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Riassunto Libro Balena volume I Ed. IV, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Riassunto completo del libro integrato con gli articoli del Codice di Procedura Civile

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 04/03/2019

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4.3

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Scarica Riassunto Libro Balena volume I Ed. IV e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Istituzioni di Diritto Processuale Civile - Balena ed.IV - Volume I I principi Capitolo I - Il diritto Processuale civile e la funziona giurisdizionale 1. Il diritto processuale civile e la giurisdizione Il diritto processuale è quella branca del diritto che disciplina l’insieme dei procedimenti attraverso cui si esercita la giurisdizione. Il diritto sostanziale mira a regolare in astratto tutti i possibili conflitti intersubiettivi, attribuendo posizioni di vantaggio e le corrispondenti situazioni di svantaggio; il diritto processuale serve, invece, a disciplinare l’intervento del giudice quando lo stesso sia necessario al fine di rendere concreto ed effettivo l’assetto di interessi delineato dal diritto sostanziale. La differenza tra legislazione e giurisdizione appare dunque evidente; problematico è, invece, definire il “proprium” dell’attività giurisdizionale, ossia i caratteri minimi essenziali che la differenziano dalla funzione amministrativa, preordinata anch’essa all’applicazione della legge. Sul piano oggettivo è lo stesso codice di procedura civile che riconduce alla giurisdizione due fenomeni decisamente eterogenei, quali la giurisdizione contenziosa e la giurisdizione volontaria; quest’ultima, dal punto di vista funzionale, appare assai prossima all’attività tipica dello Stato-amministrazione. Inoltre, vi sono organi che, seppur senz’altro estranei all’apparato giurisdizionale, sono per legge strutturati in modo considerevolmente autonomo rispetto all’esecutivo e ad essi sono attribuite funzioni tipiche della giurisdizione, quali la composizione di conflitti e l’irrogazione di sanzioni (es. Autorità di garanzia nelle comunicazioni e Autorità garante della concorrenza e del mercato). Per tali ragioni, nessuna delle diverse definizioni dottrinali di “giurisdizione” appare soddisfacente; sembra preferibile privilegiare, dunque, l’aspetto soggettivo, rinunciando ad una definizione ontologica e riconoscendo come giurisdizione, semplicemente quell’attività che promana dal giudice (ufficio giudiziario) e si estrinseca in forme tipiche ed è assistita da determinate garanzie procedimentali. Il criterio soggettivo trova puntuale fondamento nella stessa Costituzione, precisamente all’art. 102, ai sensi del quale : la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Da ciò si evince che la giurisdizione non potrà essere esercitata da organi non appartenenti alla magistratura ma, per contro, non è detto che ogni atto o provvedimento ascrivibile ad un ufficio giudiziario abbia necessariamente natura giurisdizionale, dal momento che è possibile e frequente che determinati organi cumulino in sé funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative, come nel caso del presidente del tribunale, il quale è senz’altro investito di compiti squisitamente giurisdizionali, ma nella direzione e nell’organizzazione del suo ufficio esercita attività di amministrazione pura. In conclusione, dunque, il criterio soggettivo non può non integrarsi con quello obiettivo e la linea di demarcazione potrà desumersi in virtù dell’interesse tutelato. 2. La giurisdizione contenziosa Obiettivo tipico ed essenziale della giurisdizione è quello di assicurare l’attuazione del diritto sostanziale, nell’eventualità in cui sorga un conflitto intersoggettivo. Il diritto sostanziale attribuisce in astratto posizioni di vantaggio (situazioni giuridiche attive: diritti, poteri, facoltà, …) e le corrispondenti posizioni di svantaggio (situazioni giuridiche passive: doveri, obblighi, soggezioni e oneri) in presenza di determinati presupposti e tale regolamentazione statica è di per sé idonea a governare la realtà giuridica ed a risolvere ogni possibile conflitto d’interessi, dato che il titolare del diritto riesce a realizzare il vantaggio assicuratogli dal diritto sostanziale attraverso il comportamento del soggetto obbligato. In certi casi, tuttavia, ciò non avviene; vuoi perché sorge un contrasto fra le parti circa l’applicazione della norma sostanziale, vuoi perché si verifica la c.d. crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato, il quale omette di tenere quel determinato comportamento necessario per la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto. Qualora si verifichi una crisi di cooperazione, il conflitto diviene effettivo, ma ciò non esclude ancora che le parti riescano a comporlo autonomamente, utilizzando uno degli strumenti previsti dallo stesso diritto sostanziale (es. transazione) e non è nemmeno escluso che il titolare del diritto ometta, a sua volta, di reagire, rimanendo quindi inerte di fronte al seppur illegittimo comportamento dell’altra parte. In questi casi l’ordinamento rimane indifferente soprattutto perché si tratta di interessi di natura privatistica, sicché sono le parti, in linea di principio, a poterne invocare la tutela. Pagina di 1 95 La giurisdizione interviene, invece, qualora a seguito di un conflitto, il titolare del diritto ne lamenti la lesione e chieda all’ordinamento di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse, facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato. In tal caso si rende necessario il ricorso al processo, nel quale il giudice dovrà, in primo luogo accertare l’esistenza del diritto e, successivamente, assicurarsi che il diritto in questione possa essere attuato anche contro la volontà del soggetto che l’ha leso. Tale tipo di giurisdizione è definita contenziosa, poiché presuppone l’esistenza di un conflitto intersoggettivo e mira alla composizione e alla risoluzione, in via autoritativa, del conflitto stesso. Tuttavia, ciò non vuol dire che il processo fallisca nel caso in cui lo stesso si esaurisce senza arrivare ad una decisione, magari perché le parti lo abbiano abbandonato. Anche in tale ipotesi, infatti, l’attività giurisdizionale consegue pur sempre il risultato di condurre ad una risoluzione del conflitto. 3. Il diritto d’azione (art. 24 Cost.) e i suoi possibili condizionamenti La funzione della giurisdizione contenziosa, pur essendo meramente strumentale rispetto al diritto sostanziale, è egualmente essenziale ed irrinunciabile. La ragion d’essere della giurisdizione è da individuarsi nel divieto di autotutela, oggi esplicitamente consacrato negli artt. 392 e 393 c.p. che sanziona l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza (rispettivamente) sulle cose e sulle persone. L’essenzialità della giurisdizione contenziosa trova un esplicito riconoscimento nell’art. 24, 1°comma, Cost. ai sensi del quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, nonché, per ciò che esplicitamente concerne i rapporti tra cittadino e P.A. nell’art. 113: contro gli atti della pubblica amministrazione la tutela giurisdizionale dei diritti degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Il tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. In tal modo si è voluta consacrare l’esistenza di un autonomo diritto, il c.d. diritto di azione, che ha natura strumentale rispetto ai diritti attribuiti dal diritto sostanziale ma, a differenza di questi ultimi, non può essere escluso dal legislatore ordinario; il che significa che al riconoscimento di un determinato diritto, si accompagna automaticamente (senza bisogno di una disposizione ad hoc) il riconoscimento del diritto di adire l’autorità giudiziaria per ottenerne tutela. In ciò consiste l’atipicità del diritto d’azione. Dunque, non sarebbero concepibili ipotesi di pura e semplice negazione della tutela giurisdizionale; tutt’al più vi è la possibilità che il diritto di ricorrere al giudice venga subordinato a condizioni o modalità o limitazioni più o meno incisive (c.d. giurisdizione condizionata) e, in tal caso, occorre capire se la compressione che ne deriverebbe per il diritto d’azione sia o meno compatibile con il precetto costituzionale. La soluzione discende da un bilanciamento degli interessi coinvolti, ossia da una valutazione concernente la ragionevolezza della limitazione, anche in rapporto ad altri principi di rango costituzionale, primo fra tutti quello dell’eguaglianza sostanziale solennemente affermato nell’art. 3, 2°comma, Cost. [Es. art. 98 c.p.c. dichiarato incostituzionale, in quanto consentiva al giudice di imporre all’attore, pena l’estinzione del processo, la prestazione di una cauzione destinata a garantire in caso di soccombenza, il pagamento delle spese del giudizio. La ragione è che il diritto d’azione non può subire limitazioni a causa delle condizioni economiche delle parti]. Uno dei profili più dibattuti, quanto al tema della giurisdizione c.d. condizionata, riguarda la possibilità che l’esercizio del diritto di azione sia differito nel tempo e subordinato al preventivo esperimento di un rimedio non giurisdizionale, ad esempio un tentativo di conciliazione stragiudiziale. A tal proposito, il d.lgs. 28/2010 ha reso obbligatorio l’esperimento preliminare di un procedimento di mediazione in settori molto vasti del contenzioso civile e il d.l. n°132/2014 ha reso obbligatoria la preventiva instaurazione di una procedura di negoziazione assistita nelle cause di risarcimento danni da circolazione di autoveicoli o natanti nonché in quelle aventi ad oggetto domande di pagamento a qualsiasi titolo per somme non superiori a 50.000 €. Pertanto, un differimento del diritto di azione è possibile a patto che: a. possa considerarsi giustificato dalla salvaguardia di interessi generali o da finalità di giustizia; b. sia congruo rispetto a tale scopo, in moda da non paralizzare la tutela giurisdizionale per un tempo eccessivo; c. non vada a pregiudicare definitivamente il diritto d’azione. Infine, per quanto attiene ai termini, il legislatore è senz’altro libero di stabilire quali limiti temporali eventualmente fissare per il ricorso alla tutela giurisdizionale, non soltanto per quel che riguarda l’esercizio dell’azione, ma anche e soprattutto relativamente alle impugnazioni, assoggettate quasi sempre a termini di decadenza più o meno brevi e rigorosi. Pagina di 2 95 8. La tutela cognitiva e il suo rapporto con il giudicato La tutela cognitiva mira essenzialmente a conseguire certezza circa l’esistenza o comunque relativamente al modo di essere del diritto o del rapporto giuridico controverso. Certezza che, a seconda dei casi, può risultare di per sé sufficiente a soddisfare l’interesse dell’attore, oppure, più spesso, può aprire la strada all’utilizzazione degli ulteriori strumenti processuali che, rientrando nell’ambito della tutela esecutiva, sono preordinati a garantire la concreta realizzazione del diritto riconosciuto esistente. Per comprendere come la tutela cognitiva consegua la certezza in ordine al diritto controverso, è necessario introdurre il concetto di cosa giudicata (o giudicato sostanziale); a riguardo, l’art. 2909 c.c prevede che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Per sentenza passata in giudicato si intende quella che ha raggiunto un certo grado di stabilità e, pertanto, non è più soggetta alle impugnazioni ordinarie ma solo, eventualmente, a quelle straordinarie. In virtù di tale stabilità, il legislatore prevede che nel momento in cui la sentenza passa in giudicato è ad essa che dovrà aversi riguardo per la concreta regolamentazione del rapporto controverso e tale regolamentazione non potrà rimettersi in discussione in alcun altro giudizio, se non per fatti successivi alla formazione del giudicato. Se, invece, la sentenza accerta l’inesistenza del diritto vantato dall’attore, questi non avrebbe la possibilità di riproporre la domanda in un nuovo processo, magari utilizzando prove che non aveva dedotto nel primo, se non allegando fatti successivi alla sentenza. In proposito si suole dire che il giudicato copre il dedotto e il deducibile, nel senso che si esclude la possibilità di far valere, in un altro processo, non solo le ragioni dedotte nel primo giudizio e già disattese dal giudice, ma anche quelle che, pur essendo attuali, non siano state fatte valere nella sede precedente. È proprio da ciò che deriva la certezza che costituisce l’obiettivo essenziale della tutela cognitiva, il che consente di comprendere perché quest’ultima sia solitamente preordinata alla pronuncia di un provvedimento idoneo al giudicato sostanziale. 9. Cognizione ordinaria e sommaria La tutela cognitiva può esercitarsi in varie forme e modi : Si parla di cognizione ordinaria, come sinonimo di cognizione piena ed esauriente, con riferimento a tutti i processi che, essendo caratterizzati da un complesso di esaurienti garanzie, fanno sì che la decisione sia fornita del massimo grado di affidabilità ed attendibilità, affinché le si possa senz’altro attribuire l’autorità di cosa giudicata. Tali garanzie mirano, sia ad assicurare la piena realizzazione del principio del contraddittorio fra le parti, sia a consentire al giudice di conoscere tutti i fatti rilevanti e comprendono un congruo sistema di rimedi (impugnazioni) contro eventuali errori del giudice stesso. Il concetto di cognizione ordinaria è diverso e assai più ampio rispetto a quello di processo ordinario; con quest’ultimo ci si riferisce a quel modello di processo che il legislatore considera come “processo-tipo”, utilizzabile per la tutela di qualunque diritto per cui non sia previsto un rito diverso. Esso, tuttavia, rappresenta soltanto uno dei molteplici processi a cognizione piena ed esauriente previsti dal nostro ordinamento. Tipico esempio (di altri modelli di processo a cognizione piena ed esauriente) è il processo del lavoro (artt. 409 ss.) che ha in realtà un ambito di applicazione ben più vasto del mero lavoro pubblico o privato, dato che costituisce il modello di riferimento, tra l’altro, per le controversie in materia di assistenza e previdenza obbligatorie, per tutte le controversie agrarie e per le opposizioni a verbali di accertamento di violazioni del codice della strada. La cognizione sommaria, a differenza di quella ordinaria, non fornisce le stesse garanzie di attendibilità ed affidabilità del risultato finale. Tale sommarietà può derivare : - Da modalità semplificate di attuazione del contraddittorio o, addirittura, dalla sua esclusione; - Dal tipo di prove che il giudice può utilizzare per formare il proprio convincimento; - Dal fatto che il provvedimento di accoglimento della domanda si fondi esclusivamente su un comportamento processuale (omissivo) del convenuto, che di regola non sarebbe sufficiente per decidere; - Dalla circostanza che l’accertamento del giudice riguardi alcuni soltanto dei fatti rilevanti per la decisione. Peraltro, non sempre la sommarietà di un procedimento emerge in modo inequivocabile dal mero suo raffronto con le caratteristiche del processo ordinario; un elemento utile all’interprete è rappresentato dalla forma del provvedimento che il legislatore prescrive per la decisione, infatti, il provvedimento tipicamente idoneo al Pagina di 5 95 giudicato è la sentenza, pertanto, qualora per la definizione di un processo sia prevista la pronuncia di una sentenza, sicuramente quest’ultima dovrà fondarsi su una cognizione piena ed esauriente. Il contrario, invece, non è sempre vero, dato che non sono affatto infrequenti i casi in cui la previsione di una diversa forma di provvedimento (ordinanza) è motivata con l’esigenza di semplificare la materiale redazione del provvedimento stesso e non con la sommarietà della cognizione. La riforma del 2009 ha d’altronde previsto che l’attore possa liberamente utilizzare, in luogo al processo ordinario, un diverso rito definito “procedimento sommario di cognizione”, che si conclude con un ordinanza pienamente idonea ad acquisire l’autorità della cosa giudicata. Pertanto, stando all’opinione più accreditata, l’aggettivo “sommario” sta ad indicare non una cognizione qualitativamente meno approfondita ed affidabile, bensì una certa semplificazione del procedimento, che il legislatore ha disciplinato in modo assai scarno. Tale processo, sebbene sia definito in primo grado con ordinanza, sia pur sempre un procedimento (speciale) a cognizione piena ed esauriente, che dovrebbe rimpiazzare quello ordinario nelle controversie più semplici. Le forme di tutela sommaria vera e propria implicano per definizione, una deviazione rispetto alle garanzie offerte dalla cognizione piena e, conseguentemente, vanno attentamente valutate quanto alla loro compatibilità con gli artt. 24 e 3, Cost. soprattutto dal punto di vista della tollerabilità della compressione che ne deriva al diritto di difesa del convenuto; compressione che, in ogni caso, non potrà mai escludere l’accesso al processo a cognizione piena. In conclusione, anche quando mancano precisi indizi normativi circa la sommarietà di un determinato procedimento, tale caratteristica può agevolmente dedursi ogni qual volta il legislatore abbia per l’appunto espressamente previsto la successiva instaurazione o prosecuzione del processo ordinario. 10. La funzione della tutela sommaria, cautelare o non cautelare, ed il suo rapporto con la tutela ordinaria Le relazioni tra la tutela sommaria e la tutela cognitiva ordinaria possono essere piuttosto varie. Innanzitutto, distinzione che si fonda innanzitutto sulla diversa funzione : A. La tutela sommaria cautelare costituisce un genus a se stante rispetto alla tutela cognitiva e a quella esecutiva ed è estremamente strumentale rispetto al processo a cognizione piena e/o a quello ad esecuzione forzata , dei quali dovrebbe assicurare la proficuità. I provvedimenti cautelari, infatti, servono ad impedire che, nel tempo necessario per portare a compimento il processo di cognizione, il diritto azionato subisca un pregiudizio irrimediabile : ad esempio si può ricorrere al sequestro conservativo per evitare che il debitore svuoti il proprio patrimonio. B. La tutela sommaria non cautelare, invece, mira ad offrire una sorta di scorciatoia rispetto alla cognizione ordinaria, ogni qual volta ricorrano particolari situazioni che potrebbero rendere eccessivo, o semplicemente superfluo, un provvedimento a cognizione piena ed esauriente : per esempio quando il comportamento processuale del convenuto lascia presupporre la fondatezza della domanda dell’attore o quando quest’ultimo dispone di una prova scritta del proprio credito. Accanto a questa differenza funzionale ve ne sono altre due, meramente eventuali : 1. La prima riguarda il contenuto : il provvedimento sommario non cautelare, dato che deve surrogare quello a cognizione piena, non può che avere un contenuto del tutto simile a quest’ultimo, cioè implica un’anticipazione degli effetti che deriverebbero dalla sentenza di accoglimento della domanda; il provvedimento sommario cautelare, invece, ha un contenuto più vario che non coincide, necessariamente, con quello del provvedimento a cognizione piena. 2. La seconda differenza riguarda il regime di stabilità del provvedimento : la tutela sommaria non cautelare nasce sempre come tutela provvisoria, destinata ad essere rimpiazzata dal successivo provvedimento a cognizione piena, tuttavia, se le parti rinunciano ad instaurare o a coltivare il processo a cognizione piena, la tutela sommaria non cautelare può ambire a diventare definitiva, talvolta addirittura nella stessa misura in cui è definitiva una sentenza passata in giudicato; quanto alla tutela sommaria cautelare, tenuto conto della funzione strumentale che la contraddistingue, essa dovrebbe essere intrinsecamente provvisoria e produrre effetti per il solo periodo necessario ad instaurare o portare a compimento il processo a cognizione piena o, eventualmente, quello esecutivo. Il provvedimento cautelare non dovrebbe mai fornire una tutela definitiva, equivalente a quella ordinaria ma, dopo la riforma del 2005, questo principio vale solo per i provvedimenti cautelari c.d. conservativi e non anche per quelli anticipatori. In conclusione, prescindendo dalle ipotesi in cui la natura cautelare può desumersi dal contenuto (non anticipatorio) del provvedimento, la distinzione tra le due forme di tutela sommaria si evince essenzialmente dall’elemento funzionale, ossia dalla strumentalità che caratterizza la tutela cautelare ed è, invece, estranea alla tutela non cautelare. Pagina di 6 95 11. La tutela esecutiva La tutela esecutiva serve a garantire al titolare del diritto la concreta realizzazione del suo interesse, in via coattiva e, dunque, facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato; ciò avviene attraverso una serie di attività che possono essere meramente materiali ed implicare l’uso della forza, o possono produrre delle modificazioni giuridiche nella sfera del soggetto esecutato. La tutela esecutiva è caratterizzata da una notevole astrattezza, dovuta al fatto che essa presuppone, quale condizione necessaria e sufficiente, il possesso di un titolo esecutivo da parte del creditore procedente. La nozione di titolo esecutivo comprende tutti e soltanto i documenti che il legislatore considera esplicitamente tali e la norma fondamentale è l’art. 474 c.p.c. che enumera tre diverse categorie di titoli giudiziali e stragiudiziali (sentenze; scritture private autenticate; atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale), ma non contiene un’elencazione esaustiva, dato che rinvia genericamente a “i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva ”. Art. 474. (Titolo esecutivo). L'esecuzione forzata non puo' avere luogo che in virtu' di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi: >1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva; >((2) le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonche' gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia)); >3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, ((...)). L'esecuzione forzata per consegna o rilascio non puo' aver luogo che in virtu' dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. ((Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi dell'articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del secondo comma)). Risulta impossibile ricostruire una categoria unitaria di titolo esecutivo, dal punto di vista dei requisiti di sostanza. Ad esempio, nell’ambito dei titoli giudiziali è chiaro che le sentenze passate in giudicato forniscono il massimo grado di affidabilità circa l’esistenza del diritto, pur non trattandosi di una certezza assoluta; ma la qualità di titolo esecutivo può competere anche a sentenze non ancora passate in giudicato, oppure a provvedimenti diversi dalla sentenza che si basino su una cognizione meramente sommaria circa l’esistenza del diritto. Per quanto attiene ai titoli stragiudiziali, invece, deve senz’altro escludersi che essi si fondino su un vero e proprio accertamento del diritto; anzi, in alcuni casi il favor per talune categorie di creditori (amministrazioni statali o altri enti pubblici), fa sì che venga attribuita la qualità di titolo esecutivo a documenti formati dallo stesso ente creditore, tipico esempio è l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate che già costituisce di per sé titolo esecutivo. In quest’ambito la discrezionalità del legislatore è notevole, essendo limitata soltanto da un’esigenza di complessiva coerenza del sistema e, soprattutto, dalla necessità di assicurare al debitore adeguati mezzi di tutela preventiva. La tutela esecutiva si esercita attraverso una pluralità di procedimenti, ordinari o speciali, collocati questi ultimi al di fuori del codice. Nell’ambito della disciplina codicistica, l’esecuzione generica (forzata) serve a realizzare un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; mentre l’esecuzione in forma specifica consente l’attuazione coattiva di un obbligo di rilasciare un immobile, di consegnare un mene mobile, o di fare/disfare qualcosa. L’esecuzione forzata vera e propria implica un’attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella del debitore e, dunque, il suo limite è rappresentato dagli obblighi c.d. infungibili, per i quali è irrinunciabile ed essenziale la cooperazione dell’obbligato. In queste ipotesi, a meno che non si voglia restringere la soddisfazione del creditore ad una mera tutela risarcitoria, il legislatore potrà utilizzare mezzi di coazione indiretta, ossia le c.d. misure coercitive, che mirano ad incentivare l’adempimento spontaneo dell’obbligo infungibile da parte del debitore. 12. La tutela cautelare La tutela cautelare si differenzia sia dalla tutela cognitiva, sia dalla tutela esecutiva, infatti, non mira né all’accertamento, né alla soddisfazione coatta del diritto, bensì ad approntare una tutela essenzialmente provvisoria, finalizzata ad evitare che il diritto subisca, nel tempo occorrente per portare a compimento un processo di cognizione e/o di esecuzione, un danno o un pregiudizio tale da rendere inutile la tutela giurisdizionale. Pagina di 7 95 coercitive, quali strumenti preordinati a disincentivare l’inadempimento dell’obbligo imposto dalla sentenza di condanna. Tali misure coercitive possono consistere in vere e proprie sanzioni penali o sanzioni civili che rendono più gravose le conseguenze dell’inadempimento. La sentenza del 2009, in particolare, ha introdotto una misura civile di carattere tendenzialmente generale, applicabile alle sole condanne aventi ad oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, stabilendo che il giudice (art. 614 bis), con il provvedimento di condanna fissi, su istanza di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Quanto alle misure di natura penale, l’unica disposizione idonea ad assicurare l’attuazione di qualunque provvedimento di condanna è rappresentata (art. 388 c.1 c.p.) dalla norma che sanziona (con la reclusione o con la multa) chi, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, compie sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti. Tuttavia, gli elementi soggettivi ed oggettivi in essa richiesti ne circoscrivono drasticamente il rilievo pratico. Ben più numerose sono le misure coercitive (penali e civili) previste a garanzia di determinate condanne, che solitamente attribuiscono rilievo alla mera inosservanza volontaria del provvedimento del giudice. In realtà nulla esclude che il legislatore possa impiegare le misure coercitive anche solo per rafforzare la tutela già offerta dall’esecuzione forzata, anzi, il ricorso a tale tecnica è l’unica soluzione quando ci si trovi in presenza di obblighi di fare in tutto o in parte infungibili, oppure di obblighi di non fare, rispetto ai quali l’esecuzione forzata non sarebbe utilizzabile. 17. Ipotesi particolari di condanna: la condanna generica L’art. 278, 1°comma, prevede che, qualora sia già accertata la sussistenza di un diritto, ma sia ancora controversa la quantità della prestazione dovuta, il giudice, su istanza di parte, possa limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. Tale pronuncia, nella sostanza, è assai più prossima ad una sentenza di mero accertamento e, comunque, non può avere l’effetto caratteristico della sentenza di condanna, cioè aprire la strada all’esecuzione forzata. Ciononostante, essa può essere comunque utile all’attore, dato che pone un punto fermo ed incontrovertibile sull’astratta sussistenza del diritto. La concreta utilità dell’istituto è assicurata dall’art. 2818, ai sensi del quale anche la sentenza di condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore. Tuttavia, la pronuncia della condanna generica, non esclude che la successiva sentenza sul quantum accerti come eguale a zero la prestazione realmente dovuta, vanificando così ogni concreto effetto della prima sentenza. Per quanto riguarda l’altro effetto tipico della condanna, ossia la conversione della prescrizione breve in prescrizione decennale art.2953 c.c., parte della dottrina ritiene che quest’ultima disposizione presupponga una sentenza di condanna idonea a costituire titolo esecutivo ma, di fronte alla formulazione letterale dell’art. 2953, non sembrano esservi ragioni per negarne l’applicazione alla condanna generica. L’opinione prevalente, inoltre, ritiene che la condanna generica possa chiedersi non soltanto come prima frazione della condanna vera e propria, ma anche fin dal principio in via autonoma, ossia come esclusivo oggetto del processo, che in tale ipotesi verrebbe limitato dall’attore all’accertamento della sussistenza del diritto, senza una sua quantificazione. In tal caso, tuttavia, è riconosciuta la possibilità al convenuto – interessato a non subire un doppio processo – di chiedere l’estensione del diritto alla quantificazione della prestazione da lui eventualmente dovuta. Art. 278. (( (Condanna generica - Provvisionale). )) ((Quando e' gia' accertata la sussistenza di un diritto, ma e' ancora controversa la quantita' della prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, puo' limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, puo' altresi' condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantita' per cui ritiene gia' raggiunta la prova)). 18. La condanna provvisionale L’art. 278, 2° comma, prevede che il giudice, su istanza di parte e alle medesime condizioni cui è subordinata la pronuncia della condanna generica, possa anche condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova. Pagina di 10 95 A differenza della condanna generica, quella provvisionale costituisce senz’altro titolo per l’esecuzione forzata e, per il quantum in essa accertato, non può essere rimessa in discussione. Vi sono delle ipotesi in cui il legislatore prevede la pronuncia di condanne provvisionali con ordinanza, anziché con sentenza, ad esempio nel processo del lavoro, in cui il giudice, su istanza del lavoratore, può disporre il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti in cui ritenga già raggiunta la prova. Mentre, l’art. 147 del d.lgs. 209/2005 (codice delle assicurazioni private) concernente i giudizi di risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli, consente agli aventi diritto che si trovino in stato di bisogno, di ottenere l’assegnazione, a titolo provvisorio, di una somma non superiore ai 4/5 della presumibile entità del risarcimento che sarà liquidato con sentenza. In questi casi si tratta, tuttavia, di provvedimenti sommari che ben possono essere modificati dalla successiva sentenza a cognizione piena. 19. La condanna con riserva di eccezioni In alcune ipotesi piuttosto rare, il legislatore prevede che, di fronte a determinate eccezioni del convenuto che non si prestano ad una pronta risoluzione, il giudice possa scindere l’oggetto della sua cognizione e decidere, accogliendo eventualmente la domande e pronunciando condanna, senza tener conto di tali eccezioni, che verranno esaminate in una fase successiva del giudizio. Si è dunque in presenza di una condanna che si basa su un accertamento incompleto ed è, pertanto, sommaria. Essa deve, quindi, considerarsi provvisoria e caduca bile in relazione all’esito della successiva fase del processo. È pacifico che si tratti di un espediente finalizzato ad agevolare considerevolmente l’attore e che, per converso, penalizza pesantemente il convenuto; conseguentemente l’istituto non troverà applicazione al di fuori delle ipotesi tipiche in cui il legislatore l’ha espressamente previsto. 20. La condanna in futuro Vi sono ipotesi in cui l’ordinamento deroga al principio secondo cui la sentenza di condanna presuppone una lesione attuale del diritto, ammettendo una condanna destinata ad operare in futuro, se e quando l’inadempimento dovesse realmente verificarsi. Art. 657. (Intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione). ((Il locatore o il concedente puo' intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali)). Puo' altresi' intimare lo sfratto, con la contestuale citazione per la convalida, dopo la scadenza del contratto, se, in virtu' del contratto stesso o per effetto di atti o intimazioni precedenti, e' esclusa la tacita riconduzione. La fattispecie che senz’altro può ricondursi a tale tipo di condanna è contemplata nell’art. 657, che consente al locatore di promuovere azione di rilascio, attraverso lo speciale procedimento per convalida di licenza o di sfratto, ancor prima che il contratto di locazione sia scaduto. Il vantaggio pratico che deriva all’attore dalla condanna in futuro è duplice : in primo luogo egli ha a disposizione un titolo esecutivo con indubbia efficacia dissuasiva dell’inadempimento; in secondo luogo , qualora l’inadempimento si verifichi, l’attore non dovrà attendere altro tempo per poter accedere al processo esecutivo. Tuttavia, va considerato che una siffatta azione può costringere il convenuto a subire il processo anche quando egli non solo non ha ancora violato, ma neppure contestato il diritto dell’attore. Inoltre, la condanna in futuro, poiché prescinde dall’intervenuta violazione del diritto, non può impedire al debitore di contestare per l’appunto la sussistenza del proprio inadempimento. Pertanto, è da preferire l’opinione secondo cui la condanna in futuro costituisce uno strumento eccezionale, circoscritto alle ipotesi espressamente previste dalla legge, con la conseguenza che al di fuori delle stesse, il diritto del quale non sia ancora configurabile una violazione, potrà essere oggetto soltanto di un’azione di mero accertamento. Tuttavia, la dottrina è solita ricondurre alla categoria delle condanne in futuro altre ipotesi, in cui la sentenza, pronunciando in relazione ad obblighi aventi carattere periodico o continuativo, accerta un inadempimento già attuale e, oltre a stabilire le misure risarcitorie o ripristinatorie, detta anche comportamenti cui il debitore sarà tenuto in futuro, in relazione al medesimo rapporto dedotto in giudizio. Pagina di 11 95 In conclusione, si può affermare, che l’inadempimento (parziale) di un obbligo periodico o continuativo, che sia attuale al momento della domanda e non abbia esaurito i propri effetti nel passato, giustifica l’estensione della condanna anche al periodo successivo alla pronuncia del provvedimento. Ipotesi affine, in qualche misura, alla condanna in futuro è rappresentata dalla condanna condizionale, in cui il comando contenuto nella sentenza è subordinato ad un evento futuro. 21. L’azione e la sentenza costitutiva L’ art. 2908 prevede che il giudice, nei casi previsti dalla legge, possa costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. In generale, quindi, l’azione costitutiva è quella che può condurre alla nascita di un diritto o di uno status, oppure alla modificazione o all’estinzione di rapporti giuridici preesistenti. L’ esempio tipico di azione costitutiva è offerto dall’art. 2932 che consente, in caso di inadempimento dell’obbligo di concludere un contratto, la pronuncia di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Si definiscono azioni costitutive non necessarie quelle in cui l’effetto costitutivo-modificativo-estintivo perseguito dall’attore potrebbe ottenersi al di fuori del processo, attraverso la collaborazione del debitore. Le azioni costitutive necessarie, invece, sono quelle che mirano ad una modificazione (concernente un diritto indisponibile) che le parti non avrebbero alcuna possibilità di conseguire per altra strada, attraverso la propria autonomia negoziale, neppure volendolo entrambe, es : le impugnazioni del matrimonio o l’azione di disconoscimento di paternità. Probabilmente tali azioni meriterebbero una collocazione autonoma sia rispetto alla giurisdizione contenziosa, sia rispetto a quella volontaria, infatti, parte della dottrina utilizza a riguardo il concetto di giurisdizione (o processi) a contenuto oggettivo, per sottolineare come tali processi non vertano su un diritto o uno status, bensì semplicemente sul dovere per il giudice di provvedere. Non sempre, però, la linea di confine tra l’azione costitutiva e l’azione di mero accertamento è netta, poiché vi sono casi, riguardanti rapporti giuridici sottratti alla disponibilità delle parti, in cui il legislatore richiede, per un’esigenza di certezza, che l’esistenza o l’inesistenza del rapporto venga accertata dal giudice, ma nel contempo lascia intendere che l’accertamento riguarda, per l’appunto, una situazione determinatasi prima e fuori del processo, rispetto alla quale la sentenza mantiene una funzione meramente dichiarativa. 22. Le sentenze c.d. determinative Oltre alle sentenze di mero accertamento, di condanna e quelle costitutive, parte della dottrina utilizza l’ulteriore categoria delle sentenze determinative, che costituirebbero una figura trasversale rispetto alle altre, nel senso che potrebbero aversi sentenze “meramente determinative”, “determinative di condanna”, o “determinative costitutive”, mentre, secondo una differente opinione, rappresenterebbero una species all’interno del genus delle sentenze costitutive. La nozione di sentenza dichiarativa allude alle ipotesi in cui il giudice è chiamato ad integrare o a specificare il contenuto di un diritto o, correlativamente, di un obbligo, che virtualmente preesiste rispetto al suo intervento, ma non è compiutamente determinato. A tal fine il giudice esercita una discrezionalità che potrebbe definirsi tecnica, dovendosi pur sempre ispirare a parametri e criteri oggettivi; si pensi al caso in cui il giudice debba stabilire la misura degli alimenti, in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizione economiche di chi deve somministrarli. L’autonomia e la concreta utilità di tale categoria di sentenze appaiono, tuttavia, assai dubbie, dato che la necessaria integrazione della norma sostanziale, ad opera del giudice, deve considerarsi un fenomeno assolutamente normale, discendendo dall’inevitabile elasticità e genericità delle nozioni e dei concetti di cui il legislatore è costretto ad avvalersi nella definizione delle fattispecie sostanziali. Sezione III - Il diritto e l’azione 23. La relatività del concetto di azione Quello dell’azione è un concetto essenzialmente relativo, infatti esso non può non risentire della profonda diversità di obiettivi che contraddistingue le azioni di cognizione rispetto a quelle esecutive e cautelari. Lo stesso legislatore, del resto, parla di “azione” in modo tutt’altro che univoco e, non di rado, come mero sinonimo di diritto soggettivo. Pagina di 12 95 29. Il diritto d’azione e di difesa ed il principio del contraddittorio Prima e più importante garanzia relativa al processo è quella contenuta nell’art. 24, 1° comma, Cost. Tale disposizione ha consacrato, a libello costituzionale, il principio del contraddittorio, che aveva già trovato un parziale riconoscimento nell’originario art. 101 c.p.c. e che è stato ulteriormente ribadito nell’art. 111, 2° comma, Cost. Art. 111 Cost. La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Art. 101. c.p.c. (Principio del contraddittorio). Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale e' proposta non e' stata regolarmente citata e non e' comparsa. ((Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione)). Art. 24 Cost. Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. La portata degli artt. 24 e 111 copre non soltanto il momento iniziale del processo, bensì ogni sua fase, assicurando che ciascuna delle parti abbia la concreta possibilità di replicare sia di fonte ad eventuali nuove allegazioni o richieste dell’avversario, sia di fronte alle stesse iniziative del giudice da cui possa derivare un qualche pregiudizio o possa addirittura scaturire un ampliamento del dibattito processuale. Non a caso la riforma del 2009 ha aggiunto un 2° comma all’art. 101 del c.p.c. prevedendo che il giudice, allorché ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, debba assegnare alle parti, a pena di nullità, un termine per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione medesima. La costituzionalizzazione del principio del contraddittorio suscita non lievi dubbi circa la legittimità dei non pochi procedimenti speciali nei quali il codice prevede o comunque consente che il contraddittorio tra le parti si instauri dopo la pronuncia del provvedimento (ad es. nel caso del procedimento per ingiunzione o dei procedimenti cautelari). Sicuramente, in talune situazione, finanche il principio del contraddittorio deve poter subire una temporanea compressione in nome di altri primari valori di rango costituzionale, tuttavia, è pur vero che tali deroghe dovrebbero essere sempre ben circoscritte, a livello normativo, e nel contempo dovrebbero operare per il tempo strettamente indispensabile alla successiva instaurazione del contraddittorio; condizioni, queste, cui il legislatore non sempre si attiene. Pagina di 15 95 Si ritiene, inoltre, che l’art. 24, 2° comma, Cost. sancisca anche il diritto alla c.d. difesa tecnica, ossia il diritto di avvalersi di un avvocato per sostenere le proprie ragioni dinanzi agli organi giudiziari; e lo stesso art. 24 si preoccupa di aggiungere che sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. 30. La c.d. parità delle armi Oltre al principio del contraddittorio, l’art. 111, 2°comma, Cost. enuncia anche il principio per cui il processo deve svolgersi in condizioni di parità fra le parti. In realtà, parrebbe trattarsi di una specificazione tutt’altro che indispensabile, del medesimo principio di eguaglianza sostanziale già desumibile, in termini più generali, dall’art. 3, 2° comma, Cost. Pertanto, si ritiene che il principio di parità non escluda in assoluto la legittimità di un trattamento processuale per taluni versi differenziato fra le parti, purché tale differenziazione sia ragionevole, cioè giustificata da un’oggettiva disparità fra le parti medesime, e non si traduca in un’indebita compressione del diritto d’azione o di difesa. 31. La ragionevole durata del processo Ancora l’art. 111, 2°comma, Cost. prevede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo. Tale principio è di primaria importanza, dato che in molti casi una decisione, pur favorevole, se interviene troppo tardi rispetto al momento in cui la parte ha adito il giudice, può risultare concretamente inutile e rischia di risolversi in un sostanziale diniego di tutela. Ad ogni modo, quella dell’art. 111 è una disposizione di mero indirizzo, priva di ricadute immediate sul processo, infatti, ogni causa ha i propri tempi fisiologici. Quel che è certo è che se il legislatore volesse dare effettiva attuazione al principio in questione, dovrebbe operare per un verso sugli aspetti organizzativi e strutturali, assicurando un rapporto adeguato tra il numero complessivo delle controversie ed il numero dei magistrati e, per altro verso, sul piano strettamente processuale, dovrebbe prevedere strumenti atti ad evitare che una delle parti o lo stesso giudice possano ritardare ad libitum il momento della decisione. Fino ad oggi, invece, alle varie riforme che hanno inciso sul processo, non hanno corrisposto efficaci innovazioni idonee ad incrementare la produttività degli uffici giudiziari. Il legislatore è stato dunque costretto ad intervenire con una legge ad hoc per disciplinare, attraverso una specifica normativa processuale, il diritto ad una equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole. 32. Il principio del giusto processo regolato dalla legge Il riformato art. 111, Cost. afferma che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Enunciazione questa cui non è affatto facile attribuire una portata concreta ed autonoma, specialmente per quel che riguarda il concetto di “giusto”. Tale concetto va interpretato nel senso di individuare, nel riferimento al giusto processo, una sorta di sintesi delle garanzie che il legislatore ha poi consacrato nei commi successivi dello stesso art. 111. È certamente corretto ritenere che il processo giusto sia quello che riesce a dare concreta e fedele attuazione a quell’assetto di interessi astrattamente delineato dal diritto sostanziale. È dunque necessario, al fine di considerare il processo come “giusto”, che esso sia congegnato in modo tale da rendere l’accertamento del giudice il più possibile attendibile e conforme alla realtà dei fatti e che siano previsti strumenti mediante i quali far concretamente conseguire alla parte che ha invocato la tutela giurisdizionale, tutte quelle utilità che il legislatore sostanziale le aveva in astratto garantito. Quanto all’esigenza che il processo sia regolato dalla legge, è chiaro che essa non può essere intesa in termini assoluti, dato che è inevitabile che alcuni aspetti della disciplina processuale (ad es. la fissazione di alcuni termini) siano rimessi all’apprezzamento del magistrato, dovendo appunto essere adattati alla peculiarità del singolo processo. L’art. 111, 1° comma, pone tuttavia degli indubbi limiti : - in primo luogo deve ritenersi esclusa la possibilità di affidare genericamente al giudice l’integrale regolamentazione del processo e, - in secondo luogo, ogni eventuale deroga rispetto al principio di precostituzione legislativa ed uniforme della disciplina processuale, deve risultare giustificata dall’esigenza di tener conto delle possibili peculiarità del processo e dev’essere sufficientemente precisata e circoscritta quanto ai presupposti del potere attribuito al giudice, onde evitare che tale potere possa sfociare in discrezionalità assoluta. Pagina di 16 95 33. L’obbligo di motivazione e la garanzia del ricorso per cassazione: rinvio. Cenni sulla pronuncia secondo equità L’art. 111, 6°comma, Cost. prevede che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati; ciò perché la motivazione costituisce un requisito indispensabile per ricostruire l’iter logico della decisione e, nel contempo, consente di verificare che la stessa risponda ai canoni oggettivi derivanti dal diritto e dalla ragione, evitando che il giudice possa risolvere la controversia in base a proprie intuizioni soggettive. Deve ritenersi, peraltro, che il legislatore costituzionale abbia inteso riferirsi non a tutti i provvedimenti giurisdizionali, bensì solo a quelli aventi contenuto decisorio; si discute, invece, se siano o meno compatibili con il precetto costituzionale diverse soluzioni che prevedono ipotesi di motivazione non obbligatori, ma subordinata ad esempio all’esplicita richiesta di una delle parti. Altra importantissima garanzia è quella prevista nel 7° comma dell’art. 111 che ammette il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, oltre che nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Tale disposizione implicitamente presuppone l’obbligo per il giudice di decidere secondo la legge; obbligo ribadito, in termini più puntuali, nell’art. 113 c.p.c. ai sensi del quale il giudice, nel pronunciarsi sulla causa, deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità. A tal proposito si è soliti distinguere in base alla circostanza che il giudizio secondo equità sia necessario, in quanto previsto dalla legge, oppure riposi sulla volontà comune delle parti (si parla, in tal caso, di equità concordata); mentre quest’ultima ipotesi non presenta particolari problemi, l’equità necessaria suscita, invece, dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione sia all’art. 101, 2°comma, Cost. che prevede che i giudici siano soggetti solo alla legge, sia in relazione all’art. 111, 7° comma, Cost. , giacché si risolve in un espediente diretto a giustificare il mancato sindacato di legalità della decisione da parte del giudice dell’impugnazione. Infatti, fino al 2006 le sentenze rese secondo equità erano completamente sottratte all’appello e sfuggivano, ovviamente, anche al ricorso per cassazione per violazione di legge. Dubbi oggi parzialmente superati, dato che la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittimo l’art. 113, 2°comma, Cost. nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, pur decidendo secondo equità, sia vincolato all’osservanza dei principi informatori della materia. Inoltre il legislatore, modificando l’art. 339, ha ammesso l’appello nei confronti delle sentenze di equità del giudice di pace, ancorché esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia. Capitolo IV - La domanda e le difese del convenuto 34. I fatti rilevanti per la decisione: in particolare, i fatti principali Compito essenziale del giudice è determinare le conseguenze giuridiche derivanti da certi fatti. Si è soliti contrapporre i fatti principali a quelli secondari. I fatti principali sono quelli rilevanti in via diretta per l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto dedotto in giudizio, poiché appartengono alla fattispecie legale ed astratta cui la domanda fa riferimento e condizionano, in positivo o in negativo, la fondatezza della domanda medesima, sicché la loro individuazione va compiuta in base ad un’analisi di natura strettamente sostanziale. Art. 2697. (Onere della prova). Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si e' modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda. I fatti principali si distinguono, secondo l’art. 2697 c.c. in : 1. Fatti costitutivi : cioè quei fatti da cui la disciplina sostanziale fa dipendere la nascita del diritto dedotto in giudizio; 2. Fatti impeditivi : caratterizzati dal fatto di paralizzare l’efficacia dei fatti costitutivi, impedendo loro di determinare la nascita del diritto; 3. Fatti estintivi : sono quelli idonei a determinare l’estinzione di un diritto anteriormente nato; 4. Fatti modificativi : sono quei fatti che producono la modificazione di un diritto già sorto. Il più delle volte, in realtà, la modificazione implica l’estinzione totale o parziale del diritto originario e la nascita di un diritto diverso. Il ruolo dei vari fatti principali, nella cognizione del giudice, può essere considerevolmente diverso a seconda che la domanda sia accolta o rigettata. Pagina di 17 95 quale viene rivendicato il bene giuridico. Il titolo consiste, dunque, nella compiuta esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, ossia di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, occorrenti per individuare in maniera univoca quest’ultimo; con la conseguenza che ad ogni variazione di tali fatti dovrebbe inevitabilmente corrispondere una domanda diversa. Tenuto conto che nel corso del processo è esclusa sia la proposizione di domande nuove, sia la radicale trasformazione delle domande originarie (c.d. mutatio libelli), se ne deduce: - per un verso che è preclusa anche ogni variazione dei fatti costitutivi allegati a sostegno delle domande formulate negli atti introduttivi; - per altro verso che, in caso di rigetto di una determinata domanda, ogni altra domanda fondata su fatti costitutivi anche solo parzialmente differenti, rimane liberamente proponibile in un successivo giudizio. In concreto, tuttavia, questi principi subiscono deroga in almeno due direzioni : 1. in relazione a quei diritti per i quali si ritiene non essere necessaria, quanto meno al fine dell’identificazione della domanda, la specificazione dei relativi fatti costitutivi; 2. rispetto a quelle variazioni più o meno marginali, tali da lasciare sostanzialmente immutati i fatti medesimi. 39. L’individuazione del diritto dedotto in giudizio: diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati Per quanto riguarda il primo punto, la dottrina più recente contrappone le domande autodeterminate a quelle eterodeterminate. La distinzione si basa sul presupposto che la causa petendi serve ad individuare in maniera univoca il diritto azionato, ma non sempre l’indicazione dei fatti costitutivi è indispensabile a tal fine. Infatti, quando per l’identificazione del diritto è sufficiente il petitum (mediato), mentre si può prescindere dalla specificazione dei fatti costitutivi, il cui variare non incide sull’identità del diritto stesso, si parla di diritto autodeterminato (e, correlativamente, di domanda autodeterminata). Allorché il diritto non possa essere individuato prescindendo dai relativi fatti costitutivi, dato che esso può ripetersi un numero indefinito di volte tra i medesimi soggetti, si parla di diritto eterodeterminato e, in questi casi, la modificazione dei fatti costitutivi implica sempre, in linea di principio, la deduzione in giudizio di un diritto diverso. Secondo questa impostazione, sono autodeterminate le domande basate sul diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento, su un diritto assoluto in genere, su uno status, o su un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione specifica. Tutte le altre domande, con cui si deduca un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione generica o un diritto reale di garanzia, sono invece domande eterodeterminate. 40. il mutamento e la modificazione della domanda La seconda questione riguarda le variazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi; questione che va affrontata nell’ambito del più ampio tema della modificazione della domanda. Il nostro ordinamento, fatte salve alcune eccezioni, esclude la possibilità che, a processo iniziato, siano proposte domande nuove; tuttavia, il legislatore consente espressamente la modificazione e, nel caso del rito ordinario, anche la precisazione delle domande originarie. Per quanto concerne il concetto di “modificazione”, con la riforma del 1950 si è consolidato l’orientamento secondo cui deve distinguersi nettamente la c.d. mutatio libelli, corrispondente al mutamento della domanda, precluso in ogni caso e in qualunque momento, dalla emendatio libelli, consistente nella mera modifica non sostanziale della domanda stessa, che è invece consentita seppur a talune condizioni ed entro certi limiti temporali. È opportuno, dunque, definire in concreto, i confini tra la mutatio e la emendatio, nonché quelli tra modificazione (emendatio) e precisazione; a tal fine converrà distinguere a seconda che le variazioni riguardino i soggetti, l’oggetto (petitum) o il titolo (causa petendi). - Quanto ai soggetti, è difficile ipotizzare delle variazioni, dal lato attivo o passivo, che non incidano sull’identità della domanda; tutt’al più può capitare che l’attore o il convenuto siano stati indicati in modo inesatto o incompleto, ma in tal caso la conseguenza sarà la nullità, peraltro sanabile, della domanda medesima. - Per quel che riguarda l’oggetto, la giurisprudenza e maggiormente rigida in relazione all’identità del bene giuridico perseguito dall’attore, ossia il petitum mediato; mentre appare più flessibile rispetto al tipo di provvedimento richiesto al giudice, ossia il petitum immediato, le cui variazioni vengono talora ricondotte nell’ambito della mera emendatio libelli. La stessa giurisprudenza, con riguardo alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, ammette poi, che il quantum della domanda venga specificato o modificato nel corso del giudizio; ma tali variazioni sarebbe preferibile qualificarle come mere “precisazioni”. Pagina di 20 95 - Le variazioni concernenti la causa petendi sono quelle che danno luogo ai maggiori problemi; la giurisprudenza suole affermare che si ha mutamento della causa petendi e, conseguentemente, un’inammissibile mutatio libelli, ogniqualvolta vengano dedotti in corso di causa fatti costitutivi nuovi e diversi da quelli originariamente allegati, in modo tale da ampliare in misura sostanziale il tema dell’indagine; la giurisprudenza ammette quindi, implicitamente, che possa aversi una mera emendatio allorché i fatti costitutivi vengano modificati in misura marginale. Sembra tuttavia preferibile ascrivere al concetto di “precisazione” le modificazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi e limitare l’emendatio libelli alle sole variazioni dei fatti costitutivi autodeterminati, le quali non influiscono sull’identità del diritto dedotto in giudizio e dunque lasciano immutato l’oggetto del processo. 41. La precisazione della domanda La precisazione della domanda, espressamente menzionata nell’art. 183, 5°comma, invece, deve ritenersi soggetta ad un diverso e più liberale regime processuale, essendo consentita per tutto il corso del processo e non soltanto – come la modificazione – nella fase iniziale dello stesso. Anche in questo caso, però, non è affatto chiaro dove si collochi la linea di confine tra le due ipotesi, che risente, ovviamente, dell’ampiezza concretamente attribuita alla emendatio libelli. Dovrebbe, in ogni caso, rimanere del tutto estranea alla precisazione della domanda la variazione o l’allegazione di nuovi fatti secondari, laddove tali fatti vengano intesi come qualitativamente diversi dai fatti principali ed operanti, a differenza di questi ultimi, sul terreno meramente probatorio. 42. Le eccezioni e le difese del convenuto Di fronte alla domanda, il convenuto può difendersi in vario modo, può avere diverse “reazioni” : 1. Eccezioni processuali. Sono quelle con cui si contesta la possibilità di decidere attualmente il merito della causa (pronunciare sulla fondatezza o infondatezza della domanda) in conseguenza del difetto di un presupposto processuale, sia esso di giurisdizione, di competenza, ecc., o di una condizione dell’azione, oppure dell’invalidità di uno o più atti processuali. A seconda dei casi, l’accoglimento dell’eccezione può condurre ad una sentenza di rigetto in rito, ossia per ragioni meramente processuali, oppure, quando il vizio sia rimediabile, può condurre ad un provvedimento diretto alla regolamentazione del processo. In materia di eccezioni processuali, non esistono regole generali, ma il legislatore non manca di fornire indicazioni specifiche. Ad es. in alcuni casi il rilievo dell’impedimento o del vizio processuale è riservato a taluna delle parti ed è ammesso entro termini assai brevi; mentre in altre ipotesi è consentito in ogni stato e grado del giudizio, anche ad opera del giudice e, in altre ancora, viene previsto un regime intermedio; 2. Mere difese. Possono consistere in argomentazioni puramente giuridiche, diretta a confutare le conclusioni dell’avversario, oppure nella contestazione dei fatti (solitamente costitutivi, a meno che non si tratti di un’azione di mero accertamento negativo) che l’avversario stesso ha allegato a fondamento della domanda; ciò avviene o attraverso la negazione diretta di tali fatti (eccezioni improprie) o attraverso l’allegazioni di altri fatti incompatibili rispetto a quelli dell’avversario. In linea di principio per la formulazione di tali difese, non è prevista alcuna specifica limitazione temporale; 3. Eccezioni di merito. Consistono nell’allegazione di un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, diretta a conseguire il rigetto della domanda, di regola attraverso l’accertamento negativo del diritto posto a fondamento di quest’ultima. L’eccezione, dunque, non estende in alcun caso l’oggetto del processo, così come determinato dalla domanda, poiché mira a far accertare l’inesistenza del diritto già dedotto in giudizio. Nell’ambito delle eccezioni di merito bisogna distinguere le eccezioni in senso lato dalle eccezioni in senso stretto; distinzione che si fonda essenzialmente sul regime di rilevabilità del fatto (impeditivo, estintivo o modificativo) che ne costituisce l’oggetto. • Le eccezioni in senso stretto riguardano i fatti (imp.-est.-mod.) che sono riservati alle parti non solo per quel che concerne l’introduzione nel processo, ma anche quanto alla possibilità per il giudice di porli a base della decisione. • Le eccezioni in senso lato, invece, hanno ad oggetto fatti il cui effetto impeditivo, estintivo o modificativo, una volta che essi siano stati acquisiti al processo, dev’essere senz’altro rilevato dal giudice d’ufficio, al fine di pervenire al rigetto della domanda. Le eccezioni in senso stretto sono ammesse nella sola fase iniziale del processo di primo grado, mentre le eccezioni in senso lato sono consentite pure in appello. Non è affatto pacifico quale sia il criterio discretivo tra le due categorie e quale sia la regola da utilizzare in assenza di disposizioni ad hoc. In dottrina e in giurisprudenza si è fatta strada la convinzione che il principio sia rappresentato dalla rilevabilità d’ufficio di tutti i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato; conclusione che viene fatta discendere dalla formulazione dell’art. 112, ai sensi del quale il giudice non può pronunciare d’ufficio sue eccezioni, che possono essere Pagina di 21 95 proposte soltanto dalle parti. Tale principio subisce deroga nei solo casi in cui la stessa legge dispone diversamente, nonché quando l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure di un contro diritto che potrebbe essere fatto valere con un’autonoma azione costitutiva; o più in generale, ogniqualvolta sia possibile ritenere che la parte interessata è libera di disporre di quell’effetto estintivo, impeditivo o modificativo, eventualmente rinunciando a farlo valere. 4. Eccezioni e domande riconvenzionali. Le eccezioni riconvenzionali non rappresentano delle eccezioni proprie, ma si contraddistinguono solamente per avere ad oggetto un fatto-diritto (e non un fatto semplice); più esattamente, un controdiritto che il destinatario della domanda potrebbe far valere in un autonomo giudizio, ma che invece utilizza al solo fine di ottenere il rigetto della domanda medesima. Il convenuto, anziché limitarsi ad una eccezione riconvenzionale, può far valere il controdiritto attraverso una vera e propria domanda, anche’essa definita riconvenzionale, chiedendo conseguentemente al giudice di decidere con efficacia di giudicato anche su tale controdiritto. In ogni caso, fino a quando si rimane nell’ambito della mera eccezione riconvenzionale, l’oggetto del processo non subisce alcuna estensione ed il giudice è chiamato a conoscere del controdiritto de convenuto al solo fine di decidere sulla fondatezza della domanda dell’attore. Capitolo V - Il giudice e gli uffici giudiziari Sezione I - Nozioni basilari di ordinamento giudiziario 43. Giudici ordinari, giudici speciali e sezioni specializzate L’art. 102 Cost. stabilisce che “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario” e, nel contempo, vieta l’istituzione di giudici straordinari o giudici speciali, consentendo invece di istituire presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. La differenza sostanziale tra giudice ordinario e giudice speciale dovrebbe consistere nel fatto che il giudice speciale viene fin dall’origine destinato a specifiche materie, mentre il giudice ordinario ha una competenza generica e teoricamente illimitata. Quel che risulta decisivo è il criterio soggettivo formale, derivante dalla circostanza che un determinato organo giurisdizionale sia incluso nel novero degli organi giudiziari considerati ordinari dalle norme sull’ordinamento giudiziario e sia altresì composto da magistrati appartenenti, in base a quelle stesse norme, all’ordine giudiziario. Le norme in questione sono ancora quelle contenute nel r.d. 12/1941, intitolato Ordinamento giudiziario. Alcuni anni fa la materia è stata radicalmente rivisitata ad opera di alcuni decreti legislativi adottati in attuazione della legge-delega 150/2005, ma le novità hanno riguardato essenzialmente l’accesso alla magistratura, lo stato giuridico dei magistrati ed altri profili organizzativi interni, mentre, sono rimasti sostanzialmente immutati l’assetto e la composizione dei diversi uffici giudiziari, salvo quanto concerne la c.d. revisione della geografia giudiziaria attuata nel 2012. L’art. 1 del r.d. 12/1941 attribuisce l’amministrazione della giustizia, in materia civile e penale, ai seguenti organi giurisdizionali : - giudice di pace; - tribunale ordinario; - corte d’appello; - corte suprema di cassazione; - tribunale per i minorenni; - magistrato di sorveglianza; - tribunale di sorveglianza. La medesima norma rinvia a leggi speciali la disciplina delle giurisdizioni amministrative e di ogni altra giurisdizione speciale. Bisogna considerare che, la VI disp. trans. Cost. prevedeva, entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la revisione degli organi speciali di giurisdizione all’epoca esistenti, facendo salve le giurisdizioni del consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei tribunali militari, che possono considerarsi, in un certo senso, costituzionalizzati. Il legislatore, tuttavia, si rese inadempiente e la Corte costituzionale, anziché dedurne senz’altro l’illegittimità dei giudici speciali non “revisionati”, optò per una verifica caso per caso dell’effettiva autonomia ed indipendenza delle singole giurisdizioni. Tra i giudici speciali sopravvissuti vanno menzionati : - il tribunale amministrativo regionale; - le commissioni tributarie (provinciali e regionali); Pagina di 22 95 - L’art. 101, 2°comma, ai sensi del quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, il ché per un verso esclude l’esistenza di veri e propri rapporti gerarchici e, per altro verso, impedisce che nel nostro ordinamento abbia efficacia vincolante il precedente giurisprudenziale; - Gli artt. 104 e 105, che definiscono la magistratura come un ordinamento autonomo ed indipendente da ogni altro potere, attribuendone le funzioni di (auto)governo ad un apposito organo costituzionale, ossia il Consiglio superiore della magistratura, esso stesso autonomo ed indipendente sia dall’esecutivo che dal legislativo, cui sono riservati in via esclusiva le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati; - L’art. 106, secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La stessa norma prevede che l’ordinamento giudiziario possa ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Il 3° comma dell’art. 106 consente, inoltre, di designare all’ufficio di consiglieri di Cassazione – per meriti insigni – professori universitari in materie giuridiche e avvocati, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, che abbiano almeno 15 anni di servizio nella professione forense; - L’art. 107, 1°comma, garantisce l’inamovibilità dei magistrati, riservando al Consiglio superiore della magistratura ogni decisione relativa alla sospensione, dispensa o destinazione ad altra sede o funzione; - L’art. 108, 1° comma, pone una riserva di legge per le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura. 49. Il cancelliere L’ordinamento giudiziario prevede che ogni corte, tribunale ordinario ed ufficio del giudice di pace ha una cancelleria ed ogni ufficio del pubblico ministero ha una segreteria, precisando che il personale delle cancellerie e delle segreterie fa parte dell’ordinamento giudiziario. Le molteplici attribuzioni del cancelliere comprendono, accanto ad attività di supporto, in senso lato, al giudice, funzioni del tutto autonome; in primo luogo il cancelliere rappresenta il necessario collegamento fra i litiganti e l’ordinamento giurisdizionale, infatti, tutte le istanze che le parti rivolgono al giudice vanno depositate in cancelleria (salvo quelle formulate direttamente in udienza), al pari dei documenti prodotti in giudizio; inoltre, i provvedimenti resi dal giudice vengono resi noti alle parti per il medesimo tramite, dopo essere stati depositati in cancelleria; rilevanti sono le funzioni di documentazione spettanti al cancelliere, il quale documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge (di regola attraverso un apposito processo verbale) le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti ed assiste il giudice in tutti gli atti dei quali deve essere formato il processo verbale. Per quanto attiene alla sentenza, in particolare, il cancelliere ha la responsabilità della sua pubblicazione, che si ha dopo che il giudice l’ha depositata in cancelleria. Il cancelliere, inoltre, si occupa dell’iscrizione a ruolo della causa e gli adempimenti ad essa conseguenti, tra cui la formazione del fascicolo d’ufficio; si occupa del rilascio di copie ed estratti autentici dei documenti prodotti dalle parti o degli stessi atti processuali e dei provvedimenti del giudice, nonché del rilascio di alcune specifiche certificazioni previste dalla legge; ulteriore compito consiste nella conservazione del fascicolo d’ufficio della causa e dei fascicoli rispettivi delle parti, insieme ai documenti in essi inseriti. Ancora, il cancelliere si occupa delle comunicazioni e della richiesta di notificazioni prescritte dalla legge o dal giudice e della ricezione dei depositi giudiziari. Il cancelliere è civilmente responsabile, ai sensi dell’art. 60, sia quando rifiuta, senza giustificato motivo, di compiere un atto che gli è stato legalmente richiesto o comunque quando ometta di compierlo nel termine fissatogli, su istanza di parte, dal giudice; sia quanto ha compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave. 50. L'ufficiale giudiziario L’ufficiale giudiziario è definito come un ausiliario dell’ordine giudiziario; ad esso competono funzioni meramente materiali, come l’assistenza al giudice in udienza, l’elevazione dei protesti ed in generale l’esecuzione degli ordini del giudice; ma, dal punto di vista del processo civile, ben più rilevanti sono le autonome funzioni - lato sensu coercitive e ritenute di natura schiettamente giurisdizionale – affidate all’ufficiale giudiziario nell’esecuzione forzata. Altrettanto importanti sono le attribuzioni – essenzialmente amministrative – in materia di notificazioni, il cui compimento è di regola a lui riservato. L’ufficiale giudiziario può svolgere gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto; l’unica deroga è prevista per l’esecuzione della notificazione a mezzo del servizio postale. La responsabilità civile dell’ufficiale giudiziario è disciplinata dall’art. 60 in maniera identica a quella del cancelliere. Pagina di 25 95 51. Il consulente tecnico E gli altri ausiliari del giudice Il consulente tecnico è una persona di particolare competenza tecnica, della cui collaborazione il giudice può avvalersi per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, scegliendola tra quelle iscritte in appositi albi istituiti presso ciascun tribunale (art. 61). Il custode è invece la persona fisica o l’ente, terzo rispetto al debitore pignorato o alla parte sequestrata, cui può essere affidata la conservazione e l’amministrazione dei beni pignorati o sequestrati, allorché la legge non disponga diversamente. L’art. 68 consente inoltre al giudice, al cancelliere e all’ufficiale giudiziario, laddove sia necessario e nonché previsto dalla legge, di farsi assistere da esperti in una determinata arte o professione e, in generale, da persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere da solo. Mentre la funzione del consulente tecnico è quella di fornire al giudice le nozioni specialistiche che gli consentano di accertare i fatti e valutare le risultanze istruttorie, gli ausiliari in questione sono chiamati a svolgere attività materiali cui l’organo giudiziario non potrebbe provvedere direttamente. Posizione peculiare, nell’ambito dei possibili ausiliari del giudice, spetta al notaio, cui sono attribuite specifiche ed importanti funzioni nel processo esecutivo, in materia di vendita con incanto di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri; funzioni che la riforma del 2005 ha esteso ad avvocati e commercialisti iscritti in appositi elenchi. Al notaio o all’avvocato possono essere, inoltre, demandate le operazioni di divisione nel giudizio di scioglimento della comunione, allorché le parti lo chiedano congiuntamente. Il giudice, in fine, all’occorrenza, può sempre richiedere l’assistenza della forza pubblica. Sezione II - la giurisdizione 52. I limiti della giurisdizione del giudice ordinario Art. 1. (Giurisdizione dei giudici ordinari). La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, e' esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice. Art. 37. (Difetto di giurisdizione). Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali e' rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo. ((COMMA ABROGATO DALLA L. 31 MAGGIO 1995, N. 218)). L’art. 1 c.p.c. salvo speciali disposizioni di legge, attribuisce l’esercizio della giurisdizione civile ai giudici ordinari. I limiti della giurisdizione del giudice ordinario, desumibili dall’art. 37 c.p.c. e dagli artt. 3-11 della l.218/1995, sono essenzialmente tre ed attengono : 1. Ai rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali; 2. Ai rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione; 3. All’estensione della giurisdizione italiana nel suo complesso. 53. Il rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, secondo l'orientamento tradizionale Nell’ambito dei rapporti tra il giudice ordinario e i giudici speciali, particolarmente critico è quello tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo, che trova la propria base normativa nella remotissima l. 2248/1865 All. E. Tale legge si era ripromessa di realizzare l’unità della giurisdizione, abolendo i giudici speciali che, fino a quel momento, erano stati investiti della giurisdizione (anche penale) in materia di rapporti tra cittadino e P.A., ma che non davano garanzie di autonomia ed indipendenza rispetto all’amministrazione stessa. Pertanto, l’art.2 della legge, previde che fossero attribuite alla giurisdizione ordinaria tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la P.A. e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa; il successivo art.4 stabilì che quando la contestazione riguarda un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali devono limitarsi a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non a seguito di ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso. Da questa disciplina potrebbe desumersi che: Pagina di 26 95 - la giurisdizione del giudice ordinario, allorché fosse stato dedotto in giudizio un diritto, non avrebbe risentito dell’eventuale intervento di un giudice amministrativo, che avesse inciso sul diritto medesimo; - fermo restando che il giudice, senza poter annullare o revocare o modificare l’atto in questione, avrebbe potuto e dovuto, però, disapplicarlo se illegittimo. Nella realtà applicativa, tuttavia, le cose andarono diversamente a causa dell’interpretazione, cui giunse la giurisprudenza, favorita dal fatto che l’organo deputato a risolvere gli eventuali conflitti tra giudice ordinario e P.A. era, a quell’epoca, il Consiglio di Stato che, peraltro, era privo di funzioni giurisdizionali e costituiva un organo consultivo assai prossimo al potere esecutivo. In tal modo, tradendo lo spirito della riforma, si finì con l’affermare che, tenuto conto della normale esecutorietà dell’atto amministrativo, non era possibile continuare a reputare sussistente un diritto allorquando su di esso avesse inciso negativamente un provvedimento amministrativo, ancorché illegittimo : in questi casi il diritto viene comunque meno e quel che residua è solo l’interesse legittimo ad ottenere la rimozione dell’atto viziato (si parla, a riguardo, di affievolimento dei diritti). Il punto era, però, che tale interesse, una volta esclusa la giurisdizione del giudice ordinario, poteva trovare riconoscimento ed attuazione solo attraverso i rimedi interni alla P.A., il che si traduceva in un grave vuoto di tutela giurisdizionale. Conseguentemente, il legislatore, correndo ai ripari, ripristinò una giurisdizione amministrativa attribuendo al Consiglio di Stato funzioni schiettamente giurisdizionali, relative, appunto, al controllo di legittimità degli atti amministrativi. L’apparato della giustizia amministrativa ha poi trovato un importante completamento nell’istituzione dei tribunali amministrativi regionali, ad opera della l. 1034/1971. Prescindendo dalle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il riparto di giurisdizione tra quest’ultimo e il giudice ordinario ha continuato ad essere governato, fino quasi ai giorni nostri, dai principi basati sulla disciplina del 1865, ossia, dalla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Stando a questi principi, dunque, il criterio di ripartizione era rappresentato non dal provvedimento richiesto al giudice (petitum), bensì dalla causa petendi, cioè dalla situazione soggettiva effettivamente prospettata e, di regola, quando era lamentata la lesione di un diritto ad opera di un provvedimento amministrativo, la posizione soggettiva dedotta in giudizio doveva qualificarsi sempre come interesse legittimo. Le uniche eccezioni erano ammesse quando erano coinvolti diritti sui quali la P.A. non aveva alcun potere di incidere negativamente, vuoi perche si trattava di diritti assolutamente intangibili (es. diritto alla libertà personale), vuoi perché l’amministrazione si trovava ad operare in posizione del tutto paritaria rispetto al privato, ossia senza supremazia su quest’ultimo; in queste ipotesi, dunque, il provvedimento amministrativo, pronunciato in una situazione di carenza di potere, non sarebbe stato idoneo a degradare il diritto soggettivo né ad escludere il ricorso al giudice ordinario. Prescindendo da tali eccezioni, però, importante corollario dell’impostazione vigente era che la tutela giurisdizionale dei diritti violati dalla P.A. passasse necessariamente attraverso la preventiva rimozione dell’atto illegittimo ad opera del giudice amministrativo : solo tale rimozione avrebbe ripristinato il diritto leso ed avrebbe aperto la strada ad ulteriori forme di tutela, ivi compresa quella finalizzata al risarcimento del danno : in sintesi, l’orientamento tradizionale postulava una necessaria pregiudizialità del giudizio amministrativo di annullamento rispetto a quello risarcitorio, il quale era sempre riservato al giudice ordinario. 54. La più recente evoluzione Negli ultimi 15 anni, tuttavia, sono intervenute molte novità che hanno notevolmente ridisegnato i confini tra le due giurisdizioni : - Innanzi tutto, con la sentenza n.500/1999, la Cassazione a sezioni unite, ammise la risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi (pretensivi) in passato costantemente esclusa. Decisione che negò, tra l’altro, che il danno provocato da un atto amministrativo illegittimo, fosse risarcibile solo se preventivamente fosse stato annullato l’atto medesimo, e riconobbe la titolare del diritto leso, la possibilità di optare liberamente tra la domanda di annullamento (dinanzi al g.a.) e l’azione diretta al risarcimento (dinanzi al g.o.). tale principio è stato però ridimensionato dai successivi interventi del legislatore, il quale temeva in una moltiplicazione delle azioni di danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni, con conseguenze economiche insostenibili per l’erario. Nel nuovo codice del processo amministrativo (2010), infatti, la materia del risarcimento del danno provocato da un’attività amministrativa illegittima è così disciplinata : • le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, pure se introdotte in via autonoma, sono comunque attribuite in via esclusiva alla giurisdizione del g.a.; • la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi dev’essere proposta, a pena di decadenza, entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo; se però è stata proposta l’azione di annullamento, la domanda Pagina di 27 95 Siffatto principio è stato, tuttavia, sconfessato dalla più recente giurisprudenza delle Sezioni unite, le quali, muovendo dall’idea che ogni sentenza di merito contenga un’affermazione implicita della sussistenza della giurisdizione del giudice adito, hanno adottato una soluzione drasticamente restrittiva dell’art. 37 sostenendo che, qualora la parte interessata (convenuto) nell’impugnare la sentenza di merito, non censuri espressamente anche la decisione dichiarativa implicita sulla giurisdizione, il giudice dell’impugnazione non può sollevare d’ufficio la relativa questione, che resta definitivamente coperta dal giudicato c.d. implicito. Tale soluzione appare tuttavia inconciliabile con la lettera dell’art. 37, dato che finisce col circoscrivere la rilevabilità ufficiosa del difetto di giurisdizione al solo giudizio di primo grado. Per quanto attiene, invece, all’ipotesi in cui la causa esorbiti dai limiti della giurisdizione italiana, in base all’art. 11 l. 218/1995, il vizio è egualmente rilevabile d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo : - Quando il convenuto è rimasto contumace; - Quando la controversia verte su azioni reali aventi ad oggetto immobili situati all’estero; - Quando la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale. Se, invece, il convenuto si costituisce è lui soltanto a poter eccepire il difetto di giurisdizione, a condizione che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. Sussiste accettazione tacita allorché il convenuto compaia senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo [ovviamente non è escluso che il convenuto, col suo primo atto difensivo, opponga difetto di giurisdizione]. Inoltre, poiché la regola rimane quella della rilevabilità del vizio in ogni stato e grado del processo, nulla esclude che l’eccezione venga proposta dal convenuto, rimasto inizialmente contumace, nel corso del processo, purché egli vi provveda nel suo primo atto difensivo. La sentenza declinatoria della giurisdizione, con cui quindi si nega la giurisdizione del giudice, implica l’esclusione di un presupposto processuale e, pertanto, pone (di regola) fine al processo. 58. L’eventuale traslatio iudicii tra giudice ordinario e giudice speciale Secondo il disegno originario del codice, le varie giurisdizioni – ordinaria e speciali – costituivano sistemi autonomi, tra loro non comunicanti e, l’unico elemento di raccordo, era rappresentato dalla possibilità di impugnare dinanzi alla Cassazione, per motivi attinenti alla giurisdizione, tutte le decisioni rese da un giudice speciale e finanche quelle del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Mancava, invece, una disposizione che consentisse, qualora fosse stato erroneamente adito un giudice privo di giurisdizione, di porre rimedio al vizio, facendo trasmigrare la causa dinanzi al giudice cui spettava la giurisdizione. La c.d. traslatio iudicii. Pertanto, se ne deduceva che l’accertamento del difetto di giurisdizione implicasse la pura e semplice definizione del processo in rito, salva la possibilità di riproporre ex novo la domanda davanti al diverso giudice fornito di giurisdizione. La lacuna è stata colmata dalla l. 69/2009, il cui art. 59 ha sancito il principio della continuazione del processo dopo una sentenza declinatoria della giurisdizione, sempreché la giurisdizione appartenga ad una diversa giurisdizione italiana, e vengano pertanto in rilievo i rapporti tra il giudice ordinario e quello speciale, oppure tra diversi giudici speciali. L’art. 59, dunque, prevede che qualunque giudice che in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o in caso di altri giudici speciali, dichiari il proprio difetto di giurisdizione, sia obbligato ad indicare contestualmente, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. A questo punto, se la domanda è riproposta a tale giudice entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice in questione fosse stato adito fin dall’inizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. La tempestiva riproposizione della domanda fa sì che il processo si consideri iniziato fin dal momento in cui era stato erroneamente adito il giudice privo della giurisdizione, con la conseguenza che è lo stesso processo, pertanto, a continuare dinanzi al nuovo giudice. Tale nuovo giudice, a differenza delle parti, non è vincolato (di regola) dall’indicazione contenuta nella sentenza del giudice originariamente adito, salvo l’ipotesi in cui la sentenza provenga dalla Cassazione a sezioni unite; tuttavia, nel caso in cui non condivida quell’indicazione, egli non è libero di declinare puramente e semplicemente, a propria volontà, la giurisdizione, potendo solo sollevare d’ufficio (con ordinanza) la questione davanti alle Sezioni unite, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito, affinché siano queste a stabilire, una volta per tutte, a quale giudice spetti la giurisdizione. Se invece, il termine perentorio per la riproposizione della domanda non viene rispettato, il processo si estingue e gli effetti della domanda restano definitivamente travolti; ferma restando, ovviamente, la possibilità di riproporre la medesima azione in un giudizio del tutto nuovo ed autonomo. Pagina di 30 95 Questa appare essere l’interpretazione più ragionevole dell’art. 59, il quale ultimo denota, comunque, una considerevole confusione concettuale. In particolare: - nei commi 2 e 5 si parla di riproposizione della domanda al giudice indicato nella sentenza declinatoria, e ciò farebbe pensare ad un giudizio ex novo instaurato dinanzi a tale giudice, quando invece è evidente che il legislatore allude alla ripresa del medesimo processo iniziato dinanzi al giudice privo di giurisdizione; infatti, nei commi 3 e 4 si parla, più esattamente, di riassunzione e di prosecuzione del giudizio. - Altro punto incomprensibile attiene alla sorte degli atti compiuti dinanzi al giudice originariamente adito; il 2°comma dell’art. 59 afferma che restano ferme le preclusioni e le decadenze intervenute; il che parrebbe sottintendere alla traslatio ed alla riassunzione, di tutte le attività poste in essere nel processo svoltosi dinanzi al giudice privo di giurisdizione. Tale soluzione è di per sé incongrua, poiché è difficile comprendere come gli atti e le preclusioni tipiche di un certo rito e di una determinata giurisdizione possano essere esportati in un processo che si svolge addirittura dinanzi ad un’altra giurisdizione e, inoltre, (tale soluzione) è contraddetta dal successivo comma 5, ai sensi del quale “in ogni caso di riproposizione della domanda le prove raccolte nel processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come meri argomenti di prova”. Per risolvere tale antinomia è inevitabile forzare la lettera della norma, prevedendo la salvezza delle preclusioni e delle decadenze intervenute, risultante dal 2°comma. È lecito ritenere che, con tale locuzione, il legislatore intendesse riferirsi alle sole decadenze già eventualmente verificatesi prima dell’instaurazione del processo dinanzi al giudice privo di giurisdizione, nonché a quelle che riguardano la proposizione stessa della domanda; per precisare che l’errore di giurisdizione non può giustificare il superamento del termine cui l’azione era eventualmente soggetta. Questa interpretazione restrittiva trova un’indiretta conferma nell’art. 11 del nuovo codice del processo amministrativo, con cui il legislatore del 2010 ha inteso ritoccare la disciplina dell’art.59, limitatamente ai rapporti tra il giudice amministrativo ed un altro giudice italiano. Le novità più significative sono rappresentate: • dalla eliminazione di qualunque riferimento alla prosecuzione o riassunzione del primo giudizio, discorrendosi in ogni caso di riproposizione della domanda dinanzi al giudice indicato da quello originariamente adito; • dall’aver previsto che il giudice cui la domanda è riproposta, con riguardo alle preclusioni e decadenze intervenute, può concedere la rimessione in termini per errore scusabile ove ne ricorrano i presupposti. Infine, dal comma 5 dell’art. 59, è agevole dedurre che gli atti compiuti dinanzi al giudice privo di giurisdizione non sono efficaci, in linea di principio, nella fase successiva alla traslatio iudicii, salva la possibilità di utilizzare come argomenti di prova le prove che erano state raccolte in quella sede. 59. Il regolamento preventivo di giurisdizione L’art. 41, 1°comma, c.p.c. prevede che, finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna delle parti può chiedere alle sezioni unite della Cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all’art. 37. Si parla, in tal caso, di regolamento preventivo di giurisdizione, in quanto consente alle parti di investire direttamente la Cassazione della questione relativa alla giurisdizione, senza attendere che sia il giudice adito a pronunciarsi. Negli ultimi decenni si è evidenziato come il regolamento in questione, rappresenti un pericoloso strumento dilatorio nelle pani della parte interessata a guadagnar tempo, dato che esso provoca la sospensione del giudizio di merito in corso, e nel contempo si è ritenuto che esso collida con i principi della Costituzione. Si è rilevato, inoltre, che spesso l’esistenza della giurisdizione può dipendere dalla soluzione di questioni di fatto sulle quali può essere necessaria un’apposita attività istruttoria, che non può aver luogo in Cassazione, poiché non consentita. Di conseguenza, la decisione sulla giurisdizione, che potrebbe – se negativa – porre fine al processo, rischia di dover essere pronunciata sulla base di una cognizione incompleta. L’istituto è stato oggetto dapprima di un intervento legislativo, diretto a disincentivarne l’utilizzazione con finalità dilatorie e poi, soprattutto, è stato oggetto di un drastico giro di vite sul piano interpretativo, ad opera della giurisprudenza della Cassazione. Per quanto attiene all’ambito d’applicazione dell’art. 41, si ritiene che esso sia circoscritto ai soli processi a cognizione piena, con esclusione invece dei processi ad esecuzione forzata e di quelli a cognizione sommaria e cautelari. Quanto alle questioni per le quali il regolamento è ammesso, si rinvia all’art. 37 e, dunque, si fa riferimento : - ai rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali; - ai rapporti tra giudice ordinario e P.A. È pacifico, inoltre, che il regolamento trovi applicazione per le questioni concernenti i limiti della giurisdizione italiana, pur non essendo queste ultime più menzionate nell’art. 37, bensì nella l.218/1995. Pagina di 31 95 Per quanto concerne ai rapporti tra giudice ordinario e P.A., la giurisprudenza più recente, muovendo dalla consapevolezza che tali rapporti attengono al merito della causa, è pervenuta ad una sorta di tacita abrogazione, per questa parte, dell’art. 41, escludendo che possa dedursi col regolamento la c.d. improponibilità assoluta della domanda, che ricorre quando venga fatta valere in giudizio, nei confronti di una P.A., una situazione soggettiva non configurabile come diritto soggettivo o come interesse legittimo. Controverso è anche quale sia il termine ultimo entro cui può essere proposta l’istanza di regolamento, dovendosi a tal proposito stabilire quand’è che la causa deve reputarsi decisa nel merito in primo grado. L’opinione più persuasiva era nel senso che la preclusione del regolamento potesse derivare, indifferentemente: - dalla pronuncia di una sentenza di merito, anche se non definitiva - o dalla conclusione del processo di primo grado, derivante dalla pronuncia di una sentenza definitiva, anche se meramente processuale. Conseguentemente, si riteneva che una sentenza sulla sola giurisdizione, resa dal giudice di primo grado, escludesse di per sé la successiva proposizione del regolamento nel solo caso in cui, negando la giurisdizione, avesse posto fine al processo di prima istanza, e non anche quando si fosse limitata ad affermare la giurisdizione del giudice adito senza toccare il merito della causa. Il più recente orientamento restrittivo delle Sezioni unite, invece, ritiene che la proponibilità del regolamento sia esclusa, oltre che da una sentenza di merito, anche da qualunque sentenza definitiva o non, su una questione processuale, quindi anche da una sentenza – dichiarativa o declinatoria – sulla giurisdizione. L’istanza di regolamento si propone con ricorso alle Sezioni unita ed il relativo procedimento è retto dalla disciplina ordinaria del giudizio di Cassazione; è previsto che la sua proposizione, comprovata dal deposito di una copia del ricorso, già notificato alle altre parti, nella cancelleria del giudice investito della causa di merito , produca la sospensione del relativo giudizio finché non interviene la decisione delle Sezioni unite; la quale, qualora riconosca la giurisdizione del giudice ordinario, consente alle parti di riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza. In origine si trattava di una sospensione obbligatoria ed incondizionata ma, con la riforma del ’90, nel tentativo di arginare possibili abusi, si è previsto che il giudice sospenda il processo solo quando non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione manifestamente infondata. 60. Il regolamento su questione di giurisdizione sollevata dal prefetto L’art. 41, 2°comma, consente alla sola P.A. che non sia parte in causa, di chiedere in ogni stato e grado del processo, fino a quando non si sia formato un giudicato positivo sulla giurisdizione, che le Sezioni unite dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa. Più precisamente, è previsto che il prefetto possa provocare, attraverso proprio decreto, la necessaria sospensione del giudizio di merito, escludendo qualunque preventiva valutazione del giudice adito circa la fondatezza e/o l’ammissibilità della richiesta di regolamento.; tanto più che il dovere- potere di sospendere il giudizio compete non già al giudice della causa, bensì al capo del relativo ufficio giudiziario, il quale provvede senza neppure essere tenuto a sentire le parti. In concreto poi, le Sezioni unite vengono investite della questione di giurisdizione solo a condizione che una delle parti proponga ricorso nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto di sospensione; termine la cui scadenza dovrebbe determinare l’estinzione o comunque l’improcedibilità del giudizio di merito. Sezione III - la competenza 61. Generalità Le norme sulla competenza servono a ripartire il complesso degli affari civili fra i vari uffici giudiziari, tenendo conto a tal fine, tanto di esigenze obiettive di economicità ed efficienza dei processi, quanto degli interessi e delle comodità delle parti. I criteri adoperati a questo scopo sono tre : - Il criterio della materia fa riferimento al tipo di rapporto controverso (diritti reali immobiliari, locazioni, successioni...) e, se utilizzato accortamente, non crea troppi problemi all’interprete; - Il criterio del valore allude, invece, al rilievo economico della causa ed è spesso fonte di dubbi per la difficoltà di determinare in modo preciso il valore della controversia; Entrambi i criteri, talvolta combinati fra loro, servono a stabilire, in senso verticale e in modo univoco, quale fra i giudici ordinari possa conoscere di una determinata causa. Pagina di 32 95 2. Cause relative a quote di obbligazioni tra più parti (art.11). Se la domanda, proposta da o contro più persone, riguarda l’adempimento pro quota di un’obbligazione, il valore della causa si determina in base all’intera obbligazione; 3. Cause relative ad obbligazioni e divisioni (art.12). Quando la causa verte sull’esistenza, la validità o la risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio, il suo valore si determina in base alla sola parte del rapporto che è in contestazione. Nel caso della divisione, invece, il valore è pari a quello della massa attiva da dividere; 4. Cause relative a prestazioni alimentari e a rendite (art.13). Qualora il titolo sia controverso, il valore è pari : all’ammontare delle somme dovute per due anni, se si tratta di causa avente ad oggetto prestazioni alimentari periodiche; a venti annualità se la controversia è relativa a rendite perpetue o al canone nell’enfiteusi perpetua. Se, infine, la causa verte su rendite temporanee o vitalizie, o sul diritto al canone nell’enfiteusi a tempo, il valore si ottiene cumulando le annualità richieste, sino ad un massimo di dieci; 5. Cause relative a beni immobili (art.15). Per la determinazione del valore di tali cause sono previsti, a seconda del diritto controverso, diversi coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale (nel caso di terreni) o della rendita catastale (in caso di fabbricati). Tali disposizioni sono oggi del tutto inutili, dato che il giudice di pace non ha alcuna competenza in materia di immobili; 6. Cause relative all’esecuzione forzata (art.17). Il valore delle cause di opposizione all’esecuzione è dato dal credito per cui si procede, allorché si tratti di opposizione del debitore ai sensi dell’art.615, oppure dal valore dei beni controversi, se l’opposizione sia proposta da terzi a norma dell’art.619. 64. La competenza per territorio Nell’ambito dei criteri di competenza territoriale (artt.18 ss.) bisogna distinguere quelli concernenti: - i fori generali, applicabili in linea di principio a qualunque causa ed individuati in base ad elementi soggettivi, da quelli che prevedono, - fori speciali, utilizzabili solo per cause aventi un determinato oggetto o riguardanti determinati soggetti, si dividono in: • i fori esclusivi, che prevalgono su quelli generali, • fori facoltativi e concorrenti, che invece offrono solo un’opzione in più all’attore, senza escludere il ricorso ai fori generali. Importante sottolineare che il foro esclusivo è derogabile per accordo delle parti (art.28), in assenza di una diversa previsione di legge. I fori generali sono disciplinati dagli artt. 18 o 19, a seconda che sia convenuta in giudizio una persona fisica o un diverso soggetto: a. Nel primo caso la competenza spetta – salvo diversa disposizione – al giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, o al giudice del luogo in cui il convenuto abbia la propria dimora, qualora domicilio e residenza siano sconosciuti. Se poi è sconosciuta anche la dimora o si tratti di convenuto avente residenza, domicilio o dimora all’estero, è competente il giudice del luogo di residenza dell’attore. b. Nel caso in cui il convenuto sia una persona giuridica o un ente diverso da persona fisica, si ha riguardo al luogo in cui essa ha sede o ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda. Per quanto attiene ai fori speciali, numerosi sono quelli menzionati dal codice. I criteri di maggior rilievo pratico e di più frequente applicazione sono : a. Cause in materia di obbligazione. A riguardo l’art. 20 prevede che sia anche competente il giudice del luogo in cui sia sorta o deve estinguersi l’obbligazione dedotta in giudizio; si tratta dunque di fori facoltativi concorrenti con quelli generali, da individuare mediante un’indagine sostanziale diretta a stabilire dove si è concluso il contratto o si è verificato l’illecito da cui discende l’obbligazione extracontrattuale , oppure il luogo dove deve avvenire l’adempimento; b. Cause relative a diritti reali su beni immobili; locazione a comodato di immobili urbani; affitto di aziende; apposizione di termini; osservanza delle distanza legali stabilite per il piantamento di alberi o siepi. La competenza qui viene determinata con riguardo al luogo ove è posto l’immobile o l’azienda; c. Azioni possessorie e denunce di nuova opera e di danno temuto. In questo caso è competente il giudice del luogo dove è avvenuto il fatto denunciato; d. Cause in cui è parte un’amministrazione dello Stato. L’art. 25, chiaramente ispirato ad un trattamento di favore della P.A., consta in realtà di due disposizioni : in una si stabiliscono i criteri di competenza per territorio da utilizzare per le cause in cui sia convenuta un’amministrazione dello Stato; nell’altra, invece, si fa riferimento a tutte le cause nelle quali sia parte un’amministrazione dello stato, precisando che per esse è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che Pagina di 35 95 sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Inoltre è previsto che l’incompetenza per territorio sia rilevabile, in tal caso, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo; il che consente di ricomprendere tale ipotesi tra quelle in cui la competenza per territorio non è derogabile dalle parti. 65. Il regime dell’incompetenza Art. 38. (( (Incompetenza). )) ((L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L'eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l'indicazione del giudice che la parte ritiene competente. Fuori dei casi previsti dall'articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all'indicazione del giudice competente per territorio, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa e' riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo. L'incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall'articolo 28 sono rilevate d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'articolo 183. Le questioni di cui ai commi precedenti sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall'eccezione del convenuto o dal rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni)). -------------- AGGIORNAMENTO (67) La L. 26 novembre 1990, n. 353, come modificata dalla L. 4 dicembre 1992, n. 477, ha disposto: - (con l'art. 92, comma 1) che "Fatta eccezione per la disposizione di cui all'articolo 1, la presente legge entra in vigore il 1 gennaio 1993. Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 2 gennaio 1994, le disposizioni anteriormente vigenti."; - (con l'art. 92, comma 2) che "Le disposizioni di cui agli articoli 3; 4; da 7 a 15; da 17 a 19; da 22 a 32; da 36 a 47; da 50 a 58; 70; 73; da 78 a 83 e 88 hanno efficacia a partire dal 2 gennaio 1994." -------------- AGGIORNAMENTO (72) La L. 26 novembre 1990, n. 353, come modificata dal D.L. 7 ottobre 1994, n. 571, convertito con modificazioni dalla L. 6 dicembre 1994, n. 673, ha disposto: - (con l'art. 92, comma 1) che "Fatta eccezione per la disposizione di cui all'articolo 1, la presente legge entra in vigore il 1 gennaio 1993. Ai giudizi pendenti a tale data si applicano, fino al 30 aprile 1995, le disposizioni anteriormente vigenti."; - (con l'art. 92, comma 2) che "Le disposizioni di cui agli articoli 3; 4; da 7 a 15; da 17 a 19; da 22 a 32; da 36 a 47; da 50 a 58; 70; 73; da 78 a 83 e 88 hanno efficacia a partire dal 30 aprile 1995." -------------- AGGIORNAMENTO (118) La Corte Costituzionale con sentenza 25 gennaio - 8 febbraio 2006 n. 41 (in G.U. 1a s.s. 15/02/2006 n. 7) ha dichiarato "l'illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 38 e 102 del codice di procedura civile, nella parte in cui, in ipotesi di litisconsorzio necessario, consente di ritenere improduttiva di effetti l'eccezione di incompetenza territoriale derogabile proposta non da tutti i litisconsorti convenuti.". La disciplina relativa al caso in cui venga adito un giudice incompetente è racchiusa nell’art.38, che distingue tra il rilievo dell’incompetenza ad opera del convenuto e quella d’ufficio. A. Per quanto attiene al convenuto, l’eccezione d’incompetenza dev’essere sempre sollevata, a pena di decadenza, qualunque sia il criterio che si assume violato (materia, valore, territorio), nel suo primo atto difensivo e rispettando il termine di costituzione in giudizio. Qualora si tratti di incompetenza per territorio, il convenuto non può limitarsi ad eccepire l’incompetenza, ma deve indicare l’ufficio giudiziario che ritiene competente, altrimenti l’eccezione si ha come non formulata. Quest’ultima indicazione riveste specifica rilevanza in caso in cui l’incompetenza derivi dalla violazione di criteri territoriali derogabili, posti nell’interesse esclusivo del convenuto e, pertanto, solo da lui invocabili; in tale ipotesi l’individuazione del diverso giudice competente mira a consentire che le altre parti costituite vi aderiscano, rendendo senz’altro superflua una decisione sulla questione. Ove ciò avvenga, dunque, il giudice si limiterà a disporre la cancellazione della causa dal ruolo e, se la stessa verrà riassunta entro i successivi tre mesi, la competenza dell’ufficio giudiziario così individuato non potrà più essere messa in discussione. B. Per quel che concerne, invece, il rilevo d’ufficio dell’incompetenza, esso è consentito non oltre l’udienza di cui all’art.183, ossia entro la prima udienza di trattazione; il che significa che dopo questo momento il vizio resta praticamente sanato ed irrilevante. Pagina di 36 95 Tale sistema non esclude che il convenuto, pur non avendo tempestivamente eccepito l’incompetenza nella propria comparsa di risposta, sollevi la questione alla prima udienza, sollecitando il giudice a rilevare l’incompetenza d’ufficio. Tuttavia, in questo caso, se il giudice non raccoglie tale sollecitazione o ritiene di essere competente, il convenuto non potrà far valere l’incompetenza attraverso le impugnazioni. Prescindendo dall’ipotesi in cui il convenuto deduca la violazione di un criterio di competenza per territorio derogabile e le altre parti concordino, la questione di competenza dev’essere sempre decisa con il medesimo iter prescritto per la risoluzione di tutte le questioni che possono implicare la definizione del processo. Inoltre, poiché la soluzione della questione di competenza può dipendere da elementi influenti anche sulla fondatezza della domanda, il legislatore precisa che la competenza va valutata, in linea di principio, in base a quello che risulta dagli atti o, quando sia necessario, assunte sommarie informazioni, senza un’autonomia istruttoria. 66. Pronuncia declinatoria della competenza e prosecuzione del processo Art. 50. (Riassunzione della causa). Se la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato nella ((ordinanza)) dal giudice e in mancanza in quello di ((tre mesi)) dalla comunicazione della ((ordinanza)) di regolamento o della ((ordinanza)) che dichiara l'incompetenza del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice. Se la riassunzione non avviene nei termini su indicati, il processo si estingue. Art. 45. (Conflitto di competenza). Quando, in seguito alla ((ordinanza)) che dichiara l'incompetenza del giudice adito per ragione di materia o per territorio nei casi di cui all'articolo 28, la causa nei termini di cui all'articolo 50 e' riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene di essere a sua volta incompetente, richiede d'ufficio il regolamento di competenza. La decisione sulla competenza può essere dichiarativa, qualora affermi la competenza del giudice adito, oppure declinatoria, laddove dichiari l’incompetenza di tale giudice, definendo il processo dinanzi a lui. Peraltro, se il giudice d’appello dichiarando l’incompetenza del giudice a quo, rinnega di essere esso stesso competente in primo grado, decida contestualmente il merito della causa, a condizione che vi sia stata un’esplicita domanda in tal senso. In entrambi i casi il provvedimento sarà impugnabile : attraverso le impugnazioni ordinarie, qualora abbia contestualmente deciso il merito della causa, o altrimenti, se ha deciso solo sulla competenza, con un particolare rimedio – il regolamento di competenza – che investe della questione direttamente la Cassazione. Il codice del 1940, tuttavia, ha escluso che il giudizio abbia necessariamente fine con la pronuncia d’incompetenza e che l’attore sia dunque costretto a riproporre ex novo la domanda dinanzi al diverso giudice reputato competente; conseguentemente, egli rischierebbe che la questione relativa alla competenza si trascini all’infinito, costringendo l’attore a migrare da un ufficio giudiziario all’altro. Tale inconveniente viene evitato attraverso un duplice accorgimento : - consentendo la continuazione del processo davanti al giudice ritenuto competente da quello precedentemente adito; - impedendo che tale giudice possa a sua volta dichiararsi incompetente e spogliarsi della causa. Riguardo al primo punto, l’art.50 prevede che se la causa, dopo la pronuncia d’incompetenza, viene tempestivamente riassunta davanti al giudice dichiarato competente, entro il termine fissato nell’ordinanza dal giudice a quo (quello che si è dichiarato incompetente), il processo continua davanti al nuovo giudice; ciò consente di conservare gli effetti prodotti dalla originaria domanda giudiziale, evitando che l’attore, ad es., possa subire pregiudizio dalla prescrizione o dalla decadenza maturata nel frattempo; inoltre, così facendo, si soddisfa l’esigenza di economia processuale, permettendo il recupero e l’utilizzazione di alcune attività già compiute dinanzi al giudice a quo, in particolare quelle di istruzione probatoria. Quanto al secondo punto, v’è da considerare che la pronuncia d’incompetenza, qualora non sia impugnata dall’attore tramite istanza di regolamento di competenza, rende incontestabile tanto l’incompetenza del giudice dal quale proviene, quanto la competenza del giudice in essa indicato; alla duplice condizione, tuttavia, che la causa sia tempestivamente riassunta, entro i termini di cui all’art.50, e che non si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile. In altre parole, il legislatore ha derogato il principio che riservava a ciascun giudice la verifica della propria competenza ed ha previsto che il secondo giudice sia vincolato alla indicazione resa da quello previamente adito. Pagina di 37 95 5. Se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; oppure se è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. L’astensione facoltativa si ha, invece, al di fuori di queste ipotesi, in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza; in tali circostanza l’astensione è rimessa all’iniziativa del magistrato, per il quale essa potrebbe costituire, dal mero punto di vista deontologico, un vero e proprio dovere, sanzionabile sul piano disciplinare. Inoltre, solo nel caso di astensione facoltativa, il legislatore ha imposto l’autorizzazione da parte del capo dell’ufficio; tuttavia, non di rado la prassi fa ricorso alla richiesta d’autorizzazione anche nei casi di astensione obbligatoria. 69. La ricusazione Art. 52. (Ricusazione del giudice). Nei casi in cui e' fatto obbligo al giudice di astenersi, ciascuna delle parti puo' proporne la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova. Il ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria due giorni prima dell'udienza, se al ricusante e' noto il nome dei giudici che sono chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell'inizio della trattazione o discussione di questa nel caso contrario. La ricusazione sospende il processo. Qualora ricorra una delle fattispecie di astensione obbligatoria, ciascuna delle parti ha la possibilità di proporre istanza di ricusazione del giudice, seppur in termini di tempo ristretti. Il ricorso, contenente i motivi specifici e l’indicazione dei mezzi di prova, dev’essere depositato in cancelleria, non oltre due giorni prima dell’udienza, se l’istante è già a conoscenza dell’identità del giudice, altrimenti prima della trattazione o della discussione. Scaduto questo termine, le parti non possono più far valere il motivo di ricusazione, neppure in via d’impugnazione della sentenza successivamente pronunciata; a meno che non sussista un interesse diretto del giudice nella causa. Stando all’art.52, 3°comma (la ricusazione sospende il processo), la proposizione dell’istanza di ricusazione dovrebbe implicare l’automatica sottrazione della causa al giudice ricusato e la contestuale investitura del giudice competente a decidere sull’istanza medesima. La giurisprudenza, però, ha riconosciuto allo stesso giudice ricusato il potere di valutare, seppur sommariamente, l’ammissibilità e la fondatezza dell’istanza, per escludere la sospensione allorché essa sia stata palesemente avanzata al di fuori dei casi e dei termini previsti dalla legge. La vera e propria decisione sulla richiesta di ricusazione compete al presidente del tribunale, se è ricusato un giudice di pace; o al collegio, quando sia ricusato un magistrato del tribunale o della corte. Per il relativo procedimento è previsto solo che debba essere sentito il giudice ricusato e debbano assumersi, ove occorra, le prove offerte. La decisione è presa nella forma dell’ordinanza non impugnabile, che potrà dichiarare inammissibile o infondata la ricusazione e, in tal caso, la parte ricusante potrà essere condannata ad una pena pecuniaria non superiore a 250€; qualora, invece, con ordinanza viene accolto il ricorso, verrà designato il magistrato che dovrà sostituire quello ricusato. In entrambi i casi l’ordinanza dev’essere comunicata dal cancelliere alle parti, affinché queste possano provvedere alla riassunzione della causa nel termine perentorio di sei mesi. 70. La responsabilità civile dei magistrati Nel testo originario del codice la materia della responsabilità civile del giudice era disciplinata dagli artt. 55 e 56, che prendevano in considerazione solo le ipotesi di dolo, frode o concussione e quella del c.d. diniego di giustizia, in cui il giudice avesse omesso di provvedere nel termine fissato dalla legge, nonostante un’espressa diffida della parte. L’art.56, inoltre, subordinava la possibilità dell’azione risarcitoria ad un’autorizzazione discrezionale da parte del Ministro della giustizia, con la conseguenza che il danneggiato non aveva alcuna garanzia di un effettivo ristoro. In seguito al referendum popolare del 1987, la l.117/1998 ha esteso la responsabilità alle ipotesi di colpa grave, pur tipizzandole in modo molto restrittivo; inoltre ha escluso che l’azione risarcitoria possa essere prospettata direttamente nei confronti del magistrato, cui fa da “scudo”, invece, lo Stato. A. Le fattispecie che possono dar luogo a risarcimento del danno – solo patrimoniale per quanto concerne l’attività del giudice civile – sono, ai sensi degli art. 2 e 3 : - Un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con dolo; Pagina di 40 95 - Un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con colpa grave. La colpa grave può derivare solo da : • una grave violazione di legge determinata da negligenza inscusabile; • da un’affermazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; • dalla negazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; - Il c.d. diniego di giustizia, che ricorre quando il magistrato rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti del suo ufficio, a condizione che sia trascorso il termine previsto dalla legge e siano altresì trascorsi inutilmente e senza giustificato motivo, trenta giorni dal momento in cui la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento; Non può, invece, mai essere fonte di responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. B. Se sussiste un’ipotesi di responsabilità, l’azione risarcitoria va proposta non già direttamente nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato, che ne risponde civilmente; più precisamente nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Se invece il danno deriva da un fatto costituente reato, lo Stato sarebbe corresponsabile civile e l’azione è proponibile direttamente nei confronti del magistrato. L’azione contro lo Stato non è consentita prima che siano stati esperiti i mezzi d’impugnazione e gli altri rimedi predisposti dall’ordinamento per eliminare l’atto o il provvedimento da cui deriva il danno; inoltre è soggetta ad un termine di decadenza di due anni, decorrenti dal momento in cui è divenuta esperi bile. C. In una prima fase, che si svolge con la forma del procedimento in camera di consiglio e culmina in un decreto motivato, il tribunale si limita a valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento, che può essere esclusa allorché non siano stati rispettati i termini e i presupposti richiesti dalla legge, nonché in caso di manifesta infondatezza della domanda. Solo dopo la pronuncia di ammissibilità il processo prosegue per la trattazione del merito; in tal caso il tribunale dovrà trasmettere copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare, affinché quest’ultima possa essere parallelamente avviata. D. Il magistrato della cui responsabilità si discute, resta del tutto estraneo al giudizio promosso nei confronti dello Stato; egli può, tutt’al più, spiegarvi intervento volontario, ai sensi dell’art.105, 2° comma, c.p.c. Qualora non intervenga, l’eventuale sentenza di condanna non fa stato, contro il magistrato, nel successivo giudizio di rivalsa; né fa mai stato, perfino in caso di suo intervento, nell’eventuale procedimento disciplinare. E. Se la responsabilità viene accertata e lo Stato viene condannato, o se il risarcimento viene effettuato in base ad un accordo stragiudiziale, lo Stato, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, è tenuto ad esercitare l’azione di rivalsa contro il magistrato entro un anno. Rivalsa limitata nel massimo, giacché, salvo che non si tratti di responsabilità da fatto doloso, non può superare un terzo dello stipendio annuale netto del magistrato al momento della proposizione dell’azione risarcitoria. F. Infine, entro due mesi dalla comunicazione della dichiarazione di ammissibilità della domanda di risarcimento, è previsto che il procuratore generale presso la Corte di cassazione eserciti l’azione disciplinare per i fatti che hanno dato luogo alla domanda medesima. Tale azione procede autonomamente, sulla base dei principi ad essa propri; è tuttavia previsto che i relativi atti possano essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa. Capitolo VI - Il pubblico ministero 71. I compiti del pubblico ministero nel processo civile Art. 69. (Azione del pubblico ministero). Il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge. Art. 70. (Intervento in causa del pubblico ministero). Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullita' rilevabile d'ufficio: 1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; 2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; 3) nelle cause riguardanti lo stato e la capacita' delle persone; 4) NUMERO ABROGATO DALLA L. 11 AGOSTO 1973, N. 533; 5) negli altri casi previsti dalla legge. ((Deve intervenire nelle cause davanti alla corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge.)) ((140)) Puo' infine intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse. Pagina di 41 95 Gli artt. 69 e 70 disciplinano, rispettivamente, le ipotesi in cui il p.m. esercita l’azione civile, promuovendo egli stesso il giudizio, e quelle in cui deve e può, a seconda dei casi, intervenire in un processo da altri instaurato. In particolare, l’art.69 a rinviare ai casi stabiliti dalla legge, lasciando intendere che si tratta di fattispecie tipiche e tassative, giacché derogano al principio desumibile dall’art.81; deduzione che trova conferma nell’art.2907 c.c. ai sensi del quale l’autorità giudiziaria provvede, di regola, su istanza di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio. Il dato comune alle varie ipotesi è che si tratta di azioni concernenti diritti o status sottratti alla disponibilità delle parte, la cui tutela risponde ad interessi di natura pubblicistica. Il legislatore, dunque, per contemperare tali interessi col principio della domanda, include il pubblico ministero nel novero dei soggetti legittimati ad agire. Per quest’ultimo, naturalmente, l’esercizio dell’azione costituisce un potere-dovere. I casi d’intervento, invece, sono soprattutto correlati all’esigenza di controllare l’operato delle parti, per evitare che le stesse, sempre in giudizi concernenti diritti indisponibili, possano difendersi male o addirittura colludere tra loro al fine di ottenere un provvedimento in frode alla legge. L’intervento del p.m. è obbligatorio, a norma dell’art.70, 1°comma : 1. Nelle cause che egli stesso avrebbe potuto proporre, allorché sia stato preceduto da un altro legittimato; 2. Nelle cause matrimoniali in genere, incluse quelle di separazione personale dei coniugi; 3. Nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; ad es nei giudizi per la dichiarazione giudiziale della maternità o paternità; 4. Negli altri casi previsti dalla legge; ad es. nel procedimento per querela di falso. In tutte queste ipotesi il giudice è tenuto ad ordinare che gli atti siano comunicati al p.m., affinché questi possa esercitare il potere-dovere di cui è investito. Il mancato intervento, in tali casi, è motivo di nullità insanabile e rilevabile d’ufficio. La giurisprudenza ha ridimensionato questa drastica disciplina, in particolare escludendo che vi sia nullità allorquando, pur avendo avuto regolare comunicazione degli atti di causa, il p.m. abbia omesso di intervenire. 5. Ulteriore ipotesi di intervento obbligatorio del p.m. riguarda i processi davanti alla Corte di cassazione, limitatamente alle udienze dinanzi alle sezioni unite e a quelle pubbliche dinanzi alle sezioni semplici, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla c.d. sezione-filtro, istituita dalla riforma del 2009. L’intervento è invece facoltativo in ogni altra causa in cui il p.m. ravvisa un pubblico interesse. Ed in questi casi, correlativamente, è solo va facoltativo per il giudice disporre che gli atti siano a lui trasmetti. 72. I poteri del pubblico ministero nelle cause cui partecipa Ciò che materialmente il p.m. può fare nei giudizi ai quali prende parte, dipende dalla circostanza che si tratti o meno di cause in cui egli è titolare del potere d’azione. - Se ricorre una delle ipotesi in cui egli stesso potrebbe agire, avrà una posizione in tutto e per tutto analoga a quella delle parti private e potrà esercitare tutti i poteri processuali che ad esse competono, ivi compreso quello di impugnare autonomamente la sentenza. - Negli altri casi invece., ad eccezione dei processi dinanzi alla Corte di cassazione, egli ha poteri subordinati, in qualche misura, a quelli delle parti e finalizzati alla ricerca della verità materiale; sicché può produrre documenti, dedurre prove e prendere conclusioni nei soli limiti tracciati dalle domande che le parti hanno proposto. Di regola, in queste cause non ha neppure il potere d’impugnare la sentenza, quando non l’abbia fatto una delle parti, se non avvalendosi della revocazione straordinaria, rimedio che l’art.397 gli accorda quando, trattandosi di un’ipotesi di intervento obbligatorio, egli non sia stato sentito oppure la sentenza sia l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge. Un’eccezione è però prevista per le sentenze relative alle cause matrimoniali (ad eccezione di quelle di separazione personale dei coniugi), nonché per quelle dichiarative dell’efficacia o inefficacia di sentenze straniere concernenti cause matrimoniali : qui, infatti, il p.m., pur mancando di potere d’azione, può usufruire delle medesime impugnazioni che competono alle parti; impugnazione che possono essere proposte sia dal p.m. presso il giudice a quo, sia da quello presso il giudice competente per l’impugnazione, entro il termine ordinario. Questa eccezione, introdotta nel 1950, era finalizzata ad evitare che potessero trovare ingresso nel nostro ordinamento decisioni contrastanti con l’allora indiscusso principio di indissolubilità del matrimonio; oggi, pertanto, tale eccezione appare irragionevole ed anacronistica. Infine, la peculiare posizione del p.m. rispetto a quella delle parti private, trova riscontro per un verso nel potere di astensione accordatogli dall’art.73 e, per altro verso, in due privilegi che gli si riconosce, entrambi ricollegabili alla sua eventuale soccombenza nelle cause ch’egli stesso abbia proposto : quello di essere comunque esente al Pagina di 42 95 Nel caso in cui, invece, la giurisdizione straniera appartiene ad uno Stato membro dell’UE, il regolamento del 2012 stabilisce che “qualora davanti alle autorità giurisdizionali di Stati membri differenti e tra le medesime parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo”, il giudice successivamente adito deve sospendere d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita il precedenza. Una volta che sia intervenuto tale accertamento, deve senz’altro dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice adito preventivamente. Ciò ovviamente in forza della maggior fiducia che caratterizza i rapporti tra le varie giurisdizioni nazionali all’interno dell’Unione e che conduce ad un automatico riconoscimento delle decisioni emesse in un altro Stato membro. Inoltre, la giurisprudenza della Corte di giustizia europea ha adottato un concetto di litispendenza endocomunitaria assai più ampio di quello recepito nel diritto interno, ritenendo che la nozione di “medesimo oggetto” non possa essere limitate alle cause assolutamente identiche, ma debba abbracciare anche le ipotesi in cui tali domande, proposte dinanzi a giudici di Stati diversi, differiscano per il rispettivo oggetto e siano tra loro contrapposte, pur traendo origine dal medesimo rapporto. Al pari, cioè, delle fattispecie il cui inquadramento, nell’ambito della giurisprudenza e della dottrina italiane, oscilla fra l’istituto della continenza e quello della mera connessione di cause. Sezione II - la connessione di cause 76. La connessione in generale Quando due o più cause hanno in comune uno o più elementi identificativi, pur non essendo identiche, si parla di connessione. In presenza di tale nesso, il legislatore consente, seppur a determinate condizioni, il cumulo e la trattazione congiunta delle cause in un unico giudizio (simultaneus processus), vuoi per ragioni di economia processuale, vuoi, soprattutto, per evitare decisioni disarmoniche o addirittura contrastanti. Per favorire la realizzazione del cumulo di cause connesse, il legislatore prevede delle deroghe agli ordinari criteri di competenza, dirette a consentire che un unico giudice possa conoscere di tutte le cause pur quando esse, separatamente considerate, andrebbero proposte dinanzi a diversi uffici giudiziari. Il codice, infatti, affronta il tema della connessione non in modo unitario, bensì muovendo dalle modificazioni della competenza che essa può determinare. Possono distinguersi diverse forme di connessione : 77. La connessione meramente soggettiva Art. 104. (( (Pluralita' di domande contro la stessa parte). )) ((Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo piu' domande anche non altrimenti connesse, purche' sia osservata la norma dell'art. 10 secondo comma. E' applicabile la disposizione del secondo comma dell'articolo precedente)). Riguarda i soli soggetti, attivi e passivi, delle domande, le quali differiscono, invece, per ogni aspetto oggettivo; tale situazione è contemplata dall’art.104, 1°comma, che consente di proporre contro la stessa parte, nel medesimo processo, più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art.10, 2°comma. In tal caso, si parla di cumulo oggettivo per definire il cumulo delle più domande in un unico processo. Vengono in rilievo, a tal proposito, solo ragioni di economia processuale e conseguentemente non è prevista alcuna deroga ai criteri ordinari di competenza, diretta a favorire il simultaneus processus. Quest’ultimo sarà concretamente attuabile solo quando uno stesso ufficio giudiziario risulti competente – per materia o territorio – per tutte le cause. Quanto alla competenza per valore, invece, il problema non si pone poiché l’art.10, 2°comma, prevede che il valore complessivo della causa si determini sommando le più domande proposte contro la stessa parte; il che vuol dire che potrebbe essere investito della pluralità di domande, un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente a conoscerle separatamente. Infine, bisogna aggiungere che un cumulo oggettivo può attuarsi anche per domande contrapposte delle parti, cioè quando taluna di esse sia formulata dal soggetto contro cui erano state proposte altre domande; situazione, questa, che però esula dalla previsione dell’art.104. Pagina di 45 95 78. La connessione oggettiva impropria Art. 103. (( (Litisconsorzio facoltativo). )) ((Piu' parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni. Il giudice puo' disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi e' istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe piu' gravoso il processo, e puo' rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza)). Consiste nel rapporto tra due o più cause la cui decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (art. 103, 1°comma). Alla base di tale tipologia di connessione vi è sicuramente l’obiettivo di assicurare che le questioni comuni trovino una soluzione uniforme per le varie cause, anche se, trattandosi di domande del tutto diverse quanto al petitum e alla causa petendi, la loro trattazione separata non presenta alcun rischio di un vero e proprio contrasto di giudicati. Ragion per cui non è prevista alcuna deroga agli ordinari criteri di competenza e la realizzabilità del simultaneus processus è subordinata all’eventualità che sia individuabile uno stesso ufficio giudiziario competente per tutte le cause. Le “identiche questioni” possono essere questioni di fatto o questioni di diritto; nel primo caso, tuttavia, dato che l’identità dei fatti costitutivi può anche dar luogo ad una parziale identità della causa petendi, potrebbe risultare incerta la linea di demarcazione tra la connessione impropria e quella oggettiva propria. 79. La connessione oggettiva propria semplice Art. 33. (Cumulo soggettivo). Le cause contro piu' persone che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo. E’ quella che deriva dalla comunanza dell’oggetto o del titolo dal quale dipendono le più domande (art.103, 1°comma). Il legislatore la prende in considerazione solo in relazione all’ipotesi in cui le più cause riguardino parti diverse e ne fa discendere la possibilità che le cause in tal modo connesse vengano cumulativamente proposte in un unico processo – si parla, in tal caso, di cumulo soggettivo. La realizzazione del simultaneus processus viene favorita anche attraverso una deroga ai criteri ordinari della sola competenza territoriale, infatti, l’art.33, stabilisce che le cause contro più persone che a norma degli artt. 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse. La norma fa riferimento ai soli fori generali e lascia intendere che la deroga è ammessa solo in danno del foro di un convenuto ed in favore del foro generale di un altro convenuto; non anche quando, ad es., per taluna delle cause dovrebbe aversi riguardo ad un foro speciale esclusivo, oppure per attuare il cumulo dinanzi al foro speciale applicabile a taluna soltanto di esse. Tuttavia, buona parte della dottrina sostiene un’applicazione estensiva dell’art.33, la quale parrebbe preferibile ogniqualvolta il cumulo possa realizzarsi dinanzi al giudice competente per una delle cause, derogando esclusivamente per le altre ai fori generali. Generalmente si ammette, inoltre, che la connessione oggettiva possa derogare anche alla competenza per valore, nel senso che se si tratta di domande proposte contro parti diverse, essa ne consente il cumulo dinanzi al giudice competente per quella di maggior valore. Infine, si è soliti escludere l’applicazione dell’art.33 allorché la domanda proposta nei confronti di taluno dei convenuti appaia apparentemente artificiosa e finalizzata ad eludere i criteri ordinari di competenza. È certo che, spesso, la connessione oggettiva può interessare domande tra le stesse parti e, in tale ipotesi, sarebbe assurdo escludere che il simultaneus processus possa instaurarsi anche dinanzi al foro speciale previsto per alcuna soltanto delle cause, dato che il convenuto non ne subisce alcun pregiudizio. Per quanto riguarda l’identità dell’oggetto, deve aversi riguardo al petitum mediato, ossia al bene della vita di cui si chiede l’attribuzione; pertanto, tale identità non va intesa in senso formale ed assoluto, bensì, piuttosto, come equivalenza dell’obiettivo cui le diverse domande tendono. Pagina di 46 95 Tale equivalenza caratterizza le ipotesi definite come concorso di azioni, nelle quali più domande, pur basandosi su fatti costitutivi diversi, mirano ad un risultato sostanzialmente coincidente, tant’è che il soddisfacimento del diritto dedotto con l’una estinguerebbe inevitabilmente il diritto dedotto con l’altra. In queste ipotesi la proposizione delle più domande in un unico processo dà luogo ad un cumulo alternativo, caratterizzato dal fatto che l’accoglimento dell’una domanda è palesemente incompatibile con l’accoglimento dell’altra, dato che è da considerare identico il rispettivo oggetto. Tale situazione appartiene al genus del cumulo condizionale, al cui interno deve distinguersi il cumulo alternativo vero e proprio dal cumulo alternativo eventuale; nel primo caso le più domande vengono poste dall’attore sullo stesso piano e sono tutte contemporaneamente sottoposte al giudice, il quale potrebbe accogliere indifferentemente l’una o l’altra; nel secondo caso, invece, l’attore chiede in via immediata l’accoglimento di una soltanto delle domande, subordinando l’esame dell’altra al rigetto della prima. Non è chiaro, invece, cosa debba intendersi per identità del titolo, infatti, spesso si afferma che al riguardo si alluderebbe semplicemente alla causa petendi, cioè all’insieme dei fatti costitutivi rispettivamente posti alla base delle diverse domande; che peraltro non può mai essere perfettamente uguale per domande diverse. L’impressione, tuttavia, è che in questo caso il legislatore non abbia inteso riferirsi genericamente alle ragioni della domanda, bensì all’identità del rapporto giuridico sostanziale rispettivamente dedotto in giudizio, anche quando per taluna delle cause tale rapporto corrisponda ad una parte soltanto della causa petendi. Infine, la connessione potrebbe riguardare nel contempo l’oggetto e il titolo. Ciò si verifica quando viene dedotto in giudizio un rapporto giuridico che il diritto sostanziale mostra di reputare unitario ancorché plurisoggettivo, come ad es. un diritto reale di cui siano titolari più persone. Non di rado viene ricondotta a questo genus anche l’ipotesi contemplata dall’art.2378 c.c., ossia la proposizione di una pluralità d’impugnazioni aventi ad oggetto la medesima deliberazione di società per azioni; tuttavia, in questo caso, è identico l’oggetto ma non è detto che lo sia anche il titolo, dal momento che le impugnative potrebbero fondarsi su vizi del tutto diversi. Art. 2378. (Procedimento d'impugnazione). L'impugnazione e' proposta con atto di citazione davanti al tribunale del luogo dove la societa' ha sede. Il socio o i soci opponenti devono dimostrarsi possessori al tempo dell'impugnazione del numero delle azioni previsto dal ((terzo comma)) dell'articolo 2377. Fermo restando quanto disposto dall'articolo 111 del codice di procedura civile, qualora nel corso del processo venga meno a seguito di trasferimenti per atto tra vivi il richiesto numero delle azioni, il giudice, previa se del caso revoca del provvedimento di sospensione dell'esecuzione della deliberazione, non puo' pronunciare l'annullamento e provvede sul risarcimento dell'eventuale danno, ove richiesto. Con ricorso depositato contestualmente al deposito, anche in copia, della citazione, l'impugnante puo' chiedere la sospensione dell'esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza, il presidente del tribunale, omessa la convocazione della societa' convenuta, provvede sull'istanza con decreto motivato, che deve altresi' contenere la designazione del giudice per la trattazione della causa di merito e la fissazione, davanti al giudice designato, entro quindici giorni, dell'udienza per la conferma, modifica o revoca dei provvedimenti emanati con il decreto, nonche' la fissazione del termine per la notificazione alla controparte del ricorso e del decreto. Il giudice designato per la trattazione della causa di merito, sentiti gli amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe il ricorrente dalla esecuzione e quello che subirebbe la societa' dalla sospensione dell'esecuzione della deliberazione; puo' disporre in ogni momento che i soci opponenti prestino idonea garanzia per l'eventuale risarcimento dei danni. All'udienza, il giudice, ove lo ritenga utile, esperisce il tentativo di conciliazione eventualmente suggerendo le modificazioni da apportare alla deliberazione impugnata e, ove la soluzione appaia realizzabile, rinvia adeguatamente l'udienza. Tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte ed ivi comprese le domande proposte ai sensi del ((quarto comma)) dell'articolo 2377, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. Salvo quanto disposto dal quarto comma del presente articolo, la trattazione della causa di merito ha inizio trascorso il termine stabilito nel ((sesto comma)) dell'articolo 2377. ((I dispositivi del provvedimento di sospensione e della sentenza che decide sull'impugnazione devono essere iscritti, a cura degli amministratori, nel registro delle imprese)). 80. La connessione c.d. Qualificata e la pregiudizialità dipendenza La dottrina è solita ricondurre al concetto di connessione qualificata tutte le ipotesi contemplate dagli artt. 31,32,34,35 e 36 c.p.c.; esse sono ipotesi di connessione oggettiva connotate da un peculiare rapporto di subordinazione di una causa ad un’altra, inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza. Pagina di 47 95 Ciò conferma che l’oggetto del processo rimane sempre circoscritto alla domanda, senza estendersi alle questioni che pure ne condizionano la decisione. Nel contempo, si spiega perché il sorgere di una questione pregiudiziale non ponga, di per sé, problemi di competenza, neppure quando la cognizione del rapporto pregiudiziale spetterebbe, in base ai criteri ordinari, ad un giudice superiore. Può avvenire, tuttavia, che una volta sorta la questione pregiudiziale, il giudice debba decidere anche su di essa con efficacia di giudicato, vuoi perché è la legge ad esigerlo,vuoi perché è una delle parti ad avanzare una domanda in tal senso, chiedendo dunque che si decida – ad ogni effetto e non incidenter tantum – sull’esistenza del rapporto pregiudiziale. È questa la c.d. domanda di accertamento incidentale, per la quale dovranno sussistere le consuete condizioni quanto a legittimazione e ad interesse ad agire. In conseguenza a tale domanda la questione pregiudiziale diventa causa pregiudiziale, e quest’ultima viene a cumularsi a quella principale originaria; in tale situazione, se la causa pregiudiziale esorbita la competenza del giudice adito, quest’ultimo rimette entrambe le cause al giudice superiore, affinché si realizzi il simultaneus processus dinanzi a lui. Questa disciplina conferma, a contrario, che la trattazione congiunta di cause connesse per pregiudizialità- dipendenza non può mai trovare ostacolo nella diversa competenza per territorio (derogabile) prevista per le singole cause. 84. D) Compensazione Art. 35. (Eccezione di compensazione). Quando e' opposto in compensazione un credito che e' contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda e' fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, puo' decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all'eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l'esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell'articolo precedente. L'art. 35 prende in considerazione il caso in cui sorga una particolare questione pregiudiziale, avente ad oggetto l'esistenza di un controcredito opposto in compensazione (legale o giudiziale). La compensazione, traducendosi in un fatto estintivo del debito che il convenuto allega al solo fine di ottenere il rigetto della domanda, dà luogo ad una eccezione e quindi, pur riguardando propriamente un fatto-diritto che potrebbe essere oggetto di autonomo accertamento, non dovrebbe estendere l'ambito oggettivo del giudizio; a meno che, essendo sorta questione pregiudiziale sull'esistenza del controcredito, una delle parti non avanzasse un'esplicita domanda di accertamento incidentale. La disciplina dell'art. 35 diverge da tale principio: se il controcredito è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, nega a questo la possibilità di decidere l'eccezione di compensazione, sulla quale dovrà comunque pronunciarsi il giudice superiore. Allorché sia proposta un'eccezione di compensazione, l'eccezione resta tale, e quindi non amplia l'oggetto del giudizio, solo se il controcredito non è contestato dall'attore. In caso di contestazione sorge una causa pregiudiziale, che va a cumularsi a quella originaria e può esorbitare la competenza del giudice adito. Se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, che non esige una complessa attività istruttoria, può decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola decisione concernente l'esistenza del controcredito, eventualmente subordinando l'esecuzione della propria sentenza di condanna alla prestazione di una cauzione. 85. E) Domanda riconvenzionale Art. 36. (Cause riconvenzionali). Il giudice competente per la causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che gia' appartiene alla causa come mezzo di eccezione, purche' non eccedano la sua competenza per materia o valore; altrimenti applica le disposizioni dei due articoli precedenti. Pagina di 50 95 L’art.36 non fornisce una definizione della domanda riconvenzionale, limitandosi a disciplinare le sole “domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”. Tali domande possono essere cumulate a quella principale e decise nello stesso processo, purché non eccedano la competenza per materia o valore del giudice adito. In caso contrario il giudice applica le disposizione relative all’accertamento incidentale e alla compensazione; il che significa che, se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, potrà decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola causa concernente la riconvenzionale. Altrimenti gli rimetterà entrambe le cause. La nozione classica di riconvenzionale evoca l’idea della controdomanda che il convenuto, non limitandosi a chiedere il rigetto della domanda proposta dall’attore, formula a propria volta nei confronti di quest’ultimo, facendo valere un diritto diverso da quello oggetto della domanda principale, pur essendo ad esso collegato. Si tratterebbe, dunque, di domande soggettivamente coincidenti, seppur a parti contrapposte. Tuttavia, deve ritenersi che il concetto di riconvenzionale abbracci anche la domanda che lo stesso attore proponga successivamente contro il convenuto (c.d. riconventio riconventionis); abbracci quella proposta da taluno dei convenuti nei confronti di un altro convenuto; ed infine, abbracci , in generale, tutte le domande – comprese quelle di accertamento incidentale – provenienti da chi è già parte nel processo e dirette contro un altro soggetto che parimenti ha in precedenza acquisito la qualità di parte. La relazione tra domanda principale e domanda riconvenzionale, inoltre, può essere di vario tipo : di incompatibilità, di piena compatibilità, e talora, anzi, la riconvenzionale potrebbe finanche presupporre l’accoglimento della domanda principale. Fermo restando che la deroga alla competenza è applicabile nei soli casi di vera e propria connessione oggettiva, la prevalente giurisprudenza, contrastata dalla dottrina, ritiene che, ai soli fini dell’ammissibilità del cumulo, sia sufficiente un qualunque collegamento obiettivo tra la domanda principale e quella riconvenzionale; collegamento che potrebbe intendersi come connessione impropria per mera comunanza di questioni. 86. Le modalità di realizzazione delle simultaneus processus: A) cause separatamente proposte davanti ad uffici giudiziari diversi Art. 40. (Connessione). Se sono proposte davanti a giudici diversi piu' cause le quali, per ragione di connessione, possono essere decise in un solo processo , il giudice fissa con ((ordinanza)) alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. La connessione non puo' essere eccepita dalle parti ne' rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la rimessione non puo' essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. Nei casi previsti negli articoli 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442. Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore. Se la causa e' stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo comma, il giudice provvede a norma degli articoli 426, 427 e 439. Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinche' siano decise nello stesso processo. Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale. Qualora, attraverso le deroghe ai criteri ordinari di competenza previste dagli artt.31-36 sia possibile individuare un unico giudice competente per tutte le cause connesse, il loro cumulo può realizzarsi in momenti e con modalità differenti. Può attuarsi fin dall’inizio per scelta dell’attore, o nel corso del giudizio, vuoi in conseguenza del sorgere di una nuova causa tra le stesse parti, vuoi in seguito all’allargamento soggettivo del giudizio, che derivi dalla chiamata o dall’intervento volontario di un terzo, protagonista o destinatario di una nuova domanda connessa a quella originaria. In secondo luogo può avvenire che le cause connesse siano state promosse autonomamente, in separati processi; e in tal caso la disciplina è diversa a seconda che esse pendano o meno davanti allo stesso ufficio giudiziario. Pagina di 51 95 Se le cause connesse vengono instaurate separatamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi, l’art.40 consente, a talune condizioni, che la loro trattazione congiunta possa ancora attuarsi attraverso la fusione dei più processi dinanzi ad uno di tali uffici. È previsto, in tal caso, che il giudice dichiari la connessione con ordinanza, fissando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito; a spogliarsi della causa, dunque, dev’essere il giudice della causa accessoria, nell’ipotesi di cui all’art.31, e quello adito successivamente in tutti gli altri casi. Davanti a tale giudice la connessione può essere eccepita, da ciascuna delle parti, oppure rilevata d’ufficio solamente entro la prima udienza; in ogni caso, lo stesso giudice deve rifiutare la dichiarazione di connessione quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consentirebbe l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. La lacuna di tale disciplina deriva dal fatto che non è chiaro se il simultaneus processus possa o no realizzarsi anche quando l’ufficio giudiziario così individuato non risulti competente rispetto a tutte le cause connesse; in particolare : - quando, trattandosi di una causa accessoria tra le stesse parti, il suo valore, sommato a quello della causa principale, esorbiti la competenza del giudice adito per quest’ultima; - quando, negli altri casi di connessione, il giudice preventivamente adito non sia quello superiore, competente per materia o per valore, dinanzi al quale si sarebbe potuto instaurare dall’inizio il cumulo delle cause connesse. Anche per questo aspetto, tuttavia, il problema viene ridimensionato dall’art.40, che al 6°comma prevede che, in caso di connessione qualificata tra cause spettanti al giudice di pace e cause di competenza del tribunale, le relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. Prevale dunque la competenza del giudice togato pur quando la competenza del giudice di pace sia determinata ratione materie o si tratti di competenza c.d. funzionale. Qualora, invece, le cause venissero proposte separatamente, il giudice di pace dovrebbe pronunziare anche d’ufficio la connessione a favore del tribunale, il che vuole dire che in tale ipotesi il rilievo della connessione non è soggetto alle limitazioni temporali di cui all’art.40, 2°comma, ma resta consentito per tutta la durata del processo dinanzi al giudice onorario. 87. B) cause separatamente proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario Art. 274. (Riunione di procedimenti relativi a cause connesse). Se piu' procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d'ufficio, puo' disporne la riunione. Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni. Più semplice è la disciplina applicabile nel caso in cui le cause connesse siano proposte separatamente dinanzi allo stesso ufficio giudiziario; in tal caso, infatti, la fusione delle cause si realizza semplicemente attraverso la loro riunione, peraltro meramente facoltativa, sicché il giudice che rileva la connessione ha pur sempre la possibilità di valutare se il simultaneus processus sia o meno conveniente, anche in base al rispettivo stato di avanzamento delle cause. In concreto, l’art.274 prevede che, quando le cause connesse pendono dinanzi allo stesso giudice (inteso, questa volta, come magistrato-persona fisica o collegio giudicante), questi possa – anche d’ufficio – disporne direttamente la riunione. Se invece le cause pendono davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, il giudice istruttore o il presidente della sezione che ne abbiano notizia devono riferire al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per l’eventuale loro riunione. Una disciplina speciale riguarda le materie del lavoro e della previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché in generale le controversie dinanzi al giudice di pace, per le quali viene dato maggior rilievo alle esigenze di economia processuale perseguite attraverso la trattazione congiunta delle cause connesse. Per esse, infatti, è prevista una duplice deroga all’art.274 : in primo luogo stabilendo che la riunione sia obbligatoria ogniqualvolta le cause si trovino nella stessa fase processuale; in secondo luogo estendendo tale riunione anche alle cause connesse soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende la loro decisione (cioè alla connessione c.d. impropria). Pagina di 52 95 Infatti, si precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto; mentre le associazioni e i comitati, privi di personalità giuridica, stanno in giudizio per mezzo delle persone cui compete, in base ad accordi degli associati, le presidenza o la direzione degli stessi. Una situazione analoga ricorre ogniqualvolta il legislatore riconosca una qualche soggettività giuridica, seppur imperfetta, ad entità diverse dalla persona fisica; tipico è il caso dell’amministratore di condominio a cui è attribuito un limitato potere di rappresentanza, sostanziale e processuale, dei singoli condomini. Particolarmente rilevante è, poi, la rappresentanza volontaria, la quale si fonda su una libera scelta del rappresentato, estrinsecata attraverso il conferimento di un’apposita procura. Il codice, al riguardo, si limita a prendere in considerazione la sola rappresentanza processuale del procuratore generale e di quello preposto a determinati affari, ossia di soggetti cui compete anche il potere di rappresentanza sostanziale. Essi, in base all’art.77, non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto; se ne deduce, dunque, che il mero conferimento della rappresentanza sostanziale non implica, di per sé, il potere di agire o di essere convenuto in nome del rappresentato, nei giudizi in cui si controverta dei rapporti cui fa riferimento la procura sostanziale, essendo a tal fine richiesta l’esplicita attribuzione (scritta) della rappresentanza processuale. Le sole deroghe riguardano : - il compimento di atti urgenti e la richiesta di misure cautelari, attività che non tollererebbero un differimento e che, conseguentemente, rientrano sempre nei poteri del rappresentante sostanziale; - il procuratore generale di chi abbia la residenza ed il domicilio all’estero e l’institore, ai quali il potere di rappresentanza processuale si presume senz’altro conferito e, pertanto, non necessita di apposita menzione. L’opinione prevalente, basandosi sulla circostanza che l’art.77 prende in considerazione la sola situazione dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza sul piano sostanziale, ritiene di poter dedurre che la rappresentanza processuale volontaria non possa mai andar disgiunta da quella sostanziale, pena l’invalidità della procura ed il conseguente difetto di legittimazione processuale del rappresentante. In realtà si tratta di una deduzione opinabile, ove si consideri unicamente l’art.77; semmai, l’unico elemento che potrebbe addursi in favore di tale tesi è offerto dall’art.317, che espressamente prevede, dinanzi al solo giudice di pace, la possibilità che le parti si facciano rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato. Nella pratica, poi, l’inscindibilità della rappresentanza processuale da quella sostanziale, viene “aggirata” mediante l’espediente di attribuire al delegato anche poteri di rappresentanza sostanziale. Ad ogni modo, nei casi di rappresentanza processuale, ci si trova in presenza di una parte complessa costituita sia dal rappresentante che dal rappresentato : quest’ultimo è parte in senso processuale, cioè destinatario degli effetti del processo e degli atti che in esso vengono compiuti; il rappresentante, invece, è parte in senso formale, e ad esso compete la legittimazione processuale (in via esclusiva : rapp.legale. – in via concorrente : rapp.volontaria). Infine, lo stesso rappresentante può subire gli effetti del processo, allorché sussistano le condizioni per una sua condanna al pagamento delle spese del giudizio. 93. Il curatore speciale Art. 78. (Curatore speciale). Se manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l'assistenza, e vi sono ragioni di urgenza, puo' essere nominato all'incapace, alla persona giuridica o all'associazione non riconosciuta un curatore speciale che li rappresenti o assista finche' subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l'assistenza. Si procede altresi' alla nomina di un curatore speciale al rappresentato, quando vi e' conflitto d'interessi col rappresentante. L’art.78 prevede la nomina di un curatore speciale in due situazione : 1. Quando manca la persona cui spetta la rappresentanza o l’assistenza dell’incapace, della persona giuridica o dell’associazione non riconosciuta, e vi sono ragioni di urgenza, tali da non poter attendere che si provveda nei modi ordinari; 2. Quando vi sia un conflitto di interessi – anche meramente potenziale – tra rappresentante e rappresentato. In queste ipotesi, al curatore speciale spetta, dunque, la legittimazione processuale, in luogo della parte (quando debba assumerne la rappresentanza), o accanto ad essa (quando debba solo assisterla). Pagina di 55 95 Art. 79. (Istanza di nomina del curatore speciale). La nomina del curatore speciale di cui all'articolo precedente puo' essere in ogni caso chiesta dal pubblico ministero. Puo' essere chiesta anche dalla persona che deve essere rappresentata o assistita, sebbene incapace, nonche' dai suoi prossimi congiunti e, in caso di conflitto di interessi, dal rappresentante. Puo' essere inoltre chiesta da qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse. I soggetti che possono prendere l’iniziativa per la nomina sono, in base all’art.79: - lo stesso soggetto che dovrà beneficiare della rappresentanza o dell’assistenza; - i suoi prossimi congiunti; - il rappresentante, quando la nomina si renda necessaria per conflitto d’interessi; - qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse; - il pubblico ministero (in ogni caso). La competenza, a seconda dei casi e salvo le ipotesi in cui sia competente il tribunale per i minori, appartiene al giudice di pace oppure al presidente dell’ufficio giudiziario davanti al quale si intende proporre la causa; il quale provvede con decreto, dopo aver assunto le opportune informazioni e sentite possibilmente le parti interessate. Il decreto di nomina dev’essere comunque comunicato dall’ufficio al pubblico ministero, affinché questi possa attivarsi per chiedere, all’occorrenza, i provvedimenti per la costituzione della normale rappresentanza o assistenza dell’incapace, della persona giuridica o dell’associazione non riconosciuta. 94. Il difetto di legittimazione processuale Art. 182. (Difetto di rappresentanza o di autorizzazione). Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarita' della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. ((Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullita' della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione)). L’art.182, 2°comma, stabilisce che il giudice, allorché rilevi un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, è tenuto ad assegnare alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni. Si evince, dunque, che il difetto di legittimazione processuale, indipendentemente dalla causa da cui derivi è sempre rilevabile d’ufficio; ed il motivo è che il difetto di rappresentanza o di assistenza incide sulla regolarità del contraddittorio, mentre le norme che subordinano la possibilità di stare in giudizio al rilascio di determinate autorizzazioni rispondono ad interessi di natura pubblicistica, la cui tutela non può essere affidata esclusivamente alle parti. Lo stesso art.182, però, prevede che il vizio sia rimediabile con efficacia retroattiva; infatti, se la sanatoria si realizza tempestivamente, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione, come se il processo fosse iniziato in modo del tutto regolare. [n.b. il principio della sanabilità ex tunc vale sia per l’attore, che per il convenuto]. Qualora, invece, la sanatoria non si verifica, o interviene al di là del termine perentorio fissato dal giudice, il difetto di legittimazione processuale si consolida e diviene insanabile, con conseguenze diverse a seconda che il vizio riguardi l’attore o il convenuto. In particolare : - Il difetto di legittimazione processuale dell’attore incide sulla valida instaurazione del giudizio e pertanto impone la definizione di quest’ultimo con una sentenza in mero rito, a causa della mancanza di un presupposto processuale (la capacità processuale); - Il difetto di legittimazione processuale del convenuto (o di altra parte), invece, qualora sia a lui soltanto addebitabile, si riflette esclusivamente sulla costituzione in giudizio del convenuto stesso e sulla validità degli atti da lui compiuti, sicché non può in nessun caso impedire la prosecuzione del processo. La disciplina dell’art.182 deve ritenersi applicabile non solo ai vizi della rappresentanza legale ed organica, ma anche a quelli della rappresentanza volontaria, ossia all’ipotesi in cui una parte sia stata in giudizio tramite un falsus procurator. Pagina di 56 95 95. La rappresentanza e la difesa tecnica Art. 82. (Patrocinio). Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede lire un milione. Negli altri casi, le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore. Il giudice di pace tuttavia, in considerazione della natura ed entita' della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, puo' autorizzarla a stare in giudizio di persona. Salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente; e davanti alla Corte di cassazione col ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo. Nel nostro ordinamento la parte, pur essendo munita di capacità processuale a norma dell’art.75, non può di regola agire direttamente e personalmente nel processo, poiché difetta dello ius postulandi; deve dunque avvalersi dell’opera di determinati soggetti professionalmente qualificati, ossia del patrocinio di un difensore. A tal proposito, l’art.82 prevede che : a. Davanti al tribunale e alla corte d’appello è sempre necessario – salvo che la legge non disponga diversamente – che le parti stiano in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente, iscritto all’albo degli avvocati. Le deroghe a tale principio riguardano i casi in cui è consentito alla parte di stare in giudizio personalmente, ad es. quando sia essa stessa un avvocato; oppure per alcuni tipi di controversie, ad es. le cause di lavoro dinanzi al tribunale, di valore non eccedente i 129,11€, i giudizi di opposizione ad ordinanze-ingiunzione applicative di sanzioni amministrative (limitatamente al primo grado) e quelli in materia elettorale; b. Dinanzi al giudice di pace è senz’altro ammessa la difesa personale nelle cause il cui valore non ecceda i 1100€; negli altri casi è richiesta l’assistenza di un difensore, salvo che il giudice, in considerazione della natura ed entità della causa, autorizzi la parte a stare in giudizio di persona; c. Davanti alla Corte di cassazione, infine, è prescritto il ministero di un avvocato iscritto nell’apposito albo. Con riguardo all’opera del difensore, si distingue tra ministero e assistenza; si intende, infatti, alludere a due distinte funzioni che l’avvocato è chiamato a svolgere nel processo : la rappresentanza e l’assistenza. - Nel primo caso [ministero] il difensore agisce in sostituzione della parte, compiendo gli atti del processo in nome e per conto della parte stessa, in forza di una procura da quest’ultima conferita. Si tratta, dunque, di una vera e propria rappresentanza, che si è soliti definire tecnica che si caratterizza per un duplice profilo : anzitutto, in considerazione del suo peculiare oggetto, consiste nel compimento di tutti gli atti processuali occorrenti in relazione ad una determinata azione, o per resistere ad essa; in secondo luogo il contenuto della procura è tipico, mentre i poteri concretamente spettanti al difensore sono definiti direttamente dalla legge. A tal proposito, inoltre, si ritiene che il difensore goda di una notevole discrezionalità tecnica nella scelta degli strumenti processuali e delle strategie difensive più adatte; pertanto, la volontà del rappresentato non potrebbe, per questo aspetto, vincolare il difensore, né tantomeno determinare, sul piano processuale, altra conseguenza che non sia la revoca del mandato. - Il difensore-assistente, invece, è quello che si affianca alla parte, o ad un altro suo difensore-procuratore, per fornire la propria consulenza giuridica e perorare, dunque, le tesi difensive del patrocinato. Anch’egli opera in base ad un mandato conferitogli dal cliente, per il quale, tuttavia, non sono previste forme particolare e ben potrebbe essergli attribuito verbalmente. In passato queste due funzioni facevano capo a due figure professionalmente autonome e diverse : da un lato il procuratore legale (mero assistente), dall’altro l’avvocato (rappresentante); col passare del tempo, però, la distinzione si è andata sempre più attenuando, fino a cadere definitivamente nel 1997, con la soppressione dell’albo e della figura del procuratore legale. Si sottolinea, comunque, che tale modifica normativa ha fatto venir meno la duplicità delle distinte qualifiche professionali, non anche la duplicità delle funzioni. Ad ogni modo, nella maggior parte dei casi, le due funzioni vengono attribuite cumulativamente ad uno o più difensori, fermo restando che la parte può comunque ritenere di conferire ad un avvocato la sola rappresentanza e ad un altro la sola assistenza. 96. L'ordinamento della professione di avvocato L’ordinamento della professione di avvocato è stato notevolmente riformato dalla l.247/2012, la cui attuazione è legata all’emanazione di regolamenti che dovrebbero essere adottati con decreto del Ministro della giustizia entro i due anni successivi alla sua entrata in vigore, avvenuta il 2 febbraio 2013. Pagina di 57 95 Altre norme specifiche, poi, richiedono una procura ad hoc per determinati atti particolarmente delicati o idonei ad incidere sulla prosecuzione della causa, se non addirittura – seppur indirettamente – sullo stesso diritto controverso. Al di fuori di queste limitazioni, i poteri del difensore devono ritenersi estesi a tutti gli atti ch’egli reputi opportuni nell’interesse del proprio assistito, compresa la proposizione di domande nuove e la chiamata in causa di terzi; alla sola condizione che, laddove si tratti di domande formulate nel corso del giudizio, esse siano oggettivamente connesse a quelle originarie. Infine, rimane da aggiungere che il difensore con procura diviene, dal momento della costituzione in giudizio, il destinatario naturale di tutte le notificazioni e le comunicazioni diretta alla parte da lui rappresentata. Capitolo IX - il processo con pluralità di parti Sezione I - il litisconsorzio originario 99. Il concetto di litisconsorzio La nozione di litisconsorzio indica la presenza nel processo di una pluralità di parti, alcune delle quali potrebbero anche avere un interesse ed una posizione processuale comuni. Si suole parlare di litisconsorzio attivo, passivo o misto, a seconda che la pluralità di parti riguardi chi ha proposto la domanda, oppure i destinatari della stessa, o entrambi. Il litisconsorzio, inoltre, può essere originario, se si determina fin dal momento in cui si instaura il processo, o successivo, qualora si realizzi nel corso del giudizio, conseguentemente all’intervento di nuove parti o ad un fenomeno di successione processuale. Il litisconsorzio È facoltativo quando il processo può instaurarsi tra più parti, invece È necessario quando deve instaurarsi tra più parti. 100. Il litisconsorzio facoltativo originario L’art.103 consente che più parti agiscano o siano convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni. Nel primo caso si parla di litisconsorzio proprio, nel secondo di litisconsorzio improprio. La facoltatività del litisconsorzio è dunque riferita alla genesi del cumulo soggettivo di cause, rimessa alla volontà dell’attore. Ed è chiaro che un cumulo di cause tra parti diverse può attuarsi anche nel corso del processo, attraverso la chiamata o l’intervento volontario di terzi, che potrebbero essere destinatari o autori essi stessi di nuove domande. 101. Il litisconsorzio necessario Art. 102. (Litisconsorzio necessario). Se la decisione non puo' pronunciarsi che in confronto di piu' parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo e' promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione del contradittorio in un termine perentorio da lui stabilito. L’art.102, 1°comma, enuncia il principio per cui, “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo”. Inoltre, qualora ciò non avvenga, il giudice deve ordinare alle parti l’integrazione del contraddittorio, fissando a tal fine un termine perentorio. L’art.102, tuttavia, viene considerata dalla dottrina una “norma in bianco”, dato che non è precisato quando “la decisione non può pronunciarsi che in confronto a più parti”, e dunque in quali ipotesi si configura il litisconsorzio necessario. In verità, vi sono alcune ipotesi in cui la necessità del litisconsorzio è prevista espressamente dalla legge : ad es. nell’art.784, che impone di proporre le domande di divisione nei confronti di tutti gli eredi o condomini nonché degli eventuali creditori opponenti; o in relazione all’azione di disconoscimento di paternità e all’azione surrogatoria; o ancora in relazione all’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli a motore e natanti. Pagina di 60 95 102. Il l.n.c. Determinato dalla deduzione di un rapporto unico plurisoggettivo: la ratio Particolari dubbi sorgono nei casi in cui la necessità del litisconsorzio si ritiene discendere da ragioni sostanziali, ossia dalla circostanza che il processo ha ad oggetto un rapporto giuridico (unico ma) plurisoggettivo. A tal proposito, occorre precisare che la mera deduzione in giudizio di un rapporto giuridico unico con pluralità di parti non è sufficiente, di per sé, a rendere necessaria la partecipazione di tutti i suoi contitolari. Pertanto, al fine di comprendere quale sia l’ulteriore elemento da cui può derivare la necessità del litisconsorzio, è necessario appurare a quale finalità risponda l’art.102. La dottrina dominante nega che l’art.102, nelle ipotesi in cui la causa verta su un rapporto plurisoggettivo, costituisca una mera applicazione del principio del contradditorio, e sia dunque preordinato a tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti necessari; si ritiene, invece, che la necessità del litisconsorzio possa essere imposta a tutela dell’oggettiva utilità della sentenza, in relazione al risultato che l’attore si prefigge, quindi, in sostanza, al petitum della domanda : l’art.102, cioè, opererebbe nelle situazioni in cui gli effetti del provvedimento chiesto al giudice non possono prodursi se non, congiuntamente, per tutti i contitolari del rapporto plurisoggettivo dedotto in giudizio quale causa petendi, pena la sua inutilità. Si pensi alla sentenza di scioglimento della comunione che fosse pronunciata senza la partecipazione di alcuni condomini e che, conseguentemente, risulterebbe concretamente inutile per tutti. È per questo motivo che si è soliti parlare, in relazione a tali ipotesi, di litisconsorzio necessario secundum tenorem rationis nonché, con riguardo alla decisione pronunciata nei confronti di alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, di sentenza inutiliter data. 103. Le fattispecie Tuttavia, la concreta individuazione delle ipotesi di litisconsorzio necessario resta tutt’altro che agevole e sicura, dato che il parametro sul quale essa si fonda, ossia l’oggettiva utilità della sentenza, non sempre può essere apprezzato in termini assoluti e comunque a priori. Questo è il motivo per cui le soluzioni della giurisprudenza appaiono dominate da un notevole empirismo. I punti sui quali si registrano gli indirizzi più univoci riguardano, peraltro, le azioni costitutive e quelle di condanna. - Quanto alle azioni costitutive, si ritiene che esse, avendo come obiettivo una modificazione giuridica, esigano sempre la partecipazione di tutti i contitolari del rapporto, non essendo concepito che gli effetti costitutivi del provvedimento perseguito dall’attore si producano per alcuni soltanto di essi. Ciò significa che vi è litisconsorzio necessario ogniqualvolta venga proposta una domanda costitutiva relativamente ad un rapporto plurisoggettivo. - quanto alle azioni di condanna, sembra altrettanto certo che esse, tenuto conto della natura normalmente bilaterale degli obblighi dedotti in giudizio, non possono dar luogo, di regola, ad ipotesi di litisconsorzio necessario, se non nei casi in cui l’esecuzione del provvedimento richiesto, avendo ad oggetto una prestazione indivisibile, dovrebbe inevitabilmente operare in pregiudizio di un diritto reale inscindibilmente comune a più soggetto. Considerevoli dubbi permangono, invece, circa le azioni di mero accertamento. Partendo dal presupposto che tali azioni hanno come unico obiettivo quello di fare certezza circa l’esistenza di un diritto o di uno status dell’attore, contestato dal convenuto, oppure circa l’inesistenza di un diritto che quest’ultimo abbia vantato nei confronti dell’attore stesso, non vi dovrebbe essere ragione per escludere la possibilità che la domanda, pur riguardando eventualmente un rapporto plurisoggettivo, si rivolga esclusivamente nei confronti dell’autore dell’indebita contestazione o vanto stragiudiziale. Contraddittoria appare, altresì, la soluzione adottata per alcune azioni di accertamento tipiche concernenti l’efficacia di contratti stipulati fra più parti : così, ad es., si suole affermare la necessità del litisconsorzio per l’azione di simulazione, assoluta o relativa, mentre la si è negata per l’azione di nullità. 104. L.n.c. Connesso ad ipotesi di legittimazione straordinaria Altro gruppo di fattispecie in cui si afferma la necessità del litisconsorzio, riguarda le ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire. Il modello di riferimento, al riguardo, è offerto dall’azione surrogatoria, per la quale è previsto che il creditore, qualora agisca giudizialmente nei confronti del debitor debitoris, debba obbligatoriamente citare anche il debitore al quale intende surrogarsi; o ancora, l’art.1012, 2°comma, c.c. impone all’usufruttario che agisca in confessoria o in negatoria serivutis, di chiamare in giudizio anche il proprietario del fondo. Pagina di 61 95 Il principio generale è che ogniqualvolta agisca un soggetto investito di legittimazione straordinaria, sia da considerare litisconsorte necessario anche il legittimato ordinario (o sostituito), cioè il vero titolare del rapporto dedotto in giudizio dal sostituto processuale; tale principio deve ritenersi applicabile a tutte le ipotesi di azione diretta. Si sottolinea che, in questi casi, è in gioco non tanto l’utilità della sentenza invocata dall’attore, quanto l’interesse del convenuto ad ottenere un giudicato che faccia stato in ogni caso anche nei confronti del legittimato ordinario-sostituito. 105. L.n.c. Determinato da ragioni di mera opportunità Ultimo gruppo di fattispecie nelle quali si afferma la necessità del litisconsorzio, riguarda i casi in cui è imposta la partecipazione al processo dei soggetti titolari di un rapporto giuridico diverso da quello oggetto del giudizio, ma ad esso strettamente collegato, di solito per pregiudizialità-dipendenza. Si tratta, dunque, di rapporti giuridici distinti, facenti capo a parti diverse, sicché la necessaria partecipazione di tutti i rispettivi titolari, discende da ragioni di mera opportunità (c.d. litisconsorzio necessario propter opportunitatem), connesse all’intento di conseguire un accertamento uniforme ed incontrovertibile del rapporto pregiudiziale. Ad es. in relazione all’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore di responsabilità civile, si ritiene che l’obbligo di far partecipare al giudizio anche il responsabile del danno sia imposto essenzialmente a tutela dell’impresa assicuratrice, per l’eventualità che essa debba successivamente agire in rivalsa nei confronti del responsabile. È pacifico, comunque, che si tratti di ipotesi tipiche e tassative, pertanto non è pensabile che l’applicazione dell’art.102 sia rimessa ad un apprezzamento discrezionale del giudice o comunque dell’interprete. 106. La disciplina processuale del litisconsorzio necessario e la sentenza resa a contraddittorio non integro Art. 354. (( (Rimessione al primo giudice per altri motivi). )) ((Fuori dei casi previsti nell'articolo precedente, il giudice d'appello non puo' rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullita' della sentenza di primo grado a norma dell'art. 161 secondo comma. Il giudice d'appello rimette la causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sull'estinzione del processo a norma e nelle forme dell'art. 308. Nei casi di rimessione al primo giudice previsti nei commi precedenti, si applicano le disposizioni dell'articolo 353. Se il giudice d'appello dichiara la nullita' di altri atti compiuti in primo grado, ne ordina, in quanto possibile, la rinnovazione a norma dell'art. 356)). Qualora il giudice si accorga, in base alla domanda, che il processo non si è instaurato nei confronti di tutti i litisconsorti necessari, è tenuto ad ordinare alle parti l’integrazione del contraddittorio, ossia la citazione dei litisconsorti c.d. pretermessi, fissando a tal fine un termine perentorio, la cui scadenza determinerebbe l’estinzione immediata del giudizio. L’integrazione del contraddittorio produce una sanatoria retroattiva del processo, quanto meno nel senso che gli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale si produrranno fin dal primo momento nei confronti di tutti i litisconsorti; il che implica che per evitare il maturare di prescrizioni e decadenze del diritto dedotto in giudizio, è sufficiente che quest’ultimo venga fatto tempestivamente valere nei confronti di alcuno soltanto dei litisconsorti necessari. Si evince, dunque, che le conseguenze dell’eventuale violazione dell’art.102, nell’ambito del processo di primo grado, sono relativamente modeste. Nel caso in cui, invece, l’omessa integrazione del contraddittorio venga rilevata in fase d’impugnazione, l’art.354 prevede che sia dichiarata la nullità della sentenza e che la causa torni dinanzi al giudice di primo grado. Ci si chiede quale sia la norma o il principio di diritto applicabile nel caso in cui il vizio non venga rilevato tramite impugnazione e la sentenza, pronunciata a contraddittorio non integro, arrivi a passare in giudicato. A riguardo, si è soliti parlare di sentenza inutiliter data, ossia comunque inefficace in quanto inidonea a produrre effetti di alcun genere, non solo nei confronti dei litisconsorti pretermessi, ma anche per coloro i quali siano stati parte nel relativo giudizio. Pagina di 62 95 escluderebbe la fondatezza della domanda originaria, essendo sostanzialmente identico il rispettivo petitum (bene giuridico perseguito). Si tratta di ipotesi in cui il convenuto o sostiene che il vero obbligato non è lui, ma un altro soggetto, oppure, senza negare la propria obbligazione, afferma che il vero titolare del diritto dedotto in giudizio non è l’attore, bensì un terzo. Nel primo caso, la chiamata in giudizio del terzo consente di proporre una domanda alternativa di condanna del convenuto o del terzo; nel secondo caso, invece, evita al convenuto il rischio di essere condannato nei confronti dell’attore e di dover successivamente pagare anche il terzo; b. Quando il terzo (al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio volontario) sia indicato quale contitolare del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo, sì che le parti originarie potrebbero avere interesse ad estendere nei suoi confronti gli effetti del futuro giudicato.; c. Quando il terzo sia titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del processo : in tal caso l’intervento coatto potrebbe rappresentare – a seconda dei casi – uno strumento di tutela del terzo (qualora si tratti di un soggetto che subirebbe comunque gli effetti indiretti della decisione, anche se non partecipasse al giudizio), oppure un mezzo per estendere nei suoi confronti l’efficacia riflessa della sentenza. Va sottolineato che, tranne per quest’ultima ipotesi, l’intervento coatto deve rendere quanto meno possibile un allargamento oggettivo del processo, che conduca il giudice a decidere anche sul rapporto facente capo al terzo; si tratta, dunque, di stabilire se a tal fine sia o no necessaria la proposizione di un’apposita domanda, da una delle parti originarie o dallo stesso chiamato in causa. In realtà, considerando che l’intervento coatto può essere chiesto da una qualunque delle parti, oppure può essere ordinato dal giudice, è logico ritenere che esso debba in ogni caso condurre, di per sé, all’accertamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato, pur quando nessuna esplicita domanda sia stata formulata in tal senso. Perché possa aversi, invece, una sentenza di condanna del terzo o a favore di quest’ultimo, deve ritenersi indispensabile una specifica domanda, rispettivamente proveniente da una delle parti (solitamente l’attore) o dal terzo; non essendo pensabile che la domanda originaria possa estendersi automaticamente nei confronti del terzo o, peggio ancora, in suo favore. 113. In particolare, l'intervento per ordine del giudice Art. 107. (Intervento per ordine del giudice). Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa e' comune, ne ordina l'intervento. Nel caso di intervento per ordine del giudice, la chiamata del terzo, dipende da una valutazione di opportunità rimessa, per l’appunto, al giudice (art.107) e ciò contraddistingue l’ordine in questione rispetto a quello di integrazione necessaria del contraddittorio, previsto dall’art.102. Il legislatore ha omesso di indicare, però, quali siano gli elementi che debbano essere valutati a tal fine; e parte della dottrina ritiene che all’istituto non siano estranee esigenze lato sensu istruttorie, oltre che di economia processuale : nel senso che esso consentirebbe di acquisire, grazie alla partecipazione del terzo, una più adeguata cognizione anche del rapporto originariamente dedotto in giudizio. Si ritiene, anzi, che l’art.107 attribuisca al giudice un potere assolutamente discrezionale, non censurabile in sede d’impugnazione. Nella prassi, tuttavia, è raro che tale potere venga esercitato dal giudice di propria iniziativa, senza alcuna sollecitazione delle parti, che magari vi ricorrono quando non sono più in tempo per chiamare esse stesse il terzo a norma dell’art.269. Sezione III - lo svolgimento del processo litisconsortile 114. Scindibilità o inscindibilità nel cumulo soggettivo di cause. Il litisconsorzio unitario e il litisconsorzio necessario c.d. Processuale Il giudizio con pluralità di parti può, in ogni caso, dar luogo ad una serie di questioni del tutto sconosciute al processo che si svolga tra due parti soltanto. La prima di tali questioni riguarda la natura scindibile o inscindibile del cumulo soggettivo di cause oggetto del processo litisconsortile. Si tratta, in sostanza, di stabilire se al di fuori dei casi di litisconsorzio necessario, sussistano altre situazioni in cui la decisione dev’essere unica rispetto a tutti i litisconsorti. Pagina di 65 95 Con specifico riguardo al cumulo soggettivo, l’art.2378, 5°comma, c.c., in riferimento all’impugnazione delle delibere di società di capitali, stabilisce che tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. Il che significa che, pur potendo partecipare al processo d’impugnazione tutti i soci, è necessario, laddove più soci abbiano impugnato, che le più cause confluiscano in un unico giudizio, che deve avere una trattazione ed una decisione unitarie. Si parla, in tal caso, di litisconsorzio unitario (o quasi necessario) caratterizzato dall’essere facoltativo dal punto di vista “genetico”, ma necessario una volta che, avendo agito (o essendo stati convenuti) più titolari del rapporto, il cumulo sia stato concretamente realizzato. Alcuni autori ritengono che la disciplina dell’art.2378, per quanto concerne l’inscindibilità del cumulo, possa essere applicata a tutte le fattispecie in cui, al di fuori dei casi di litisconsorzio necessario, siano proposte in un unico processo, da parti diverse, più domande connesse per identità dell’oggetto e del titolo, che egualmente non tollererebbero un provvedimento di separazione. La giurisprudenza ha invece creato un’altra figura di litisconsorzio necessario, definito meramente processuale, che non differisce troppo, per gli effetti, dal litisconsorzio unitario, sebbene si fondi su presupposti diversi. Le fattispecie alle quali si fa più spesso riferimento, in tal senso, sono : - l’ipotesi in cui, essendo morta una delle parti, la causa debba essere proseguita da o nei confronti dei suoi eredi, che sarebbero per l’appunto litisconsorti necessari nel successivo corso del giudizio, indipendentemente dal tipo di diritto in esso dedotto; - la chiamata in causa di un terzo per ordine del giudice, che instaurerebbe sempre e comunque una causa o un cumulo di cause inscindibile. Nel primo caso la soluzione adottata può ritenersi, nelle sue implicazioni pratiche, corretta, purché sia chiaro che ciò che viene in rilievo è il principio del contraddittorio, in ragione del fatto che la sentenza è comunque destinata a produrre effetti nei confronti di tutti i successori universali della parte venuta meno, e dunque sarebbe affetta da nullità qualora fosse pronunciata senza la partecipazione di taluno di essi. Nel secondo caso, invece, l’equiparazione appare erronea, poiché la comunanza di causa che è alla base dell’intervento per ordine del giudice corrisponde ad ipotesi di connessione molto eterogenee, che non possono dar luogo, indiscriminatamente, ad un cumulo inscindibile. Inoltre, in alcuni casi, il concetto di litisconsorzio necessario processuale viene riferito alle medesime fattispecie per le quali la dottrina parla di litisconsorzio unitario e pertanto è utilizzato per escludere la separazione delle cause ogniqualvolta il relativo cumulo sia caratterizzato da una connessione particolarmente intensa, in particolare per dipendenza reciproca o alternativa. 115. Le interferenze tra le attività processuali dei singoli litisconsorzi Altro problema del processo litisconsortile è quello di stabilire quale influenza e quali conseguenze possa avere l’attività processuale di taluno dei litisconsorti rispetto agli altri. Tale problema va affrontato diversamente a seconda che si tratti di litisconsorzio necessario o unitario, oppure in ipotesi di cumulo inscindibile. Nel primo caso, trattandosi di una causa sostanzialmente unica che dev’essere decisa in modo uniforme rispetto alle parti, è inevitabile che gli effetti dell’attività del singolo litisconsorte si comunichino – quanto meno se favorevoli – agli altri. Nel secondo caso, invece, alla pluralità di parti corrisponde una pluralità di cause, tra loro variamente connesse, le quali nonostante la formale unicità del processo, restano distinte e provviste di una sostanziale autonomia; pertanto ance gli effetti dell’attività compiuta dal singolo litisconsorte dovrebbero prodursi esclusivamente rispetto alla causa di cui egli è parte. In concreto, tuttavia, le interferenze reciproche sono inevitabili, dato il cumulo presuppone pur sempre un’istruttoria unitaria ed un accertamento dei fatti tendenzialmente omogeneo rispetto a tutte le cause. Capitolo X - Le modificazioni riguardanti le parti Sezione I - l’estromissione 116. L'estromissione di una parte del processo L’estromissione consiste in una serie di vicende processuali, piuttosto eterogenee tra loro, caratterizzate dal comune effetto di far uscire una parte dal processo, che continua tra le altre parti. Nel codice manca una disciplina generale dell’estromissione, cui fanno invece riferimento alcune disposizioni specifiche : Pagina di 66 95 - L’art.108, che prevede la possibilità di estromettere, con ordinanza, il garantito, allorché il garante intervenuto o chiamato nel processo, accetti di assumere la causa in suo luogo e le altre parti non si oppongano; - L’art.109 si riferisce all’ipotesi in cui nel processo si discuta su quale sia il reale titolare del diritto controverso; in tal caso, se l’obbligato si dichiara pronto ad eseguire la prestazione a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e conseguentemente estromettere l’obbligato; - L’art.111, 3°comma, che, qualora il successore a titolo particolare intervenga o sia chiamato nel processo, consente l’estromissione della parte originaria, sempre che le altre parti vi acconsentano. Deve ritenersi che in tutti questi casi, la sentenza pronunciata dopo l’estromissione spieghi i propri effetti anche nei confronti della parte estromessa. Al di fuori di tali ipotesi, si può certamente parlare di estromissione ogniqualvolta un giudizio con una pluralità di parti venga definito, con sentenza, nei confronti di una soltanto di esse : ad es. perché il giudice ha ritenuto inammissibile l’intervento spiegato da un terzo, oppure, ha deciso alcuna soltanto delle cause fino a quel momento riunite, disponendo la separazione e la prosecuzione delle altre. Anche in questi casi si ha, dunque, una scissione del cumulo soggettivo, che determina l’uscita di una delle parti originarie; la quale, tuttavia, resta ora estranea anche agli effetti della sentenza che verrà pronunciata dopo la sua estromissione. Art. 108. (Estromissione del garantito). Se il garante comparisce e accetta di assumere la causa in luogo del garantito, questi puo' chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione. Questa e' disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l'estromesso. Art. 109. (Estromissione dell'obbligato). Se si contende a quale di piu' parti spetta una prestazione e l'obbligato si dichiara pronto a eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice puo' ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito, puo' estromettere l'obbligato dal processo. Art. 111. (Successione a titolo particolare nel diritto controverso). Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie. Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo e' proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare puo' intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale puo' esserne estromesso. La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed e' impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Sezione II - la successione nel processo 117. La successione universale Art. 110. (Successione nel processo). Quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo e' proseguito dal successore universale o in suo confronto. L’art.110 stabilisce che “quando la parte venga meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto”. I presupposti applicativi della norma sono, pertanto: - l’estinzione della parte, avvenuta nel corso del processo; - il verificarsi di un fenomeno di successione universale, coinvolgente cioè tutti i rapporti giuridici, sostanziali e processuali; chi subentra alla parte originaria acquisisce, dunque, la legittimazione ad agire o a contraddire, in sua vece, nei giudizi già pendenti. In caso di morte della parte-persona fisica, il processo sarà proseguito nei confronti degli eredi; mentre il venir meno “per altra causa” si riferisce anche alle ipotesi di estinzione degli enti. A tal riguardo, tuttavia, v’è da osservare che spesso le modificazioni riguardanti un ente fuoriescono dallo schema dell’art.110, poiché, a seconda dei casi, si traducono nel trasferimento di alcuni rapporti soltanto (deve quindi escludersi il carattere universale della successioni), oppure non implicano la immediata estinzione dell’ente Pagina di 67 95 In ogni caso, si ritiene che l’intervento del successore non possa comunque implicare una regressione del processo e che, conseguentemente, egli debba accettare la causa nello stadio in cui ormai si trova, subendo anche le preclusioni eventualmente già maturate a carico delle parti originarie. Capitolo XI - gli atti processuali Sezione I - la forma degli atti in generale 120. Forma, contenuto E volontà nell'atto processuale. Cenni sul c.d. Processo telematico Il processo può essere definito come una sequela di atti tra loro in varia misura correlati e preordinati a provocare e rendere possibile la pronuncia di un provvedimento giurisdizionale – che potrebbe dirsi finale – cui sono, dunque, strumentali. Ciò implica che gli atti del processo sono normalmente privi di una propria autonomia funzionale; sebbene può succedere che all’interno del processo “principale” s’innestino dei sub-procedimenti, in qualche misura distinguibili dal processo principale e talora del tutto svincolati dalle sorti di questo. La nozione di atto processuale può dunque abbracciare tutti gli atti che si inseriscono in tale sequela procedimentale, determinando comunque effetti nel processo, che per lo più consisteranno nella nascita (o nella modificazione o estinzione) di poteri, oneri o doveri aventi ad oggetto il compimento di altri atti processuali : ad es., dalla notificazione dell’atto di citazione discende l’onere di costituzione sia per l’attore che per il convenuto, nonché lo stesso dovere del giudice di decidere. Per tutti gli atti del processo il legislatore detta regole piuttosto puntuali quanto ai requisiti di forma e di contenuto, delineando, in tal modo, veri e propri modelli tipici. Si sottolinea che rispetto agli atti processuali non assume particolare rilievo la nozione di “forma” in senso stretto, intesa come modalità di estrinsecazione dell’atto, per la semplice ragione che essi, nei casi in cui possono essere compiuti in forma orale, devono essere solitamente trasfusi in un processo verbale. Oggi, peraltro, la disciplina del processo telematico prevede la possibilità di porre in essere gli atti del processo come documenti informatici; sicché la forma scritta tradizionale è destinata ad essere in larga parte sostituita, nell’immediato futuro, da quella del documento informatico, regolata dagli artt.20 ss. del d.lgs. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale); tanto più che l’art.16-bis del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012, prevede che nei procedimenti civili dinanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche. Generalmente, comunque, il concetto di forma viene utilizzato per gli atti processuali con riferimento ai relativi elementi contenutistici (la c.d. forma-contenuto); e secondo un’accezione ancora più ampia, la forma investirebbe anche le prescrizioni di natura temporale riguardanti il compimento degli atti processuali. Col risultato di poter ricollegare alla violazione di quelle prescrizioni i principi propri della materia delle invalidità formali. Infine, è opinione diffusa, che proprio la puntuale regolamentazione formale degli atti processuali escluda ogni possibili rilevanza dei vizi di volontà, sia che si riferiscano al processo formativo della volontà medesima, sia che attengano alla fase della sua attuazione; a patto che, ovviamente, non manchi addirittura la volontarietà nel compimento dell’atto. 121. Le regole generali concernenti la forma degli atti Art. 121. (Liberta' di forme). Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma piu' idonea al raggiungimento del loro scopo. Art. 125. (Contenuto e sottoscrizione degli atti di parte). Salvo che la legge disponga altrimenti, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto debbono indicare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o l'istanza, e, tanto nell'originale quanto nelle copie da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore che indica il proprio codice fiscale. ((Il difensore deve altresi' indicare il proprio numero di fax)). La procura al difensore dell'attore puo' essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell'atto, purche' anteriormente alla costituzione della parte rappresentata. La disposizione del comma precedente non si applica quando la legge richiede che la citazione sia sottoscritta da difensore munito di mandato speciale. Pagina di 70 95 Art. 126. (Contenuto del processo verbale). Il processo verbale deve contenere l'indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti; deve inoltre contenere la descrizione delle attivita' svolte e delle rilevazioni fatte, nonche' le dichiarazioni ricevute. ((Il processo verbale e' sottoscritto dal cancelliere. Se vi sono altri intervenuti, il cancelliere, quando la legge non dispone altrimenti, da' loro lettura del processo verbale.)) Gli artt.121 ss. dettano alcune disposizioni generali in materia di atti processuali, tanto in relazione alla forma in senso stretto quanto con riguardo alla forma contenuto. Il principio fondamentale è quello della libertà di forme, per cui, salvi i casi in cui la legge richieda forme determinate, gli atti processuali possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, da intendersi, quest’ultimo, come la funzione oggettiva che l’atto stesso assolve nel processo. Dunque, dato che la scelta è vincolata e limitata dallo scopo dell’atto, è senz’altro preferibile parlare di strumentalità delle forme, piuttosto che di libertà. In concreto, però, le forme di ciascun atto processuale sono, per lo più, disciplinate in modo piuttosto rigido ed analitico dal legislatore. A tal riguardo, un particolare rilievo compete all’art.125, 1°comma, che detta la disciplina generale del contenuto minimo degli atti di parte, stabilendo che, salva diversa previsione normativa, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso ed il precetto, devono indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda, le conclusioni o l’istanza rivolta al giudice, ed inoltre devono recare, sia nell’originale che nelle copie da notificare, la sottoscrizione autografa della parte o del suo difensore- procuratore (il quale ultimo deve indicare il proprio numero di fax). L’art.126, invece, regola in termini generali il contenuto del processo verbale nel quale vengono documentate, ove prescritto, le attività e le operazioni compiute dagli organi giudiziari o comunque alla loro presenza. Tale verbale deve contenere “l’indicazione delle persone intervenute e delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti”, “la descrizione delle attività svolte e delle rilevazioni fatte”, ed infine, “le dichiarazioni ricevute”. La sua sottoscrizione, invece, compete esclusivamente al cancelliere, il quale, se all’attività documentata nel verbale hanno partecipato altri soggetti, deve di regola dar loro lettura del verbale stesso. Una disciplina specifica, infine, è riservata dal legislatore alle udienze, ossia ai momenti del processo deputati alla trattazione della causa, nel contradditorio tra le parti, ad opera del giudice; il quale, in realtà, nelle singole udienze esamina solitamente una pluralità di cause. Il codice prevede che il processo si snodi necessariamente fra un’udienza e l’altra, cominciando da quella che l’attore deve indicare nell’atto introduttivo del giudizio e proseguendo, con quelle che il giudice è tenuto di volta in volta a fissare. Per quel che concerne lo svolgimento delle udienze, il legislatore assicura la pubblicità (salvo che sia necessario il processo a porte chiuse), a pena di nullità, della sola udienza di discussione della causa; la cui fissazione, peraltro, dopo il 1990 è divenuta del tutto eccezionale. Le altre udienze, invece, non sono pubbliche, e per ciascuna causa dovrebbero essere ammessi esclusivamente i difensore e le parti stesse; le quali ultime possono intervenire solo se autorizzate dal giudice. Per ogni udienza è prescritta, ad opera del cancelliere, la redazione di un apposito verbale, sotto la direzione del giudice che poi lo sottoscrive unitamente allo stesso cancelliere. In tale verbale, le parti e i difensori, possono dettare direttamente le proprie deduzioni solo dietro autorizzazione del giudice. 122. La trasmissione degli atti processuali a mezzo telefax Il principio per cui tutti gli atti processuali devono recare la sottoscrizione autografa della parte e del difensore da cui provengono, trova parziale deroga dalla l.183/1993, che consente, a determinate condizioni, di utilizzare in luogo dell’originale, copie foto riprodotte di atti trasmessi a distanza a mezzo telefax, da un avvocato ad un altro. Perché la copia trasmessa si consideri conforme ed equivalente all’originale è tuttavia necessario : 1. che la procura sia stata conferita tanto all’avvocato che ha trasmesso l’atto, quanto a quello che lo riceve; 2. che sia sull’originale che sulla copia siano presenti l’indicazione e la sottoscrizione leggibile dell’avvocato “estensore”; 3. che l’originale sia stato dichiarato conforme all’atto trasmesso dall’avvocato che l’ha redatto e trasmesso; 4. che la copia sia sottoscritta dall’avvocato ricevente. Pagina di 71 95 Se poi l’atto contiene la procura ad litem, è richiesto che dalla copia risultino l’apposizione della procura medesima sull’originale nonché le sottoscrizioni leggibili tanto della parte che l’ha conferita quanto del difensore che ha certificato l’autografia della firma della parte. La medesima legge consente, infine, la trasmissione a distanza di un provvedimento del giudice, dello stesso o di altro processo, la cui copia così ottenuta si considera conforme all’atto trasmesso allorché ricorrano le relative condizioni [(3)-(4)]. Sezione II - I termini 123. I termini processuali e le preclusioni Art. 152. (Termini legali e termini giudiziari). I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente. I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori. La preclusione riguarda esclusivamente l’attività delle parti ed indica la perdita di un potere processuale derivante da svariate possibili cause : ad es. dall’aver precedentemente compiuto un’atra attività incompatibile con la conservazione del potere in questione; oppure dalla scadenza del termine entro cui il potere poteva essere esercitato. In questi casi, dunque, alla parte è precluso il compimento dell’attività oggetto del potere estintosi, pena l’invalidità degli atti posti in essere in violazione della preclusione. I termini, invece, possono riguardare indifferentemente sia l’attività delle parti sia quella dell’ufficio e possono determinare, una volta scaduti, la decadenza del potere di compiere certe attività processuali o conseguenze diverse. Nell’ambito dei termini processuali si distinguono : - I termini legali, previsti direttamente dalla legge, dai termini giudiziali, stabiliti dal giudice nei casi in cui la legge glielo consente; - I termini acceleratorii, che mirano a far si che una determinata attività venga compiuta entro un certo momento, dai termini dilatori, che assicurano che un’attività processuale venga posta in essere non prima di un dato momento. Mentre la violazione di un termine dilatorio rende invalido l’atto intempestivo, l’inosservanza di un termine acceleratori non produce sempre le stesse conseguenze. Infatti bisogna tener presente l’ulteriore distinzione fra : termini perentori e termini ordinatori; distinzione fondata sul fatto che solo il termine perentorio è stabilito a pena di nullità. In realtà dottrina e giurisprudenza appaiono divise circa la concreta portata di tale distinzione; infatti, parrebbe che l’unica differenza fra le due categorie risieda nella prorogabilità o no del termine : mentre i termini perentori non possono in alcun caso essere abbreviati o prorogati (a meno che la legge non preveda specifiche ipotesi di rimessione in termini), per i termini ordinatori è consentita al giudice l’abbreviazione o la proroga, finanche d’ufficio, purché prima della scadenza; proroga, tuttavia, che non può eccedere il termine originario ed è ammessa una sola volta, salvo per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato. In base ad un primo orientamento, pertanto, la scadenza del termine ordinatorio, di cui non sia stata chiesta o sia già scaduta la proroga, produrrebbe conseguenza analoghe a quelle del termine perentorio, ossia il venir meno del potere di compiere l’atto. L’opinione più diffusa, invece, esclude tale assimilazione e ritiene che la scadenza del termine ordinatorio non possa mai determinare, di per sé, alcuna decadenza. E a favore di tale soluzione vi è la circostanza che le norme in materia non distinguono fra termini asseganti alle parti e termini riguardanti attività dell’ufficio, per i quali ultimi è pacifico che lo spirare del termine non passa mai determinare l’estinzione del potere-dovere di compiere l’atto, né possa incidere sulla validità dell’atto intervenuto tardivamente. Quel che è certo è che, di regola, i termini sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori (art.152, 2°comma). È pertanto possibile desumere il principio secondo cui le decadenze e le preclusioni sono tipiche, potendosi ammettere solo nei casi in cui il legislatore le abbia esplicitamente comminate. In una più ampia prospettiva, dunque, si può ritenere che il processo civile sia ispirato al principio di liberà piuttosto che a quello di preclusione, nel senso che in esso devono ritenersi illimitatamente consentite alle parti tutte le attività che non siano espressamente circoscritte nel tempo. Pagina di 72 95 128. La sentenza Art. 132. (Contenuto della sentenza). La sentenza e' pronunciata in nome del Re d'Italia e d'Albania Imperatore d'Etiopia. Essa deve contenere: 1) l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata; 2) l'indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; ((4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione)); 5) il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice. La sentenza emessa dal giudice collegiale e' sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice estensore. Se il presidente non puo' sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente piu' anziano del collegio, purche' prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento; se lo estensore non puo' sottoscrivere la sentenza per morte o altro impedimento e' sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purche' prima della sottoscrizione sia menzionato l'impedimento. La sentenza è il provvedimento – c.d. decisorio – normalmente prescritto dal legislatore ogniqualvolta si debba decidere sulla domanda, e dunque sull’esistenza o inesistenza del diritto o status dedotto in giudizio, oppure su una qualunque questione, attinente al merito della causa o al processo, dalla quale potrebbe derivare la definizione del processo medesimo. In relazione all’oggetto, pertanto, si distingue tra sentenze di merito e sentenze processuali. La sentenza di merito è soltanto quella che pronuncia sulla fondatezza della domanda, accogliendola o rigettandola; mentre la sentenza processuale verte esclusivamente su questioni attinenti al processo. La distinzione è tutt’altro che pacifica, poiché lascia impregiudicata la classificazione delle sentenze che, pur avendo ad oggetto questioni concernenti la fondatezza della domanda, non decidono su quest’ultima : ad es. la sentenza con cui il giudice, in un giudizio avente ad oggetto l’adempimento di un credito di origine contrattuale, si limiti a respingere l’eccezioni di prescrizione o di inadempimento sollevata dal convenuto, disponendo la prosecuzione dell’istruttoria della causa. In tal caso si può senz’altro parlare di sentenza sul merito, ma non è certo che la sua efficacia sia pari a quella della sentenza di merito. Altra distinzione, questa volta relativa al diverso regime d’impugnazione, è quella tra sentenze definitive e sentenze non definitive; distinzione che si basa essenzialmente sulla circostanza che la sentenza, concluda o meno il processo, quanto meno dinanzi al giudice adito. Ad es. è definitiva la sentenza con cui il giudice accoglie o rigetta l’unica domanda oggetto del giudizio; non definitiva è, invece, la sentenza che accogli o rigetta solo le domande cumulate nel processo. In ogni caso, la peculiarità della sentenza sta anzitutto nel suo regime di stabilità : una volta pronunciata, essa vincola immediatamente anche lo stesso giudice da cui promana (che non può ritrattarla) e può essere “riformata” o annullata solo attraverso i rimedi espressamente contemplati dalla legge, ossia le impugnazioni, per lo più consentite entro precisi termini temporali. Inoltre, se si tratta di una sentenza di merito, una volta passata in giudicato, essa acquisterà quella peculiare autorità tale per cui essa farà stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. La sentenza è il provvedimento più complesso dal punto di vista della forma-contenuto; l’art.132 esige, infatti, che essa contenga : 1. L’indicazione del giudice che l’ha pronunciata; 2. L’indicazione delle parti e dei rispettivi difensori; 3. Le conclusioni del pubblico ministero e delle parti, che dovrebbero servire a valutare se il giudice abbia avuto presenti le effettive richieste delle parti, anche in relazione al rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato; 4. La concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; in ciò consiste la motivazione (art. 111, 6°comma), che consente, anche in vista dell’eventuale impugnazione, di ricostruire e sindacare l’iter logico attraverso il quale il giudice è pervenuto a determinate conclusioni. L’art. 118 disp. att., a riguardo, prevede che siano esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati, consentendo che la dottrina venga menzionata solo per orientamenti, senza specifici riferimenti normativi; 5. Il dispositivo, cioè la situazione concreta che costituisce la parte normativa della sentenza; la data della decisione, coincidente con quella in cui essa è stata deliberata in segreto nella camera di consiglio; ed infine la sottoscrizione del giudice. Per quel che riguarda quest’ultimo elemento, bisogna sottolineare che, mentre originariamente, per la sentenza resa da un organo collegiale, era richiesta la firma di tutti i componenti del collegio, una riforma del 1977 ha Pagina di 75 95 previsto che siano sufficienti le firme del presidente e dell’estensore (magistrato incaricato della redazione della motivazione). Indipendentemente dalla data della deliberazione, la sentenza acquista rilevanza giuridica solo dal giorno dopo della sua pubblicazione; consistente in un’attività combinata del giudice, che ne deposita l’originale in cancelleria, e del cancelliere, che deve dare atto di tale avvenuto deposito in calce alla sentenza, apponendovi data e firma, e deve poi informare le parti costituite, entro cinque giorni, mediante un biglietto di cancelleria contenente il testo integrale del provvedimento. La pubblicazione è, dunque, l’elemento formale che consente di ricollegare la decisione all’ufficio giudiziario e che, nel contempo, segna il momento in cui la sentenza viene giuridicamente in vita e diventa immodificabile. Prima di tale momento, invece, essa rileva come mero atto interno, tant’è che si ritiene che, in caso di ius superveniens anteriore alla pubblicazione, il giudice abbia il potere-dovere di tornare a deliberare, per adeguare la decisione alla nuova norma applicabile alla fattispecie. Questa è la disciplina ordinaria, ma non mancano disposizioni diretta a semplificare la pronuncia della sentenza e, conseguentemente, anche i suoi requisiti formali. In particolare, l’art.281-sexies prevede che il giudice possa pronunciare sentenza già al termine della discussione orale della causa, dando lettura in udienza tanto del dispositivo quanto della motivazione; in tal caso la sentenza viene inserita nel verbale, intendendosi pubblicata con la semplice sottoscrizione di tale verbale, senza che siano necessari tutti gli altri elementi normalmente prescritti dall’art.132. 129. L'ordinanza e il decreto: il regime formale Art. 164. (Nullita' della citazione). La citazione e' nulla se e' omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1) e 2) dell'articolo 163, se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione, se e' stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca l'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163. Se il convenuto non si costituisce in giudizio, il giudice, rilevata la nullita' della citazione ai sensi del primo comma, ne dispone d'ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio. Questa sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione. Se la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'articolo 307, comma terzo. La costituzione del conventuo sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali di cui al secondo comma; tuttavia, se il convenuto deduce l'inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini. La citazione e' altresi' nulla se e' omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero 3) dell'articolo 163 ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso articolo. Il giudice, rilevata la nullita' ai sensi del comma precedente, fissa all'attore un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si e' costituito, per integrare la domanda. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione. Nel caso di integrazione della domanda, il giudice fissa l'udienza ai sensi dell'((secondo)) comma dell'articolo 183 e si applica l'articolo 167. Art. 135. (Forma e contenuto del decreto). Il decreto e' pronunciato d'ufficio o su istanza anche verbale della parte. Se e' pronunciato su ricorso, e' scritto in calce al medesimo. Quando l'istanza e' proposta verbalmente, se ne redige processo verbale e il decreto e' inserito nello stesso. Il decreto non e' motivato, salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge; e' datato ed e' sottoscritto dal giudice o, quando questo e' collegiale, dal presidente. L’ordinanza ed il decreto possono avere oggetto e natura assai vari, cui corrisponde un regime di stabilità niente affatto univoco e comunque ben diverso da quello proprio della sentenza. Per quanto riguarda il contenuto dell’ordinanza, dall’art.164 si desume che essa : 1. Dev’essere “succintamente” motivata; 2. Se viene pronunciata in udienza, è senz’altro inserita nel relativo processo verbale; 3. Quando sia resa, invece, fuori dall’udienza, può essere comunque scritta in calce al verbale dell’udienza, oppure su un foglio separato, che dovrà allora indicare, oltre che la data del provvedimento, anche gli ulteriori elementi (ufficio giudiziario, numero di ruolo del procedimento e/o nomi delle parti) indispensabili Pagina di 76 95 per l’individuazione della causa. In entrambi i casi è prescritto che il cancelliere ne dia comunicazione alle parti, quando non sia richiesta la notificazione del provvedimento nella sua interezza; 4. Dev’essere sottoscritta, allorché provenga da un giudice collegiale, dal solo presidente. Quanto al regime, la regola è rappresentata dalla revocabilità e modificabilità, ad opera dello stesso giudice che l’ha pronunciata, sebbene siano previste numerose ed importanti eccezioni. Per quanto attiene, invece, ai presupposti ed ai requisiti formali del decreto, l’art.135 prevede che : 1. Può pronunciarsi, di regola, tanto d’ufficio, quanto su istanza (anche verbale) di parte; 2. Può, a seconda dei casi, stendersi in calce al ricorso della parte oppure, quando l’istanza sia stata proposta oralmente, inserirsi nel medesimo verbale in cui è stata raccolta tale istanza; 3. Non necessita di alcuna motivazione, salvo nei casi in cui la legge espressamente la richieda; 4. Dev’essere munito di data e sottoscritto, quando è reso da un giudice collegiale, dal solo presidente. Non sono previste regole generali per il regime di stabilità del decreto, ma in alcuni casi è prevista espressamente la revocabilità e modificabilità del provvedimento. Inoltre, mentre per la sentenza il legislatore predispone un complesso articolato di impugnazioni, nei confronti dell’ordinanza e del decreto, indipendentemente dall’eventuale revoca o modifica, non sono normalmente previsti rimedi di analoga natura, pur non mancando ipotesi di provvedimenti assoggettati ad un’impugnazione di carattere generale (di solito un “reclamo”), che ha forti analogie con l’appello previsto per le sentenza. L’ordinanza che pronuncia sulla sola competenza, inoltre, salvo che non promani dal giudice, è impugnabile col regolamento di competenza. 130. Il contenuto e la funzione Quanto al contenuto e alla funzione delle ordinanze dei decreti, essi sono assai vari e manca una disposizione di carattere generale. L’unica differenza tra i due provvedimenti, quanto ai presupposti, è rappresentata dalla circostanza che l’ordinanza viene solitamente impiegata per provvedimenti resi nel contraddittorio tra le parti, mentre il decreto è per lo più utilizzato per quelli pronunciati inaudita altera parte, o comunque su questioni su cui non è previsto che le parti siano sentite. Sono previste, tuttavia, delle eccezioni, ad es., le decisioni in camera di consiglio sono normalmente rese con decreto, anche quando il procedimento camerale ha struttura bilaterale e presuppone, dunque, l’instaurazione del contraddittorio. La forma del decreto, in particolare, è talora prevista per provvedimenti aventi una funzione sostanzialmente organizzativa dell’ufficio giudiziario : si pensi, ad es., alla fissazione da parte del presidente del tribunale, del calendario delle udienze riservate alla prima comparizione delle parti; oppure alla designazione della sezione e del giudice incaricato dell’istruzione della causa o alla sostituzione di quest’ultimo. Nella maggior parte dei casi, invece, tanto l’ordinanza quanto il decreto hanno ad oggetto la direzione, lato sensu, del processo. Si pensi alla fissazione delle varie udienze; all’assegnazione di termini nei molti casi previsti dalla legge, nonché alla proroga o all’abbreviazione degli stessi e all’eventuale rimessione in termini, ove consentita; alla regolarizzazione, quando sia possibile, degli atti invalidi o irregolari; al rilascio di autorizzazioni derogatorie di prescrizioni e termini ordinari. Molte, peraltro, sono le ipotesi in cui il legislatore, talora implicitamente, prescrive la forma dell’ordinanza o del decreto vuoi per risolvere questioni controverse tra le parti, che pure possono avere un cospicuo rilievo per la decisione del merito della causa, vuoi addirittura per la pronuncia di veri e propri provvedimenti decisori, sia interni al processo sia idonei a definire il giudizio. V’è da precisare che il codice del 1940 ha ampliato considerevolmente il novero delle questioni controverse da risolvere con ordinanza, riducendo corrispondentemente il numero delle ipotesi in cui è prescritta la pronuncia con sentenza. Il caso più importante è senz’altro quello delle questioni concernenti l’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova, per le quali è oggi prevista la decisione con ordinanza revocabile e modificabile. In tal modo, in primo luogo si sottrae il provvedimento all’impugnazione autonoma ed immediata; in secondo luogo si incentiva una certa superficialità del giudice nella risoluzione di tali questioni, per lo più nel senso di una certa “larghezza” nell’ammissione delle prove, grazie alla circostanza che il giudice stesso può sempre ripensarci nel prosieguo del giudizio e dunque non utilizzare, alla fine, le prove che aveva in un primo momento ritenuto ammissibili e rilevanti. Vi sono, inoltre, non poche ipotesi di provvedimenti decisori su diritti per cui è prevista la forma del decreto o dell’ordinanza, anziché quella della sentenza : vuoi perché il legislatore ha voluto semplicemente escludere ogni possibilità di impugnazione; vuoi perché si tratta di provvedimenti sommari (solitamente ordinanze), per i quali si Pagina di 77 95 e peraltro – pur se controverso – anche in relazione all’eventuale prescrizione che fosse teoricamente maturata prima del verificarsi della rinnovazione o comunque della sanatoria. Si ritiene, tuttavia, che tale disciplina non sia utilizzabile allorché la notificazione debba considerarsi non semplicemente nulla, bensì inesistente, per non essersi concluso il relativo procedimento oppure per essere stata la notifica eseguita presso una persona ed un luogo che non hanno alcun riferimento con il destinatario. 134. Il momento in cui si perfeziona la notifica Art. 149. (Notificazione a mezzo del servizio postale). Se non ne e' fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione puo' eseguirsi anche a mezzo del servizio postale. In tal caso l'ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull'originale e sulla copia dell'atto, facendovi menzione dell'ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Quest'ultimo e' allegato all'originale. ((La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell'atto)). In passato si riteneva che il completarsi della notifica condizionasse il prodursi di ogni effetto della stessa, simultaneamente nei confronti del destinatario e della parte istante. Nel contempo era pacifico che il rischio di eventuali ritardi o disguidi nell’esecuzione della notifica, ancorché non imputabili al richiedente, gravasse esclusivamente su quest’ultimo, il quale, pertanto, in mancanza della rimessione in termini, poteva risultare seriamente pregiudicato da omissioni od errori non suoi, soprattutto quando per il compimento della notifica fosse previsto un termine perentorio. Questo inconveniente fu superato grazie ad alcune importanti pronunce della Corte costituzionale; in particolare la svolta si ebbe in relazione alla notificazione a mezzo posto, la quale in linea di principio, stando all’originario art.149, produceva i suoi effetti solamente dal giorno in cui l’atto veniva effettivamente recapitato al destinatario. In tale occasione, infatti, la Corte, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art.149, sancì il rivoluzionario principio secondo cui la notifica deve intendersi eseguita, per il notificante, fin dalla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, indipendentemente dal momento in cui quest’ultimo lo spedisce. Poco tempo dopo la Consulta fu nuovamente investita della questione, con riferimento alle notifiche internamente e direttamente eseguire dallo stesso ufficiale giudiziario; e questa volta optò per una decisione interpretativa di rigetto, in cui sostenne che il medesimo principio affermato per le notifiche a mezzo posta doveva valere per tutte le forme di notificazioni disciplinate dagli artt.138 ss. del codice. È dunque pacifico che ogniqualvolta per l’esecuzione della notifica siano previsti termini perentori a carico del notificante, la tempestività della stessa debba valutarsi con riguardo al giorno in cui l’atto è stato consegnato all’ufficiale giudiziario. Ciò, tuttavia, non significa che la notifica si perfeziona definitivamente e ad ogni effetto, nei confronti del notificante, con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, in quanto si tratta di una mera anticipazione degli effetti della notifica, subordinata alla circostanza che il procedimento, poi, arrivi realmente a compimento. Inoltre, tale anticipazione serve unicamente ad evitare che il ritardo nell’esecuzione della notifica faccia incorrere la parte richiedente in una scadenza. Ad ogni altro fine, invece, la notificazione produrrà effetti – simultaneamente per il notificante e per il destinatario – dal giorno in cui il procedimento notificatorio deve considerarsi concluso; sicché, se dalla notifica comincia a decorrere un termine per lo stesso notificante, tale termine andrà computato non dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, bensì dalla data di effettiva esecuzione della notifica. Gli effetti della notifica rispetto al destinatario, invece, continueranno a prodursi solo quando il relativo procedimento di notificazione possa dirsi completato . 135. La notificazione in mani proprie o presso il domiciliatario, E quella presso la residenza, La dimora O il domicilio del destinatario Art. 138. (Notificazione in mani proprie). L'ufficiale giudiziario ((esegue la notificazione di regola mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se cio' non e' possibile,)) ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale e' addetto. Se il destinatario rifiuta di ricevere la copia, l'ufficiale giudiziario ne da' atto nella relazione, e la notificazione si considera fatta in mani proprie. Pagina di 80 95 Art. 139. (Notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio). Se non avviene nel modo previsto nell'articolo precedente, la notificazione deve essere fatta nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio o esercita l'industria o il commercio. Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, allo ufficio o all'azienda, purche' non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza delle persone indicate nel comma precedente, la copia e' consegnata al portiere dello stabile dove e' l'abitazione, l'ufficio o l'azienda, e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere ((una ricevuta)), e l'ufficiale giudiziario da' notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto, a mezzo di lettera raccomandata. Se il destinatario vive abitualmente a bordo di una nave mercantile, l'atto puo' essere consegnato al capitano o a chi ne fa le veci. Quando non e' noto il comune di residenza, la notificazione si fa nel comune di dimora, e, se anche questa e' ignota, nel comune di domicilio, osservate in quanto o' possibile le disposizioni precedenti. Art. 140. (Irreperibilita' o rifiuto di ricevere la copia). Se non e' possibile eseguire la consegna per irreperibilita' o per incapacita' o rifiuto delle persone indicate nell'articolo precedente, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, e gliene da' notizia per raccomandata con avviso di ricevimento. L’art.138 prevede che l’ufficiale giudiziario debba, di regola, eseguire la notifica “mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se ciò non è possibile, ovunque lo trovi nell’ambito della circoscrizione dell’ufficio giudiziario al quale è addetto”. Inoltre, sebbene non si possa costringere il destinatario a ricevere l’atto, è stabilito che il suo eventuale rifiuto, documentato nella relazione dell’ufficiale giudiziario, equivale a notificazione regolarmente eseguita in mani proprie. Altra forma di notificazione generalmente consentita, salvo espresso divieto normativo, è quella presso il domiciliatario (art.141). Allorché il destinatario abbia eletto domicilio presso una persona o un ufficio, la notifica può effettuarsi presso tale luogo, vuoi attraverso consegna diretta nelle mani della persona o del capo dell’ufficio, vuoi nelle mani di uno dei soggetti indicati dall’art.139. Di solito la notificazione presso il domiciliatario rappresenta una mera facoltà per il notificante, salvo che, trattandosi di elezione di domicilio inserita in un contratto, sia il contratto stesso a prescriverla. Vi sono, poi, diverse disposizioni in cui la notificazione presso il domicilio eletto è prevista come obbligatoria, evidentemente a tutela dell’interesse del destinatario. Non di rado, inoltre, l’elezione del domicilio, nell’ambito del processo, rappresenta un vero e proprio onere, dalla cui inosservanza consegue una sorta di domiciliazione ex lege, ossia la possibilità di effettuare la notificazione presso la cancelleria del giudice adito. A parte il caso in cui la notificazione possa eseguirsi presso il domiciliatario, il destinatario dell’atto dev’essere di regola ricercato nel comune in cui egli ha la residenza, indifferentemente presso la sua abitazione o presso il diverso luogo in cui abbia l’ufficio o eserciti l’industria o il commercio. Solo quando sia sconosciuto il comune di residenza, la notificazione si fa nel comune di dimora e, se anche questo è ignoto, nel comune di domicilio. Tra i possibili consegnatari, l’ufficiale giudiziario deve preferire una persona di famiglia, oppure se estranea, addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, che non sia minore di quattordici anni o palesemente incapace, o in palese conflitto d’interessi col destinatario. Se poi non vi è nessuna di queste persone, o se le stesse rifiutano l’atto, la copia dev’essere consegnata al portiere dello stabile e, in subordine, ad un vicino di casa che accetti di riceverla. In questi ultimi casi il legislatore prescrive la sottoscrizione di una ricevuta e l’invio al destinatario di una lettera raccomandata in cui gli si da notizia dell’avvenuta notificazione. Ipotesi particolari sono poi contemplate per il caso in cui il destinatario viva stabilmente su una nave mercantile o sia un militare in attività di servizio; nel primo caso la notifica può avvenire anche tramite consegna dell’atto al capitano della nave; nel secondo caso, se la notifica non avviene in mani proprie del destinatario, è prescritto, come formalità essenziale, che la consegna della copia sia seguita dalla consegna di una seconda copia al pubblico ministero, che dovrà farla pervenire al comandante del corpo al quale il militare appartiene. Pagina di 81 95 Prescindendo da tali ipotesi, quando non sia possibile provvedere alla notifica con le modalità stabilite dall’art. 139, perché l’ufficiale giudiziario non trova alcun possibile consegnatario, l’art.140 prevede che la notifica si esegua attraverso una triplice formalità : 1. deposito della copia nella casa comunale; 2. affissione di un avviso di deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda; 3. spedizione al destinatario di una raccomandata con avviso di ricevimento, al fine di informarlo dell’avvenuto deposito. La Corte costituzionale, al riguardo, è intervenuta sull’art.140 stabilendo che questa forma di notifica si perfezione, per il destinatario, dal momento della ricezione della suddetta raccomandata informativa, o comunque quando siano decorso dieci giorni dalla sua spedizione. 136. La notificazione all’estero Art. 142. (Notificazione a persona non residente, ne' dimorante, ne' domiciliata nel Regno). ((Salvo quanto disposto nel secondo comma, se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell'articolo 77, l'atto e' notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al pubblico ministero che ne cura la trasmissione al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale e' diretta.)) Le disposizioni di cui ((al primo comma)) si applicano soltanto nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle Convenzioni internazionali e dagli articoli 30 e 75 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200. L’art.142 prevede che al destinatario non avente residenza, né domicilio o dimora nel territorio della Repubblica, che non vi abbia costituito un procuratore autorizzato a stare in giudizio, la notificazione possa effettuarsi attraverso una duplice formalità : la spedizione di un copia dell’atto al destinatario a mezzo posta con raccomandata, e la consegna di una seconda copia al pubblico ministero, affinché questi ne curi la trasmissione al Ministro degli esteri per il recapito al destinatario. Una volta compiute tali formalità, la notifica si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo, indipendentemente dalla prova della ricezione dell’atto da parte dell’interessato. Tale disciplina, tuttavia, trova applicazione solo nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dagli artt. 30 e 75 della c.d. legge consolare. La procedura descritta, pertanto, ha assunto carattere meramente residuale, poiché spesso vi sono convenzioni internazionali, bilaterali o multilaterali, che consentono più affidabili modalità di notifica. Nell’ambito dell’UE, inoltre, la materia è disciplinata dal regolamento 1393/2007, concernente ogni atto giudiziario o stragiudiziale che deve essere trasmesso in un altro Stato membro per essere notificato o comunicato al suo destinatario, salvo quando sia ignoto il recapito di quest’ultimo. Il sistema adottato da tale regolamento prevede che ciascuno Stato membro designi i propri “organi mittenti”, ai quali compete la trasmissione degli atti da notificare in altro Stato membro, e i propri “organi riceventi”, cui spetta ricevere le richieste di notifica provenienti da altro Stato membro; nonché un’autorità centrale, incaricata di fornire informazioni agli organi mittenti degli altri Stati e di ricercare soluzioni per le eventuali difficoltà sorte in occasione della trasmissione. L’atto trasmesso dev’essere corredato da una domanda redatta su un apposito modulo, compilato nella lingua dello Stato richiedente o in altra lingua che esso abbia dichiarato di poter accettare. Entro sette giorni dalla sua ricezione, l’organo ricevente deve trasmettere apposita ricevuta all’organo mittente e deve poi provvedere, nel più breve tempo possibile e comunque entro un mese dalla ricezione, alle formalità occorrenti per l’esecuzione della notifica, secondo la legge dello Stato membro richiesto, oppure secondo una modalità particolare richiesta dall’organo mittente, purché compatibile con la legge di quello Stato membro. L’espletamento di tali formalità viene certificato mediante apposito modulo, che viene inoltrato all’organo mittente, eventualmente corredato da una copia dell’atto notificato. Il regolamento, infine, lascia liberi gli Stati membri di utilizzare, a determinate condizioni ed entro certi limiti, anche altri sistemi; ad es. di effettuare la notifica tramite i propri agenti diplomatici o consolari, purché ciò avvenga senza coercizione. Pagina di 82 95 141. La notificazione per via telematica 149-bis. (Notificazione a mezzo posta elettronica). Se non e' fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione puo' eseguirsi a mezzo posta elettronica certificata, anche previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo. Se procede ai sensi del primo comma, l'ufficiale giudiziario trasmette copia informatica dell'atto sottoscritta con firma digitale all'indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni. La notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario. L'ufficiale giudiziario redige la relazione di cui all'articolo 148, primo comma, su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia. La relazione contiene le informazioni di cui all'articolo 148, secondo comma, sostituito il luogo della consegna con l'indirizzo di posta elettronica presso il quale l'atto e' stato inviato. Al documento informatico originale o alla copia informatica del documento cartaceo sono allegate, con le modalita' previste dal quarto comma, le ricevute di invio e di consegna previste dalla normativa, anche regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici trasmessi in via telematica. Eseguita la notificazione, l'ufficiale giudiziario restituisce all'istante o al richiedente, anche per via telematica, l'atto notificato, unitamente alla relazione di notificazione e agli allegati previsti dal quinto comma. Art. 148. (Relazione di notificazione). L'ufficiale giudiziario certifica l'eseguita notificazione mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all'originale e alla copia dell'atto. La relazione indica la persona alla quale e' consegnata la copia e le sue qualita', nonche' il luogo della consegna, oppure le ricerche, anche anagrafiche, fatte dall'ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilita' del destinatario. L’art.149-bis consente all’ufficiale giudiziario, in assenza di un espresso divieto di legge, di eseguire la notifica tramite posta elettronica certificata, anche – ove occorra – previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo. La notifica si esegue, dunque, mediante trasmissione di una copia informatica dell’atto, sottoscritta con firma digitale, all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da elenchi pubblici o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, e s’intende perfezionata nel momento in cui il gestore della posta elettronica certificata rende disponibile il documento informatico nella casella di posta del destinatario, indipendentemente dall’avvenuta lettura del messaggio e dell’atto da parte del destinatario stesso. La relazione di notificazione, in tale ipotesi, viene redatta su un separato documento informatico, sottoscritto dall’ufficiale giudiziario con firma digitale e congiunto all’atto notificato mediante strumenti informatici, che deve contenere i consueti elementi prescritti dal’art.148, indicando, invece che il luogo di consegna, l’indirizzo di posta elettronica cui l’atto è stato inviato. Una volta eseguita la notifica, l’atto notificato è restituito, anche per via telematica, al soggetto che l’aveva richiesta, insieme alla relazione di notificazione e alle ricevute della posta elettronica certificata attestanti l’invio e la consegna del messaggio. 142. Le notificazioni eseguibili dal difensore La l. 53/1994 consente che alcune forme di notificazione siano compiute dallo stesso avvocato (difensore con procura), il quale può utilizzare i seguenti procedimenti : 1. Può eseguire la notifica avvalendosi del servizio postale. In questo caso, però, egli dopo aver scritto la relata di notifica sull’originale e sulla copia ed aver compilato l’apposita busta e l’avviso di ricevimento con indicazioni analoghe a quelle prescritte all’ufficiale giudiziario, si limita a presentare il tutto all’ufficio postale; a questo punto è l’ufficiale postale che, dopo aver apposto il timbro di vidimazione in calce all’originale e alla copia, deve inserire quest’ultima nella busta. In tal modo, a differenza di quanto avviene per le notificazioni compiute dall’ufficiale giudiziario, è la stessa amministrazione postale ad identificare la copia effettivamente spedita al destinatario; il che è senz’altro utile nel caso in cui dovesse essere contestata la conformità di siffatta copia all’originale; Pagina di 85 95 2. Se destinatario è un altro avvocato, che abbia la qualità di domiciliatario di una parte e sia iscritto nello stesso albo del notificante, la notifica può anche essere eseguita direttamente, mediante consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario. In questo caso la notifica è subordinata a due specifiche formalità : • la preventiva vidimazione e datazione dell’originale e della copia da parte del consiglio dell’ordine nel ci albo sono iscritti il difensore notificante e il difensore destinatario; • la sottoscrizione del consegnatario tanto sull’originale e sulla copia, quanto sull’apposito registro cronologico del difensore notificante, seguita, quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, dall’annotazione delle generalità e della qualità rivestita dal consegnatario medesimo. A tal proposito, qualora il consegnatario rifiuti di ricevere la copia o di sottoscrivere i suddetti documenti, si ritiene che tale rifiuto impedisca l’esecuzione della notifica, dato che la sottoscrizione rappresenta un formalità essenziale di documentazione della notificazione; 3. Infine, qualora l’indirizzo elettronico del destinatario risulti da pubblici elenchi, la notifica può avvenire anche a mezzo di posta elettronica certificata, purché lo stesso avocato notificante adoperi un proprio indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi. In tal ipotesi, la notificazione avviene mediante allegazione dell’atto da notificare al messaggio di posta elettronica; atto che può consistere in un documento informatico nativo o nella copia informatica di un documento originariamente formato su supporto analogico (di regola un documento cartaceo). In quest’ultimo caso il notificante deve attestarne, nella relazione di notificazione, la conformità all’originale. Quanto alla relazione di notifica, essa dev’essere redatta come documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale ed allegato allo stesso messaggio di posta elettronica certificata con cui viene trasmesso l’atto. Indipendentemente dalla forma adoperata per la notifica, se questa ha ad oggetto un atto di opposizione a decreto ingiuntivo o d’impugnazione, il difensore notificante deve anche provvedere a depositare copia dell’atto notificato presso la cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento, affinché il cancelliere possa farne annotazione sull’originale del provvedimento. 143. Altre forme di notificazione Art. 151. (Forme di notificazione ordinate dal giudice). Il giudice puo' prescrivere, anche d'ufficio, con decreto steso in calce all'atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, e anche per mezzo di telegramma collazionato con avviso di ricevimento quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerita'((, di riservatezza o di tutela della dignita')). Alcune forme di notificazione richiedono una preventiva autorizzazione del giudice o addirittura possono essere disposte d’ufficio dal giudice medesimo; il quale ha un ruolo essenziale, in questi casi, per determinare il procedimento stesso della notifica. a. La prima di tali ipotesi è rappresentata dalla notificazione per pubblici proclami, consentita [tranne che nei giudizi dinanzi al giudice di pace] allorché la notificazione nei modi ordinari sarebbe difficile per il gran numero di destinatari o per la difficoltà nell’identificarli tutti. La relativa autorizzazione compete al capo dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede, su istanza della parte interessata e sentito il pubblico ministero. Parte dell’iter è prevista dal legislatore e consiste nel deposito di una copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario adito, nonché nella pubblicazione di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale. Per il resto è lo stesso giudice che determina, con decreto di autorizzazione steso in calce all’atto da notificare, sia i destinatari ai quali la notificazione dev’essere eseguita nelle forme ordinarie, sia le ulteriori modalità che ritiene più opportune per portare l’atto a conoscenza degli altri interessati. La notificazione si ha per avvenuta quanto, esaurite le varie formalità, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede; b. La seconda ipotesi da considerare (art.151) consente al giudice, quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità, di riservatezza o di tutela della dignità, di ordinare anche d’ufficio, con decreto steso in calce all’atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, anche per mezzo di telegramma collazionato. Si tratta di una norma sostanzialmente in bianco, sia per quanto attiene ai suoi presupposti applicativi, sia per ciò che concerne il procedimento notificatorio, che è integralmente rimesso alla determinazione del giudice. Si ritiene, in ogni caso, che per un verso le modalità di tali notifiche non possano individuare consegnatari diversi da quelli indicati nel codice per le altre forme tipiche di notificazione, e per altro verso debbano fornire, quanto alla trasmissione della copia e alla sua conformità all’originale, un grado di certezza non diverso da quello offerto dai procedimenti ordinari. Pagina di 86 95 Sezione V - l'invalidità degli atti processuali 144. Le specie dell’ invalidità in materia processuale Anche rispetto al processo si è soliti distinguere varie gradazioni di invalidità : 1. L’irregolarità, che si riferisce ai vizi che non influenzano l’efficacia dell’atto, i quali hanno come unica conseguenza, di solito, l’obbligo per le parti e per il giudice di provvedere alla regolarizzazione dell’atto medesimo, salve le diverse sanzioni previste dalla legge; 2. L’annullabilità, che ricorre quando, a causa di un determinato vizio, l’atto – pur di per sé efficace – si trovi in una situazione di precarietà, potendo essere eliminato con un provvedimento costitutivo del giudice, su iniziativa della parte legittimata; iniziativa che può essere esercitata solo entro un certo termine previsto dalla legge, scaduto il quale l’atto diverrebbe inattaccabile; 3. La nullità vera e propria, che ricorre nel caso in cui un atto sia affetto da un vizio insanabile che ne preclude ab origine i consueti effetti, e dunque, la parte interessata può, in ogni momento e senza limiti di tempo, chiedere al giudice che ne dichiari l’inefficacia; 4. L’inesistenza, che ricorre allorché l’atto sia privo finanche dei requisiti minimi essenziali per essere riconosciuto come appartenente ad un determinato modello legale. In vero, la nullità all’interno del processo si atteggia, quasi sempre, come mera annullabilità del provvedimento finale, poiché la possibilità di attaccare e caducare quest’ultimo, in conseguenza del vizio, non è illimitata nel tempo. In primo luogo è importante distinguere tra nullità formali, riguardanti per l’appunto un vizio di forma in senso lato, e nullità extraformali, tutte comunque derivanti da un difetto di legittimazione, in senso ampio, del soggetto da cui promana l’atto; difetto che potrebbe inerire, ad es., alla capacità della parte al potere rappresentativo del difensore, come anche all’investitura del giudice. La disciplina codicistica della nullità, risultante dagli artt.156 ss., parrebbe prendere in considerazione essenzialmente le nullità formali, ma i principi in essa racchiusi non in larga misura adattabili anche a quelle non formali. Tanto più che lo stesso legislatore, nell’art.158, a espresso riferimento ad una nullità – quella derivante da vizi di costituzione del giudice – aventi senz’altro natura extraformale. 145. I principi in materia di nullità Art. 156. (Rilevanza della nullita'). Non puo' essere pronunciata la nullita' per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullita' non e' comminata dalla legge. Puo' tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullita' non puo' mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui e' destinato. Art. 157. (Rilevabilita' e sanatoria della nullita'). Non puo' pronunciarsi la nullita' senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata di ufficio. Soltanto la parte nel cui interesse e' stabilito un requisito puo' opporre la nullita' dell'atto per la mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso. La nullita' non puo' essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, ne' da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente. Le disposizioni concernenti la forma-contenuto degli atti processuali sono numerose e ciascuna di esse esige, per ciascun tipo di atto, una molteplicità di requisiti. Ciò non significa, tuttavia, che la mancanza di uno qualunque di tali requisiti determini la nullità dell’atto. La regola fondamentale contenuta nel 1°comma dell’art.156 stabilisce che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”. Ciò significa che le fattispecie di nullità sono tassative e circoscritte alle ipotesi in cui il legislatore ha espressamente previsto che la mancanza di un determinato requisito determini la nullità dell’atto. In ogni altro caso, invece, il vizio sarà motivo di mera irregolarità, sicché in dottrina si è sottolineato che la disciplina delle nullità concorre ad integrare la disciplina formale specifica dei vari atti processuali, chiarendo quali elementi siano realmente essenziali per la produzione degli effetti dell’atto. Il principio di tassatività subisce, tuttavia, delle deroghe : Pagina di 87 95 Assai discussa è la linea di demarcazione tra la sentenza inesistente e la sentenza nulla per vizi relativi alla costituzione del giudice, cui fa riferimento l’art.158. Infatti, i vizi relativi alla costituzione del giudice rappresentano una categoria piuttosto eterogenea, che dovrebbe comprendere, in linea di principio, sia la violazione dei criteri di formazione dell’organo giudicante, sia l’inosservanza di tutte le disposizioni di ordinamento giudiziario concernenti la nomina e la capacità del magistrato-persona fisica; detto ciò, v’è da sottolineare che l’art.158, pur parlando di nullità insanabile e rilevabile d’ufficio, fa espressamente salva la disposizione dell’art.161; il che significa che pure tali vizi vanno dedotti attraverso l’impugnazione restano definitivamente sanati col passaggio in giudicato della sentenza. ciononostante, la giurisprudenza ha talvolta arbitrariamente distinto, nell’ambito di tale categoria, alcuni vizi ritenuti tanto gravi da rendere la sentenza inesistente e, dunque, da sottrarla al fondamentale principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione. 149. Inesistenza, nullità assoluta ed inefficacia della sentenza Deve ritenersi che la categoria della sentenza inesistente, non disciplinata dal legislatore, debba circoscriversi alle sole ipotesi in cui manchi un provvedimento idoneo ad inserirsi in un procedimento giurisdizionale e comunque a produrre alcuno degli effetti tipici della sentenza; la sentenza inesistente, oltretutto, non può neppure essere oggetto d’impugnazione. Il concetto di inesistenza dovrebbe riguardare, dunque, oltre l’ipotesi della pseudo-sentenza proveniente da chi non è giudice, i soli casi in cui ci si trovi al cospetto di un atto che , pur potendolo divenire, non è ancora una sentenza, non essendosi compiuto l’iter a tal fine previsto, attraverso il deposito in cancelleria e la pubblicazione. Non si ha invece inesistenza, quando la sentenza non è sottoscritta; questa rappresenta l’unica ipotesi di nullità veramente assoluta, poiché non sanata dal passaggio in giudicato e rilevabile sine die. Vi sono poi situazioni in cui la sentenza, pur essendo di per sé idonea a passare formalmente in giudicato e dunque divenire immutabile, non è però in grado, vuoi per vizi ed essa estrinseci, vuoi per ragioni inerenti al suo contenuto, di produrre l’effetto di accertamento proprio della sentenza di merito passata in giudicato, o comunque effetti di altra natura : si pensi, ad es., all’ipotesi di omessa pronuncia su taluna delle domande oggetto del giudizio; alla sentenza priva di dispositivo o dal dispositivo impossibile, indeterminabile, incomprensibile o contraddittorio; o alla sentenza resa nei confronti di un soggetto inesistente. In questi casi, che spesso vengono ricondotti all’inesistenza e che, invece, sarebbe preferibile inquadrare tra le ipotesi di inefficacia della sentenza, il vizio della decisione implica inevitabilmente la sua nullità; e tuttavia, la sua rilevabilità resta pur sempre preclusa dal passaggio in giudicato, indipendentemente dalle conseguenze che il vizio potrà successivamente determinare in ordine alla concreta estensione della cosa giudicata o comunque rispetto agli effetti della sentenza. 150. Il problema dei provvedimenti resi in forma erronea Particolare problema, in cui non di rado s’imbatte la pratica, è rappresentato dai provvedimenti resi in una forma diversa da quella che la legge prescrive. Tale problema è particolarmente serio allorché sia stata impiegata la forma della sentenza, in luogo dell’ordinanza o del decreto, o viceversa, dovendosi in tal caso stabilire : - Se l’errore sia di per sé motivo di nullità; - Se la validità formale del provvedimento debba comunque valutarsi secondo gli elementi prescritti per la forma corretta o se, al contrario, debba aversi riguardo agli elementi richiesti per il tipo di provvedimento erroneamente utilizzato dal giudice; - Quale regime di stabilità e quali rimedi, infine, debbano trovare applicazione. La giurisprudenza prevalente è dell’avviso che l’impiego di una forma erronea non produca, di per sé, la nullità del provvedimento, ma che la validità di quest’ultimo presupponga la sussistenza dei requisiti di forma-contenuto minimi prescritti per il modello che il giudice avrebbe dovuto adottare. Ciò implica che, in concreto, mentre la sentenza resa in luogo del decreto o dell’ordinanza, sarà sempre salvabile, l’ordinanza o il decreto pronunciati in luogo della sentenza saranno pressoché inevitabilmente ed insanabilmente nulli, quanto meno in relazione al requisito della sottoscrizione; dato che per la sentenza sono richieste le firme del presidente del collegio e dell’estensore, mentre per l’ordinanza e per il decreto (collegiali) è richiesta quella del solo presidente. Questa soluzione, peraltro, suscita non poche perplessità, dato che l’iter di formazione della sentenza è completamente diverso e la sottoscrizione dell’estensore si giustifica per il fatto che la sentenza- documento viene in vita in un momento diverso e posteriore rispetto a quello della deliberazione; a differenza dell’ordinanza e del decreto, per i quali non v’è questa discrasia temporale e non può neppure parlarsi di estensore, dato che la motivazione ricade sotto la diretta responsabilità del collegio. Pagina di 90 95 Più delicata è la questione relativa al regime di stabilità ed ai rimedi applicabili. La soluzione più garantistica sarebbe quella di far prevalere in ogni caso l’elemento formale su quello contenutistico, escludendo dunque che la l’ordinanza o il decreto, erroneamente pronunciati in luogo della sentenza, possano mai acquisire la stabilità propria di quest’ultima, dando luogo al fenomeno del giudicato. In tal senso pare deporre l’art.279, 4°comma, ai sensi del quale “i provvedimenti del collegio, che hanno forma di ordinanza, comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa”. D’altro canto, però, tale soluzione non è priva di inconvenienti, giacché, per un verso conduce ad assoggettare alle impugnazioni caratteristiche della sentenza dei provvedimenti che, in ragione del loro oggetto, non avrebbero dovuto esserlo, e per altro verso, conduce ad escludere ogni forma d’impugnazione nei confronti dell’ordinanza e del decreto, pronunciati in luogo della sentenza prescritta dalla legge. Per questa ragione, l’opinione maggioritaria preferisce attenersi al principio c.d. della prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento; ritenendo, cioè, che sia l’effettivo contenuto del provvedimento l’elemento determinante per stabilire tanto il regime di stabilità, quanto i rimedi. In realtà, neppure questa soluzione risulta pienamente appagante : sia perché costringe le parti a sindacare, in un certo senso, la congruità del modello formale scelto dal giudice per il provvedimento, ma anche perché non di rado lo stesso legislatore prevede la pronuncia di un’ordinanza dal contenuto decisorio; sicché la scelta dell’uno o dell’altro modello formale è legata all’esistenza di specifici presupposti, se non addirittura ad un potere discrezionale del giudice. [ad es. l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto non è diversa, quanto agli effetti, da una sentenza di condanna al rilascio dell’immobile]. Inoltre, la riforma del 2009 ha creato il procedimento sommario di cognizione, che pur avendo natura di processo a cognizione piena, si conclude con un’ordinanza del tutto equivalente ad una sentenza, poiché è soggetta ad appello ed è idonea, se non impugnata, ad acquisire l’autorità del giudicato sostanziale. Tutto ciò conferma, allora, che il contenuto di un provvedimento – ciò che la giurisprudenza intende per sostanza, contrapposta alla forma – non può essere assunto quale elemento univoco cui ricondurre un determinato regime di stabilità e di rimedi. Capitolo XII - le spese del processo 151. I costi del processo Il processo è fonte di varie e considerevoli spese per le parti, comprendenti le somme da pagare a vario titolo allo Stato o ad organi pubblici, nonché i compensi a determinati soggetti privati che prestano la loro opera nel processo, a cominciare ovviamente da quelli dovuti ai difensori. L’importo complessivo di tali spese può dunque essere tutt’altro che trascurabile e può risultare, in proporzione, particolarmente gravoso nelle controversie di più modesto valore, nelle quali non di rado esso finisce col superare lo stesso vantaggio economico che l’attore può sperare di conseguire dal processo. I principi cui s’informa il nostro ordinamento in questa materia sono essenzialmente due : 152. L'onere di anticipazione delle spese 1. l’onere di anticipazione e la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte vincitrice. L’art.8, 1°comma, d.p.r. 115/2002 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), stabilisce che ciascuna parte deve provvedere alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede, ed è comunque tenuta ad anticipare quelle occorrenti per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato. Fra le spese oggetto di anticipazione va menzionato, in particolare, il contributo unificato di iscrizione a ruolo, disciplinato dagli artt.9 ss. del citato d.p.r. e dovuto, per ciascun grado di giudizio, dalla parte che deposita il ricorso introduttivo o si costituisce per prima in giudizio, nonché, limitatamente ai processi esecutivi di espropriazione forzata, dalla parte che fa istanza per l’assegnazione o la vendita dei beni pignorati. Il relativo importo varia a seconda del tipo di procedimento nonché, quando si tratti di processi contenzioni, in proporzione al valore della causa, che deve pertanto risultare da un’apposita dichiarazioni inserita nelle conclusioni dell’atto introduttivo. Se poi, nel corso del processo, viene proposta da un’altra parte una domanda riconvenzionale o comunque nuova, la parte che la propone è tenuta a farne espressa dichiarazione e a pagare un ulteriore ed autonomo contributo unificato, commisurato al valore della nuova domanda. Tale contributo, dal quale sono esenti i procedimenti indicati nell’art.10 del d.p.r., assorbe, tra l’altro, l’imposta di bollo che dovrebbe applicarsi agli atti e ai provvedimenti processuali, nonché al rilascio di copie autentiche degli stessi. Pagina di 91 95 Il codice prevedeva la possibilità di imporre all’attore la prestazione di una cauzione per il rimborso delle spese al convenuto, nel caso in cui avesse perso; ma tale istituto fu soppresso dalla Corte costituzionale. 153. La condanna della parte soccombente 2. Per la ripartizione finale e definitiva delle spese del processo, il codice utilizza il criterio della soccombenza, stabilendo che il giudice, ogniqualvolta pronunci sentenza con la quale chiude il processo, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa (art.91). Per quel che concerne le spese successiva è previsto che esse siano liquidate, a seconda dei casi, dal cancelliere, con una nota in margine alla sentenza, per quel che riguarda le spese della sentenza stessa, oppure dall’ufficiale giudiziario, con una nota in margine all’atto, quanto alle spese di notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto; e contro la relativa liquidazione è ammesso reclamo al capo dell’ufficio cui appartengono il cancelliere o l’ufficiale giudiziario. In linea di principio, dunque, “chi perde paga”, e questo avviene per una responsabilità essenzialmente oggettiva, che prescinda da qualunque colpa, dato che il proporre una domanda risultata, poi, infondata, o il resistere ad una domanda che viene poi accolta, costituisce un comportamento del tutto lecito. Quando vi è una pluralità di parti soccombenti, il giudice può ripartire le spese tra loro in proporzione del rispettivo interesse nella causa, o può condannarle in solido, allorché abbiano un interesse comune. Se la sentenza nulla precisa, la condanna s’intende ripartita per quote eguali. Di regola la condanna alle spese può essere pronunciata solo nei confronti della parte, in senso processuale, è non anche nei confronti del soggetto che eventualmente sta in giudizio in sua vece. L’art.94, però, prevede che eccezionalmente gli eredi con beneficio d’inventario, i tutori, i curatori ed in generale coloro che rappresenta o assistono la parte in giudizio, possano essere condannati personalmente in presenza di motivi gravi che il giudice è tenuto a specificare nella sentenza. La norma sembra riferibile a tutte le ipotesi di rappresentanza, con la sola esclusione di quella tecnica. È chiaro, dunque, che il rappresentante acquista, se pur limitatamente alla condanna alle spese, la qualità di parte, anche e soprattutto in relazione all’impugnazione della sentenza. 154. Deroghe che al criterio della soccombenza. In particolare, la compensazione delle spese Art. 92. (Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese). Il Giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente, puo' escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e puo', indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'art. 88, essa ha causato all'altra parte. ((Se vi e' soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novita' della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice puo' compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero)). Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione. Il criterio per cui le spese vanno poste a carico della parte soccombente, non è affatto rigido e assoluto. In primo luogo è consentito al giudice di escludere, nella condanna, la ripetizione delle spese, sostenute dalla parte vincitrice, che ritenga eccessive o superflue. In secondo luogo è poi previsto che una parte, pure se vittoriosa, possa essere condannata al rimborso delle spese, anche non ripetibili, provocate all’altra parte dalla violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità (art.88). In questo caso, per la verità, la condanna dovrebbe riguardare le spese di singoli atti del processo. Alcune ipotesi di abuso del diritto d’azione trovano proprio in tale disposizione un’efficace sanzione, con la condanna della parte vittoriosa alle spese dell’intero giudizio, qualora la stessa proposizione della condanna debba considerarsi contraria a buona fede. La deroga più rilevante al criterio della soccombenza è però rappresentata dalla compensazione delle spese. L’art.92, 2°comma, consente di compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, quando vi è soccombenza reciproca o nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti; il che significa che in tali ipotesi il giudice può decidere che le spese fino a quel momento anticipate o comunque sopportate da ciascuna delle parti rimangano definitivamente a carico delle stesse. In realtà la compensazione, in caso di soccombenza reciproca, altro non è che un’applicazione del Pagina di 92 95
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