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riassunto libro "Arte una storia naturale e civile vol.3", Dispense di Storia dell'Arte Moderna

riassunto discorsivo e dettagliato del manuale dal Quattrocento alla Controriforma.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 30/09/2022

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Scarica riassunto libro "Arte una storia naturale e civile vol.3" e più Dispense in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! IL GOTICO INTERNAZIONALE Contesto storico Dopo la peste del 1348 il continente conosce una stagione di ripresa culturale ed economica. In questo secolo si colloca la nascita degli Stati nazionali. La Guerra dei cent’anni (1337-1453) vide lo scontro di Francia e Inghilterra per ragioni dinastiche. Alla morte di Carlo IV re di Francia, il trono francese era nelle mani di Filippo di Valois. Anche il re d’Inghilterra Edoardo III in quanto nipote per parte di madre del re di Francia Filippo il Bello si riteneva erede della corona francese. La lunga guerra termino con la vittoria della Francia e la conseguente unificazione: simbolo di questa vittoria è ancora oggi Giovanna d’Arco, contadine che si fece soldatessa e guidò le truppe francesi per spezzare l’assedio inglese ad Orleans. La Guerra delle due rose (1455-1485) scoppiò sempre a cause di ragioni dinastiche e vide scontrarsi i Lancaster e gli York, due rami del casato reale rappresentati in ordine da una rosa rossa e una bianca. Questa guerra civile portò all’incoronazione di re Enrico VII, della famiglia Lancaster, il quale prese in sposa Elisabetta di York. La Reconquista, termine che indica la fine della presenza araba nella Penisola iberica e la presa della città di Granada nel 1492, ad opera di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i quali sancirono l’unione dei regni di Aragona e Castiglia con le loro nozze. Nello stesso anno della Reconquista, Cristoforo Colombo scoprì il Nuovo Mondo avviando l’esplorazione di rotte commerciali nuove da cui sarebbe dipesa la ricchezza della Spagna. 1455: nascita della stampa con la pubblicazione della prima copia della Bibbia grazie alla stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Nascita delle armi da fuoco e conseguente cambiamento nella costruzione di fortificazioni. Italia: all’inizio del Quattrocento l’Italia era divisa tra Repubblica di Venezia (dominio sui mari), Ducato di Milano (espansione dovuta alla presenza di Galeazzo Visconti), Stato della Chiesa (siamo nel momento che segue lo Scisma d’Occidente) e Regno di Napoli (1442 arrivo di Alfonso il Magnanimo). Gli Stati regionali in conflitto tra loro sancirono nel 1454 la pace di Lodi con la quale nacque la Lega italica capace di garantire una tregua equilibrata tra Venezia e Milano, stato della Chiesa, Napoli e Firenze. Oltre agli Stati italiani principali vi erano altri stati di dimensioni minori come le corti dei Gonzaga a Mantova, degli Estensi a Ferrara, dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro ad Urbino. Dal punto di vista culturale, inizia la riscoperta delle lettere classiche latine e greche. Il Quattrocento è considerato il secolo dell’Umanesimo e del Rinascimento che in un primo momento convisse con la tradizione gotica. Il gotico internazionale si diffonde a partire dalla seconda metà del Trecento: la sua diffusione fu inarrestabile grazie ai continui viaggi degli artisti e delle opere nella rete delle corti e delle committenze. CORTI EUROPEE Castello di Chantilly a nord di Parigi sede del più bel codice miniato del tramonto del Medioevo: Les tres riches heures du Duc de Berry, libro d’ore, breviario cioè una raccolta di preghiere da recitare in base al periodo dell’anno. Il proprietario fu Jean de Berry, terzogenito del re francese, e duca di una regione della Francia. Il volume è molto ricco, corredato con pagine preziosi miniate realizzate dai fratelli De Limbourg: nativi dell’attuale Olanda, il loro lavoro li porterà presso numerose corti, tra cui quella di Bourges dove lavoreranno a questo codice. I dodici fogli di apertura del codice sono dedicati alle allegorie dei mesi dell’anno, soggetto caro alla cultura medievale. I mesi non alludano al lavoro come nelle cattedrali romaniche, ma agli ozi dei più ricchi:  Aprile è rappresentato come il mese del fidanzamento: in alto vi è un calendario astrologico con il carro del sole centrale e una volta celeste con i segni zodiacali del mese (Ariete e Toro); sotto vi è una scena simbolica di una coppia che si scambia l’anello di fidanzamento. I due sono vestiti elegantemente e i loro abiti sono ornati riccamente mentre le loro figure sono allungate come statue gotiche d’avorio. Si evince una grande passione per la natura: il fidanzamento è ambientato in aperta campagna e offre una veduta di paesaggio che riflette la realtà, trasfigurandola in termini fiabeschi.  Luglio è riservato alla rappresentazione del lavoro degli humiles. Il calendario in alto è caratterizzato da didascalie e i segni sono quelli del Cancro e del Leone. I colori utilizzati sono molto accesi e i protagonisti della scena sono rappresentati in maniera abbastanza reale. La novità è la presenza del cielo atmosferico: nel Trecento gli affreschi italiani presentavano un fondale astratto che non coglieva gli effetti atmosferici di un cielo vero. Le opere di questo periodo mescolano il massimo artificio e il naturalismo dei dettagli. La pittura rispecchia lo stile cortese che riflette i gusti del signore e della sua corte: il carattere è laico mentre i colori utilizzati sono preziosi, eleganti. Non vi è attenzione per la resa tridimensionale dello spazio al contrario dell’attenzione per la decorazione. Queste caratteristiche derivano dall’esperienza del Gotico in Francia che ha prodotto le cattedrali dell’Ile-de-France nel Trecento. Per spiegare lo sviluppo gotico possiamo fare riferimento anche all’opera di Simone Martini “la Madonna dell’umiltà”: soggetto mariano che prevede la raffigurazione della Vergine con il Bambino seduta a terra, sul prato con delle vesti preziose e meravigliose. Questa è un’immagine che sembra anticipare il codice delle Ore del duca di Berry. Nel frattempo, Avignone ospitava la più importante corte europea: i Papi si erano trasferiti in Provenza nei primi anni del Trecento e sarebbero rimasti fino agli anni 80. Ad Avignone confluivano nobili, prelati e ambascerie ma anche artisti da tutta Europa: tutto ciò permise al gotico avignonese di svilupparsi dalla Francia all’Italia alla Germania. Il tema mariano fu ripreso più volte nel corso del Trecento divenendo uno dei temi principali del Gotico internazionale: “La Madonna della quaglia” di Pisanello è un esempio chiaro della diffusione del tema mariano ma di un’interpretazione diversa da quella di Martini, laddove Pisanello estremizza l’eleganza della Vergine accentuandone la delicatezza delle carni e la posa curva tipicamente gotica. Il Gotico fiorito (architettura flamboyant) Flamboyant significa “Fiammeggiante” e fa riferimento ad elementi ornamentali che alludono al guizzare delle fiamme. L’aggettivo è appropriato se si guarda alla facciata del palazzo che Marino Contarini fece costruire a Venezia negli anni Venti: la Ca’ d’Oro sul Canal Grande è un’opera frutto di maestranze lombarde e venete caratterizzata da una facciata di loggiati fioriti vuoti gli uni sugli altri che alludono ad una struttura leggera dando l’effetto di un pizzo di pietra. In origine la merlatura era impreziosita dalla presenza di colori e dorature (la policromia doveva farla apparire come monumentale oggetto di oreficeria). Il Gotico fiorito ebbe fortuna molto più fuori dall’Italia (laddove stava fiorendo il Rinascimento di Michelangelo e Raffaello): Cappella del King’s College di Cambridge nel Regno Unito fondata dal re Enrico IV nel 1446 Monastero dos Jeronimos di Lisbona in Portogallo innalzato agli inizi del Cinquecento per volontà del re Manuele. Scultura Claus Sluter primo grande maestro del Gotico internazionale, olandese che fece fortuna in Francia (come i De Limbourg) al servizio del duca di Borgogna Filippo l’Ardito. spaziale e con una predominanza di episodi divertenti. Gentile mostra interesse per la realtà: nella “Fuga in Egitto” rinuncia al fondo dorato per un cielo azzurro e atmosferico in cui compaiono la luce e le nuvole (novità eclatante). Alla fine del 1425 Gentile si trasferirà a Roma dove Martino V gli commissionerà un ciclo di affreschi per la navata della Cattedrale di san Giovanni in Laterano che ad oggi non abbiamo poiché fu distrutto per lasciare spazio alla tendenza barocca di Borromini. Da un disegno superstite sappiamo che il ciclo doveva essere organizzato in due registri: uno con le Storie del Battista e l’altro con profeti. L’opera sarà terminata dal suo allievo Pisanello nel 1431. Pisanello: apprendistato con Gentile a Venezia e lavorò al ciclo del Palazzo Ducale. Le sue opere più importanti sono conservate a Verona. Nella chiesa francescana di San Fermo, Pisanello realizzò il monumento sepolcrale di Niccolò Brenzoni insieme a Nanni di Bartolo, allievo di Donatello. Il monumento è caratterizzato dal gruppo scultoreo con la Resurrezione di Cristo dovuto a di Bartolo, mentre Pisanello si occupò delle parti dipinte (finta tappezzeria, giardino gotico, scena dell’Annunciazione ai lati del tendaggio). La dipendenza da Gentile si nota dalla tenerezza delle carni e nella raffinatezza cromatica della scena Vergine annunciata. La decorazione tende a prevalere sulla scultura. Nella Cappella della famiglia Pellegrini della Chiesa domenicana di Sant’Anastasia realizzerà l’affresco sopra l’arcone di ingresso con “Storia di San Giorgio e la principessa”: il cavaliere è di fronte alla principessa mentre sale sul destriero con il quale sconfiggerà il drago. L’artista rappresenta una scena privilegiando l’aspetto cavalleresco e non quello sacro (se l’affresco non fosse in una Chiesa sarebbe spontaneo pensare ai protagonisti come a Ginevra e Lancillotto). Registro avventuroso, ricco di dettagli e di elementi tipici dell’epoca (acconciatura della principessa come quelle delle grandi dame del tempo). Utilizzo di lamine metalliche e decori a pastiglia per rendere più prezioso l’affresco. L’ultima fase della sua carriera si svolse a Mantova presso la corte dei Gonzaga, poi a Ferrara presso gli Estensi e infine a Napoli presso Alfonso d’Aragona. Durante il concilio per riunire la Chiesa di Roma con quella d’Oriente, Pisanello ritrasse il sovrano in uno dei modelli di medaglia più antichi (medaglia come dono diplomatico o memoria da murare nelle chiese e nei castelli) la quale si impose nel Quattrocento come simbolo della rappresentazione del potere del signore. A Pisanello si deve il modello di rappresentare il profilo (diritto) e un emblema o un episodio narrativo (rovescio). Nella medaglia di Giovanni VIII Paleologo il diritto mostra il profilo barbuto con il copricapo alla greca e nel rovescio un cavaliere di fronte ad un crocifisso. Pisanello prese spunto dalle monete romane. Medaglia per Lionello d’Este: realizzata per celebrare le nozze con Maria d’Aragona. Sul diritto vi è il profilo di Lionello che riprende il ritratto di Lionello dell’Accademia Carrara di Bergamo. Jacopo della Quercia come figura di passaggio con il nuovo linguaggio rinascimentale. I cantieri principali furono Lucca e Siena. Realizzò il monumento funebre per Ilaria del Carretto, moglie del signore di Lucca Paolo Guinigi, morta di parto. La tomba doveva essere posta nel Duomo: monumento non a parete ma isolato come quella di Sluter. Il gisant (il giacente) è disteso sul sarcofago con ai piedi un cagnolino: emerge grande naturalismo e grande attenzione ai costumi del tempo (abito alla moda con colletto altissimo). Lungo i lati del sepolcro furono posizionati i pleurants, spiritelli recuperati dalla scultura antica (spirito gotico con capigliature mosse). Nel 1408 Jacopo rientrò nella sua terra natale, Siena e realizzò la Fonte Gaia per la Piazza del Campo: il comune chiese allo scultore di realizzare una fontana pubblica per la piazza più eminente della città. La fonte di Jacopo completò l’estetica della piazza trecentesca: scelse soggetti connessi con temi civili che richiamavano gli affreschi di Lorenzetti nel Palazzo Pubblico (Buon Governo). La fonte appariva come un trono con ali aggettanti intorno alla vasca al centro della quale vi era la Vergine con il Figlio; sui fianchi vi erano scene della Creazione di Adamo e del Peccato Originale e al di sopra le statue di Rea Silvia e Acca Larentia (madre e nutrice di Romolo e Remo) alludendo così all’origine mitica di Siena (fondata dai figli di Remo). La fonte di Jacopo fu sostituita nel 1869 da una copia di Tito Sarrocchi per lo stato malridotto in cui era: i marmi sono oggi esposti nell’ospedale di Santa Maria della Scala. Nell’ultimo decennio della sua vita Jacopo della Quercia si trovò a Bologna per realizzare un grande portale per la Basilica di San Petronio, chiesa fondata come tempio civico dell’autorità comunale in un momento di indipendenza di Bologna dalle ingerenze della famiglia Bentivoglio e della Chiesa. La chiesa si erge su Piazza Maggiore di fronte al Palazzo del Podestà e la Fontana di Nettuno del Giambologna. Il progetto fu di Antonio di Vincenzo, informato sul cantiere del duomo di Milano. La facciata non fu mai completata, mentre il portale fu realizzato da Jacopo in parte: manca il coronamento gotico sopra la lunetta (caratterizzata da Madonna col Bambino e i Santi Ambrogio e Petronio). I rilievi dei fianchi con Profeti e Storie dell’At furono realizzati con aggressivo plasticismo come figure a tutto tondo in un secondo momento. La scena del Peccato Originale: progenitori nudi affiancati dall’albero del bene e del male da cui spunta il serpente; figura di Adamo vigorosa in contrapposto (parti in tensione e parti rilassante creano forze contrastanti che accentuano il movimento) come una sorta di antenato del David. San Petronio resta una chiesa gotica nonostante l’originalità di Jacopo: pianta longitudinale suddivisa in tre navate voltate a crociera da robusti pilastri a fascio che sostengono archi acuti. Tra le cappelle laterali, una conserva l’aspetto quattrocentesco, quella voluta da Bartolomeo Bolognini ricco mercante che vi collocò la propria sepoltura: all’interno della cappella sono presenti affreschi (storia dei re Magi) realizzati da Giovanni da Modena (rappresentante della pittura gotica emiliana). Contesto storico FIRENZE Nei primi decenni del Quattrocento a Firenze si parla di primavera del Rinascimento e si avvia una riscoperta della letteratura antica di Platone, Aristotele, Cicerone, che portò ad una riscoperta dei valori di una società giusta (umanesimo civile). Così come ci viene detto da Coluccio Salutati, all’inizio del Quattrocento, Firenze volle proclamarsi erede dell’antica Repubblica romana e del suo modello di vivere civile (forma antitirannica e impegno del cittadino). Fu Coluccio, cancelliere della Repubblica di Firenze a promuovere una propaganda antiviscontea denunciando gli aspetti tirannici del suo governo. Un prosecutore dei suoi ideali fu Leonardo Bruni convinto che oramai Roma fosse morta e che gli ideali giusti fossero incarnati da Firenze, città simbolo di una forma di governo popolare. La Repubblica di Firenze era fondata sul lavoro: per essere ammessi agli uffici pubblici si doveva essere iscritti ad un’Arte, Corporazioni che riunivano i membri di una categoria professionale. Tra le Arti maggiori vi erano Calimala (mercanti di tessuti), l’Arte del Cambio (banchieri), Medici e Speziali (pittori). Nel 1406 Firenze conquistò Pisa assicurandosi l’accesso al mare ed eliminando un’avversaria, mentre dopo la morte di Gian Galeazzo, la minaccia milanese tornò viva con il suo successore, Filippo Maria Visconti: Firenze combatté le guerre di Lombardia, guerre combattute da truppe mercenarie non da eserciti contadini. Nel 1440 le guerre terminarono a favore di Firenze (battaglia di Anghiari > dipinto di Leonardo). 1434: arrivo a Firenze di papa Eugenio IV e rientro dall’esilio di Cosimo de Medici, capo di una grande banca con filiali europee. Il primo farà di Firenze il grande centro della cristianità trasferendovi il concilio per riunire le due chiese durante lo scisma. Durante questo periodo la città fu attratta dallo sfarzo orientale che entrò subito nel repertorio dei maestri locali del tempo. Il concilio fu finanziato da Cosimo il quale divenne signore della città conquistandosi il titolo di pater patriae e dando il via a quel processo di dominio politico che avrebbe portato ad istituire il Principato. Fu uno dei mecenati più grandi di tutti i tempi. RINASCIMENTO Per spiegare cos’è il Rinascimento basta leggere l’omaggio dedicato da Alberti in apertura al suo trattato “Sulla Pittura” a Filippo Brunelleschi in cui racconta la sua impressione nel mettere piede a Firenze nel 1434. Sappiamo che Alberti era membro di una famiglia fiorentina esiliata a Genova e fino a quel momento aveva sempre creduto nel primato dell’antichità connotando il suo tempo come una decadenza medievale, un’epoca priva di uomini geniali. Entrando a contatto con le opere di Brunelleschi, Donatello, Ghiberti e Masaccio aveva capito che l’antichità era rinata, anzi che era nato qualcosa di nuovo. Siamo nel periodo in cui i maestri elaboreranno un linguaggio nuovo che si servirà della prospettiva per riprodurre precisamente la tridimensionalità dello spazio. La triade portatrice di queste innovazioni sarà composta da Brunelleschi, Donatello e Masaccio. Concorso del 1401 bandito tra i migliori artisti toscani dall’Arte di Calimala: il migliore avrebbe realizzato la grande porta bronzea per il Battistero di San Giovanni. La chiesa aveva tre ingressi: uno dei tre era già chiuso dai battenti bronzei realizzati da Andrea Pisano nel 1336 che fu un modello di riferimento per la nuova porta a nord. Il concorso prevedeva la creazione di una formella mistilinea (con cornice gotica) con un episodio dell’AT, il Sacrificio di Isacco. Ghiberti ci dice che i partecipanti furono sette (tra i nomi più importanti emersero quello suo, di Jacopo della Quercia e di Filippo Brunelleschi) e che fu lui stesso il vincitore. Le formelle di Brunelleschi e Ghiberti oggi sono al Bargello: simboli di una cultura gotica morente e di un nuovo modo di vedere il mondo. Formella di Ghiberti: figlio di un orafo, grande dimestichezza con la lavorazione del bronzo. La rappresentazione è gotica: paesaggio roccioso, composizione basata sulla figura di Abramo che viene bloccato dall’arrivo dell’angelo mentre sacrifica il figlio. Formella di Brunelleschi: disposizione centrale di Abramo, figure fini e dinamiche, priva di rigore spaziale, riferimento allo Spinario nella posa del personaggio in basso a sinistra. Aveva avuto un’esperienza da orafo presso l’altare di San Jacopo nella Cattedrale di Pistoia (profeti con la stessa barba arricciata e calligrafica che presenta Abramo nella formella). LORENZO GHIBERTI Porta Nord del Battistero di Firenze: ottenne la commissione nel 1403 e la terminò nel 1424 con l’assistenza di numerosi maestri di una bottega (Donatello, Paolo Uccello, Michelozzo). I due battenti sono formati da 28 formelle mistilinee e i temi iconografici sono Storie evangeliche, Evangelisti e Dottori della Chiesa. Attualmente la porta risiede nel Museo dell’Opera del Duomo, mentre in sito vi è una copia. Lo stile di Ghiberti è molto diverso dalle figure giottesche di Pisano: eleganza delle forme legata al gusto gotico. Nella formella dedicata all’Annunciazione l’Angelo è raffigurato di profilo e causa un movimento all’indietro della Vergine (innaturale) inquadrata da un archetto. Sul fondo vi è raffigurata la colomba che ricorda l’angelo nella formella di prova del Ghiberti. La regia della scena viene quindi affidata all’apparizione del divino, del personaggio sacro. DONATELLO Tra gli artisti che intrapresero l’apprendistato presso l’officina ghibertiana vi era anche Donatello. Tra le sue prime opere ricordiamo il Crocifisso realizzato per la basilica di Santa Croce a Firenze: le pieghe taglienti e sinuose del perizoma di Cristo ricordano quelle nella Crocifissione della Porta Nord del Battistero realizzata da Ghiberti, mentre il volto del Cristo donatelliano è del tutto originale. Donatello esprime l’espressività che diventerà tipica delle sue sculture (brutale naturalismo). Brunelleschi addirittura sosteneva che non sembrava Cristo, ma un contadino in croce. Nel 1408 l’Opera di Santa Maria del Fiore ordinò tre sculture di Evangelisti per la facciata del Duomo: a Donatello spettò il San Giovanni, mentre a Lamberti andò il San Marco e a di Banco andò il San Luca. L’idea era quella di instaurare una gara fra i maestri e affidare al migliore di loro il mancante San Matteo (che poi fu affidato a Bernardo Ciuffagni). Nel 1415 le quattro figure furono collocate nella facciata mentre adesso si trovano al Museo dell’Opera del Duomo. Vi è un evidente spartiacque fra due gruppi artistici: Lamberti e Ciuffagni guardano ancora al Gotico (artifici nei panni e nelle acconciature) mentre Donatello e Nanni di Banco guardano ad un lessico nuovo (fierezza e solidità strutturale delle figure). BRUNELLESCHI Realizzerà in risposta all’amico Donatello un Crocifisso: composizione armoniosa del corpo e studio dell’anatomia. Appare come un’opera del Rinascimento maturo: dalla biografia scritta da Antonio Manetti alternando copertura piana al centro con le volte nei corridoi. La pianta era molto simile a quella delle basiliche gotiche degli ordini mendicanti (Santa Maria Novella e Santa Croce) ma il senso dello spazio e il linguaggio architettonico adottati erano diversi poiché si ispiravano all’architettura paleocristiana. La fase ultima della costruzione risalì al 1442 (cantiere molto lungo). Filippo per la decorazione degli altari richiese tavole quadrate, non polittici con cuspidi e pinnacoli mostrando la fuga prospettica razionale dello spazio da lui progettata. MASACCIO Colui che adottò le lezioni di Brunelleschi e Donatello in pittura fu Masaccio, nato in provincia di Arezzo, ebbe una carriera molto rapida ma fu comunque capace di lasciare un segno importante. Diede il via alla sua attività in società con Masolino da Panicale, pittore più anziano autore della “Madonna col Bambino” del 1423, anno dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano: opera che celebra il matrimonio tra le famiglie Boni e Carnesecchi e giocata su colori delicati e preziosi (tipici del gotico). Per la Chiesa di Sant’Ambrogio, Masolino eseguì la “Sant’Anna Metterza” il cui titolo è dovuto alla posizione della nonna Anna messa “per terza” nella composizione dell’opera. In quest’opera vi è anche la mano di Masaccio: realizzò la figura dell’angelo in alto a destra e le figure centrali della Madonna e del Bambino caratterizzati da una grande volumetria e tridimensionalità, nonostante il fondo oro e le aureole piatte (resa anatomica molto moderna). LA CAPPELLA BRANCACCI: una cappella nella chiesa fiorentina del Carmine che apparteneva al mercante di seta Felice Brancacci. Nella decorazione confluirono sia la pittura di Masolino che quella di Masaccio. Il lavoro fu avviato nel 1424 e prevedeva la rappresentazione delle Storie di San Pietro dedicatario della cappella stessa. Ad oggi gli affreschi che noi vediamo sono il prodotto di innumerevoli stratificazioni nel corso del tempo. Sappiamo che il cantiere veniva iniziato sempre dall’alto: le vele e le lunette furono le prime ad essere affrescate (affreschi originari distrutti in seguito ad una ristrutturazione del 1746). Negli anni Ottanta del Quattrocento intervenne Filippino Lippi che, con uno stile masaccesco, completò il registro più basso di affreschi per sopperire alla mancanza di Masolino, trasferitosi in Ungheria, e di Masaccio, occupato nel polittico per la chiesa del Carmine di Pisa. Tra gli episodi principali ricordiamo nel registro superiore della parete di ingresso due episodi della Genesi: Masolino realizzerà “la Tentazione di Adamo ed Eva” laddove i progenitori sono ritratti nudi come suggerito dall’AT e appaiano privi di consistenza corporea, assolutamente bidimensionali come se galleggiassero. Masaccio, invece, racconta in maniera diversa la “Cacciata dal Paradiso terrestre” laddove i progenitori escono da un portale sovrastati dalla figura di un crudele angelo e camminano in un paesaggio concreto, proiettando anche le ombre dei loro corpi. Emerge una forte espressività e carnalità: sono due figure che esprimono dolore e risentono del ruolo giocato dalla scultura di Donatello (espressione del carattere umano). Questi elementi sono presenti in altre scene, ad esempio in “Tributo” che si sviluppa in tre momenti differenti: al centro Cristo accerchiato dagli apostoli indica a Pietro di pescare la moneta necessaria per entrare in città dalla bocca di un pesce; a sinistra Pietro esegue l’ordine e a destra la utilizzerà per pagare l’imposta. Sono evidenti le ombre proiettate dai personaggi a terra, le quali saranno protagoniste nella scena di “San Pietro che risana con la propria ombra” ambientata in un paesaggio rubano reso in prospettiva probabilmente una via di Firenze contemporanea tra abitazioni povere e palazzi a bugnato. Il realismo di Masaccio è presente anche in “Battesimo dei neofiti” caratterizzata da una scenografia studiata con monti disposti in prospettiva che incombono sulle figure umane caratterizzate nella loro anatomia e nella loro emotività. I nudi di Masaccio sono ricchi di naturalismo. POLITTICO DI PISA: commissionato da ser Giuliano degli Scarsi per la sua cappella dedicata ai santi Giuliano e Nicola. È l’unica opera riconosciuta a Masaccio da documenti. Il Polittico ci è giunto smembrato a causa di antiche dispersioni. La pala era ancora di formato gotico e con fondo dorato (per volontà del committente) ma la scena rappresentata era unificata in un solo spazio. John Shearman ipotizzò la ricostruzione del polittico immaginando i santi laterali perduti (Pietro, Giovanni Battista, Giuliano, Nicola) come figure disposte su piani differenti rispetto alla Madonna col Bambino centrale. Alla base del polittico vi era la predella con cinque scene che alludevano alla figura sovrastante in corrispondenza. Al centro vi era l’Adorazione dei Magi: ambientazione montuosa spoglia, aureole in scorcio, cielo atmosferico, disposizione studiata delle figure nello spazio, salda concezione dello spazio, unica allusione al lusso incarnata dalla sedia della Vergine che ricorda una sella curule. La scena centrale del Polittico, della Madonna col Bambino e angeli è oggi conservata alla National Gallery di Londra: ponendola a confronto con il medesimo soggetto realizzato da Gentile da Fabriano le differenze sono lampanti soprattutto nella resa della terza dimensione. Masaccio inserisce lateralmente degli angeli per fare riferimento alle quinte della composizione. La vergine indossa un mantello panneggiato che dà volumetria alla figura e il Bambino ricorda un piccolo Ercole. Colpisce l’utilizzo di una luce molto forte che crea contrasto con le parti in ombra e l’uso del trono in pietra (non più gotico). Il vertice del Polittico doveva essere occupato dalla Crocifissione conservata a Capodimonte: Masaccio vi palesa la terza dimensione attraverso le braccia della Maddalena che si allargano nell’esprimere il dolore e tramite la scelta di rappresentare un Cristo senza collo (la Crocifissione doveva essere osservata dal basso per cui attraverso questa raffigurazione il Cristo appariva più realistico). TRINITA’ DI SANTA MARIA NOVELLA: Masaccio si servirà della prospettiva per realizzare un’architettura illusionistica su una parete che potesse alludere ad un’intera cappella. La struttura architettonica ricorda un arco trionfale all’Antica all’interno del quale sono raffigurati il Figlio sulla croce sovrastato dal Padre, lo Spirito Santo e ai piedi della croce la Vergine e San Giovanni. Le altre due figure sono Berto di Bartolomeo e la moglie Sandra colti nell’atto della preghiera. Sotto di loro doveva trovarsi la mensa che conferiva alla raffigurazione il senso di una pala d’altare di una cappella funebre. Sotto l’altare vi era uno scheletro che alludeva a quello di Adamo e proclamava che la passione, morte e resurrezione di Cristo avevano sconfitto la morte di ogni uomo. L’iscrizione recitava “io fu già quel che voi siete e quel ch’i son voi ancor sarete” alludendo alla morte fisica che domina l’esperienza quotidiana. Masaccio rompe con la tradizione di raffigurare i committenti e i devoti sottodimensionati rispetto alla divinità: per lui era necessario sottostare alle ragioni della realtà e della prospettiva. L’architettura della cappella ricorda Brunelleschi per la ripresa del linguaggio antico: paraste scanalate, capitelli ionici, arco a tutto sesto, volta a botte. Con quest’opera Masaccio abbandonerà Firenze per trasferirsi a Roma. Sulla scia di Masaccio:  Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, protagonista della pittura senese del primo Quattrocento. Realizzò un polittico per l’Arte della Lana di Siena, ad oggi smembrato: nel frammento della predella con il “Sant’Antonio battuto dai diavoli” compare un cielo atmosferico mentre i tre demoni si dispongono a semicerchio per alludere ad un forte senso spaziale. Le figure sono sottili e rimandano a elementi gotici.  Beato Angelico, Guido di Pietro all’anagrafe, definito “angelico e vezzoso” dall’umanista Cristoforo Landino per la sua formazione che proveniva dal Gotico internazionale; verrà definito devoto poiché era un frate domenicano e molte volte verrà chiamato a lavorare per le chiese del suo ordine. Nel 1429 realizzerà un trittico per il convento femminile domenicano di San Pietro Martire a Firenze: analogie con Masaccio per il fondo dorato, la carpenteria gotica e la scelta di rappresentare uno spazio unificato. La composizione è la stessa: al centro la Vergine e ai lati i quattro santi tre dei qual con la veste bianca e il mantello nero dei Domenicani. Una delle cifre stilistiche principali di Beato Angelico sarà il pavimento in marmi screziati che rivedremo spesso nella sua attività.  Filippo Lippi: appartenente all’ordine carmelitano nel convento fiorentino del Carmine. Prese i voti prima che Masaccio lavorasse alla Cappella Brancacci: fu uno dei maggiori seguaci di Masaccio proprio perché entrò subito a contatto con gli affreschi del ciclo. Nel 1430 realizzò “Madonna dell’umiltà e santi”, pala di piccole dimensioni in cui rinuncia alla ridondanza di fiori tipica del tema e all’influsso gotico che caratterizzava il tema per adottare un tipo di stile masaccesco. Il fondo è azzurro, le figure sono solide (il mantello della Vergine cala a terra con pesantezza) e le acconciature e i volti dei fanciulli rimandano alle sculture di Luca della Robbia.  Paolo Doni, passato alla storia poi come Paolo Uccello, per le decorazioni di pitture animali nella propria casa. Avviò la sua attività nel cantiere ghibertiano della Porta Nord e poi soggiornò a Venezia. Nel 1436 realizzò “Monumento equestre di Giovanni Acuto” affrescato su una parete del Duomo di Firenze per rendere omaggio ad un condottiero inglese, John Hawkwood, servitore della Repubblica fiorentina. Riprendendo l’illusionismo della Trinità di Masaccio, simulò con la pittura un complesso scultoreo realizzando una tomba con grande resa spaziale. Nel 1438 realizzò per Leonardo Bartolini Salimbeni tre grandi tavole che raffiguravano la Battaglia di san Romano tra fiorentini e senesi durante la Guerra di Lucca: i tre pannelli ad oggi sono disposti in musei diversi e rappresentano: “Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini”, “il Disarcionamento del condottiero senese Bernardino della Carda” e “Michele Attendolo guida i Fiorentini alla vittoria”. In questi pannelli si nota un forte interesse per gli scorci difficili, le geometrie volumetriche delle figure e dei mazzocchi (copricapo). Se si guardano le lance si capisce come Paolo Uccello abbia studiato la composizione in maniera impeccabile. Nel paesaggio evoca delle architetture gotiche: in un primo momento le tavole dovevano essere completate da cuspidi e lamine d’argento sulle armature. PITTURA DI LUCE Dopo la morte di Masaccio si venne a creare una nuova generazione di pittori che fondavano la loro attività sul rigore prospettico e un cromatismo vivace e luminoso. Questa generazione ebbe impulso da Domenico Veneziano a Firenze alla fine degli anni 30 e venne denominata “Pittura di luce”:  prospettiva;  composizione essenziale e lineare;  narrazione ordinata della storia;  utilizzo di colori chiari e luminosi. Domenico Veneziano: autore de “Adorazione dei Magi” caratterizzata da elementi tardogotici (ricchezza degli abiti orientali, prato fiorito, raffigurazione di animali). Veneziano reinterpreta un soggetto che Gentile aveva trattato in maniera sontuosa e Masaccio in maniera rigorosa: scena affollata resa con proporzioni precise e tridimensionalità e presenza del cielo azzurro che illumina la campagna. Si pensa che questo tondo fosse destinato a Piero il Gottoso, primogenito di Cosimo. Pala della chiesa di Santa Lucia de Magnoli a Firenze: la tavola con la Madonna col Bambino e i Santi si conserva agli Uffizi mentre le storie della predella sono state smembrate. Nel dipinto agli Uffizi riconosciamo una serie di elementi innovativi: la pala d’altare è quadrata e rinuncia a cuspidi e pinnacoli; i protagonisti si definiscono in uno spazio reso tramite la geometria e il rigore prospettico; la luce fa risaltare i contorni dei personaggi e i panneggi. L’architettura è molto lontana da Brunelleschi: gli archi sono gotici e le campate non hanno identiche dimensioni in lunghezza e altezza. Ciò che colpisce è la policromia: sono usati colori chiari. Nel 1439 Veneziano iniziò il ciclo di Storie della Vergine per la chiesa fiorentina di Sant’Egidio: il ciclo è oggi perduto ma sappiamo che rappresentò una sorta di palestra per la generazione dei pittori di luce. Lo iniziò insieme a Piero della Francesca e fu terminato da Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti. Andrea del Castagno: si distinse per il carattere fiero ed energico che diede ai suoi personaggi. Negli anni Quaranta realizzò gli affreschi sulla parete del cenacolo del monastero delle Camaldolesi di Sant’Apollonia a Firenze. Il tema è quello dell’”Ultima Cena”: il pittore ambientò la scena in un edificio all’antica con un effetto prospettico esasperato dalle linee del pavimento, del soffitto e del tetto che convergono verso il centro dell’architettura. La sala è sfarzosa e ricorda la ricchezza degli imperatori romani (anche per la presenza delle arpie che sono scolpite ai lati delle sedute). Giuda si distingue sul lato anteriore della mensa con il manto che si raggruma come fosse bagnato. La luce è molto intensa. Filippo Lippi: il linguaggio pacato di Luca della Robbia trova un preciso parallelo in pittura con Filippo Lippi e Domenico di Bartolo. “Trittico con la Madonna col Bambino, quattro angeli, il donatore, san Giovanni e san Giorgio” con fondo dorato ma carpenteria sobria lontana dal gotico, al centro ospita la Madonna sovrastata da un timpano all’antica decorato con lo stemma del committente posizionato in abisso e di profilo ai piedi della Vergine. Le figure sono corpulente e paffute. La Madonna è sospesa su un tappeto di nuvole e non a terra come nell’iconografia della “Madonna dell’Umiltà” rappresentata da Domenico di Bartolo su di una tavola di formato rettangolare con cornice gotica: la scena conserva il prato fiorito ma è tutto centrata sulla figura solida di Maria con il manto arrotolato sul proprio corpo per rendere le forme di quest’ultimo. Il Bambino nudo con l’aureola in scorcio simboleggia una buona conoscenza di Masaccio e le figure circostanti riprendono la serenità delle sculture di Luca della Robbia. Sagrestia Vecchia di San Lorenzo Prima di Cosimo, suo padre Giovanni avviò un cantiere importante nella città nel 1420 ristrutturando la chiesa di San Lorenzo e affidando il progetto a Brunelleschi per la costruzione di un mausoleo mediceo. Viene denominata Sagrestia Vecchia per distinguerla da quella Nuova che verrà realizzata da Michelangelo: è uno spazio cubico caratterizzato da un colore neutro e scandito da elementi architettonici classicheggianti in pietra serena (colore grigio) e su ogni lato vi erano lunette sopra le quali vi era una cupola con quattro pennacchi. Al centro vi era la tomba di Giovanni de Medici. L’altare era posto in uno spazio grande identificato come scarsella dove risaltavano rilievi colorati realizzati da Donatello per gli arconi, pennacchi e sovrapporta (Storie di San Giovanni Evangelista). Cappella Pazzi Dopo la Sagrestia Vecchia, Brunelleschi fu l’autore anche della cappella nel chiostro di Santa Croce denominata Cappella Pazzi in virtù del committente, Andrea Pazzi, il quale aveva deciso di partecipare alla ricostruzione di alcuni ambienti di Santa Croce distrutti da un incendio. L’edificio è a pianta centrale impostato su un’aula cubica con cupola e scarsella a modello della Sagrestia ma con grandi differenze nella decorazione: ai rilievi donatelliani della Sagrestia, qui vennero preferite le sculture in terracotta invetriata di Luca della Robbia. Sia Brunelleschi che Pazzi morirono molto prima di vedere finita la cappella: il cantiere procedette a rilento dopo la loro morte e l’edificio verrà terminato solamente prima che la famiglia Pazzi attuerà la congiura contro i Medici. Non si sa se la facciata caratterizzata da porticato all’antica con colonne corinzie a sostegno di una trabeazione sia stato frutto di un progetto di Brunelleschi. Porta del Paradiso Nel 1425 Ghiberti aveva ottenuto il compito di realizzare dall’Arte di Calimala, l’ultima porta del battistero di fronte all’ingresso del Duomo (che Michelangelo avrebbe poi definito Porta del Paradiso). L’impresa fu molto lunga: la porta fu installata solamente negli anni 50 con l’aiuto di numerosi personaggi, tra cui Vittore Ghiberti. I due battenti erano lontani da qualsiasi riferimento di carattere gotico: vi erano dieci grandi scene con storie dell’AT e una cornice con rilievi di personaggi biblici. Un’opera pubblica di questa portata rappresentava una perfetta sintesi tra forma e contenuto: la bellezza non era priva di significati di valore. Ghiberti rimarrà fedele per certi aspetti alle sottigliezze gotiche della Fonte battesimale di Siena: le figure erano più volumetriche e la prospettiva gli era ancora oscura mentre lo stiacciato venne adottato per dettagli e non per alludere alla tridimensionalità. Nella prima formella racconta la storia dei progenitori: a sinistra la creazione di Adamo, al centro quella di Eva e a destra la rappresentazione del peccato originale. In un unico fondale rappresenta la storia dei progenitori e la loro cacciata dal Paradiso in secondo piano sulla destra. La materia è preziosissima e levigata come le robbiane, le figure sono più belle che drammatiche e il paesaggio è lussureggiante e dettagliato. Ghiberti userà l’espediente di raccontare più episodi nella stessa formella: nel caso della “Storia di Giuseppe ebreo” articola più momenti della storia uniti dal filo narrativo e non dalla razionalità prospettica. Giuseppe, figlio preferito di Giacobbe fu venduto dai fratelli invidiosi e una volta in Egitto fece fortuna interpretando i sogni del faraone: quando i fratelli durante la carestia si recarono in Egitto per reperire gran, Giuseppe si fece riconoscere e li perdonò. La formella racchiude sette episodi intorno a una loggia circolare poco verosimile nella concezione spaziale. Le figure sono dettagliate ed eleganti e le acconciature sono rese in maniera calligrafica. Donatello Viene associato a Ghiberti nella grazia per la scultura del David in bronzo al Bargello di Firenze: un adolescente con capelli lunghi, nudo e con cappello e calzari mentre tiene nella mano sinistra il sasso con cui ha battuto Golia. Quest’ultimo viene raffigurato morto sotto il piede del David. Lo sguardo sembra nascosto dal cappello e rivolto verso il basso. Posa ancheggiante con la mano sinistra poggiata sul fianco, esprime grande eleganza e a differenza di Ghiberti è una statua a tutto tondo, visibile da qualsiasi punto di vista. Fu realizzato per una sala del palazzo di Cosimo de Medici in Via Larga. Un altro soggetto biblico affidato da Cosimo a Donatello fu la Giuditta in atto di decapitare Oloferne: opera realizzata nel 1464 poco prima del suo decesso e dopo il soggiorno padovano in cui lo scultore realizzò una serie di bronzi monumentali. Gruppo scultoreo a tutto tondo caratterizzato da grande gestualità e forza. Sul basamento sono evocate scene bacchiche in riferimento al fatto che Giuditta farà ubriacare Oloferne per poi ammazzarlo. Un tempo vi era una scritta in latino con il nome del committente e che spiegava la funzione civile dell’opera (si ricordava come Pietro dedicasse la statua femminile all’unione di libertà e fortezza): Giuditta uccisa il comandante degli Assiri Oloferne per evitare che il popolo potesse occupare la città di Betulia per questo motivo il gruppo scultoreo rappresentava la virtù civile e l’amore per la patria. Originariamente Giuditta doveva essere posta nel giardino di Palazzo Medici mentre il David nel cortile realizzato da Michelozzo. PALAZZO MEDICI Michelozzo di Bartolomeo si formò nel cantiere ghibertiano e fu socio di Donatello e alla morte di Brunelleschi ottenne l’incarico di capomaestro del Duomo. Divenne l’architetto di fiducia di Cosimo de Medici che gli affidò il compito di realizzare la sua nuova dimora, Palazzo Medici. Costruito tra 1444 e 1460, rappresentava un edificio gentilizio rinascimentale caratterizzato da sobrietà e magnificenza: doveva rappresentare la ricchezza e il potere del signore evitando un fasto eccessivo che non si sposava con gli ideali repubblicani. Inizialmente la struttura era cubica intorno al cortile da cui si accedeva al giardino e agli appartamenti; la facciata subirà modifiche in età moderna (finestre del 500 attribuite a Michelangelo; prolungamento sulla strada risale alla famiglia Riccardi nel Seicento). Michelozzo realizzò le bifore con archi a tutto sesto e l’alternanza nei tre ordini di un bugnato rustico. Dal 1437 al 1443 Michelozzo si occupò della ristrutturazione del Convento di San Marco. Il chiostro e la biblioteca scanditi da moduli di campate e archi a tutto sesto dimostra una forte dipendenza di Michelozzo da Brunelleschi. Questo convento fu particolarmente significativo per Beato Angelico il quale affrescò le celle e le parti riservate alla comunità. La bottega dell’Angelico realizzò circa 40 affreschi. “Annunciazione” l’Angelico stipula un dialogo con la severità brunelleschiana dell’architettura di Michelozzo (spazio misurato e prospettico del porticato). Non vi sono fasti o eccessi decorativi, le due figure sono solide e si allude ad un prato fiorito tipico dell’hortus conclusus (lontano dal Gotico che avrebbe lasciato spazio all’esuberanza della natura e non la avrebbe delimitata). “Pala di San Marco” per l’altare maggiore della chiesa di San Marco. Il formato del dipinto è quadrato come quello che si affermerà per le grandi pale rinascimentali. I santi che originariamente si collocavano negli scomparti laterali, in quest’opera sono in uno spazio unico attorno alla Vergine. In primo piano vi sono le figure di Cosma e Damiano, patroni della famiglia Medici in virtù della loro professione di medici. La predella ad oggi è smembrata e presentava la scenetta della Guarigione del diacono Giustiniano che attestava le capacità miracolose dei due santi in un ambiente domestico prospettico e illuminato da una luce che ha origine dalla porta e della finestra. PITTURA FIAMMINGA Deriva dall’ossessione per i più piccoli dettagli della realtà che abbiamo già visto nel mondo gotico dei fratelli Limbourg e che con Jan van Eyck assumerà una tendenza meno fantastica: grazie all’uso della luce e della pittura ad olio diviene il mezzo per descrivere la quotidianità. Contesto storico La Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra terminerà con la sconfitta dell’esercito inglese il cui dominio si riduceva solamente al porto di Calais. La Francia grazie a Carlo VII riuscirà a recuperare i territori sotto il dominio inglese e diede il via alla creazione dello Stato nazionale a partire dal 1461. Carlo VII fu l’artefice di una corte in cui prosperarono le arti avendo al suo servizio uno dei pittori francesi più importanti del Quattrocento, Jean Fouquet. I confini della Francia del Quattrocento erano molto diversi da quelli attuali: contea della Provenza in mano a Renato d’Angiò e ducato di Borgogna. Quest’ultimo rappresentò uno Stato cuscinetto tra la Francia e l’Impero germanico e grazie a Filippo l’Ardito incluse nel regno i territori delle Fiandre e del’Hainaut. I duchi di Borgogna parteggiarono durante la guerra per gli inglesi e per i francesi in base ai loro interessi: con il trattato di Arras il duca Filippo il Buono mise fine alle ostilità con Carlo VII divenendo suo alleato. Con Filippo l’Ardito il centro artistico principale della Borgogna fu Digione mentre con Filippo il Buono si iniziarono ad apprezzare le grandi novità della pittura fiamminga con Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Il Ducato era un luogo strategico grazie ai mercanti fiamminghi che portarono alla diffusione di un nuovo linguaggio pittorico. Nel Quattrocento tra l’Italia e le Fiandre vi furono rapporti molto stretti che superarono le grandi distanze geografiche: Cosimo de Medici ebbe grandi interessi in terra fiamminga e nel 1439 aprì una filiale della sua banca a Bruges che divenne principale centro commerciale di una regione che fece delle attività manifatturiere e mercantili il proprio successo. I pionieri della nuova pittura nata tra la Francia nordorientale e i Paesi Bassi furono van Eyck e van der Weyden i quali introdussero uno sguardo più attento ai minimi particolari della realtà quotidiana. Laddove a Firenze le novità corrispondevano ad un maggiore interesse verso il rigore matematico prospettico, nelle Fiandre le novità corrispondevano ad una nuova luce e una nuova tecnica pittorica (pittura a olio). Vi furono molti scambi tra le pittura fiamminga e la pittura italiana: il primo riflesso che ebbe sulla cultura italiana fu in relazione a Filippo Lippi. Il nuovo linguaggio fiammingo sottintendeva sicuramente un gusto mercantile e borghese ma ebbe successo anche sul fronte delle corporazioni e degli ordini mendicanti. FILIPPO LIPPI “Madonna di Tarquinia” tavola proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Valverde; si crede che in origine fosse ubicata nel palazzo di Giovanni Vitelleschi, prelato di Tarquinia che fu arcivescovo di Firenze e cardinale. Cornice ancora gotica, linguaggio pittorico rinascimentale: gruppo della Vergine col Figlio molto solido nella struttura delle figure. Il Bambino sembra fare riferimento agli angeli dei rilievi delle cantorie di Donatello e di Luca della Robbia; l’ambientazione è senza precedenti e ritrae la prospettiva di un interno spazio domestico. La camera da letto è illuminata da una luce tenue che proviene dalla finestra. Grande attenzione per i dettagli più piccoli (libro). Questo è un dipinto particolarmente ispirato dalle novità della pittura fiamminga sia per l’illuminazione che per l’ambientazione. “Annunciazione” pala realizzata per l’altare della famiglia Martelli nella chiesa fiorentina di san Lorenzo. Lippi seguì la tradizione che si stava diffondendo in quel momento di realizzare pale di formato quadrato. L’episodio è narrato come fosse al di là di un porticato all’antica aperto sul fondo per mostrare la fuga prospettica di un giardino. A destra Gabriele è inginocchiato di fronte a Maria mentre a sinistra vi era una FRANCIA Dal verismo eyckiano si svilupperanno delle personalità emergenti in Francia: 1. Barthelemy d’Eyck Maestro di fiducia di Renato d’Angiò che seguì a Napoli e in Provenza, fu pittore e miniatore. Nel 1443 realizzò un Trittico per la cattedrale di Aix-en-Provence oggi smembrato tra la Chiesa ella Maddalena e Rotterdam, Amsterdam e Bruxelles. Il committente fu Pierre Corpici, mercante. Al centro vi era la rappresentazione dell’Annunciazione in un edificio gotico che richiamava l’estetica di una cattedrale nordica; i finestroni facevano emergere una luce tipicamente fiamminga che definiva gli spazi e le ombre dei profeti Isaia e Geremia nelle nicchie al di sopra dei quali furono rappresentati degli scaffali colmi di libri e oggetti vari (cifra della pittura eyckiana e della pittura fiamminga che si diffonde in Europa > Colantonio riprende questa iconografia nella rappresentazione di San Girolamo > Barthelemy doveva aver soggiornato a Napoli al seguito di Renato d’Angiò e sarebbe entrato a contatto con Colantonio). Con il ritorno in Provenza di Barthelemy e Renato d’Angiò si venne a creare una scuola che ebbe il suo principale esponente in Enguerrand Quarton: “Incoronazione della Vergine” commissionata nel 1453 per la Certosa di Villeneuve-les-Avignon. La tavola garantisce una gerarchia che permette ai personaggi più importanti di sovrastare i secondari della corte celeste. Assenza della prospettiva e funzione della luce zenitale di uniformare la composizione e di definire i dettagli della veste della Vergine e le minuzie del paesaggio a volo d’uccello. Il paesaggio non è realistico: il crocifisso si staglia al centro tra Roma e Gerusalemme annientando la distanza geografica tra le due città e rendendole entità simboliche. Il paesaggio “Pesca Miracolosa” dipinto da Konrad Witz per la Cattedrale di Ginevra e la sua attività di sperimentazione paesaggistica dovettero essere a monte delle sperimentazioni di Quarton: le due esperienze sarebbero poi giunte in Italia al servizio di Antonello da Messina. Il dipinto di Witz è caratterizzato da una luce alpina che rasserena la scena paesaggistica e le acque mentre le figure sono descritte in maniera precisa. 2. Jean Fouquet Principale pittore di corte dei re di Francia Carlo VII e Luigi XI. Seppe confrontarsi con le novità prospettiche che provenivano da Firenze e godette di grande fama nella Penisola per la sua capacità di ritrarre del naturale (ne parla Filarete nel suo Trattato). Fouquet soggiornò in Italia nel 1444 circa per realizzare un dipinto di Eugenio IV: probabilmente soggiornò anche a Firenze e ammirò i lavori degli artisti più moderni. Fouquet dipinse per la morte della moglie di Etienne un dittico oggi smembrato: dalla cornice del dittico proveniva un tondo oggi al Louvre che reca il mezzobusto del pittore autoritratto di tra quarti su fondo scuro. Le ante del dittico richiamano le novità italiane nello sfondo dell’anta sinistra laddove la parete è costruita in maniera prospettica in diagonale ed è decorata da motivi geometrici e marmi preziosi (influenza di Alberti), mentre la definizione della luce e delle teste rimandano a Beato Angelico. A sinistra Etienne è presentato al suo santo eponimo, Stefano (si riconosce per il sasso, attributo del suo martirio) mentre a destra vi era la rappresentazione della Madonna col Bambino circondata da cherubini e serafini. Maria ha una vita sottilissima e i seni prorompenti: il suo corpo è tridimensionale, solido e fa pensare alla pittura di Piero della Francesca. L’interpretazione della Madonna così erotica derivava dal fatto che Fouquet ha ritratto nella Vergine la bellezza di Agnes Sorel, giovane amante del re Carlo VII. Contesto storico Verso la metà del Quattrocento il nuovo linguaggio rinascimentale si diffonde da Firenze repubblicana agli altri Stati italiani retti da signori feudali appoggiati dalla Chiesa o dall’Impero.  Milano: Francesco Sforza per molto tempo era stato al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti, il quale morì senza eredi maschi. Nel 1450 Francesco divenne signore di Milano portando la capitale lombarda ad aprirsi al Rinascimento.  Napoli: la contesa tra Angioini e Aragonesi ebbe soluzione nel 1442 quando la presa della città da parte di Alfonso d’Aragona mise fine al regno di Renato d’Angiò. Alfonso costruì un dominio che durò fino al tramonto del secolo unendo sia le doti militari che la passione per l’arte. Alla sua corte ebbe molto successo la pittura fiamminga; offrì protezione a Lorenzo VallaValla, il quale dimostrò la falsità della donazione di Costantino (documento su cui la Chiesa fondava il proprio potere).  Ferrara: gli umanisti fecero prosperare le corti italiane poiché i signori facevano a gara per ospitare i migliori uomini di lettere. Nel 1430 Niccolò III d’Este ospitò Guarino da Verona grande esperto di letteratura latina e greca il quale si prese cura dell’educazione di Lionello e rimase a Ferrara fino alla morte.  Mantova: Gianfrancesco Gonzaga ospitò Vittorino da Feltre a Mantova come precettore per i propri figli (aprì una scuola nota come Ca’ Gioiosa dove si formò Federico da Montefeltro).  Rimini: nemico di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, fu Sigismondo Malatesta appassionato della letteratura latina e greca che accolse alla sua corte umanisti come Basinio da Parma e Roberto Valturio coinvolti nella programmazione iconografica del tempio Malatestiano.  Roma: iniziò a diventare una vera e propria sede del Rinascimento laddove l’amore per le lettere antiche coinvolse anche gli uomini di Chiesa. Gli umanisti principali furono Niccolò V e Enea Silvio Piccolomini, nominato Pio II il quale diede il via ad un progetto di città ideale, Pienza. Sul piano politico bisogna ricordare che Niccolò V oltre ad essere una grande figura appassionata d’arte, incoronò Federico III imperatore per portare a termine la Pace di Lodi. Durante il suo pontificato Costantinopoli fu conquistata dai Turchi decretando la fine dell’Impero d’Oriente.  Venezia: nonostante l’avanzata dei Turchi, il Quattrocento fu un secolo di sviluppo per la Repubblica di Venezia. I suoi confini giunsero a comprendere il Veneto, Friuli, Lombardia, Bergamo fino a Lodi. Era capitale di uno stato multiculturale e multiterritoriale che fondava la propria ricchezza sulle relazioni con l’Oriente. La città di Padova era veneziana: sede di una prestigiosa università laddove si formarono moltissimi umanisti (Donatello). Nel Quattrocento in Italia il paesaggio inizia ad essere apprezzato per i suoi valori estetici: Pio II nei suoi Commentari descriverà la veduta del monte Amiata al confine tra Toscana e Lazio che osservava dalla loggia del palazzo di Pienza. Paesaggi come questo si trovano anche in altre parti d’Italia come per le colline del Montefeltro dipinte da Piero della Francesca. A Napoli nel Museo della Certosa di San Martino si conserva la Tavola Strozzi, una delle vedute più celebri del Quattrocento. Proviene dalla famiglia Strozzi di Firenze che fece affari con la corte aragonese napoletana. La tavola raffigura una veduta di Napoli affacciata sul mare dove si riconosce la flotta aragonese in rientro dalla Battaglia di Ischia. Siamo di fronte ad un esempio di veduta molto dettagliata e realistica. Salta all’occhio la presenza delle mura che cingevano la città all’epoca e che oggi non sono più presenti: il fenomeno di espansione ha riguardato non solo Napoli ma tutte le principali città d’Italia a partire dall’Ottocento. Osservando un dipinto di Giovanni Stradano per la Sala di Clemente VII del Palazzo Vecchio di Firenze durante l’assedio delle truppe di Carlo V, la città è arroccata dietro le mura trecentesche. Venezia invece è estranea a questo fenomeno: la laguna è isolata oggi come allora (cartografia di Jacopo de Barbari). Con l’uso delle armi da fuoco le città avevano bisogno di fortificazioni diverse: due dei principali architetti e ingegneri militari, Giuliano da Sangallo e Francesco di Giorgio Martini iniziarono ad escogitare nuovi sistemi difensivi sostituendo alle torri medievali dei bastioni tozzi a pianta circolare o poligonale. Con la caduta della Repubblica, Cosimo I migliorò le difese del proprio Stato fondando una nuova città-fortezza nota come Terra del Sole costruita su pianta rettangolare dotata di bastioni agli angoli. Una pianta più complessa è presente nella città di Palmanova, a forma di stella, voluta dalla Repubblica veneziana. Con una logica molto diversa fu costruita Loreto, una città su cui, secondo la tradizione, sarebbe stata posata la casa di Nazareth in cui Maria ricevette l’annuncio della nascita di Gesù. Attorno a questa reliquia si costruisce una città destinata ad ospitare i pellegrini nella parte più alta e antica dominata dal santuario che accoglie la Santa Casa. Il progetto del santuario fu affidato a Bramante da Giulio II: Loreto divenne uno dei maggiori cantieri d’Italia. La Basilica era caratterizzata da bastioni e da una cupola sul modello di Brunelleschi e progettata da Giuliano da Sangallo. Nel Cinquecento la Santa Casa all’interno della chiesa fu rivestita di marmi preziosi scolpiti da Andrea Sansovino. Fuori città sorsero dei santuari per rendere onore a immagini miracolose tendenzialmente mariane: poco lontano da Cortona sorse la chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio, ad opera di Francesco Martini, deve il suo nome alla calce viva; a Montepulciano sorse il tempio di San Biagio per ospitare un affresco del Trecento (si dice che la Madonna nell’affresco mosse gli occhi di fronte a tre devoti). Una situazione analoga vi fu in Umbria a Todi laddove fu costruita la chiesa di Santa Maria della Consolazione per ospitare una vecchia immagine mariana che si diceva facesse miracoli. L’architettura si ispirava al progetto di Bramante per la nuova chiesa di San Pietro. ROMA: nNel 1443 Eugenio IV chiudeva il soggiorno fiorentino e si recava a Roma, una città che aveva perso il primato artistico che aveva durante il pontificato di Bonifacio VIII. Già con Martino V si tentò di attirare a Roma una serie di artisti avviando dei cantieri tra gli anni Venti e Trenta (Masolino, Masaccio, Pisanello). Roma non era molto popolata, le basiliche paleocristiane e medievali convivevano con i frammenti dell’antichità (immagine di Roma da un affresco di Filippino Lippi nella Cappella Carafa presso Santa Maria Sopra Minerva: immagine da cartolina con uno scorcio dell’abside di San Giovanni in Laterano preceduta da un monumento equestre riconoscibile nel Marco Aurelio traslato poi in Campidoglio). FILARETE Si formò a Firenze con Ghiberti per poi spostarsi a Roma e realizzare su richiesta di Eugenio IV i due battenti che furono trasferiti nella nuova Basilica di San Pietro e che recano le immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi Paolo e Pietro. Filarete “amante delle virtù” è il significato del suo nome in greco. I suoi rilievi appaiono privi di profondità, le scene appaiono affollate all’inverosimile: la fantasia e la decorazione hanno il sopravvento sul rigore della razionalità prospettica. BEATO ANGELICO Nel 1445 Filarete inaugura la Porta vaticana mentre Eugenio IV chiama a Roma Beato Angelico che aveva precedentemente conosciuto a Firenze. L’unica opera superstite dell’attività romana si deve ad una committenza di Niccolò V ossia il ciclo della Cappella Niccolina che ritraeva “Storie dei Santi Stefano e Lorenzo” a cui partecipò anche l’allievo Benozzo Gozzoli. Scena “Lorenzo è consacrato diacono da Sisto II” ritrae uno dei momenti ufficiali di un rituale liturgico in cui il pontefice circondato dai suoi dignitari compie un rito di consacrazione entro lo spazio di una chiesa che si erge su colonne che reggono a loro volta una parete architravate (elemento tipico dell’architettura paleocristiana). Scena “Sisto II affida a Lorenzo i tesori della Chiesa” divisa in una duplice sequenza: da un lato i soldati che scardinano il portale, dall’altro il papa che cerca di mettere in salvo le ricchezze della Chiesa. Scena luministica che allude all’influenza di Jean Foquet. Questa breve attività fiorentina anticiperà la sua morte nel 1455 (sepolto a Santa Maria Sopra Minerva). LEON BATTISTA ALBERTI mentre il tema cristiano viene ripreso solamente nella lunetta soprastante con la raffigurazione della Madonna col Bambino. Monumento Marsuppini di Desiderio: successore di Bruni, Marsuppini mantenne il proprio incarico fino allaa sua morte. Il compito di costruire una tomba gemella vicina a quella del suo predecessore fu affidato a Desiderio uno scultore molto dotato e vicino alle forme classicheggianti di Rossellino ma con una maggiore attenzione per i dettagli e l’espressività. Alle aquile poste in posizione araldica del catafalco di Rossellino, Desiderio sostituirà una coppia di arpie con piumaggio mosso e naturalistico. Vasari ci parla di Desiderio come un grande imitatore della maniera di Donatello: capace di scolpire teste di grande raffinatezza e leggiadria. Ad esempio, “Bambino sorridente” destinato in origine a qualche casa fiorentina, esprime perfettamente la capacità di rendere la grazia e la spensieratezza del fanciullo (prova di imitazione della natura). Leon Battista Alberti in questi anni iniziò a scrivere un trattato sulla scultura per chiudere il cerchio sulle tematiche artistiche: dopo il “De pictura” e il “De re aedificatoria” scriverà il “De statua” in cui distingue la scultura in per via di porre (modellare una materia plasmabile) e per via di levare (scavare la pietra). Il fine della scultura era l’imitazione della natura: in un’ottica albertiana la statua doveva essere a tutto tondo come un colosso antico, studiata nelle proporzioni e nell’anatomia. URBINO PALAZZO DUCALE: Urbino come area di particolare rilievo strategico ma non particolarmente ricca. Il suo signore fu uno dei principali condottieri del tempo, Federico da Montefeltro, erede della dinastia dei conti di Urbino e del Montefeltro che nel 1474 ebbe da papa Sisto IV il titolo di duca di Urbino. Rese la città una corte di guerrieri e personale amministrativo, ma anche di uomini di lettere e artisti: la corte di Urbino accolse uomini e linguaggi provenienti dalle più disparate nazioni. Giungendo a Urbino da Sansepolcro ci si ritrovava dinanzi al palazzo “più bello che in tutta Italia si ritrovi” come sosteneva Baldassarre Castiglione, il Palazzo Ducale. Nacque in seguito all’accorpamento di una serie di edifici preesistenti nel centro della città a partire dal 1454. Il palazzo presenta una “Facciata di torricini” dove le torri eleganti e allungate fiancheggiano un prospetto slanciato al centro dal sovrapporsi di quattro logge. Le logge in marmo nella parte superiore richiamano l’antichità sia nelle forme che nelle decorazioni. Si pensa che l’ideazione di questo progetto fosse di Alberti. A sovraintendere la costruzione della facciata fu Luciano Laurana architetto nato in Dalmazia che sappiamo essere stato attivo nella Mantova di Ludovico Gonzaga. Ottiene anche l’incarico di realizzare il cortile d’onore attorno al quale è organizzato il Palazzo dove Federico accoglieva i suoi ospiti: il cortile è caratterizzato da una sequenza di quattro lati di loggiati con archi a tutto sesto combinati tramite la soluzione dei pilastri agli angoli. Nella zona attigua alla loggia dei torricini vi è lo studiolo di Federico, una stanza di piccole dimensioni decorata nella parte alta da una serie di “Uomini Illustri” dipinto di Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Il protagonista dello studiolo è il legno: l’arredo è rivestito di una serie di tarsie prospettiche realizzate nella bottega di Giuliano e Benedetto da Maiano. Federico affidò il compito di un ritratto a Piero della Francesca, il quale realizzò il Dittico Montefeltro oggi agli Uffizi, nel quale ritrasse il duca e la moglie Battista Sforza. I due sono rappresentati di profilo e si stagliano su un fondo paesaggistico come se fossero dinanzi ad una finestra del palazzo. Nelle vedute a volo d’uccello risaltano tutti i dettagli attraverso una pittura minuziosa e luminosa ispirata alle novità fiamminghe (pittura a olio). Gli effetti di Eyck sono ottenuti nella resa dei tessuti e nella concretezza delle carni (la donna ha il volto pallido con acconciatura alla moda che lascia alta la fronte e fa risaltare il ricco corredo di gioielli). I pannelli sono dipinti sul retro: Piero ha dipinto un trionfo dei due personaggi accompagnati da figure allegoriche di virtù. Federico e Battista guidano i loro carri celebrando un tema della tradizione (Trionfi di Petrarca). Piero della Francesca nella sua attività urbinate dimostrerà l’influsso della pittura fiamminga nelle proprie opere. Oltre al Dittico, ricordiamo anche “Madonna di Senigallia” dipinto in cui le figure si stagliano a mezzo busto su un’atmosfera ovattata e domestica di un interno rischiarato dai raggi di luce provenienti dalla finestra da un lato, e una nicchia rinascimentale con un paio di mensole su cui poggiano nature morte dall’altro. Piero dipinse per Urbino anche la cosiddetta “Pala Montefeltro” in cui il duca è ritratto di profilo mostrando il lato del volto con l’occhio buono, in ginocchio di fronte alla VergineVergine, la quale reca il Bambino sulle gambe e viene circondata da una corte di santi e di angeli. Il punto di fuga è al centro del volto della Vergine, centro di una rigorosa costruzione prospettica che vede la sua attuazione anche nelle forme architettoniche realizzate. Lo spazio all’antica sembra rifarsi alla tradizione albertiana per le pareti decorate con riquadri di marmi policromi e lesene scanalate. Per quanto riguarda l’uovo di struzzo che pende al di sopra della Vergine troppe volte si sono cercate spiegazioni simboliche: probabilmente Piero ha rappresentato un oggetto di forma sferica per sottolineare l’effetto tridimensionale dell’architettura. Le mani del duca gonfie per la gotta non sono frutto di un’idea di Piero ma probabilmente sono attribuite a Pedro Berruguete. Oltre a queste tendenze di Piero della Francesca verso la pittura fiamminga, il successo di queste influenze ad Urbino si può dimostrare anche tramite le opere di un paio di maestri al servizio del duca:  Giusto di Gand: nel 1474 ha realizzato una grande pala d’altare per la compagnia del Corpus Domini di Urbino che aveva avuto una storia tormentata. In un primo momento Paolo Uccello realizzò la predella, in seguito si affidò l’incarico di realizzare la pala a Piero della Francesca e infine fu chiamato Giusto a dipingere “La comunione degli apostoli”: il momento in cui all’ultima cena tutti hanno abbandonato la tavola e si inginocchiano dinanzi a Cristo che gli offre il sacramento. Oltre al volto del duca Federico non vi sono elementi italiani (irrazionalità della composizione e scenografia). Nella predella di Paolo Uccello vi era in sei episodi la narrazione del “Miracolo dell’ostia profanata”, la storia di un ebreo parigino che oltraggiò il sacramento e fu mandato sul rogo con tutta la famiglia. Questa narrazione permise a Paolo Uccello di realizzare una scatola prospettica sintesi delle sue ricerche e dei suoi interessi artistici.  Pedro Berruguete: tramite i rapporti tra Fiandre e Penisola Iberica, aveva maturato un linguaggio esplicitamente eyckiano. “Federico da Montefeltro e il figlio Guidobaldo”: il duca si è preso un attimo di riposo dalle incombenze quotidiane e siede ancora in armi su di uno scranno per leggere un libro. Dall’altro lato, un fanciullo si appoggia al suo ginocchio in maniera delicata per non recare disturbo. Atmosfera intima e luce soffusa, attenzione ai minimi dettagli e ai bagliori metallici prodotti dall’armatura. FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI In questi anni Federico da Montefeltro accolse a Urbino il senese Francesco di Giorgio Martini, affidandogli il cantiere del Palazzo Ducale e la costruzione di una serie di fortificazioni. Quest’ultimo fu il grande interprete di una nuova architettura militare: dedicò molto spazio nelle sue opere alle fortificazioni e completando le spiegazioni con svariate illustrazioni. o Rocca di Sassocorvaro: costruita dopo che il duca aveva assegnato come feudo il borgo al fidato Ottaviano Ubaldini della Carda. Francesco progettò una fortezza che aveva la pianta a forma di tartaruga (poiché le piante di ispirazione zoomorfa o antropomorfa sembravano opporsi in maniera efficace alle armi da fuoco tramite l’istituzione di murature più possenti e compatte disposte in obliquo).. Questa rocca è una delle invenzioni più celebri di Francesco di Giorgio e giocò un ruolo importante nella salvaguardia del patrimonio durante la Seconda guerra mondiale (Pasquale Rotondi vi raccolse circa 6500 opere). o Rocca di San Leo: Francesco di Giorgio si occuperà dell’ammodernamento delle difese di San Leo piazzaforte ubicata in cima ad uno sperone roccioso al confine con Rimini. Egli ideò una coppia di torrioni molto possenti innalzati sul limitare della rupe. Con l’affermazione dei nuovi progetti albertiani e brunelleschiani si affermò anche un tipo di progettazione ambiziosa che non si limitava solo a realizzare nuove chiese e palazzi ma addirittura la nascita di nuove città fondate su disegni tanto realistici da apparire ideali. Nella Galleria Nazionale di Urbino si conserva un dipinto “Città ideale” in cui vi è la raffigurazione di un edificio a pianta rotonda di gusto antiquario chiusa da una serie di palazzi che danno l’effetto delle quinte di teatro. LA CITTA’ IDEALE DI PIENZA Nel 1458 Enea Silvio Piccolomini, fu eletto papa con il nome di Pio II alludendo al “Pio Enea” di Virgilio. Era un grande uomo di lettere, appassionato alla cultura antica e dall’idea di sottrarre Costantinopoli ai Turchi tramite una crociata dei cristiani. Nei suoi Commentari, opera autobiografica, descrive l’impresa della costruzione tra le colline della val d’Orcia di una nuova città, Pienza. Pio II era originari di un borgo della Toscana meridionale noto come Corsignano nei limiti della Repubblica di Siena: quando divenne papa decise di ricostruire quel villaggio trasformandolo in una città. Il progetto fu affidato a Bernardo Rossellino: il piano urbanistico era basato su una piazza dominata da una Cattedrale e allestita come una sorta di palcoscenico con pianta trapezoidale (espediente per conferire maggiore ampiezza allo spazio). La cattedrale di Pienza sorge al centro della piazza con una facciata in travertino e tripartita da grandi arcate a tutto sesto, sormontata da un timpano con al centro lo stemma del pontefice. La facciata somiglia a quella del Tempio Malatestiano (di ispirazione albertiana). L’interno della chiesa presenta un carattere gotico con volte a crociera sostenute da pilastri. Pio II in ricordo dei suoi soggiorni in terra germanica, richiese espressamente a Rossellino di attenersi al modello delle Hallenkirchen nordiche, le chiese ad aula nelle quali navata centrale e navate laterali hanno la stessa altezza. Pio II nei suoi Commentari descrive il percorso all’interno della cattedrale: dall’ingresso si ammira il tempio con le cappelle e gli altari mentre la parità delle altezze rende il tempio più elegante e luminoso. I finestroni erano studiati per diffondere la luce naturale. Palazzo Piccolomini: a destra della piazza. La facciata deriva dal Palazzo Rucellai di Alberti. Il Palazzo era organizzato attorno ad un cortile ed era destinato ad essere dimora del pontefice nei periodi di vacanza trascorsi a Pienza. Si innalza al fianco della Cattedrale e ad oggi è in ottimo stato di conservazione. L’aspetto più originale della struttura si coglie all’interno: giungendo alla loggia aperta sul giardino pensile si osserva un panorama mozzafiato. Pio II ci parla di questo rapporto con il paesaggio nei suoi Commentari: oltre che spunto per considerazioni morali e spirituali è anche sintomo di puro godimento della natura. Questo palazzo simboleggiava l’emblema del potere della famiglia nella città. Il papa chiese ai migliori pittori del tempo di realizzare non polittici ma tavole quadrate senza pinnacoli gotici: modello progettato da Rossellino e attutato dalla pala di Matteo di Giovanni “Madonna col Bambino e santi” in cui permane solo il fondo oro della tradizione gotica. Nella lunetta in alto vi è la rappresentazione della Flagellazione dove gli aguzzini sono figure dinamiche ed aggressive. La svolta nell’arte senese fu apportata da Donatello, il quale all’età di 70 anni decise di trasferirsi a Siena per realizzare le porte in bronzo della Cattedrale. Quest’opera fallì e nel 1461 ritornò nella propria patria. Lasciò a Siena un “San Giovanni Battista” in bronzo, una statua di crudo vigore nella quale vi è una grande enfasi espressiva che ispirò da Francesco di Giorgio al Vecchietta. Quest’ultimo prenderà spunto proprio dal San Giovanni donatelliano per la realizzazione del “Cristo risorto” in bronzo per la chiesa senese della Santissima Annunziata: anatomie tirate tipiche di Donatello, perizoma aderente e maschera cruda del volto. cornice ad una soluzione prospettica innovativa: Mantegna finge con la pittura una serie di elementi architettonici e una fastosa sequenza di busti di Cesari clipeati (inseriti in un cerchio che richiama un clipeo) come fossero scolpiti. I medaglioni con gli imperatori fanno da contorno all’oculo centrale frutto di una geniale idea di sfondare il centro del soffitto con una rappresentazione del cielo (in riferimento alla volta del Pantheon) e di due spiritelli. È un espediente che ha un suo precedente nell’oculo di Castel Sismondo nel Tempio malatestiano realizzato da Piero della Francesca. “Cristo morto”: la capacità prospettica di Mantegna tocca il suo apice nella rappresentazione del Cristo morto nella Pinacoteca di Brera. Innanzitutto, è innovativa poiché non è dipinta su tavola ma su tela; il soggetto è un Compianto sul Cristo morto ma i dolenti non sono realmente caratterizzati se non per qualche testa piangente. Il corpo di Cristo occupa l’intera scena mostrando gli studi attenti di anatomia e di prospettiva (corpo che si guarda dal basso verso l’alto). In occasione del concilio del 1459 Leon Battista Alberti giunse a Mantova e Ludovico Gonzaga ne approfittò per avviare una collaborazione con lui: si occupò della direzione di due chiese mantovane. o Chiesa di San Sebastiano: nel 1460 Alberti disegnò la chiesa distintasi per il prospetto classico e per la struttura rialzata su una cripta e concepita con pianta centrale mettendo insieme le figure del cerchio e del quadrato. Il risultato fu molto moderno e preannunciava una forte predilezione per gli edifici a croce greca. o Chiesa di Sant’Andrea: cantiere per la ricostruzione in forme moderne di questa chiesa medievale. Questo edificio fu completato solamente nel XVIII secolo con la cupola di Filippo Juvarra. Alberti ne ideò la facciata ispirata ad un tempio antico e un interno a pianta basilicale che ricordava la Basilica di Massenzio (arcate e cappelle laterali). In entrambe le chiese preferì all’uso consueto delle colonne quello delle lesene. FERRARA (TURA/DE ROBERTI/COSSA) Mantegna si recò a Ferrara prima di soggiornare a Mantova, al servizio di Lionello d’Este. Ferrara era un grande centro culturale, capitale di uno Stato che si estendeva tra Modena, Reggio Emilia fino agli Appennini. Fu sede di un grande umanista del tempo: Guarino da Verona, accolto da Niccolò III d’Este padre di Lionello di cui fu anche precettore. Durante gli anni di Lionello la corte estense fu il fulcro di diverse correnti artistiche: da Pisanello a Piero della Francesca a Weyden a Alberti. Alberti reca la sua impronta nella città nella principale piazza ferrarese di fronte alla facciata romanica della Cattedrale dove si innalza un monumento pubblico detto “Arco del cavallo” eretto negli anni 50 del Quattrocento da Niccolò Baroncelli per ospitare un gruppo equestre di Niccolò III d’Este. Baroncelli si occupò del destriero mentre Antonio di Cristoforo si occupò della statua del padre di Lionello: questa scultura evoca subito il Gattamelata donatelliano. Il fatto che sorgesse su un arco rendeva la statua più sofisticata (innalzare sopra ogni mortale come ci dice Plinio). Con la morte di Lionello, Ferrara passò nelle mani del fratello Borso d’Este sotto il quale nacque una vera e propria scuola pittorica ferrarese che ebbe il suo capostipite in Cosmè Tura. “Musa (Calliope?)” era una tavola originariamente destinata allo studiolo della “delizia” Belfiore, una residenza degli Estensi che ad oggi non abbiamo più. Lionello aveva affidato all’umanista Guarino da Verona il compito di elaborare il ciclo iconografico a cui lavorò anche lo stesso Tura. Nella Musa viene evocato lo stile cortese di Pisanello ma anche una buona solidità strutturale e una luce limpida che ricordano lo stile pierfrancescano. Altri riferimenti sono riconoscibili nei colori molto accesi e nella precisione dei dettagli alla pittura fiamminga. Il linguaggio di Cosmè Tura è molto eccentrico e variegato. Palazzo Schifanoia: edificio nato per godersi le gioie della vita. Il salone di rappresentanza doveva celebrare la corte tramite un ciclo figurativo allegorico che rappresentasse i dodici mesi dell’anno. Questo programma iconografico fu elaborato dall’umanista Pellegrino Prisciani e fu eseguito dai pittori che avevano acquisito le novità di Tura. L’unico nome documentato è quello di Francesco del Cossa (tramite una lettera in cui chiedeva di essere pagato adeguatamente). Il tema dei mesi è organizzato su tre registri paralleli: in alto è il trionfo della divinità mitologica del mese, al centro il segno zodiacale e in basso uno scorcio della vita di corte. Aprile: il segno zodiacale è il Toro mentre la divinità mitologica è Venere trionfante su un carro trainato da due cigni e sul quale vi appare anche la figura di Marte incatenato. I due sono circondati da giovani e da gruppetti di conigli che ricordano lo sbocciare dell’amore in primavera. Nel registro inferiore vi è la rappresentazione del duca Borso che rientra da una battuta di caccia e dona una moneta al giullare di corte Scocola mentre in lontananza si intravede il racconto del palio di San Giorgio. La scena è divisa da un giovane seduto sul cornicione. I colori accesi e l’estro di Tura vengono ripresi in maniera più distesa. Settembre: atmosfera meno idilliaca e lessico metallico di Tura più evidente. In questi episodi si è riconosciuta la mano di Ercole de Roberti. La divinità è Vulcano che trionfa sul suo carro mentre un gruppo di Ciclopi realizza armi nella sua Fucina mentre dal lato opposto vi sono le figure di Marte e Ilia dentro un letto increspato che porteranno alla nascita dei due gemelli Romolo e Remo. Lo stile della Sala dei Mesi non si limitò solo a rappresentazioni profane ma anche agli altari delle chiese: “Pala Roverella” trittico dipinto da Cosmè Tura per la cappella della famiglia Roverella nella chiesa di San Giorgio fuori le Mura. Al centro vi è la rappresentazione della Madonna col Bambino e angeli (oggi a Londra) e nonostante la suddivisione voglia riprendere il tipico polittico, lo spazio della pala è unificato dalla prospettiva e dalle arcate in scorcio. “Pala Griffoni” Francesco del Cossa realizzò a Bologna per la chiesa di San Petronio questo trittico di formato rinascimentale che rendeva omaggio al domenicano San Vincenzo Ferrer e al registro superiore collocava i santi Floriano e Lucia. La predella fu realizzata da Ercole de Roberti. “Madonna con Bambino e santi” unica pala attestata a Ercole de Roberti il quale adotterà un linguaggio più quieto e sereno rispetto a quello di Tura. Fu realizzata per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria in Porto. La pala adotta una composizione più moderna rispetto a Cossa o Tura: non ci sono cornici divisorie e lo spazio risulta unificato tramite un quadriportico all’antica al centro del quale vi è il baldacchino su cui siede la Vergine con il Figlio. La veduta marina sul fondo probabilmente è legata alla volontà di esplicitare la leggenda legata a Pietro degli Onesti, il quale fu il fondatore della chiesa in seguito ad essere scampato ad una tempesta in nave. Gli Este diedero grande attenzione all’organizzazione dello spazio urbano che culminò nella cosiddetta “addizione erculea”: con il fratello e successore di Borso, Ercole, si diede il via ad un’azione di rinnovamento della città e di ampliamento dello spazio viario oltre che di miglioramento delle difese militari. Nel 1484 l’architetto Biagio Rossetti disegnò un piano urbanistico che dimostrò quanto potessero essere effettive le speculazioni sulle città ideali nate durante il secolo. L’addizione erculea prendeva spunto da Vitruvio e dall’impostazione della città su due viali: uno che collegava il castello con la nuova parte della città in direzione sud-nord e l’altro che andava da est a ovest unendo Porta Po con Porta Mare. Il fulcro del progetto era la costruzione del “quadrivio degli Angeli” in cui le due arterie si incontrano laddove sorge il Palazzo dei Diamanti, progettato da Rossetti per Sigismondo d’Este, deve il suo nome alla scelta del bugnato marmoreo lavorato a punta di diamante. MILANO (FILARETE/FOPPA/BUGATTO) Nel 1447 Filippo Maria Visconti morì senza lasciare eredi maschi e lasciando in eredità alla figlia Bianca Maria i suoi domini, moglie di Francesco Sforza. Con quest’ultimo la corte milanese si aprì al nuovo linguaggio rinascimentale. Francesco fece subito ristrutturare l’area del vecchio castello di Porta Giovia realizzando la propria residenza fortificata, il Castello Sforzesco. All’ingresso fu costruito un torrione merlato di gusto gotico a protezione del castello: quello che vediamo oggi è una ricostruzione del Novecento poiché quello originale andò distrutto in seguito ad un’esplosione. La torre è denominata del Filarete poiché la tradizione attribuisce il progetto allo scultore e architetto fiorentino. Filarete durante il suo soggiorno milanese scrisse un Trattato sulla progettazione di una città ideale, Sforzinda, in onore di Francesco Sforza: la città avrebbe dovuto avere una pianta geometrica a stella centrata su una piazza centrale dominata da un’altissima torre che mette insieme i caratteri rinascimentali con una tradizione gotica. Questa città non fu mai davvero fondata ma la mescolanza di stili che appare nelle pagine del Filarete sembra essere incarnata dall’Ospedale Maggiore del 1456, un edificio dotato di una facciata con bifore ad arco acuto e loggiato con archi a tutto sesto e colonne nel registro basso. Cappella Portinari: primo vero spazio milanese di matrice toscana. La cappella è destinata al fiorentino Pigello Portinari nella chiesa domenicana di Sant’Eustorgio. Non si sa chi sia l’autore del progetto ma si capiscono i riferimenti brunelleschiani alla Sagrestia Vecchia di San Lorenzo e alla Cappella Pazzi. Nelle lunette e negli arconi vi sono degli affreschi con Storie di San Pietro Martire e della Vergine realizzati da Vincenzo Foppa in cui si evince un cambio di stile tendente al prospettico. Scena del “Miracolo di Narni” in cui il domenicano si inginocchia per risanare il piede di un giovane che si era amputato l’arto dopo aver aggredito la madre. L’episodio si svolge in uno spazio tridimensionale che pare tradurre in pittura le architetture della predella dell’altare donatelliano di Padova. La profondità è data anche dalla presenza di due archi a tutto sesto bicromi. Foppa può essere considerato una sorta di apripista per lo sviluppo della pittura rinascimentale a Milano. “Madonna col Bambino” in cui Foppa esprime una forte dipendenza dalla cultura fiamminga per l’atmosfera domestica e per l’impostazione della Madonna col Bambino di Dirk Bouts allievo di Weyden (davanzale, cuscino su cui poggia il fanciullo, tendaggio, finestra sul fondo). Zanetto Bugatto a differenza di Foppa si recò nelle Fiandre per volontà di Bianca Maria Visconti, la quale inviò l’artista presso la bottega di Weyden a Bruxelles. Di lui non abbiamo opere certe ma si è ipotizzato che la “Madonna col Bambino” della Collezione Cagnola a Varese potesse essere attribuita a Bugatto per l’adesione più precisa al linguaggio nordico e alla resa geometrizzante dei panneggi oltre che alla scelta della luce e dei colori. Dopo la morte di Bugatto, Galeazzo Maria Sforza tenterà di reclutare per la sua corte Antonello da Messina. NAPOLI La dominazione aragonese è ancora oggi evidente a Napoli grazie al monumento di Castel Nuovo. Alfonso V d’Aragona entrerà a Napoli nel 1443 al posto di Renato d’Angiò: nel Trecento la battaglia tra Angioini e Aragonesi vide il prevalere dei primi mentre a cento anni di distanza vide la supremazia della famiglia aragonese. Dopo la stagione napoletana sotto Renato d’Angiò, un periodo felice sia per le arti che per le lettere (Petrarca, Boccaccio, Simone Martini), con Alfonso I Napoli verrà rilanciata come nuova capitale culturale. Castelnuovo esprime al meglio il duplice carattere di Alfonso: da un lato un attento mecenate e dall’altro un abile condottiero. Le torri rotonde furono studiate da Guillermo Sagrera per ammodernare il vecchio castello angioino e adattarlo alle nuove esigenze di guerra (difendersi dalle armi da fuoco). L’arco all’antica fu eretto nel 1453 secondo un gusto albertiano. I documenti attestano che fino al 1458 il cantiere dell’arco aragonese vide al lavoro un gruppo di scultori di varia provenienza: Pere Johan, Paolo Romano, Francesco Laurana. Ancora oggi individuare chi abbia realizzato cosa è quasi impossibile. Sull’arco vi è scolpito il trionfo di Alfonso: re spagnolo, siculo e italico, pacifico e mai sconfitto il quale avanza sul suo carro preceduto dai suonatori di tromba. L’arco superiore doveva originariamente ospitare un monumento “Annunciata” effetto di un ritratto che emerge da un fondo scuro tipicamente fiammingo con un velo di malinconia e concretezza. La protagonista ha lo sguardo rivolto verso l’Angelo che l’ha distolta dalla lettura mentre il libro è sul leggio e accuratamente delineato dalla luce. “San Sebastiano” eseguito per Venezia da Antonello da Messina. Dipinto in cui emergono gli aspetti tipicamente veneziani degli edifici, scansione spaziale e plasticismo del nudo che riprende Piero della Francesca. La profondità del palco scenico in cui subisce il martirio è enfatizzata dalle linee del pavimento prospettico e dagli scorci del frammento di colonna in primo piano. Mentre Bellini dialogava con Antonello, il gotico era duro a morire: negli anni Settanta del Quattrocento alle tavole quadrate si iniziavano a preferire i polittici rispondendo a delle committenze meno aggiornate: o Carlo Crivelli si formò nella scuola padovana di Squarcione e negli anni Sessanta si stabilì a Mantova dove ebbe grande successo diffondendo una pittura in polittici di formato gotico. Uno di questi fu realizzato per la Cattedrale di Ascoli nel 1473: un complesso a cinque scomparti e due registri su fondo oro su cui risaltano figure tipiche di Squarcione (panneggi metallici e espressioni nervose). Linguaggio colorato e attraente. o La bottega Vivarini rimase in Laguna, precisamente nell’isola di Murano dove seppe farsi riconoscere inviando dipinti per nave. Il capostipite della famiglia fu Antonio: pittore di formazione gotico-internazionale coinvolto nel cantiere della Cappella Ovetari di Padova. Alla cultura di Squarcione si aprirono gli altri soci della bottega, tra cui Alvise Vivarini, il quale dipinse nel 1476 un polittico per il convento francescano di Montefiorentino nel Montefeltro: lo spazio è unificato tramite il pavimento, al centro la Vergine e il Bambino su un trono solido e semplice e ai lati i santi. Elemento della luce che pervade di nitidezza l’immagine e volontà di seguire le sperimentazioni di Bellini. Nel 1475, Bellini dipinse una pala per la chiesa di San Francesco a Pesaro che testimonia la volontà di aprirsi al linguaggio antiquario e prospettico di Alberti. Il tema scelto è “Incoronazione della Vergine e santi”, un soggetto tendenzialmente legato alla tradizione gotica (polittico gotico). Le figure dei santi che generalmente sarebbero state disposte negli scomparti laterali trovano posto attorno alla Vergine e a Cristo nell’unica scena di una tavola quadrata delimitata da una cornice intagliata. L’aspetto innovativo di questa pala è la razionalità prospettica del pavimento e del trono decorato con motivi di gusto antiquario mentre nella spalliera si apre una veduta di paese sovrastata da un castello, sottolineando la passione di Bellini per il paesaggio. Sappiamo che le novità albertiane con le quali Bellini poté entrare a contatto furono portate a Venezia da Mario Codussi e Pietro Lombardo. o Mario Codussi: avviò il cantiere della chiesa di San Michele in Isola dando una svolta all’architettura veneziana negli anni Sessanta. La facciata è coronata ai lati da una coppia di volute e al centro da un ampio timpano arcuato: una soluzione ispirata a quella che Alberti aveva adottato per il Tempio Malatestiano. È il primo edificio rinascimentale della Laguna (il motivo del timpano arcuato del prospetto diventerà poi canonico nelle chiese veneziane del Quattrocento). o Pietro Lombardo: progetta la facciata di Santa Maria dei Miracoli, uno scrigno di marmi policromi costruito in una centralissima zona di Venezia a partire dai primi anni Ottanta. L’edificio testimonia la diffusione del gusto albertiano in Laguna. Pietro Lombardo si formò a Padova dove nel 1467 ultimò il monumento sepolcrale del giurista Antonio Roselli nella basilica del Santo (complesso che deriva dai monumenti di Bruni e Marsuppini). Negli anni Ottanta a Venezia si iniziò a ristrutturare la Scuola Grande di San Marco che avrebbe avuto una facciata progettata da Mauro Codussi. Nella piazza, nel frattempo, si stava costruendo il Bartolomeo Colleoni, monumento equestre che avrebbe superato il Gattamelata per rendere onore al condottiero. si reclutò Andrea del Verrocchio che realizzò un modello a dimensioni naturali della scultura: il lavoro fu molto lungo e fu completato da Alessandro Leopardi. Con questa scultura del Verrocchio egli dimostra di aver superato per due motivi Donatello: enfatizzando la resa espressiva del volto del condottiero e il dinamismo del destriero che si erge su tre zampe (senza l’espediente della sfera). Contesto storico Con la Pace di Lodi del 1454 tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano si riuscì a garantire stabilità agli assetti territoriali e politici della Penisola. L’Italia di allora era divisa tra le principali potenze: Venezia, Milano, Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli. Nella Villa di Careggi a Firenze nel 1464 morì Cosimo de Medici lasciando al potere il figlio Piero il Gottoso, il quale a sua volta morì poco dopo lasciando il potere nelle mani dei figli Lorenzo e Giuliano. Nel 1478 i due fratelli dovettero affrontare la congiura della famiglia Pazzi all’interno del Duomo (Giuliano fu pugnalato mentre Lorenzo si salvò). Dietro questa congiura non ci fu solamente la famiglia Pazzi ma anche Sisto IV e Ferdinando d’Aragona di Napoli. Lorenzo nel giro di un paio di anni raggiunse una pace che lo consacrò come ago della bilancia. Un’altra personalità di spicco fu Francesco della Rovere il quale tramite una formazione umanistica e la scelta di entrare nell’ordine francescano insegnò in diverse università italiane: nel 1471 divenne papa con il nome di Sisto IV e si distinse per il mecenatismo e il nepotismo. Promosse opere pubbliche a Roma: inaugurò la Biblioteca Vaticana, costruì la Cappella Sistina. Favorì l’assegnazione di cariche ecclesiastiche e signorie ai parenti più stretti. A Firenze subentrò la figura di Maometto II sultano turco, che inviò una flotta contro l’Italia meridionale, occupando Otranto e massacrandone gli abitanti: l’esercito turco minacciava direttamente Napoli e Roma, le quali decisero di firmare la pace con Firenze ed espellere i Turchi dalla Penisola. Venezia non prese parte a questa vicenda: con un accordo di non belligeranza con il sultano proseguì i numerosi scambi commerciali e artistici con i turchi (Gentile Bellini soggiornò a Costantinopoli). Dopo la pace di Lodi l’equilibrio della Penisola fu minato nuovamente dai sovrani francesi: Carlo VIII, nipote di Maria d’Angiò, vantava un diritto ereditario sul Regno di Napoli e nel 1494 varcò le Alpi con un esercito per cacciare gli Aragonesi dalla città. L’impresa riuscì ma il successo durò poco poiché nel 1495 Carlo VIII fu sconfitto da un’insurrezione aragonese. Con Carlo VIII inizia il lungo periodo delle guerre d’Italia, durante il quale la Penisola divenne una terra di battaglia per le potenze straniere. Luigi XII rivendicò il trono di Napoli ma anche il Ducato di Milano (vantando un legame con la famiglia Visconti): nel 1499 i francesi presero Milano deponendo il potere di Ludovico il Moro. Quando si avvicinò a Napoli si scontrò con Ferdinando il Cattolico, il quale aveva interessi nel Regno: con il Trattato di Lione Milano divenne ufficialmente francese e Napoli spagnola. A Firenze con la morte di Lorenzo, la repubblica andò nelle mani del figlio Piero il Fatuo, il quale non mostrò nessun tipo di abilità in politica e fu cacciato da Firenze nel 1494: nacque così la Repubblica di Girolamo Savonarola, severo priore del Convento di San Marco, si opponeva a ogni lusso e aspirava a rendere Firenze una città cristiana. La sua fu una politica estremamente rigorosa: fu impiccato e arso in piazza nel 1498. I bersagli preferiti di Savonarola erano gli eccessi e le licenze degli ecclesiastici, che in quegli anni trovarono un esempio in Rodrigo Borgia noto come papa Alessandro VI, celebre per la sua dissolutezza e per le sue amanti. Con Alessandro VI, Roma fu una capitale artistica in espansione: ricordiamo la scoperta della domus aurea di Nerone che portò la moda dei motivi decorativi di gusto antiquario “grottesche”. FIRENZE (GOZZOLI/FRATELLI DEL POLLAIOLO/VERROCCHIO/LEONARDO/BOTTICELLI) Nel 1459 il palazzo (Palazzo Medici) che Cosimo de Medici aveva fatto progettare a Michelozzo era concluso: si stava ormai lavorando alla decorazione della cappella, un ambiente intimo e fastoso in cui i moduli dell’architettura brunelleschiana sono impreziositi da soffitto a cassettoni e da un pavimento di marmi e porfidi che rispecchia i modi di Alberti. Le pareti accolgono un ciclo di affreschi realizzato da Benozzo Gozzoli, allievo di Beato Angelico. Cosimo volle che Gozzoli realizzasse “Viaggio dei Magi” acceso d’oro, di colori e di lapislazzuli preziosi. Si celebrava la gloria della famiglia ritraendo Cosimo e i suoi parenti al fianco dei loro amici fiorentini. Il dipinto sembra ignorare le novità del linguaggio rinascimentale tanto caro ai Medici: le figure umane e i cavalli non corrispondono al paesaggio fiabesco e tardogotico (nelle rocce, nei fusti degli alberi e nell’assenza di tridimensionalità). È una scena che riprende lo stile cortese, simbolo del fatto che i Medici iniziavano a pensarsi come una vera e propria dinastia regnante. La risposta a questo dipinto di Benozzo arrivò subito da Antonio del Pollaiolo, il quale ricevette il compito da Piero il Gottoso di eseguire un terzetto di Storie di Ercole in cui illustrava un soggetto tratto dal mito antico con un linguaggio innovativo: i tre dipinti su tela quadrata ad oggi risultano perduti e possiamo averne un’idea tramite due memorie o repliche del Pollaiolo presenti agli Uffizi. “Ercole che sconfigge l’idra” e “Enea che soffoca Anteo” sono due scene che pongono in contrasto il cielo limpido e le vedute a volo d’uccello descritte alla maniera fiamminga. I nudi in primo piano sono estremamente dettagliati nella precisione anatomica e nella tensione dei corpi in lotta. I contorni dei protagonisti risaltano nettamente poiché Antonio era un artista eclettico con grande dimestichezza nell’arte orafa e nella lavorazione dei metalli. La sua attività scultorea è testimoniata dalla versione bronzea dell’Ercole e Anteo che si conserva al Bargello in origine a Palazzo Medici. È uno dei casi più antichi di bronzetto rinascimentale destinato a soddisfare la passione collezionistica dei proprietari. Affronta il tema delle fatiche di Ercole mostrando una passione per lo studio anatomico del nudo. “Battaglia di nudi” è un’opera incisa realizzata tramite la tecnica dell’incisione a bulino. Resta sconosciuto il reale soggetto di questa immagine, si pensa fosse un modo per esercitarsi su dieci possibili raffigurazioni di corpi nudi in movimento. Contemporaneamente all’invenzione della stampa nel 1455, a Firenze si stava diffondendo la tecnica dell’incisione a bulino che riproduceva illustrazioni da una matrice: tramite uno strumento d’acciaio affilato, il bulino, si potevano incidere delle lastre di metallo per ottenere degli incavi da riempire con l’inchiostro. Antonio ebbe un fratello più giovane, Piero del Pollaiolo, il quale si dedicò alla pittura in una bottega autonoma. Realizzò nel 1475 una pala con il Martirio di San Sebastiano per l’oratorio omonimo nei pressi della Santissima Annunziata di Firenze. Piero vi adattò tutti gli elementi che abbiamo già osservato nel fratello: veduta fiamminga, studio accurato dei nudi, studio di pose complicate, linearismo. Il Sebastiano non nutre dolore ma resta insensibile al supplizio. Contemporaneamente ai due fratelli emerse a Firenze la figura di Andrea del Verrocchio il cui soprannome deriva da quello che era stato il suo primo maestro, Giuliano del Verrocchio. Assunse una posizione predominante nel campo della scultura dopo la morte di Donatello: realizzò il David in bronzo per i Medici e il monumento sepolcrale di Piero il Gottoso e il fratello Giovanni. Questa tomba è sicuramente molto innovativa: non è collocato contro una parete ma in un’intercapedine a forma di arcosolio che divide la chiesa di San Lorenzo dalla Sagrestia Vecchia brunelleschiana. Il gusto antiquario rimanda alle tombe Bruni e Marsuppini in Santa Croce; Verrocchio sceglie di sottolineare il prestigio del complesso mettendo in evidenza il sepolcro di porfido impreziosito da raffinatissimi elementi decorativi in bronzo. L’apparente sobrietà conferita dall’assenza di figure viene compensata con la ricchezza dei materiali utilizzati. Nel 1467 fu impegnato nella realizzazione di due sculture che dovevano rappresentare “L’Incredulità di San Tommaso” per sostituire il San Ludovico di Donatello nella nicchia di Orsanmichele. La necessità di realizzare due figure porta il Verrocchio a concepire un nuovo tipo di composizione che accentuasse il movimento: all’interno della nicchia il Cristo accoglie lo scettico apostolo alzando la destra che diventa l’apice di una piramide immaginaria che ha il suo estremo in basso nel piede di Tommaso (al di fuori grazie al vento di Ponente, Zefiro, e viene accolta da un’ancella che ha l’estetica della Primavera e le porge un manto per coprirla. Si è discusso a lungo sul significato filosofico della dea dell’amore e della bellezza che illustrano temi vicini al circolo neoplatonico, senza trovare un’interpretazione univoca. Botticelli in queste opere rinuncia alla prospettiva della pittura fiorentina del Quattrocento per proporre grandi scene che eludono il senso dello spazio. Riproduce in maniera dettagliata le specie botaniche del prato fiorito e dipinge le onde del mare ripetendo un segno grafico di elegante senso decorativo. Rinuncia alla materialità e propone la visione di un paradiso divino e ideale lontano da Brunelleschi o Masaccio. Furono opere di grande ispirazione per i Preraffaelliti inglesi. COMPLETAMENTO DELLA CAPPELLA BRANCACCI (FILIPPINO): nella prima metà degli anni Ottanta del Quattrocento le Storie di San Pietro che Masaccio e Masolino avevano lasciato incompiute erano state finalmente terminate da Filippino Lippi, figlio di Filippo (il più masaccesco tra tutti i pittori) nato da una relazione illecita con una suora di Prato. Inizialmente Filippino avviò l’apprendistato nella bottega del padre e alla morte di quest’ultimo, lo continuò presso Botticelli. Nella Cappella Brancacci lavorò al registro inferiore adottando una composizione severa e semplificata priva di attenzione agli ornati come si vede nella Crocifissione di San Pietro in cui si palesa una resa grafica simile alla pittura di Botticelli nei volti e nei panni. Nel tardo Quattrocento i grandi cicli ad affresco per le cappelle familiari furono affidati a  Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in Santa Trinita: la cappella fu voluta da Francesco Sassetti, uomo fedele a Lorenzo il Magnifico, tanto da avere l’incarico di dirigere il banco mediceo. Il ciclo figurativo riprendeva la vita del suo santo onomastico, Francesco d’Assisi e l’incarico fu affidato a Domenico Ghirlandaio, orafo e pittore di luce (si formò accanto al Verrocchio). Il suo era un linguaggio chiaro, affabile e sereno. Ghirlandaio scelse di ambientare alcuni episodi francescani a Firenze: “Conferma della regola” appare come una sorta di veduta da cartolina per mostrare Piazza della Signoria. Ad assistere all’evento sono ritratti molti personaggi del giro laurenziano: a destra Francesco Sassetti in abito rosso affiancato dal figlio e da Lorenzo; di fronte i figli maggiori del committente e Agnolo Poliziano sulla scala. Al centro della cappella vi è un trittico costituito dalla pala d’altare con “Adorazione dei pastori” e le figure inginocchiate di Sassetti e della moglie ai lati. La pala richiama l’antico sia per il formato che per la carpenteria e per le lesene della capanna. Emerge un senso di grande verismo sia dei pastori che dei committenti, frutto di un omaggio alla pittura fiamminga. Il riferimento è Trittico Portinari ad opera di van der Goes: al centro vi è la Natività contraddistinta da un tono rustico e accompagnata ai lati da uomini e donne di casa Portinari protetti da santi. Questa pala testimonia i continui scambi tra Firenze e le Fiandre. Il Trittico Portinari ebbe una forte influenza anche su Filippino per la pala con “Apparizione della Vergine a San Bernardo da Chiaravalle” carica di suggestioni nordiche dalla definizione dei dettagli al realismo del committente raffigurato in abisso oltre che per l’accensione cromatica. Domenico Ghirlandaio realizzò gli affreschi anche nella Cappella Tornabuoni presso la chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Il committente fu Giovanni Tornabuoni, zio di Lorenzo il Magnifico. Il programma prevedeva una serie di Storie della Vergine e di San Giovanni Battista. Alcuni episodi riassumono al meglio la peculiarità del ciclo: “Natività della Vergine” emblema della qualità illusionistica della finestra e della descrizione di una scena domestica che viene ripreso come tema nella “Nascita di San Giovanni Battista”; il registro antiquario viene invece esaltato nell’episodio “Annuncio dell’angelo a Zaccaria” con la realizzazione di un arco romano nella scenografia.  Filippino Lippi nella Cappella Strozzi: posizionata nel transetto destro di Santa Maria Novella. Il ciclo riprende le Storie dei Santi Filippo e Giovanni Evangelista. Il lavoro iniziò nel 1487 e terminò nel 1502, dieci anni dopo la morte del committente (il ritardo fu dovuto al fatto che il pittore si dovette recare più volte a Roma per dipingere la cappella del cardinale napoletano Oliviero Carafa). La scena del “Martirio di San Giovanni Evangelista” raffigura il protagonista immerso in un pentolone di olio bollente dal quale uscirà illeso: rispetto al Ghirlandaio qui emerge una maggiore carica espressiva dei personaggi e un ridondante gusto antiquario nelle vesti dei centurioni e nei fasci dei littori. Nella bottega di Domenico Ghirlandaio ritroviamo una figura di particolare interesse: fu nella Cappella Tornabuoni che Michelangelo mostrò il suo precoce talento e iniziò ad apprendere le varie tecniche pittoriche. Ascanio Condivi, amico di Michelangelo e autore di una sua sorta di biografia, e Vasari concordano nell’affermare che la formazione di Michelangelo avvenne grazie a Lorenzo il Magnifico, il quale lo protesse accogliendolo nel Giardino di San Marco: una scuola e un’accademia di giovani pittori e scultori i quali intraprendevano gli studi sulla pittura, scultura o architettura tramite il disegno dell’arte antica e dei maggiori artisti fiorentini del Quattrocento. Michelangelo iniziò disegnando le figure di Masaccio della Cappella Brancacci (figura di San Pietro che paga un tributo). Le opere di esordio in scultura di Michelangelo sono esposte al museo di Casa Buonarroti, ultima dimora fiorentina dell’artista dove è conservata “Madonna della scala” in cui emerge l’ispirazione donatelliana nell’utilizzo dello stiacciato e nei panni aderenti alle forme della grande figura della Vergine seduta di profilo nelle figure dei bambini e del Cristo che volta le spalle allo spettatore. Bertoldo di Giovanni ebbe un ruolo importante nello spingere Michelangelo verso lo studio di Donatello. Nella “Battaglia dei centauri” Michelangelo mise in atto una scultura molto distante da Donatello. Fu realizzato sulla base di un suggerimento letterario di Poliziano: il tema della battaglia come espediente per studiare il movimento e le pose dei corpi in lotta oltre al rimando a soggetti antichi e ai sarcofagi. Ad oggi quest’opera di scultura appare incompleta sia nella cornice che nelle figure: è un groviglio di nudi avviluppati in una zuffa di cui è difficile comprendere l’inizio o la fine. Il titolo viene giustificato dall’immagine di un centauro disteso a terra in primo piano. Michelangelo uscirà dal Giardino di San Marco con un forte interesse per i nudi e una solida conoscenza dell’antico. Probabilmente doveva essersi avvicinato anche a Benedetto da Maiano, scultore dell’epoca poiché avviene un allontanamento dallo stiacciato donatelliano e una predilezione per figure solide, volumetriche e carnose. “Crocifisso”: opera lignea intagliata per la chiesa di Santo Spirito. Prima opera pubblica dello scultore e ad oggi conservato nella sagrestia. È un’opera che si allontana da Brunelleschi e Donatello e sottolinea una maggiore preferenza per lo stile di Benedetto da Maiano per le forme levigate e piene. La precisione anatomica è da attribuire al suo studio dei cadaveri. Tra i tanti artisti che si formarono nel Giardino di San Marco ricordiamo anche Francesco Granacci, Lorenzo di Credi (pittori) e Giovan Francesco Rustici e Andrea Sansovino (scultori). Sansovino fu uno dei primi artisti ad emergere per la realizzazione di un monumento compiuto a Firenze per la chiesa di Santo Spirito: l’altare del Sacramento per la famiglia Corbinelli, un complesso di statue e rilievi in un’architettura che ricorda un arco antico. ROMA Nel 1475 Sisto IV sancì con una bolla la fondazione della Biblioteca Vaticana che ancora oggi è una delle maggiori raccolte al mondo per patrimonio di testi a stampa e antichi manoscritti. Con il predecessore Niccolò V il pubblico poté entrare in contatto con le maggiori raccolte di codici latini, greci ed ebraici, mentre con Sisto IV la biblioteca divenne una vera e propria istituzione dotata di una sede con aule, dei finanziamenti e un bibliotecario. La scelta cadde su Bartolomeo Sacchi, il Platina, umanista lombardo formatosi a Mantova e trasferitosi a Roma al seguito di Francesco Gonzaga. Sisto IV volle che le aule fossero decorate: in uno degli affreschi più emblematici del rilancio di Roma nel Quattrocento ricordiamo una scena di corte ambientata in una luminosa navata coperta da un soffitto a cassettoni sostenuto da possenti pilastri squadrati e arcate a tutto sesto secondo un linguaggio architettonico rinascimentale. Il papa siede a destra di profilo ed è circondato da familiari: Pietro Riario, nipote, cardinale Giuliano della Rovere al centro in piedi e alle spalle Giovanni della Rovere e Girolamo Riario. Il protagonista della scena è il Platina, inginocchiato al centro, a indicare con la destra l’iscrizione latina che inneggia alla biblioteca come alla maggiore tra le imprese realizzate a Roma. L’affresco era posizionato su una parete di fronte all’ingresso della biblioteca ed era ben visibile al pubblico. Fu realizzato tenendo conto dei caratteri prospettici degli spettatori e fu eseguito da Melozzo da Forlì, pittore romagnolo. Le figure sembrano riprendere lo stile pierfrancescano per la solidità e la monumentalità. L’anno della fondazione della biblioteca fu anche l’anno di un grande giubileo, durante il quale i pellegrini dovettero avere ben chiaro che Roma stava cambiando: Sisto IV aveva trasferito dal Laterano al Campidoglio i bronzi antichi e li aveva donati al popolo romano. Fu ristrutturata la chiesa di Santa Maria del Popolo dove i romani veneravano un’antica immagine della Vergine dipinta da san Luca. La nuova chiesa si presentava con una facciata tripartita in travertino, non dissimile da quella elaborata poi per la chiesa di Sant’Agostino dove è palese il richiamo alla predilezione per l’antico di Alberti. A Sisto IV si deve anche l’idea di corredare il palazzo apostolico di una nuova cappella che da lui prende il nome di Cappella Sistina, spazio destinato ad ospitare importanti celebrazioni liturgiche oltre alle riunioni del conclave in cui si sceglie il nuovo papa. L’architettura è molto semplice: poderoso involucro in mattoni reso dinamico da una merlatura che delimita una grande aula rettangolare coperta da una volta. L’interno è in netto contrasto con l’austerità dell’esterno: pavimento in marmo, volta affrescata e forte accensione cromatica. Negli anni Ottanta la cappella fu affrescata secondo uno schema ben preciso suddiviso su vari registri: in basso uno zoccolo con finti arazzi, nel secondo registro una serie di riquadri narrativi e ai lati dei finestroni alcune figure di papi disposte entro nicchie illusionistiche. La volta appare come un cielo pieno di stelle secondo un gusto medievale che trova un precedente nella Cappella degli Scrovegni di Giotto. Oggi al posto del cielo stellato ci sono le Storie della Genesi di Michelangelo che nel corso del Cinquecento sconvolse il ciclo originario dipingendo il Giudizio universale: andarono così perdute l’Assunzione della Vergine con il ritratto di Sisto IV, episodi della Nascita di Mosè e della Natività di Cristo. Sisto IV arruolò una equipe folta di pittori dalla Toscana e dall’Umbria: si dice che Lorenzo abbia offerto molti Fiorentini al cantiere come a farli ambasciatori della rinnovata pace con il papa. Tra i nomi più importanti ricordiamo: o Ghirlandaio che ebbe il compito di dipingere la “Vocazione di Pietro e Andrea”: veduta di un lago dove si riconoscono le barche dei pescatori che si faranno apostoli. Da un lato Cristo chiama Pietro e Andrea a sé, dall’altro Giovanni e Giacomo: i primi si inginocchiano dinanzi a Cristo in un’atmosfera tersa, limpida che mette insieme il rigore di Masaccio e la pittura di luce. o Botticelli realizzò “Prove di Mosè” “Prove di Cristo” e “Punizione dei ribelli”. Quest’ultima aveva grande significato poiché sottolineava quale fosse la pena riservata a chi non rispettava l’autorità ecclesiastica derivata da Dio attraverso un episodio dell’AT. La scena è dominata da un arco di trionfo antico mentre Core, Datan e Abiram dominano la rivolta degli Israeliti contro Mosè (a destra con il vestito verde e una lunga barba grigia) che viene difeso da Giosuè. Al centro, una volta che Dio gli ha mostrato benevolenza accogliendo il suo sacrificio, Mosè disperde i ribelli che vengono cacciati agli inferi. Scena molto concitata. o Pietro Perugino realizzò l’episodio della “Consegna delle chiavi”: san Pietro ebbe da Cristo le chiavi del Paradiso e fu quindi riconosciuto in quanto primo vescovo di Roma e papa come un primato di autorità sul popolo. Al centro vi è il barbuto Pietro che si inginocchia per ricevere le chiavi da parte di Cristo; gli apostoli assistono alla scena e sono riconoscibili perché contrassegnati da apostoli mentre sono presenti due figure che recano un compasso e una squadra e si tende a riconoscerli come Baccio Pontelli e Giovannino de Dolci (progettista e direttore del cantiere sistino). I protagonisti sono disposti su una piazza pavimentata con grandi lastre di marmo che individuano la fuga prospettica indirizzata sull’edificio a pianta centrale sul fondo che allude al tempio di Salomone affiancato da due archi antichi che rimandano all’arco di Costantino. Il paesaggio in lontananza è quieto mentre le scene in secondo piano illustrano due episodi evangelici (tributo Nel 1502 si trasferì a Siena per decorare la Libreria Piccolomini su richiesta del cardinale Francesco Tedeschini Piccolomini: si trattava di un incarico impegnativo e prestigioso che il Pinturicchio avrebbe ultimato nel 1508. È un ambiente ben conservato attualmente: il soffitto è ricoperto di grottesche che si estendono sulle paraste dipinte a suddividere le pareti in dieci finestroni in cui sono narrate le vicende di papa Pio II. Al posto di Cristo troviamo un personaggio che era vissuto fino a qualche decennio prima e che Pinturicchio mette in scena come in una sorta di biografia dipinta. Lo stile è minuzioso e affabile. UMBRIA Raffaello nasce a Urbino nel 1483 da un padre pittore attivo alla corte dei Montefeltro che poté però insegnargli ben poco a causa della morte precoce. Il Perugino capì subito il talento di Raffaello e lo accolse nella propria bottega permettendogli di ottenere una serie di importanti commissioni in Umbria: nelle prime opere Raffaello appare come una sorta di alter ego del Perugino dimostrando di aver appreso tutte le caratteristiche principali del maestro. Raffaello nel 1502 dipinge “Crocifissione” per la Cappella Gavari nella chiesa di San Domenico a Città di Castello in cui Cristo crocifisso è accompagnato da una coppia di angeli, dalla Vergine, San Giovanni e dalla Maddalena ma anche da San Girolamo inginocchiato in primo piano a sinistra (poiché la Cappella era intitolata a san Girolamo). Gli aspetti di derivazione dal Perugino: armonia delle figure e della composizione, accordi cromatici equilibrati, atmosfera limpida e personaggi teneri e morbidi nelle forme. La firma alla base ci permette di attribuire l’opera a Raffaello (e distinguerla dal Perugino). Guardando a Perugino, Raffaello realizzerà anche “Sposalizio della Vergine” una pala di dimensioni ridotte che era in origine nella cappella dedicata a san Giuseppe che la famiglia Albizzini possedeva nella chiesa di San Francesco a Città di Castello. Da ciò deriva la scelta di un soggetto in cui il santo titolare è protagonista: san Giuseppe è raffigurato nel momento in cui prende in sposa Maria. Ricorda la Consegna delle Chiavi di Perugino per la composizione degli attori sul proscenio e il pavimento prospettico. Rispetto al maestro, Raffaello ha alzato il punto di vista e atteggiato i personaggi con maggiore libertà rispetto allo Sposalizio della Vergine del Perugino (realizzato per una cappella nel Duomo di Perugia). MILANO (LEONARDO/BRAMANTE) Nel 1483 Leonardo da Vinci è attestato a Milano dove sarebbe rimasto fino al 1499: egli fu al servizio della corte di Ludovico il Moro, figlio del duca Francesco che con la morte lasciò il regno nelle mani del primogenito Galeazzo Maria, il quale fu vittima di una congiura da parte della nobiltà. Quando Leonardo si trasferì a Milano si propose alla corte di Ludovico, uomo appassionato di lettere e di arti, come un artista eclettico, a tutto tondo (ci viene testimoniato da una sua lettera di presentazione esposta nel Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana). Si sofferma a lungo sulle sue abilità da ingegnere militare e progettista di macchine da guerra (Leonardo lascerà un progetto degli antenati dei moderni carri armati). Innalzerà a Milano un colossale monumento equestre in onore di Francesco Sforza attraverso cui voleva confrontarsi con il Gattamelata di Donatello e il Bartolomeo Colleoni del suo vecchio maestro, Verrocchio. L’impresa fu finanziata da Ludovico ma non fu mai portata a termine. Sappiamo che i cavalli erano uno dei soggetti preferiti dal pittore per lo studio della natura e del movimento: così per il monumento Sforza elaborò una soluzione inedita immaginando il duca Francesco su un destriero impennato su due zampe al di sopra della figura distesa e sconfitta di un nemico. Il gruppo scultoreo avrebbe dovuto essere colossale e questo avrebbe provocato dei problemi statici tanto che alla fine Leonardo vi preferì la rappresentazione di un cavallo al passo. Leonardo si impose anche come musico, come il migliore dicitore di rime e capace di condurre acqua da un luogo all’altro. Per questo motivo Ludovico decise di affidargli il sistema dei Navigli, canali navigabili che mettevano in comunicazione Milano con il Ticino e l’Adda. Leonardo studiò i sistemi di chiuse per risolvere il problema del dislivello tra la parte alta e quella bassa della città permettendo la navigazione tra le due IL GOTICO INTERNAZIONALE Contesto storico Dopo la peste del 1348 il continente conosce una stagione di ripresa culturale ed economica. In questo secolo si colloca la nascita degli Stati nazionali. La Guerra dei cent’anni (1337-1453) vide lo scontro di Francia e Inghilterra per ragioni dinastiche. Alla morte di Carlo IV re di Francia, il trono francese era nelle mani di Filippo di Valois. Anche il re d’Inghilterra Edoardo III in quanto nipote per parte di madre del re di Francia Filippo il Bello si riteneva erede della corona francese. La lunga guerra termino con la vittoria della Francia e la conseguente unificazione: simbolo di questa vittoria è ancora oggi Giovanna d’Arco, contadine che si fece soldatessa e guidò le truppe francesi per spezzare l’assedio inglese ad Orleans. La Guerra delle due rose (1455-1485) scoppiò sempre a cause di ragioni dinastiche e vide scontrarsi i Lancaster e gli York, due rami del casato reale rappresentati in ordine da una rosa rossa e una bianca. Questa guerra civile portò all’incoronazione di re Enrico VII, della famiglia Lancaster, il quale prese in sposa Elisabetta di York. La Reconquista, termine che indica la fine della presenza araba nella Penisola iberica e la presa della città di Granada nel 1492, ad opera di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i quali sancirono l’unione dei regni di Aragona e Castiglia con le loro nozze. Nello stesso anno della Reconquista, Cristoforo Colombo scoprì il Nuovo Mondo avviando l’esplorazione di rotte commerciali nuove da cui sarebbe dipesa la ricchezza della Spagna. 1455: nascita della stampa con la pubblicazione della prima copia della Bibbia grazie alla stampa a caratteri mobili di Gutenberg. Nascita delle armi da fuoco e conseguente cambiamento nella costruzione di fortificazioni. Italia: all’inizio del Quattrocento l’Italia era divisa tra Repubblica di Venezia (dominio sui mari), Ducato di Milano (espansione dovuta alla presenza di Galeazzo Visconti), Stato della Chiesa (siamo nel momento che segue lo Scisma d’Occidente) e Regno di Napoli (1442 arrivo di Alfonso il Magnanimo). Gli Stati regionali in conflitto tra loro sancirono nel 1454 la pace di Lodi con la quale nacque la Lega italica capace di garantire una tregua equilibrata tra Venezia e Milano, stato della Chiesa, Napoli e Firenze. Oltre agli Stati italiani principali vi erano altri stati di dimensioni minori come le corti dei Gonzaga a Mantova, degli Estensi a Ferrara, dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro ad Urbino. Dal punto di vista culturale, inizia la riscoperta delle lettere classiche latine e greche. Il Quattrocento è considerato il secolo dell’Umanesimo e del Rinascimento che in un primo momento convisse con la tradizione gotica. Il gotico internazionale si diffonde a partire dalla seconda metà del Trecento: la sua diffusione fu inarrestabile grazie ai continui viaggi degli artisti e delle opere nella rete delle corti e delle committenze. CORTI EUROPEE Castello di Chantilly a nord di Parigi sede del più bel codice miniato del tramonto del Medioevo: Les tres riches heures du Duc de Berry, libro d’ore, breviario cioè una raccolta di preghiere da recitare in base al periodo dell’anno. Il proprietario fu Jean de Berry, terzogenito del re francese, e duca di una regione della Francia. Il volume è molto ricco, corredato con pagine preziosi miniate realizzate dai fratelli De Limbourg: nativi dell’attuale Olanda, il loro lavoro li porterà presso numerose corti, tra cui quella di Bourges dove lavoreranno a questo codice. I dodici fogli di apertura del codice sono dedicati alle allegorie dei mesi dell’anno, soggetto caro alla cultura medievale. I mesi non alludano al lavoro come nelle cattedrali romaniche, ma agli ozi dei più ricchi:  Aprile è rappresentato come il mese del fidanzamento: in alto vi è un calendario astrologico con il carro del sole centrale e una volta celeste con i segni zodiacali del mese (Ariete e Toro); sotto vi è una scena simbolica di una coppia che si scambia l’anello di fidanzamento. I due sono vestiti elegantemente e i loro abiti sono ornati riccamente mentre le loro figure sono allungate come statue gotiche d’avorio. Si evince una grande passione per la natura: il fidanzamento è ambientato in aperta campagna e offre una veduta di paesaggio che riflette la realtà, trasfigurandola in termini fiabeschi.  Luglio è riservato alla rappresentazione del lavoro degli humiles. Il calendario in alto è caratterizzato da didascalie e i segni sono quelli del Cancro e del Leone. I colori utilizzati sono molto accesi e i protagonisti della scena sono rappresentati in maniera abbastanza reale. La novità è la presenza del cielo atmosferico: nel Trecento gli affreschi italiani presentavano un fondale astratto che non coglieva gli effetti atmosferici di un cielo vero. Le opere di questo periodo mescolano il massimo artificio e il naturalismo dei dettagli. La pittura rispecchia lo stile cortese che riflette i gusti del signore e della sua corte: il carattere è laico mentre i colori utilizzati sono preziosi, eleganti. Non vi è attenzione per la resa tridimensionale dello spazio al contrario dell’attenzione per la decorazione. Queste caratteristiche derivano dall’esperienza del Gotico in Francia che ha prodotto le cattedrali dell’Ile-de-France nel Trecento. Per spiegare lo sviluppo gotico possiamo fare riferimento anche all’opera di Simone Martini “la Madonna dell’umiltà”: soggetto mariano che prevede la raffigurazione della Vergine con il Bambino seduta a terra, sul prato con delle vesti preziose e meravigliose. Questa è un’immagine che sembra anticipare il codice delle Ore del duca di Berry. Nel frattempo, Avignone ospitava la più importante corte europea: i Papi si erano trasferiti in Provenza nei primi anni del Trecento e sarebbero rimasti fino agli anni 80. Ad Avignone confluivano nobili, prelati e ambascerie ma anche artisti da tutta Europa: tutto ciò permise al gotico avignonese di svilupparsi dalla Francia all’Italia alla Germania. Il tema mariano fu ripreso più volte nel corso del Trecento divenendo uno dei temi principali del Gotico internazionale: “La Madonna della quaglia” di Pisanello è un esempio chiaro della diffusione del tema mariano ma di un’interpretazione diversa da quella di Martini, laddove Pisanello estremizza l’eleganza della Vergine accentuandone la delicatezza delle carni e la posa curva tipicamente gotica. Il Gotico fiorito (architettura flamboyant) Flamboyant significa “Fiammeggiante” e fa riferimento ad elementi ornamentali che alludono al guizzare delle fiamme. L’aggettivo è appropriato se si guarda alla facciata del palazzo che Marino Contarini fece costruire a Venezia negli anni Venti: la Ca’ d’Oro sul Canal Grande è un’opera frutto di maestranze lombarde e venete caratterizzata da una facciata di loggiati fioriti vuoti gli uni sugli altri che alludono ad una struttura leggera dando l’effetto di un pizzo di pietra. In origine la merlatura era impreziosita dalla presenza di colori e dorature (la policromia doveva farla apparire come monumentale oggetto di oreficeria). Il Gotico fiorito ebbe fortuna molto più fuori dall’Italia (laddove stava fiorendo il Rinascimento di Michelangelo e Raffaello): Cappella del King’s College di Cambridge nel Regno Unito fondata dal re Enrico IV nel 1446 Monastero dos Jeronimos di Lisbona in Portogallo innalzato agli inizi del Cinquecento per volontà del re Manuele. Scultura Claus Sluter primo grande maestro del Gotico internazionale, olandese che fece fortuna in Francia (come i De Limbourg) al servizio del duca di Borgogna Filippo l’Ardito. spaziale e con una predominanza di episodi divertenti. Gentile mostra interesse per la realtà: nella “Fuga in Egitto” rinuncia al fondo dorato per un cielo azzurro e atmosferico in cui compaiono la luce e le nuvole (novità eclatante). Alla fine del 1425 Gentile si trasferirà a Roma dove Martino V gli commissionerà un ciclo di affreschi per la navata della Cattedrale di san Giovanni in Laterano che ad oggi non abbiamo poiché fu distrutto per lasciare spazio alla tendenza barocca di Borromini. Da un disegno superstite sappiamo che il ciclo doveva essere organizzato in due registri: uno con le Storie del Battista e l’altro con profeti. L’opera sarà terminata dal suo allievo Pisanello nel 1431. Pisanello: apprendistato con Gentile a Venezia e lavorò al ciclo del Palazzo Ducale. Le sue opere più importanti sono conservate a Verona. Nella chiesa francescana di San Fermo, Pisanello realizzò il monumento sepolcrale di Niccolò Brenzoni insieme a Nanni di Bartolo, allievo di Donatello. Il monumento è caratterizzato dal gruppo scultoreo con la Resurrezione di Cristo dovuto a di Bartolo, mentre Pisanello si occupò delle parti dipinte (finta tappezzeria, giardino gotico, scena dell’Annunciazione ai lati del tendaggio). La dipendenza da Gentile si nota dalla tenerezza delle carni e nella raffinatezza cromatica della scena Vergine annunciata. La decorazione tende a prevalere sulla scultura. Nella Cappella della famiglia Pellegrini della Chiesa domenicana di Sant’Anastasia realizzerà l’affresco sopra l’arcone di ingresso con “Storia di San Giorgio e la principessa”: il cavaliere è di fronte alla principessa mentre sale sul destriero con il quale sconfiggerà il drago. L’artista rappresenta una scena privilegiando l’aspetto cavalleresco e non quello sacro (se l’affresco non fosse in una Chiesa sarebbe spontaneo pensare ai protagonisti come a Ginevra e Lancillotto). Registro avventuroso, ricco di dettagli e di elementi tipici dell’epoca (acconciatura della principessa come quelle delle grandi dame del tempo). Utilizzo di lamine metalliche e decori a pastiglia per rendere più prezioso l’affresco. L’ultima fase della sua carriera si svolse a Mantova presso la corte dei Gonzaga, poi a Ferrara presso gli Estensi e infine a Napoli presso Alfonso d’Aragona. Durante il concilio per riunire la Chiesa di Roma con quella d’Oriente, Pisanello ritrasse il sovrano in uno dei modelli di medaglia più antichi (medaglia come dono diplomatico o memoria da murare nelle chiese e nei castelli) la quale si impose nel Quattrocento come simbolo della rappresentazione del potere del signore. A Pisanello si deve il modello di rappresentare il profilo (diritto) e un emblema o un episodio narrativo (rovescio). Nella medaglia di Giovanni VIII Paleologo il diritto mostra il profilo barbuto con il copricapo alla greca e nel rovescio un cavaliere di fronte ad un crocifisso. Pisanello prese spunto dalle monete romane. Medaglia per Lionello d’Este: realizzata per celebrare le nozze con Maria d’Aragona. Sul diritto vi è il profilo di Lionello che riprende il ritratto di Lionello dell’Accademia Carrara di Bergamo. Jacopo della Quercia come figura di passaggio con il nuovo linguaggio rinascimentale. I cantieri principali furono Lucca e Siena. Realizzò il monumento funebre per Ilaria del Carretto, moglie del signore di Lucca Paolo Guinigi, morta di parto. La tomba doveva essere posta nel Duomo: monumento non a parete ma isolato come quella di Sluter. Il gisant (il giacente) è disteso sul sarcofago con ai piedi un cagnolino: emerge grande naturalismo e grande attenzione ai costumi del tempo (abito alla moda con colletto altissimo). Lungo i lati del sepolcro furono posizionati i pleurants, spiritelli recuperati dalla scultura antica (spirito gotico con capigliature mosse). Nel 1408 Jacopo rientrò nella sua terra natale, Siena e realizzò la Fonte Gaia per la Piazza del Campo: il comune chiese allo scultore di realizzare una fontana pubblica per la piazza più eminente della città. La fonte di Jacopo completò l’estetica della piazza trecentesca: scelse soggetti connessi con temi civili che richiamavano gli affreschi di Lorenzetti nel Palazzo Pubblico (Buon Governo). La fonte appariva come un trono con ali aggettanti intorno alla vasca al centro della quale vi era la Vergine con il Figlio; sui fianchi vi erano scene della Creazione di Adamo e del Peccato Originale e al di sopra le statue di Rea Silvia e Acca Larentia (madre e nutrice di Romolo e Remo) alludendo così all’origine mitica di Siena (fondata dai figli di Remo). La fonte di Jacopo fu sostituita nel 1869 da una copia di Tito Sarrocchi per lo stato malridotto in cui era: i marmi sono oggi esposti nell’ospedale di Santa Maria della Scala. Nell’ultimo decennio della sua vita Jacopo della Quercia si trovò a Bologna per realizzare un grande portale per la Basilica di San Petronio, chiesa fondata come tempio civico dell’autorità comunale in un momento di indipendenza di Bologna dalle ingerenze della famiglia Bentivoglio e della Chiesa. La chiesa si erge su Piazza Maggiore di fronte al Palazzo del Podestà e la Fontana di Nettuno del Giambologna. Il progetto fu di Antonio di Vincenzo, informato sul cantiere del duomo di Milano. La facciata non fu mai completata, mentre il portale fu realizzato da Jacopo in parte: manca il coronamento gotico sopra la lunetta (caratterizzata da Madonna col Bambino e i Santi Ambrogio e Petronio). I rilievi dei fianchi con Profeti e Storie dell’At furono realizzati con aggressivo plasticismo come figure a tutto tondo in un secondo momento. La scena del Peccato Originale: progenitori nudi affiancati dall’albero del bene e del male da cui spunta il serpente; figura di Adamo vigorosa in contrapposto (parti in tensione e parti rilassante creano forze contrastanti che accentuano il movimento) come una sorta di antenato del David. San Petronio resta una chiesa gotica nonostante l’originalità di Jacopo: pianta longitudinale suddivisa in tre navate voltate a crociera da robusti pilastri a fascio che sostengono archi acuti. Tra le cappelle laterali, una conserva l’aspetto quattrocentesco, quella voluta da Bartolomeo Bolognini ricco mercante che vi collocò la propria sepoltura: all’interno della cappella sono presenti affreschi (storia dei re Magi) realizzati da Giovanni da Modena (rappresentante della pittura gotica emiliana). Contesto storico FIRENZE Nei primi decenni del Quattrocento a Firenze si parla di primavera del Rinascimento e si avvia una riscoperta della letteratura antica di Platone, Aristotele, Cicerone, che portò ad una riscoperta dei valori di una società giusta (umanesimo civile). Così come ci viene detto da Coluccio Salutati, all’inizio del Quattrocento, Firenze volle proclamarsi erede dell’antica Repubblica romana e del suo modello di vivere civile (forma antitirannica e impegno del cittadino). Fu Coluccio, cancelliere della Repubblica di Firenze a promuovere una propaganda antiviscontea denunciando gli aspetti tirannici del suo governo. Un prosecutore dei suoi ideali fu Leonardo Bruni convinto che oramai Roma fosse morta e che gli ideali giusti fossero incarnati da Firenze, città simbolo di una forma di governo popolare. La Repubblica di Firenze era fondata sul lavoro: per essere ammessi agli uffici pubblici si doveva essere iscritti ad un’Arte, Corporazioni che riunivano i membri di una categoria professionale. Tra le Arti maggiori vi erano Calimala (mercanti di tessuti), l’Arte del Cambio (banchieri), Medici e Speziali (pittori). Nel 1406 Firenze conquistò Pisa assicurandosi l’accesso al mare ed eliminando un’avversaria, mentre dopo la morte di Gian Galeazzo, la minaccia milanese tornò viva con il suo successore, Filippo Maria Visconti: Firenze combatté le guerre di Lombardia, guerre combattute da truppe mercenarie non da eserciti contadini. Nel 1440 le guerre terminarono a favore di Firenze (battaglia di Anghiari > dipinto di Leonardo). 1434: arrivo a Firenze di papa Eugenio IV e rientro dall’esilio di Cosimo de Medici, capo di una grande banca con filiali europee. Il primo farà di Firenze il grande centro della cristianità trasferendovi il concilio per riunire le due chiese durante lo scisma. Durante questo periodo la città fu attratta dallo sfarzo orientale che entrò subito nel repertorio dei maestri locali del tempo. Il concilio fu finanziato da Cosimo il quale divenne signore della città conquistandosi il titolo di pater patriae e dando il via a quel processo di dominio politico che avrebbe portato ad istituire il Principato. Fu uno dei mecenati più grandi di tutti i tempi. RINASCIMENTO Per spiegare cos’è il Rinascimento basta leggere l’omaggio dedicato da Alberti in apertura al suo trattato “Sulla Pittura” a Filippo Brunelleschi in cui racconta la sua impressione nel mettere piede a Firenze nel 1434. Sappiamo che Alberti era membro di una famiglia fiorentina esiliata a Genova e fino a quel momento aveva sempre creduto nel primato dell’antichità connotando il suo tempo come una decadenza medievale, un’epoca priva di uomini geniali. Entrando a contatto con le opere di Brunelleschi, Donatello, Ghiberti e Masaccio aveva capito che l’antichità era rinata, anzi che era nato qualcosa di nuovo. Siamo nel periodo in cui i maestri elaboreranno un linguaggio nuovo che si servirà della prospettiva per riprodurre precisamente la tridimensionalità dello spazio. La triade portatrice di queste innovazioni sarà composta da Brunelleschi, Donatello e Masaccio. Concorso del 1401 bandito tra i migliori artisti toscani dall’Arte di Calimala: il migliore avrebbe realizzato la grande porta bronzea per il Battistero di San Giovanni. La chiesa aveva tre ingressi: uno dei tre era già chiuso dai battenti bronzei realizzati da Andrea Pisano nel 1336 che fu un modello di riferimento per la nuova porta a nord. Il concorso prevedeva la creazione di una formella mistilinea (con cornice gotica) con un episodio dell’AT, il Sacrificio di Isacco. Ghiberti ci dice che i partecipanti furono sette (tra i nomi più importanti emersero quello suo, di Jacopo della Quercia e di Filippo Brunelleschi) e che fu lui stesso il vincitore. Le formelle di Brunelleschi e Ghiberti oggi sono al Bargello: simboli di una cultura gotica morente e di un nuovo modo di vedere il mondo. Formella di Ghiberti: figlio di un orafo, grande dimestichezza con la lavorazione del bronzo. La rappresentazione è gotica: paesaggio roccioso, composizione basata sulla figura di Abramo che viene bloccato dall’arrivo dell’angelo mentre sacrifica il figlio. Formella di Brunelleschi: disposizione centrale di Abramo, figure fini e dinamiche, priva di rigore spaziale, riferimento allo Spinario nella posa del personaggio in basso a sinistra. Aveva avuto un’esperienza da orafo presso l’altare di San Jacopo nella Cattedrale di Pistoia (profeti con la stessa barba arricciata e calligrafica che presenta Abramo nella formella). LORENZO GHIBERTI Porta Nord del Battistero di Firenze: ottenne la commissione nel 1403 e la terminò nel 1424 con l’assistenza di numerosi maestri di una bottega (Donatello, Paolo Uccello, Michelozzo). I due battenti sono formati da 28 formelle mistilinee e i temi iconografici sono Storie evangeliche, Evangelisti e Dottori della Chiesa. Attualmente la porta risiede nel Museo dell’Opera del Duomo, mentre in sito vi è una copia. Lo stile di Ghiberti è molto diverso dalle figure giottesche di Pisano: eleganza delle forme legata al gusto gotico. Nella formella dedicata all’Annunciazione l’Angelo è raffigurato di profilo e causa un movimento all’indietro della Vergine (innaturale) inquadrata da un archetto. Sul fondo vi è raffigurata la colomba che ricorda l’angelo nella formella di prova del Ghiberti. La regia della scena viene quindi affidata all’apparizione del divino, del personaggio sacro. DONATELLO Tra gli artisti che intrapresero l’apprendistato presso l’officina ghibertiana vi era anche Donatello. Tra le sue prime opere ricordiamo il Crocifisso realizzato per la basilica di Santa Croce a Firenze: le pieghe taglienti e sinuose del perizoma di Cristo ricordano quelle nella Crocifissione della Porta Nord del Battistero realizzata da Ghiberti, mentre il volto del Cristo donatelliano è del tutto originale. Donatello esprime l’espressività che diventerà tipica delle sue sculture (brutale naturalismo). Brunelleschi addirittura sosteneva che non sembrava Cristo, ma un contadino in croce. Nel 1408 l’Opera di Santa Maria del Fiore ordinò tre sculture di Evangelisti per la facciata del Duomo: a Donatello spettò il San Giovanni, mentre a Lamberti andò il San Marco e a di Banco andò il San Luca. L’idea era quella di instaurare una gara fra i maestri e affidare al migliore di loro il mancante San Matteo (che poi fu affidato a Bernardo Ciuffagni). Nel 1415 le quattro figure furono collocate nella facciata mentre adesso si trovano al Museo dell’Opera del Duomo. Vi è un evidente spartiacque fra due gruppi artistici: Lamberti e Ciuffagni guardano ancora al Gotico (artifici nei panni e nelle acconciature) mentre Donatello e Nanni di Banco guardano ad un lessico nuovo (fierezza e solidità strutturale delle figure). BRUNELLESCHI Realizzerà in risposta all’amico Donatello un Crocifisso: composizione armoniosa del corpo e studio dell’anatomia. Appare come un’opera del Rinascimento maturo: dalla biografia scritta da Antonio Manetti alternando copertura piana al centro con le volte nei corridoi. La pianta era molto simile a quella delle basiliche gotiche degli ordini mendicanti (Santa Maria Novella e Santa Croce) ma il senso dello spazio e il linguaggio architettonico adottati erano diversi poiché si ispiravano all’architettura paleocristiana. La fase ultima della costruzione risalì al 1442 (cantiere molto lungo). Filippo per la decorazione degli altari richiese tavole quadrate, non polittici con cuspidi e pinnacoli mostrando la fuga prospettica razionale dello spazio da lui progettata. MASACCIO Colui che adottò le lezioni di Brunelleschi e Donatello in pittura fu Masaccio, nato in provincia di Arezzo, ebbe una carriera molto rapida ma fu comunque capace di lasciare un segno importante. Diede il via alla sua attività in società con Masolino da Panicale, pittore più anziano autore della “Madonna col Bambino” del 1423, anno dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano: opera che celebra il matrimonio tra le famiglie Boni e Carnesecchi e giocata su colori delicati e preziosi (tipici del gotico). Per la Chiesa di Sant’Ambrogio, Masolino eseguì la “Sant’Anna Metterza” il cui titolo è dovuto alla posizione della nonna Anna messa “per terza” nella composizione dell’opera. In quest’opera vi è anche la mano di Masaccio: realizzò la figura dell’angelo in alto a destra e le figure centrali della Madonna e del Bambino caratterizzati da una grande volumetria e tridimensionalità, nonostante il fondo oro e le aureole piatte (resa anatomica molto moderna). LA CAPPELLA BRANCACCI: una cappella nella chiesa fiorentina del Carmine che apparteneva al mercante di seta Felice Brancacci. Nella decorazione confluirono sia la pittura di Masolino che quella di Masaccio. Il lavoro fu avviato nel 1424 e prevedeva la rappresentazione delle Storie di San Pietro dedicatario della cappella stessa. Ad oggi gli affreschi che noi vediamo sono il prodotto di innumerevoli stratificazioni nel corso del tempo. Sappiamo che il cantiere veniva iniziato sempre dall’alto: le vele e le lunette furono le prime ad essere affrescate (affreschi originari distrutti in seguito ad una ristrutturazione del 1746). Negli anni Ottanta del Quattrocento intervenne Filippino Lippi che, con uno stile masaccesco, completò il registro più basso di affreschi per sopperire alla mancanza di Masolino, trasferitosi in Ungheria, e di Masaccio, occupato nel polittico per la chiesa del Carmine di Pisa. Tra gli episodi principali ricordiamo nel registro superiore della parete di ingresso due episodi della Genesi: Masolino realizzerà “la Tentazione di Adamo ed Eva” laddove i progenitori sono ritratti nudi come suggerito dall’AT e appaiano privi di consistenza corporea, assolutamente bidimensionali come se galleggiassero. Masaccio, invece, racconta in maniera diversa la “Cacciata dal Paradiso terrestre” laddove i progenitori escono da un portale sovrastati dalla figura di un crudele angelo e camminano in un paesaggio concreto, proiettando anche le ombre dei loro corpi. Emerge una forte espressività e carnalità: sono due figure che esprimono dolore e risentono del ruolo giocato dalla scultura di Donatello (espressione del carattere umano). Questi elementi sono presenti in altre scene, ad esempio in “Tributo” che si sviluppa in tre momenti differenti: al centro Cristo accerchiato dagli apostoli indica a Pietro di pescare la moneta necessaria per entrare in città dalla bocca di un pesce; a sinistra Pietro esegue l’ordine e a destra la utilizzerà per pagare l’imposta. Sono evidenti le ombre proiettate dai personaggi a terra, le quali saranno protagoniste nella scena di “San Pietro che risana con la propria ombra” ambientata in un paesaggio rubano reso in prospettiva probabilmente una via di Firenze contemporanea tra abitazioni povere e palazzi a bugnato. Il realismo di Masaccio è presente anche in “Battesimo dei neofiti” caratterizzata da una scenografia studiata con monti disposti in prospettiva che incombono sulle figure umane caratterizzate nella loro anatomia e nella loro emotività. I nudi di Masaccio sono ricchi di naturalismo. POLITTICO DI PISA: commissionato da ser Giuliano degli Scarsi per la sua cappella dedicata ai santi Giuliano e Nicola. È l’unica opera riconosciuta a Masaccio da documenti. Il Polittico ci è giunto smembrato a causa di antiche dispersioni. La pala era ancora di formato gotico e con fondo dorato (per volontà del committente) ma la scena rappresentata era unificata in un solo spazio. John Shearman ipotizzò la ricostruzione del polittico immaginando i santi laterali perduti (Pietro, Giovanni Battista, Giuliano, Nicola) come figure disposte su piani differenti rispetto alla Madonna col Bambino centrale. Alla base del polittico vi era la predella con cinque scene che alludevano alla figura sovrastante in corrispondenza. Al centro vi era l’Adorazione dei Magi: ambientazione montuosa spoglia, aureole in scorcio, cielo atmosferico, disposizione studiata delle figure nello spazio, salda concezione dello spazio, unica allusione al lusso incarnata dalla sedia della Vergine che ricorda una sella curule. La scena centrale del Polittico, della Madonna col Bambino e angeli è oggi conservata alla National Gallery di Londra: ponendola a confronto con il medesimo soggetto realizzato da Gentile da Fabriano le differenze sono lampanti soprattutto nella resa della terza dimensione. Masaccio inserisce lateralmente degli angeli per fare riferimento alle quinte della composizione. La vergine indossa un mantello panneggiato che dà volumetria alla figura e il Bambino ricorda un piccolo Ercole. Colpisce l’utilizzo di una luce molto forte che crea contrasto con le parti in ombra e l’uso del trono in pietra (non più gotico). Il vertice del Polittico doveva essere occupato dalla Crocifissione conservata a Capodimonte: Masaccio vi palesa la terza dimensione attraverso le braccia della Maddalena che si allargano nell’esprimere il dolore e tramite la scelta di rappresentare un Cristo senza collo (la Crocifissione doveva essere osservata dal basso per cui attraverso questa raffigurazione il Cristo appariva più realistico). TRINITA’ DI SANTA MARIA NOVELLA: Masaccio si servirà della prospettiva per realizzare un’architettura illusionistica su una parete che potesse alludere ad un’intera cappella. La struttura architettonica ricorda un arco trionfale all’Antica all’interno del quale sono raffigurati il Figlio sulla croce sovrastato dal Padre, lo Spirito Santo e ai piedi della croce la Vergine e San Giovanni. Le altre due figure sono Berto di Bartolomeo e la moglie Sandra colti nell’atto della preghiera. Sotto di loro doveva trovarsi la mensa che conferiva alla raffigurazione il senso di una pala d’altare di una cappella funebre. Sotto l’altare vi era uno scheletro che alludeva a quello di Adamo e proclamava che la passione, morte e resurrezione di Cristo avevano sconfitto la morte di ogni uomo. L’iscrizione recitava “io fu già quel che voi siete e quel ch’i son voi ancor sarete” alludendo alla morte fisica che domina l’esperienza quotidiana. Masaccio rompe con la tradizione di raffigurare i committenti e i devoti sottodimensionati rispetto alla divinità: per lui era necessario sottostare alle ragioni della realtà e della prospettiva. L’architettura della cappella ricorda Brunelleschi per la ripresa del linguaggio antico: paraste scanalate, capitelli ionici, arco a tutto sesto, volta a botte. Con quest’opera Masaccio abbandonerà Firenze per trasferirsi a Roma. Sulla scia di Masaccio:  Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, protagonista della pittura senese del primo Quattrocento. Realizzò un polittico per l’Arte della Lana di Siena, ad oggi smembrato: nel frammento della predella con il “Sant’Antonio battuto dai diavoli” compare un cielo atmosferico mentre i tre demoni si dispongono a semicerchio per alludere ad un forte senso spaziale. Le figure sono sottili e rimandano a elementi gotici.  Beato Angelico, Guido di Pietro all’anagrafe, definito “angelico e vezzoso” dall’umanista Cristoforo Landino per la sua formazione che proveniva dal Gotico internazionale; verrà definito devoto poiché era un frate domenicano e molte volte verrà chiamato a lavorare per le chiese del suo ordine. Nel 1429 realizzerà un trittico per il convento femminile domenicano di San Pietro Martire a Firenze: analogie con Masaccio per il fondo dorato, la carpenteria gotica e la scelta di rappresentare uno spazio unificato. La composizione è la stessa: al centro la Vergine e ai lati i quattro santi tre dei qual con la veste bianca e il mantello nero dei Domenicani. Una delle cifre stilistiche principali di Beato Angelico sarà il pavimento in marmi screziati che rivedremo spesso nella sua attività.  Filippo Lippi: appartenente all’ordine carmelitano nel convento fiorentino del Carmine. Prese i voti prima che Masaccio lavorasse alla Cappella Brancacci: fu uno dei maggiori seguaci di Masaccio proprio perché entrò subito a contatto con gli affreschi del ciclo. Nel 1430 realizzò “Madonna dell’umiltà e santi”, pala di piccole dimensioni in cui rinuncia alla ridondanza di fiori tipica del tema e all’influsso gotico che caratterizzava il tema per adottare un tipo di stile masaccesco. Il fondo è azzurro, le figure sono solide (il mantello della Vergine cala a terra con pesantezza) e le acconciature e i volti dei fanciulli rimandano alle sculture di Luca della Robbia.  Paolo Doni, passato alla storia poi come Paolo Uccello, per le decorazioni di pitture animali nella propria casa. Avviò la sua attività nel cantiere ghibertiano della Porta Nord e poi soggiornò a Venezia. Nel 1436 realizzò “Monumento equestre di Giovanni Acuto” affrescato su una parete del Duomo di Firenze per rendere omaggio ad un condottiero inglese, John Hawkwood, servitore della Repubblica fiorentina. Riprendendo l’illusionismo della Trinità di Masaccio, simulò con la pittura un complesso scultoreo realizzando una tomba con grande resa spaziale. Nel 1438 realizzò per Leonardo Bartolini Salimbeni tre grandi tavole che raffiguravano la Battaglia di san Romano tra fiorentini e senesi durante la Guerra di Lucca: i tre pannelli ad oggi sono disposti in musei diversi e rappresentano: “Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini”, “il Disarcionamento del condottiero senese Bernardino della Carda” e “Michele Attendolo guida i Fiorentini alla vittoria”. In questi pannelli si nota un forte interesse per gli scorci difficili, le geometrie volumetriche delle figure e dei mazzocchi (copricapo). Se si guardano le lance si capisce come Paolo Uccello abbia studiato la composizione in maniera impeccabile. Nel paesaggio evoca delle architetture gotiche: in un primo momento le tavole dovevano essere completate da cuspidi e lamine d’argento sulle armature. PITTURA DI LUCE Dopo la morte di Masaccio si venne a creare una nuova generazione di pittori che fondavano la loro attività sul rigore prospettico e un cromatismo vivace e luminoso. Questa generazione ebbe impulso da Domenico Veneziano a Firenze alla fine degli anni 30 e venne denominata “Pittura di luce”:  prospettiva;  composizione essenziale e lineare;  narrazione ordinata della storia;  utilizzo di colori chiari e luminosi. Domenico Veneziano: autore de “Adorazione dei Magi” caratterizzata da elementi tardogotici (ricchezza degli abiti orientali, prato fiorito, raffigurazione di animali). Veneziano reinterpreta un soggetto che Gentile aveva trattato in maniera sontuosa e Masaccio in maniera rigorosa: scena affollata resa con proporzioni precise e tridimensionalità e presenza del cielo azzurro che illumina la campagna. Si pensa che questo tondo fosse destinato a Piero il Gottoso, primogenito di Cosimo. Pala della chiesa di Santa Lucia de Magnoli a Firenze: la tavola con la Madonna col Bambino e i Santi si conserva agli Uffizi mentre le storie della predella sono state smembrate. Nel dipinto agli Uffizi riconosciamo una serie di elementi innovativi: la pala d’altare è quadrata e rinuncia a cuspidi e pinnacoli; i protagonisti si definiscono in uno spazio reso tramite la geometria e il rigore prospettico; la luce fa risaltare i contorni dei personaggi e i panneggi. L’architettura è molto lontana da Brunelleschi: gli archi sono gotici e le campate non hanno identiche dimensioni in lunghezza e altezza. Ciò che colpisce è la policromia: sono usati colori chiari. Nel 1439 Veneziano iniziò il ciclo di Storie della Vergine per la chiesa fiorentina di Sant’Egidio: il ciclo è oggi perduto ma sappiamo che rappresentò una sorta di palestra per la generazione dei pittori di luce. Lo iniziò insieme a Piero della Francesca e fu terminato da Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti. Andrea del Castagno: si distinse per il carattere fiero ed energico che diede ai suoi personaggi. Negli anni Quaranta realizzò gli affreschi sulla parete del cenacolo del monastero delle Camaldolesi di Sant’Apollonia a Firenze. Il tema è quello dell’”Ultima Cena”: il pittore ambientò la scena in un edificio all’antica con un effetto prospettico esasperato dalle linee del pavimento, del soffitto e del tetto che convergono verso il centro dell’architettura. La sala è sfarzosa e ricorda la ricchezza degli imperatori romani (anche per la presenza delle arpie che sono scolpite ai lati delle sedute). Giuda si distingue sul lato anteriore della mensa con il manto che si raggruma come fosse bagnato. La luce è molto intensa. Filippo Lippi: il linguaggio pacato di Luca della Robbia trova un preciso parallelo in pittura con Filippo Lippi e Domenico di Bartolo. “Trittico con la Madonna col Bambino, quattro angeli, il donatore, san Giovanni e san Giorgio” con fondo dorato ma carpenteria sobria lontana dal gotico, al centro ospita la Madonna sovrastata da un timpano all’antica decorato con lo stemma del committente posizionato in abisso e di profilo ai piedi della Vergine. Le figure sono corpulente e paffute. La Madonna è sospesa su un tappeto di nuvole e non a terra come nell’iconografia della “Madonna dell’Umiltà” rappresentata da Domenico di Bartolo su di una tavola di formato rettangolare con cornice gotica: la scena conserva il prato fiorito ma è tutto centrata sulla figura solida di Maria con il manto arrotolato sul proprio corpo per rendere le forme di quest’ultimo. Il Bambino nudo con l’aureola in scorcio simboleggia una buona conoscenza di Masaccio e le figure circostanti riprendono la serenità delle sculture di Luca della Robbia. Sagrestia Vecchia di San Lorenzo Prima di Cosimo, suo padre Giovanni avviò un cantiere importante nella città nel 1420 ristrutturando la chiesa di San Lorenzo e affidando il progetto a Brunelleschi per la costruzione di un mausoleo mediceo. Viene denominata Sagrestia Vecchia per distinguerla da quella Nuova che verrà realizzata da Michelangelo: è uno spazio cubico caratterizzato da un colore neutro e scandito da elementi architettonici classicheggianti in pietra serena (colore grigio) e su ogni lato vi erano lunette sopra le quali vi era una cupola con quattro pennacchi. Al centro vi era la tomba di Giovanni de Medici. L’altare era posto in uno spazio grande identificato come scarsella dove risaltavano rilievi colorati realizzati da Donatello per gli arconi, pennacchi e sovrapporta (Storie di San Giovanni Evangelista). Cappella Pazzi Dopo la Sagrestia Vecchia, Brunelleschi fu l’autore anche della cappella nel chiostro di Santa Croce denominata Cappella Pazzi in virtù del committente, Andrea Pazzi, il quale aveva deciso di partecipare alla ricostruzione di alcuni ambienti di Santa Croce distrutti da un incendio. L’edificio è a pianta centrale impostato su un’aula cubica con cupola e scarsella a modello della Sagrestia ma con grandi differenze nella decorazione: ai rilievi donatelliani della Sagrestia, qui vennero preferite le sculture in terracotta invetriata di Luca della Robbia. Sia Brunelleschi che Pazzi morirono molto prima di vedere finita la cappella: il cantiere procedette a rilento dopo la loro morte e l’edificio verrà terminato solamente prima che la famiglia Pazzi attuerà la congiura contro i Medici. Non si sa se la facciata caratterizzata da porticato all’antica con colonne corinzie a sostegno di una trabeazione sia stato frutto di un progetto di Brunelleschi. Porta del Paradiso Nel 1425 Ghiberti aveva ottenuto il compito di realizzare dall’Arte di Calimala, l’ultima porta del battistero di fronte all’ingresso del Duomo (che Michelangelo avrebbe poi definito Porta del Paradiso). L’impresa fu molto lunga: la porta fu installata solamente negli anni 50 con l’aiuto di numerosi personaggi, tra cui Vittore Ghiberti. I due battenti erano lontani da qualsiasi riferimento di carattere gotico: vi erano dieci grandi scene con storie dell’AT e una cornice con rilievi di personaggi biblici. Un’opera pubblica di questa portata rappresentava una perfetta sintesi tra forma e contenuto: la bellezza non era priva di significati di valore. Ghiberti rimarrà fedele per certi aspetti alle sottigliezze gotiche della Fonte battesimale di Siena: le figure erano più volumetriche e la prospettiva gli era ancora oscura mentre lo stiacciato venne adottato per dettagli e non per alludere alla tridimensionalità. Nella prima formella racconta la storia dei progenitori: a sinistra la creazione di Adamo, al centro quella di Eva e a destra la rappresentazione del peccato originale. In un unico fondale rappresenta la storia dei progenitori e la loro cacciata dal Paradiso in secondo piano sulla destra. La materia è preziosissima e levigata come le robbiane, le figure sono più belle che drammatiche e il paesaggio è lussureggiante e dettagliato. Ghiberti userà l’espediente di raccontare più episodi nella stessa formella: nel caso della “Storia di Giuseppe ebreo” articola più momenti della storia uniti dal filo narrativo e non dalla razionalità prospettica. Giuseppe, figlio preferito di Giacobbe fu venduto dai fratelli invidiosi e una volta in Egitto fece fortuna interpretando i sogni del faraone: quando i fratelli durante la carestia si recarono in Egitto per reperire gran, Giuseppe si fece riconoscere e li perdonò. La formella racchiude sette episodi intorno a una loggia circolare poco verosimile nella concezione spaziale. Le figure sono dettagliate ed eleganti e le acconciature sono rese in maniera calligrafica. Donatello Viene associato a Ghiberti nella grazia per la scultura del David in bronzo al Bargello di Firenze: un adolescente con capelli lunghi, nudo e con cappello e calzari mentre tiene nella mano sinistra il sasso con cui ha battuto Golia. Quest’ultimo viene raffigurato morto sotto il piede del David. Lo sguardo sembra nascosto dal cappello e rivolto verso il basso. Posa ancheggiante con la mano sinistra poggiata sul fianco, esprime grande eleganza e a differenza di Ghiberti è una statua a tutto tondo, visibile da qualsiasi punto di vista. Fu realizzato per una sala del palazzo di Cosimo de Medici in Via Larga. Un altro soggetto biblico affidato da Cosimo a Donatello fu la Giuditta in atto di decapitare Oloferne: opera realizzata nel 1464 poco prima del suo decesso e dopo il soggiorno padovano in cui lo scultore realizzò una serie di bronzi monumentali. Gruppo scultoreo a tutto tondo caratterizzato da grande gestualità e forza. Sul basamento sono evocate scene bacchiche in riferimento al fatto che Giuditta farà ubriacare Oloferne per poi ammazzarlo. Un tempo vi era una scritta in latino con il nome del committente e che spiegava la funzione civile dell’opera (si ricordava come Pietro dedicasse la statua femminile all’unione di libertà e fortezza): Giuditta uccisa il comandante degli Assiri Oloferne per evitare che il popolo potesse occupare la città di Betulia per questo motivo il gruppo scultoreo rappresentava la virtù civile e l’amore per la patria. Originariamente Giuditta doveva essere posta nel giardino di Palazzo Medici mentre il David nel cortile realizzato da Michelozzo. PALAZZO MEDICI Michelozzo di Bartolomeo si formò nel cantiere ghibertiano e fu socio di Donatello e alla morte di Brunelleschi ottenne l’incarico di capomaestro del Duomo. Divenne l’architetto di fiducia di Cosimo de Medici che gli affidò il compito di realizzare la sua nuova dimora, Palazzo Medici. Costruito tra 1444 e 1460, rappresentava un edificio gentilizio rinascimentale caratterizzato da sobrietà e magnificenza: doveva rappresentare la ricchezza e il potere del signore evitando un fasto eccessivo che non si sposava con gli ideali repubblicani. Inizialmente la struttura era cubica intorno al cortile da cui si accedeva al giardino e agli appartamenti; la facciata subirà modifiche in età moderna (finestre del 500 attribuite a Michelangelo; prolungamento sulla strada risale alla famiglia Riccardi nel Seicento). Michelozzo realizzò le bifore con archi a tutto sesto e l’alternanza nei tre ordini di un bugnato rustico. Dal 1437 al 1443 Michelozzo si occupò della ristrutturazione del Convento di San Marco. Il chiostro e la biblioteca scanditi da moduli di campate e archi a tutto sesto dimostra una forte dipendenza di Michelozzo da Brunelleschi. Questo convento fu particolarmente significativo per Beato Angelico il quale affrescò le celle e le parti riservate alla comunità. La bottega dell’Angelico realizzò circa 40 affreschi. “Annunciazione” l’Angelico stipula un dialogo con la severità brunelleschiana dell’architettura di Michelozzo (spazio misurato e prospettico del porticato). Non vi sono fasti o eccessi decorativi, le due figure sono solide e si allude ad un prato fiorito tipico dell’hortus conclusus (lontano dal Gotico che avrebbe lasciato spazio all’esuberanza della natura e non la avrebbe delimitata). “Pala di San Marco” per l’altare maggiore della chiesa di San Marco. Il formato del dipinto è quadrato come quello che si affermerà per le grandi pale rinascimentali. I santi che originariamente si collocavano negli scomparti laterali, in quest’opera sono in uno spazio unico attorno alla Vergine. In primo piano vi sono le figure di Cosma e Damiano, patroni della famiglia Medici in virtù della loro professione di medici. La predella ad oggi è smembrata e presentava la scenetta della Guarigione del diacono Giustiniano che attestava le capacità miracolose dei due santi in un ambiente domestico prospettico e illuminato da una luce che ha origine dalla porta e della finestra. PITTURA FIAMMINGA Deriva dall’ossessione per i più piccoli dettagli della realtà che abbiamo già visto nel mondo gotico dei fratelli Limbourg e che con Jan van Eyck assumerà una tendenza meno fantastica: grazie all’uso della luce e della pittura ad olio diviene il mezzo per descrivere la quotidianità. Contesto storico La Guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra terminerà con la sconfitta dell’esercito inglese il cui dominio si riduceva solamente al porto di Calais. La Francia grazie a Carlo VII riuscirà a recuperare i territori sotto il dominio inglese e diede il via alla creazione dello Stato nazionale a partire dal 1461. Carlo VII fu l’artefice di una corte in cui prosperarono le arti avendo al suo servizio uno dei pittori francesi più importanti del Quattrocento, Jean Fouquet. I confini della Francia del Quattrocento erano molto diversi da quelli attuali: contea della Provenza in mano a Renato d’Angiò e ducato di Borgogna. Quest’ultimo rappresentò uno Stato cuscinetto tra la Francia e l’Impero germanico e grazie a Filippo l’Ardito incluse nel regno i territori delle Fiandre e del’Hainaut. I duchi di Borgogna parteggiarono durante la guerra per gli inglesi e per i francesi in base ai loro interessi: con il trattato di Arras il duca Filippo il Buono mise fine alle ostilità con Carlo VII divenendo suo alleato. Con Filippo l’Ardito il centro artistico principale della Borgogna fu Digione mentre con Filippo il Buono si iniziarono ad apprezzare le grandi novità della pittura fiamminga con Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Il Ducato era un luogo strategico grazie ai mercanti fiamminghi che portarono alla diffusione di un nuovo linguaggio pittorico. Nel Quattrocento tra l’Italia e le Fiandre vi furono rapporti molto stretti che superarono le grandi distanze geografiche: Cosimo de Medici ebbe grandi interessi in terra fiamminga e nel 1439 aprì una filiale della sua banca a Bruges che divenne principale centro commerciale di una regione che fece delle attività manifatturiere e mercantili il proprio successo. I pionieri della nuova pittura nata tra la Francia nordorientale e i Paesi Bassi furono van Eyck e van der Weyden i quali introdussero uno sguardo più attento ai minimi particolari della realtà quotidiana. Laddove a Firenze le novità corrispondevano ad un maggiore interesse verso il rigore matematico prospettico, nelle Fiandre le novità corrispondevano ad una nuova luce e una nuova tecnica pittorica (pittura a olio). Vi furono molti scambi tra le pittura fiamminga e la pittura italiana: il primo riflesso che ebbe sulla cultura italiana fu in relazione a Filippo Lippi. Il nuovo linguaggio fiammingo sottintendeva sicuramente un gusto mercantile e borghese ma ebbe successo anche sul fronte delle corporazioni e degli ordini mendicanti. FILIPPO LIPPI “Madonna di Tarquinia” tavola proveniente dalla chiesa di Santa Maria di Valverde; si crede che in origine fosse ubicata nel palazzo di Giovanni Vitelleschi, prelato di Tarquinia che fu arcivescovo di Firenze e cardinale. Cornice ancora gotica, linguaggio pittorico rinascimentale: gruppo della Vergine col Figlio molto solido nella struttura delle figure. Il Bambino sembra fare riferimento agli angeli dei rilievi delle cantorie di Donatello e di Luca della Robbia; l’ambientazione è senza precedenti e ritrae la prospettiva di un interno spazio domestico. La camera da letto è illuminata da una luce tenue che proviene dalla finestra. Grande attenzione per i dettagli più piccoli (libro). Questo è un dipinto particolarmente ispirato dalle novità della pittura fiamminga sia per l’illuminazione che per l’ambientazione. “Annunciazione” pala realizzata per l’altare della famiglia Martelli nella chiesa fiorentina di san Lorenzo. Lippi seguì la tradizione che si stava diffondendo in quel momento di realizzare pale di formato quadrato. L’episodio è narrato come fosse al di là di un porticato all’antica aperto sul fondo per mostrare la fuga prospettica di un giardino. A destra Gabriele è inginocchiato di fronte a Maria mentre a sinistra vi era una FRANCIA Dal verismo eyckiano si svilupperanno delle personalità emergenti in Francia: 1. Barthelemy d’Eyck Maestro di fiducia di Renato d’Angiò che seguì a Napoli e in Provenza, fu pittore e miniatore. Nel 1443 realizzò un Trittico per la cattedrale di Aix-en-Provence oggi smembrato tra la Chiesa ella Maddalena e Rotterdam, Amsterdam e Bruxelles. Il committente fu Pierre Corpici, mercante. Al centro vi era la rappresentazione dell’Annunciazione in un edificio gotico che richiamava l’estetica di una cattedrale nordica; i finestroni facevano emergere una luce tipicamente fiamminga che definiva gli spazi e le ombre dei profeti Isaia e Geremia nelle nicchie al di sopra dei quali furono rappresentati degli scaffali colmi di libri e oggetti vari (cifra della pittura eyckiana e della pittura fiamminga che si diffonde in Europa > Colantonio riprende questa iconografia nella rappresentazione di San Girolamo > Barthelemy doveva aver soggiornato a Napoli al seguito di Renato d’Angiò e sarebbe entrato a contatto con Colantonio). Con il ritorno in Provenza di Barthelemy e Renato d’Angiò si venne a creare una scuola che ebbe il suo principale esponente in Enguerrand Quarton: “Incoronazione della Vergine” commissionata nel 1453 per la Certosa di Villeneuve-les-Avignon. La tavola garantisce una gerarchia che permette ai personaggi più importanti di sovrastare i secondari della corte celeste. Assenza della prospettiva e funzione della luce zenitale di uniformare la composizione e di definire i dettagli della veste della Vergine e le minuzie del paesaggio a volo d’uccello. Il paesaggio non è realistico: il crocifisso si staglia al centro tra Roma e Gerusalemme annientando la distanza geografica tra le due città e rendendole entità simboliche. Il paesaggio “Pesca Miracolosa” dipinto da Konrad Witz per la Cattedrale di Ginevra e la sua attività di sperimentazione paesaggistica dovettero essere a monte delle sperimentazioni di Quarton: le due esperienze sarebbero poi giunte in Italia al servizio di Antonello da Messina. Il dipinto di Witz è caratterizzato da una luce alpina che rasserena la scena paesaggistica e le acque mentre le figure sono descritte in maniera precisa. 2. Jean Fouquet Principale pittore di corte dei re di Francia Carlo VII e Luigi XI. Seppe confrontarsi con le novità prospettiche che provenivano da Firenze e godette di grande fama nella Penisola per la sua capacità di ritrarre del naturale (ne parla Filarete nel suo Trattato). Fouquet soggiornò in Italia nel 1444 circa per realizzare un dipinto di Eugenio IV: probabilmente soggiornò anche a Firenze e ammirò i lavori degli artisti più moderni. Fouquet dipinse per la morte della moglie di Etienne un dittico oggi smembrato: dalla cornice del dittico proveniva un tondo oggi al Louvre che reca il mezzobusto del pittore autoritratto di tra quarti su fondo scuro. Le ante del dittico richiamano le novità italiane nello sfondo dell’anta sinistra laddove la parete è costruita in maniera prospettica in diagonale ed è decorata da motivi geometrici e marmi preziosi (influenza di Alberti), mentre la definizione della luce e delle teste rimandano a Beato Angelico. A sinistra Etienne è presentato al suo santo eponimo, Stefano (si riconosce per il sasso, attributo del suo martirio) mentre a destra vi era la rappresentazione della Madonna col Bambino circondata da cherubini e serafini. Maria ha una vita sottilissima e i seni prorompenti: il suo corpo è tridimensionale, solido e fa pensare alla pittura di Piero della Francesca. L’interpretazione della Madonna così erotica derivava dal fatto che Fouquet ha ritratto nella Vergine la bellezza di Agnes Sorel, giovane amante del re Carlo VII. Contesto storico Verso la metà del Quattrocento il nuovo linguaggio rinascimentale si diffonde da Firenze repubblicana agli altri Stati italiani retti da signori feudali appoggiati dalla Chiesa o dall’Impero.  Milano: Francesco Sforza per molto tempo era stato al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti, il quale morì senza eredi maschi. Nel 1450 Francesco divenne signore di Milano portando la capitale lombarda ad aprirsi al Rinascimento.  Napoli: la contesa tra Angioini e Aragonesi ebbe soluzione nel 1442 quando la presa della città da parte di Alfonso d’Aragona mise fine al regno di Renato d’Angiò. Alfonso costruì un dominio che durò fino al tramonto del secolo unendo sia le doti militari che la passione per l’arte. Alla sua corte ebbe molto successo la pittura fiamminga; offrì protezione a Lorenzo VallaValla, il quale dimostrò la falsità della donazione di Costantino (documento su cui la Chiesa fondava il proprio potere).  Ferrara: gli umanisti fecero prosperare le corti italiane poiché i signori facevano a gara per ospitare i migliori uomini di lettere. Nel 1430 Niccolò III d’Este ospitò Guarino da Verona grande esperto di letteratura latina e greca il quale si prese cura dell’educazione di Lionello e rimase a Ferrara fino alla morte.  Mantova: Gianfrancesco Gonzaga ospitò Vittorino da Feltre a Mantova come precettore per i propri figli (aprì una scuola nota come Ca’ Gioiosa dove si formò Federico da Montefeltro).  Rimini: nemico di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, fu Sigismondo Malatesta appassionato della letteratura latina e greca che accolse alla sua corte umanisti come Basinio da Parma e Roberto Valturio coinvolti nella programmazione iconografica del tempio Malatestiano.  Roma: iniziò a diventare una vera e propria sede del Rinascimento laddove l’amore per le lettere antiche coinvolse anche gli uomini di Chiesa. Gli umanisti principali furono Niccolò V e Enea Silvio Piccolomini, nominato Pio II il quale diede il via ad un progetto di città ideale, Pienza. Sul piano politico bisogna ricordare che Niccolò V oltre ad essere una grande figura appassionata d’arte, incoronò Federico III imperatore per portare a termine la Pace di Lodi. Durante il suo pontificato Costantinopoli fu conquistata dai Turchi decretando la fine dell’Impero d’Oriente.  Venezia: nonostante l’avanzata dei Turchi, il Quattrocento fu un secolo di sviluppo per la Repubblica di Venezia. I suoi confini giunsero a comprendere il Veneto, Friuli, Lombardia, Bergamo fino a Lodi. Era capitale di uno stato multiculturale e multiterritoriale che fondava la propria ricchezza sulle relazioni con l’Oriente. La città di Padova era veneziana: sede di una prestigiosa università laddove si formarono moltissimi umanisti (Donatello). Nel Quattrocento in Italia il paesaggio inizia ad essere apprezzato per i suoi valori estetici: Pio II nei suoi Commentari descriverà la veduta del monte Amiata al confine tra Toscana e Lazio che osservava dalla loggia del palazzo di Pienza. Paesaggi come questo si trovano anche in altre parti d’Italia come per le colline del Montefeltro dipinte da Piero della Francesca. A Napoli nel Museo della Certosa di San Martino si conserva la Tavola Strozzi, una delle vedute più celebri del Quattrocento. Proviene dalla famiglia Strozzi di Firenze che fece affari con la corte aragonese napoletana. La tavola raffigura una veduta di Napoli affacciata sul mare dove si riconosce la flotta aragonese in rientro dalla Battaglia di Ischia. Siamo di fronte ad un esempio di veduta molto dettagliata e realistica. Salta all’occhio la presenza delle mura che cingevano la città all’epoca e che oggi non sono più presenti: il fenomeno di espansione ha riguardato non solo Napoli ma tutte le principali città d’Italia a partire dall’Ottocento. Osservando un dipinto di Giovanni Stradano per la Sala di Clemente VII del Palazzo Vecchio di Firenze durante l’assedio delle truppe di Carlo V, la città è arroccata dietro le mura trecentesche. Venezia invece è estranea a questo fenomeno: la laguna è isolata oggi come allora (cartografia di Jacopo de Barbari). Con l’uso delle armi da fuoco le città avevano bisogno di fortificazioni diverse: due dei principali architetti e ingegneri militari, Giuliano da Sangallo e Francesco di Giorgio Martini iniziarono ad escogitare nuovi sistemi difensivi sostituendo alle torri medievali dei bastioni tozzi a pianta circolare o poligonale. Con la caduta della Repubblica, Cosimo I migliorò le difese del proprio Stato fondando una nuova città-fortezza nota come Terra del Sole costruita su pianta rettangolare dotata di bastioni agli angoli. Una pianta più complessa è presente nella città di Palmanova, a forma di stella, voluta dalla Repubblica veneziana. Con una logica molto diversa fu costruita Loreto, una città su cui, secondo la tradizione, sarebbe stata posata la casa di Nazareth in cui Maria ricevette l’annuncio della nascita di Gesù. Attorno a questa reliquia si costruisce una città destinata ad ospitare i pellegrini nella parte più alta e antica dominata dal santuario che accoglie la Santa Casa. Il progetto del santuario fu affidato a Bramante da Giulio II: Loreto divenne uno dei maggiori cantieri d’Italia. La Basilica era caratterizzata da bastioni e da una cupola sul modello di Brunelleschi e progettata da Giuliano da Sangallo. Nel Cinquecento la Santa Casa all’interno della chiesa fu rivestita di marmi preziosi scolpiti da Andrea Sansovino. Fuori città sorsero dei santuari per rendere onore a immagini miracolose tendenzialmente mariane: poco lontano da Cortona sorse la chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio, ad opera di Francesco Martini, deve il suo nome alla calce viva; a Montepulciano sorse il tempio di San Biagio per ospitare un affresco del Trecento (si dice che la Madonna nell’affresco mosse gli occhi di fronte a tre devoti). Una situazione analoga vi fu in Umbria a Todi laddove fu costruita la chiesa di Santa Maria della Consolazione per ospitare una vecchia immagine mariana che si diceva facesse miracoli. L’architettura si ispirava al progetto di Bramante per la nuova chiesa di San Pietro. ROMA: nNel 1443 Eugenio IV chiudeva il soggiorno fiorentino e si recava a Roma, una città che aveva perso il primato artistico che aveva durante il pontificato di Bonifacio VIII. Già con Martino V si tentò di attirare a Roma una serie di artisti avviando dei cantieri tra gli anni Venti e Trenta (Masolino, Masaccio, Pisanello). Roma non era molto popolata, le basiliche paleocristiane e medievali convivevano con i frammenti dell’antichità (immagine di Roma da un affresco di Filippino Lippi nella Cappella Carafa presso Santa Maria Sopra Minerva: immagine da cartolina con uno scorcio dell’abside di San Giovanni in Laterano preceduta da un monumento equestre riconoscibile nel Marco Aurelio traslato poi in Campidoglio). FILARETE Si formò a Firenze con Ghiberti per poi spostarsi a Roma e realizzare su richiesta di Eugenio IV i due battenti che furono trasferiti nella nuova Basilica di San Pietro e che recano le immagini di Cristo, della Vergine e dei Santi Paolo e Pietro. Filarete “amante delle virtù” è il significato del suo nome in greco. I suoi rilievi appaiono privi di profondità, le scene appaiono affollate all’inverosimile: la fantasia e la decorazione hanno il sopravvento sul rigore della razionalità prospettica. BEATO ANGELICO Nel 1445 Filarete inaugura la Porta vaticana mentre Eugenio IV chiama a Roma Beato Angelico che aveva precedentemente conosciuto a Firenze. L’unica opera superstite dell’attività romana si deve ad una committenza di Niccolò V ossia il ciclo della Cappella Niccolina che ritraeva “Storie dei Santi Stefano e Lorenzo” a cui partecipò anche l’allievo Benozzo Gozzoli. Scena “Lorenzo è consacrato diacono da Sisto II” ritrae uno dei momenti ufficiali di un rituale liturgico in cui il pontefice circondato dai suoi dignitari compie un rito di consacrazione entro lo spazio di una chiesa che si erge su colonne che reggono a loro volta una parete architravate (elemento tipico dell’architettura paleocristiana). Scena “Sisto II affida a Lorenzo i tesori della Chiesa” divisa in una duplice sequenza: da un lato i soldati che scardinano il portale, dall’altro il papa che cerca di mettere in salvo le ricchezze della Chiesa. Scena luministica che allude all’influenza di Jean Foquet. Questa breve attività fiorentina anticiperà la sua morte nel 1455 (sepolto a Santa Maria Sopra Minerva). LEON BATTISTA ALBERTI mentre il tema cristiano viene ripreso solamente nella lunetta soprastante con la raffigurazione della Madonna col Bambino. Monumento Marsuppini di Desiderio: successore di Bruni, Marsuppini mantenne il proprio incarico fino allaa sua morte. Il compito di costruire una tomba gemella vicina a quella del suo predecessore fu affidato a Desiderio uno scultore molto dotato e vicino alle forme classicheggianti di Rossellino ma con una maggiore attenzione per i dettagli e l’espressività. Alle aquile poste in posizione araldica del catafalco di Rossellino, Desiderio sostituirà una coppia di arpie con piumaggio mosso e naturalistico. Vasari ci parla di Desiderio come un grande imitatore della maniera di Donatello: capace di scolpire teste di grande raffinatezza e leggiadria. Ad esempio, “Bambino sorridente” destinato in origine a qualche casa fiorentina, esprime perfettamente la capacità di rendere la grazia e la spensieratezza del fanciullo (prova di imitazione della natura). Leon Battista Alberti in questi anni iniziò a scrivere un trattato sulla scultura per chiudere il cerchio sulle tematiche artistiche: dopo il “De pictura” e il “De re aedificatoria” scriverà il “De statua” in cui distingue la scultura in per via di porre (modellare una materia plasmabile) e per via di levare (scavare la pietra). Il fine della scultura era l’imitazione della natura: in un’ottica albertiana la statua doveva essere a tutto tondo come un colosso antico, studiata nelle proporzioni e nell’anatomia. URBINO PALAZZO DUCALE: Urbino come area di particolare rilievo strategico ma non particolarmente ricca. Il suo signore fu uno dei principali condottieri del tempo, Federico da Montefeltro, erede della dinastia dei conti di Urbino e del Montefeltro che nel 1474 ebbe da papa Sisto IV il titolo di duca di Urbino. Rese la città una corte di guerrieri e personale amministrativo, ma anche di uomini di lettere e artisti: la corte di Urbino accolse uomini e linguaggi provenienti dalle più disparate nazioni. Giungendo a Urbino da Sansepolcro ci si ritrovava dinanzi al palazzo “più bello che in tutta Italia si ritrovi” come sosteneva Baldassarre Castiglione, il Palazzo Ducale. Nacque in seguito all’accorpamento di una serie di edifici preesistenti nel centro della città a partire dal 1454. Il palazzo presenta una “Facciata di torricini” dove le torri eleganti e allungate fiancheggiano un prospetto slanciato al centro dal sovrapporsi di quattro logge. Le logge in marmo nella parte superiore richiamano l’antichità sia nelle forme che nelle decorazioni. Si pensa che l’ideazione di questo progetto fosse di Alberti. A sovraintendere la costruzione della facciata fu Luciano Laurana architetto nato in Dalmazia che sappiamo essere stato attivo nella Mantova di Ludovico Gonzaga. Ottiene anche l’incarico di realizzare il cortile d’onore attorno al quale è organizzato il Palazzo dove Federico accoglieva i suoi ospiti: il cortile è caratterizzato da una sequenza di quattro lati di loggiati con archi a tutto sesto combinati tramite la soluzione dei pilastri agli angoli. Nella zona attigua alla loggia dei torricini vi è lo studiolo di Federico, una stanza di piccole dimensioni decorata nella parte alta da una serie di “Uomini Illustri” dipinto di Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Il protagonista dello studiolo è il legno: l’arredo è rivestito di una serie di tarsie prospettiche realizzate nella bottega di Giuliano e Benedetto da Maiano. Federico affidò il compito di un ritratto a Piero della Francesca, il quale realizzò il Dittico Montefeltro oggi agli Uffizi, nel quale ritrasse il duca e la moglie Battista Sforza. I due sono rappresentati di profilo e si stagliano su un fondo paesaggistico come se fossero dinanzi ad una finestra del palazzo. Nelle vedute a volo d’uccello risaltano tutti i dettagli attraverso una pittura minuziosa e luminosa ispirata alle novità fiamminghe (pittura a olio). Gli effetti di Eyck sono ottenuti nella resa dei tessuti e nella concretezza delle carni (la donna ha il volto pallido con acconciatura alla moda che lascia alta la fronte e fa risaltare il ricco corredo di gioielli). I pannelli sono dipinti sul retro: Piero ha dipinto un trionfo dei due personaggi accompagnati da figure allegoriche di virtù. Federico e Battista guidano i loro carri celebrando un tema della tradizione (Trionfi di Petrarca). Piero della Francesca nella sua attività urbinate dimostrerà l’influsso della pittura fiamminga nelle proprie opere. Oltre al Dittico, ricordiamo anche “Madonna di Senigallia” dipinto in cui le figure si stagliano a mezzo busto su un’atmosfera ovattata e domestica di un interno rischiarato dai raggi di luce provenienti dalla finestra da un lato, e una nicchia rinascimentale con un paio di mensole su cui poggiano nature morte dall’altro. Piero dipinse per Urbino anche la cosiddetta “Pala Montefeltro” in cui il duca è ritratto di profilo mostrando il lato del volto con l’occhio buono, in ginocchio di fronte alla VergineVergine, la quale reca il Bambino sulle gambe e viene circondata da una corte di santi e di angeli. Il punto di fuga è al centro del volto della Vergine, centro di una rigorosa costruzione prospettica che vede la sua attuazione anche nelle forme architettoniche realizzate. Lo spazio all’antica sembra rifarsi alla tradizione albertiana per le pareti decorate con riquadri di marmi policromi e lesene scanalate. Per quanto riguarda l’uovo di struzzo che pende al di sopra della Vergine troppe volte si sono cercate spiegazioni simboliche: probabilmente Piero ha rappresentato un oggetto di forma sferica per sottolineare l’effetto tridimensionale dell’architettura. Le mani del duca gonfie per la gotta non sono frutto di un’idea di Piero ma probabilmente sono attribuite a Pedro Berruguete. Oltre a queste tendenze di Piero della Francesca verso la pittura fiamminga, il successo di queste influenze ad Urbino si può dimostrare anche tramite le opere di un paio di maestri al servizio del duca:  Giusto di Gand: nel 1474 ha realizzato una grande pala d’altare per la compagnia del Corpus Domini di Urbino che aveva avuto una storia tormentata. In un primo momento Paolo Uccello realizzò la predella, in seguito si affidò l’incarico di realizzare la pala a Piero della Francesca e infine fu chiamato Giusto a dipingere “La comunione degli apostoli”: il momento in cui all’ultima cena tutti hanno abbandonato la tavola e si inginocchiano dinanzi a Cristo che gli offre il sacramento. Oltre al volto del duca Federico non vi sono elementi italiani (irrazionalità della composizione e scenografia). Nella predella di Paolo Uccello vi era in sei episodi la narrazione del “Miracolo dell’ostia profanata”, la storia di un ebreo parigino che oltraggiò il sacramento e fu mandato sul rogo con tutta la famiglia. Questa narrazione permise a Paolo Uccello di realizzare una scatola prospettica sintesi delle sue ricerche e dei suoi interessi artistici.  Pedro Berruguete: tramite i rapporti tra Fiandre e Penisola Iberica, aveva maturato un linguaggio esplicitamente eyckiano. “Federico da Montefeltro e il figlio Guidobaldo”: il duca si è preso un attimo di riposo dalle incombenze quotidiane e siede ancora in armi su di uno scranno per leggere un libro. Dall’altro lato, un fanciullo si appoggia al suo ginocchio in maniera delicata per non recare disturbo. Atmosfera intima e luce soffusa, attenzione ai minimi dettagli e ai bagliori metallici prodotti dall’armatura. FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI In questi anni Federico da Montefeltro accolse a Urbino il senese Francesco di Giorgio Martini, affidandogli il cantiere del Palazzo Ducale e la costruzione di una serie di fortificazioni. Quest’ultimo fu il grande interprete di una nuova architettura militare: dedicò molto spazio nelle sue opere alle fortificazioni e completando le spiegazioni con svariate illustrazioni. o Rocca di Sassocorvaro: costruita dopo che il duca aveva assegnato come feudo il borgo al fidato Ottaviano Ubaldini della Carda. Francesco progettò una fortezza che aveva la pianta a forma di tartaruga (poiché le piante di ispirazione zoomorfa o antropomorfa sembravano opporsi in maniera efficace alle armi da fuoco tramite l’istituzione di murature più possenti e compatte disposte in obliquo).. Questa rocca è una delle invenzioni più celebri di Francesco di Giorgio e giocò un ruolo importante nella salvaguardia del patrimonio durante la Seconda guerra mondiale (Pasquale Rotondi vi raccolse circa 6500 opere). o Rocca di San Leo: Francesco di Giorgio si occuperà dell’ammodernamento delle difese di San Leo piazzaforte ubicata in cima ad uno sperone roccioso al confine con Rimini. Egli ideò una coppia di torrioni molto possenti innalzati sul limitare della rupe. Con l’affermazione dei nuovi progetti albertiani e brunelleschiani si affermò anche un tipo di progettazione ambiziosa che non si limitava solo a realizzare nuove chiese e palazzi ma addirittura la nascita di nuove città fondate su disegni tanto realistici da apparire ideali. Nella Galleria Nazionale di Urbino si conserva un dipinto “Città ideale” in cui vi è la raffigurazione di un edificio a pianta rotonda di gusto antiquario chiusa da una serie di palazzi che danno l’effetto delle quinte di teatro. LA CITTA’ IDEALE DI PIENZA Nel 1458 Enea Silvio Piccolomini, fu eletto papa con il nome di Pio II alludendo al “Pio Enea” di Virgilio. Era un grande uomo di lettere, appassionato alla cultura antica e dall’idea di sottrarre Costantinopoli ai Turchi tramite una crociata dei cristiani. Nei suoi Commentari, opera autobiografica, descrive l’impresa della costruzione tra le colline della val d’Orcia di una nuova città, Pienza. Pio II era originari di un borgo della Toscana meridionale noto come Corsignano nei limiti della Repubblica di Siena: quando divenne papa decise di ricostruire quel villaggio trasformandolo in una città. Il progetto fu affidato a Bernardo Rossellino: il piano urbanistico era basato su una piazza dominata da una Cattedrale e allestita come una sorta di palcoscenico con pianta trapezoidale (espediente per conferire maggiore ampiezza allo spazio). La cattedrale di Pienza sorge al centro della piazza con una facciata in travertino e tripartita da grandi arcate a tutto sesto, sormontata da un timpano con al centro lo stemma del pontefice. La facciata somiglia a quella del Tempio Malatestiano (di ispirazione albertiana). L’interno della chiesa presenta un carattere gotico con volte a crociera sostenute da pilastri. Pio II in ricordo dei suoi soggiorni in terra germanica, richiese espressamente a Rossellino di attenersi al modello delle Hallenkirchen nordiche, le chiese ad aula nelle quali navata centrale e navate laterali hanno la stessa altezza. Pio II nei suoi Commentari descrive il percorso all’interno della cattedrale: dall’ingresso si ammira il tempio con le cappelle e gli altari mentre la parità delle altezze rende il tempio più elegante e luminoso. I finestroni erano studiati per diffondere la luce naturale. Palazzo Piccolomini: a destra della piazza. La facciata deriva dal Palazzo Rucellai di Alberti. Il Palazzo era organizzato attorno ad un cortile ed era destinato ad essere dimora del pontefice nei periodi di vacanza trascorsi a Pienza. Si innalza al fianco della Cattedrale e ad oggi è in ottimo stato di conservazione. L’aspetto più originale della struttura si coglie all’interno: giungendo alla loggia aperta sul giardino pensile si osserva un panorama mozzafiato. Pio II ci parla di questo rapporto con il paesaggio nei suoi Commentari: oltre che spunto per considerazioni morali e spirituali è anche sintomo di puro godimento della natura. Questo palazzo simboleggiava l’emblema del potere della famiglia nella città. Il papa chiese ai migliori pittori del tempo di realizzare non polittici ma tavole quadrate senza pinnacoli gotici: modello progettato da Rossellino e attutato dalla pala di Matteo di Giovanni “Madonna col Bambino e santi” in cui permane solo il fondo oro della tradizione gotica. Nella lunetta in alto vi è la rappresentazione della Flagellazione dove gli aguzzini sono figure dinamiche ed aggressive. La svolta nell’arte senese fu apportata da Donatello, il quale all’età di 70 anni decise di trasferirsi a Siena per realizzare le porte in bronzo della Cattedrale. Quest’opera fallì e nel 1461 ritornò nella propria patria. Lasciò a Siena un “San Giovanni Battista” in bronzo, una statua di crudo vigore nella quale vi è una grande enfasi espressiva che ispirò da Francesco di Giorgio al Vecchietta. Quest’ultimo prenderà spunto proprio dal San Giovanni donatelliano per la realizzazione del “Cristo risorto” in bronzo per la chiesa senese della Santissima Annunziata: anatomie tirate tipiche di Donatello, perizoma aderente e maschera cruda del volto. cornice ad una soluzione prospettica innovativa: Mantegna finge con la pittura una serie di elementi architettonici e una fastosa sequenza di busti di Cesari clipeati (inseriti in un cerchio che richiama un clipeo) come fossero scolpiti. I medaglioni con gli imperatori fanno da contorno all’oculo centrale frutto di una geniale idea di sfondare il centro del soffitto con una rappresentazione del cielo (in riferimento alla volta del Pantheon) e di due spiritelli. È un espediente che ha un suo precedente nell’oculo di Castel Sismondo nel Tempio malatestiano realizzato da Piero della Francesca. “Cristo morto”: la capacità prospettica di Mantegna tocca il suo apice nella rappresentazione del Cristo morto nella Pinacoteca di Brera. Innanzitutto, è innovativa poiché non è dipinta su tavola ma su tela; il soggetto è un Compianto sul Cristo morto ma i dolenti non sono realmente caratterizzati se non per qualche testa piangente. Il corpo di Cristo occupa l’intera scena mostrando gli studi attenti di anatomia e di prospettiva (corpo che si guarda dal basso verso l’alto). In occasione del concilio del 1459 Leon Battista Alberti giunse a Mantova e Ludovico Gonzaga ne approfittò per avviare una collaborazione con lui: si occupò della direzione di due chiese mantovane. o Chiesa di San Sebastiano: nel 1460 Alberti disegnò la chiesa distintasi per il prospetto classico e per la struttura rialzata su una cripta e concepita con pianta centrale mettendo insieme le figure del cerchio e del quadrato. Il risultato fu molto moderno e preannunciava una forte predilezione per gli edifici a croce greca. o Chiesa di Sant’Andrea: cantiere per la ricostruzione in forme moderne di questa chiesa medievale. Questo edificio fu completato solamente nel XVIII secolo con la cupola di Filippo Juvarra. Alberti ne ideò la facciata ispirata ad un tempio antico e un interno a pianta basilicale che ricordava la Basilica di Massenzio (arcate e cappelle laterali). In entrambe le chiese preferì all’uso consueto delle colonne quello delle lesene. FERRARA (TURA/DE ROBERTI/COSSA) Mantegna si recò a Ferrara prima di soggiornare a Mantova, al servizio di Lionello d’Este. Ferrara era un grande centro culturale, capitale di uno Stato che si estendeva tra Modena, Reggio Emilia fino agli Appennini. Fu sede di un grande umanista del tempo: Guarino da Verona, accolto da Niccolò III d’Este padre di Lionello di cui fu anche precettore. Durante gli anni di Lionello la corte estense fu il fulcro di diverse correnti artistiche: da Pisanello a Piero della Francesca a Weyden a Alberti. Alberti reca la sua impronta nella città nella principale piazza ferrarese di fronte alla facciata romanica della Cattedrale dove si innalza un monumento pubblico detto “Arco del cavallo” eretto negli anni 50 del Quattrocento da Niccolò Baroncelli per ospitare un gruppo equestre di Niccolò III d’Este. Baroncelli si occupò del destriero mentre Antonio di Cristoforo si occupò della statua del padre di Lionello: questa scultura evoca subito il Gattamelata donatelliano. Il fatto che sorgesse su un arco rendeva la statua più sofisticata (innalzare sopra ogni mortale come ci dice Plinio). Con la morte di Lionello, Ferrara passò nelle mani del fratello Borso d’Este sotto il quale nacque una vera e propria scuola pittorica ferrarese che ebbe il suo capostipite in Cosmè Tura. “Musa (Calliope?)” era una tavola originariamente destinata allo studiolo della “delizia” Belfiore, una residenza degli Estensi che ad oggi non abbiamo più. Lionello aveva affidato all’umanista Guarino da Verona il compito di elaborare il ciclo iconografico a cui lavorò anche lo stesso Tura. Nella Musa viene evocato lo stile cortese di Pisanello ma anche una buona solidità strutturale e una luce limpida che ricordano lo stile pierfrancescano. Altri riferimenti sono riconoscibili nei colori molto accesi e nella precisione dei dettagli alla pittura fiamminga. Il linguaggio di Cosmè Tura è molto eccentrico e variegato. Palazzo Schifanoia: edificio nato per godersi le gioie della vita. Il salone di rappresentanza doveva celebrare la corte tramite un ciclo figurativo allegorico che rappresentasse i dodici mesi dell’anno. Questo programma iconografico fu elaborato dall’umanista Pellegrino Prisciani e fu eseguito dai pittori che avevano acquisito le novità di Tura. L’unico nome documentato è quello di Francesco del Cossa (tramite una lettera in cui chiedeva di essere pagato adeguatamente). Il tema dei mesi è organizzato su tre registri paralleli: in alto è il trionfo della divinità mitologica del mese, al centro il segno zodiacale e in basso uno scorcio della vita di corte. Aprile: il segno zodiacale è il Toro mentre la divinità mitologica è Venere trionfante su un carro trainato da due cigni e sul quale vi appare anche la figura di Marte incatenato. I due sono circondati da giovani e da gruppetti di conigli che ricordano lo sbocciare dell’amore in primavera. Nel registro inferiore vi è la rappresentazione del duca Borso che rientra da una battuta di caccia e dona una moneta al giullare di corte Scocola mentre in lontananza si intravede il racconto del palio di San Giorgio. La scena è divisa da un giovane seduto sul cornicione. I colori accesi e l’estro di Tura vengono ripresi in maniera più distesa. Settembre: atmosfera meno idilliaca e lessico metallico di Tura più evidente. In questi episodi si è riconosciuta la mano di Ercole de Roberti. La divinità è Vulcano che trionfa sul suo carro mentre un gruppo di Ciclopi realizza armi nella sua Fucina mentre dal lato opposto vi sono le figure di Marte e Ilia dentro un letto increspato che porteranno alla nascita dei due gemelli Romolo e Remo. Lo stile della Sala dei Mesi non si limitò solo a rappresentazioni profane ma anche agli altari delle chiese: “Pala Roverella” trittico dipinto da Cosmè Tura per la cappella della famiglia Roverella nella chiesa di San Giorgio fuori le Mura. Al centro vi è la rappresentazione della Madonna col Bambino e angeli (oggi a Londra) e nonostante la suddivisione voglia riprendere il tipico polittico, lo spazio della pala è unificato dalla prospettiva e dalle arcate in scorcio. “Pala Griffoni” Francesco del Cossa realizzò a Bologna per la chiesa di San Petronio questo trittico di formato rinascimentale che rendeva omaggio al domenicano San Vincenzo Ferrer e al registro superiore collocava i santi Floriano e Lucia. La predella fu realizzata da Ercole de Roberti. “Madonna con Bambino e santi” unica pala attestata a Ercole de Roberti il quale adotterà un linguaggio più quieto e sereno rispetto a quello di Tura. Fu realizzata per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria in Porto. La pala adotta una composizione più moderna rispetto a Cossa o Tura: non ci sono cornici divisorie e lo spazio risulta unificato tramite un quadriportico all’antica al centro del quale vi è il baldacchino su cui siede la Vergine con il Figlio. La veduta marina sul fondo probabilmente è legata alla volontà di esplicitare la leggenda legata a Pietro degli Onesti, il quale fu il fondatore della chiesa in seguito ad essere scampato ad una tempesta in nave. Gli Este diedero grande attenzione all’organizzazione dello spazio urbano che culminò nella cosiddetta “addizione erculea”: con il fratello e successore di Borso, Ercole, si diede il via ad un’azione di rinnovamento della città e di ampliamento dello spazio viario oltre che di miglioramento delle difese militari. Nel 1484 l’architetto Biagio Rossetti disegnò un piano urbanistico che dimostrò quanto potessero essere effettive le speculazioni sulle città ideali nate durante il secolo. L’addizione erculea prendeva spunto da Vitruvio e dall’impostazione della città su due viali: uno che collegava il castello con la nuova parte della città in direzione sud-nord e l’altro che andava da est a ovest unendo Porta Po con Porta Mare. Il fulcro del progetto era la costruzione del “quadrivio degli Angeli” in cui le due arterie si incontrano laddove sorge il Palazzo dei Diamanti, progettato da Rossetti per Sigismondo d’Este, deve il suo nome alla scelta del bugnato marmoreo lavorato a punta di diamante. MILANO (FILARETE/FOPPA/BUGATTO) Nel 1447 Filippo Maria Visconti morì senza lasciare eredi maschi e lasciando in eredità alla figlia Bianca Maria i suoi domini, moglie di Francesco Sforza. Con quest’ultimo la corte milanese si aprì al nuovo linguaggio rinascimentale. Francesco fece subito ristrutturare l’area del vecchio castello di Porta Giovia realizzando la propria residenza fortificata, il Castello Sforzesco. All’ingresso fu costruito un torrione merlato di gusto gotico a protezione del castello: quello che vediamo oggi è una ricostruzione del Novecento poiché quello originale andò distrutto in seguito ad un’esplosione. La torre è denominata del Filarete poiché la tradizione attribuisce il progetto allo scultore e architetto fiorentino. Filarete durante il suo soggiorno milanese scrisse un Trattato sulla progettazione di una città ideale, Sforzinda, in onore di Francesco Sforza: la città avrebbe dovuto avere una pianta geometrica a stella centrata su una piazza centrale dominata da un’altissima torre che mette insieme i caratteri rinascimentali con una tradizione gotica. Questa città non fu mai davvero fondata ma la mescolanza di stili che appare nelle pagine del Filarete sembra essere incarnata dall’Ospedale Maggiore del 1456, un edificio dotato di una facciata con bifore ad arco acuto e loggiato con archi a tutto sesto e colonne nel registro basso. Cappella Portinari: primo vero spazio milanese di matrice toscana. La cappella è destinata al fiorentino Pigello Portinari nella chiesa domenicana di Sant’Eustorgio. Non si sa chi sia l’autore del progetto ma si capiscono i riferimenti brunelleschiani alla Sagrestia Vecchia di San Lorenzo e alla Cappella Pazzi. Nelle lunette e negli arconi vi sono degli affreschi con Storie di San Pietro Martire e della Vergine realizzati da Vincenzo Foppa in cui si evince un cambio di stile tendente al prospettico. Scena del “Miracolo di Narni” in cui il domenicano si inginocchia per risanare il piede di un giovane che si era amputato l’arto dopo aver aggredito la madre. L’episodio si svolge in uno spazio tridimensionale che pare tradurre in pittura le architetture della predella dell’altare donatelliano di Padova. La profondità è data anche dalla presenza di due archi a tutto sesto bicromi. Foppa può essere considerato una sorta di apripista per lo sviluppo della pittura rinascimentale a Milano. “Madonna col Bambino” in cui Foppa esprime una forte dipendenza dalla cultura fiamminga per l’atmosfera domestica e per l’impostazione della Madonna col Bambino di Dirk Bouts allievo di Weyden (davanzale, cuscino su cui poggia il fanciullo, tendaggio, finestra sul fondo). Zanetto Bugatto a differenza di Foppa si recò nelle Fiandre per volontà di Bianca Maria Visconti, la quale inviò l’artista presso la bottega di Weyden a Bruxelles. Di lui non abbiamo opere certe ma si è ipotizzato che la “Madonna col Bambino” della Collezione Cagnola a Varese potesse essere attribuita a Bugatto per l’adesione più precisa al linguaggio nordico e alla resa geometrizzante dei panneggi oltre che alla scelta della luce e dei colori. Dopo la morte di Bugatto, Galeazzo Maria Sforza tenterà di reclutare per la sua corte Antonello da Messina. NAPOLI La dominazione aragonese è ancora oggi evidente a Napoli grazie al monumento di Castel Nuovo. Alfonso V d’Aragona entrerà a Napoli nel 1443 al posto di Renato d’Angiò: nel Trecento la battaglia tra Angioini e Aragonesi vide il prevalere dei primi mentre a cento anni di distanza vide la supremazia della famiglia aragonese. Dopo la stagione napoletana sotto Renato d’Angiò, un periodo felice sia per le arti che per le lettere (Petrarca, Boccaccio, Simone Martini), con Alfonso I Napoli verrà rilanciata come nuova capitale culturale. Castelnuovo esprime al meglio il duplice carattere di Alfonso: da un lato un attento mecenate e dall’altro un abile condottiero. Le torri rotonde furono studiate da Guillermo Sagrera per ammodernare il vecchio castello angioino e adattarlo alle nuove esigenze di guerra (difendersi dalle armi da fuoco). L’arco all’antica fu eretto nel 1453 secondo un gusto albertiano. I documenti attestano che fino al 1458 il cantiere dell’arco aragonese vide al lavoro un gruppo di scultori di varia provenienza: Pere Johan, Paolo Romano, Francesco Laurana. Ancora oggi individuare chi abbia realizzato cosa è quasi impossibile. Sull’arco vi è scolpito il trionfo di Alfonso: re spagnolo, siculo e italico, pacifico e mai sconfitto il quale avanza sul suo carro preceduto dai suonatori di tromba. L’arco superiore doveva originariamente ospitare un monumento “Annunciata” effetto di un ritratto che emerge da un fondo scuro tipicamente fiammingo con un velo di malinconia e concretezza. La protagonista ha lo sguardo rivolto verso l’Angelo che l’ha distolta dalla lettura mentre il libro è sul leggio e accuratamente delineato dalla luce. “San Sebastiano” eseguito per Venezia da Antonello da Messina. Dipinto in cui emergono gli aspetti tipicamente veneziani degli edifici, scansione spaziale e plasticismo del nudo che riprende Piero della Francesca. La profondità del palco scenico in cui subisce il martirio è enfatizzata dalle linee del pavimento prospettico e dagli scorci del frammento di colonna in primo piano. Mentre Bellini dialogava con Antonello, il gotico era duro a morire: negli anni Settanta del Quattrocento alle tavole quadrate si iniziavano a preferire i polittici rispondendo a delle committenze meno aggiornate: o Carlo Crivelli si formò nella scuola padovana di Squarcione e negli anni Sessanta si stabilì a Mantova dove ebbe grande successo diffondendo una pittura in polittici di formato gotico. Uno di questi fu realizzato per la Cattedrale di Ascoli nel 1473: un complesso a cinque scomparti e due registri su fondo oro su cui risaltano figure tipiche di Squarcione (panneggi metallici e espressioni nervose). Linguaggio colorato e attraente. o La bottega Vivarini rimase in Laguna, precisamente nell’isola di Murano dove seppe farsi riconoscere inviando dipinti per nave. Il capostipite della famiglia fu Antonio: pittore di formazione gotico-internazionale coinvolto nel cantiere della Cappella Ovetari di Padova. Alla cultura di Squarcione si aprirono gli altri soci della bottega, tra cui Alvise Vivarini, il quale dipinse nel 1476 un polittico per il convento francescano di Montefiorentino nel Montefeltro: lo spazio è unificato tramite il pavimento, al centro la Vergine e il Bambino su un trono solido e semplice e ai lati i santi. Elemento della luce che pervade di nitidezza l’immagine e volontà di seguire le sperimentazioni di Bellini. Nel 1475, Bellini dipinse una pala per la chiesa di San Francesco a Pesaro che testimonia la volontà di aprirsi al linguaggio antiquario e prospettico di Alberti. Il tema scelto è “Incoronazione della Vergine e santi”, un soggetto tendenzialmente legato alla tradizione gotica (polittico gotico). Le figure dei santi che generalmente sarebbero state disposte negli scomparti laterali trovano posto attorno alla Vergine e a Cristo nell’unica scena di una tavola quadrata delimitata da una cornice intagliata. L’aspetto innovativo di questa pala è la razionalità prospettica del pavimento e del trono decorato con motivi di gusto antiquario mentre nella spalliera si apre una veduta di paese sovrastata da un castello, sottolineando la passione di Bellini per il paesaggio. Sappiamo che le novità albertiane con le quali Bellini poté entrare a contatto furono portate a Venezia da Mario Codussi e Pietro Lombardo. o Mario Codussi: avviò il cantiere della chiesa di San Michele in Isola dando una svolta all’architettura veneziana negli anni Sessanta. La facciata è coronata ai lati da una coppia di volute e al centro da un ampio timpano arcuato: una soluzione ispirata a quella che Alberti aveva adottato per il Tempio Malatestiano. È il primo edificio rinascimentale della Laguna (il motivo del timpano arcuato del prospetto diventerà poi canonico nelle chiese veneziane del Quattrocento). o Pietro Lombardo: progetta la facciata di Santa Maria dei Miracoli, uno scrigno di marmi policromi costruito in una centralissima zona di Venezia a partire dai primi anni Ottanta. L’edificio testimonia la diffusione del gusto albertiano in Laguna. Pietro Lombardo si formò a Padova dove nel 1467 ultimò il monumento sepolcrale del giurista Antonio Roselli nella basilica del Santo (complesso che deriva dai monumenti di Bruni e Marsuppini). Negli anni Ottanta a Venezia si iniziò a ristrutturare la Scuola Grande di San Marco che avrebbe avuto una facciata progettata da Mauro Codussi. Nella piazza, nel frattempo, si stava costruendo il Bartolomeo Colleoni, monumento equestre che avrebbe superato il Gattamelata per rendere onore al condottiero. si reclutò Andrea del Verrocchio che realizzò un modello a dimensioni naturali della scultura: il lavoro fu molto lungo e fu completato da Alessandro Leopardi. Con questa scultura del Verrocchio egli dimostra di aver superato per due motivi Donatello: enfatizzando la resa espressiva del volto del condottiero e il dinamismo del destriero che si erge su tre zampe (senza l’espediente della sfera). Contesto storico Con la Pace di Lodi del 1454 tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano si riuscì a garantire stabilità agli assetti territoriali e politici della Penisola. L’Italia di allora era divisa tra le principali potenze: Venezia, Milano, Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli. Nella Villa di Careggi a Firenze nel 1464 morì Cosimo de Medici lasciando al potere il figlio Piero il Gottoso, il quale a sua volta morì poco dopo lasciando il potere nelle mani dei figli Lorenzo e Giuliano. Nel 1478 i due fratelli dovettero affrontare la congiura della famiglia Pazzi all’interno del Duomo (Giuliano fu pugnalato mentre Lorenzo si salvò). Dietro questa congiura non ci fu solamente la famiglia Pazzi ma anche Sisto IV e Ferdinando d’Aragona di Napoli. Lorenzo nel giro di un paio di anni raggiunse una pace che lo consacrò come ago della bilancia. Un’altra personalità di spicco fu Francesco della Rovere il quale tramite una formazione umanistica e la scelta di entrare nell’ordine francescano insegnò in diverse università italiane: nel 1471 divenne papa con il nome di Sisto IV e si distinse per il mecenatismo e il nepotismo. Promosse opere pubbliche a Roma: inaugurò la Biblioteca Vaticana, costruì la Cappella Sistina. Favorì l’assegnazione di cariche ecclesiastiche e signorie ai parenti più stretti. A Firenze subentrò la figura di Maometto II sultano turco, che inviò una flotta contro l’Italia meridionale, occupando Otranto e massacrandone gli abitanti: l’esercito turco minacciava direttamente Napoli e Roma, le quali decisero di firmare la pace con Firenze ed espellere i Turchi dalla Penisola. Venezia non prese parte a questa vicenda: con un accordo di non belligeranza con il sultano proseguì i numerosi scambi commerciali e artistici con i turchi (Gentile Bellini soggiornò a Costantinopoli). Dopo la pace di Lodi l’equilibrio della Penisola fu minato nuovamente dai sovrani francesi: Carlo VIII, nipote di Maria d’Angiò, vantava un diritto ereditario sul Regno di Napoli e nel 1494 varcò le Alpi con un esercito per cacciare gli Aragonesi dalla città. L’impresa riuscì ma il successo durò poco poiché nel 1495 Carlo VIII fu sconfitto da un’insurrezione aragonese. Con Carlo VIII inizia il lungo periodo delle guerre d’Italia, durante il quale la Penisola divenne una terra di battaglia per le potenze straniere. Luigi XII rivendicò il trono di Napoli ma anche il Ducato di Milano (vantando un legame con la famiglia Visconti): nel 1499 i francesi presero Milano deponendo il potere di Ludovico il Moro. Quando si avvicinò a Napoli si scontrò con Ferdinando il Cattolico, il quale aveva interessi nel Regno: con il Trattato di Lione Milano divenne ufficialmente francese e Napoli spagnola. A Firenze con la morte di Lorenzo, la repubblica andò nelle mani del figlio Piero il Fatuo, il quale non mostrò nessun tipo di abilità in politica e fu cacciato da Firenze nel 1494: nacque così la Repubblica di Girolamo Savonarola, severo priore del Convento di San Marco, si opponeva a ogni lusso e aspirava a rendere Firenze una città cristiana. La sua fu una politica estremamente rigorosa: fu impiccato e arso in piazza nel 1498. I bersagli preferiti di Savonarola erano gli eccessi e le licenze degli ecclesiastici, che in quegli anni trovarono un esempio in Rodrigo Borgia noto come papa Alessandro VI, celebre per la sua dissolutezza e per le sue amanti. Con Alessandro VI, Roma fu una capitale artistica in espansione: ricordiamo la scoperta della domus aurea di Nerone che portò la moda dei motivi decorativi di gusto antiquario “grottesche”. FIRENZE (GOZZOLI/FRATELLI DEL POLLAIOLO/VERROCCHIO/LEONARDO/BOTTICELLI) Nel 1459 il palazzo (Palazzo Medici) che Cosimo de Medici aveva fatto progettare a Michelozzo era concluso: si stava ormai lavorando alla decorazione della cappella, un ambiente intimo e fastoso in cui i moduli dell’architettura brunelleschiana sono impreziositi da soffitto a cassettoni e da un pavimento di marmi e porfidi che rispecchia i modi di Alberti. Le pareti accolgono un ciclo di affreschi realizzato da Benozzo Gozzoli, allievo di Beato Angelico. Cosimo volle che Gozzoli realizzasse “Viaggio dei Magi” acceso d’oro, di colori e di lapislazzuli preziosi. Si celebrava la gloria della famiglia ritraendo Cosimo e i suoi parenti al fianco dei loro amici fiorentini. Il dipinto sembra ignorare le novità del linguaggio rinascimentale tanto caro ai Medici: le figure umane e i cavalli non corrispondono al paesaggio fiabesco e tardogotico (nelle rocce, nei fusti degli alberi e nell’assenza di tridimensionalità). È una scena che riprende lo stile cortese, simbolo del fatto che i Medici iniziavano a pensarsi come una vera e propria dinastia regnante. La risposta a questo dipinto di Benozzo arrivò subito da Antonio del Pollaiolo, il quale ricevette il compito da Piero il Gottoso di eseguire un terzetto di Storie di Ercole in cui illustrava un soggetto tratto dal mito antico con un linguaggio innovativo: i tre dipinti su tela quadrata ad oggi risultano perduti e possiamo averne un’idea tramite due memorie o repliche del Pollaiolo presenti agli Uffizi. “Ercole che sconfigge l’idra” e “Enea che soffoca Anteo” sono due scene che pongono in contrasto il cielo limpido e le vedute a volo d’uccello descritte alla maniera fiamminga. I nudi in primo piano sono estremamente dettagliati nella precisione anatomica e nella tensione dei corpi in lotta. I contorni dei protagonisti risaltano nettamente poiché Antonio era un artista eclettico con grande dimestichezza nell’arte orafa e nella lavorazione dei metalli. La sua attività scultorea è testimoniata dalla versione bronzea dell’Ercole e Anteo che si conserva al Bargello in origine a Palazzo Medici. È uno dei casi più antichi di bronzetto rinascimentale destinato a soddisfare la passione collezionistica dei proprietari. Affronta il tema delle fatiche di Ercole mostrando una passione per lo studio anatomico del nudo. “Battaglia di nudi” è un’opera incisa realizzata tramite la tecnica dell’incisione a bulino. Resta sconosciuto il reale soggetto di questa immagine, si pensa fosse un modo per esercitarsi su dieci possibili raffigurazioni di corpi nudi in movimento. Contemporaneamente all’invenzione della stampa nel 1455, a Firenze si stava diffondendo la tecnica dell’incisione a bulino che riproduceva illustrazioni da una matrice: tramite uno strumento d’acciaio affilato, il bulino, si potevano incidere delle lastre di metallo per ottenere degli incavi da riempire con l’inchiostro. Antonio ebbe un fratello più giovane, Piero del Pollaiolo, il quale si dedicò alla pittura in una bottega autonoma. Realizzò nel 1475 una pala con il Martirio di San Sebastiano per l’oratorio omonimo nei pressi della Santissima Annunziata di Firenze. Piero vi adattò tutti gli elementi che abbiamo già osservato nel fratello: veduta fiamminga, studio accurato dei nudi, studio di pose complicate, linearismo. Il Sebastiano non nutre dolore ma resta insensibile al supplizio. Contemporaneamente ai due fratelli emerse a Firenze la figura di Andrea del Verrocchio il cui soprannome deriva da quello che era stato il suo primo maestro, Giuliano del Verrocchio. Assunse una posizione predominante nel campo della scultura dopo la morte di Donatello: realizzò il David in bronzo per i Medici e il monumento sepolcrale di Piero il Gottoso e il fratello Giovanni. Questa tomba è sicuramente molto innovativa: non è collocato contro una parete ma in un’intercapedine a forma di arcosolio che divide la chiesa di San Lorenzo dalla Sagrestia Vecchia brunelleschiana. Il gusto antiquario rimanda alle tombe Bruni e Marsuppini in Santa Croce; Verrocchio sceglie di sottolineare il prestigio del complesso mettendo in evidenza il sepolcro di porfido impreziosito da raffinatissimi elementi decorativi in bronzo. L’apparente sobrietà conferita dall’assenza di figure viene compensata con la ricchezza dei materiali utilizzati. Nel 1467 fu impegnato nella realizzazione di due sculture che dovevano rappresentare “L’Incredulità di San Tommaso” per sostituire il San Ludovico di Donatello nella nicchia di Orsanmichele. La necessità di realizzare due figure porta il Verrocchio a concepire un nuovo tipo di composizione che accentuasse il movimento: all’interno della nicchia il Cristo accoglie lo scettico apostolo alzando la destra che diventa l’apice di una piramide immaginaria che ha il suo estremo in basso nel piede di Tommaso (al di fuori grazie al vento di Ponente, Zefiro, e viene accolta da un’ancella che ha l’estetica della Primavera e le porge un manto per coprirla. Si è discusso a lungo sul significato filosofico della dea dell’amore e della bellezza che illustrano temi vicini al circolo neoplatonico, senza trovare un’interpretazione univoca. Botticelli in queste opere rinuncia alla prospettiva della pittura fiorentina del Quattrocento per proporre grandi scene che eludono il senso dello spazio. Riproduce in maniera dettagliata le specie botaniche del prato fiorito e dipinge le onde del mare ripetendo un segno grafico di elegante senso decorativo. Rinuncia alla materialità e propone la visione di un paradiso divino e ideale lontano da Brunelleschi o Masaccio. Furono opere di grande ispirazione per i Preraffaelliti inglesi. COMPLETAMENTO DELLA CAPPELLA BRANCACCI (FILIPPINO): nella prima metà degli anni Ottanta del Quattrocento le Storie di San Pietro che Masaccio e Masolino avevano lasciato incompiute erano state finalmente terminate da Filippino Lippi, figlio di Filippo (il più masaccesco tra tutti i pittori) nato da una relazione illecita con una suora di Prato. Inizialmente Filippino avviò l’apprendistato nella bottega del padre e alla morte di quest’ultimo, lo continuò presso Botticelli. Nella Cappella Brancacci lavorò al registro inferiore adottando una composizione severa e semplificata priva di attenzione agli ornati come si vede nella Crocifissione di San Pietro in cui si palesa una resa grafica simile alla pittura di Botticelli nei volti e nei panni. Nel tardo Quattrocento i grandi cicli ad affresco per le cappelle familiari furono affidati a  Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti in Santa Trinita: la cappella fu voluta da Francesco Sassetti, uomo fedele a Lorenzo il Magnifico, tanto da avere l’incarico di dirigere il banco mediceo. Il ciclo figurativo riprendeva la vita del suo santo onomastico, Francesco d’Assisi e l’incarico fu affidato a Domenico Ghirlandaio, orafo e pittore di luce (si formò accanto al Verrocchio). Il suo era un linguaggio chiaro, affabile e sereno. Ghirlandaio scelse di ambientare alcuni episodi francescani a Firenze: “Conferma della regola” appare come una sorta di veduta da cartolina per mostrare Piazza della Signoria. Ad assistere all’evento sono ritratti molti personaggi del giro laurenziano: a destra Francesco Sassetti in abito rosso affiancato dal figlio e da Lorenzo; di fronte i figli maggiori del committente e Agnolo Poliziano sulla scala. Al centro della cappella vi è un trittico costituito dalla pala d’altare con “Adorazione dei pastori” e le figure inginocchiate di Sassetti e della moglie ai lati. La pala richiama l’antico sia per il formato che per la carpenteria e per le lesene della capanna. Emerge un senso di grande verismo sia dei pastori che dei committenti, frutto di un omaggio alla pittura fiamminga. Il riferimento è Trittico Portinari ad opera di van der Goes: al centro vi è la Natività contraddistinta da un tono rustico e accompagnata ai lati da uomini e donne di casa Portinari protetti da santi. Questa pala testimonia i continui scambi tra Firenze e le Fiandre. Il Trittico Portinari ebbe una forte influenza anche su Filippino per la pala con “Apparizione della Vergine a San Bernardo da Chiaravalle” carica di suggestioni nordiche dalla definizione dei dettagli al realismo del committente raffigurato in abisso oltre che per l’accensione cromatica. Domenico Ghirlandaio realizzò gli affreschi anche nella Cappella Tornabuoni presso la chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Il committente fu Giovanni Tornabuoni, zio di Lorenzo il Magnifico. Il programma prevedeva una serie di Storie della Vergine e di San Giovanni Battista. Alcuni episodi riassumono al meglio la peculiarità del ciclo: “Natività della Vergine” emblema della qualità illusionistica della finestra e della descrizione di una scena domestica che viene ripreso come tema nella “Nascita di San Giovanni Battista”; il registro antiquario viene invece esaltato nell’episodio “Annuncio dell’angelo a Zaccaria” con la realizzazione di un arco romano nella scenografia.  Filippino Lippi nella Cappella Strozzi: posizionata nel transetto destro di Santa Maria Novella. Il ciclo riprende le Storie dei Santi Filippo e Giovanni Evangelista. Il lavoro iniziò nel 1487 e terminò nel 1502, dieci anni dopo la morte del committente (il ritardo fu dovuto al fatto che il pittore si dovette recare più volte a Roma per dipingere la cappella del cardinale napoletano Oliviero Carafa). La scena del “Martirio di San Giovanni Evangelista” raffigura il protagonista immerso in un pentolone di olio bollente dal quale uscirà illeso: rispetto al Ghirlandaio qui emerge una maggiore carica espressiva dei personaggi e un ridondante gusto antiquario nelle vesti dei centurioni e nei fasci dei littori. Nella bottega di Domenico Ghirlandaio ritroviamo una figura di particolare interesse: fu nella Cappella Tornabuoni che Michelangelo mostrò il suo precoce talento e iniziò ad apprendere le varie tecniche pittoriche. Ascanio Condivi, amico di Michelangelo e autore di una sua sorta di biografia, e Vasari concordano nell’affermare che la formazione di Michelangelo avvenne grazie a Lorenzo il Magnifico, il quale lo protesse accogliendolo nel Giardino di San Marco: una scuola e un’accademia di giovani pittori e scultori i quali intraprendevano gli studi sulla pittura, scultura o architettura tramite il disegno dell’arte antica e dei maggiori artisti fiorentini del Quattrocento. Michelangelo iniziò disegnando le figure di Masaccio della Cappella Brancacci (figura di San Pietro che paga un tributo). Le opere di esordio in scultura di Michelangelo sono esposte al museo di Casa Buonarroti, ultima dimora fiorentina dell’artista dove è conservata “Madonna della scala” in cui emerge l’ispirazione donatelliana nell’utilizzo dello stiacciato e nei panni aderenti alle forme della grande figura della Vergine seduta di profilo nelle figure dei bambini e del Cristo che volta le spalle allo spettatore. Bertoldo di Giovanni ebbe un ruolo importante nello spingere Michelangelo verso lo studio di Donatello. Nella “Battaglia dei centauri” Michelangelo mise in atto una scultura molto distante da Donatello. Fu realizzato sulla base di un suggerimento letterario di Poliziano: il tema della battaglia come espediente per studiare il movimento e le pose dei corpi in lotta oltre al rimando a soggetti antichi e ai sarcofagi. Ad oggi quest’opera di scultura appare incompleta sia nella cornice che nelle figure: è un groviglio di nudi avviluppati in una zuffa di cui è difficile comprendere l’inizio o la fine. Il titolo viene giustificato dall’immagine di un centauro disteso a terra in primo piano. Michelangelo uscirà dal Giardino di San Marco con un forte interesse per i nudi e una solida conoscenza dell’antico. Probabilmente doveva essersi avvicinato anche a Benedetto da Maiano, scultore dell’epoca poiché avviene un allontanamento dallo stiacciato donatelliano e una predilezione per figure solide, volumetriche e carnose. “Crocifisso”: opera lignea intagliata per la chiesa di Santo Spirito. Prima opera pubblica dello scultore e ad oggi conservato nella sagrestia. È un’opera che si allontana da Brunelleschi e Donatello e sottolinea una maggiore preferenza per lo stile di Benedetto da Maiano per le forme levigate e piene. La precisione anatomica è da attribuire al suo studio dei cadaveri. Tra i tanti artisti che si formarono nel Giardino di San Marco ricordiamo anche Francesco Granacci, Lorenzo di Credi (pittori) e Giovan Francesco Rustici e Andrea Sansovino (scultori). Sansovino fu uno dei primi artisti ad emergere per la realizzazione di un monumento compiuto a Firenze per la chiesa di Santo Spirito: l’altare del Sacramento per la famiglia Corbinelli, un complesso di statue e rilievi in un’architettura che ricorda un arco antico. ROMA Nel 1475 Sisto IV sancì con una bolla la fondazione della Biblioteca Vaticana che ancora oggi è una delle maggiori raccolte al mondo per patrimonio di testi a stampa e antichi manoscritti. Con il predecessore Niccolò V il pubblico poté entrare in contatto con le maggiori raccolte di codici latini, greci ed ebraici, mentre con Sisto IV la biblioteca divenne una vera e propria istituzione dotata di una sede con aule, dei finanziamenti e un bibliotecario. La scelta cadde su Bartolomeo Sacchi, il Platina, umanista lombardo formatosi a Mantova e trasferitosi a Roma al seguito di Francesco Gonzaga. Sisto IV volle che le aule fossero decorate: in uno degli affreschi più emblematici del rilancio di Roma nel Quattrocento ricordiamo una scena di corte ambientata in una luminosa navata coperta da un soffitto a cassettoni sostenuto da possenti pilastri squadrati e arcate a tutto sesto secondo un linguaggio architettonico rinascimentale. Il papa siede a destra di profilo ed è circondato da familiari: Pietro Riario, nipote, cardinale Giuliano della Rovere al centro in piedi e alle spalle Giovanni della Rovere e Girolamo Riario. Il protagonista della scena è il Platina, inginocchiato al centro, a indicare con la destra l’iscrizione latina che inneggia alla biblioteca come alla maggiore tra le imprese realizzate a Roma. L’affresco era posizionato su una parete di fronte all’ingresso della biblioteca ed era ben visibile al pubblico. Fu realizzato tenendo conto dei caratteri prospettici degli spettatori e fu eseguito da Melozzo da Forlì, pittore romagnolo. Le figure sembrano riprendere lo stile pierfrancescano per la solidità e la monumentalità. L’anno della fondazione della biblioteca fu anche l’anno di un grande giubileo, durante il quale i pellegrini dovettero avere ben chiaro che Roma stava cambiando: Sisto IV aveva trasferito dal Laterano al Campidoglio i bronzi antichi e li aveva donati al popolo romano. Fu ristrutturata la chiesa di Santa Maria del Popolo dove i romani veneravano un’antica immagine della Vergine dipinta da san Luca. La nuova chiesa si presentava con una facciata tripartita in travertino, non dissimile da quella elaborata poi per la chiesa di Sant’Agostino dove è palese il richiamo alla predilezione per l’antico di Alberti. A Sisto IV si deve anche l’idea di corredare il palazzo apostolico di una nuova cappella che da lui prende il nome di Cappella Sistina, spazio destinato ad ospitare importanti celebrazioni liturgiche oltre alle riunioni del conclave in cui si sceglie il nuovo papa. L’architettura è molto semplice: poderoso involucro in mattoni reso dinamico da una merlatura che delimita una grande aula rettangolare coperta da una volta. L’interno è in netto contrasto con l’austerità dell’esterno: pavimento in marmo, volta affrescata e forte accensione cromatica. Negli anni Ottanta la cappella fu affrescata secondo uno schema ben preciso suddiviso su vari registri: in basso uno zoccolo con finti arazzi, nel secondo registro una serie di riquadri narrativi e ai lati dei finestroni alcune figure di papi disposte entro nicchie illusionistiche. La volta appare come un cielo pieno di stelle secondo un gusto medievale che trova un precedente nella Cappella degli Scrovegni di Giotto. Oggi al posto del cielo stellato ci sono le Storie della Genesi di Michelangelo che nel corso del Cinquecento sconvolse il ciclo originario dipingendo il Giudizio universale: andarono così perdute l’Assunzione della Vergine con il ritratto di Sisto IV, episodi della Nascita di Mosè e della Natività di Cristo. Sisto IV arruolò una equipe folta di pittori dalla Toscana e dall’Umbria: si dice che Lorenzo abbia offerto molti Fiorentini al cantiere come a farli ambasciatori della rinnovata pace con il papa. Tra i nomi più importanti ricordiamo: o Ghirlandaio che ebbe il compito di dipingere la “Vocazione di Pietro e Andrea”: veduta di un lago dove si riconoscono le barche dei pescatori che si faranno apostoli. Da un lato Cristo chiama Pietro e Andrea a sé, dall’altro Giovanni e Giacomo: i primi si inginocchiano dinanzi a Cristo in un’atmosfera tersa, limpida che mette insieme il rigore di Masaccio e la pittura di luce. o Botticelli realizzò “Prove di Mosè” “Prove di Cristo” e “Punizione dei ribelli”. Quest’ultima aveva grande significato poiché sottolineava quale fosse la pena riservata a chi non rispettava l’autorità ecclesiastica derivata da Dio attraverso un episodio dell’AT. La scena è dominata da un arco di trionfo antico mentre Core, Datan e Abiram dominano la rivolta degli Israeliti contro Mosè (a destra con il vestito verde e una lunga barba grigia) che viene difeso da Giosuè. Al centro, una volta che Dio gli ha mostrato benevolenza accogliendo il suo sacrificio, Mosè disperde i ribelli che vengono cacciati agli inferi. Scena molto concitata. o Pietro Perugino realizzò l’episodio della “Consegna delle chiavi”: san Pietro ebbe da Cristo le chiavi del Paradiso e fu quindi riconosciuto in quanto primo vescovo di Roma e papa come un primato di autorità sul popolo. Al centro vi è il barbuto Pietro che si inginocchia per ricevere le chiavi da parte di Cristo; gli apostoli assistono alla scena e sono riconoscibili perché contrassegnati da apostoli mentre sono presenti due figure che recano un compasso e una squadra e si tende a riconoscerli come Baccio Pontelli e Giovannino de Dolci (progettista e direttore del cantiere sistino). I protagonisti sono disposti su una piazza pavimentata con grandi lastre di marmo che individuano la fuga prospettica indirizzata sull’edificio a pianta centrale sul fondo che allude al tempio di Salomone affiancato da due archi antichi che rimandano all’arco di Costantino. Il paesaggio in lontananza è quieto mentre le scene in secondo piano illustrano due episodi evangelici (tributo Nel 1502 si trasferì a Siena per decorare la Libreria Piccolomini su richiesta del cardinale Francesco Tedeschini Piccolomini: si trattava di un incarico impegnativo e prestigioso che il Pinturicchio avrebbe ultimato nel 1508. È un ambiente ben conservato attualmente: il soffitto è ricoperto di grottesche che si estendono sulle paraste dipinte a suddividere le pareti in dieci finestroni in cui sono narrate le vicende di papa Pio II. Al posto di Cristo troviamo un personaggio che era vissuto fino a qualche decennio prima e che Pinturicchio mette in scena come in una sorta di biografia dipinta. Lo stile è minuzioso e affabile. UMBRIA Raffaello nasce a Urbino nel 1483 da un padre pittore attivo alla corte dei Montefeltro che poté però insegnargli ben poco a causa della morte precoce. Il Perugino capì subito il talento di Raffaello e lo accolse nella propria bottega permettendogli di ottenere una serie di importanti commissioni in Umbria: nelle prime opere Raffaello appare come una sorta di alter ego del Perugino dimostrando di aver appreso tutte le caratteristiche principali del maestro. Raffaello nel 1502 dipinge “Crocifissione” per la Cappella Gavari nella chiesa di San Domenico a Città di Castello in cui Cristo crocifisso è accompagnato da una coppia di angeli, dalla Vergine, San Giovanni e dalla Maddalena ma anche da San Girolamo inginocchiato in primo piano a sinistra (poiché la Cappella era intitolata a san Girolamo). Gli aspetti di derivazione dal Perugino: armonia delle figure e della composizione, accordi cromatici equilibrati, atmosfera limpida e personaggi teneri e morbidi nelle forme. La firma alla base ci permette di attribuire l’opera a Raffaello (e distinguerla dal Perugino). Guardando a Perugino, Raffaello realizzerà anche “Sposalizio della Vergine” una pala di dimensioni ridotte che era in origine nella cappella dedicata a san Giuseppe che la famiglia Albizzini possedeva nella chiesa di San Francesco a Città di Castello. Da ciò deriva la scelta di un soggetto in cui il santo titolare è protagonista: san Giuseppe è raffigurato nel momento in cui prende in sposa Maria. Ricorda la Consegna delle Chiavi di Perugino per la composizione degli attori sul proscenio e il pavimento prospettico. Rispetto al maestro, Raffaello ha alzato il punto di vista e atteggiato i personaggi con maggiore libertà rispetto allo Sposalizio della Vergine del Perugino (realizzato per una cappella nel Duomo di Perugia). MILANO (LEONARDO/BRAMANTE) Nel 1483 Leonardo da Vinci è attestato a Milano dove sarebbe rimasto fino al 1499: egli fu al servizio della corte di Ludovico il Moro, figlio del duca Francesco che con la morte lasciò il regno nelle mani del primogenito Galeazzo Maria, il quale fu vittima di una congiura da parte della nobiltà. Quando Leonardo si trasferì a Milano si propose alla corte di Ludovico, uomo appassionato di lettere e di arti, come un artista eclettico, a tutto tondo (ci viene testimoniato da una sua lettera di presentazione esposta nel Codice Atlantico della Biblioteca Ambrosiana). Si sofferma a lungo sulle sue abilità da ingegnere militare e progettista di macchine da guerra (Leonardo lascerà un progetto degli antenati dei moderni carri armati). Innalzerà a Milano un colossale monumento equestre in onore di Francesco Sforza attraverso cui voleva confrontarsi con il Gattamelata di Donatello e il Bartolomeo Colleoni del suo vecchio maestro, Verrocchio. L’impresa fu finanziata da Ludovico ma non fu mai portata a termine. Sappiamo che i cavalli erano uno dei soggetti preferiti dal pittore per lo studio della natura e del movimento: così per il monumento Sforza elaborò una soluzione inedita immaginando il duca Francesco su un destriero impennato su due zampe al di sopra della figura distesa e sconfitta di un nemico. Il gruppo scultoreo avrebbe dovuto essere colossale e questo avrebbe provocato dei problemi statici tanto che alla fine Leonardo vi preferì la rappresentazione di un cavallo al passo. Leonardo si impose anche come musico, come il migliore dicitore di rime e capace di condurre acqua da un luogo all’altro. Per questo motivo Ludovico decise di affidargli il sistema dei Navigli, canali navigabili che mettevano in comunicazione Milano con il Ticino e l’Adda. Leonardo studiò i sistemi di chiuse per risolvere il problema del dislivello tra la parte alta e quella bassa della città permettendo la navigazione tra le due zone: progettò la cosiddetta conca dell’Incoronata che permetteva di diminuire o aumentare la portata dell’acqua tramite la costruzione di due portelli. Nel 1483 realizzò una pala per la cappella della confraternita dell’Immacolata Concezione nella chiesa di San Francesco Grande: l’edificio ad oggi è distrutto ma del dipinto sono arrivate due versioni. La versione più antica risale al 1485 ed è oggi al Louvre: la “Vergine delle rocce” siede a terra su un paesaggio roccioso su cui crescono numerosi tipi di piante indagate con grande attenzione naturalistica. A destra protegge sotto il mantello il piccolo san Giovannino che è rivolto verso Cristo nudo in primo piano accompagnato da un angelo mentre benedice il primo. La composizione si regge su un’impostazione piramidale dei personaggi di ricordo verrocchiesco ma anche sulla corrispondenza dei loro gesti. Le figure appaiano vive per la tecnica dello sfumato che va ad attenuare i contorni fondendo le stesse figure con il paesaggio. L’immagine sembra incantata e intima. Non sappiamo che fine dovette fare questa versione, ciò che sappiamo è che nella cappella della confraternita vi fu collocata la seconda versione ad oggi alla National Gallery di Londra. L’atmosfera in questa versione è più limpida e definita, sono presenti delle aureole sospese sulla Vergine su Cristo e Giovanni ed emerge un forte cromatismo (manto azzurro della Vergine). La sua fama fu dovuta alla sua grande abilità come ritrattista: “Dama con l’ermellino” un ritratto su fondo scuro di una giovane ben vestita con un volto ovale sottolineato da capelli lisci raccolti sulla nuca in una lunga treccia secondo la moda dell’epoca. L’ermellino è tra le braccia della donna e simboleggia la purezza e l’ordine cavalleresco dell’Ermellino rilanciato da Ferdinando d’Aragona a Napoli. Nel ritratto si riconosce Cecilia Gallerani, la giovanissima donna amata dal signore di Milano. Cecilia e l’animale sono rivolti verso sinistra come stessero ascoltando qualcosa. Il contrasto tra l’oscurità e la figura di tre quarti ricorda Antonello da Messina. L’impresa milanese più ambiziosa di Leonardo fu sicuramente “Ultima cena” nella parete principale del refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie. Dipinto realizzato entro il 1498 con una tecnica particolare: dipingeva sull’intonaco asciutto della parete e ritoccava continuamente le figure per perfezionarle. Il suo fu un lavoro accurato e molto lento. La tecnica non era adatta all’umidità del luogo, infatti, ad oggi il dipinto è molto deteriorato nonostante si riuscì a salvare durante il bombardamento al Convento nella Seconda Guerra Mondiale. Al paesaggio della Vergine delle rocce, qui si preferisce il rigore spaziale di un salone privo di ornati e aperto sul fondo da tre finestroni da cui entra la luce. La composizione è scandita da gruppi piramidali di apostoli raccolti in terzetti. La novità è nella scelta del tema e di come viene trattato: non viene raffigurata la solita scena istituzionale dell’eucarestia ma l’annuncio del futuro tradimento che provoca negli Apostoli un turbamento reso attraverso la gestualità come se ognuno cercasse il colpevole. Leonardo tramite i gesti e le espressioni cerca di rendere “I moti dell’animo”: lui stesso svela in un suo Trattato della pittura la sua volontà di rappresentare l’uomo e la sua mente, mente intesa come gesti e movimenti delle membra. Prima dell’arrivo di Leonardo, Milano conobbe un altro artista di spicco della Maniera moderna: Donato Bramante, originario di Urbino con un’esperienza pierfrancescana molto evidente alle spalle. Questa influenza si palesa nella tavola del “Cristo alla colonna” in cui Cristo è raffigurato a mezza figura nudo, attentamente studiato nell’anatomia e legato ad una colonna che ha le forme di un pilastro decorato di motivi antiquari. Bramante si differenzia molto da Leonardo: allo sfumato preferisce una luce netta e risoluta, grazie alla quale il torso di Gesù appare levigato come quello di una statua di marmo. L’eucarestia viene evocata dalla presenza della pisside sul davanzale della finestra da cui si scorge una distesa d’acqua e un paesaggio verdeggiante. Bramante si specializzerà nel campo dell’architettura dando prova delle sue abilità prospettiche nel cantiere della chiesa di Santa Maria presso San Satiro: in questo edificio sorto per venerare un’immagine mariana miracolosa nei pressi del sacello di San Satiro, Bramante seppe usare la prospettiva per risolvere un problema di spazio. La muraglia in fondo alla chiesa era priva della superficie necessaria al prolungamento del coro e dell’abside, così Bramante ricavò al centro della parete del transetto un vano illusionistico capace di fingere la profondità di molti metri in una novantina di centimetri di spessore. Da lontano l’occhio è ingannato e ha la sensazione che dietro l’altare si estenda effettivamente un coro. Egli si occupò anche di lavorare nel cantiere della Chiesa di Santa Maria delle Grazie rinnovando completamente il presbiterio e il tiburio dell’edificio che reimpostò sulla superficie di un grande quadrato. Su questo ampio spazio sorse una cupola luminosa e l’area presbiteriale fu completata dai due absidi e sul fondo dal prolungamento di un coro. All’esterno risaltano i volumi dei vani che alternano la soluzione quadrata con quella rotonda. Le pareti per la bicromia e la profusione decorativa esaltano il gusto lombardo. Ludovico il Moro adotterà questa struttura per il mausoleo suo e della moglie. I due elementi principali di Bramante, la prospettiva e l’antico si trovarono a fare i conti con la peculiare predisposizione decorativa lombarda che prevedeva la semplicità dei volumi puri e proporzionati e un maggior utilizzo di colori ed elementi scolpiti: Certosa di Pavia: salta subito all’occhio l’esuberanza cromatica e ornamentale della facciata. A prima vista sembrerebbe effettivamente un’architettura gotica mancante delle cuspidi ma osservando meglio ci si accorge che gli elementi architettonici sono ormai di tipo rinascimentale: bifore e lunette con archi a tutto sesto, timpani, finestre rettangolari e ornati di gusto antiquario. Il complesso monastico era stato fondato nei dintorni di Pavia da Gian Galeazzo Visconti, la facciata risale agli Sforza mentre la decorazione coinvolse molti artisti a partire dagli anni Settanta. Il cantiere conobbe un rapido sviluppo con Ludovico il Moro, il quale coinvolse uno dei maggiori scultori lombardi del tempo, Giovanni Antonio Amadeo (probabile autore delle Storie dell’AT e del NT sullo zoccolo della facciata). Cappella Colleoni a Bergamo: Giovanni Antonio Amadeo aveva curato un prestigioso progetto architettonico e scultoreo per Bartolomeo Colleoni condottiero di origine bergamasca. Negli anni Settanta volle innalzare un vero e proprio mausoleo al centro della città come simbolo di affermazione familiare accanto alla chiesa di Santa Maria Maggiore. La facciata risale al 1476 e presenta molti elementi rinascimentali: edicole disposte al di sopra dei due finestroni realizzate probabilmente da Amadeo che incorniciano i busti clipeati di Giulio Cesare e di Traiano. Colleoni chiese i due soggetti per emulare la gloria e affidò il compito ad Amadeo, il quale adottò il suo stile tipico: rilettura dell’antico con una personale espressività. Per favorire la visione dal basso, il collo si allunga e gli occhi si allargano mentre le pieghe degli abiti di accartocciano come fossero metalliche. Monumento sepolcrale di Bartolomeo Colleoni: all’interno del mausoleo impostato su una pianta quadrata vi è il monumento sepolcrale di Bartolomeo Colleoni, unico superstite dell’allestimento quattrocentesco della cappella. L’arca di eleva su pilastrini molto alti ed è costituita dalla sovrapposizione di due sarcofagi con Storie della Passione e Storie della Natività di Cristo. L’originale gruppo scultoreo fu rimosso nel 1493 perché era troppo pesante (quello in legno odierno fu eseguito nel 1500 dal tedesco Sisto Frey). Ai piedi del sarcofago vi erano tre condottieri colti in un momento di meditazione malinconica. Nella parte sinistra della cappella vi è il monumento sepolcrale che Colleoni fece scolpire ad Amadeo per la figlia Medea morta a quindici anni: l’avvenimento rattristò gli ultimi anni della vita del condottiero. La tomba fu montata da Amadeo nella chiesa di Santa Maria della Basella e solo nell’Ottocento fu trasferito nel mausoleo attuale accanto al padre. Ricorda una versione lombarda dei modelli all’antica di Rossellino e Desiderio. Le esperienze di Leonardo e Bramante fecero da apripista alle nuove tendenze della pittura lombarda: basti pensare a “Adorazione del Bambino” al centro di un polittico realizzato da Bernardo Zenale per la confraternita dell’Immacolata Concezione, un dipinto che conserva il paesaggio roccioso e i volti di Leonardo e il rigore spaziale di Bramante. Tra altri artisti ricordiamo Bartolomeo Suardi detto il Bramantino per la sua dipendenza dall’artista urbinate che lo educò alla prospettiva e al gusto per le forme grandiose e monumentali. Bramantino mosse da quella lezione guardando in maniera personale al più aspro retaggio o “ Incontro e partenza di Orsola ed Ereo” racconto vivace pieno di aneddoti esotici e curiosi; scena divisa in due dal pennone centrale che scandisce due paesaggi (a sinistra un’Inghilterra pittoresca dove Ereo si congeda dai genitori e a destra una Bretagna con edifici tipicamente veneziani). Nella parte di destra avviene l’incontro fra i due personaggi che sul fondo si imbarcheranno per iniziare il pellegrinaggio. Gran numero di personaggi caratterizzati in maniera minuziosa (vi sono anche ritratti dei confratelli). o “ Sogno di Sant’Orsola”: tono fiabesco e intimo la visione dell’angelo che avvisava la principessa del martirio. Il soggetto è una camera da letto descritta in ogni dettaglio: la principessa dorme in un letto a baldacchino e di fronte entra l’angelo che porta la palma del martirio. Questo dipinto si fonda sulla luce e sul colore: la luce riscalda la stanza di senso atmosferico (derivazione fiamminga). “Leone di San Marco” nel Palazzo Ducale di Venezia. Simbolo dell’evangelista Marco: il leone è alato e rappresenta la forma con la quale l’angelo sarebbe apparso a san Marco naufrago nelle lagune. Il leone si staglia per metà sulla terra e per metà sull’acqua per sottolineare il potere della Serenissima. Il dipinto proclama l’orgoglio di una Repubblica che aveva saputo resistere alla minaccia della Lega di Cambrai (dipinto del 1516 più tardo). A fine Quattrocento, Venezia aveva preso la via rinascimentale anche nell’ambito architettonico: nel 1489 si consacrava la chiesa di Santa Maria dei Miracoli dominata dal marmo bianco e progettata da Pietro Lombardo, grande scultore dell’epoca. Egli ricevette da Bernardo Bembo il compito di realizzare un ritratto di Dante per la tomba del poeta fiorentino sepolto a Ravenna. Questa vicenda ci fa capire come il mercato artistico veneziano non si limitasse alla Laguna ma fosse ampio quanto i confini della Repubblica. Egli realizzò un ritratto con la tecnica del rilievo marmoreo a mezza figura in atto di leggere presso uno scrittoio pieno di libri. Nel 1481 Pietro Lombardo realizzò nella chiesa domenicana di Santi Giovanni e Paolo il maestoso monumento sepolcrale del doge Pietro Mocenigo voluto nelle forme di un arco trionfale con sculture all’antica come omaggio ai successi militari del doge che in veste di ammiraglio aveva guidato la guerra contro i Turchi. Il defunto è in piedi sul suo sarcofago decorato con scene che narrano le imprese in Oriente e sorretto da tre figure all’antica. Le sei nicchie laterali sono occupate da statue di guerrieri, mentre il tema sacro è ripreso dalla scena delle Marie al sepolcro e dalla statua del Redentore. Questo monumento fu da ispirazione per Tullio Lombardo e il suo monumento sepolcrale per Andrea Vendramin: al contrario di quella di Mocenigo questa conserva la policromia e ha mantenuto la forma architettonica originale, ossia una variante dell’Arco di Costantino a Roma: tripartita con nicchie laterali più piccole sormontate da due tondi figurati con gli episodi mitologici del ratto di Deianira e di Perseo che sconfigge Medusa. Le scene del coronamento sono di carattere sacro: si affacciano l’Arcangelo Gabriele e la Vergine annunciata; nella lunetta centrale il doge viene presentato alla Vergine e al Figlio. Il monumento subì delle manomissioni durante il trasferimento dalla chiesa dei Servi a quella dei Santi Giovanni e Paolo: laddove oggi vediamo le statue di Lorenzo Bregno, in origine vi erano le figure di Adamo ed Eva (Adamo colpisce per il suo elegante richiamo all’antica come fosse un Doriforo). FIRENZE (SAVONAROLA) Morto nel 1492 Lorenzo il Magnifico, la Repubblica di Firenze fu sottoposta ad un governo che seguiva la volontà divina ed era ispirato dal predicatore Girolamo Savonarola, il quale detestava le sculture antiche (perché pagane) e raccomandava immagini devote molto diverse da quelle dell’Età laurenziana. La scelta di una vita austera e le pratiche penitenziali avevano portato i seguaci di Savonarola ad essere definiti come “Piagnoni”. Tra questi ricordiamo anche la figura di Sandro Botticelli, il quale passò dal Neoplatonismo al misticismo e poi si pose al seguito di Savonarola: “Compianto sul Cristo morto” è un’opera che esprime un rigore assoluto e si allontana dai temi profani e dallo spirito neoplatonico dei tempi laurenziani mantenendo la bidimensionalità. Il dipinto esprime perfettamente il clima che aveva creato Savonarola. L’alternativa meno tetra e cupa dell’arte dei piagnoni fu inaugurata da Pietro Perugino il quale fu largamente apprezzato in questo periodo: “Crocifissione” affrescato per il convento di Santa Maria Maddalena è un affresco essenziale senza orpelli decorativi. Lo spazio è rigoroso e scandito da una severa cornice architettonica, mentre le figure molto solenni si stagliano su un paesaggio sereno e lontano. Questo stile si adattava perfettamente alla spiritualità di Savonarola e che verrà adottato anche da Fra Bartolomeo nella sua “Annunciazione” del 1497: l’Angelo e la Vergine si distinguono per i gesti morigerati e il pavimento che disegna un reticolo prospettico molto preciso indirizzando il nostro sguardo verso il portale aperto su uno sfondo tipicamente fiammingo. La scena è domestica e priva di lusso o ricchezza. MICHELANGELO Michelangelo si mostrò sensibile alle prediche di Savonarola ma non si fece incastrare dallo stile dei piagnoni: nel 1495 si trasferì a Bologna e lavorò nel cantiere dell’Arca di san Domenico, monumento sepolcrale del fondatore dell’ordine domenicano che era stato realizzato da Nicola Pisano. Nel 1469 Michelangelo dopo la morte di Niccolò dell’Arca colui che aveva ricevuto il compito di ampliare il monumento con un coronamento, ebbe l’incarico di scolpire in marmo le immagini del patrono di Bologna san Petronio, del martire san Procolo e di un angelo in basso a destra. Nelle forme del Buonarroti si riconosce la dipendenza da Benedetto da Maiano (forme gonfie e tornite dell’angelo). Alla fine del 1495 Michelangelo tornerà a Firenze dove realizzò un “Cupido” che fu acquistato dal cardinale Raffaele Riario: questo acquirente fu vittima di un inganno poiché la scultura fu spacciata come un reperto archeologico antico. Così Michelangelo andò a Roma con la fama di colui che era in grado di replicare l’antico. “Bacco” realizzato una volta messo piede nell’Urbe. Appare come una statua di gusto archeologico, scolpita a tutto tondo. Fu commissionata da Raffaele Riario e poi passò nelle mani di Jacopo Galli il quale lo espose nel suo giardino, in mezzo ad una serie di sculture antiche. Michelangelo si dedicò anche alla pittura con “La Madonna di Manchester” così chiamata poiché fu esposta per la prima volta al pubblico nella città inglese. Al centro siede la Madonna a seno scoperto accompagnata dal figlio che gioca con Giovannino, ai lati due coppie di angeli (se ne vede solo una poiché il dipinto non fu mai completato). Gli elementi tipici di Michelangelo sono riconoscibili nelle pieghe che si gonfiano sulle ginocchia della Vergine, nel trattamento delle carni nude che riprende il gruppo scultoreo del Bacco. L’aspetto innovativo è la mancanza di qualsiasi sfondo architettonico: le figure si ergono su una superficie neutra come fossero statue. Sappiamo che Michelangelo più volte dichiarerà della supremazia della scultura sulla pittura. Una delle opere per le quali è riconosciuto è sicuramente “La Pietà” nella Basilica di San Pietro da collocare nella Cappella di Santa Petronilla in San Pietro. Il blocco di marmo fu scelto dall’autore stesso a Carrara: sul finire del 1497 iniziò l’opera che fu completata solamente due anni dopo. Il soggetto iconografico della Madonna con il Cristo morto sulle ginocchia non era troppo diffuso nella scultura italiana ma deriva dalla cultura nordica (Vesperbilder). La Pietà vuole apparire come una scultura realizzata in un sol sasso, allo stesso modo delle sculture antiche descritte da Plinio il Vecchio e che poi si sviluppò come topos pliniano “ex uno lapide”. Questo topos venne utilizzato in riferimento al Laocoonte nonostante la scultura fosse stata scolpita in più parti sembrava che fosse stata ricavata da un unico blocco marmoreo (le commettiture erano nascoste). Sul petto della Vergine si riconosce la firma di Michelangelo: egli scelse “faciebat”, forma imperfetta inconsueta rispetto alla forma perfetta “fecit” poiché volle alludere alla perenne perfettibilità dell’arte, recuperando una tipologia di firma all’antica. Da questo esempio in poi i maggiori artisti del Cinquecento avrebbero firmato con la forma imperfetta. La bellezza ideale del Neoplatonismo sembra essere evocata dai volti di Cristo e della Vergine che Michelangelo raffigurò molto giovane. Con quest’opera si annuncia una nuova fase dell’arte: la stagione della Maniera moderna. Contesto storico La testimonianza di Guicciardini sulla situazione dell’Italia alla fine del Quattrocento: l’Italia in un primo momento era divisa in cinque stati (Papato, Napoli, Firenze, Venezia e Milano) e l’equilibrio era stabile poiché nessuna di queste potenze accresceva i propri confini. Con l’arrivo dei Francesi si ruppe questo equilibrio le guerre si fecero violente e improvvise. All’inizio del secolo i Francesi avevano già conquistato il Ducato di Milano e di lì a poco sarebbe toccato lo stesso destino anche a Venezia, mentre Napoli era nelle mani della Spagna. Le maggiori potenze europee insieme al Papato, Mantova e Ferrara si unirono nella Lega di Cambrai contro Venezia per dividersi i suoi territori: nonostante le numerose sconfitte veneziane, vi fu un forte sconvolgimento anche nella Lega. Nel frattempo, era diventato papa Giuliano della Rovere, con il nome di Giulio II (nipote di Sisto IV) e seppe distinguersi innanzitutto come guerriero ma anche come mecenate dando il via a moltissimi progetti: decorazione delle Stanze Vaticane, ristrutturazione della Basilica di San Pietro, volta della Cappella Sistina. Egli capì subito che per l’Italia, Venezia era meno pericolosa degli Stati stranieri e della Francia: fece sciogliere la Lega di Cambrai e mise in piedi la Lega Santa, un’alleanza tra Papato e Venezia per cacciare i Francesi dall’Italia. Egli riuscì nel proprio intento dopo vari scontri (sconfitta nel 1512 della Lega) poco prima di morire, nel 1513. Lo stesso anno subentrò il figlio di Lorenzo il Magnifico, papa Leone X, il quale non era particolarmente incline alla guerra ma condivideva con il predecessore un grande slancio al mecenatismo. Grazie a lui i Medici furono riammessi a Firenze. Sulla chiesa si stavano, però, addensando delle nubi tempestose: nel 1517 il frate agostiniano Martin Lutero aveva affisso alla porta della chiesa di Ognissanti di Wittenberg le sue 95 tesi, un testo in cui denunciava la vendita delle indulgenze da parte della Chiesa. L’indulgenza si poteva ottenere in seguito a pellegrinaggi o opere meritorie ma anche versando denaro: questa pratica ebbe inizio con Giulio II che la mise in atto per finanziare le sue imprese militari e artistiche. Lutero criticava non solo questo atto ma anche il fasto della curia, gli eccessi della Chiesa (come in precedenza fece Savonarola). Fu sostenuto da Erasmo da Rotterdam, il quale pubblicò “Elogio della follia” in cui criticò la corruzione del clero. Lutero fu più radicale e propose una dottrina secondo la quale la salvezza potesse essere garantita solo tramite le buone azioni. Da qui si aprì un vero e proprio scontro con il Papato che portò alla scomunica di Lutero e alla nascita di guerre di religione. Nel frattempo, emergono due nuovi protagonisti: Carlo V il quale a soli 19 anni divenne imperatore del Sacro Romano Impero e si ritrovò ad essere l’uomo più potente d’Europa, protagonista della politica europea nel contrasto dell’avanzata della Riforma in Germania combattendo i Turchi nel Mediterraneo e scontrandosi ripetutamente con un suo avversario ostinatissimo, Francesco I re di Francia. Contemporaneamente procedevano le spedizioni di abili conquistadores nelle terre del Nuovo Mondo che garantivano l’oro necessario per finanziare le imprese di Carlo V. Leone X morì nel 1521 e gli subentrò Clemente VII, Giulio de Medici sotto il quale si verificherà il Sacco di Roma. ETA’ DELLA MANIERA FIRENZE La fase più avanzata del Rinascimento fu chiamata “maniera moderna” da Giorgio Vasari, il quale distinse i campioni di questa fase in Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Nella prospettiva evoluzionistica delle arti tipica di Vasari la maniera rappresenta il momento culminante in cui i maestri riescono a superare gli antichi e la natura. “David” di Michelangelo è un’opera commissionata dagli operai della Cattedrale di Firenze da collocare ad un’altezza notevole su uno dei contrafforti del Duomo. Gli fu affidato un blocco di marmo di più di 5 metri a cui lavorò per due anni e mezzo. Si riunì una commissione di cittadini e artisti per stabilire il luogo in cui doveva essere collocato: Leonardo propose di porre la statua sotto la Loggia dei Lanzi, luogo di assoluto rilievo. È evidente cogliere una certa malizia nell’argomentazione che Leonardo diede sostenendo che la statua da lì non avrebbe intralciato le liturgie civili che avvenivano di fronte al Palazzo. Non vi era artista che non fosse colpito dal David: Raffaello ne realizzerà dei disegni e dorerà la ghirlanda di metallo con cui si ornò il David, mentre Leonardo realizzerà degli schizzi copiando il David e trasformandolo in Nettuno con sotto di cavalli marini. Alla fine, la commissione optò per Palazzo Vecchio: la scelta era giustificata dal Venezia da secoli era un ponte tra l’Oriente e l’Occidente, una città multiculturale. Nello stesso anno in cui Carpaccio realizzava il Leone nel Palazzo Ducale, la Serenissima istituiva il primo ghetto ebraico della storia: un modo per controllare una comunità che cresceva esponenzialmente. Oltre alla comunità ebraica ricordiamo anche quella degli Albanesi, dei Turchi o dei Greci ortodossi, le cui comunità possedevano ognuna il proprio fondaco. Nel 1506 il pittore tedesco Albrecht Durer aveva dipinto per la chiesa di San Bartolomeo in Rialto una pala raffigurante la “Festa del Rosario”. La tavola fu commissionata dal mercante Fugger per l’altare della chiesa in cui si riuniva la comunità nordica. Sullo sfondo di un paesaggio alpino, Durer introduce una scena colorata e fastosa dove la Madonna e il Bambino incoronano il papa e l’imperatore e san Domenico e alcuni angeli incoronano il largo seguito di personaggi tra cui vi è anche il pittore. Vi è un omaggio a Bellini nell’angelo in basso che suona. Durer era il maggiore pittore tedesco del tempo ed era celebre soprattutto per le sue incisioni. Egli conosceva bene Venezia poiché vi soggiornò più di una volta. Abbiamo delle testimonianze sul suo soggiorno in Laguna grazie a delle lettere scritte da lui stesso: sappiamo che molti dei pittori italiani erano nemici del maestro tedesco, ne copiavano le opere e al tempo stesso le criticavano poiché non erano alla maniera antica. Tra questi pittori italiani non è incluso Bellini, che mostrò grande ammirazione verso Durer. All’inizio del Cinquecento, Bellini aveva ormai settant’anni ma continuava ad essere un protagonista nella scena artistica veneziana: nel 1501 realizzò un ritratto del doge Leonardo Loredan (a capo della Repubblica fino al 1521 durante la guerra con la Lega di Cambrai) alla maniera di Antonello da Messina: affacciato da un davanzale, di tre quarti con la veste damascata e il copricapo dogale. Il fondo non è scuro ma è azzurro, molto elegante e prezioso. Bellini realizzò anche una pala per la chiesa di San Zaccaria sullo stile della Pala di San Giobbe: il tema iconografico presenta la Madonna col Bambino su un trono sopraelevato rispetto ai santi circostanti di fronte ad un’abside all’antica decorata da un mosaico. Le novità in questa pala: pavimento prospettico a scacchi bianchi e rossi, l’abside appartiene ad un loggiato aperto sul paesaggio e le figure non sono più spavalde e smaltate ma hanno un carattere meditativo, assorto reso con lo sfumato (sulla base delle novità introdotte da Leonardo). Inoltre, riprende anche la vivacità di Giorgione in cui uomini e cose sono definiti da una luce sfumata. La composizione belliniana è costruita tramite accostamenti di colore secondo il principio del tonalismo: nella “Madonna col Bambino” emerge questa nuova tecnica. GIORGIONE Giorgio da Castelfranco detto Giorgione, un maestro che diede una forte svolta alla pittura veneziana di cui abbiamo poche notizie sulla sua attività: ebbe il compito di realizzare un telero per la Sala dell’Udienza in Palazzo Ducale e di affrescare la facciata del Fondaco dei Tedeschi (il primo è perduto mentre del secondo restano solo frammenti). “Adorazione dei pastori” atmosfera crepuscolare in cui viene ambientata la storia della nascita di Gesù nella campagna dell’entroterra veneto. Il piccolo Gesù è disteso per terra secondo l’iconografia fiamminga ed è nato nella grotta che occupa circa la metà del dipinto; l’altra metà è riservata al paesaggio dove si riconosce una coppia di pastori con gregge e una dimora contadina. In lontananza si intravede un borgo murato all’ingresso del quale si distingue il bagliore di una torcia. La luce, quasi notturna, si specchia sulle pareti di alcuni edifici e proviene da sinistra. Tutto in questo dipinto è giocato tra luce e colore (il manto di Giuseppe non è modellato tramite il disegno ma tramite la cromia). Giorgione si ispira a Leonardo nella cromia e nella resa della delicatezza dei volti. “Madonna col Bambino e i santi Nicasio e Francesco” pala realizzata per la chiesa parrocchiale di Castelfranco. È un dipinto che muove dalla tradizione belliniana per rompere con il passato: gli elementi già visti sono il pavimento prospettico a scacchi, la Madonna sopraelevata su un podio, mentre innovativa è la soluzione di rinunciare all’abside e porre un parapetto di colore che divide la zona delle figure in primo piano da un paesaggio retrostante. Giorgione pone la Madonna col Bambino così in alto da fissare su di loro l’orizzonte: l’occhio del pittore scavalca il parapetto e ci permette di vedere un ampio paesaggio naturale. La pala era destinata alla cappella che Tuzio Costanzo aveva fondato dopo la morte del figlio Matteo. Lo stemma di famiglia risalta al centro del sarcofago sottostante al podio che allude alla nobiltà dei Costanzo (il sarcofago è in porfido come quelli degli imperatori antichi. La famiglia Costanzo era originaria della Sicilia, e a memoria di ciò Tuzio richiese che con san Francesco, nella pala fosse raffigurato il santo Nicasio con una lucente armatura e il vessillo dell’ordine militare gerosolimitano. “La Tempesta”: dipinto in cui Giorgione riserva grande peso alla natura e infatti viene considerato come il primo paesaggio della storia. Il committente o il più antico proprietario fu il veneziano Marcantonio Michiel appassionato di pittura e collezionismo, il quale scrisse una raccolta sulle opere che poteva osservare nella casa veneziana di Gabriele Vendramin. Michiel ignorava il soggetto e pensava che fosse una scena di genere antecedente a quelle che andranno di moda nel Seicento: un paesaggio illuminato dal fulmine di una tempesta con una zingara e un soldato. Si discute molto sul tema del quadro che è stato interpretato come la condanna dei progenitori dopo il peccato originale (Eva nutre Caino e Adamo mantiene l’asta di uno strumento con il quale dovrà procacciare). Viene interpretato come una metafora della condizione umana. Giorgione più volte dipinse opere enigmatiche di questo tipo richieste da una committenza colta e istruita. Egli si allontana dalla tradizione ritrattistica antonelliana per esprimere i sentimenti e i moti dell’animo tramite la sua pittura fatta di luce e colore: “Ritratto” al Museo del Palazzo Venezia di Roma ritrae un giovane elegante che si affaccia da una finestra con atteggiamento pensieroso con la testa inclinata a poggiare sul braccio destro mentre tiene nell’altra un melangolo, varietà aspra dell’arancia (simbolo dell’amore infelice e malinconico). Un giovane alle spalle sembra trattenere un ghigno. L’immagine è poco convenzionale e sembra estremamente attuale (è stato messo in rapporto con le riflessioni sull’amore di Bembo) laddove si soffre per un amore non corrisposto e si cerca di condividere questo dolore. Il tema dell’amore ricorre anche nella “Venere dormiente” di Dresda che Michiel ci descrive nella casa di Girolamo Marcello. La dea è nuda e dormiente in una posa che richiama esplicitamente l’antico ma non ha nulla di archeologico. La giovane si copre pudicamente con la mano sinistra. Rappresenterà un modello di bellezza femminile che poi sarebbe diventato un classico della pittura erotica ispirando Tiziano, Goya e Manet. Giorgione concluderà la sua breve carriera con quest’opera lasciando come erede Tiziano. Tiziano nasce nel 1488 e intraprende la carriera di pittore a Venezia legandosi a Giorgione (collaborò con lui per gli affreschi della facciata del Fondaco dei Tedeschi. Michiel ci parla di un possibile intervento di Tiziano nella Venere di Dresda: avrebbe completato il paesaggio aggiungendovi la figura di Cupido. Le indagini radiografiche hanno dimostrato che alla destra della dea doveva trovarsi un Cupido che giocava con un uccello e una freccia. Alcuni attribuiscono a Tiziano anche il panno e il cuscino su cui è distesa Venere. Il borgo della campagna sulla collina di destra ritorna identico nel “Noli me tangere” che Tiziano realizzò dopo la morte di Giorgione: episodio in cui Cristo risorto in prossimità del suo sepolcro appare alla Maddalena per confortarla senza farsi toccare. Tiziano non rappresenta il sepolcro ma pone nelle mani di Cristo una zappa poiché secondo la tradizione la Maddalena inizialmente non lo avrebbe riconosciuto e lo avrebbe scambiato per un giardiniere. Le due figure sono immerse nella natura e nel colore: mette in scena un episodio sacro con i colori del naturale come fosse un incontro casuale in campagna (come Giorgione). “Ritratto d’uomo (Girolamo Barbarigo?)”: appartiene ai primi anni dell’attività di Tiziano. Probabilmente ritrae Girolamo Barbarigo, patrizio veneziano intorno ai trent’anni su un davanzale. Allo stesso modo di Raffaello, se Tiziano non avesse posto le sue iniziali sarebbe stato scambiato per un dipinto di Giorgione. Per sfuggire alla peste, Tiziano si trasferì a Padova, dove realizzò i suoi primi lavori documentati: tre Storie di sant’Antonio da Padova nella Scuola del Santo. La confraternita volle per la sua sede un ciclo che raccontasse la biografia del santo titolare: Tiziano raffigurò tre dei miracoli più famosi ossia Antonio che fa parlare il neonato per scagionare la madre dall’accusa di adulterio, Antonio che riattacca un piede a un giovane e Antonio che risana una donna pugnalata dal marito geloso. In quest’ultima scena Tiziano mostra in primo piano l’attacco del marito sulla moglie distesa a terra. I protagonisti risaltano grazie ai colori accesi delle vesti sul paesaggio neutro. Lo stesso uomo viene raffigurato in lontananza inginocchiato dinanzi a Sant’Antonio che ascolta il pentimento. “Amor sacro e amor profano” ritrae due donne su un idilliaco paesaggio veneto. Le due donne si appoggiano ad una vasca decorata con un rilievo: l’una nuda e l’altra vestita e tra di loro Cupido che soggetto a molte interpretazioni, si pensa potesse attribuire all’opera un senso moraleggiante che identificasse la donna vestita come l’amor profano e quella nuda come l’amor sacro. Le interpretazioni sono molteplici: ad oggi sappiamo che il dipinto doveva essere connesso alle nozze tra il veneziano Niccolò Aurelio e la padovana Laura Bagarotto: gli stemmi delle due famiglie si riconoscono sul fronte della vasca e sul bacile soprastante. Si è visto come un dipinto nuziale in cui la Venere nuda e Cupido accompagnano la sposa (Laura Bagarotto). La forma della vasca rimanda a quella di un sarcofago antico e attesta l’interesse per il mondo classico. Le figure sono più monumentali come quelle di Giorgione. “L’Assunta”: la grande pala di sette metri d’altezza per l’altare maggiore della chiesa dei Frari consacrerà Tiziano come maggiore pittore di Venezia. Marin Sanudo, diarista veneziano ci dice che il dipinto fu collocato sull’altare. È un’opera che supera la tradizione belliniana: il colore veneziano è adattato a figure imponenti e maestose con un’accentuata gestualità sulle quali si costruisce l’intera composizione. La pala si svolge su tre livelli: in basso la sorpresa degli Apostoli, al centro l’ascesa di Maria e in alto l’Eterno. Ludovico Dolce offrì una grande interpretazione della pala: egli sosteneva che in questa tavola si contiene la grandezza di Michelangelo, la piacevolezza di Raffaello e il colore naturale. Inizialmente l’opera non ebbe successo poiché gli artisti e il pubblico erano abituati ai gusti di Giovanni Bellini e quindi fu oggetto di critiche: dopo poco i veneziani si accorsero dell’innovazione della pala per il dinamismo dei personaggi e l’accesa cromia. Oltre a Tiziano, a Venezia si affermarono altri due pittori dopo la morte di Giorgione e Bellini:  Lorenzo Lotto nato nel 1480 a Venezia, emerse soprattutto a Treviso dopo una commissione di una pala destinata alla chiesa di Santa Cristina: “Madonna col Bambino e i santi Pietro, Cristina, Liberale e Girolamo”. Nel coronamento vi è la figura di Cristo in Pietà sorretto dagli angeli mentre la scena principale è una tipica sacra conversazione che si pone in conflitto con la Pala di San Zaccaria realizzata da Bellini in precedenza: Lotto adotta una composizione molto simile ma i personaggi sono come animati dal capriccio (sulla scia dei personaggi di Durer). I santi Pietro e Girolamo hanno volti arcigni, la Madonna e il Bambino hanno espressioni curiose mentre il masso di Santa Cristina evoca il martirio. Lotto non sarà stabile ma viaggerà da Recanati a Roma (attivo nelle Stanze Vaticane). Nel 1513 a Bergamo, Lorenzo ottenne la commissione di una pala per la chiesa domenicana dei Santi Stefano e Domenico da Alessandro Martinengo Colleoni. Il grande dipinto noto come “Pala Martinengo” fu compiuto nel 1516 e si allontana dalla tipica pittura veneziana: la sacra conversazione si ambienta in una struttura eccentrica dove l’apertura verso il cielo della tradizione di Mantegna si sposa con i mosaici veneziani e colonne di stile antiquario. Lotto è un regista sregolato che lascia libertà all’indisciplinato atteggiamento degli attori e alla loro esasperata gestualità.  Sebastiano del Piombo formatosi a Venezia nel primo Cinquecento. Il suo soprannome deriva dalla carica di piombatore delle bolle pontificie (apponeva il sigillo ai decreti e alle lettere del papa). Nasce a Venezia e si dedica in un primo momento alla musica e poi alla pittura. Sarà debitore della pittura di Giorgione. “Pala di San Giovanni Crisostomo” nella chiesa di Crisostomo. Il linguaggio di Giorgione si nota nelle fisionomie delle figure, nello sfumato e nella composizione resa tramite grandi campiture cromatiche ben accostate. Grande attenzione per l’equilibrio compositivo (precisione nella fuga prospettica del pavimento). L’innovazione ha sede nell’allestimento della scenografia dominata da colonne di un’architettura rinascimentale all’ombra della quale prende posto transetto che costituisce l’altra navata della chiesa a pianta centrale. All’incrocio di queste due navate si innalza una cupola: le pareti fingono nicchie con un abbondante corredo statuario di soggetti sacri non cristiani ma pagani (Apollo nudo con la cetra e Minerva in armi con lo scudo con la testa di Medusa). In questa struttura si stagliano 58 personaggi che dialogano, leggono o disputano con grande enfasi. Al centro sono rappresentati Aristotele e Platone (uno reca in mano il Timeo e l’altro l’Etica) in mezzo ad una scuola di filosofia. Spesso di tende ad interpretare la figura di Platone con barba e capigliatura rada come un ritratto di Leonardo, il quale indica verso l’alto, verso il mondo delle idee da lui teorizzato; Aristotele dal suo canto, ha il palmo rivolto verso terra perché manifesta la sua visione materialistica. Vi sono altri personaggi riconoscibili: Epicuro che veste i panni del bibliotecario detto “Fedra”; Bramante veste i panni di Euclide; Zoroastro è ritratto nelle sembianze di Pietro Bembo; in primo piano solitario è ritratto Eraclito che ha il volto di Michelangelo. Nella scena sotto la Poesia Raffaello rappresentò il “Parnaso”: monte della Grecia consacrato ad Apollo e alle nove muse protettrici delle arti. Il pittore non usò lo spazio di una lunetta poiché nella parte bassa si apriva una finestra. Al di sopra della finestra in un paesaggio montuoso si staglia Apollo intento a suonare una lira da braccio affiancato dalle Muse e da una serie di poeti antichi e moderni coronati di alloro (Saffo poggiata a sinistra sulla cornice della finestra, Dante sopra di lei in prossimità di Omero e Virgilio. Giulio II prima di Raffaello, nel 1505 chiamò a Roma Michelangelo con l’idea di affidargli il monumento sepolcrale per sé da collocare nella tribuna della Basilica di San Pietro. Il primo progetto prevedeva un monumento isolato come il sepolcro realizzato dal Pollaiolo per Sisto IV ma di dimensioni colossali. Il progetto ci è descritto dal biografo di Michelangelo, Condivi il quale ci dice che il monumento avrebbe dovuto avere pianta rettangolare lungo 10 metri e largo 7 metri. Ogni parete doveva ospitare nicchie con statue con attributi di riconoscimento. Sopra vi era una cornice nel cui piano si innalzavano quattro statue di cui solo una fu effettivamente realizzata, quella di Mosè al centro del sepolcro di San Pietro in Vincoli scolpita nel 1513-1516. Nel coronamento vi era l’arca sostenuta da due angeli. Il monumento poteva essere visitato dall’interno tramite un portale che permetteva l’ingresso in una stanzetta che ospitava il corpo del papa. Furono progettate più di quaranta statue di marmo oltre che rilievi in bronzo. Il progetto fu ricostruito da Charles de Tolnay. Michelangelo si recò a Carrara per reperire i marmi utili alla costruzione del monumento ma al suo ritorno nasceranno delle tensioni con Giulio II. Alla morte di Giulio II i suoi eredi rilanciarono la commissione del pontefice modificandone il progetto: invece che a un monumento isolato si pensò ad un sepolcro parietale più economico su due registri affollato di sculture, eliminando la camera mortuaria e ponendo sul catafalco la figura della Madonna con Bambino. Nel 1508 Michelangelo era impegnato nell’affrescare la volta della Cappella Sistina inaugurata nel 1512. Sappiamo che egli aveva una predilezione per la scultura: negli affreschi si nota questa sua tendenza a scolpire le figure anche in pittura. Prima dell’intervento di Michelangelo, la volta presentava un cielo stellato di stampo medievale cui l’artista decise di sostituire con una decorazione più complessa con scene dell’AT. Lo spazio è suddiviso da una poderosa struttura architettonica dipinta, illusionistica: nella zona centrale sono raffigurate nove Storie della Genesi dalla Separazione della luce dalle tenebre fino all’Ebbrezza di Noè; agli angoli vi sono circa una ventina di nudi; negli scomparti verticali sottostanti vi erano sette Profeti e cinque Sibille; ancora più in basso le vele e le lunette ospitano un ciclo di Antenati di Cristo; nei pennacchi angolari sono raffigurate Storie dell’AT. La fama della volta fu immediata fino a Vasari, il quale lodava la bontà delle figure e la perfezione degli scorci ma anche i belli nudi che Michelangelo realizzò di tutte le età, forma e attitudine. Michelangelo aveva risolto il problema di affrescare la volta con l’aiuto delle partizioni architettoniche in una sapiente composizione. Tre storie della Genesi: “Creazione di Adamo”: paesaggio inesistente, superficie neutra su cui si stagliano le figure del Dio Padre accompagnato dagli angeli e il corpo di Adamo nudo (perfezione anatomica). Dall’incontro delle dita dei due personaggi nasce la vita resa tramite le forme statuarie dei protagonisti. “Peccato Originale”: posa di Eva contorta e innaturale quanto l’attorcigliarsi del serpente tentatore sull’albero. La storia prosegue con la “Cacciata dall’Eden” scena drammatica con figure nude e volumetriche in uno spazio privo di prospettiva. Le figure femminili ritratte da Michelangelo hanno la stessa monumentalità e volumetria di quelle maschili: le Sibille sono rappresentate con braccia muscolose e con teste che scartano rispetto al corpo. Tra i Profeti ricordiamo la figura di Ezechiele, ritratto con un velo di malinconia (siamo negli anni in cui i sentimenti malinconici fanno da protagonisti nell’arte: Raffaello ritrae Michelangelo solo e pensoso mentre Durer in un’incisione rappresenta una donna alata con aria inquieta “Melancolia”). Negli anni in cui il progetto per il sepolcro di Giulio II fu rilanciato, Michelangelo lavorò anche ad altre figure: i cosiddetti “Prigioni” o “schiavi” per il registro inferiore della tomba. Lo “schiavo morente” è rappresentato come un giovane molto atletico studiatissimo nella resa anatomica e dal volto aggraziato. La posa è contorta per la flessione della gamba sinistra e il braccio soprastante alzato e piegato ad omaggiare il Laocoonte. Neanche queste sculture furono completate. Un’altra statua non finita è quella del “prigione” fiorentino che appare come una figura che cerca di liberarsi dalla materia che la ricopre, una lezione di scultura “per via di levare”. Le novità della volta sistina ebbero conseguenze immediate: oltre alle importanti committenze di Giulio II ricordiamo la figura di Johann Goritz originario di Lussemburgo e capace di diventare protonotario apostolico. Egli decise di fondare un altare sul terzo pilastro sinistro della chiesa di Sant’Agostino dove l’agostiniano Egidio da Viterbo teneva appassionate prediche. L’altare inizialmente era dedicato ad una cortigiana amata da Goritz: lo scandalo di questo amore fu trasfigurato nel culto per sant’Anna a cui fu poi intitolato l’altare. Egli volle per l’altare un gruppo scultoreo ricavato da un sol blocco di marmo che raffigurasse sant’Anna insieme alla Madonna col Bambino: affidò l’incarico a Sansovino che prese spunto dal cartone della sant’Anna di Leonardo. Rese al meglio il sorriso della vecchia santa, mentre nella rappresentazione di Maria si coglievano delle analogie con le matrone romane (acconciatura molto complessa). Al di sopra della nicchia dell’altare era presente un affresco realizzato da Raffaello che aveva come protagonista il profeta Isaia la cui fisionomia rimanda alle opere di Michelangelo realizzate nella sistina (Ezechiele). Sappiamo che Raffaello aveva avuto modo di osservare il cantiere della volta sistina ancor prima che fosse completato. Addirittura, Isaia srotola una pergamena che reca una citazione dal suo libro profetico scritta in ebraico. Stanza di Eliodoro: durante la realizzazione dell’Isaia, Raffaello aveva già avviato la decorazione della Stanza di Eliodoro sede delle udienze pontificie. Il programma iconografico si caratterizza per temi politici attraverso episodi di una storia millenaria in cui la Chiesa o gli eroi biblici si salvano da pericolose minacce. Si notano anche delle allusioni al momento difficile che Giulio II stava affrontando: le minacce della famiglia Bentivoglio di Bologna che cercava di far deporre il pontefice. Il linguaggio usato in questa stanza è diverso dalla precedente: intenso, drammatico, segnato dalle novità michelangiolesche e della pittura veneziana. La volta è ripartita in quattro Storie dell’AT dove le figure sono maestose e i paesaggi spogli. “Cacciata di Eliodoro dal Tempio”: la stanza prende il nome da questo affresco. Nella lunetta a destra si vede un gruppo dove un cavaliere travolge un uomo in armatura: questo dettaglio ci permette di cogliere la derivazione michelangiolesca di Raffaello, mentre il vaso pieno di ricchezza ci permette di identificare i personaggi (Eliodoro d’Antiochia, emissario del re di Siria che era stato incaricato di profanare il tempio di Gerusalemme). Al centro della scena è inginocchiato il sacerdote Onia, il quale pregava per fermare la profanazione. Rispetto alle architetture riprodotte nella stanza precedente, le quali dimostravano un forte interesse per l’archeologia, le strutture qui sono più realistiche: ad esempio, Giulio II è ritratto sulla sedia gestatoria, ossia il trono mobile in cui il papa veniva trasportato durante le cerimonie. L’ingresso del papa riprende gli studi sul colore tipici della pittura veneziana (incontri con del Piombo e Lotto). “Messa di Bolsena”: durante questa messa del 1263 si verificò il miracolo che diede origine alla festa del Corpus Domini. L’episodio allude alla difesa dell’eresia poiché la messa fu celebrata da un prete boemo che dubitava della trasformazione del pane e del vino nel corpo di Cristo; al momento della consacrazione l’ostia gettò il sangue dissipando i dubbi del celebrante. L’atmosfera è tenebrosa e la struttura architettonica rimanda a quella della Cacciata di Eliodoro. Da un lato Giulio II è inginocchiato di fronte all’altare (a sinistra) e viene ritratto in maniera molto fedele. “La liberazione di San Pietro”: la terza scena racconta la liberazione di Pietro dal carcere grazie all’apparizione di un angelo. La vicenda allude alla liberazione dei territori della Chiesa dalla minaccia francese, che nel 1512 Giulio II festeggiò con un pellegrinaggio a San Pietro in Vincoli (la chiesa ancora oggi conserverebbe le reliquie delle catene di Pietro di cui Giuliano era stato cardinale). Raffaello divide l’affresco in tre momenti: al centro l’angelo appare in un bagliore di luce dentro la cella di Pietro dormiente, a destra l’angelo e Pietro vanno via mentre due carcerieri dormono sulle scale e a sinistra la fuga viene scoperta. La scena colpisce per l’eccezionale luminismo. Stanza dell’Incendio di Borgo: nel 1513 alla morte di Giulio II, fu eletto papa Giovanni de Medici con il nome di Leone X, il quale si distinse più per il mecenatismo che per le imprese militari. Questa stanza aveva la funzione di sala da pranzo e prese il nome di Stanza dell’Incendio di Borgo dal primo degli affreschi di Raffaello: siamo nell’847 e nel quartiere di Borgo di fronte al Vaticano divampa un incendio tremendo che vediamo ai lati della lunetta (come fossero delle quinte architettoniche). Le figure cercano di scappare da un lato e di spegnere l’incendio dall’altro. Al centro si riconosce la basilica paleocristiana di San Pietro e più avanti la loggia da cui Leone X placherà l’incendio. Attraverso questo episodio si allude alla pacificazione di Leone X. Nella sala tutte le vicende erano accomunate da protagonisti di nome Leone. Villa di Agostino Chigi: uno dei più illustri committenti di Raffaello negli anni del cantiere delle Stanze Vaticane, fu Agostino Chigi, imprenditore e banchiere che possedeva un’enorme flotta commerciale e filiali in tutta Europa. Egli volle costruire una villa suburbana posta appena fuori dal centro di Roma e in una particolare zona strategica in prossimità del Tevere. Il progetto fu affidato all’architetto Baldassarre Peruzzi, che si era formato con Francesco di Giorgio Martini e aveva compiuto nel 1505 per Sigismondo Chigi la Villa delle Volte a Siena. Baldassarre utilizzò un modello di villa nuovo: la Villa della Farnesina appare come un palazzo a due piani che si apre con una loggia a cinque arcate e due ali aggettanti verso il giardino, il quale aveva in origine dimensioni maggiori ed era impreziosito da piante rare, statue e reperti archeologici. Le pareti esterne erano all’antica, con motivi architettonici di gusto antiquario come andava di moda nella Roma dell’epoca (decorazione oggi perduta). Gli interni sono caratterizzati da un forte gusto all’antica: Sala di Galatea: da un dipinto compiuto nel 1511 in cui si vede il trionfo della ninfa su di una conchiglia con due delfini in mezzo alla sua corte di divinità marine. La storia prosegue con l’innamoramento della ninfa di un giovane, Aci il quale fu ucciso dal ciclope Polifemo. Vi è un dipinto in cui viene rappresentato Polifemo che guarda Galatea poiché anch’egli era innamorato della ninfa e inutilmente tentava di conquistarla: il ciclope fu dipinto da Sebastiano del Piombo. La possanza di Polifemo testimonia l’influenza delle figure michelangiolesche. Sebastiano realizzò anche il ciclo delle dieci lunette soprastanti con poesie mitologiche. Parte del soffitto in alto ospitava la raffigurazione dell’oroscopo di Agostino Chigi realizzata da Baldassarre Peruzzi: personificazioni di pianeti e costellazioni nelle vesti di divinità antiche. Attorno ad Agostino Chigi ruotavano anche una serie di letterati, tra cui ricordiamo Egidio Gallo, il quale scrisse un poemetto “De Viridario Augustini Chigi” in cui celebra e descrive la villa ricordando che lo spazio davanti alla loggia era utilizzato come scena teatrale. Chigi organizzava molte feste in cui rappresentava commedie in latino che volevano far rivivere lo spirito dell’antico Plauto. Non abbiamo frammenti di questi apparti scenici ma sappiamo che quello romano fu disegnato da Baldassarre Peruzzi il quale aveva familiarità con le tematiche che erano riprese anche nella Sala delle Prospettive: ambiente in cui domina la pittura illusionistica tramite la quale le pareti fingono nicchie con statue e un loggiato aperto. Questa sala fu voluta da Chigi in occasione delle nozze con Francesca Ordeaschi. Il Sodoma ebbe il compito di affrescare la camera da letto con Storie di Alessandro Magno: ricordiamo l’episodio “Nozze di Alessandro e Rossane” dove la donna siede sul letto seminuda e Alessandro si volta verso di lei. Il tutto si svolge in una La cupola fu definita “un bel guazzetto di rane” mentre trovò un grande sostenitore in Tiziano, il quale sembrò apprezzare l’immenso valore dell’opera. Correggio è noto per i suoi grandi effetti di luce, espressi al meglio in due pale d’altare definite oggi come “Giorno” e “Notte”. “Madonna col Bambino e i santi Girolamo, Maria Maddalena e angeli (Il Giorno)”: pala realizzata nel 1528 per l’altare di Ottaviano Bergonzi, parente della badessa di San Paolo nella chiesa di Sant’Antonio a Parma. L’atmosfera è calda grazie ai colori utilizzati per le stoffe ma anche per la sensualità tenera della Vergine e degli angeli oltre che del corpo di Girolamo, di spalle come fosse una quinta architettonica. Emerge una forte intimità da questa scena. Il genere della sacra conversazione viene riletto e riorganizzato: l’angelo sfoglia un enorme volume (la Vulgata) mentre il santo stringe il rotolo del testo ebraico originale (dettaglio prezioso per gli osservatori più colti). “Adorazione dei pastori (La Notte)” commissionata da Alberto Pratonieri nel 1522 per la sua cappella nella chiesa di San Prospero a Reggio Emilia. È un notturno molto originale con figure disposte in diagonale che emergono dall’oscurità grazie alla luce intensissima del Bambino. Questo chiarore si diffonde dando corpo a tutto il resto precorrendo un espediente che avrebbe avuto grande fortuna nel Seicento (Gherardo delle Notti realizzerà quadri scurissimi con una sola fonte di luce come una candela). Nei primi anni Trenta, Correggio realizzerà una serie di “Amore di Giove” per il duca di Mantova Federico Gonzaga, dove rilesse i soggetti pagani di alcune storie delle Metamorfosi di Ovidio con uno stile sensuale. “Giove ed Io”: tratta dal mito in base al quale Giove si innamorò della figlia del re Argo, Io e la conquistò facendo calare su di loro una fitta nebbia in modo tale da non farlo scoprire alla moglie. Correggio esprime il tema erotico e carnale dell’episodio: Io appare nuda e provocante, di spalle, con lo sguardo che lascia intendere l’abbandono tra le braccia di Giove sottoforma di nube. “Il Ratto di Ganimede”: Giove si innamorò del fanciullo troiano e si trasformò in aquila per averlo e condurlo sull’Olimpo in modo da farlo divenire coppiere degli dei. Emblema dell’amore omosessuale tra un adulto e un adolescente molto diffuso nell’antica Grecia, inteso anche come momento di formazione tra maestro e allievo. Correggio rappresenta il momento del rapimento in cui Ganimede, seminudo, è attaccato all’aquila nera e in basso il cane abbaia invano. Nel Settecento Correggio raggiungerà l’apice del successo grazie alla presenza dei suoi dipinti nelle collezioni europee; inoltre, grazie a Correggio, Parma era divenuta una delle mete del turismo di altissima qualità noto come “Grand tour”. Un primo significativo riflesso della pittura di Correggio in terra emiliana è a Fontanellato, un borgo al centro della Pianura Padana, feudo della famiglia Sanvitale, che aveva la sua dimora nella cosiddetta Rocca Sanvitale. All’interno di questa rocca vi è la Sala dedicata a Paola Gonzaga, in cui Parmigianino (Francesco Mazzola) affrescò la volta ispirandosi al pergolato nella camera di San Paolo del Correggio. Ancora una volta il tema è ripreso dalle Metamorfosi di Ovidio: il cacciatore Atteone osservò la dea Diana mentre era nuda e faceva il bagno con le ninfe e per questo la dea lo trasformò in cervo (affinché non si vantasse di ciò che aveva visto) e finì sbranato dai suoi stessi cani. Linguaggio affine a quello di Correggio per la sensualità. Parmigianino durante quest’operazione aveva vent’anni e proveniva da una famiglia di pittori. Ben presto si distaccherà dal linguaggio di Correggio per assumerne uno proprio, originale: le sue figure erano dolci e leggiadre nell’attitudine. Sappiamo che doveva avere una personalità un po’ particolare e che dovette abbandonare lo studio perché si era appassionato di alchimia. “Autoritratto allo specchio curvo”: autoritratto virtuosistico di Parmigianino in cui si ritrae guardandosi allo specchio tipico dei barbieri (forma convessa) tenendo conto dei difetti che la curvatura avrebbe prodotto nella percezione dell’immagine (la mano in primo piano è molto più grande rispetto al volto del pittore). Parmigianino seppe anche riprodurre il lustro del vetro, le riflessioni e le ombre. FERRARA (ALFONSO D’ESTE) Per tutto il Cinquecento fu sede di uno Stato nelle mani degli Estensi oltre che una grande capitale artistica. Il duca Ercole d’Este aveva portato avanti un razionale ampliamento della città (ricordiamo l’addizione erculea). Con la morte del duca, Ferrara passò nelle mani del figlio Alfonso, il quale avrà un ruolo di primo piano nelle guerre d’Italia (grazie ad abilità finanziarie) e sarà appassionato di arti. Il Castello Estense, centro del potere di Ferrara, è collegato al Palazzo Ducale tramite un camminamento che poggia su cinque arcate, la “via coperta”, che garantisce alla famiglia un sicuro passaggio fra le due strutture. Alfonso trasformò quest’area nel suo appartamento privato con cinque stanze, soffitti intagliati e dorati, ornati e pavimenti marmorei: i cosiddetti camerini di alabastro. Ricordiamo la presenza di Antonio Lombardo che si trasferì a Ferrara per realizzare una serie di rilievi all’antica sia per stile che per soggetti (“Fucina di Vulcano” dove l’attività del dio e dei suoi assistenti allude alla passione di Alfonso per la metallurgia mentre una figura allude alla posa del Laocoonte scoperto da poco). La decorazione dei camerini è perduta per cui oggi è difficile ricostruire come dovevano apparire le stanze. Alfonso voleva emulare lo studiolo della sorella Isabella: aveva in mente di procurarsi dipinti di Raffaello, Michelangelo e Fra Bartolomeo. Il fallimento di questa impresa lo portò a introdurre nel suo camerino una testimonianza dell’evoluzione della pittura veneziana: ne ricordiamo un esempio, “Festino degli dei” di Giovanni Bellini, una scena pastorale in cui le divinità accompagnate da satiri e ninfe si riuniscono in un convivio mentre Priapo solleva l’abito della ninfa Lotide. Il dipinto è un gioco di colori e subì degli interventi da parte di Dosso Dossi e di Tiziano soprattutto nel paesaggio. Questi interventi furono necessari per uniformare stilisticamente il dipinto a quelli dipinti da Tiziano nella stessa stanza. “I Baccanali”: così come la vicenda messa su tela da Bellini proveniva dalle Immagini di Filostrato, un testo che descrive una serie di dipinti (veri o fittizi) di una villa romana nei pressi di Napoli, anche Tiziano si pose in continuità con quest’operazione di ricostruire i dipinti di cui ci parla Filostrato. In queste tele Tiziano dimostra la sua evoluzione nelle citazioni dalla scultura antica e dalla pittura centroitaliana. Con la “devoluzione di Ferrara” questi dipinti verranno acquisiti nella collezione del cardinale Aldobrandini e rappresenteranno una grande fonte di ispirazione per gli artisti che poterono così studiare il colore della pittura veneziana. “Bacco e Arianna”: in lontananza si intravede la nave di Teseo che ha abbandonato Arianna, la quale si volta immediatamente in una posa estremamente raffaellesca poiché attirata dal corteo di Bacco il quale appare seminudo con il braccio sinistro proteso. Egli si era innamorato di Arianna a prima vista. Tra i compagni della divinità vi è un uomo che lotta con i serpenti (richiamo al Laocoonte). “Offerta a Venere”: aspetto più sensuale del dipinto. Siamo in primavera, forse estate poiché gli alberi della campagna sono già pieni di frutti e la scena è abitata da una schiera di Amorini (riconoscibili per le loro ali blu) riuniti sotto la statua della loro madre, Venere. Tutti portano l’attributo tipico di Cupido e giocano tra di loro al suono dei cembali delle tre Grazie. Era la prima volta che si metteva in scena una schiera di bambini come soggetto di un quadro così colto: si vuole rappresentare l’energia dell’amore il quale produce una forza indomabile. “Baccanale degli Andrii”: scena ambientata nell’isola greca di Andros cara a Bacco. La donna nuda in primo piano evoca la Venere di Dresda, ma anche la scultura dell’Arianna nel Cortile del Belvedere (interpretata anche come Cleopatra); l’uomo al centro riprende un dettaglio della Battaglia di Cascina di Michelangelo; in mezzo a queste due figure vi è un putto con accanto un cartiglio con la partitura musicale del canone. Alfonso d’Este sarà un grande amante di Ariosto, nonché suo protettore. Ariosto scriverà l’Orlando Furioso come celebrazione della casa d’Este e in alcune ottave citerà alcuni tra i pittori principali a Ferrara: da Mantegna ai manieristi (Leonardo, Michelangelo) a Bellini, del Piombo fino a Dosso Dossi. Il nome vero di Dossi era Giovanni Luteri, nato tra Mantova e Ferrara e formatosi tra Mantova e Venezia. Nel 1514 fu alla corte di Alfonso e lavorò alle decorazioni per le stanze della “via coperta” mettendo in scena uno stile fantasioso e cortese, coerente con il gusto ariostesco. In alcuni suoi dipinti si riconoscono i personaggi del Furioso: “Melissa” la maga buona che profetizza la discendenza della casa estense dall’unione di Bradamante e Ruggero. Si riconoscono degli elementi di Tiziano nella libertà cromatica che vengono amalgamati con un gusto cortese (i castelli sono fiabeschi, gli alberi sono cespugli e il paesaggio assomiglia ad una visione onirica). La donna è raffigurata nel momento in cui sta per liberare i cavalieri cristiani e saraceni dall’incantesimo della maga Alcina che li aveva trasformati in alberi, pietre e animali. FIRENZE “Chiostrino dei voti”: la chiesa della Santissima Annunziata ha un ingresso molto particolare poiché al modo delle basiliche romane antiche, è preceduta da un cortile porticato detto “chiostrino dei voti” per gli ex voto che un tempo vi lasciavano i fedeli una volta ottenute le grazie. Il chiostrino fu costruito verso la metà del Quattrocento su disegno di Michelozzo e appare come una severa galleria di gusto brunelleschiano costituita da una sequenza di arcate a tutto sesto sorrette da colonne con capitelli corinzi. Fin dal Quattrocento si iniziò ad affrescare ma solo nel secolo successivo vide il confronto tra Andrea del Sarto e i suoi allievi Pontormo e Rosso Fiorentino. Con questi pittori si aprirà una nuova strada nella pittura fiorentina: la scuola dell’Annunziata rispondeva al linguaggio di San Marco (Fra Bartolomeo) in maniera più complessa prendendo come modelli Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Stava iniziando il periodo della Maniera moderna, lo stile del Rinascimento più maturo ed eccentrico. Guardando gli affreschi del chiostrino si ha la consapevolezza che nella pittura fiorentina, la passione per l’archeologia era ormai finita: ci si esercitava guardando Leonardo e Michelangelo (Firenze pensava di averli in casa gli antichi in una nuova gerarchia fondata sul presente). Andrea del Sarto si era formato con il pittore Piero di Cosimo e esordì nella Santissima Annunziata affrescando cinque “Storie di san Filippo Benizi” venerato fondatore dell’ordine servita. Il suo stile era molto attento all’equilibrio compositivo tanto da essere definito come un pittore senza errori da Vasari. L’affresco più celebre realizzato per il chiostrino fu “Natività della Vergine” compiuta prima del 1514 in occasione della concessione alla chiesa del giubileo perpetuo. Il soggetto riprende l’opera del Ghirlandaio in Santa Maria Novella con un’atmosfera molto diversa: lo spazio è grandioso e il clima è più intimo che celebrativo. La gestualità è accentuata rispetto alla ricchezza degli arredi riprendendo lo stile di Leonardo anche nello sfumato. La posa malinconica di Gioacchino fa capire che Andrea era a conoscenza delle novità romane di Michelangelo e la grazia dei volti femminili deriva sicuramente da uno studio di Raffaello. L’equilibrio della composizione è sicuramente l’aspetto più importante. Nel frattempo, Andrea istruiva due pittori nella sua bottega, i quali furono coinvolti nella decorazione del chiostrino: Pontormo (Jacopo Carrucci): affrescò nel chiostrino la vicenda della “Visitazione”, la quale si svolge su un palcoscenico austero di un emiciclo preceduto da scalini con al centro la vecchia Elisabetta di fronte a Maria. L’incontro si svolge in mezzo ad un gruppo di donne, fanciulli e giovani affrescati con una pittura morbida e sfumata. La morbidezza dell’opera deriva senza dubbio dagli studi di Leonardo condotti nella bottega del Sarto ma Pontormo palesa anche una passione per Michelangelo nell’uso delle tonalità tra il rosso, l’arancio e il malva. L’ancella seduta a sinistra sulle scale riprende nella posa le Madonne nel Tondo Doni e nel Pitti anche se appare priva di energia e piena di pensieri. Anche nel Pontormo si legge un aspetto malinconico: sappiamo che l’artista fu portato alla solitudine e tormentato dai malesseri reali o immaginari che viveva. Rosso Fiorentino: accanto alla “Visitazione” del Pontormo vi era “l’Assunzione” del Fiorentino, un’opera che ostentava una maggiore rottura con i modelli antichi. Il dipinto appare così inusuale nella sua resa che alcuni frati dell’Annunziata in un secondo momento chiederanno ad Andrea del Sarto di ridipingerla (questo non avvenne). Così come Venezia era stata turbata dall’Assunta di Tiziano, Firenze subiva lo stesso sentimento nei confronti di quest’opera di Rosso Fiorentino: l’episodio non presenta grandi architetture o l’incoronazione si dedicò a molte battaglie e quando abdicò in favore del figlio Filippo II, egli si adoperò per ratificare una pace con la Francia attraverso il Trattato di Cateau-Cambresis che segnava la fine delle guerre d’Italia: il Ducato di Milano, il Regno di Napoli, Sicilia e Sardegna erano nelle mani della Spagna, mentre la Chiesa dominava su gran parte del centro Italia, laddove Firenze divenne capitale del Granducato di Toscana con a capo Cosimo de Medici (fedele alla Spagna). Solo Venezia era indipendente. Con la morte di Clemente VII, succedette Alessandro Farnese con il nome di Paolo III il quale si impegnò a proteggere la Chiesa dalla minaccia dei protestanti. Egli morì nel 1549 dopo soli quattro anni dall’apertura del Concilio di Trento (indetto per combattere le dottrine contrarie alla Chiesa). Il Concilio verrà chiuso solamente con Pio IV con l’Età della Controriforma: una stagione in cui si affermò la supremazia temporale e spirituale della Chiesa di Roma e la possibilità di salvarsi con le opere di bene oltre che con la fede evitando qualsiasi tipo di corruzione. La Chiesa trovò un fedele alleato in Filippo II: nel 1571 la Lega santa (Spagna, Papato, Venezia) arrestò l’avanzata turca nel Mediterraneo mentre l’Invincibile Armata (messa su sempre da Filippo) subì una grave sconfitto contro l’Inghilterra di Elisabetta I. L’Inghilterra era ormai protestante: Enrico VIII aveva dato vita alla Chiesa anglicana che accoglieva i principi luterani e riconosceva il re come capo supremo disconoscendo l’autorità del papa. Enrico VIII riuscì a creare uno Stato laico lontano dalle guerre civili nate tra cristiani e ugonotti (Francia). VILLE: abbiamo visto come a Firenze, la famiglia Medici avesse riportato in auge il modello della villa romana collocata in un luogo salubre in modo tale che il proprietario godesse sia dei confort della campagna sia della possibilità di controllare le attività agricole e le rendite. La prima villa dell’età moderna fu commissionata da Lorenzo il Magnifico nei pressi di Prato, ma il prototipo per l’eccellenza della villa sorse a Siena: la cosiddetta Villa delle Volte. L’edificio fu costruito in cima ad una collina e fu voluto da Mariano Chigi: è una struttura con pianta a ferro di cavallo e un’architettura aperta da due ali verso il giardino retrostante (ricerca del legame con il paesaggio). La soluzione è stata probabilmente elaborata da Francesco di Giorgio Martini e completata poi da Baldassarre Peruzzi, il quale avrebbe adottato questa tipologia per la Villa di Agostino Chigi a Roma. Uno dei più grandi architetti di tutti i tempi fu Palladio, il quale progettò numerose ville nei dintorni di Vicenza e in altre parti del Veneto caratterizzate da una rilettura razionale dell’architettura antica come nel caso della Villa Rotonda. Palladio seppe unire la villa con gli annessi agricoli costruendo le cosiddette “Barchesse” come nel caso della villa per Leonardo Emo dove il corpo di fabbrica della casa è simmetricamente affiancato da lunghi edifici con loggiati. Nel corso del Cinquecento la campagna divenne importante nell’architettura: un esempio è Palazzo Pitti a Firenze, un edificio con pianta a ferro di cavallo che domina la città dal lato della facciata e dall’altro lato si apre su un enorme giardino, il giardino di Boboli. Il palazzo inizialmente si presentò molto più piccolo e con pianta quadrata rispetto alla ristrutturazione voluta in seguito da Cosimo I. Con Bartolomeo Ammannati la dimora dei Pitti fu trasformata nella residenza della famiglia del duca di Firenze allestendo il cortile chiuso dalle due ali aggettanti verso la collina retrostante destinata ad accogliere un parco con terrazzamenti, fontane e grotte. La campagna entrava così nelle mura di Firenze. Nel 1599 il pittore fiammingo Giusto Utens fu chiamato dal granduca di Toscana Ferdinando I a dipingere tutti i possedimenti medicei in una serie di diciassette lunette destinate alla Villa di Artimino: vedute a volo d’uccello che descrivono il paesaggio agrario che sorge alle spalle della villa. In una lunetta ricordiamo “Belvedere con Pitti” in cui si riconosce Palazzo Pitti con le ali aggiunte da Ammannati e senza l’ampliamento della facciata (600). Nel lato sinistro vi è il corridoio vasariano creato per collegare la residenza a Palazzo Vecchio e al di sopra vi è il Forte di Belvedere. L’assetto del Giardino di Boboli deriva da una serie di progetti che avevano visto nascere la figura dell’architetto di giardino: il primo era stato Niccolò Tribolo (si occupò dei giardini della villa medicea di Castello) il quale lasciò poi il lavoro a Boboli ad Ammannati e Buontalenti. In questo contesto nasce il giardino all’italiana: un giardino che traduce in termini monumentali l’ordine dell’hortus conclusus medievale con un’organizzazione razionale e geometrica degli spazi. Nel giardino all’italiana ha molta importanza il ruolo dell’acqua che sgorga da fontane meravigliose sovrapposte a vasche come nel caso della Villa di Castello. I giardini, quindi, accoglievano delle operazioni di regolamentazione delle acque e di realizzazione di acquedotti al fine di rifornire la città e la campagna di acqua. Una delle fontane più importanti dei giardini medicei fu l’Appennino: una statua nel parco della Villa di Pratolino realizzata da Giambologna, di dimensioni colossali. Può essere considerato un antecedente della Land art: emerge una forte volontà da parte dell’artista di intervenire sull’aspetto del paesaggio. Il giardino più eccentrico fu quello di Bomarzo voluto dal signore di Bomarzo, orsini, con gusto affine a certe invenzioni di Pirro Ligorio (architetto e antiquario napoletano). Su circa tre ettari di boscaglia si estende il Parco dei mostri (Sacro bosco): un percorso in cui si incontrano sculture mostruose ed edifici stravaganti con l’obiettivo di colpire e strabiliare il visitatore. Luoghi di fede: i “Sacri Monti” erano nati in funzione della devozione con lo scopo di ricostruire un percorso che riproducesse la topografia dei luoghi della Terrasanta. Nasce un vero e proprio genere del Sacro Monte che si articola nella costruzione di una serie di cappelle dedicate a episodi della vita di Cristo permettendo al fedele di vivere un’esperienza analoga al pellegrinaggio. Uno dei Sacri Monti più antichi è quello di San Vivaldo in Toscana per volontà del frate francescano Tommaso da Firenze, il quale volle organizzare il percorso in 25 cappelle con gruppi scultorei in terracotta policroma richiamando le robbiane care alla devozione francescana. Il più celebre dei Sacri Monti fu Varallo, compiuto solamente nel Seicento: comprendeva una chiesa e 44 cappelle ravvivate da affreschi e circa 800 statue. Il primo vero regista di questa impresa fu Gaudenzio Ferrari, autore della cappella della Crocifissione. Gli ordini monastici continuarono ad avere un ruolo importante nel passaggio tra un secolo e l’altro con fondazioni e ristrutturazioni di complessi medievali. Ricordiamo la nascita nel 1390 della Certosa di Pavia con Gian Galeazzo Visconti, un complesso che sarebbe stato costruito e decorato nel secolo successivo comprendendo una grande chiesa (facciata impreziosita da sculture), due chiostri, refettorio e ambienti per la vita dei monaci. Altra certosa, quella del Galluzzo sorge nella campagna intorno a Firenze: appare come un castello perché comprendeva anche un palazzo merlato costruito come residenza del committente, Niccolò Acciaiuoli. L’ordine certosino si diffuse anche al Sud: in Calabria nacque la Certosa di Serra San Bruno i cui edifici attuali sono frutto di una ricostruzione (gli originali furono distrutti da un terremoto); in Campania sorge la Certosa di Padula voluta da Tommaso Sanseverino le cui forme attuali risentono di una ricostruzione del Cinquecento e proseguita poi nei secoli successivi. ROMA (CLEMENTE VII) Alla morte di Raffaello restava ancora una Stanza da dipingere: la Stanza di Costantino, la più grande di tutte destinata a ospitare le cerimonie ufficiali e per la quale Raffaello aveva già dei cartoni preparatori. La stanza prende il nome dagli episodi sulle pareti che raffigurano quattro vicende della vita dell’imperatore: la Visione della croce, la Battaglia di Ponte Milvio, il Battesimo di Costantino e la Donazione di Roma. I cartoni dovevano essere tradotti in affreschi come fossero arazzi molto estesi in cui i soggetti fossero ritratti in pose complesse e ardite, sintomo della volontà di esasperare la pittura di Michelangelo. Sarà Giulio Romano formatosi nella bottega del Sanzio a porterà avanti questo cantiere, solo, dal 1520 al 1524. Tra gli allievi di Raffaello ricordiamo anche Perin del Vaga, il quale lavorò nella Stanza di Costantino con Giulio Romano. Egli lavorò nella cappella del cardinale fiorentino Lorenzo Pucci nella chiesa di Trinità dei Monti realizzando Storie della Vergine: nella lunetta centrale dipinse una Visitazione in cui rivela la sua dipendenza dalla matura pittura raffaellesca sia nell’impostazione delle figure che nelle vivaci cromie. L’episodio dell’incontro di Maria e Elisabetta è reso come fosse una scena teatrale (appare come una variante dell’Incendio di Borgo). Con Clemente VII furono richiamati a Roma molti artisti, tra cui anche Parmigianino, il quale si presentò e fece fortuna con il suo Autoritratto. Nel 1526 gli fu commissionata una tavola “Visione di San Girolamo” da Maria Bufalini per la chiesa di San Salvatore in Lauro: dipinto di formato verticale che avrebbe dovuto costituire una sorta di trittico con due elementi laterali mai realizzati. Il lavoro fu interrotto nel 1527 a causa del Sacco di Roma. La Vergine ricorda Raffaello per la grazia del volto e il Bambino invece testimonia l’interesse per Michelangelo (corpulento); in basso sono posizionate le figure di san Girolamo che dorme e sogna san Giovanni Battista, il quale compare al centro in una posa contorta tipicamente michelangiolesca mentre indica Gesù. Adotta la luce emiliana di Correggio che addolcisce le membra dei personaggi ed esplode nel bagliore alle spalle di Maria. La veste della Vergine è resa tramite una pittura filamentosa che Parmigianino ebbe modo di studiare tramite le statue antiche e che divenne una sua cifra stilistica. Con Parmigianino ricordiamo anche Rosso Fiorentino, il quale giunse a Roma nel 1524 mitigando il suo linguaggio rispetto agli esordi: realizzò “Pietà” per il vescovo di Sansepolcro Leonardo Tornabuoni con un carattere meno arcigno e demoniaco e meno carico cromaticamente. Cristo morto domina la scena (se si alzasse in piedi sarebbe il doppio degli angeli che sono già in piedi nella raffigurazione). Evoca Michelangelo nell’imposizione di far entrare il corpo di Cristo nella tela (Tondo Pitti). Cristo appare sensuale e rilassato. MANIERA O MANIERISMO Con la morte di Raffaello e il Sacco di Roma si palesano dei cambiamenti nell’arte: gli storici parleranno di Maniera e Manierismo. In Vasari, la Maniera è sinonimo di stile (la maniera moderna > lo stile di Leonardo, Michelangelo e Raffaello nell’imitazione degli antichi). I successori dei tre grandi artisti dovevano cercare delle vie originali sperimentando quindi linguaggi artificiosi e anticlassici: a questo stile si attribuisce il termine “Maniera” alludendo ad uno stile che non si ispira alla natura ma allo stile di altri artisti. Rientrano in questo stile Pontormo, Rosso Fiorentino, Parmigianino e Giulio Romano. L’iniziatore di questo stile fu lo stesso Michelangelo che, a partire dal Tondo Doni, ruppe i ponti con la tradizione: con il Giudizio Universale nella Sistina rappresenterà una sorta di manifesto della Maniera moderna per la libertà compositiva e le figure umane possenti e raffigurate in pose contorte e innaturali (figure cosiddette “serpentinate”). Nella seconda metà del Cinquecento questo modo di rappresentare le figure sarebbe diventato una moda. Agli inizi del Seicento le artificiose licenze della Maniera verranno soppiantate dalla nuova pittura dei Carracci e di Caravaggio. La Maniera non verrà apprezzata nei secoli a venire tanto che nel Settecento, il più importante ciclo di affreschi del Pontormo nella chiesa di San Lorenzo andrà distrutto: si dovrà aspettare il Novecento e le avanguardie per riscoprire l’arte della Maniera, un’arte anticonformista. Gli studiosi la definiranno “Manierismo” attribuendo una connotazione da avanguardia novecentesca (tramite l’aggiunta del suffisso -ismo). L’inquietudine che aleggia sulle opere manieriste è stata interpretata come diretta conseguenza della stagione delle Guerre d’Italia. JACOPO SANSOVINO Con il Sacco di Roma, i maggiori artisti che avevano affollato Roma sotto Clemente VII fuggirono via per rifugiarsi in altre città: Parmigianino si rifugiò in Emilia, Peruzzi a Siena, il Rosso tra Sansepolcro e Città di Castello. Quando i lanzichenecchi presero Roma, tra i maestri più affermati in scultura e architettura ricordiamo Jacopo Tatti detto il Sansovino, per essere stato allievo di Andrea, il quale a differenza del maestro che muoveva dall’antico, decise di ispirarsi ai maestri moderni. “Il Bacco”: nel 1515 scolpì per il giardino del Palazzo del mercante Giovanni Bartolini una statua di Bacco oggi al Bargello. Paragonandolo al Bacco michelangiolesco ci si rende conto che il mito antico è trattato in maniera diversa: la statua michelangiolesca è un falso archeologico, mentre il Bacco di Jacopo è animato dal dinamismo e presenta una grazia tipica raffaellesca. Sansovino può essere paragonato ad Andrea del FIRENZE: periodo in cui si colloca la carriera finale di Andrea del Sarto e il cantiere della Sagrestia Nuova di Michelangelo. Contemporaneamente si colloca anche l’attività di Pontormo, il quale realizzò per la cappella della famiglia Capponi all’ingresso della chiesa di Santa Felicita la “Deposizione”: il tema è tipico ma la resa è originalissima poiché le figure poste in una gerarchia piramidale, sono unite in un nodo indistricabile ispirate dalla volumetria michelangiolesca ma privi della muscolatura tipica di Signorelli (sembrano rigonfi d’aria). I volti sono allucinati, inquieti e i colori utilizzati sono rari e accesi, inusuali per un tema del genere. Non è un dipinto canonico del Cinquecento, è frutto di stravaganze nate da una personalità malinconica e alienata. Nel 1528 realizzerà per la chiesa di Carmignano vicino Prato, una “Visitazione”, soggetto che aveva già rappresentato in un primo momento nel chiostrino dell’Annunziata in un fondale essenziale privo di orpelli decorativi. Le quattro donne si ergono sull’intera superficie con pose contorte e sguardi alienati, le vesti gonfie e rese con colori accesi e rari. Alla scena dell’abbraccio tra Maria ed Elisabetta assistono due donne che ci guardano frontalmente: una giovane con i capelli raccolti e un’anziana con velo. Anche Rosso Fiorentino, dopo il Sacco di Roma, fuggì prima a Perugia e poi a Sansepolcro sede vescovile di Leonardo Tornabuoni, per il quale eseguì una pala per la Compagnia di Santa Croce presso la piccola chiesa di San Lorenzo. Egli ritorna agli aspetti demoniaci e inquieti e ad atmosfere dolorose ed eccentriche. Al centro vi è il Vesperbild: Maria sviene mentre tiene sulle gambe il corpo del Figlio (molto studiato nelle anatomie). Il giovane Giovanni sostiene le spalle del Cristo, mentre la Maddalena si dispera mentre nasconde il volto. Quest’opera esprime la reazione dell’artista all’episodio del Sacco di Roma: egli espresse in questa tavola gli incubi dei suoi anni giovanili. Si muoverà tra Sansepolcro, Città di Castello e Arezzo, passerà per Venezia e si recherà in Francia. A Siena iniziava ad affermarsi durante il cantiere del chiostrino, la figura di Domenico Beccafumi, il quale divenne un protagonista della Maniera guardando alla pittura di Fra Bartolomeo, Raffaello e Michelangelo. Negli anni Venti realizzò un’opera per la chiesa dei Carmelitani di Siena in cui il tema principale allude alla capacità della Chiesa di difendersi dalla Riforma luterana: “San Michele scaccia gli angeli ribelli”. La prima versione dell’opera non era minimamente ortodossa: l’arcangelo guerriero si staglia in alto sopra una composizione disordinata di figure impegnate nella lotta tra angeli e ribelli. Questi sono rappresentati tenendo conto dei nudi michelangioleschi riletti con sbattimenti di luce. Nella seconda versione della pala nella chiesa del Carmine, Beccafumi realizzò una composizione più equilibrata delle figure e suddivisa in tre registri: Dio Padre in alto circondato dagli angeli, san Michele al centro che alza la spada per sconfiggere Lucifero che si staglia nel registro inferiore. Gli effetti luministici sono mirabolanti: nel colore e nella luce Domenico costruisce la propria pittura. La doppia versione dell’opera ci fa capire come fosse importante il parere del committente ma anche il prestigio del committente poiché anche la prima versione scartata, verrà conservata ugualmente. L’affermazione di Beccafumi si ebbe con la commissione di un vasto ciclo di affreschi per la volta di una sala del Palazzo Pubblico, detta sala del Concistoro. Siena era una Repubblica dilaniata dall’assedio dell’esercito fiorentino e pontificio e sconvolta dalla lotta tra fazioni di famiglie signorili: la città era però orgogliosa della propria libertà e il ciclo di Beccafumi doveva dare prova dei valori repubblicani senesi per mostrarli a Carlo V. Il ciclo era di ispirazione politica: la volta all’antica ospitava le figure allegoriche della Giustizia, dell’Amor di patria e della Benevolenza (valori fondanti di una Repubblica) ritratte con uno stile brillante e un attento rigore spaziale. Nonostante la valenza politica di questo ciclo, nel 1555 le truppe fiorentine riuscirono a conquistare Siena. Scena con “sacrificio del re Codro” del ciclo: al centro un uomo si sveste dalle armi e dai vestiti regali; l’uomo è Codro ultimo re di Atene con alcuni dei suoi sudditi. In seguito ad una profezia che rivelò la vittoria di Atene su Sparta solo in caso di morte del re, egli si svestirà dei propri abiti e si travestirà. PARMA: Parmigianino fuggì da Roma dopo il sacco e si stabilì per qualche anno a Bologna e poi a Parma dove ricevette il compito di decorare il catino absidale della chiesa di Santa Maria della Steccata, un santuario mariano cittadino. Parmigianino non terminerà mai l’impresa e il suo incarico fu revocato: egli fu preso dalla passione per l’alchimia con la quale sperava di arricchirsi. Tra le opere completate ricordiamo il sottarco, uno spazio dominato da colori accecanti e un assetto architettonico giocato su lacunari all’antico circondati da rigogliosi festoni di frutta e alla base dell’arcone due coppie di nicchie con personaggi biblici (Adamo ed Eva e Mosè e Aronne). Tra le altre figure identifichiamo anche personaggi femminili con raffinati vasi sulla testa: si interpretano come le protagoniste della parabola del Vangelo di Matteo in cui Cristo racconta di un gruppo di vergini chiamate ad assistere al matrimonio (le donne sagge recano una lampada e una riserva d’olio mentre quelle stolte no > lampade spente). Durante questi anni, del cosiddetto cantiere della Steccata, Parmigianino realizzò “Madonna dal collo lungo” in cui adotta un linguaggio molto elegante tra l’aristocratico e l’astratto. Tende ad allungare le figure in maniera esagerata, dalla gamba dell’angelo che ha in mano il vaso (in cui si riflette la croce di Cristo), al corpo del Bambino, al collo della Vergine. Quest’opera fu commissionata per la cappella della famiglia Baiardi nella chiesa dei Servi di Parma. Reggia di Fontainebleau: Rosso Fiorentino si trasferirà in Francia grazie soprattutto all’amore di Francesco I per l’arte italiana. Egli era un mecenate e garantì al Rosso una vita da signore nel suo cantiere più prestigioso, il cantiere di Fontainebleau. Il castello fu riedificato da Francesco I secondo un gusto ispirato dalla Maniera italiana. Il complesso è costituito da una serie di edifici che mettono insieme prospetti rinascimentali con gli aguzzi tetti tipici della tradizione transalpina, circondati da giardini ampi. Rosso Fiorentino adottò in Francia uno stile decisamente più sereno rispetto a quello precedente: affrescò la Galleria di Francesco I con scene di vita del sovrano ed episodi tratti dall’antico come il “Bagno di Pallade” un trionfo di figure serpentinate sia nell’affresco che nei rilievi che lo circondano. I cantieri di Fontainebleau proseguirono anche dopo la morte del Rosso, che ebbe molto successo in Francia. Il prosecutore fu Francesco Primaticcio, pittore e architetto formatosi sotto Giulio Romano a Mantova. Egli insieme al Fiorentino, furono i principali esponenti della cosiddetta “Scuola di Fontainebleau” che contribuirà a diffondere la Maniera italiana in Francia. Nel cantiere ricordiamo anche il fiorentino Benvenuto Cellini: egli iniziò come orafo, fu imprigionato da Paolo III con l’accusa di aver rubato dei gioielli durante il Sacco e fu poi liberato da Ippolito d’Este. Al servizio di Francesco I, Cellini si avvicinerà alla scultura in bronzo monumentale. Gli fu commissionata la decorazione plastica del principale accesso al castello di Fontainebleau, la Porte dorée della quale oggi rimane solamente una lunetta in bronzo con la figura di una ninfa nuda in posa michelangiolesca. Cellini scriverà anche un’autobiografia interessante in cui menziona molti capolavori di oreficeria come la saliera che Francesco I mostrava durante i suoi banchetti: complesso scultoreo in miniatura in oro smaltato in erano raffigurati Mare e Terra seduti e nudi, il primo sottoforma di Nettuno con il tridente e una barca contenente il sale, e la seconda con attributi della cornucopia, simbolo di abbondanza e un tempietto contenente il pepe. ROMA Michelangelo pittore Nel 1534 Michelangelo abbandonò per sempre Firenze per trasferirsi a Roma fino alla sua morte poiché era ostile al nuovo regime di Alessandro de Medici ma anche perché vi erano progetti interessanti per lui nell’Urbe. Oltre alla tomba di Giulio II si aggiunse anche il progetto di Clemente VII di fargli affrescare nella parete principale della Cappella Sistina, un Giudizio Universale. Con la morte di Clemente VII, l’operazione fu portata avanti sotto Paolo III. L’idea di dipingere il tema del Giudizio andava ad alterare il ciclo circostante di gusto quattrocentesco: vennero distrutti tre fondamentali dipinti del Perugino (Assunzione della Vergine al centro, scene con la Nascita e il ritrovamento di Mosè e la Natività di Cristo). Prima di mettere mano alla parete, furono realizzati dei progetti fino al 1536 quando effettivamente Michelangelo salì sui ponteggi per iniziare l’opera (durò 5 anni la realizzazione). Il Giudizio porta alle estreme conseguenze il linguaggio giocato sullo studio dei nudi possenti e articolati che Michelangelo aveva adottato nella volta della cappella e che qui ripropone con grande libertà: le figure non erano ingabbiate in strutture architettoniche ma erano libere e articolavano loro stesse la struttura dell’insieme, molto chiaramente. La figura principale attorno a cui ruota la narrazione è il Cristo giudice illuminato da un forte bagliore con il braccio alzato al centro; alla destra vi è la Madre velata e intorno una serie di santi (tra questi riconosciamo san Bartolomeo nudo con in mano il coltello con il quale venne scuoiato e un volto nel quale Michelangelo ritrasse un proprio autoritratto). In alto nelle lunette sono ritratti degli angeli senza ali con gli strumenti della Passione mentre al di sotto dell’Empireo su cui domina Cristo, vi sono altri angeli che suonano le trombe e salvano i beati o cacciano i dannati all’inferno. Nella fascia più bassa possiamo vedere a sinistra la resurrezione dei corpi e a destra l’inferno. Tra le figure in mezzo ad un fiume emerge la figura di Caronte, traghettatore dell’Ade. Al margine destro degli Inferi vi è anche la figura di Minosse, re di Creta che nella mitologia antica svolgeva il compito di giudice delle anime: appare nel dipinto come una creatura orribile avvinghiata nella sua stessa coda. Il volto di Minosse è in realtà quello di Biagio da Cesena che durante i lavori del Giudizio ritenne inadeguato e disonesto porre l’opera all’interno di un luogo sacro. Il Giudizio venne criticato aspramente per la moltitudine di nudi ma non solo: Michelangelo aveva ritratto angeli senza ali, santi senza aureole, Caronte e Minosse come personaggi del mondo pagano e non come personaggi sacri. Anche Pietro Aretino, noto come letterato anticonformista, riteneva che il Giudizio fosse inadatto al luogo in cui si trovava (era inaccettabile perché era un’infrazione al decoro). Sappiamo che originariamente molte figure non dovevano apparire come le vediamo oggi: nel 1564 fu affidato a Daniele da Volterra, il compito di nascondere alcune oscenità dell’opera (Caterina d’Alessandria inizialmente doveva essere completamente nuda) ponendo al di sopra delle figure nude delle vesti (venne denominato come braghettone delle figure michelangiolesche. Il Giudizio Universale divenne il manifesto della Maniera. Il linguaggio del Giudizio poteva essere facilmente applicato anche ad altri soggetti: Michelangelo affrescò le pareti laterali della Cappella Paolina voluta da Paolo III nel Palazzo Apostolico con due episodi chiave della vita dei santi titolari della chiesa: “Conversione di San Paolo” e “Crocifissione di San Pietro”. Le due scene giocano sul movimento e sullo studio delle figure maestose su un paesaggio scarno e reso con colori poco vivaci, dove risalta il contrasto fra il cielo del martirio di Pietro e l’apparizione che disarciona Paolo nell’altra opera. Gli abiti non sono preziosi ma sembrano una seconda pelle tanto che aderiscono ai corpi dei personaggi. È interessante notare la disposizione obliqua dei protagonisti: Pietro a testa in giù nella croce messa in diagonale e Paolo disarcionato e disteso a terra mentre il cavallo fugge. Questa scelta deriverebbe dal fatto che i due affreschi sono collocati su due pareti laterali, per cui la visione delle opere sarebbe effettivamente obliqua. Le novità del Giudizio si diffusero preso grazie ad una generazione di maestri più giovani tra cui ricordiamo Daniele da Volterra, di formazione toscana con Sodoma e Peruzzi, si convertì presto alla maniera michelangiolesca. Come prova della sua conversione ricordiamo “Deposizione” realizzata nel 1545 per la Cappella Orsini nella chiesa Trinità dei Monti: Daniele sembra ricordare il dettaglio delle scale sulla croce della Deposizione del Fiorentino a Volterra ma per il resto i colori sono acidi come quelli di Michelangelo e le Marie assomigliano alle sorelle di Lia della tomba di Giulio II, oltre alla composizione di corpi aggrovigliati, figure muscolose e scorci difficili. Mentre Daniele dipingeva la Deposizione, Perin del Vaga diresse il suo ultimo cantiere nella Sala Paolina in Castel Sant’Angelo: egli morì nel 1547 come Sebastiano del Piombo. La loro morte lasciò spazio alla generazione più giovane: Marco Pino, Pellegrino Tibaldi. Il primo, allievo di Beccafumi, realizzò nella volta le Storie di Alessandro Magno; da lì entrò nel giro di Michelangelo e diffuse il suo linguaggio a Napoli. Michelangelo scultore Tomba di Giulio II: nel 1534, al ritorno a Roma, Michelangelo tornò ad occuparsi di un progetto nato nel 1505, la tomba di Giulio II. Nel 1532 egli si accordò con la famiglia Della Rovere su due novità: il monumento non sarebbe stato collocato in San Pietro ma nella chiesa di San Pietro in Vincoli; per completarlo potevano essere utilizzati marmi già lavorati. La versione finale risultò molto meno monumentale di quella che aveva progettato Giulio II: è una tomba parietale che si erge alla fine della navata di San Pietro in Vincoli. È divisa in due registri: Sappiamo che questo architetto doveva aver avuto una formazione bolognese e un’esperienza nel cantiere di Fontainebleau; gli fu poi affidato il Palazzo di Caprarola e contemporaneamente si dedicò alla stesura di Trattati sugli ordini architettonici. Per la Chiesa del Gesù pensò ad una pianta longitudinale a croce latina con ampia navata e cappelle laterali. La navata si doveva aprire liberamente verso il presbiterio in modo da rendere diretto il rapporto tra clero e popolo (come voleva la Controriforma). Il Vignola morì prima di completare la Chiesa che fu completata da Giacomo della Porta (facciata). Al centro della Cappella della Passione vi era una pala raffigurante “Compianto sul Cristo morto” che reca la firma di Scipione Pulzone: composizione ordinata e linguaggio chiaro, forme nitide e colori non troppo vivi che conferiscono alla tela un’atmosfera devota e pietistica. In questa tela non vi sono elementi della Maniera, né figure serpentinate. È un’immagine senza tempo (la Controriforma vuole congelare la quotidianità, la costanza nella devozione). Alternativamente al rigore militare dei Gesuiti, Filippo Neri (da cui nasceranno nuovi ordini oratoriani o filippini) viveva la Controriforma con uno spirito più allegro e sereno coinvolgendo i giovani: gli elementi della sua catechesi erano la tenerezza, buonumore e semplicità oltre che grande sensibilità estetica grazie alla quale riuscì ad apprezzare la pittura di Federico Barocci. Nel 1575 papa Gregorio XIII concesse a Filippo la chiesa di Santa Maria in Vallicella come sede di una compagnia, Congregazione dell’Oratorio. Federico Barocci si affermò tramite un linguaggio coloratissimo, messo a punto studiando i veneziani dalla collezione di Guidobaldo della Rovere e tramite un soggiorno a Roma. A causa di una malattia si ritirerà a Urbino dove resterà fino alla sua morte: “La Madonna del gatto” è un’opera rappresentativa del suo stile che sostituisce le figure monumentali di Michelangelo con figure ordinate e serene fondendo la pittura di Raffaello a quella di Correggio. Il clima è domestico, intimo, i colori sono molto vivaci e gli atteggiamenti dolci: il protagonista dell’opera è il gatto che è attratto dall’uccellino che Giovannino mostra a Cristo. Nel 1586 dipinse per Santa Maria in Vallicella una “Visitazione”: Santa Elisabetta sopra la scala abbraccia la Vergine mentre san Zaccaria è spinto verso di lei e san Giuseppe posa per terra un sacco. Sono immagini sacre che esaltano la santità e il decoro e incentivano alla devozione. ROMA (SISTO V trasformazione di Roma) Uomo di origini umili, Sisto V attuò numerose riforme fiscali e economiche ma trasformò anche la città dal punto di vista urbanistico, affidando la maggior parte dei lavori a Domenico Fontana. I due offrirono alla città un’organizzazione urbanistica moderna e razionale che è documentata da una mappa di Greuter (come faranno Napoleone III e Haussmann nell’Ottocento a Parigi riorganizzando la città su viali rettilinei). A Roma fu realizzato l’acquedotto detto Acqua Felice (in onore del nome di battesimo del papa) che riutilizzava l’antico acquedotto alessandrino recando l’acqua dalle sorgenti vicino Palestrina alle zone del Viminale e del Quirinale rifornendo la villa di Sisto V presso le terme di Diocleziano. La nuova Roma di Fontana prevedeva che le basiliche fossero collegate da vie diritte concentrandosi soprattutto su Santa Maria Maggiore in modo da equilibrare la presenza di San Pietro oltre il Tevere: Sisto V la dotò di una cappella in cui fece innalzare un monumento sepolcrale. Santa Maria Maggiore divenne il fulcro attorno cui ruotavano tre rettifili (strada Felice, via Merulana e Via Panisperna). Inoltre, furono riutilizzati i monumenti antichi per sottolineare il trionfo della Chiesa controriformata: furono recuperati quattro obelischi e collocati in piazza san Pietro, di fronte all’abside di Santa Maria Maggiore, in piazza del Laterano e in piazza del Popolo. Fontana si occupò anche di restaurare la Colonna Traiana e Aureliana collocandovi al di sopra dei bronzi di San Pietro e Paolo. TIZIANO A VENEZIA: prima che Jacopo Sansovino si recasse a Venezia per dare un assetto moderno a Piazza San Marco, Tiziano realizzò una pala in cui anticipò la scenografia di quelle nuove architetture. Nel 1519 il vescovo Jacopo Pesaro ordinò a Tiziano un dipinto per l’altare di famiglia nella chiesa dei Frari, la stessa per cui Tiziano aveva realizzato l’Assunta. La “Pala Pesaro” fu un’opera innovativa non solo per la vivacità cromatica ma anche per la costruzione della composizione in diagonale (precedente in Sebastiano del Piombo nella pala di Giovanni Crisostomo). La Madonna col Bambino siede in alto, di tre quarti su un podio monumentale dominando rispetto alle figure sottostanti. Al suo fianco ci sono i santi Francesco e Antonio da Padova (abitanti della chiesa dei Frari) e sulle scale c’è San Pietro che distoglie l’attenzione dalla sua lettura per guardare in basso verso il committente di profilo e accompagnato da un soldato e una figura con turbante (in onore della vittoria sui Turchi). L’uomo col turbante rappresenta un prigioniero turco mentre il soldato innalza una bandiera contenente uno stemma diviso in due: da un lato emerge l’arme Borgia di papa Alessandro VI e dall’altro quello di casa Pesaro. Colpiscono le due grandi colonne che fuoriescono dalla pala alludendo ad uno spazio ancora più monumentale. Tiziano costruisce la scena come un finestrone affacciato sulla navata sinistra della chiesa (spiega la composizione obliqua). TIZIANO A BOLOGNA: sede dell’incontro con Carlo V nel 1530 il quale diventerà suo cliente affezionato (ritratti). TIZIANO A MANTOVA: realizza per il signore Federico Gonzaga un dipinto di devozione privata “Madonna del coniglio” in cui mette in atto tutti gli studi fatti su Giorgione e concependo un’ambientazione agreste. La Vergine siede su un prato in una campagna mentre accarezza un coniglio con la mano destra, prende il figlio dalle braccia di Caterina d’Alessandria e poco lontano sullo sfondo emerge la figura di un pastore a guardia del suo gregge. È una scena di un idillio bucolico. TIZIANO A URBINO: prima di confluire nella collezione dei Medici, la “Venere di Urbino” appartenne a Guidobaldo II della Rovere. Riprende il modello della Venere di Dresda di Giorgione con delle variazioni: la giovane è distesa nuda mentre si copre pudicamente con la mano in una camera di una ricca dimora, non in una campagna come in Giorgione; ai suoi piedi vi è un cagnolino e in secondo piano due domestiche che preparano il cassone. Questa Venere non è dormiente, anzi guarda verso l’osservatore in maniera maliziosa e provocatoria. Questa Venere avrebbe ispirato altre versioni (la Maja di Goya o l’Olimpia di Manet). Una volta superati i sessant’anni, Tiziano riceverà una commissione da parte di Filippo II successore di Carlo V come re di Spagna: i dipinti avevano per soggetto la mitologia e furono definiti come delle vere e proprie poesie, equivalenti visivi di quando Ovidio aveva narrato nelle Metamorfosi. “Diana e Atteone”: il cacciatore Atteone scopre Diana e le sue compagne, nude mentre fanno il bagno. “Morte di Atteone”: Diana impugna l’arco e le frecce verso il cacciatore che si sta trasformando in cervo e sta per essere sbranato dai suoi cani da caccia. Sono passati trent’anni dai dipinti mitologici realizzati da Tiziano per Alfonso d’Este e l’atmosfera è molto diversa: emerge sempre l’aspetto sensuale e la passione per la bellezza e il colore, ma la narrazione è inquieta e febbrile e le pennellate sono più veloci (animano i personaggi). Si prediligono toni scuri che conferiscono tragicità alle vicende rappresentate. Più Tiziano si avvicina alla morte più la sua pennellata si disgrega raggiungendo esiti di grande modernità. L’ultima fase della sua attività lo vide realizzare un linguaggio disperato e personale nel quale la forma antica è solamente un mito irrecuperabile, il ricordo di un qualcosa di perduto. Questa descrizione è perfettamente coerente con “Punizione di Marsia” dipinto in cui viene rappresentato il supplizio di Marsia, che dopo aver sfidato Apollo, verrò scuoiato sotto gli occhi di Re Mida (a destra). Non è chiaro se la figura a sinistra colto nell’atto di suonare sia Apollo in un momento precedente della narrazione o meno. Un’immagine così cruda e violenta nella Venezia di quegli anni faceva pensare inevitabilmente alla morte di Marcantonio Bragadin, generale catturato e scuoiato vivo dai Turchi. Le forme umane in questo dipinto sono completamente disgregate e sono realizzate tramite la luce e il colore con una grande forza espressiva. Verso la fine della sua vita si cimentò in un’immagine della “Pietà” destinata alla propria cappella sepolcrale nei Frari (sappiamo che poi finì nella chiesa di Sant’Angelo). La scena è ambientata in una nicchia in cui la Vergine regge il corpo morto del figlio, affiancata dalle statue di Mosè e la Sibilla e da Maddalena, la quale allarga le braccia per esprimere il suo dolore. Il vecchio seminudo è un autoritratto di Tiziano nelle vesti di Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo o di qualche mistico testimone della sepoltura del Signore. La Pietà sarà completata da Palma il Giovane (lo spiritello con la fiaccola in alto e altri minimi dettagli). Esprime un testamento spirituale di Tiziano. LORENZO LOTTO Contemporaneo di Tiziano ma destinato a minor successo: aveva uno stile irriverente ed eccentrico molto distante dalla retorica del tempo. Cercò fortuna nell’entroterra e nelle Marche, ma nel 1525 scelse di tornare a Venezia (mentre Tiziano stava terminando la Pala Pesaro). Tutta la sua carriera è segnata da viaggi poiché le commissioni venivano principalmente da fuori: nel 1527 spedì a Recanati “Annunciazione” per la Scuola dei Mercanti, un dipinto molto personale, animato da uno spirito popolaresco e ricco di elementi inconsueti e spiritosi. L’ambientazione della stanza è ordinata e precisa: quest’ordine viene sconvolto dal dinamismo dei personaggi che appaiono agitati (Dio sembra tuffarsi dalla nube mentre l’angelo in basso è ritratto in una posa complicata e la Vergine appare impaurita in primo piano verso lo spettatore sembra volersi proteggere dalla miracolosa apparizione. Nello stesso anno realizzò un ritratto del collezionista di anticaglie Andrea Odoni oggi appartenente alla collezione reale inglese; il ritratto è verosimile, a mezza figura e il soggetto è corpulento e vestito elegantemente con una pelliccia mentre è seduto alla scrivania. È sicuramente il ritratto di collezionista più antico che abbiamo nell’arte europea. Tra il 1540 e il 1542 Lotto dipinse una pala per la chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo, una delle più grandiose e importanti di Venezia: dovette raffigurare un soggetto insolito che si richiamava alla politica umanitaria di Venezia tramite la figura del vescovo di Firenze, Antonino Pierozzi, domenicano che aveva fondato la Confraternita dei Buonuomini per aiutare i poveri vergognosi che non avevano avuto il coraggio di mendicare pubblicamente. Il dipinto prende il nome di “Elemosina di Sant’Antonino” e Lotta dedica la parte alta alla figura del vescovo che ascolta i due angeli e la parte bassa ai chierici che si affacciano da una balaustra per esaudire le suppliche dei più miseri. Il dipinto appare anticonformista (anche per i simboli del potere clericale posti ai piedi del vescovo come una sorta di natura morta). Questo dipinto non riscosse molto successo: nel 1552 decise di trasferirsi a Loreto dove morì due anni dopo. TINTORETTO Jacopo Robusti, detto Tintoretto, appartiene alla nuova generazione di pittori successivi a Tiziano. Il soprannome deriva dalla professione del padre, tintore di panni. L’opera che lo portò al successo fu “Il miracolo di San Marco” pala realizzata per la Scuola Grande di San Marco in cui viene raffigurato il miracolo del patrono di Venezia tra una folla gesticolante che si addensa attorno ad un corpo nudo a terra. Molti personaggi indossano un turbante poiché la scena si svolge in Oriente, ad Alessandria: uno schiavo contro la volontà del padrone, decide di venerare le reliquie di san Marco e per questo merita una punizione (è lui il personaggio nudo a terra in diagonale). San Marco si getta dall’alto per distruggere i martelli e gli altri strumenti accanto al corpo dell’uomo (dovevano essere usati per torturarlo). La pittura è molto rapida e la composizione del dipinto sembra essere organizzata tramite il colore. La scena è animata dalla luce (nimbo di san Marco). I personaggi derivano sicuramente da quelli michelangioleschi per i muscoli, la possanza e per le pose difficili (studio della Sistina). Questa tela appartiene ad un ciclo destinato alla Sala Capitolare della Scuola di San Marco: ricordiamo anche “Ritrovamento del corpo di San Marco” un dipinto con un’atmosfera spettrale e tenebrosa (l’ambientazione è un cimitero). Il punto di fuga della prospettiva è in diagonale e conferisce profondità alla scena mostrando le catacombe di Alessandria. I due mercanti Rustico da Torcello e Buono di Malamocco si sono recati in Egitto per trovare il corpo di San Marco e portarlo a Venezia: il corpo di San Marco in forme michelangiolesche appare per fermare la profanazione. Il corpo disteso è quello del medico Tommaso Rangone, committente della tela. Le figure di derivazione michelangiolesca sono plasmate tramite la luce e il colore. Nel 1564 ottenne l’incarico di decorare la sede della confraternita di San Rocco (Scuola Grande di San Rocco): il concorso prevedeva che alcuni pittori presentassero dei disegni per la decorazione di un soffitto. Tintoretto non presentò un disegno ma una tela, vincendo così il concorso. La tela era “San Rocco in gloria” ritratto in uno scorcio complesso di fronte a Dio e alla corte angelica al centro del soffitto della Sala dell’Albergo (sede delle riunioni del governo della confraternita). Per la principale parrete della sala, dipinse gemelli da Palazzo Vecchio all’Arno. Si riconosce in questo progetto un omaggio alla Sagrestia Nuova michelangiolesca. Uno degli interventi principali fu il Corridoio vasariano: un camminamento sopraelevato che Vasari realizzò nel 1565 per unire Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti in modo tale che il duca potesse muoversi tra la sua dimora e il palazzo del governo in maniera sicura. Nella metà degli anni Cinquanta, Vasari fu impegnato ad offrire un nuovo volto al Salone di Palazzo Vecchio voluto da Savonarola per accogliere le riunioni del Consiglio dei Cinquecento (per cui Leonardo e Michelangelo realizzarono le due Battaglie). Il Salone dei Cinquecento era un simbolo della Repubblica fiorentina: con il cambio di regime, Cosimo volle trasformarlo in una sala di rappresentanza in cui esibire il proprio potere a coloro che si presentavano a corte. Per questo motivo la decorazione doveva esaltare le glorie del granduca e non quelle della città. Vasari aumentò l’altezza della sala ampliandone il volume e realizzando un soffitto a cassettoni con 42 tavole che mostrano al centro l’apoteosi di Cosimo e intorno le allegorie dei suoi domini oltre che episodi storici. L’ideatore del ciclo fu il letterato Vincenzo Borghini, il quale progettò gli affreschi delle due pareti lunghe che illustravano la guerra contro Pisa e quella contro Siena. Vasari fu un abile imprenditore: organizzò un cantiere operoso e affollato di aiuti. Tra i vari assistenti ricordiamo Giovanni Stradano o Jacopo Zucchi. Dal Salone si può accedere ad una stanza priva di finestre, lo “Studiolo di Francesco I” figlio di Cosimo. Questo appare molto diverso dallo studiolo che abbiamo conosciuto in precedenza con Federico da Montefeltro ad Urbino: fu progettato da Vasari seguendo un progetto elaborato voluto da Vincenzo Borghini. La sala doveva custodire le cose rare e preziose, sia per arte che per valuta. In altre parole, doveva avere la funzione delle Wunderkammer “Camera delle meraviglie” in cui il collezionista conservava curiosi reperti naturali e manufatti artificiali. Il ciclo iconografico è di natura allegorica: i dipinti della volta e quelli sugli sportelli degli armadi hanno come tema i quattro elementi alludendo agli oggetti custoditi. Dopo la morte di Francesco I, il suo successore Ferdinando I lo farà smantellare; verrà riscoperto solamente nel Novecento grazie a Giovanni Poggi che riuscì a ricostruire l’allestimento attuale. Lo studiolo contiene una grande quantità di dipinti e sculture: Vasari dipinse “Perseo e Andromeda” su uno sportello, un episodio mitologico che godeva di grande fortuna a Firenze e che Vasari dipinse con eleganza sopraffina tenendo conto della tradizione manieristica. L’episodio rappresentato è un espediente per narrare l’origine dei rametti di corallo (provenienti dal sangue della testa di Medusa) che erano custoditi nello sportello. Contemporaneo di Vasari fu Agnolo di Cosimo, allievo del Pontormo e conosciuto come il Bronzino presso la corte medicea. Lui offrì una variante glaciale ed affascinante del Manierismo a Firenze. Negli anni Quaranta realizzò dei ritratti di corte in tono aristocratico in cui celebrò il granduca, la moglie Eleonora di Toledo e dei loro figli. Emerge un aspetto iperrealistico nei ritratti del Bronzino: ad esempio, nel ritratto di Eleonora e del figlio Giovanni de Medici, vi è un’attenzione maniacale ai dettagli della veste e dei gioielli. Eleonora era figlia del viceré di Napoli, andò in sposa a Cosimo molto giovane e i due ebbero insieme undici figli. Le figure ritratte sono impenetrabili non trasmettono emozioni: questo aspetto è enfatizzato anche dall’uso di tonalità di colore fredde. Nel 1540 Bronzino si occupò di decorare la nuova cappella per Eleonora in Palazzo Vecchio unendo la tradizione michelangiolesca con la formazione del Pontormo (“San Michele Arcangelo” è un esempio di questa sintesi). Nel 1545 realizzò per l’altare una pala raffigurante “Compianto sul Cristo morto” che possiamo interpretare come una risposta alla Deposizione del Pontormo. La vergine aiutata da Giovanni e dalla Maddalena tiene il figlio sulle ginocchia mentre una folla di dolenti si dispone intorno e gli angeli in alto portano gli attributi della Passione. La scena dovrebbe urlare dolore e sofferenza ma non lo fa poiché Bronzino non lascia trasparire alcun tipo di emozione: le sue figure (come nei ritratti) sono glaciali, cristallizzate dai toni freddi. Nel 1545 Benvenuto Cellini abbandonò la corte francese di Francesco I e ritornò a Firenze per affermarsi presso la corte di Cosimo I come scultore monumentale. Egli si presentò dichiarando il suo obiettivo di realizzare una statua per Piazza della Signoria: Cosimo gli affidò l’esecuzione di un bronzo raffigurante Perseo. La sua opera era destinata sotto la grande loggia richiamando un confronto immediato con la Giuditta di Donatello e il David di Michelangelo. Cellini, con la sua formazione da orafo, era certo che la tecnica della fusione in bronzo potesse essere migliorata: egli non affidò la fusione a degli specialisti ma si occupò di tutto il processo esecutivo personalmente. Sperimentò nuove tecniche realizzando un busto di Cosimo I come una sorta di imperatore antico: grande accuratezza nei tratti del volto, nei dettagli della capigliatura e dell’armatura. Il “Perseo” richiese nove anni di lavoro, fu presentato alla città di Firenze nel 1554 e ottenne immediato successo: il gruppo ancora oggi è sotto la Loggia della Signoria e si erge trionfante sul corpo della Medusa con la spada stretta nella mano destra dopo averla uccisa. È raffigurato nudo tranne che per l’elmo di Ade e i calzari alati e poggia su un basamento marmoreo di pianta quadrata che reca una nicchia su ogni lato per contenere Giove, Danae, Minerva e Mercurio. Dietro la scelta del soggetto bisogna riconoscere la volontà di Cosimo di paragonarsi a Perseo. La scultura richiese nove anni di preparazione per due ragioni: la difficoltà della fusione del bronzo e la necessità di cesellare e rinettare il bronzo. Il gruppo poteva essere visto da più punti e divenne un manifesto della scultura della Maniera. Alla morte di Cellini, si stava affermando a Firenze Giambologna (trasposizione italiana del suo nome Jean de Boulogne, fiammingo) il quale avrebbe affiancato al Perseo, il gruppo del “Ratto della Sabina”. Si formò inizialmente in patria e poi si spostò a Roma per un breve soggiorno fino a quando non raggiunse stabilmente Firenze. Fu reclutato per diversi cantieri medicei e cominciò ad elaborare un linguaggio capace di esasperare il movimento e le contorsioni della Maniera. Una delle invenzioni più note fu una statua in bronzo raffigurante “Mercurio” in atto di spiccare il volo. Progettata nella sua prima versione fin dal 1563 fu poi replicata in numerosi esempi. Giambologna si era proposto di attuare l’impossibile, una statua che superasse il peso della materia e creasse la sensazione di un volo rapido. Mercurio tocca solo con la punta del piede a terra (uno sbuffo di aria emesso dal Vento del sud). Giambologna fu additato come colui capace di realizzare solo figure graziose e non grandi statue di marmo: per questo motivo realizzò il gruppo scultoreo colossale raffigurante il “Ratto della Sabina”, un vorticoso intreccio di tre figure nude in movimento scolpite in un solo blocco. Concepisce una composizione elicoidale e continua che invita l’osservatore a girare attorno alla statua. LE FONTANE Nel rinnovare Firenze, Cosimo I mostrò attenzione verso il problema delle acque promuovendo interventi utili per la regolamentazione del corso dell’Arno e per potenziare l’approvvigionamento idrico della capitale. Il duca volle innalzare presso Piazza della Signoria la prima fontana pubblica della città, sormontata da una statua di Nettuno (colui che governa le acque). Con la morte di Baccio Bandinelli, si aprì una feroce competizione tra gli aspiranti scultori che desideravano farsi carico dell’opera: Ammannati, Cellini, Danti e Giambologna. Ognuno di essi realizzò un modello in terracotta: ebbe la meglio Ammannati, il quale inaugurò in occasione delle nozze tra Francesco I e Giovanna d’Austria, una prima versione della fontana con al centro Nettuno definita “Il Biancone” elevato su una conca che ha la funzione di carro trainato da quattro cavalli di mare. La fontana sarebbe poi stata completata da una serie di sculture di creature marine. Nel frattempo, Giambologna fu coinvolto nel riassetto urbanistico della città di Bologna per la quale realizzò il Nettuno per la fontana di una piazza adiacente a Piazza Grande: il dio è raffigurato in piedi con quattro putti in basso e quattro arpie agli angoli del basamento. A differenza dell’Ammannati, Giambologna realizza una statua che intende il movimento in maniera circolare: Nettuno invita con la mano sinistra il pubblico a girare intorno a sé. Prima che a Firenze e a Bologna, Nettuno fu il protagonista di una fontana a Messina in cui emergeva dal mare impugnando il tridente per cacciare Scilla e Cariddi. La fontana era un omaggio a Carlo V e alludeva tramite Nettuno a suo dominio e ai suoi successi contro i Turchi. In seguito a dei danneggiamenti le statue furono sostituite da delle copie e ad oggi sono nel Museo Regionale. Nel Novecento la fontana fu trasferita di fronte alla Prefettura e fu girata di 180 gradi rispetto al mare: Nettuno, quindi, sembra guardare le acque come un direttore di orchestra. Lo scultore della fontana fu Giovanni Angelo Montorsoli, scultore e frate dell’Ordine mendicante dei Servi di Maria (collaboratore di Michelangelo nella Sagrestia Nuova). Montorsoli fu incaricato anche di realizzare una fontana per Orione, fondatore della città: è costruita dal sovrapporsi di due tazze circolari sulla vasca di dimensioni più piccole man mano che si sale verso la statua di Orione accompagnato dal cane Sirio. Sotto di lui la fontana abbonda di putti e creature marine mentre sui bordi della vasca si distendono quattro figure barbute (divinità dei quattro fiumi Tevere, Nilo, Ebro e Camaro). Il precedente a cui si ispira Montorsoli è un modello che si stava diffondendo a Firenze nei giardini delle ville di Cosimo I: il modello delle tazze sovrapposte nella Fontana di Ercole e Anteo della Villa di Castello elaborata da Niccolò Tribolo (il gruppo scultoreo fu realizzato da Ammannati). Fontana di Francesco Camilliani per il giardino della residenza di Pedro di Toledo, viceré di Napoli e padre di Eleonora: popolata da cinquanta statue, il complesso sarebbe stato venduto nel 1573 da Luigi di Toledo, figlio ed erede di Pedro. La fontana fu smembrata in 644 pezzi e fu spedita in Sicilia per il centro di Palermo. SULLA SCIA DI MICHELANGELO MARCO PINO: Napoli sotto don Pedro di Toledo fu rinnovata con nuove fortificazioni (fu costruita Via Toledo e i Quartieri Spagnoli). Negli anni Quaranta giunse Marco Pino, il quale sarebbe rimasto fino alla sua morte. Realizzò la grande pala dell’altare maggiore della chiesa di Sant’Angelo a Nilo “San Michele Arcangelo” nel 1573, emblematica della maniera di Marco, per la posa contorta e per la capacità di sintetizzare la possanza michelangiolesca con colori vivacissimi e affascinanti aperture di paesaggio. Fu autore di una pittura molto sofisticata e molto apprezzata. PELLEGRINO TIBALDI: anch’egli mosse dalla Maniera michelangiolesca, lavorò prima a Bologna e poi si impose nella capitale lombarda dalla quale proveniva. Tibaldi fu coinvolto dal Borromeo nel suo progetto di mettere in atto i principi rigorosi della Controriforma: gli affidò il compito di costruire la chiesa di San Fedele nel centro della città come sede dell’ordine gesuita. L’interno ospita la predicazione e il coinvolgimento dei fedeli tramite una sola navata che focalizza l’attenzione direttamente sull’altare. In questa chiesa si conserva “Deposizione di Cristo” dipinto firmato da Simone Peterzano, alunno di Tiziano. L’immagine è austera e devota, le forme sono compatte e la luce è netta (nonostante si fosse formato con Tiziano, elaborò un linguaggio più realistico). GIUSEPPE ARCIMBOLDI: attività lombarda e poi a Vienna al servizio del nipote di Carlo V, Massimiliano II d’Asburgo e poi anche al servizio del figlio Rodolfo II. Egli nutriva una forte passione per le arti e il collezionismo mista ad una tendenza al bizzarro e allo stravagante. Arcimboldi rappresentava l’emblema della pittura stravagante: realizzò teste allegoriche composte da accostamenti di fiori o frutti o animali più svariati. “Autunno” è il ritratto di uomo composto tramite fiori, frutti e ortaggi (il mento è rappresentato con un melagrana mentre l’orecchio con un fungo). Questo dipinto appartiene alla serie delle “Quattro stagioni”. Le sue invenzioni bizzarre ci riportano alla caricatura e hanno alle spalle la particolare predilezione di Leonardo per le teste grottesche. LEONE LEONI: si distinse nella Milano spagnola del Cinquecento come orafo e scultore. Nel 1542 lavorò presso Alfonso d’Avalos il quale gli affidò il conio della zecca milanese. Alla morte di Avalos, trovò un nuovo protettore a Milano, Ferrante Gonzaga. Tra i ritratti principali realizzati da Leoni ricordiamo quello per Carlo V, a mezza figura senza le braccia e con il volto barbuto colmo di dettagli che poggia su una base in cui l’aquila viene affiancata da due figure nude serpentinate di telamoni che si identificano in Ercole e Minerva. Altro ritratto di Carlo V gli fu commissionato a Bruxelles nel 1549: una statua a tutto tondo in cui appare sia nudo sia vestito di un’armatura elegantissima (artificio della Maniera). Date le molteplici committenze imperiali, egli potè permettersi l’acquisto di una casa nel centro di Milano per la quale diede il via anche a delle ristrutturazioni: la cosiddetta “Casa degli omenoni” appellativo che si riferisce alla presenza dei telamoni in facciata, sculture realizzate da Antonio Abbondio e che ricordano i giganti affrescati da Giulio Romano. La sua affermazione a corte raggiunse l’apice nel 1580 quando trovò un suo erede nel figlio Pompeo che fu coinvolto nella decorazione scultorea della principale cappella della chiesa del monastero
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