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riassunto libro di Jedlowski il mondo in questione, Sintesi del corso di Teoria del Contratto sociale

L'introduzione al pensiero di Karl Marx, con particolare attenzione alla sua idea di una società comunista senza classi. Si parla della sua formazione filosofica, dell'influenza di Hegel, della dialettica e del concetto di alienazione. Si approfondisce il modo di produzione capitalistico e la nozione di ideologia. utile per comprendere il pensiero di Marx e la sua critica alla società capitalistica.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 17/04/2023

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Scarica riassunto libro di Jedlowski il mondo in questione e più Sintesi del corso in PDF di Teoria del Contratto sociale solo su Docsity! KARL MARX Introduzione Decisiva nell’orientamento del suo pensiero è l’idea di una società comunista, intesa come una futura società senza classi. Marx nasce in Germania nel 1818. Studia filosofia a Berlino e dopo esordisce come giornalista con una serie di articoli sulle condizioni dei lavoratori in Renania. La rivista – a causa del suo atteggiamento radicale – viene soppressa e Marx si trasferisce a Parigi, dove inizia la sua amicizia con Engels. A Bruxelles entra in contatto con diverse associazioni operaie. Muore a Londra nel 1883. A causa delle sue attività politiche e intellettuali viene espulso da diversi paesi, viene controllato dalle polizie e costretto alla fame. L’opera principale di Marx è “il capitale”. All’inizio della sua vita intellettuale, Marx è un filosofo hegeliano. L’influenza di Hegel è estremamente avvertibile nella sua opera. Nonostante la sua opera abbia influenzato profondamente la sociologia, Marx non si sarebbe mai definito un sociologo. Il suo principale oggetto di riflessione è il movimento generale della società sorta con la rivoluzione industriale, egli riteneva che il cuore dell’analisi di tale movimento stesse nella critica dell’economia politica. Marx nella sua formazione filosofica dipende da Hegel, infatti, il termine dialettica che ricorre spesso nelle frasi di Marx è un termine hegeliano. La dialettica per entrambi – Marx e Hegel - è un movimento: quel movimento del pensiero o della realtà che, attraverso la negazione di una precedente affermazione, conduce a una sintesi che è il superamento di entrambe. Il termine superamento intende un processo che comporta tre momenti: conservare, far scomparire, portare a un livello superiore. Quando Marx parlerà di un superamento della società capitalistica intenderà che essa palesandosi produce al suo interno delle contraddizioni che conducono necessariamente ad un livello superiore, cioè a qualcosa che conserva gli sviluppi della società capitalistica come suoi presupposti, ma li fa scomparire e li supera sintetizzandoli entro una nuova formazione. Il comunismo rappresenta in questo senso, per Marx, il superamento del capitalismo. Le idee di dialettica e di superamento provengono da Hegel. Come da Hegel proviene anche il concetto di alienazione. Per Hegel, l’alienazione è un aspetto dell’oggettivazione, e questa è un elemento essenziale della storia umana. Quando gli uomini esercitano un’attività pratica essi producono degli oggetti. L’alienazione è l’aspetto di questo processo per cui l’oggettivazione e un “farsi altro” del soggetto. L’oggetto è una negazione del soggetto, è il suo contrario: ma tale negazione può essere superata. Il momento di tale superamento è l’autocoscienza dell’uomo, che riconosce l’oggetto come proprio prodotto, e in questo modo ne provoca una riappropriazione. Per Marx l’oggettivazione è una categoria fondamentale per capire la storia umana, ma distingue radicalmente l’oggettivazione dall’alienazione. Il lavoro umano è alienato, secondo Marx, in certe condizioni: cioè quando vi è sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Se non vi fosse sfruttamento, non vi sarebbe ragione di parlare di alienazione. Hegel, secondo Marx, non si accorge che non è il lavoro in generale che produce alienazione, ma il lavoro in certe condizioni: il lavoro è alienato quando il soggetto che produce non ha il possesso del frutto del proprio lavoro. Questa è la condizione dell’operaio nelle fabbriche della moderna società industriale. Il lavoratore produce per un altro uomo (per il padrone): è questa la sua alienazione. Il suo prodotto non è suo, come non è suo il controllo su ciò che produce e su come produce, né la gestione delle sue relazioni con i propri compagni. In queste condizioni il lavoro invece di essere il luogo dell’autorealizzazione più alta dell’essere umano diventa la negazione dell’uomo stesso, il luogo del suo abbruttimento. La “riappropriazione” dell’oggetto di cui parlava Hegel deve essere un’azione pratica, una rivoluzione che restituisca a chi lavora il controllo del proprio lavoro. Marx osserva che la divisione del lavoro è sempre stata ineguale. La struttura di una società è ciò che determina le forme di tutto il resto, che egli chiama sovrastruttura. Gli ambiti delle istituzioni giuridiche, delle rappresentazioni religiose, della morale e della stessa filosofia sono per Marx sovrastrutturali: ciò significa che non sono dotati di una storia propria ma che dipendono nel loro svolgersi dalle modificazioni della struttura a cui corrispondono. “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Anche il concetto di ideologia è cruciale nel pensiero di Marx. Esso intende un insieme di proposizioni che rappresentano il mondo in modo parzialmente falsificato: una rappresentazione del mondo che descrive e insieme occulta le sue condizioni reali. Il modo più tipico in cui funziona l’ideologia, per Marx, consiste nello scambiare le condizioni sociali dell’oggi come condizioni eterne, con ciò giustificandole. L’ideologia è una forma di pensiero che giustifica l’esistente. È una forma di pensiero che occulta le contraddizioni, che nasconde i conflitti e con ciò tende a immobilizzare la storia. Tipicamente, essa è la forma di pensiero delle classi dominanti di una società, il cui interesse è quello di occultare i conflitti interni che vi si producono. D’altro canto, anche i dominati possono condividere l’ideologia dei dominatori, in questo caso, Marx parla di una falsa coscienza. Contro l’ideologia è mobilitata la teoria di Marx. Modo di produzione capitalistico Nella sua opera principale - il capitale – Marx indaga il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Un modo di produzione è per Marx un insieme, storicamente determinato, di mezzi per la produzione e di rapporti di produzione. Il modo capitalistico di produzione è il modo di produzione che è emerso dalla rivoluzione industriale. È dunque il modo moderno di produzione. La nozione di modo di produzione è importante nel pensiero di Marx perché la struttura di base di ogni società è data esattamente dai rapporti che gli uomini intrattengono fra loro e con la natura al fine di produrre ciò che è necessario a soddisfare i loro bisogni. Il modo di produzione dominante in una data società corrisponde alla struttura di questa stessa società. Capitalismo è il nome dato da Marx alla società la cui struttura è fornita dal modo capitalistico di produzione. Il modo di produzione capitalistico è dunque il modo di produrre che storicamente ha coinciso con l’avvento della produzione industriale. L’uso dell’aggettivo capitalistico significa che la caratteristica di questo modo di produzione è di essere fondato sul capitale. “Il capitale consta di materie prime, di strumenti di lavoro e di mezzi di sussistenza di ogni genere, che vengono impiegati per la produzione di nuove materie prime, di nuovi strumenti di lavoro, di nuovi mezzi di sussistenza. Tutte queste sue parti costitutive sono creazioni del lavoro, prodotti dal lavoro, lavoro accumulato. Il capitale è lavoro accumulato che serve come mezzo per una nuova produzione”. Ciò che trasforma certe risorse in capitale è una specifica condizione dei rapporti sociali. Il capitale è lavoro accumulato all’interno di una certa situazione dei rapporti sociali. Questi rapporti sociali hanno le seguenti caratteristiche: 1. Da una parte abbiamo i capitalisti, (coloro che sono proprietari dei mezzi di produzione) dall’altra i proletari (uomini che non possiedono i mezzi di produzione, hanno solo la propria forza-lavoro). Avremo due classi. 2. Il rapporto tra questi due insiemi di individui è mediato dal denaro, nel senso che la forza lavoro dei secondi si presenta come una merce che viene venduta ai primi ad un certo prezzo. Questo prezzo si chiama salario. Attraverso il salario, i lavoratori salariati possono acquistare i beni necessari alla propria sussistenza. 3. I beni economici prodotti all’interno di questo modo di produzione sono merci: la produzione e cioè finalizzata alla vendita dei prodotti sul mercato. Ogni merce possiede un valore d’uso, che è differente per ogni tipo di merce, ma, possiede anche un valore di scambio questo si esprime nel prezzo della merce stessa. Il denaro è l’equivalente universale del valore di scambio delle merci. Il La società moderna è una società dove la divisione del lavoro sociale è molto sviluppata; la forma in cui i prodotti di questo lavoro diviso si ricongiungono è il mercato; ma il mercato è un sistema di rapporti astratti, cioè un sistema dove gli individui non scambiano i propri prodotti fra di loro in base ai rapporti personali, ma in base a leggi impersonali, quelle rappresentate dai prezzi delle merci; di fronte al mercato, ciascuno è effettivamente isolato: i suoi rapporti con gli altri passano attraverso le merci, che sembrano soggiacere a leggi proprie. In questa situazione, diviene possibile agli uomini immaginarsi come esseri isolati. La divisione del lavoro sviluppatasi con il modo di produzione capitalista è estremamente articolata: ciascun individuo si trova confinato in un ruolo. Ma in questo confinarsi dell’individualità in una forma strettamente determinata si nasconde un aspetto dell’alienazione: l’uomo si allontana dalla possibilità di estrinsecare pienamente tutte le proprie risorse. In un mondo sociale dominato dall’imperativo di produrre, il fine stesso della vita diviene estraneo all’uomo. Egli produce come non mai prima, Ehi e perviene a un forte controllo sulla natura, ma la capacità di godere dei rapporti con gli altri uomini e con la natura viene meno. La società che Marx spera di veder sorgere è una società dove gli uomini siano liberi dalla necessità, grazie allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive, e in cui abbiano modo di dispiegare tutta la propria umanità, di appropriarsi di sé stessi e di avere relazioni con i propri simili liberamente, in un rapporto armonico con la natura di cui fanno parte. Marx parla di una terza classe, quella collegata alla rendita cioè i proprietari terrieri. Marx attribuisce a questa classe un’importanza relativa: è sostanzialmente una classe parassita, che vive di una parte dei proventi derivanti dallo sfruttamento della classe operaia. In ogni caso, al momento dello scontro, si affiancherà a quella dei capitalisti. Marx sa bene che la borghesia è divisa al suo interno, e, soprattutto, sa bene che esistono nella società capitalistica molte altre classi. Nella sua prospettiva, tuttavia, il futuro avrebbe visto una crescente proletarizzazione di tutti questi strati e alla fine una polarizzazione di tutti i gruppi in due grandi schieramenti. Contrariamente alle previsioni di Marx, questi strati hanno sviluppato forme di coscienza particolari, e non si sono mai fusi con la classe operaia. Gli sviluppi del capitalismo successivi alla sua epoca hanno comportato uno spostamento delle contraddizioni dal centro verso la periferia: l’adesione al sistema da parte dei lavoratori interni alle società più ricche sarebbe stato “comprato” attraverso la concessione di una serie di privilegi, e ad essere propriamente sfruttato sarebbero oggi le masse di lavoratori del terzo mondo. E’MILE DURKHEIM Introduzione Il programma di Durkheim è esplicitamente quello di fondare la sociologia. Durkheim nasce in Lorena nel 1858. Nel 1887 cominciò ad insegnare sociologia in università, fu uno tra i primi studiosi in Europa ad occupare in un’università una cattedra intitolata a questa materia. Fu anche uno dei primi a fondare una rivista dedicata alla raccolta di studi sociologici. Tra le opere più importante di Durkheim troviamo: “la divisione del lavoro sociale”, “le regole del metodo sociologico”, “il suicidio”, “Le forme elementari della vita religiosa”. Il problema di fondo del pensiero di Durckheim è quello della coesione di una società e della sua riproduzione nel tempo. Il suo problema scientifico principale consiste nel rispondere alla domanda “che cosa tiene insieme una società?”. La risposta a questa domanda è la morale. Il sentimento morale è ciò che unisce ciascuno dei membri di un insieme sociale alla società stessa. Realizzandosi in una solidarietà dei membri della società fra di loro, esso consente la vita in comune. Una società è propriamente, un ordine morale. Per Durkheim la società non è comprensibile muovendo dall’analisi dei comportamenti dei singoli. La società non deriva da un contratto fra uomini separati: essa è piuttosto ciò che precede e rende possibile ogni contratto. Il comportamento di ciascun uomo non è mai comprensibile pienamente se non come espressione del suo inserimento in un sistema sociale. Morale, norme e fatti sociali Una morale e un insieme di valori e di credenze che si esprimono in norme alle quali ciascun membro della società è vincolato. Tali vincoli agiscono dall’esterno e dall’interno. Dall’esterno, nel senso che infrangere una norma provoca reazioni che puniscono chi lo fa; dall’interno, nel senso che l’individuo avverte come “da dentro di sé” una spinta al rispetto delle norme stesse. L’appartenenza ad una morale comune è ciò che fonda la solidarietà che lega fra loro i membri di una società. Il modo originario con cui le norme morali si impongono entro una società è il loro istituzionalizzarsi nelle norme di un insieme di credenze religiose, rese sacre dalla loro iscrizione entro un sistema di riti. Altre società hanno o hanno avuto norme parzialmente diverse, ma - avverte Durkheim - ciascuna non può fare a meno di appoggiare la propria capacità di coesione su un insieme di norme che esprimono valori e credenze comuni. Tali norme possono essere esplicite, oppure implicite (come la maggior parte delle norme che regolano il costume quotidiano). Le norme sono per Durkheim dei fatti sociali. I fatti sociali sono fenomeni che non si possono spiegare ricorrendo alla sola analisi delle azioni dei singoli o all’analisi psicologica delle loro motivazioni. Essi, dirà ancora Durkheim, sono qualcosa che si presenta in media o normalmente all’interno di una società, ciò che li definisce come tali e che essi si impongono ai singoli come qualcosa che proviene dal di fuori, e contemporaneamente li attraversano nei loro modi di sentire, di pensare e di comportarsi. I fatti sociali esistono nella misura in cui esistono gli uomini, ma contemporaneamente hanno una sorta di esistenza indipendente, autonoma, che sovrasta la volontà di ciascuno. Poiché i fatti sociali si presentano ai singoli come indipendenti dalla loro azione o dalla loro volontà personale, Durkheim propone, di trattarli come se fossero cose. Essi sono come cose nel senso che hanno un’esistenza che non si spiega a partire dalle coscienze e dalle azioni degli individui. Rispetto alla volontà dei singoli, hanno una durezza che non si lascia scalfire. Per fare un esempio pensiamo al linguaggio, il linguaggio non è creato da nessun singolo preso isolatamente. Ciascun individuo lo trova in qualche modo già dato, è un modo di fare consolidato, cioè il risultato dell’interazione di innumerevoli uomini in un tempo lunghissimo, è una realizzazione collettiva. Eppure, è anche qualcosa che attraversa ogni singolo uomo. Il linguaggio è quindi un fatto sociale. Non lo si può spiegare a partire dal comportamento o dalle intenzioni dei singoli, lo si può spiegare solo a partire dalla società, cioè dal risultato dell’interazione umana. Un approccio funzionalista La società è per Durkheim una realtà di tipo particolare, superiore alla vita dei suoi membri. Nelle norme morali, nei costumi, nelle credenze religiose, nei riti che sanciscono le regole della collettività la società parla, e la sua voce si impone ai suoi membri. La società è per Durkheim più della somma degli individui che la compongono: è un’unità di livello superiore, dotata di una vita che non si spiega restando al livello della semplice descrizione di ciò che la compone. Poiché la società si esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l’insieme dei fatti sociali. Durkheim tratta la devianza. Devianza è un termine sociologico che intende l’esistenza di comportamenti che si discostano dalla norma: è devianza in questo senso il crimine ma è devianza, in senso generale, anche qualunque comportamento che sia percepito come anormale. Il crimine ad esempio, appare a tutti i prima qualcosa di ben poco funzionale, tuttavia anch’esso svolge una funzione: nel momento in cui il crimine viene punito esso svolge la funzione di rinsaldare la coscienza collettiva. Riunita nell’atto di sanzionare il colpevole la società riafferma le sue regole, che non sono mai così visibili e chiare alla collettività come quando viene punito chi non vi si conforma. La funzione non corrisponde a nessun fine prestabilito, è piuttosto un risultato non intenzionale di una pratica sociale. La devianza può svolgere anche un’altra funzione, essa può rappresentare una sorta di momento di sperimentazione della società rispetto a delle nuove norme. Un movimento sociale spesso nasce come espressione di una devianza rispetto alle norme stabilite. L’insorgere della devianza appare nel suo pensiero uno dei modi in cui le società possono esprimere nuove forme morali. Società semplici e società complesse Per Durkheim non esiste la società in generale, esistono diversi tipi di società. Durkheim sviluppa un discorso sull’evoluzione delle società umane come un movimento da un tipo di società a un altro. Il primo tipo di società (tribù primitive) è la società semplice, basata su di una bassa divisione del lavoro. In una società semplice gli individui svolgono attività poco differenziate fra loro. Il secondo tipo di società è quello delle società complesse, che corrisponde alle nazioni moderne. In questo caso la società è fondata su un’ampia e articolata divisione del lavoro, le attività dei suoi membri sono fortemente differenziate fra loro, esistono numerose istituzioni intermedie che mediano l’appartenenza del singolo all’insieme della società. Nelle società semplici e nelle società complesse la morale si presenta in forme diverse. È cioè diverso il modo in cui si stabilisce la solidarietà che tiene insieme i membri della società. Le società semplici sono caratterizzate da una solidarietà meccanica essa è la solidarietà che si presenta fra individui strettamente uniti gli uni agli altri da vincoli quotidiani, e le cui attività si diversificano poco. Nelle società complesse la solidarietà è detta organica: essa rassomiglia effettivamente alla solidarietà che unisce gli organi differenti di un organismo complesso. Questa forma di solidarietà stabilisce i legami fra individui che hanno fra loro grandi differenze, ma che pur tuttavia devono cooperare per la vita dell’insieme sociale da cui tutti dipendono. Nelle società semplici, dotate di solidarietà di tipo meccanico, le coscienze degli individui tendono a differenziarsi scarsamente le une dalle altre. La coscienza collettiva tende a ricoprire la coscienza individuale. Le persone pensano in modi molto simili, è scarsa la tolleranza della società nel suo insieme per comportamenti o per punti di vista diversi da quelli incorporati nelle norme della vita comune. Il diritto si presenta nella forma di leggi punitive, ogni infrazione è considerata un attentato alla coesione del gruppo. Invece, nelle società complesse le mansioni dei singoli si differenziano, e con ciò si danno le basi per una diversificazione dei contenuti delle coscienze. Poiché i membri della società svolgono mansioni differenziate, anche i loro punti di vista sviluppano delle differenze e diventa possibile una individualizzazione delle coscienze. Il diritto qui si presenta più nella forma di leggi restitutive che di leggi punitive. Nella situazione delle società complesse, la tenuta delle norme morali si fa insieme più problematica è più necessaria. Più problematica, perché il fatto stesso che gli individui possano comportarsi e pensare in modi differenti rende meno forte la tenuta di norme che valgano per tutti indistintamente. Ma più necessaria, perché non essendo più la solidarietà data meccanicamente attraverso l’adesione riflessiva di ciascuno ad uno stesso modo di pensare, la coesione dell’insieme sociale diventa qualcosa che va mantenuto appositamente attraverso dei meccanismi che vincolino ciascuno, nonostante le sue differenze, alla cooperazione. È nelle società complesse che si dà massimamente secondo Durkheim il rischio dell’anomalia. Lo sviluppo originario delle norme morali si ha, per Durkheim, all’interno della sfera religiosa. Le forme elementari della vita religiosa è l’ultimo dei grandi libri di Durckheim. In questo libro le tesi principali sono le seguenti: - L’elemento fondamentale della vita religiosa è la distinzione tra sacro e profano. - La vita religiosa si esprime in credenze ed in riti. - La funzione principale delle credenze e dei riti religiosi è quella di fondare e preservare gli ideali collettivi di una società. - Ciò che gli uomini hanno di volta in volta adorato attraverso i loro culti è essenzialmente la potenza trascendente della società stessa. Le credenze religiose attribuiscono in altri termini ad una potenza estranea degli attributi che sono propri della società. Le forme concrete delle pratiche e delle credenze religiose variano nel tempo, ma in tutte vi è qualcosa di comune. È evidente che Durkheim non condivide la spiegazione delle religioni che è fornita dai fedeli delle religioni stesse. Egli critica le religioni, mostrando che esse rappresentano una sorta di proiezione fuori dal mondo umano di qualche cosa che invece è essenzialmente umano. Egli ritiene che la società sia giustamente l’oggetto di una sacralizzazione nella misura in cui essa rappresenta qualche cosa di effettivamente trascendente. Riconosce in modo estremamente esplicito la funzione delle religioni per il sostegno delle norme morali che garantiscono la coesione sociale. Ogni società si fonda su delle credenze. Durkheim parla di una teoria dell’effervescenza sociale: vi sono momenti nella vita collettiva in cui gli uomini, riuniti assieme, sviluppano un’energia e una passione che li rendono capaci di affermare e di proiettare fuori di sé delle credenze a cui attribuiscono il carattere di rilevazioni di una potenza superiore. Riguardo allo studio di Durckheim sulle religioni c’è un paradosso, questo consiste nel riconoscimento dell’importanza della religione per il fondamento della morale, e nel contemporaneo sviluppo di una critica scientifica delle religioni che di fatto finisce per delegittimarle agli occhi dei fedeli. Una volta spiegato che la religione non è quello che i fedeli credono, è piuttosto difficile mantenere la sua forza. Ciò che chiamiamo religione è un insieme di pratiche e di credenze che ha a che fare con i grandi enigmi che circondano l’uomo. Si tratta di enigmi che riguardano la dimensione del senso: la sfida che pongono è una sfida alla nostra capacità di attribuire un senso alla vita. Sociologia della conoscenza Nell’introduzione a “le forme elementari della vita religiosa” Durkheim sviluppa il nucleo fondamentale di una sociologia della conoscenza. Egli constata che la teoria della conoscenza proposta dai filosofi tende a polarizzarsi in due posizioni. Da un lato, vi è chi ritiene che la conoscenza si sviluppi direttamente a partire dalle sensazioni, che vengono coordinate e sistematizzate nel corso dell’esperienza. Dall’altro vi è chi – come Kant - ritiene che la conoscenza nasca dall’incontro dei dati sensoriali con un apparato intellettuale che è dato a priori, con categorie dell’intelletto che sono cioè innate e universali. La soluzione di Durckheim al problema della conoscenza si situa come uno sviluppo della seconda di queste posizioni, quella di Kant. Durkheim osserva che indubbiamente le sensazioni vengono coordinate dal soggetto entro un apparato di categorie. Tali strumenti cognitivi non derivano dall’esperienza: sono loro piuttosto che organizzano l’esperienza stessa. Le categorie del pensiero sono a priori, cioè sono date e non sviluppate dal singolo. Esse sono sociali: si costituiscono attorno all’interazione fra gli uomini e fra gli uomini e il loro ambiente e vengono trasmesse attraverso la cultura. Durkheim afferma che i modi in cui conosciamo il mondo hanno origine sociale. Ne consegue che, al variare della società, anche le forme del conoscere variano. Mentre Marx attribuisce il ruolo fondamentale nella creazione delle strutture della conoscenza ai modi concreti in cui le società organizzano la produzione, Durkheim attribuisce il ruolo fondamentale ai meccanismi collettivi che presiedono alla formazione del pensiero morale. I durkheimiani Attorno alla sua rivista Durkheim raccolse un gran numero di collaboratori che ne continuarono l’opera. Fra gli allievi più noti ricordiamo Halbwachs e Mauss. La fama di Halbwachs è legata alle sue ricerche sulla memoria collettiva. Al centro delle sue riflessioni vi è l’osservazione che la memoria collettiva è un elemento costitutivo dell’identità di ogni gruppo, è dunque un fattore della sua coesione. Osserva che le immagini del passato che la memoria conserva non sono fotogrammi statici ma selezioni, ricostruzioni, interpretazioni del passato. Rivisitando periodicamente il proprio passato ogni gruppo mantiene ma anche riformula la propria storia, e con essa la nozione della propria identità. Nel lavoro interpretativo della memoria collettiva contano gli interessi e i progetti del presente. In una società complessa convivono più raggruppamenti sociali, di conseguenza, essa tende ad avere una molteplicità di rappresentazioni del passato, che possono essere parzialmente in competizione fra loro. Ogni regime totalitario tende a confiscare la memoria di una società manipolando le immagini del passato in modo tale da occultare i fatti che contrastano con la versione del passato ufficiale. Si tratta di osservazioni attraverso cui Halbwachs intravede il ruolo che la censura e la ricostruzione forzosa della memoria sociale ha nei regimi totalitari negli stessi anni in cui egli scrive. Mauss era nipote e stretto collaboratore di Durckheim, e a sua volta straordinaria figura di scienziato sociale. La sua opera più celebre è il saggio sul dono. Mauss analizza le modalità dello scambio fra clan in alcune tribù indiane del nord - ovest d’America, il potlac. Il potlac è una sfida festiva, in cui un capoclan offre all’altro dei doni, a cui l’altro è tenuto a rispondere con doni altrettanto notevoli o superiori. Lo scambio ha anche un valore economico, il surplus della produzione di ciascun gruppo viene in parte consumato nella testa e in parte effettivamente scambiato, realizzando così una transazione economicamente funzionale. L’importanza del dono nelle società premoderne è davvero notevole: esso adempie funzioni economiche ma le adempie inserendosi in un processo che consolida i rapporti reciproci tra i gruppi e contribuisce a definire le posizioni di prestigio relative. È un fatto sociale totale, un fenomeno che ingloba molteplici dimensioni. GEORG SIMMEL Ferdinand Tonnies La sua opera è assai ricca, fra l’altro egli fu con Weber e Simmel uno dei fondatori dell’associazione tedesca di sociologia, e ne fu a lungo il presidente. Il suo posto nella storia del pensiero sociologico è legato a una delle sue prime opere, comunità e società, e alla distinzione che egli vi propone tra i concetti di comunità e società. Comunità e società sono per Tonnies modelli di organizzazione sociale. La comunità è un gruppo stabile nello spazio e nel tempo, radicato in un territorio, all’interno del quale gli individui hanno fra loro rapporti personali e diretti. Si tratta di una forma associativa caratterizzata da un elevato grado di chiusura verso l’esterno e di staticità delle norme. La comunità è una forma associativa entro cui gli uomini orientano le proprie azioni e i propri comportamenti sulla base di tradizioni fortemente radicate, e a cui sono emotivamente legati da sentimenti di lealtà e di appartenenza. Nelle parole di Tonnies, è una forma associativa fondata su una sorta di fusione spontanea delle volontà. La partecipazione di ciascun membro della comunità alla vita comune è basata sui sentimenti molto più che sulla ragione, e quasi istintiva: non è il frutto di una scelta, ma qualcosa che è dato, esattamente al modo in cui non si sceglie di nascere in una certa famiglia, ma se ne fa parte naturalmente. La famiglia è in effetti un caso di formazione associativa comunitaria, è la comunità per eccellenza. Descrivendo i caratteri della comunità, Tonnies sembra avere in mente l’immagine di un paese, di un villaggio dell’Europa tradizionale fortemente integrato: entro la comunità i ruoli di ognuno sono chiaramente definiti la cultura è fortemente omogenea, e la mobilità di ciascuno è limitata. La società, invece, è una forma di associazione più vasta della comunità, all’interno della quale gli individui godono di ampie possibilità di movimento, e dove essi non hanno in generale fra loro rapporti diretti, bensì rapporti impersonali mediati dall’adesione razionale a delle regole statuite, dalla subordinazione ad istituzioni espressamente regolamentate e dall’utilizzo di mezzi di scambio astratti, come il denaro. La presenza del denaro è importante per la distinzione tra comunità e società. Nella comunità la vita economica conosce divisione del lavoro e scambi di prodotti e di servizi, ma il mercato non è la forma principale della regolazione di questi scambi, che sono invece condotti in base a regole di reciprocità delle prestazioni o di redistribuzione. La diffusione del denaro come mezzo generalizzato degli scambi è tipica della società. Il pensiero di Tonnies è marcato da una certa nostalgia per le forme associative di tipo comunitario. Lo sviluppo della società si realizza attraverso una distruzione progressiva delle forme di vita comunitarie, e in ciò Tonnies avverte una perdita che riguarda la ricchezza dei vincoli affettivi tra le persone e le loro certezze morali. Georg Simmel Simmel nasce a Berlino nel 1858. Non scrisse solo opere di sociologia, ma anche e soprattutto di filosofia e di estetica. Le sue opere più importanti dedicate alla sociologia sono: la differenza sociale, filosofia del denaro, sociologia, e problemi fondamentali della sociologia Tra i suoi allievi ricordiamo Robert Park. Diversamente da altri, Simmel non ha fondato alcuna scuola. Egli si riteneva essenzialmente un filosofo, ma per un lungo periodo della sua vita si dedicò con passione al progetto di fondare la sociologia come branca autonoma del sapere. Oggi Simmel è considerato come il più contemporaneo degli autori classici. La sua sociologia ha al suo centro l’interazione sociale. Società e sociologia nel pensiero di Simmel L’oggetto della sociologia e la società. Per certi versi - scrive Simmel - la società non esiste. Simmel osserva preliminarmente che il pensiero umano opera sempre e comunque per astrazioni, Ciascuna delle quali e corrispettiva ad un certo punto di vista, o ad una certa distanza dall’oggetto su cui riflette. Noi assumiamo che l’individuo rappresenti un’unità: il che è corretto da un punto di vista, ma non lo sarebbe se lo osservassimo da una distanza diversa da quella usuale. La società è un oggetto del pensiero che emerge considerando insiemi di individui da una certa distanza. È la distanza da cui ciascuno di noi si colloca quando parla dei greci, o dei cattolici, o del movimento operaio e via dicendo. Queste entità collettive sono costituite da individui, che ovviamente, visti da vicino, hanno grandi differenze tra loro. Ma, utilizzando questi concetti, noi operiamo delle astrazioni rispetto alle qualità personali di tutti questi individui, e cogliamo certe caratteristiche che li accomunano, caratteristiche che rendono plausibile ed utile il concetto stesso che usiamo. La società è un concetto di questo genere, esso è generato da una prospettiva. Il concetto di effetto di reciprocità è il concetto fondamentale del pensiero di Simmel. Il termine indica una concezione della realtà come rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi. Ogni fenomeno è connesso con innumerevoli altri in un’infinita rete di causazioni, ciascuno retroagisce anche su quelli che appaiono esserne causa. Alla nozione di causa si sostituisce quella di corrispondenza, di influenza scambievole tra diversi ordini di fenomeni. Oggetto della sociologia sono dunque le forme delle relazioni di influenza reciproca che sussistono tra gli uomini. La società emerge solo e nella misura in cui più individui entrano in azione reciproca. Con le parole di Simmel: società è il nome con cui si indica una cerchia di individui, legati l’un l’altro da varie forme di reciprocità. La società e interazione. Alla nozione di reciprocità va affiancato il secondo concetto fondamentale della sociologia di Simmel: quello di sociazione. La sociazione è il processo attraverso cui una forma di azioni reciproche si consolida nel tempo. Vi sono infinite azioni reciproche, in ognuna di queste relazioni ciò che ciascuno fa ha influenza sull’altro, e viceversa: ci si influenza scambievolmente. Egli non ritiene che l’oggetto della sociologia, cioè la società, sia intrinsecamente superiore all’individuo. Individui e società esistono parimenti: è la diversità dello sguardo di chi osserva che mostra ora gli uni, ora l’altra. Simmel osserva che è difficile non riconoscere un potenziale dissidio tra l’individuo e la collettività. Da un lato, infatti, ogni collettività tende ad imporsi al singolo richiedendogli l’espletazione coordinata con gli altri di certi compiti necessari per la sopravvivenza della società nel suo insieme. In questo senso, essa vincola la libertà individuale. Dall’altro lato, l’individuo può tuttavia ritenere che il suo fine non sia quello di cooperare alla sopravvivenza della società, ma quello di sviluppare sé stesso e di realizzare degli obiettivi che non hanno a che vedere con ciò che la società potrebbe aspettarsi da lui. Moda Simmel si rende conto che la densità della popolazione negli immensi agglomerati della vita urbana moderna rende nei fatti difficile agli individui vivere all’altezza delle esigenze poste dall’individualismo qualitativo. Questo individualismo si risolve in una parodia di sé stesso, i tratti dell’eccentricità e della ricerca ossessiva di segni distintivi o di novità stupefacenti, specie nei ceti più colti delle grandi città, sono caratteristici di un tentativo di costruzione di una personalità che tende a volte a svuotarsi di senso, a ridursi alla mera collezione arbitraria di segni esteriori. Simmel scrive il saggio sulla moda nel 1905. Nella moda si esprime in modo perfetto la compenetrazione in un fenomeno unico di due spinte contraddittorie: la distinzione da un lato e l’imitazione dall’altro. La prima tendenza esprime l’esigenza di differenziarsi, di affermare la nostra singolarità rispetto agli altri, la seconda esprime il bisogno di affermare la nostra partecipazione ad una cerchia sociale che riconosciamo autorevole in fatto di stile. Nella decisione di seguire una moda il singolo afferma la propria volontà di distinguersi da tutti coloro che non la seguono, ma, nello stesso momento, afferma anche quella di assomigliare a coloro che ne sono i rappresentanti. Imitando la moda dei gruppi dotati di prestigio maggiore, chi è più in basso nella scala della società può far mostra di appartenervi, e tuttavia la diffusione della moda stessa finirà per vanificare il tentativo di utilizzarla per acquistare distinzione. Non appena la moda ha completato la sua penetrazione, non appena cioè tutti quanti sono resi partecipi di ciò che prima facevano solo alcuni, non la si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte proprio perché annulla la diversità. MAX WEBER Introduzione Weber è probabilmente lo studioso che ha più influenzato la sociologia del ventesimo secolo. Nasce in Germania nel 1864. Fu un membro di una famiglia dell’alta borghesia tedesca, intrattenne rapporti con i principali uomini politici e intellettuali del suo tempo. La formazione economica è centrale nel suo pensiero. Partecipa alla Fondazione dell’associazione tedesca di sociologia. Tra le sue opere più celebri abbiamo: l’etica protestante, lo spirito del capitalismo e economia e società. Nella sua biografia, un elemento importante è costituito dall’esaurimento nervoso che lo costrinse ad abbandonare ogni attività intellettuale per quattro anni. Gran parte del pensiero di Weber è uno sforzo teso a riprendere i problemi formulati da Marx sulla genesi e le caratteristiche del modo di produzione capitalistico, Weber propone soluzioni parzialmente differenti. Weber si è occupato essenzialmente di tre questioni: 1. Il problema del metodo delle scienze sociali e dei rapporti tra sapere scientifico e giudizi di valore. 2. Il problema della genesi, della specificità e del destino della civiltà occidentale moderna. 3. Il problema di una definizione sistematica e coerente dei concetti della sociologia. La sociologia come scienza comprendente Per Weber la sociologia deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di spiegarlo casualmente nel suo corso e nei suoi effetti. La sociologia è dunque una scienza che interpreta l’agire sociale. La sociologia per Weber è dunque una scienza comprendente una scienza il cui primo obiettivo è comprendere l’agire sociale. Comprendere un’azione vuol dire per Weber intenderne il senso, cioè interpretare il significato che quell’azione ha agli occhi della persona che la compie. Il concetto di senso è centrale in Weber. L’agire sociale che è oggetto della sociologia è infatti un agire dotato di senso. Per “agire” si deve intendere un atteggiamento umano se e in quanto l’individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Un agire è tale dunque se e in quanto vi è connesso un senso. Il senso soggettivo di un agire è il significato che all’agire stesso attribuisce chi compie l’azione. La possibilità che si dia comprensione distingue le scienze umane e sociali dalle scienze naturali. Il modello scientifico rilevante per altri scienziati è quello delle scienze naturali, per Weber non è così, nelle scienze naturali i fenomeni non sono agiti da soggetti che danno loro un significato, mentre, nelle scienze dell’uomo, lo scienziato ha a che fare con fenomeni che sono agiti da soggetti i quali attribuiscono loro un significato. Weber intende tutte le scienze sociali come scienze comprendenti, scienze che hanno per oggetto l’agire in quanto comportamento dotato di significato. La sociologia è una scienza orientata alla generalità, essa intende studiare le azioni sociali degli uomini in quello che esse hanno di tipico, cioè di ricorrente in più casi. La sociologia deve astrarre da infinite azioni singolari certe caratteristiche comuni, e produrre delle tipologie di fenomeni. La costruzione di tipi ideali è lo strumento principale della sociologia in questa direzione. La sociologia si propone dunque di comprendere l’agire. Inoltre essa si preoccupa di spiegare causalmente l’agire. Spiegare causalmente qualche cosa significa per Weber rintracciare un fenomeno che sia precedente nel tempo a quello che si intende spiegare, e rispetto a cui ciò che vogliamo spiegare sia logicamente un effetto che ne dipende. Significa cioè individuare una causa, un fenomeno che ha prodotto quello che vogliamo spiegare. L’idea di Weber è che una spiegazione causale perfettamente esaustiva, per i fenomeni umani, non sia mai rintracciabile. La molteplicità dei fattori che si combinano nel produrre ogni fenomeno del mondo umano e sociale è tale che una definitiva spiegazione causale è impossibile. Spiegare causalmente significa cercare pazientemente di rintracciare, per i fenomeni che si intende spiegare, le condizioni che sono sempre presenti quando essi si manifestano. La realtà sociale, dice Weber, è un tessuto a maglie infinitamente fitte ed infinitamente estese, non è mai possibile essere definitivamente certi di aver esaurito la ricerca sulle cause adeguate di qualsiasi fenomeno. Piuttosto che di cause Weber preferisce parlare di condizioni, o di influenze, o di insiemi di fattori. Concetto di idealtipo e fondamenti dell’agire sociale La sociologia è dunque una scienza che si occupa degli uomini. Essa non si occupa però di tutto l’agire, ma solo e specificamente dell’agire sociale. Per agire sociale si deve però intendere un agire che sia riferito all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. Non ogni forma di agire, secondo Weber, è sociale, è sociale quell’agire che è orientato all’atteggiamento di altri. L’agire sociale può essere di diversi tipi. Weber parla di idealtipi o tipi ideali, cioè di tipi costruiti idealmente. Un tipo ideale è una costruzione del pensiero. È uno strumento conoscitivo di cui lo scienziato sociale si dota per comprendere il senso delle azioni. Il tipo ideale è lo strumento di generalizzazione. È una sintesi, un’astrazione, che è utile per ridurre l’infinita varietà dei fenomeni a un insieme di categorie maneggevole. L’utilità euristica di un tipo ideale non è mai definibile a priori, la si verifica nel corso delle analisi concrete. Il concetto di tipo ideale ricorre in tutta l’opera di Weber. Vi sono diverse specie di tipi ideali in Weber. Ad un primo livello, sono tipi ideali determinate formazioni storiche colte nella loro individualità. Ad un secondo livello sono tipi ideali concetti come quelli di burocrazia, oppure i tipi di potere, qui l’idealtipo non coglie un’individualità storica, ma un tipo di fenomeni che si può presentare in formazioni storiche diverse. Ad un livello ancora più astratto, infine, vi sono tipi ideali come i tipi di azione sociale, tipi generalissimi, che corrispondono ad un tentativo di rendere interpretabile e confrontabile l’agire di un numero elevato di casi. Esistono quattro tipi di agire sociale: 1. Agire razionale rispetto allo scopo 2. Agire razionale rispetto al valore 3. Agire affettivo 4. Agire tradizionale Ognuno di questi tipi di agire corrisponde a un diverso tipo di senso che l’azione ha per il soggetto che la compie. - L’agire razionale rispetto allo scopo e il tipo di agire nel quale il soggetto agisce in vista di un fine determinato, e calcola i suoi sforzi in modo razionale per raggiungere tale fine. Il soggetto ha una chiara visione del suo obiettivo, la sua azione serve a conseguirlo, utilizzando le risorse e gli strumenti a disposizione secondo un calcolo. - L’agire razionale rispetto al valore è un tipo di agire che è orientato dalla credenza nell’incondizionato valore in sé di un comportamento in quanto tale, a prescindere da qualunque considerazione relativa alle conseguenze di tale comportamento. In questo caso il senso dell’agire non rimanda ad uno scopo da raggiungere ma risiede nel valore in sé dell’agire stesso (religione, etica, estetica). - L’agire affettivo è un agire il cui senso è legato ad un particolare affetto o stato d’animo del soggetto. Sono azioni dettate non da un fine né dal riferimento ad un valore, ma dalle emozioni o dai sentimenti. - L’agire tradizionale è l’agire dettato da un’abitudine acquisita. In questo caso il soggetto non compie l’azione in modo riflessivo né segue un impulso momentaneo, ma agisce sulla base di una consuetudine (salutarsi). Si tratta di tipi ideali di agire, una schematizzazione, un’astrazione rispetto alle infinite azioni possibili. Spesso non è agevole distinguere se un’azione sia di un tipo oppure di un altro, poiché diversi orientamenti di significato si mescolano. Nel mondo moderno, secondo Weber, si assiste ad un crescente predominio dell’agire razionale rispetto allo scopo. Le azioni degli uomini tendono cioè a farsi sempre più strumentali, e il calcolo relativo al perseguimento di fini diviene l’atteggiamento mentale predominante. La frequenza di azioni orientate esclusivamente a valori in sé decade, così come in qualche misura decresce il peso relativo dei modi di agire esclusivamente affettivi o passionali e di quelli tradizionali. Nei termini di Weber, il crescente predominio di forme di agire di tipo razionale rispetto allo scopo corrisponde allo sviluppo di un processo di razionalizzazione. Il concetto di razionalizzazione ricorre costantemente nell’opera di Weber, con significati non sempre univoci, in questo caso, possiamo intendere tale concetto proprio come il crescente predominio di forme di agire orientate razionalmente rispetto allo scopo. Capitalismo Dal punto di vista della sua organizzazione economica, la società occidentale moderna ha il suo perno nel capitalismo. Weber riprende questo termine da Karl Marx, tuttavia gli attribuisce significati differenti. Un atto economico capitalistico è per Weber un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno formalmente pacifiche. Esso non è uguale dunque al semplice desiderio di accumulare denaro e non è uguale neppure alla rapina . Esso si basa su aspettative di guadagno formalmente pacifiche e, soprattutto, disciplinate razionalmente e reiterate nel tempo. L’agire economico che chiamiamo capitalistico è un agire specificamente orientato all’aumento costante del capitale. è che, nel corso della ricerca, egli si sforzi di essere consapevole dei propri orientamenti soggettivi e sappia, per così dire, mettere tra parentesi i propri riferimenti di valore. Deve evitare cioè di emettere dei giudizi di valore rispetto ai fenomeni che studia. L’oggettività è il frutto di una disciplina, tale disciplina si chiama avalutatività. Categorie della sociologia weberiana La relazione sociale si definisce per Weber subito dopo la nozione di agire sociale, esiste infatti relazione sociale quando, essendovi più attori sociali compresenti, il senso dell’azione di ciascuno si riferisce all’atteggiamento dell’altro, in un modo tale che le azioni sono reciprocamente orientate fra loro. Individui in relazione costante fra loro possono costituire comunità e società. La distinzione tra comunità e società è posta da Weber in questi termini: un gruppo di individui costituisce una comunità “se, e nella misura in cui, la disposizione sociale poggia su una comune appartenenza soggettiva sentita da parte degli individui che vi partecipano”. Costituisce invece una società “se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una convergenza di interessi, o su un legame di interessi motivato razionalmente”. Comunità e società sono per Weber tipi ideali di relazioni sociali: in un caso la relazione si basa sul sentimento di una comune appartenenza, nell’altro su una convergenza di interessi. La comunità è un tipo di relazione sociale venata da una forte dimensione affettiva, mentre la società è una relazione sociale fondata razionalmente sulla considerazione dell’interesse dei soggetti a prendervi parte. Tipicamente la società può poggiare su stipulazioni, cioè su impegni reciproci presi esplicitamente dai suoi membri. Comunità e società sono per Weber degli idealtipi, cioè dei concetti astratti, nei casi concreti, molto spesso le relazioni sociali hanno in parte il carattere di comunità, e in parte il carattere di società. Comunità e società sono forme di agire sociale in cui l’accento è posto sull’integrazione dei membri del gruppo. Ma vi possono essere anche relazioni sociali di tipo opposto, la lotta è in particolare un tipo di relazione sociale in cui ciascun attore non mira ad un’integrazione con l’altro, ma alla sua sopraffazione. Le relazioni sociali possono essere aperte oppure chiuse. Si dicono aperte se la partecipazione all’agire sociale reciproco che le costituisce è possibile per chiunque. Si dicono chiuse se vi sono degli ordinamenti che ne limitano l’accesso solo a determinati soggetti, in possesso di certi requisiti. Un insieme di relazioni sociali chiuse corrisponde all’esistenza di un raggruppamento sociale. Se un raggruppamento ha la possibilità di minacciare il ricorso alla forza fisica per imporre il rispetto di certe regole della vita in comune, questo gruppo è detto da Weber raggruppamento politico, un esempio è lo Stato. Forme di legittimazione del potere La violenza è resa legittima solo da una cosa, la validità dell’autorità che la impone. L’autorità è l’espressione di un potere legittimo. Nel senso più generale del termine, il potere corrisponde alla capacità di un soggetto di produrre degli effetti, ovvero di intervenire con efficacia sulla realtà. Quando il potere di qualcuno ha direttamente per oggetto altri esseri umani, possiamo parlare di potere sociale, questo è la capacità di un soggetto di produrre effetti su altri. È all’interno del potere sociale che si situa il tipo di potere a cui Weber è interessato, il potere politico. Il potere politico è un sottoinsieme del potere sociale. Esso coincide con il potere di governo all’interno di un dato raggruppamento politico. Questo potere può basarsi meramente sulla forza, oppure invocare qualche principio di legittimità. Nel primo caso vengono imposte delle regole che convengono agli interessi o alle convinzioni solo di alcuni. Nel secondo, le regole si basano su un criterio condiviso e vengono quindi ritenute legittime. Weber distingue due concetti potenza e potere. Il concetto di potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà. Il concetto di potere si deve intendere invece come la possibilità che un comando, che abbia determinati contenuti, trovi obbedienza presso certe persone. La differenza tra potere e potenza rimanda a differenti situazioni, nel caso della potenza, chi la subisce si trova costretto a seguire la volontà dell’altro. Nel caso del potere, invece, la situazione è quella di qualcuno che obbedisce ad un comando perché ritiene legittimo il potere da cui il comando deriva. Se il potere è definito come la possibilità che dei comandi incontrino obbedienza, il problema seguente è quello di comprendere secondo quale senso l’obbedienza sia accordata, cioè comprendere come un comando possa essere considerato legittimo. Weber distingue tre tipi di legittimazione del potere: 1. La legittimità tradizionale, quando poggia sulla credenza nel carattere sacro di tradizioni ritenute valide da sempre, il potere di chi comanda riceve la sua legittimità dal fatto di provenire dal passato. 2. La legittimità di tipo carismatico, per carisma si intende un segno di elezione che compete, come una qualità personale, a un individuo particolare. È questo il tipo di legittimità che spiega l’obbedienza che ottengono i profeti o i grandi condottieri. Weber è dell’idea che il carisma sia la più grande forza rivoluzionaria potenziale della storia. 3. La legittimità di carattere razionale legale. Essa poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e nel diritto di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi. In questo caso l’obbedienza è prestata a delle leggi, che sono impersonali, cioè costituite da regole astratte che valgono per tutti in modo uguale. Questa è la forma di legittimazione del potere più tipica delle società moderne. Burocrazia Ad ogni forma di potere legittimo corrispondono forme tipiche di apparati amministrativi. La forma tipica di apparato amministrativo connessa al potere razional legale è quella della burocrazia. Per burocrazia si intende l’organizzazione permanente della cooperazione tra un grande numero di individui, ciascuno dei quali svolge una funzione specializzata. Più in particolare, in rapporto allo stato moderno, la burocrazia consiste in un apparato di individui espressamente organizzato per l’espletazione di compiti amministrativi, tali individui sono detti funzionari, ed esercitano le funzioni connesse alla propria carica sulla base di procedure standardizzate e obbedendo ad un’autorità impersonale. La burocrazia dello Stato moderno si fonda sui seguenti principi: 1. L’esistenza di servizi e di competenze rigorosamente definiti da leggi o regolamenti 2. Una gerarchia delle funzioni 3. La separazione tra la funzione e l’uomo che la svolge, cioè il criterio della non proprietà personale della carica. 4. Il reclutamento dei funzionari sulla base del possesso di una formazione specifica e sulla base di esami 5. La retribuzione del funzionamento mediante un salario erogato dallo stato Stratificazione sociale Per stratificazione sociale si intende in sociologia il modo in cui in una società gli individui e i raggruppamenti di individui sono differenziati e ordinati gerarchicamente. Il concetto allude dunque a certe disuguaglianze che riguardano le risorse cui ciascuno può accedere. Per Weber in ogni società umana coesistono diversi ordinamenti, che corrispondono a diversi punti di vista da cui la società può essere considerata, in particolare, esistono e vanno analiticamente distinti un ordinamento economico, un ordinamento culturale e un ordinamento politico. Una classe è per Weber un insieme di individui che condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni economici, cioè dei beni e servizi finalizzati alla soddisfazione di bisogni relativi a prestazioni di utilità. Nella società occidentale moderna, la classe si definisce specialmente in relazione al mercato. Tipicamente, gli individui che appartengono alla medesima classe hanno interessi economici simili. All’interno dell’ordinamento culturale la stratificazione si esprime attraverso i ceti. La nozione di ceto è uno dei contributi più originali e importanti di Weber alla teoria sociologica della stratificazione. Weber definisce situazione di ceto un effettivo privilegio positivo o negativo nella considerazione sociale. Tale privilegio positivo o negativo può essere fondato sul modo della condotta della vita, sulla specie di educazione ricevuta, sul prestigio o sul disprezzo derivante dalla nascita, o su quello derivante dalla professione o dall’appartenenza a un gruppo in cui si entra in virtù di certi requisiti specifici. Un ceto si definisce in altre parole come un insieme di individui che condividono un certo status riconosciuto collettivamente. Quanto alla stratificazione politica essa si realizza nelle forme degli apparati politici e amministrativi di un gruppo sociale, cioè nelle cariche che vi possono ricoprire. Ma si realizza anche nella possibilità che i membri di un determinato partito o di una determinata fazione politica prevalgano su altri risorse del gruppo. Razionalizzazione e disincanto del mondo Il processo di razionalizzazione è tipico della modernità e il disincanto del mondo che vi è connesso. Quello del processo di razionalizzazione è, un concetto complesso. Il processo di razionalizzazione è inteso come l’elemento essenziale della vita moderna, corrisponde alla conquista di una specifica efficienza e produttività delle procedure che sono applicate per dominare tecnicamente i diversi aspetti dell’esistenza. Corrisponde anche al crescente predominio della fiducia nel fatto che tutte le cose, in linea di principio, possano essere dominate dalla ragione. Lo sviluppo di questa fiducia comporta un disincanto nel mondo, nel senso che progressivamente viene espulso dall’atteggiamento fondamentale degli uomini ogni riferimento a spiegazioni e a comportamenti magici, animistici o religiosi. Il tipico soggetto moderno si aspetta che tutto possa essere spiegato razionalmente. Questo atteggiamento tende a sostituire all’antico senso del mistero, e al sentimento di una fondamentale complicità tra l’uomo e la natura, un radicale disincanto e un atteggiamento esclusivamente strumentale verso la natura. ANTONIO GRAMSCI È un membro di spicco del partito comunista italiano, quando il fascismo mise fuorilegge l’opposizione, venne arrestato, passò il resto della sua vita in carcere. Fu qui che scrisse i suoi quaderni del carcere. A Gramsci si fa risalire la definizione di alcuni concetti particolarmente usati, come fordismo, società civile ed egemonia. Il termine fordismo fa riferimento alle trasformazioni del modo di produzione capitalistico avviate dalle innovazioni di Ford nelle sue fabbriche di automobili. È un termine che Gramsci mutuò dalla letteratura industriale americana, nelle sue mani, diventa una nozione utile a descrivere gli sviluppi del capitalismo aggiornando, in un certo senso le analisi di Marx. Questi sviluppi riguardarono due aspetti dell’organizzazione del lavoro. Il primo è direttamente legato alla produzione, utilizzando i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro teorizzati da Taylor, Ford aveva modificato il lavoro dei suoi operai scomponendole l’attività in minuscoli compiti specifici. Si trattava di una razionalizzazione della produzione, la produttività complessiva del lavoro veniva aumentata. Il secondo aspetto delle trasformazioni introdotte da Ford mirava ad alzare il livello dei salari. Questo aveva una doppia ragione, da un lato si trattava di ricompensare i lavoratori per la disciplina a cui si sottoponevano e di incentivarne la fedeltà all’azienda, dall’altro si trattava di assicurare un ampio mercato per i beni prodotti favorendo lo sviluppo di uno strato di piccoli consumatori. Tutto questo comporta per Gramsci delle modificazioni rilevanti nel modo di produzione. Il processo lavorativo è controllato più strettamente e il lavoro stesso diventa più produttivo, contemporaneamente la produzione delle merci si accresce, si standardizza, si rivolge ad un nuovo pubblico di consumatori. Accedendo al mercato in virtù dell’aumento dei propri salari, la classe operaia viene a partecipare all’aumento di benessere che lo sviluppo delle forze produttive consente. La capacità di diffondere all’interno di tutta la società una cultura congruente con i propri valori ed i propri interessi è la capacità di esercitare un’egemonia sulla società. Il concetto di egemonia si situa all’interno di un quadro teorico che tende a rivalutare l’importanza e la relativa autonomia della sfera della cultura. All’interno della società capitalistica, le classi dominanti non esercitano il proprio potere soltanto con la coercizione, ma un adattamento generalizzato al sistema sociale, e dall’altro quella di sostenere il mercato invitando ciascuno al consumo. La pubblicità è il cuore della comunicazione. In questo processo, la cultura si riduce a merce essa stessa, perdendo il suo significato. Crisi dell’esperienza e semi cultura La critica della cultura di massa è stata sviluppata nell’ambito della scuola di Francoforte da Lowenthal. Egli ne sottolinea soprattutto la funzione di promuovere la sottomissione del singolo alle gerarchie esistenti, scaricando nell’immaginario i propri desideri frustrati, il singolo rinuncia a prendere atto nella realtà della divergenza tra la libertà cui aspira e l’ordine sociale in cui è immerso. Benjamin si avvicinò solo tardi all’istituto per la ricerca sociale, fu, più di ogni altra cosa, un critico letterario. Nel testo sull’opera d’arte Benjamin propone quella che sarebbe diventata una delle sue tesi più note, la perdita di quell’aura di unicità dell’opera d’arte che consegue alla possibilità della sua riproduzione. La fotografia e il magnetofono permettono a ciascuno di ammirare un dipinto o di ascoltare una sinfonia senza spostarsi da casa, la fruizione dell’opera in questo modo si allarga, ma nel contempo si trasforma radicalmente. Recarsi davanti a una statua pone il soggetto di fronte alla sensazione di qualcosa che è unico, mentre vedere la statua in una fotografia è invece, fruire di eventi riprodotti e riproducibili all’infinito. Benjamin non era del tutto ostile a queste trasformazioni. Benjamin osserva che quanto più la coscienza deve essere continuamente all’erta nell’interesse della difesa degli stimoli e quanto maggiore è il successo con cui essa opera, tantomeno le impressioni penetrano nell’esperienza. In altre parole, la crisi dell’esperienza è data innanzitutto dal fatto che le condizioni della vita moderna ci costringono a trattenere le impressioni ai margini della nostra vita psichica, le padroneggiamo ma non le lasciamo sedimentare nel profondo. L’esperienza in senso proprio, scrive Benjamin, è una sorta di tradizione che il soggetto costruisce entro sé stesso, è un accumulo è una ricorrente rivisitazione dei materiali della sua vita. È l’espressione di una continuità del soggetto che, nel riappropriarsi di ciò che ha vissuto, diventa capace di raccontare a sé stesso la propria storia. La sterilizzazione delle impressioni che è favorita dalla vita moderna corrisponde per converso all’incapacità di percepirsi come dotati di una continuità interiore. La crisi dell’esperienza corrisponde a una preferenza crescente per le informazioni a scapito di forme di comunicazione più antiche, come la narrazione. Ehi il motivo della fine della capacità di narrare non sta solo nel carattere frettoloso della vita moderna, sta piuttosto nella diffusione di porsi di fronte alla vita come qualcosa che abbia una trama. Vogliamo essere al corrente di ciò che accade nel mondo, i mezzi di comunicazione c’è ne danno la possibilità. Non vogliamo più ascoltare le storie, ma avere informazioni che sono frammenti di sapere isolati gli uni dagli altri. In un saggio degli anni 50, Adorno ritornerà su questo tema parlando della cultura contemporanea come di una semi cultura. La cultura è la cultura degradata a patrimonio di informazioni, per il semicolto. La semi cultura è una cultura che ha perduto le sue funzioni. I beni simbolici di cui la cultura è costituita vengono consumati per svago o per essere usati come segni di prestigio sociale. È come se la vita scorresse senza essere compresa, senza che la cultura servisse agli uomini a rendersi conto di ciò che attraversano, a chiedersi il senso del proprio essere storico e del proprio posto nel mondo. Habermas L’autore principale di quella che è stata chiamata la seconda generazione della scuola di Francoforte è habermas. La sua notorietà arriva con storia e critica dell’opinione pubblica, il libro riguarda il concetto di sfera pubblica, dalla sua nascita fino alle sue trasformazioni recenti. La sfera pubblica è uno spazio di discorsi e di pratiche discorsive pubblicamente accessibili. Non si riferisce a ciò che è pubblico in senso istituzionale, bensì a uno spazio in cui sono i privati cittadini a incontrarsi, o informarsi e a discutere di ciò che gli concerne collettivamente. In questo spazio, i cittadini di discutono di politica liberamente, razionalmente e tra pari, affiancando e controllando in tal modo le azioni dei propri governi. La sfera pubblica è dunque il luogo in cui si forma l’opinione pubblica e in quanto tale è cruciale per il funzionamento di una società democratica. Si tratta di uno spazio critico sorto grazie alla borghesia nei circoli e nei caffè del 700. Successivamente però lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa lo ha trasformato, secondo Habermas la sfera pubblica ne viene colonizzata e perde le sue caratteristiche. Habermas riconosce che gli uomini sono sempre legati gli uni agli altri dalla ricerca di una comprensione reciproca che si realizza mediante la lingua, quest’ultima è un prerequisito ineliminabile della riproduzione della vita sociale. Habermas associa al lavoro e all’interazione linguistica due diverse forme di razionalità, sviluppando la teoria dell’azione di Weber, afferma che la razionalità strumentale ha a che fare con il primo, mentre nella seconda si dispiega un tipo di razionalità differente, la razionalità comunicativa. Mentre la razionalità strumentale si evolve accumulando saperi di tipo tecnico, la razionalità comunicativa si evolve attraverso l’emancipazione progressiva dai vincoli che impediscono la comunicazione libera, autoconsapevole e responsabile fra gli uomini. La contraddizione della società moderna consiste nel fatto che essa ha prodotto le condizioni per lo sviluppo delle forme dell’agire orientato alla comprensione reciproca a un livello mai prima visto, ma nel contempo ha bloccato queste potenzialità tramite un’estensione straordinaria delle forme dell’agire strumentale e attraverso la manipolazione dei processi comunicativi da parte dei poteri politici, economici e militari. La modernità e in effetti per Habermas un progetto incompiuto. È l’ideale di una società libera dalla penuria e dalla discriminazione, in cui l’autorità sia trasparente e in cui ogni cittadino abbia il diritto, la capacità e la possibilità di partecipare al confronto pubblico su ciò che è bene per la collettività. Vita quotidiana e costruzione sociale della realtà Schutz, sociologia fenomenologica L’elaborazione della teoria della sociologia fenomenologica è legata al nome di Alfred Schutz. Schutz nasce a Vienna nel 1899, dopo una formazione complessa, nel 1939 emigra a New York dove insegnò fino all’anno della morte (1959). La sociologia fenomenologica è un indirizzo di pensiero che muove da una fusione della sociologia weberiana con la filosofia fenomenologica di Husserl. Da Weber, Schutz trae l’interesse per i problemi fondamentali della teoria sociologica, azione, senso, comprensione. Quanto a Husserl, Schutz ne mutuò diversi concetti, ma ne trae soprattutto l’idea stessa di fenomenologia. Nell’accezione Husserliana, la fenomenologia è lo studio di ciò che appare. In modo molto schematico, potremmo dire che l’idea fondamentale della fenomenologia è che il soggetto non è semplicemente nel mondo, ma costituisce il mondo: inconoscibile nella sua realtà ultima, questo si mostra alla coscienza unicamente all’interno delle categorie in cui essa lo inquadra. Schutz mostra che quella costruzione di tipi ideali che Weber intendeva come il metodo proprio dello scienziato sociale è in realtà qualcosa che noi tutti facciamo costantemente, ciò che accade nel mondo è sempre compreso da ciascuno secondo delle categorie che non sono altro che tipi ideali. Comprendere è, sempre, in realtà, collocare ciò che si comprende entro un tipo. Quello della tipizzazione è un concetto fondamentale. Tipizzare significa compiere un’astrazione, cioè ridurre la complessità del reale a un insieme di tipi di cose che possono succedere, di tipi di persone che si possono incontrare, di tipi di situazioni in cui ci si può imbattere. I tipi sono delle rappresentazioni della realtà, ne costituiscono una sorta di classificazione. In linea di principio, ciascuno di noi potrebbe definire delle tipologie di fenomeni come gli pare e piace ma, concretamente, ciascuno li definisce in accordo al modo in cui essi sono definiti nel mondo sociale al quale appartiene. È così perché l’utilità dei tipi consiste esattamente nel fatto che essi siano condivisi con gli altri. La loro funzione è quella di permettere l’interazione sociale. La vita di ciascuno di noi è fatta in buona parte di routine, cioè di corsi d’azione abitualizzati sui quali non ci fermiamo a riflettere, e costituire tipi di cose che accadono significa facilitarne il riconoscimento e permettere dunque alla routine di scivolare via senza intoppi. La sfera che ha Schutz più interessa è quella della vita quotidiana, ma è importante ricordare che non è l’unica sfera in cui trascorriamo la nostra esistenza. Schutz ricorda che vi sono diversi e vari ordini di realtà ognuno con il suo specifico e distinto modo di esistenza. A seconda della nostra attenzione, noi viviamo dunque in diverse realtà. La realtà per eccellenza è tuttavia quella dei sensi o delle cose fisiche, cioè la vita quotidiana, questa è il nostro ambiente ordinario, il tessuto di abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali pensiamo per la maggior parte del tempo. Ogni ordine di realtà ha le sue proprie caratteristiche, ma la caratteristica propria della vita quotidiana e questa, che al suo interno noi sospendiamo il dubbio che le cose possano essere diverse da come ci appaiono in relazione alle nostre routine. Nel mondo quotidiano noi agiamo dando per scontato tutto ciò in cui siamo immersi. La ragione di ciò è semplice, se dovessimo interrogarci continuamente su tutto quanto l’esercizio delle nostre attività quotidiane sarebbe impossibile. Il senso comune Il pensiero in cui siamo immersi nel quotidiano è il senso comune. Il senso comune è il pensiero dell’ovvio, funziona come una sorta di automatismo che preserva ciascuno dal dover continuamente risolvere di nuovo problemi che si sono già affacciati e hanno già trovato una risposta soddisfacente. Come scrive Schutz, pensare secondo il senso comune è pensare come al solito, senza farsi domande non strettamente necessarie alla continuità della nostra esistenza. Abbiamo detto che nella vita quotidiana noi sospendiamo ogni dubbio, Ebbene, il senso comune è una specie di meccanismo finalizzato a tenere i dubbi fuori dalla porta. Tenere lontani i dubbi significa dare per scontate le tipizzazioni di cui facciamo uso. Significa che le intendiamo come naturali e tuttavia non sono naturali, sono modi di interpretare la realtà che abbiamo appreso nella nostra esperienza e nella nostra socializzazione. La socializzazione è particolarmente importante. Osserva Schutz: “Solo una piccola parte della mia conoscenza del mondo ha origine nell’ambito della mia esperienza personale. La maggior parte è derivata socialmente, trasmessa a me dai miei amici, dai miei genitori, dai miei insegnanti e dagli insegnanti dei miei insegnanti.”. Il senso comune è dunque un insieme di ricette per vivere, fini, mezzi e situazioni ricorrenti della vita quotidiana vengono compresi in un modo che li ritrae come ovvi. Non sempre le ricette bastano. In un saggio dedicato alla figura dello straniero, Schutz ha mostrato come a volte si sia costretti ad affrontare problemi per i quali affidarsi al senso comune non è sufficiente. Lo straniero è qualcuno che si trova in una situazione in cui niente è ovvio, il quadro di cose che egli dava per scontate all’interno del gruppo di appartenenza, non vale più nel nuovo mondo a cui accede. Questo comporta una crisi, lo straniero deve abbandonare un senso comune e imparare a condividerne un altro. In realtà sono possibili diversi sensi comuni, all’interno di gruppi o di società differenti. I contenuti del senso comune sono veri perché funzionano, ma funzionano solo perché ciascuno li condivide. Il senso comune funziona come un sistema condiviso di credenze. Il senso comune è quello che ciascuno crede che tutti gli altri credano. In altre parole, è il risultato di una sorta di accordo, un accordo tacito, non esplicito, che si basa in parte sulla tradizione di ogni gruppo sociale e in parte è costantemente riprodotto e confermato dall’attività di ciascuno, ma è un accordo fondamentale. Senza questo accordo che permette di dare per scontata, all’interno di una cerchia sociale determinata, una certa interpretazione della realtà, il nostro mondo quotidiano precipiterebbe nel caos. Ma se il senso comune è un insieme di credenze, lo stesso vale per la realtà, ciò che intendiamo per realtà nella nostra vita quotidiana è ciò che noi crediamo reale. Questa credenza è possibile e funzionale solo se condivisa. In definitiva potremmo dire che, la realtà è una costruzione sociale. Reale e ciò che soggettivamente viene chiamato reale. Pensiero quotidiano e scienza Schutz si occupa della vita quotidiana perché non può farne a meno. Il suo problema di partenza è infatti come sia possibile che le scienze sociali forniscano interpretazioni adeguate del senso e delle azioni degli L’idea che Giddens ha delle strutture è quella di insiemi di istituzioni, cioè di forme organizzate di regole e ruoli, sono in un certo senso l’ossatura della società, ma non sono del tutto rigide, poiché dipendono dalla disponibilità degli uomini ad aderirvi. D’altro canto, hanno qualcosa dell’idea di sistema, il carattere sistemico delle strutture e di tutte le forme della vita associata è molto variabile, e queste conseguono raramente una effettiva stabilità dei propri confini. Il fatto che gli esseri umani sono attori significa sia che sono in grado di trasformare le cose, sia che possono astenersi dal farlo o farlo altrimenti da come ci si aspetta. La capacità di agire corrisponde sempre a una certa dose di potere. D’altro canto, significa anche che gli uomini sono dotati di intelligenza. Giddens sottolinea che gli esseri umani dispongono di conoscenza e di capacità riflessiva, tali risorse sono spesso implicite ma non di meno esistono, e fanno parte di ciò che uno scienziato sociale è tenuto a indagare. I modi in cui le persone interpretano la propria realtà producono conseguenze concrete. Tali conseguenze sono molto spesso inintenzionali, cioè non corrispondono a quello che gli attori intendono ottenere. Tutto ciò definisce il campo della sociologia come un’interpretazione di interpretazioni. Il ricercatore ha il compito di indagare come gli attori interpretino il proprio mondo e lo riproducano mediante le proprie pratiche nei contesti in cui agiscono, ma anche quello di proporre interpretazioni dell’agire che si combinano a loro volta con le conoscenze già in possesso degli attori rendendoli edotti dalle proprie responsabilità e delle conseguenze più ampie cui le azioni producono. Fra gli approcci esaminati quello a cui la teoria della strutturazione più si avvicina è il paradigma della costruzione sociale della realtà elaborato da Berger e Luckmann. L’avvento della modernità ha corrisposto secondo Giddens a una discontinuità nella storia che non ha precedenti. L’azione umana ha cambiato il pianeta in modo tale che la sopravvivenza della nostra specie non può più essere data per scontata. Si tratta di rischi artificiali, cioè condizioni di vulnerabilità e di incertezza che sono state prodotte dagli stessi meccanismi che hanno fin qui garantito il progresso. Nei termini di Giddens, la società contemporanea è definitivamente post tradizionale, essa mette potenzialmente in discussione ogni cosa. Giddens tuttavia ritaglia una posizione ottimista. Il futuro non è interamente nelle nostre mani ma la conoscenza può aiutare l’azione di individui e collettività a scegliere mano a mano le alternative capaci di conservare e sviluppare la vita. Pierre Bourdieu – campi, habitus e pratiche Il libro di Bourdieu confermava qualcosa che i movimenti di allora affermavano, le istituzioni scolastiche sono solo in parte veicolo di mobilità sociale. Gli studenti delle classi superiori hanno un cammino privilegiato rispetto a quelli provenienti dalle classi inferiori. Le istituzioni scolastiche non sono neutrali, incorporano un tipo di istruzione solidale con la cultura delle classi superiori, e funzionano come un meccanismo che legittima l’esclusione di chi proviene dal basso certificandone l’insuccesso attraverso criteri che appaiono meritocratici, ma dove il merito, in realtà, consiste soprattutto nella capacità degli studenti di adattarsi ai canoni della cultura proposta. La scuola è anche un luogo di tensione fra ciò che la società moderna dice di essere e ciò che è. Il suo libro confermava che le disuguaglianze sociali hanno la tendenza a riprodursi, a meno di cambiamenti radicali dell’istruzione o della società intera, chi ha poche carte da giocare all’inizio del proprio cammino difficilmente cambierà la propria posizione nel corso della vita. Usualmente si pensa che le risorse decisive consistano nella ricchezza economica, nel capitale. Bourdieu suggerisce che esistono tipi diversi di capitale, economico, culturale e sociale. La nozione di capitale economico ci è ovvia. Il capitale culturale corrisponde all’educazione familiare, all’istruzione e alle credenze educative di cui un soggetto è in possesso. Il capitale sociale consiste nelle relazioni di cui un soggetto dispone. L’effettiva collocazione di una persona nella stratificazione sociale complessiva dipende dalla miscela di questi 3 capitali. A parità di altre condizioni, il capitale sociale è probabilmente quello più rilevante. Il capitale sociale è la capacità di aver credito, la possibilità di suscitare fiducia, di mobilitare l’aiuto di altri. Va notato che il capitale, per BOURDIEU, è multiforme. Il capitale sociale è importante, così come lo sono il capitale economico e quello culturale, ma vi sono capitali diversi per ogni campo o sotto campo della vita sociale. La nozione di capitale, difatti, ha sempre per BOURDIEU una dimensione simbolica. Per capire questo punto, bisogna collegare l’idea di capitale a quella di campo. Il campo è un’area della vita sociale caratterizzata dalla condivisione fra un certo numero di attori di determinati interessi, dalla presenza di certe posizioni reciproche, certe pratiche, certe regole e certi rapporti di forza. Vi sono innumerevoli campi nella vita sociale ognuno caratterizzato da una parziale autonomia, e ciascuno di essi dà forma a un particolare tipo di capitale, cioè il tipo di risorsa il cui possesso corrisponde alle posizioni dominanti e per il cui possesso si lotta. Un campo non è definibile a priori, e non necessariamente ha un nome nel linguaggio ordinario. I suoi limiti sono i limiti della rete di effetti di influenza reciproca che Lega certi elementi della vita sociale fra loro. Ehm e la ricerca empirica che lo porta alla luce. Si tratta di un’idea dalle molte conseguenze. La prima è che spinge vigorosamente a pensare in termini relazionali. La seconda è che si pone il problema del coordinamento fra i campi, il campo dei campi è costituito dallo stato, ovvero, dal campo in cui si coopera e si lotta al fine di stabilire le regole che debbono valere in ogni altro campo. La terza è che la scienza stessa è un campo fra gli altri, e la comprensione delle sue caratteristiche è essenziale ai fini di un corretto lavoro scientifico. La permanenza entro determinati campi della vita sociale ingenera nei soggetti particolari tipi di habitus. L’abitus è un modo di porsi nei confronti del mondo, è la disposizione ad agire in un certo modo, che ogni soggetto apprende nel corso delle proprie esperienze e nei contesti in cui vive. L’habitus è Il versante sociale di quello che chiamiamo il carattere o la personalità di qualcuno. L’habitus è Un atteggiamento che il soggetto sviluppa adeguandosi ai campi in cui è immerso, può mutare nel tempo e può dar luogo a comportamenti variabili. Le pratiche sono Modi di fare a cui è legata una certa comprensione della realtà, che inducono conoscenze esplicite e implicite, collegate a un habitus e relative al campo entro cui il soggetto si muove. Verso una sociologia dei consumi Bourdieu scrive la distinzione, questa ricerca è costituita da due inchieste condotte da Bourdieu negli anni 60 intervistando in Francia 1200 persone appartenenti a gruppi sociali diversi. Il primo risultato è l’evidenza di una differenziazione del gusto sulla base dell’appartenenza soggetti a classi diverse e, all’interno della medesima classe, a ceti diversi. Le preferenze di gusto e le scelte di consumo in cui queste corrispondono non si limitano a esprimere certe posizioni sociali, ma contribuiscono ad articolarle e in certi casi, a crearle. L’affermazione dei gusti risponde a un’esigenza di distinzione, classificando i gusti altrui come negativi ciascuno afferma cioè e costruisce la propria differenza, ovvero la propria identità come distinta da quella di altri. I consumi non si limitano a rispondere a esigenze materiali, ogni bene è dotato di un valore simbolico, e sceglierlo corrisponde a marcare, più o meno intenzionalmente, l’identità del consumatore. Il marketing e la pubblicità contemporanei conoscono bene tutto ciò, da un lato si premurano di studiare i potenziali consumatori, dall’altro enfatizzano il carattere simbolico dei prodotti in modo tale che consumarli sia la soddisfazione di una sorta di sogno a occhi aperti, l’identificazione del consumatore stesso con un modello di identità che egli desidera comunicare a sé stesso e agli altri. Le merci posseggono il valore d’uso, il valore di scambio, ma posseggono anche un terzo valore, che è il valore simbolico. Tale valore pertiene in verità ad ogni oggetto, il cui significato non si risolve mai nelle sue mere funzioni di utilità e neppure nella sua possibilità di essere scambiato, ma coincide con la sua facoltà di significare altro da sé, uno status, una relazione, ho il richiamo a un mito a cui viene associato. I significati degli oggetti non sono però arbitrari, dipendono dalla cultura in cui sono inseriti. I consumi rimandano alle logiche della seduzione e del desiderio. E la società contemporanea pare caratterizzata da un crescente desiderio di desiderare per Bourdieu. Cultural studies Con questa espressione si intende, in senso stretto, una corrente di studiosi sorta negli anni 60. La prospettiva dei cultural studies intende la cultura come qualcosa di indissolubilmente intrecciato con le pratiche degli attori sociali. La cultura non esiste se non come una forma di vita, studiarla è studiare come le persone danno senso alla realtà e alle cose che fanno, studiare gli oggetti che li circondano e i modi in cui vivono quotidianamente. La cultura si riproduce nella vita dei soggetti concreti e da questi viene costantemente riformulata e innovata. Così intesa, la cultura è patrimonio di ogni gruppo sociale. La formazione di questo gruppo di studiosi è composita. Ad accomunarli è per l’appunto l’idea che la cultura sia, secondo l’espressione proposta da Williams “il modo in cui diamo forma alle nostre esperienze e alle nostre pratiche”. Una cultura è tale se è socialmente condivisa, ma è difficile stabilire i limiti di questa condivisione, d’altro canto, una medesima società può ospitare al suo interno orientamenti culturali differenti e in conflitto fra loro, in questo senso, la cultura è anche un campo di tensioni, compromessi e conflitti permanenti fra diversi gruppi sociali. Orientati politicamente a sinistra, questi autori ritrovano in Gramsci la possibilità di appoggiarsi a un marxismo non determinista e non economicista, attento al ruolo di istituzioni popolari come la chiesa e a quello degli intellettuali, capace di tematizzare la cultura come il campo di lotta per l’egemonia fra le classi. Una prospettiva che riesce a vedere come le classi subordinate siano contemporaneamente influenzate da quelle superiori ma anche capaci di resistere a questa influenza, e come la cultura sia un campo di orientamenti in divenire costante, dove al venir meno di certe sottoculture corrisponde il sorgere di altre. Interessati a studiare fenomeni che difficilmente le statistiche ufficiali censiscono, gli studiosi dei cultural studies sono innovativi nei propri metodi di ricerca. Prediligono strumenti come l’osservazione partecipante. Negli anni 80 l’interesse di questi autori si concentra sul ruolo dei media nella vita quotidiana. Media e consumi sembrerebbero gli strumenti più efficaci in mano alle classi dominanti per imporre la propria egemonia sulla società. L’idea che quella attuale sia una società omogenea e di massa è contestata dai cultural studies, sia nel senso che le differenziazioni permangono, sia e soprattutto nel senso che i destinatari della pubblicità, dell’informazione e di ogni altro prodotto dell’industria culturale non costituiscono masse passive, ma pubblici attivi e capaci di interpretare in modi diversi i messaggi a cui sono esposti. Stuart Hall in codifica e decodifica nel discorso televisivo, suggerisce di ragionare sul rapporto fra i testi diffusi dai media ed il pubblico nei termini di un processo interpretativo i cui esiti non sono scontati. Il pubblico può interpretare i messaggi che riceve in modo coerente con il significato che gli autori originariamente gli attribuivano, ma può anche interpretarli criticamente, può interpretarli travisando le il senso o applicandovi codici di lettura imprevisti, o, può non comprenderli affatto. I media non sono onnipotenti, l’influenza che esercitano è filtrata dalle competenze e dagli atteggiamenti interpretativi dei pubblici. Caratteristica dei cultural studies è anche l’attenzione per un’altra dimensione, quella dell’uso. Leggere, andare al cinema o guardare il televisore sono pratiche sociali che non si esauriscono nella mera funzione di un testo. Prendiamo ad esempio il televisore. Il televisore si colloca in casa in spazi e in modi storicamente variabili, è acceso a orari determinati, e visto ora da uno, ora da un altro, ora da tutti i componenti del nucleo familiare, può avere il valore di un sottofondo delle altre attività che si svolgono oppure può essere guardato con attenzione. Il punto è che il consumo dei media è un processo attraverso cui individui e gruppi trasformano determinate offerte in risorse per la propria vita. L’ambiente complessivo dei soggetti ne è modificato, i media stessi acquistano un senso che va al di là del mero significato dei testi che veicolano. La spinta verso la privatizzazione mobile si radica in bisogni sociali che nelle nuove tecnologie trovano modo di soddisfarsi, queste stesse tecnologie permettono che tali bisogni si manifestino. Si tratta di una
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