Controriforma volesse congelare la quotidianità nella devozione. LA FEDE DI FILIPPO NERI: Alternativamente al rigore quasi militare dei Gesuiti, Filippo Neri viveva la Controriforma con uno spirito di allegria, coinvolgendo nella devozione il popolo e in particolare i giovani: gli elementi di forza della sua catechesi erano la tenerezza, il buonumore e la semplicità; non gli mancava una brillante sensibilità estetica, che gli permise di apprezzare la pittura di Federico Barocci. -LA MADONNA DEL GATTO: questo pittore urbinate si affermò in tutta l’Italia centrale grazie a un linguaggio coloratissimo, messo a punto studiando i maestri veneziani. La Madonna del gatto è un’opera esemplare della sua maniera, che alle figure gigantesche e serpentinate di Michelangelo preferisce composizioni più ordinate e serene, dove la pittura di Raffaello e Correggio è reinterpretata attraverso colori vivaci e con una estrema dolcezza di atteggiamenti, gesti e fisionomie, entro un gioioso clima domestico. Il gatto in primo piano è un vero e proprio protagonista: sta per saltare verso l’uccellino che il piccolo Giovannino gli mostra scherzosamente, e così distoglie l’attenzione del Cristo fanciullo del seno della Madre. -BAROCCI E FILIPPO NERI: Barocci dipinse per Santa Maria in Vallicella una Visitazione. Egli descrive il dipinto in cui Santa Elisabetta sopra la scala di fuori la casa abbraccia e porge la mano alla Vergine, mentre San Zaccaria esce per incontrarla, e San Giuseppe ai piedi della scala posa in terra la tasca, tenendo per le redini l’asinello. Dietro la Vergine vi è una giovane che comincia a salire, e questa con una mano si alza la veste, con l’altra si stringe al fianco un canestro di polli, ed è invero una bellissima figura la più avanti, portando dietro allacciato un cappello di paglia, per denotare il tempo estivo di luglio. -DOMENICO FONTANA E LA ROMA SISTINA: nel momento in cui la Controriforma imponeva un nuovo linguaggio artistico, Roma cambiava volto grazie al papa Sisto V; egli realizzò una vera e propria trasformazione urbanistica dell’Urbe, affidando la maggior parte dei lavori all’architetto ticinese Domenico Fontana. Sisto V e Domenico Fontana offrirono alla città eterna un’organizzazione urbanistica moderna e razionale. -L’ACQUEDOTTO: Roma vide la costruzione di un nuovo acquedotto, detto Acqua Felice, con allusione al nome di battesimo del papa. Esso riutilizzava l’antico acquedotto alessandrino recando l’acqua dalle sorgenti vicino a Palestrina alle zone del Viminale e del Quirinale, rifornendo la villa di Sisto V presso le terme di Diocleziano. L’acqua finiva il suo percorso nella monumentale Fontana del Mosè. -LE STRADE: la nuova Roma studiata da Fontana prevedeva che le principali basiliche fossero collegate da vie monumentali e diritte, concentrandosi soprattutto su Santa Maria Maggiore, per riequilibrare la poderosa presenza della Basilica di San Pietro oltre il Tevere . Santa Maria Maggiore, chiesa che Sisto V dotò di una cappella e in cui fece innalzare un ricco monumento sepolcrale, fu il fulcro intorno al quale andarono a ruotare tre nuovi rettifili: la “strada Felice”, ovvero il luogo asse che da un lato giungeva fino a Santa Croce in Gerusalemme e dall’altro a Trinità dei Monti; la Via Merulana diretta a San Giovanni in Laterano; la Via Panisperna verso piazza Venezia. -GLI OBELISCHI: Sisto V volle lasciare un segno indelebile nei principali spazi della città, riutilizzando monumenti antichi per sottolineare il trionfo della Chiesa controriformata. Recuperò 4 obelischi, facendoli collocare in piazza San Pietro, davanti all’abside di Santa Maria Maggiore, in piazza San Giovanni in Laterano e in piazza del Popolo. Non dimenticò inoltre la Colonna Traiano e quella di Marco Aurelio: le fece restaurare da Domenico Fontana e volle che sulle rispettive sommità fossero collocate le statue in bronzo di San Pietro e San Paolo, in luogo di quelle, perdute nel Medioevo, degli antichi imperatori. -TIZIANO, LA PALA PER LA FAMIGLIA PESARO:Tiziano iniziò ad avere fortuna da Venezia e poi in tutta l’Europa, dagli anni Venti del 500 alla morte, grazie non solo al suo talento artistico, ma anche a modi da cortigiano. La sua fu una carriera lunghissima, che gli permise di guadagnare e accumulare molto denaro. Tiziano aveva dipinto una pala che anticipava il senso scenografico di quelle architetture. Jacopo Pesaro, vescovo di Pafo, ordinò a Tiziano un grande dipinto per l’altare di famiglia nella chiesa dei Frari, la stessa per cui Tiziano aveva da poco eseguito l’Assunta dell’altare maggiore. La pala Pesaro fu un’opera estremamente innovativa, e non soltanto per la vivacità cromatica. I Veneziani si trovarono di fronte a un’immagine costruita in diagonale, come la Pala di San Giovanni Grisostomo che aveva dipinto Sebastiano del Piombo molto tempo prima. La Madonna col Bambino siede in alto, di ¾ , su di un monumentale podio, e domina le figure sottostanti; quasi al suo fianco ci sono i santi Francesco e Antonio da Padova, abitanti naturali della chiesa francescana dei Frati. Sulle scale San Pietro emerge un attimo dalla sua lettura per guardare, poco più in basso, verso il committente Jacopo Pesaro, effigiato di profilo e accompagnato da un soldato con un vessillo e una figura con un turbante, a ricordarci che Jacopo fu il condottiero capace di sconfiggere i Turchi. L’uomo col turbante è un prigioniero turco, mentre il soldato che lo tiene alla catena innalza una bandiera contenente uno stemma diviso in due: da un lato mostra l’arme Borgia di Papa Alessandro VI e dall’altro quello di casa Pesaro. Di fronte a Jacopo sono ritratti con estrema verosimiglianza, e anche loro di profilo, i suoi familiari. Nella pala colpiscono le due gigantesche colonne che fuoriescono dalla dimensione della pala, alludendo a uno spazio ancora maggiore. Tiziano ha voluto costruire una sorta di finestre e affacciato sulla navata sinistra della chiesa , e tale posizione giustifica la scelta anche dello schema diagonale della composizione. -LA MADONNA DEL CONIGLIO: Tiziano cominciava ad affermarsi nelle corti dell’Italia settentrionale lavorando per il Camerino di Alfonso d’Este. Il pittore veneziano ultimò per il signore di Mantova Federico Gonzaga la cosiddetta Madonna del coniglio. Un dipinto per la devozione privata in cui Tiziano mette a frutto tutto ciò che aveva imparato da Giorgione. La Vergine siede su un prato in mezzo alla campagna e, mentre accarezza un coniglio con la mano destra, prende il Figlio delle mani di Caterina d’Alessandria, giovane compagna di questo sconsolato picnic. Poco lontano, sullo sfondo, un pastore siede a guardia del suo gregge. E’ un intimo idillio bucolico, illuminato dal chiarore di un cielo al tramonto, con lo sfondo delle Dolomiti, patria del pittore. -LA VENERE DI URBINO: La Venere di Urbino, così chiamata perché appartenne al signore di Urbino Guidobaldo II della Rovere. In questa tela Tiziano riprende il modello della Venere di Dresda di Giorgione, che aveva egli stesso ultimato. La bella giovane nuda, che si copre con la mano il pube, è distesa nella camera di una ricca dimora; ai suoi piedi è accucciato un docile cagnolino sullo sfondo due domestiche armeggiano con un cassone. Quella di Tiziano non dorme: è ben sveglia e guarda verso uno spettatore maschile, quasi volesse invitarlo nel giusto. Lo stesso San Marco, in forme michelangiolesche e con il tipico nimbo alla Tintoretto, appare a sinistra, a fermare la profanazione delle tombe che si sta svolgendo sulla parete di fronte, dove un cadavere è calato dal sepolcro. La reliquia del sacro corpo è ai piedi dell’Evangelista,adorata da un vecchio abbigliato con la ricca veste dei patrizi veneziani: è un ritratto del medico di origine ravennate Tommaso Rangone che aveva commissionato la tela. Intanto, in primo piano, un indemoniato avvinghiato a una donna viene guarito a testimoniare la veridicità e il potere della reliquia. -NELLA SCUOLA DI SAN ROCCO: Tintoretto vinse il concorso per decorare la sede di un’altra confraternita: la Scuola Grande di San Rocco:è il San Rocco in gloria, effigiato con difficile scorcio di fronte al Dio padre e alla corte angelica al centro del soffitto della Sala dell’Albergo, cioè il luogo in cui si riuniva il governo della confraternita. Per la principale parete della sala, egli dipinse una colossale e tragica Crocifissione. La livida scena ruota intorno al Cristo issato al centro, oltremodo muscoloso e illuminato alle spalle da un bagliore; ai suoi piedi è raccolto il gruppo dei dolenti, mentre tutto intorno si accalcano figure, e i due ladroni stanno per essere esposti ai lati di Cristo. -ESORDIO IN PALAZZO DUCALE: il Veronese fu coinvolto nella decorazione del soffitto della Sala del Consiglio dei Dieci, in Palazzo Ducale. Una delle tele realizzate per questo ciclo illustra molto bene le caratteristiche della sua pittura. E’ un’immagine svolta tutta in verticale, in cui Giunone getta doni su Venezia. Le figure femminili della divinità antica e dell’allegoria della Repubblica si distinguono per le forme voluminose e gli scorci arditi, segno di una buona conoscenza della Maniera, che il Veronese riesce a rasserenare, adottando una pittura chiara, leggera, gioiosa e aggraziata. -IL TRIONFO DI VENEZIA: un incendio distrusse l’apparato decorativo della Sala del Maggior Consiglio, la più solenne del Palazzo Ducale. La Repubblica chiamò al suo servizio una equipe di artisti per restaurare e allestire la sala. Veronese con l’aiuto di una organizzata bottega, dipinse la scena allegorica del Trionfo di Venezia, in cui celebra al meglio, con un linguaggio trionfale e sfolgorante di colore, la potenza di una Repubblica che fa sopravvissuta alle guerre d’Italia e aveva sconfitto i Turchi a Lepanto. Venezia è una regina che è incoronata e siede, tra due torri merlate, in un Olimpo di gloria. Dalla sottostante balaustra la nobiltà veneziana si affaccia a guardare in alto la sua signora, e in basso il popolo è sorvegliato da cavalieri. Ad amplificare la magnificenza di questo enorme telero è la resa illusionistica della complicata incorniciatura architettonica, imperniata sul loggiato dominato dalle due colonne tortili, in quella che sembra una vera scenografia teatrale. -A MASER, NELLA VILLA DI DANIELE E MARCANTONIO BARBARO: Tra i molti clienti del Veronese vi furono anche i fratelli Daniele e Marcantonio Barbaro, l’uno umanista appassionato tra l’altro di architettura e prospettiva, l’altro ambasciatore della Repubblica. Nei possedimenti di famiglia di Maser i due fratelli fecero costruire una villa ad Andrea Palladio. E’ una costruzione di carattere classico, immersa nel verde dei giardini e della campagna, con il corpo centrale contraddistinto da una facciata che ricorda un tempio antico, e le ali laterali destinate ai magazzini e agli ambienti di lavoro, precedute da un portico. Paolo Veronese affrescò l’interno del corpo centrale, con una decorazione illusionistica, fatta di architetture dipinte a fingere finestre aperte su vedute di paesaggi, o nicchie popolate di figure. Si tratta di una pittura diligente nella costruzione prospettica e piacevolissima nelle figure e dei dettagli, che si amalgama perfettamente con l’ordinata architettura di Palladio. Il veronese si è divertito a raffigurare, grazie al suo tocco leggero e luminoso, un gentiluomo che rientra in casa dalla caccia con i suoi cani o la padrona di casa affacciata da un balcone, affiancata dalla nutrice, da un pappagallo e da un cagnolino. -IL RIPOSO DURANTE LA FUGA IN EGITTO: un’altra immagine della natura e del paesaggio emerge dai potenti quadri del Bassano. Figlio di un pittore Jacopo sarebbe morto lasciando in mano ad alcuni dei suoi figli pittori una prospera bottega familiare. Il prodotto più tipici di tale bottega erano scene sacre popolate di animali e ambientate nella campagna, con un timbro decisamente rurale. La raffigurazione del Riposo durante la fuga in Egitto,ambientato nell’aperta campagna dell’ entroterra veneto. La Madonna col Bambino in braccio siede all’ombra di un albero; ai piedi la cesta con la fasce per il fanciullo (natura morta) e al fianco il vecchio Giuseppe, stanco e accompagnato da una coppia di cani. Sulla sinistra compaiono le robuste figure di tre contadini, che si occupano dell’utile cavalcatura della Sacra famiglia, invadendo ben un terzo della tela. Il dipinto appartenne al cardinale Federico Borromeo. -LA PROTEZIONE DI GIANGIORGIO TRISSINO E LA BASILICA PALLADIANA: Andrea si era trasferito a Vicenza, dove aveva svolto la sua formazione come muratore. L’incontro con il nobile letterato vicentino Giangiorgio Trissino permise ad Andrea di fare il definitivo salto di qualità e dare una svolta alla sua vita. Fu il Trissino ad assegnare ad Andrea il nome d’arte di Palladio e a fargli approfondire lo studio de trattati di architettura antichi e moderni, favorendo il crescere della sua passione per l’antico. Palladio divenne un vero e proprio architetto e ottenne l’incarico di rinnovare il Palazzo della Regione di Vicenza. Si trattava di un compito prestigioso, poiché riguardava l’edificio simbolo del potere municipale. Andrea avviò il cantiere, avendo progettato di nascondere il vecchio edificio gotico dietro un moderno loggiato, costruito da un doppio ordine di serliane. Così questo motivo giungeva a Vicenza, dove Palladio adottò a un monumento dalle forme grandiose e ordinate, che in suo onore avrebbe preso il nome di Basilica Palladiana. -LA ROTONDA: Palladio aveva progettato per il conte Paolo Almerico una villa nei dintorni di Vicenza, che rappresenta il culmine del suo ideale antiquario. Se nella villa di Maser per i Barbaro Andrea era stato molto attento alle funzioni della dimora di campagna, dividendo la casa padronale dalle ali riservate al lavoro agricolo, in questa residenza sviluppò un disegno decisamente più mentale e dalle proporzioni perfette. Pensato per una fusione completa con il paesaggio, l’edificio sorge su di una pianta centrale, soluzione inedita per una villa, sviluppandosi introno alla cupola innalzata sopra la sala centrale rotonda. -NEL BACINO DI SAN MARCO: l'attività di Palladio non si limitò all’entroterra, ma a lui furono richiesti progetti anche per la città di Venezia. Andrea aveva approntato un modello ligneo della chiesa del monastero di San Giorgio Maggiore, per il quale aveva già costruito il refettorio. Le vicende del cantiere furono durature e si prolungarono oltre la morte dell'architetto; la facciata con il monumentale pronao sorretto da 4 colonne colossali fu ultimata con una certa libertà rispetto all’originario progetto palladiano. -IL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA: a un progetto di Palladio si deve anche il Teatro Olimpico di Vicenza. L’Italia del 500 aveva riscoperto la passione per il teatro, come luogo di incontro tra letteratura e arti figurative. A promuovere gli spettacoli teatrali furono molto spesso le accademie: vere e proprie istituzioni culturali che raccoglievano intellettuali, umanisti e dilettanti appassionati di studi. Il grande architetto immaginò un teatro ispirato a quelli descritti da Vitruvio, ma riuscì solo a darne i disegni perché morì. Il Teatro Olimpico sarebbe stato inaugurato con la recita di una tragedia greca, l’Edipo re di Sofocle. Gli spettatori siedono nella cavea: una gradinata ellittica, chiusa in alto da un colonnato coronato di statue. Sotto è la mezzaluna della platea, che di norma accoglie l’orchestra. Il palco è dominato da un monumentale proscenio a due ordini, ornato di nicchie, edicole, statue e rilievi. Nel proscenio si aprono 5 porte: l'accostamento tra la grande arcata centrale e i due portali rettangolari richiamano la forma della serliana;altre due porte si trovano nei fianchi della scena. COSIMO I DUCA DI FIRENZE E VASARI NELLA CORTE MEDICEA: Cosimo I seppe essere un ambizioso e abilissimo politico, consolidando il suo potere e ampliando i domini di uno Stato che trasformò da Repubblica in Principato. Appassionato mecenate, Cosimo raccolse intorno a sé una corte che, dalla metà del secolo, trovò il principale esponente in Giorgio Vasari: pittore e architetto formatosi a Firenze con Andrea del Sarto, e capace di realizzare i sogni del duca. Stampate a Firenze nel 1550 e dedicate a Cosimo I, le Vite raccolsero un tale successo che ebbero una riedizione ampliata e definitiva. Mettendo insieme le capacità di letterato con quelle di “conoscitore” di architettura, pittura e scultura, Vasari racconta la storia dell’arte italiana dalla fine del 200 ai suoi tempi, attraverso una serie di biografie di artisti, nelle quali offre informazioni preziosissime e giudizi di grande intelligenza. Le Vite espongono una visione evoluzionistica delle arti, culminante in Michelangelo, e nella quale Firenze e la Toscana svolgono un ruolo chiave, nella ferma convinzione che alla base di ogni espressione artistica ci fosse il disegno, vero fondamento delle arti toscane. -UN NUOVO PROGETTO DI CITTA’: Intanto Vasari era il regista della nuova Firenze di Cosimo I. Dalla necessità di accentrare lì accanto gli uffici delle magistrature dello Stato, nacque il progetto degli Uffizi: un complesso che Vasari pensò come una coppia di edifici gemelli prolungati verso la quale ci si può affacciare tramite l’elegante serliana del corpo di fabbrica che li unisce. Se la serliana richiama l’elemento architettonico per eccellenza della Maniera, in tutto il resto si riconosce un omaggio all’architettura michelangiolesca della Sagrestia Nuova. Uno degli interventi emblematici della nuova città fu il Corridoio vasariano: un passaggio sopraelevato che Vasari realizzò per unire Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti. Il duca aveva bisogno di un comodo, rapido e sicuro passaggio che, in caso di necessità, gli permettesse di muoversi tra la sua dimora e il palazzo del governo. -IL SALONE DEI 500: Vasari fu impegnato a offrire un nuovo volto all’ambiente più prestigioso e vasto di Palazzo Vecchio: il Salone voluto da Savonarola per accogliere le adunanze del Consiglio dei 500 e per i quale Leonardo e Michelangelo avevano progettato la Battaglia di Anghiari e la Battaglia di Cascina. Il Salone dei 500 era stato uno dei simboli della Repubblica fiorentina, delle sue istituzioni democratiche e dei suoi successi. Cosimo volle farne una monumentale sala di rappresentanza, in cui mostrare il proprio potere a coloro che si presentavano al suo cospetto; perciò il corredo di immagini fu chiamato a celebrare le glorie del granduca. Vasari seppe aumentare di diversi metri l’altezza della vasta aula, ampliando così il volume di una sala rettangolare, che nel principale dei lati brevi recava già la tribuna dell’udienza, deputata al trono. Al di sopra della testa del granduca e di quelle dei suoi ospiti, Vasari approntò un soffitto a cassettoni, decorato da 42 a volte, che mostra al centro l'apoteosi di Cosimo e tutto intorno una serie di allegorie dei suoi domini ed episodi storici. L’episodio della Presa di Siena: un’animata scena di battaglia in notturna, dove la passione per i cavalli di Leonardo e le figure ingrandite e serpentinate di Michelangelo sono tradotte con un lessico chiassoso e fumettistico. -UN GUARDAROBA DI COSE RARE E PREZIOSE: Dal Salone si può accedere oggi a una piccola stanza senza finestre, che in origine era un’appendice dell’appartamento di Francesco I, il figlio di Cosimo. La funzione di quell’ambiente è “la camera delle meraviglie” in cui il collezionista conservava curiosi e preziosi reperti naturali e manufatti artificiali. Per questa ragione i dipinti della volta, insieme con quelli collocati sugli sportelli degli armadi e con le statuettes nelle nicchie, compongono un ciclo allegorico centrato sui 4 elementi con allusioni agli oggetti custoditi e aperture su temi di alchimia.
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