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Riassunto libro di Michele Chiaruzzi, Dispense di Relazioni Internazionali

Riassunto completo del libro “Una trama del mondo”

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 31/01/2023

FabiolaNardone
FabiolaNardone 🇮🇹

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Scarica Riassunto libro di Michele Chiaruzzi e più Dispense in PDF di Relazioni Internazionali solo su Docsity! Una trama del mondo Capitolo I Il pensiero politico internazionale è plurisecolare, risalente all’Antica Grecia. Il concetto di relazioni internazionali indica sia una sfera d’azione, le relazioni tra gli Stati, sia il suo studio scientifico. Lo studio accademico delle relazioni internazionali ha origine nell’aprile del 1919 in una cittadina del Galles, dove venne istituita la prima cattedra esclusivamente per tale disciplina, denominata “Politica internazionale”. L’insegnamento di questa disciplina fu definito come “scienza politica nella sua applicazione alle relazioni internazionali, con particolare riferimento agli strumenti migliori per promuovere la pace fra gli Stati”. Lo studio delle relazioni internazionali nasce quindi a seguito della Prima guerra mondiale, con l’obiettivo di evitare il ripetersi. Infatti, il problema principale, sia teorico che pratico, a cui questa disciplina tenta di trovare una soluzione è quello della guerra. La guerra è l’aspetto centrale delle relazioni internazionali, la ragione dei cambiamenti e delle continuità nelle relazioni internazionali. La ragione di questa centralità deriva dall’assenza di un’autorità internazionale superiore agli Stati, ovvero dall’assenza di un governo mondiale. Il termine “internazionale” è stato coniato nel 1780 dal filosofo inglese Jeremy Bentham. Si è poi diffuso nella cultura europea continentale grazie al suo traduttore e divulgatore, il giurista svizzero Dumont. Secondo Bentham il termine indicava le “transazioni tra Stati sovrani in quanto tali”. Quindi, le relazioni internazionali sono “relazioni tra unità politiche indipendenti e sovrane che tali si riconoscono reciprocamente”. Di conseguenza, lo studio delle relazioni internazionali riguarda le relazioni politiche tra gli Stati, ovvero la politica internazionale, detta anche politica interstatale. Il mondo è il luogo dove si svolgono queste relazioni; esso è, come già era per gli antichi greci, un complesso di relazioni di potere e di rapporti di autorità. Lo sviluppo delle relazioni internazionali, dovuto ad un maggior potere degli Stati, ha causato una minore autonomia delle relazioni transnazionali e una minore centralità delle persone e dei gruppi non statali rispetto al passato. Gli aspetti più importanti della politica internazionale si spiegano partendo dalle differenze tra le capacità degli Stati; per questo la politica internazionale è spesso definita “politica di potenza”, dove con potenza si intende “l’insieme di risorse a disposizione di uno Stato in relazione a quelle degli altri”. Il mantenimento e l’accrescimento della potenza, di cui la ricchezza è una componente essenziale, caratterizzano la politica tra gli Stati. Dato che il governo è il soggetto destinato a prendere decisioni politiche vincolanti per la collettività e determinanti per la condotta esterna dello Stato, si può dire che la politica internazionale riguarda le relazioni intergovernative. Le decisioni del governo sono influenzate dagli individui e dai gruppi sociali più importanti. Lo Stato è giunto ad ottenere uno dei controlli più efficaci sul proprio territorio, il monopolio della violenza legittima, che non sono stati capaci di ottenere altre unità politiche, dal mondo antico al Medioevo. Infatti, oggi le lotte sociali non hanno più l’obiettivo di eliminare l’apparato di dominio ma quello di cambiare colui che detiene tale monopolio. Lo Stato moderno è un’organizzazione che infatti fornisce protezione e benessere in cambio però di entrate fiscali. Le relazioni internazionali sono storicamente onnipresenti, almeno dove sono esistite unità politiche indipendenti in grado di distinguere tra sfera interna e sfera esterna della politica. In realtà queste due sfere non sono indipendenti ma sempre interconnesse poiché si condizionano vicendevolmente. Quindi, la politica si svolge lungo un continuum interno/esterno e queste due dimensioni sono legate tra di loro dal governo e dalle persone al suo vertice. Da ciò deriva che le relazioni internazionali sono comparabili, così come è comparabile la riflessione politica, filosofica, giuridica e diplomatica che ha caratterizzato le varie epoche storiche. Ciò ha permesso di formare il corpus teorico che oggi costituisce la base delle relazioni internazionali. Esiste un referente cronologico che possiamo assumere per segnare le origini del sistema di Stati moderno: il concilio di Costanza 1414 – 1418. Si utilizza perché da allora crolla la configurazione politica medievale definita “ecumenica” e si ha il passaggio ad una dimensione internazionale. Quest’ultima si svilupperà nei secoli successivi parallelamente all’affermazione di strutture politiche ben precise maturate dopo i trattati di Osnabrück e Münster, ovvero dopo la pace di Vestfalia. Queste strutture politiche possiedono due elementi tipici dell’organizzazione coattiva degli Stati moderni di matrice europea, definiti indipendenti e sovrani:  la sovranità statale su di un territorio e la sua popolazione, che ne legalizza l’indipendenza  l’indisponibilità a riconoscere autorità superiori a sé Da questi due elementi deriva la determinazione di confini politici, imposti e difesi dagli Stati anche con la forza. Questi confini determinano l’appartenenza di un territorio ad uno Stato, il quale pretende fedeltà esclusiva da parte di una popolazione riconoscendo agli altri Stati le medesime prerogative di unicità. A questo processo storico di affermazione si affianca un processo esterno, che diffonderà lo Stato moderno in tutto il pianeta: l’espansione imperialista partita dall’Europa occidentale. Questi due processi paralleli porteranno alla formazione dell’odierno sistema di Stati globale. La genesi dell’euroimperialismo possiede almeno tre dimensioni:  l’imperialismo militare  aveva l’obiettivo di conquistare nuovi territori  l’imperialismo economico  mirava allo sfruttamento di popoli e risorse  l’imperialismo culturale  desiderava la sostituzione delle altre culture con la propria Tutto ciò come mezzo per ottenere un unico fine: il rovesciamento dello status quo, ovvero il mutamento a proprio vantaggio delle relazioni di potere tra lo Stato imperialista e le sue vittime. L’imperialismo però non portò ai risultati auspicati poiché alla fine gli Stati europei arrivarono ad accettare la reciprocità e l’uguaglianza nei loro rapporti con le entità politiche extraeuropee. Questo perché semplicemente non erano in grado, prima del diciannovesimo secolo, di soggiogarli e colonizzarli su ampia scala. Mancando del potere preferirono avere con loro rapporti commerciali, convertirli al cristianesimo e qualche volta coinvolgerli in alleanze militari. Al termine dell’espansione imperialista, il cui apice si ebbe intorno al 1900, il processo di decolonizzazione porterà all’affermazione, tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta, di un sistema globale di Stati sovrani analogo a quello di matrice europea. Capitolo II Gli Stati sono il prodotto di un processo storico e, in quanto tale, soggetto a costante mutamento. Con questo processo lo Stato si è imposto come modello di organizzazione universale per le unità politiche che oggi governano la vita delle persone. Tutti gli Stati oggi sono fondati su un concetto particolare: l’indipendenza politica, il quale comporta che l’unità politica sia in grado di agire all’esterno, nella dimensione internazionale. In questa dimensione ogni Stato riconosce solo agli altri Stati la medesima prerogativa di indipendenza politica che pretende per sé e il potere che ne deriva, reso esecutivo e collettivo dal proprio governo, sia sul proprio territorio che all’esterno. Da ciò deriva che il concetto di essere politicamente indipendenti è un artificio politico legato non solo all’affermazione dello Stato ma alla presenza di una molteplicità di Stati che si riconoscono vicendevolmente. Nel sistema di Stati contemporaneo questo concetto è rappresentato dalla nozione giuridica della sovranità, la quale indica un’autorità dotata di un potere idoneo a risolvere tutti i casi che si possono presentare sul terreno della politica. Gli Stati contemporanei sono indipendenti perché dotati di questo potere al loro interno e sovrani perché tale potere interno è loro riconosciuto all’esterno. Questo riconoscimento storicamente è stato una conseguenza di numerosi conflitti sanguinari e ciò spiega la centralità della guerra nelle relazioni internazionali. Parlare di “vita internazionale” significa dunque parlare della condizione reale di un insieme caratterizzato da un alto grado di organizzazione e complessità, di cui gli Stati sono le unità politiche fondamentali e centrali. Per analizzare e comprendere la complessità di queste unità bisogna ricorrere a schemi teoretici e tradizioni di pensiero, che sono mezzi utilizzati al fine di capire semplificando la realtà. Quest’ultimo è l’obiettivo che si è posto ciò che viene chiamato “teoria internazionale” o “teoria delle relazioni internazionali”. Questa teoria però non possiede un’eredità classica, che ha relegato la disciplina in una condizione minoritaria e marginale, sia per qualità che per quantità. Questo perché dal XVI secolo è stato lo Stato l’oggetto principale di riflessione politica nel continente europeo. La carenza è quindi un fatto del passato che riguarda il presente. La carenza di un’eredità classica comporta almeno due limiti:  il pregiudizio nazionale  nella cultura europea classica si può constatare che il centro della riflessione politica è sempre stata la dimensione nazionale. Questo fatto è ciò che viene chiamato “pregiudizio nazionale”. Infatti, pressoché ogni aspetto politico e sociale della vita nazionale è stato studiato, come la natura della sovranità o i limiti del potere sovrano. Non si può affermare lo stesso per la vita internazionale dato che manca nella letteratura classica della politica una tradizione di speculazione sulle relazioni tra gli Stati, quindi una riflessione internazionalistica. Ne deriva che i classici delle relazioni internazionali possono essere definiti “classici contemporanei” poiché risalenti agli ultimi cento anni e quindi non coincidenti con nessun classico della letteratura politica. Questa condizione non sembra mutare con il diffondersi dell’Illuminismo nel Settecento. Gli illuministi erano scettici circa la possibilità di mutare radicalmente il comportamento di uno Stato nelle sue relazioni esterne, mentre erano fiduciosi circa la messa in atto di programmi di riforma in politica interna. Nemmeno in altri momenti storici cruciali, come la Rivoluzione francese o russa e la Riforma protestante, gli studiosi approfondirono le dinamiche alla base delle relazioni internazionali. Il pregiudizio nazionale è un esito del processo storico che ha portato all’affermazione dello Stato come soggetto principale delle relazioni internazionali. Quest’affermazione ha fatto sì che nessun singolo individuo, ad eccezione di coloro che ricoprono ruoli di rappresentanza dei propri Stati, ne può essere membro. Ciò ha portato a definire le nazioni delle “personalità collettive”. L’idea di personalità collettiva ha origine nel processo storico tra la pace di Costanza, la pace di Vestfalia e le guerre di religione europee.  il pregiudizio bellico  all’interno dello Stato si svolgono relazioni politiche definite “normali”, essendo la guerra e la minaccia di guerra un fatto eccezionale. Questo perché lo Stato non può ammettere la guerra civile o la violenza nel proprio territorio, se non al costo di eclissarsi. Nella politica internazionale, invece, si svolgono relazioni caratterizzate dal normale, legittimo e costante ricorso alla guerra e alla minaccia di guerra. Questa condizione ha influenzato la teoria internazionale, pregiudicandone lo sviluppo ed è ciò che viene definito “pregiudizio bellico”. Quest’ultimo, così come il pregiudizio nazionale, ha contribuito a relegare le relazioni internazionali in una condizione marginale e minoritaria. Questa condizione è visibile sin dagli antichi greci: gli antichi dedicavano molta attenzione ai mutamenti costituzionali poiché le costituzioni erano opera umana, e per la possibilità di una loro modifica, era considerato utile studiarle. Al contrario, essi non si interrogarono mai sulla natura delle relazioni internazionali, nonostante nel mondo greco-romano esistessero rapporti tra le varie entità politiche. Si è infatti giunti a parlare di una vera e propria “sordità alla problematica internazionale”. La guerra riguarda in maniera centrale questa problematicità ma tra gli antichi greci essa non ha suscitato particolari riflessioni, nonostante fosse praticata abitualmente. La teoria politica è sempre stata concentrata sulla vita politica interna e ha riguardato sin dall’inizio il modo migliore di vivere nello Stato; si parla a tal proposito di una “teoria della vita felice”. Utilizzando una terminologia simile, si potrebbe affermare che invece la teoria internazionale è una “teoria della sopravvivenza” considerando che analizza il problema dell’esistenza o dell’estinzione nazionale, della vita o della morte. Dato che nelle relazioni internazionali, in ogni epoca storica, si sono riprodotti i medesimi modelli di comportamento si è arrivati a descrivere la vita internazionale come “il regno della ricorrenza e della ripetizione”. Ciò ha portato i pensatori politici a pensare alla disciplina più per giungere alla sua fine che per studiarne le dinamiche concrete. Capitolo III  nesso teoria/scienza  le tradizioni sono l’insieme di assunti epistemologici, metodologici e ontologici che sostengono e giustificano le varie teorie. Le teorie si collocano all’interno delle tradizioni e sono formulazioni logicamente coerenti, sia per i concetti che per le definizioni, che permettono di spiegare, comprendere e interpretare diversi aspetti della vita internazionale. Le tradizioni di ricerca e di pensiero non sono né esplicative, né predittive, né controllabili ma forniscono linee guida a livello nozionistico per l’elaborazione delle diverse teorie. La teoria internazionale comprende diverse tradizioni di ricerca e di pensiero che includono dottrine, cioè una dimensione assiologica e normativa, e teorie specifiche, cioè una dimensione esplicativa e interpretativa. Quindi, la teoria internazionale racchiude in sé un pluralismo per il quale però nessuna delle tradizioni è prevalente. Nella teoria internazionale non vige un rapporto di dipendenza, bensì di interdipendenza. La diversità delle tradizioni riguarda:  l’ontologia  le idee su ciò che è la politica internazionale  l’antropologia  le idee su ciò che è la natura umana rispetto alla politica internazionale  l’epistemologia  le idee su come la politica internazionale debba essere compresa e conosciuta  la prasseologia  le idee su come bisognerebbe agire nella politica internazionale Il riferimento al nesso tra teoria e scienza si può comprendere una differenza importante, di cui la teoria internazionale è espressione: la scienza procede per elaborazioni, verifica e scarto di teorie, mentre questi tre passaggi non sono presi in considerazione nella teoria internazionale o nello studio della politica; il rapporto tra i pensatori politici e le loro idee e teorie non è un rapporto di sostituzione e progresso come quello ambito e spesso realizzato dalla scienza; le varie teorie sono invece aspetti di un’unica realtà conoscitiva. La nascita delle relazioni internazionali come disciplina di studio autonoma dalle altre ha prodotto una svolta negli studi politici: ha condotto alla conoscenza pubblica di temi e problemi della politica internazionale un tempo dedicati esclusivamente a circoli esclusivi, come quelli diplomatici e militari. In questo senso si può dire che essa è una disciplina emancipatoria.  nesso teoria/tradizione  la svolta rispetto al passato, riguardante la diffusione pubblica di temi e problemi della politica internazionale, ha portato alla necessità di ricostruire una tradizione di teoria internazionale. Le ricostruzioni che mirano ad Tuttavia, non tutti gli Stati reagiscono nello stesso modo al dilemma della cooperazione poiché ognuno possiede capacità e risorse differenti. L’ambiente internazionale è quindi caratterizzato da diseguaglianza in tutti gli ambiti, come quello del potere che è sempre concentrato in pochi Stati: le grandi potenze. La centralità dell’analogia domestica permette di notare una caratteristica centrale della natura delle relazioni internazionali: essi si svolgono in un ambito politico nel quale non è risolta nessuna delle due antitesi fondamentali presenti in ogni società: oppressione- libertà e anarchia-unità. La necessità di un’autorità suprema superiore agli Stati per uscire dallo stato di natura coincide con il timore che il governo mondiale, anche se indispensabile per l’ordine e la stabilità del sistema internazionale, possa rivelarsi nocivo per la libertà qualora dovesse agire in maniera tirannica realizzando una sorta di dispotismo internazionale. Sia Morgenthau che Kant ritenevano che l’anarchia internazionale non fosse una condizione naturale, bensì creata da un contesto sociale privo del consenso e delle condizioni per superarla. Quindi, l’anarchia internazionale ha origine nell’indisponibilità degli Stati e nell’incapacità degli esseri umani al loro vertice. Le relazioni tra gli Stati restano, ancora oggi, prive di un’autorità politica superiore e sono caratterizzate per una molteplicità di centri di potere indipendenti e armati; quindi, per un polipolio della violenza. Capitolo V Il concetto fondamentale del realismo è quello di potenza: “la potenza si riferisce alla possibilità di far valere all’interno di una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”. Essendo la politica di potenza onnipresente nelle relazioni internazionali, lo schema realista vuole offrire una comprensione metastorica, valevole per ogni configurazione internazionale poiché ognuna contraddistinta da tale politica di potenza. Cosicché, la politica tra gli Stati è lotta per il potere, che ha come mezzo la forza. Questa lotta non è neutralizzabile, bensì è suscettibile di politicizzare qualsiasi ambito. Il realismo emerge nell’ambito internazionalistico negli anni Trenta del Novecento grazie allo studioso e diplomatico britannico Edward Hallett Carr. Carr criticava l’orientamento liberale, in particolare la visione progressiva e riformatrice, incarnata in quegli anni dai 14 punti del Presidente americano Wilson. Contro questa visione, definita “idealista” e “utopista”, Carr ne proponeva una relativa e pragmatica, ispirandosi a molteplici fonti come Machiavelli e Marx; la definiva relativa poiché ogni idea è storicamente determinata, sorgendo da un contesto storico ben preciso, pragmatica poiché qualsiasi dottrina è influenzata dagli interessi particolari di chi la elabora e utilizzata da quest’ultimo per perseguire i propri obiettivi. Gli Stati perseguono interessi nazionali specifici definiti dal proprio governo. Carr riteneva che tali interessi nazionali potessero costantemente entrare in conflitto. Il conflitto di interessi è un fatto immodificabile della vita internazionale e, per questo motivo, quest’ultima è scossa da frequenti crisi. Per analizzare la condizione in cui si trova la vita internazionale il realismo opera una semplificazione attraverso due mosse teoriche principali: 1. il realismo considera i fatti del potere come fatti davvero rilevanti, degni di attenzione e analisi. 2. Il realismo considera questi fatti non solo difficili da analizzare ma spesso nascosti dalle persone dell’ambito politico, le quali sono spesso corrotte dal potere e pronte a falsificare la realtà per trarne vantaggio. Nell’analizzare la condizione internazionale, basata sul binomio realtà/apparenza, il realismo si pone l’obiettivo di rivelare la realtà dei fatti. Un secondo esponente importante dello schema realista è Waltz. Secondo Waltz le relazioni internazionali sono sempre definite da tre elementi:  il principio anarchico, cioè l’assenza di uno Stato mondiale, fatto che genera competizione tra unità politiche diverse, indipendenti e sovrane.  l’indifferenziazione funzionale delle unità politiche, che svolgono le stesse funzioni, di cui la più importante è garantirsi la sicurezza.  la distribuzione di potenza, la quale varia sempre in modo orizzontale concentrandosi in due o più Stati, realizzando così sistemi bipolari o multipolari, ma mai in senso verticale, ovvero in una unità superiore agli Stati. In base a come è distribuita la potenza si ha il cambiamento. Ne consegue che ciò che conta nelle relazioni internazionale è solo la distribuzione di potenza. Per questo la visione storica del realismo è circolare: la storia internazionale si ripete in modo imprevedibile ma sempre all’interno di un quadro di possibilità limitate. La ricorrenza della storia internazionale è dovuta a due motivi:  la natura umana in politica, che fa sì che i politici siano sempre competitivi per le risorse che danno potere, arrivando talvolta al conflitto  la struttura anarchica della politica internazionale, che non permette di eliminare la competizione e il conflitto Secondo il realismo la politica internazionale può essere rappresentata su due assi perpendicolari:  l’asse orizzontale  corrisponde al conflitto, che non può essere evitato in un mondo composto da unità politiche con interessi differenti e in competizione per risorse scarse.  l’asse verticale  corrisponde al dominio, che è la repressione del conflitto latente o attuale attraverso la minaccia o l’uso della forza. Secondo il realismo il conflitto si contiene solo quando si instaura una struttura di dominio e quindi un sistema gerarchico stabile. All’interno degli Stati questo sistema gerarchico si ha attraverso il governo nazionale ma all’esterno degli Stati non c’è un governo mondiale e per questo motivo non si ha una condizione di pace stabile, bensì sempre precaria. Gli Stati devono garantirsi autonomamente la loro sicurezza e lo fanno attraverso la forza militare e il sistema di alleanze. La sicurezza è ritenuta dal realismo il fine primario e obbligato degli Stati. La condizione di diseguaglianza fa sì che gli Stati non possiedano le stesse capacità o risorse e non traggano gli stessi benefici dall’assetto politico presente. Per questo motivo esistono sempre potenze soddisfatte e potenze insoddisfatte. Le prime sono potenze conservatrici, interessate al mantenimento dello status quo mentre le seconde sono potenze revisioniste, che prediligono il mutamento dell’assetto istituzionale, la sua revisione o il suo sovvertimento. Le potenze conservatrici difendono il valore della stabilità internazionale, le seconde la contestano con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la minaccia o l’uso della forza. In assenza di un governo mondiale in grado, attraverso procedure, di dirimere le controversie, queste ultime possono sfociare nel conflitto. Emerge, quindi, un problema che il realismo risalta: come mantenere la stabilità nelle relazioni internazionali e ottenere al tempo stesso il cambiamento pacifico. Secondo la prospettiva della storia del realismo ciò non è possibili, se non per piccoli cambiamenti. Gli assetti generali del potere internazionali cambiano, infatti, attraverso le guerre. Una grande potenza è uno Stato in grado di difendere e affermare i propri interessi in tutto il sistema internazionale. Ciò è reso possibile dalle maggiori risorse e capacità possedute rispetto agli altri, ritenuti la classe subalterna. La supremazia delle grandi potenze costituisce nella politica internazionale una sorta di “legge di natura”, che fa sì che la struttura dei sistemi internazionali sia sempre oligopolistica. La guerra tra le grandi potenze genera una gerarchia politica e solo in questo senso si può parlare di un “ordine internazionale”: l’ordine che le grandi potenze impongono al sistema internazionale. Il numero delle grandi potenze definisce i sistemi internazionali in ogni epoca storica. Si parla così di sistema bipolare, che vede protagoniste due potenze principali, e sistema multipolare, che vede al centro più di due potenze. Per il realismo ciò che conta è solo la distribuzione della potenza poiché essa permette di classificare i sistemi internazionali. In altre parole, è la configurazione dei rapporti di forza, la quale può essere concentrata in due potenze o in più di due, a determinare le caratteristiche dei sistemi internazionali.  sistema bipolare  presenta minore complessità diplomatico-strategica poiché minore è il numero delle potenze coinvolte; inoltre, è più stabile poiché due potenze, a capo di due blocchi rigidi, cooperano in modo più semplice e lineare. Infine, la diffusione delle informazioni è più agevolata. La maggioranza degli Stati convergono attorno alle due potenze, le cui decisioni influenzano le condotte degli Stati minori. L’esempio cronologicamente più prossimo è quello che vide contrapporsi l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America, a capo di due blocchi di Stati.  sistema multipolare  consente più libertà agli Stati. La configurazione dei rapporti di forza non è l’unico criterio utilizzato per definire i sistemi internazionali. Nella politica internazionale si guarda anche alle idee e alle ideologie poiché le potenze presentano differenze sia qualitative che quantitative. Contano, quindi, la capacità di attrattiva e di persuasione delle idee e ideologie, tanto che una potenza avrà maggiore o minore successo in base alla forza delle credenze che sostiene. Il regime politico e le idee permettono di distinguere i sistemi internazionali in omogenei e eterogenei.  sistemi internazionali omogenei  gli Stati possiedono una concezione politico-ideologica simile. L’omogeneità comporta maggiore stabilità, prevedibilità e minore violenza.  sistemi internazionali eterogenei  gli Stati possiedono idee politiche e ideologie differenti. L’eterogeneità implica conseguenze opposte all’omogeneità, quindi competizione e conflitto di interessi in ogni ambito della politica. I conflitti esterni tra gli Stati creano fratture nei partiti politici all’interno dello Stato, i quali si polarizzano attorno a tali fratture e aderiscono o all’una o all’altra ideologia. Il conflitto ideologico è quindi parte del conflitto politico. Tuttavia, può accadere anche l’opposto, ovvero che mutamenti interni alle unità politiche influenzino la condotta esterna degli Stati. L’evento massimo che può sconvolgere uno Stato al suo interno è la rivoluzione. Alla prasseologia, ovvero alla domanda su come bisognerebbe agire nelle relazioni internazionali, i realisti offrono risposte diverse. Il realismo politico prevede l’attuazione di politiche diverse, a volte anche opposte, ma ugualmente giustificabili. Lo schema realista offre concetti generali, definiti “categorie dell’azione”, attraverso cui comprendere i comportamenti nella politica internazionale. I comportamenti di uno statista sono principalmente posti in essere sulla base di quello che è l’interesse nazionale, che solitamente riguarda la sicurezza militare, l’integrità della vita politica e il benessere del popolo. Infatti, i governanti non agiscono per loro conto ma per conto degli Stati. I bisogni degli Stati non hanno una qualità morale, nascono dalla mera esistenza dello Stato e dalla sovranità di cui gode. In quanto tali, non sono soggetti alla classificazione di “buono” o “cattivo” e la politica non necessita di giustificazioni morali. In sintesi, si può dire che l’azione politica è amorale. Il concetto di politica amorale è stato sostenuto da George Kennan, un diplomatico statunitense. Kennan inoltre qualifica il concetto di necessità: “l’azione politica è necessitante nella politica internazionale”. La posizione di Kennan coincide con cinque assunti dello schema realista nelle relazioni internazionali:  la sfera etica è circoscritta dalla sfera politica  la politica è una sfera autonoma che viene giudicata sulla base di criteri politici e non morali.  l’etica è un prodotto del potere  la politica internazionale è infatti politica di potenza.  il dovere di chi agisce per lo Stato è perseguirne gli interessi  le azioni devono sempre mirare al successo perché l’azione politica senza successo è inutile.  gli interessi sono sempre particolari. Secondo il realismo, in un mondo composto da unità politiche indipendenti, la prudenza è la virtù suprema. Il prudente è colui che riesce a sfuggire dai pericoli e dai danni e possiede la capacità di applicare criteri generali a casi particolari, prendendo decisioni ponderate. L’etica del realismo è quindi un’etica consequenzialista: valuta l’azione politica non in sé, a prescindere dalle conseguenze, ma calcolando gli effetti plausibili che ne possono derivare. Questo tipo di azione politica è classificabile come responsabile e la responsabilità è l’unica moralità in politica. Immorale, invece, è l’azione politica guidata da convinzioni personali, in base a ciò che si considera giusto senza guardare le possibili conseguenze. L’etica consequenzialista, però, è solo un principio di azione e non garantisce nulla sugli effetti delle azioni poiché essi sono sempre incerti e imprevedibili. Il realismo, in riferimento alle azioni in politica internazionale, considera la contingenza e il contesto. Per questo motivo ritiene una seconda qualità suprema di una politica realista la flessibilità. Dato però che esistono forze storiche incomprensibili, secondo il realismo un’azione di successo in politica necessita anche della fortuna. Capitolo VI Il liberalismo è una tradizione di pensiero politico occidentale sorta in risposta alle guerre di religione che dilaniarono l’Europa tra il XVI e il XVII secolo. Il liberalismo si sviluppa parallelamente all’Illuminismo, anche se alcuni accenni si possono rintracciare già nell’età della Riforma e del Rinascimento. Nel suo significato politico l’aggettivo “liberale” compare per la prima volta in Europa nel 1812. Nella teoria internazionale il liberalismo si è sviluppato in un rapporto di interdipendenza con il realismo, e non di contrapposizione, per via della comune visione sull’analogia domestica, anche se ci sono delle differenze tra le due tradizioni di pensiero. Il realismo indaga la realtà ricorrente dei fatti, cercando di comprendere come sarà nel futuro, mentre il liberalismo indaga il cambiamento, cercando di capire come dovrebbe cambiare in futuro la realtà internazionale. Il mutamento su cui si concentra il liberalismo non è un fatto ciclico e ripetitivo, come lo è per il realismo, bensì evolutivo e progressivo. Questo poiché la natura umana si può modificare attraverso la ragione. Le idee centrali nel liberalismo sono: l’idea di libertà e l’idea della facoltà creatrice di ragione e immaginazione. La libertà consiste nella capacità di scegliere come meglio si crede, senza costrizioni o intimidazioni. Questa capacità si basa sull’autonomia della ragione e sulle sue possibilità creatrici e costituisce un fattore di cambiamento del sistema di potenza descritto dal realismo. Per la centralità dell’idea di libertà si può dire che il liberalismo è una teoria delle libertà. Infatti, pone l’individuo al centro di tale teoria e, nell’analisi internazionalistica, parte da lui e dai gruppi che gli individui insieme formano. Da ciò deriva che lo Stato è solo una delle organizzazioni che contando nella politica mondiale. La politica internazionale ha perciò luogo in uno spazio più ampio, all’interno del quale esistono legami e azioni non riconducibili agli Stati. La politica internazionale si svolge in un contesto dominato dalla logica di potenza descritta dal realismo e, per questo motivo, è distante dall’ideale liberale del “governo della legge”. Ciò rende la vita internazionale distante dai principi del liberalismo poiché essa non è regolata dal governo della legge, bensì da quello degli uomini, arbitrario e pericolo. L’anarchia internazionale, infatti, è ritenuta dal liberalismo una minaccia per la libertà. Tuttavia, nonostante questa visione dell’anarchia, il liberalismo non propone una sua soluzione poiché teme dal governo mondiale il dispotismo. Nel rapporto tra vita internazionale e libertà sono quindi due le questioni fondamentali:  l’anarchia, che è un rischio costante per gli Stati retti da governi non autoritari, all’interno dei quali è possibile realizzare la libertà.  la restrizione delle libertà individuali, che è una causa indiretta dell’anarchia internazionale poiché l’insicurezza esterna allo Stato rende necessaria la sua protezione e quest’ultima causa al suo interno la centralizzazione del potere, il rafforzamento dell’’esecutivo e il rafforzamento degli apparati di violenza. Il liberalismo ritiene le relazioni internazionali dei rapporti di composizione, come risultante delle azioni individuali che determinano la condotta degli Stati. Infatti, la vita politica internazionale non è originaria ma trae origine dalla politica interna degli Stati che si trasferisce all’esterno attraverso la politica estera. Dato che il regime politico interno degli Stati ha una grande influenza per le relazioni internazionali, più Stati si dotano di una forma di governo rappresentativa, più le relazioni internazionali saranno cooperative e pacifiche. Quindi, una seconda differenza con il realismo riguarda il rapporto tra politica interna ed esterna: se per il realismo la politica riguarda due dimensioni distinte, una interna ed una internazionale, per il liberalismo queste due dimensioni si influenzano vicendevolmente, al punto che si può parlare di un solo teatro della politica. Nonostante ciò, però emerge la diversità tra lo spazio politico interno, il più possibile neutralizzato grazie al governo che garantisce la libertà, e lo spazio politico esterno, privo di garanzie per via dell’anarchia internazionale e della logica di potenza. Questa condizione di insicurezza e precarietà è ritenuta superabile dal liberalismo grazie alla limitazione della potenza. La potenza è “la capacità di un’unità politica di imporre la propria volontà alle altre unità”. La potenza è un fatto relazionale e le sue manifestazioni cambiando al cambiare delle relazioni internazionali. La libertà di pensare e agire in base alla ragione è il presupposto di questo cambiamento. Il liberalismo si concentra su tre spazi di libertà, neutrali rispetto al politico e non propriamente politici:  lo spazio economico del mercato  lo scambio economico favorisce rapporti internazionali cooperativi poiché, come suggerì anche Montesquieu, due nazioni che hanno rapporti commerciali si rendono l’un l’altro dipendenti e quindi disinteressate a danneggiare l’altro. Il libero scambio è una base per la cooperazione internazionale, la quale è necessaria per lo sviluppo pacifico degli Stati e per lo sviluppo delle relazioni internazionali. In sintesi, il liberalismo considera la dimensione economica fondamentale e determinante per le relazioni internazionali.  lo spazio sociale dell’opinione pubblica  l’opinione pubblica esercita un controllo sugli affari internazionali scongiurando la segretezza delle negoziazioni. Il controllo popolare sugli affari di politica estera favorisce la cooperazione poiché fa emergere gli interessi delle nazioni, i quali, senza controllo, sarebbero facilmente manipolabili da chi comanda.  lo spazio giuridico del diritto  la legge e il diritto ostacolano la politica di potenza dato che l’instaurazione di un regime giuridico, in grado di garantire la libertà e l’ordine, favorisce la cooperazione tra gli individui. Nelle relazioni internazionali un obiettivo del liberalismo è “costituzionalizzare il potere dell’oligarchia internazionale”, ovvero il potere delle grandi potenze. Quindi, lo schema di pensiero liberale coincide con la comprensione delle ragioni e dei modi attraverso cui si può limitare la politica di potenza. La politica richiede di limitare l’elemento del potere per evitare il conflitto che può degenerare nella guerra interstatale. Si parla di limitazione poiché il potere non può essere eliminato dalla vita internazionale. La limitazione del potere pone problemi di coordinamento e, a causa dell’anarchia e della logica di potenza, anche problemi di appropriazione e distribuzione delle risorse. Questi problemi sono affrontati dalle organizzazioni internazionali, le quali hanno l’obiettivo di creare, affermare e mantenere un ordine pacifico tra gli Stati attraverso la cooperazione e l’accordo. Secondo il liberalismo le organizzazioni internazionali sono costruite e non nascono spontaneamente. Le istituzioni internazionali sono le basi organizzative della politica. Gli Stati, invece, sono i principali agenti organizzativi nella politica guidati da razionalità assiologica, ovvero dai valori, e razionalità strumentale, ovvero dagli interessi, che li porta a cooperare. Un’istituzione è “una regola o un insieme di regole, formali o informali o una loro combinazione, rispettate dai più e dotate di un meccanismo sanzionatorio nei confronti dei trasgressori della regola”. Le regole sono principi imperativi generali che richiedono e autorizzano comportamenti prestabiliti. Le sanzioni possono essere pecuniarie, fisiche o morali. Le istituzioni internazionali possono essere suddivise in tre tipi:  organizzazioni  convenzioni  regimi Queste istituzioni possono avere un dominio specifico o generalizzato; possono riguardare due Stati, istituzioni bilaterali, o più di due Stati, istituzioni multilaterali. Le istituzioni sono risorse che possono svolgere funzioni positive e contrastare il senso di sfiducia e incertezza sulle intenzioni altrui e sulla distribuzione dei benefici provocato dall’anarchia con l’obiettivo di favorire la cooperazione internazionale. Le funzioni positive sono 9: 1. creano basi giuridiche per le relazioni internazionali.  pace e anarchia internazionale  la condizione di insicurezza internazionale, derivante dall’anarchia internazionale, non è mai stata risolta dagli Stati. Di conseguenza, le cause della guerra riguardano la politica internazionale. Questa visione si applica anche alle cause della pace, cosicché quest’ultima è una condizione di precarietà scelta; almeno fino a quando i governi e i popoli non cambieranno la condizione anarchica e oligopolistica.  pace degli antichi VS pace dei moderni  nel sistema di Stati greco classico un criterio della libertà è l’autonomia. La libertà è anzitutto libertà dal potere esterno, dopo libertà politica. Prima del IV secolo, i greci riconoscevano la pace solo come condizione provvisoria della vita internazionale, al punto da ritenerla un non-fatto. Per i greci, invece, la guerra è il fatto. Infatti, la storiografia giunta fino ad oggi non tratta della pace, se non considerandola come quel periodo che separava la fine di una guerra e l’inizio di una successiva. A tal proposito in questo periodo esiste un’associazione tra lo stato di pace e quello di tregua. Nel mondo greco la pace comune si basava su una potenza dominante fino alla dissoluzione delle poleis. La fine del sistema delle poleis porta ad un ampliamento dello spazio storico pacificato ma mostra anche un dato di fatto: l’esistenza di un sistema di Stati indipendenti e autonomi sembra incompatibile con la realizzazione dell’ideale della pace comune. Nemmeno i moderni sono riusciti a trovare un equilibrio tra questi due fatti. Capitolo VIII Waltz classificò le cause della guerra in tre immagini e fornì tre fondamentali risposte al dilemma del perché della guerra. Le tre immagini attribuiscono ognuna una causa principale all’origine della guerra, intesa come fenomeno generale e comune della storia, e propongono una soluzione principale. Le risposte sono:  schematiche  concorrenti  attribuiscono l’origine della guerra a diverse cause generali.  complementari  ogni immagine pone l’accento, di volta in volta, su diversi aspetti all’origine della guerra. Le tre immagini sono strumenti euristici e presentano un livello di astrazione elevato. Al dilemma della guerra le tre immagini rispondono individuando una causa primaria della guerra:  la prima immagine in una o più caratteristiche della natura umana e del conseguente comportamento individuale.  la seconda immagine in una o più caratteristiche interne delle unità politiche e la conseguente condotta esterna.  la terza immagine nella struttura di interazione delle unità politiche. Quindi, secondo le tre immagini le cause della guerra hanno origine rispettivamente nella persona, nello Stato e nel sistema degli Stati. Esse si pongono quindi in tre livelli analitici differenti: individuale, statale e interstatale.  prima immagine  individua la causa primaria della guerra in alcune caratteristiche della natura umana e nel conseguente comportamento individuale. Queste caratteristiche rimandano a istinti o disposizioni innate e preesistenti all’educazione, come l’aggressività, l’egoismo, l’invidia o l’ambizione, da cui discendono comportamenti conflittuali e bellicosi. La prima immagine, quindi, attribuisce le cause della guerra ad uno o più tratti corrotti della natura umana, alle sue debolezze o imperfezioni inasprite dalla società. Possiede così un’antropologia negativa, un’idea sfavorevole della natura umana, la quale si può riscontrare in pensatori antichi e moderni come Machiavelli o Montesquieu. Le implicazioni che derivano per la ricerca di una soluzione al dilemma della guerra possono essere ricondotte a due filoni, come stabilito dallo stesso Waltz, che dipendono dalla mutabilità o immutabilità della natura umana:  il filone pessimista  la natura umana è ritenuta immutabile; quindi, si può solo limitarne il prorompere nell’ambiente politico grazie ad azioni di contrasto verso i comportamenti che ne derivano, come la dissuasione.  il filone ottimista  la natura umana è ritenuta mutabile; quindi, si possono realizzare meccanismi per cambiare le sue caratteristiche o quelle della società in cui gli individui si collocano, come la diffusione dell’informazione, del benessere o della ricchezza. La prima immagine è ritenuta da Waltz riduzionista e in quanto tale criticata perché riduce le cause di un fenomeno collettivo, come è la guerra, alle caratteristiche di un soggetto individuale, come è la persona. Secondo Waltz un fenomeno di gruppo non può essere spiegato tramite l’analisi individuale, soprattutto perché esso riguarda le relazioni tra Stati, unità politiche complesse e molto differenti tra loro. Quindi, la spiegazione antropologica della prima immagina è per Waltz parziale e carente.  seconda immagine  individua le cause primarie della guerra in alcune caratteristiche interne degli Stati e nella loro conseguente condotta esterna. Conflittualità e bellicosità non sono quindi attribuiti all’uomo, bensì allo Stato. Tuttavia, non allo Stato in quanto tale ma ad alcuni tipi di Stato; in particolare, al loro regime politico o economico o entrambi. La seconda immagine pone l’accento sui cosiddetti Stati difettosi per via del loro modo di organizzazione interna, più precisamente per il modo di esercizio dell’autorità. Tale difetto costitutivo influisce prima sull’organizzazione interna e dopo sulla condotta esterna, rendono lo Stato incapace di adottare comportamenti cooperativi e pacifici. In base alla seconda immagine le relazioni internazionali sarebbero pacifiche, o più pacifiche, se si avesse omogeneità politica tra gli Stati secondo il governo migliore, se la loro organizzazione fosse del giusto tipo, in base a principi correnti. La seconda immagine implica quindi una disposizione antipluralista della vita internazionale poiché predilige la riduzione della diversità degli Stati. La seconda immagine possiede una divisione interna che riguarda i mezzi utilizzati per promuovere il cambiamento interno degli Stati. La divisione è tra:  interventisti  affermano il diritto e il dovere di intervenire negli affari interni degli Stati. Sostengono il cambiamento interno grazie all’intervento dall’esterno e alla pressione di azioni specifiche.  non interventisti  negano il diritto e il dovere di intervenire negli affari interni degli Stati. Affermano che lo sviluppo deve essere autodeterminato localmente e grazie alla dinamica storica generale. Il problema di un ipotetico intervento negli affari interni di uno Stato è che, in caso di opposizione, si dovrebbe ricorrere all’uso della coercizione, fatto che può portare in ultima istanza alla guerra. Sono state mosse due critiche a questa immagine: resta indeterminato quale sia, tra i tanti tipi, il modello di Stato pacifico e viene offerta una visione parziale e relativa. La visione della seconda immagine non trova riscontro positivo con la vicenda storica: in ogni epoca si sono alternati diversi assetti interni ma ognuno di essi ha portato al medesimo esito, ossia al perdurare della guerra nelle relazioni internazionali. Gli Stati non hanno mai dimostrato di voler ripudiare la guerra, a prescindere dalla loro organizzazione interna o regime politico o economico.  terza immagine  individua la causa primaria della guerra nella struttura di interazione delle unità politiche, in particolare nella struttura anarchica delle relazioni internazionali. Ciò vuol dire che l’assenza di un’autorità superiore agli Stati, capace di dirimere le controversie con mezzi pacifici, è la causa principale della guerra. Di conseguenza, la guerra potrebbe essere arginata attraverso l’istituzione di un governo mondiale ma ciò vorrebbe dire rovesciare la struttura da anarchica a gerarchica. La terza immagine riprende il concetto di Hobbes di stato di natura per descrivere le relazioni primordiali tra individui, adattandolo alla descrizione della condizione degli Stati: l’esistenza di unità politiche indipendenti crea la struttura anarchica delle loro relazioni, la quale a sua volta genera vincoli alla condotta cooperativa degli Stati e produce un’azione disgregatrice che, in ultima istanza, può condurre alla guerra. L’azione disgregatrice, quindi, è un effetto strutturale, vincolante e ineludibile sulle relazioni internazionali. Secondo Rousseau, le relazioni tra potenze sono già uno stato di guerra che risulta dalla disorganizzazione: la struttura anarchica delle relazioni internazionali ostacola la cooperazione tra gli Stati e il conflitto può prodursi in qualunque istante. Senza un’autorità superiore in grado di dirimerlo pacificamente, esso può degenerare sempre in guerra violenta. L’eliminazione della struttura anarchica può condurre all’eliminazione della guerra tra gli Stati. Secondo Rousseau si giunge all’estinzione della guerra tramite una forma di governo confederativa, la quale, unendo tutti i popoli nello stesso modo in cui gli individui lo sono all’interno di uno Stato, sottomette gli uni e gli altri all’autorità delle leggi. Il problema è come giungere a quest’unione; perciò, la terza immagine presenta una divisione interna:  ottimisti  considerano plausibile un processo politico di unione mondiale di tipo pacifico  pessimisti  ritengono che, dato che le unioni tra Stati su scala locale sono state storicamente realizzate attraverso la guerra, allora quelle su scala mondiale si otterranno anch’esse tramite la guerra Capitolo IX Tre concetti importanti nella politica internazionale sono quelli di egemonia di potenza, equilibrio di potenza e sicurezza collettiva. Essi rappresentano tre strade differenti per mantenere la pace e giungere alla stabilità in condizione di anarchia internazionale. Le tre strade sono innanzitutto modi per giungere alla stabilità e successivamente per garantire la pace. La pace, infatti, non è un bene assoluto ma sempre relativo ad altri beni politici. La stabilità, ovvero “la tendenza di un dato assetto delle relazioni internazionali a perdurare, a non subire importanti variazioni per un certo periodo di tempo o ad assorbirle” è uno di tali beni. Essa è una condizione necessaria anche se non sufficiente della pace.  egemonia internazionale  il termine egemonia deriva dal greco. L’egemone era il condottiero, la guida e il comandante supremo dell’esercito. Inizialmente si trattava, dunque, di un termine facente parte del lessico militare. Dall’ambito militare il termine passa all’ambito internazionale per indicare “la posizione speciale di una potenza, definita prima tra pari, in grado di imporre una serie di regole così che le relazioni internazionali si svolgano secondo i fini voluti”. La potenza egemone, quindi, è lo Stato-guida in grado di capeggiare altri Stati e di decidere in ultima istanza per loro. Dalle poleis agli Stati moderni resta invariato il concetto per cui l’egemonia è “un rapporto di direzione tra uno Stato e uno o parecchi altri Stati”. L’egemonia, quindi, è una forma gerarchica delle relazioni internazionali basata sulla concentrazione della potenza. L’egemonia può essere distinta da altre forme di concentrazione della potenza come l’impero o il dominio poiché comporta mezzi e fini specifici.  l’egemonia si distingue dall’impero per almeno un aspetto fondamentale: l’egemonia non coincide con l’espansione territoriale tipica degli imperi e la conseguente integrazione nella struttura politica dei popoli e degli spazi sottomessi. Per questo motivo il concetto di egemonia non è presente nella lingua latina della civiltà romana: in quell’epoca storica è proprio il dominio imperiale l’assetto istituzionale prevalente. L’egemonia domina sì su uno spazio ma senza appropriarsene nel senso politico-giuridico del termine. Inoltre, l’egemonia non ha come fine la soppressione della libertà d’azione degli attori meno potenti ma è “una relazione di potere asimmetrica e legittima che disciplina ruoli, regole e fini condivisi” dagli Stati che sono coinvolti. In sintesi, l’egemonia è una forma di concentrazione della potenza che comporta un’autolimitazione della forza in cambio del riconoscimento di ruolo guida.  l’egemonia si distingue dal dominio, inteso come rapporto di coercizione costante basato sulla minaccia verso la sicurezza e i beni dei dominati. L’egemonia, invece, si manifesta come rapporto non coercitivo basato sulla protezione della sicurezza e sulla provvisione dei beni per i sottoposti. Il dominio, quindi, si fonda sulla paura di costi e danni emergenti per i dominati mentre l’egemonia si basa sul timore di benefici e vantaggi cessanti per i sottoposti. Stabilità e pace dipendono dalla superiorità di una unità politica ma questa superiorità non è ritenuta negativa da tutti gli altri; al contrario, questi ultimi non vogliono modificare lo status quo. Questo perché lo Stato egemonico non cerca di assorbire le unità politiche minori al suo interno e non aspira all’impero ma rispetta la loro indipendenza. È proprio la capacità di imporsi e garantire stabilità politica senza pretendere di trasformare il sistema internazionale in un impero ciò che legittima l’egemonia. L’asimmetria di potenza e la sproporzione delle forze sono il fondamento della stabilità egemonica e, di conseguenza, della pace egemonica. L’asimmetria produce gerarchia tra gli Stati e quindi stabilità politica; più le relazioni internazionali hanno un assetto gerarchico che ne limita la struttura anarchica, più si genera un vincolo di stabilità che contrasta il vincolo anarchico produttore di instabilità. Ne deriva che, se il principio della stabilità egemonica è l’asimmetria di potenza, ciò che ne determina l’instabilità è la crisi di tale principio, ovvero il declino della posizione egemonica. Il processo di ascesa e declino delle grandi potenze è influenzato dalle differenze nel livello di crescita e progresso tecnologico, i quali portano a cambiamenti negli equilibri economici globali, che a loro volta condizionano gli equilibri politici e militari. Lo Stato egemone ha risorse e capacità, materiali e immateriali, maggiori degli altri e riesce attraverso la persuasione o l’intimidazione a imporre i suoi interessi economici, politici e strategici. Il primato dello Stato egemone è influenzato da molteplici fattori, indeterminabili a propri e sempre relativi, come la posizione geografica, l’organizzazione interna o l’abilità diplomatica. Analizzando l’egemonia nell’età moderna si è notato che lo Stato egemone coesiste con un sistema economico internazionale capitalista poiché è il primo beneficiario di un mercato mondiale libero attraverso cui riesce a prevalere nella finanza. Le egemonie si sono presentate in modo ciclico. La ciclicità storica delle egemonie è stata osservata con precisione da Gramsci, il quale ha notato che nei cicli egemonici si osserva l’ascesa-stabilità-declino di una potenza VS l’ascesa-stabilità- declino di un’altra potenza. Questo ciclo presenta però un punto di crisi: quando la transizione di potenza rende instabile la gerarchia internazionale. A questo punto riemerge la competizione internazionale, che assume le caratteristiche di una sfida di potenza. Se tale sfida non trova soluzioni, allora si ha il rischio concreto di guerra per l’egemonia. La guerra egemonica, quindi, è una condizione di mutamento che ha carattere costituente poiché stabilisce chi guiderà il sistema di Stati e in che modo.  equilibrio di potenza  l’equilibrio di potenza è inteso come una condizione in cui gli Stati si trovano, equilibrio politico, o come una politica che gli Stati adottano consapevolmente, politica dell’equilibrio. L’equilibrio di potenza riguarda una condizione di stabilità e di pace opposta all’egemonia. La pace d’equilibrio dipende dalla parità di forze tra le unità politiche e impedisce che una di esse o una coalizione impongano la propria volontà; è basata sulla simmetria di potenza intesa come “un rapporto di proporzione tra le forze delle potenze maggiori e delle loro coalizioni nel sistema internazionale”. Essa implica perciò, a differenza dell’egemonia, la diffusione della potenza e non la sua concentrazione. La simmetria di potenza genera stabilità per competitività ma tale stabilità è precaria poiché deriva da una condizione di stallo e di inazione forzata rispetto al mutamento internazionale. Ne consegue che la pace d’equilibrio è una condizione transitoria e non implica una soluzione definitiva al problema della guerra. Ciò che può offrire l’equilibrio di potenza è quindi una pace provvisoria, meglio detta “tregua armata”. La teoria dell’equilibrio di potenza non è infatti una teoria della fine della guerra ma una teoria della continuazione dello stato di tregua. Di conseguenza, presuppone l’evitabilità della guerra grazie al mantenimento della pace d’equilibrio, che è una condizione di tregua continuata. Quest’ultima è resa possibile dalla costante minaccia della guerra il cui mezzo è la mutua dissuasione, il timore reciproco che possa verificarsi un tale evento dannoso. Nell’uso moderno equilibrio di potenza è una frase polisemica, il cui significato dipende dal contesto storico e da chi la utilizza. Una definizione molto precisa di equilibrio di potenza è stata fornita da Vattel: l’equilibrio di potenza è “una disposizione delle cose grazie alla quale nessuna potenza si trova in condizione di esercitare un assoluto predominio e di dettar legge alle altre”. Dato che è una frase polisemica per comprenderne a pieno il significato bisogna considerare la distinzione tra equilibrio politico e politica dell’equilibrio. La politica dell’equilibrio è il risultato di una concezione volontaristica che considera il bilanciamento come una pratica consapevole ma non automatica. La politica dell’equilibrio ha quindi come elemento centrale la politica di bilanciamento, che può essere realizzata solo se c’è la volontà delle parti di attuarla. È proprio per questo che l’equilibrio di potenza porta con sé precarietà e transitorietà. La politica di bilanciamento presuppone almeno un requisito fondamentale: la flessibilità degli allineamenti e delle alleanze, ovvero al mutare della distribuzione di potenza gli Stati devono cambiare immediatamente allineamenti o alleanze per bilanciare il mutamento e riportare l’equilibrio. Per l’equilibrio di potenza sono quindi solo le posizioni nel sistema internazionale a importare, non le qualità delle varie alleanze o allineamenti. Ci sono due tipi di equilibri di potenza:  equilibrio bipolare  riguarda due grandi potenze a capo di due blocchi mondiali di Stati contrapposti  equilibrio multipolare  riguarda più di due potenze La flessibilità è possibile solo dove c’è un equilibrio multipolare. In condizione di equilibrio bipolare, invece, tale flessibilità è problematica per via delle rigidità dei blocchi.  sicurezza collettiva  la dottrina della sicurezza collettiva si sviluppa con l’obiettivo di dare al sistema dell’equilibrio di potenza un quadro legale, renderlo più razionale, maggiormente affidabile e più efficacemente preventivo. La sicurezza collettiva ambisce a fornire uno schema di stabilizzazione istituzionale delle relazioni internazionali per la pace comune. Lo schema si basa sulla cooperazione volontaria tra tutti gli Stati, sull’interesse comune e il senso di obbligazione reciproca che li impegna a fronteggiare insieme le minacce alla sicurezza di ciascuno. Inizialmente la sicurezza collettiva coinvolgeva pochi Stati ed è solo con il Trattato delle nazioni che si coinvolgono tutti gli Stati in modo rigoroso. Con il Trattato l’idea di una pace comune, basata sulla sicurezza collettiva, ha assunto caratteri universali e permanenti consolidati dai principi politici e legali contenuti nella Carta ONU. La sicurezza collettiva è “un’istituzione multilaterale creata dagli Stati per preservare la pace in tutto il sistema internazionale”. Essa comporta che ogni violazione della pace riguarda tutti gli Stati e un attacco contro uno è considerato un attacco contro tutti. Fino alla creazione della Lega delle nazioni la guerra era per il diritto internazionale una relazione legittima tra gli Stati. La Lega delle nazioni restrinse le condizioni per cui si poteva ricorrere alla guerra ma non la vietò completamente. Quindi, la Carta non stabiliva l’eliminazione della guerra ma solo il suo controllo e la sua gestione attraverso norme legali multilaterali. La Carta contemplava la guerra come “azione coercitiva internazionale” contro chi viola la pace ma non cambiava il meccanismo alla base dell’anarchia internazionale: l’autodifesa individuale da un attacco armato, il diritto naturale all’autotutela. Restava immutato anche il problema del disarmo poiché se non è presente una forza armata per la comunità degli Stati e rispetto a loro autonoma, l’aiuto della Comunità internazionale ad uno Stato vittima di un’aggressione può consistere solo nell’obbligo della Comunità stessa di difendere tramite la loro forza armata lo Stato attaccato. L’uso collettivo della forza armata è disciplinato secondo i 4 criteri tipici della guerra giusta usati per giustificare e legittimare l’uso della forza armata:  giusta causa  autorizzazione di un’autorità competente  guerra come extrema ratio  proporzionalità dei mezzi e dei fini Essi interpretano la sicurezza collettiva come se fosse il dispositivo di polizia della Comunità internazionale. L’immagine della “polizia internazionale” richiama l’analogia domestica con la polizia di Stato. Tuttavia, è proprio a partire da questa analogia che si possono comprendere le notevoli incongruenze: il funzionamento della sicurezza collettiva non possiede nessun automatismo coattivo d’esecuzione tipico della polizia di Stato. La sicurezza collettiva si basa, invece, su un’azione diplomatica di successo, la quale stabilisce gli intenti delle potenze rappresentate in permanenza nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ovvero quelle vincitrici la Seconda guerra mondiale, e li mantiene uniti. Senza la premessa diplomatica la sicurezza collettiva non funzionerebbe poiché, a differenza della polizia di Stato, non procede da sé, autonomamente, per via dell’assenza di un governo mondiale; si basa invece sul consenso e la volontà delle potenze nel Consiglio. La Carta, infatti, assegna a queste potenze le decisioni sull’uso della sicurezza collettiva e a ciascuna il potere di veto che, in caso di disaccordo, può bloccarne il funzionamento. La Lega delle Nazioni fallì poiché non ebbe abbastanza appoggio dalle grandi potenze. I fondatori delle Nazioni Unite si posero allora l’obiettivo di ottenere una gestione collettiva delle relazioni internazionali per renderle più stabili e pacifiche, senza però eliminare la disuguaglianza tra gli Stati. Il principio cardine della sicurezza collettiva è l’indivisibilità della pace. Se la pace non è divisibile, ossia appartiene a tutti, allora anche la guerra dovrebbe sempre essere considerata una minaccia per tutti e non solo per qualcuno, a prescindere dalle circostanze. Per questo la sicurezza collettiva è universale, cioè coinvolge tutti gli Stati, e multilaterale, cioè si basa su regole condivise, imparziali e pubbliche. Essa impone alla condotta degli Stati due vincoli interdipendenti:  la rinuncia alla guerra come mezzo politico, salvo nel caso di autodifesa  l’impegno a favore di qualunque vittima di un attacco, nel caso non sia rispettato il primo vincolo La sicurezza collettiva comporta anche una serie di utilità:  la guerra  ha la funzione di preservare l’equilibrio di potenza, imporre il diritto e promuovere il suo mutamento. Soprattutto, la guerra è l’istituzione per la decisione finale delle controversie, quindi non è solo una manifestazione di disordine. Gli Stati si riconoscono reciprocamente la legittimità di ricorrervi quando non sussistono più le regole di cooperazione pacifica. La guerra è però limitata non solo da circostanze di fatto, come il timore della sconfitta, ma anche dal suo carattere istituzionale: la titolarità esclusiva è affidata agli Stati. Le istituzioni non derivano da un’autorità centrale ma sono il prodotto della collaborazione politica tra gli Stati, esprimono la capacità della società internazionale di perseguire e realizzare gli scopi alla base dell’ordine e influenzano la natura stessa della convivenza internazionale. Queste istituzioni sono diverse rispetto a quelle presenti nelle società dotate di un governo, soprattutto per il ruolo svolto. Le istituzioni della società internazionale non costituiscono una risposta definitiva e generale al problema dell’ordine, bensì sono una risposta precaria e limitata, sempre soggetta al condizionamento dei più forti. Anzi, le regole e istituzioni si può dire che sono l’esito diretto dei rapporti di forza. Nonostante ciò, svolgono la funzione positiva di sostenere l’ordine in una società anarchica, attenuando le disuguaglianze e limitandole. Inoltre, permettono di rendere operative le regole che vincolano a determinati comportamenti, coerenti con gli scopi della vita sociale. Si tratta di regole morali, consuetudinarie o di prassi consolidata. Le regole della società internazionale possono essere classificate in almeno due tipi:  regole di coesistenza  indicano la condotta coerente con l’interesse comune negli scopi primari dell’ordine  regole di cooperazione  riguardano scopi secondari, oltre la mera coesistenza Senza le prime non si hanno le seconde. Tuttavia, nella società anarchica, entrambe possono essere rese efficaci solo dagli Stati stessi e ciò le rende molto precarie e incerte. Gli Stati rimediano all’assenza di un governo mondiale in diversi modi:  creando le regole per consenso, prassi e accordi  comunicandole con atti o dichiarazioni  amministrandole loro stessi o tramite organizzazioni internazionali che dagli Stati dipendono  interpretandole  modificandole e adattandole con atti, dichiarazioni e violazioni  attuandole con misure di autotutela, compreso l’uso della forza Nessuna teoria della società può prescindere dal riferimento all’idea di giustizia. La giustizia è un valore e le idee sulla giustizia sono idee morali soggettive su ciò che è giusto. La scuola inglese analizza il rapporto tra giustizia sociale e ordine sociale nel contesto internazionale. L’ordine è considerato precedente alla giustizia poiché quest’ultima, in ogni sua forma, è realizzabile solo nel contesto dell’ordine. Le forme che la giustizia può assumere riguardano:  criteri:  l’uguaglianza effettiva nei diritti e doveri  giustizia sostanziale  l’equa distribuzione dei diritti e doveri  giustizia distributiva  la giusta proporzionalità dei diritti e doveri  giustizia proporzionale  soggetti  i diritti e i doveri possono essere attribuiti:  ai singoli individui  giustizia individuale  agli Stati  giustizia internazionale  all’umanità intera  giustizia cosmopolitica Ogni forma di giustizia implica un grado diverso di compatibilità con l’ordine internazionale. L’ordine internazionale è poco compatibile con la giustizia individuale poiché essa destabilizza l’insieme di regole e istituzioni che sono basate sugli Stati. Il riconoscimento reciproco della sovranità da parte degli Stati, che è alla base dell’ordine, implica che i diritti e i doveri degli individui siano associati allo Stato di appartenenza, fatto che impedisce il riconoscimento degli stessi diritti e doveri di un individuo in ogni luogo. Diritti e doveri individuali sono perciò subordinati allo Stato e ai suoi interessi cosicché il valore della giustizia individuale nella politica mondiale rimane subordinato al valore dell’ordine mondiale. L’ordine internazionale è invece compatibile con la giustizia internazionale, che può consolidare l’insieme di regole e istituzioni tra gli Stati, rendendole più eque. Maggior giustizia internazionale significa maggior consenso intorno alle regole e istituzioni della società internazionale e, quindi, un rafforzamento dell’ordine. La società internazionale però accoglie solo in modo parziale le domande di giustizia internazionale, per esempio riconoscendo solo parzialmente agli Stati svantaggiati il diritto a risorse vitali. Per questo motivo, il conflitto tra ordine e giustizia internazionale persiste e le domande di giustizia tra Stati se non in possesso di sufficiente consenso possono produrre conflitti in grado di destabilizzare l’ordine internazionale. L’ordine internazionale, infine, è restio alla giustizia cosmopolitica poiché è intrinsecamente rivoluzionaria. Le domande di giustizia cosmopolitica per essere accolte necessitano di una trasformazione del modello di attività umana che sostiene l’ordine poiché esse trascendono idealmente la suddivisione in unità politiche e riguardano ciò che è giusto o buono per l’umanità nel suo complesso. La giustizia cosmopolitica, quindi, non può coesistere con un modo organizzato in Stati ma può essere presente solo in una società universale politicamente unita, definibile come comunità cosmopolitica. Ciò però comporta la fine della divisione dell’umanità in Stati e perciò della società internazionale. Capitolo XI Il riferimento allo spazio, ossia a un criterio geografico, è imprescindibile per il pensiero e la prassi nelle relazioni internazionali perché “il mondo è il complesso di relazioni di potere al cui interno si svolge la vita umana”. Lo spazio politico internazionale è definito e delimitato dalle relazioni tra gli Stati e nel corso dei secoli ha subito variazioni soprattutto per via delle scoperte geografiche e dell’espansione esterna delle potenze europee a partire dal XV secolo. Lo spazio geografico contiene la politica internazionale e il suo manifestarsi ma la politica internazionale organizza e definisce lo spazio geografico; quindi, esiste un rapporto di interdipendenza tra spazialità e politicità nelle relazioni internazionali, ciò che si chiama spazio politico internazionale. Lo spazio rimanda al problema della sicurezza e, di conseguenza, a quello della vulnerabilità degli Stati. Gli Stati, nella misura in cui sono vulnerabili, non lo sono affatto in maniera uniforme e ciò riguarda la loro diversa grandezza e la loro differente collocazione nello spazio. Lo spazio può essere concepito e quindi rappresentato in tre modi:  come ambiente  perché riguarda la realtà geografica dello spazio in relazione alla presenza umana  come teatro  perché lo spazio assume la qualità astratta nella quale sono in risalto solo certe caratteristiche che riguardano la politica e il suo svolgimento. Quindi, lo spazio inteso come teatro non è solo una parte dell’ambiente ma è lo spazio di un’attività specifica qual è la politica internazionale  come posta  perché rimanda al fatto che storicamente esso è stato l’elemento di possesso al centro di accordi e conflitti internazionali Lo spazio politico è sia una rappresentazione dello spazio geografico, tramite la mappa e i confini, sia un’applicazione concreta di tale rappresentazione nell’ambiente. Nel rapporto tra spazio e politica è però quest’ultima a delimitare lo spazio e non viceversa. La separazione spaziale, ovvero la statalizzazione del mondo, non è un qualcosa di naturale, bensì di artificiale. La divisione dello spazio globale in Stati porta ad una separazione artificiale che conduce alla distinzione tra nemico e amico basata sulla differenziazione e separazione tra interno ed esterno agli Stati. È questa la funzione fondamentale del confine nelle relazioni internazionali: separare esterno e interno degli Stati, chiudendo lo spazio e unendo ciò che esso racchiude. È una funzione destinata a delimitare un perimetro interno di inclusione e di pace e un perimetro esterno, oltre il confine politico, di esclusione e rischio di guerra. Il confine è l’elemento definitorio principale dello spazio politico internazionale. La linea di separazione è artificiale, immaginaria ma i confini svolgono un compito costitutivo nel modo di organizzazione della vita politica internazionale. La linea di confine è l’insieme dei punti di intersezione tra spazio fisico e spazio politico. Se il confine geografico è una zona di transizione fisica e naturale, nella quale scompaiono le caratteristiche individuanti una regione e cominciano quelle differenzianti, il confine politico è invece una linea di separazione astratta e innaturale che porta ad una differenziazione artificiale, altrimenti inesistente nella realtà. Il mondo è, da questo punto di vista, la pluralità delle limitazioni imposte dai confini internazionali. Gli Stati controllano la libertà di circolazione e lo stabilimento delle persone e dei gruppi privati. Solo gli Stati possono concedere l’autorizzazione al superamento dei confini. In questo senso nella nostra epoca storica gli Stati posseggono un monopolio dei mezzi che consentono il movimento. Proprio il confine politico è condizionato per diversi motivi da ciò che esso divide, gli Stati, per tre motivi:  la linea di confine può essere tracciata dove esistono relazioni interstatali e la capacità di rappresentarle e gestirle. Gli Stati si basano sul controllo dei confini e la capacità di tale controllo implica una sorta di simmetria nelle relazioni internazionali. Si tratta però di una simmetria fittizia poiché nella realtà gli Stati non possiedono tutti la stessa capacità di controllo dei confini.  la linea di confine è una linea storicamente mobile, mutevole nel tempo col mutare dell’assetto internazionale. Il mutamento può avvenire in diversi modi:  con la partizione  la suddivisione in parti del territorio di uno Stato da parte di altri Stati  con l’espansione  con l’annessione  l’ampliamento unilaterale del territorio di uno Stato a spese del territorio di un altro Stato con l’uso della forza  con la disintegrazione  con l’integrazione  il confine internazionale è un luogo-simbolo delle relazioni tra gli Stati. È proprio sul confine che si esplica concretamente il patto del mutuo riconoscimento delle sovranità, per cui gli Stati accettano ciascuno la sfera di giurisdizione dell’altro. Per questo la violazione del confine è l’atto offensivo per eccellenza mentre la sua protezione l’attivo difensivo supremo. Sul rapporto offesa/difesa si è sviluppata la geopolitica, il cui termine si diffonde nella prima metà del Novecento nel mondo occidentale. Il contributo della geopolitica è quello di considerare la politica internazionale in termini di vincoli e condizionamenti geografici che gravano sulle relazioni internazionali. Il pensiero geopolitico nasce con una qualità intrinsecamente agonistica che ha finito per segnarne il processo durante il Novecento e dopo. Per via del costante pensiero di un nemico attuale o potenziale, di una minaccia, la sicurezza è fondamentale per la geopolitica. Essa ha come presupposto che nello spazio politico internazionale si dispongano soggetti reciprocamente ostili che legano il proprio destino a elementi spaziali naturali non solo distinti, bensì contesi. Quindi, lo spazio è prima di tutto teatro e posta della politica internazionale. L’ambiente naturale che occupa i gruppi umani diviene in questo senso un mero fattore di calcolo strategico e di confronto. Gli Stati sono così coinvolti in un scontro che si presuppone conflittuale. La geopolitica è perciò una dottrina della prassi nella competizione per lo spazio. La più classica questione della geopolitica è centrata sul binomio terra/mare e sulle implicazioni per la politica internazionale. Ciò permette di accostarsi all’aspetto centrale del pensiero geopolitico delle origini: la distinzione tra potenze marittime e potenze terrestri o continentali. La potenza marittima può solcare liberamente lo spazio aperto del mare mentre la potenza continentale deve superare obbligatoriamente lo spazio chiuso del territorio altrui. Il mare è libero e continuamente attraversato in tutte le direzioni. È però anche segnato da rotte tracciate in virtù di linee di comunicazione, prodotte da ragioni storiche, che ne segnano il profondo e duraturo valore strategico e commerciale in termini di accesso e controllo e distanza e prossimità. La capacità di percorrere le rotte navali, di controllare le linee di comunicazione significa possedere libertà di movimento illimitato attraverso il globo. Questa capacità concede la possibilità di limitare quella altrui; ad esempio, con il blocco navale l’altro può essere tenuto a distanza. Il blocco navale permette alla potenza marittima di proiettare la propria potenza ai confini di ogni Stato accessibile dal mare, mantenendo tuttavia la distanza. Lo spazio politico internazionale non è segnato solo dalle linee di confine; sono sempre esistite altre linee di delimitazione spaziale e demarcazione politica, differenti ma ugualmente importanti. Nel XVI secolo il concetto di linee di amicizia stabilito tra le potenze europee implicava che i loro conflitti territoriali per le conquiste d’oltremare, a ovest delle Canarie e a sud del tropico del cncro, non ne compromettessero le relazioni in europa. Le linee di divisione, invece, create durante il papato di Alessandro VI assegnavano invece a certe potenze europee il diritto di conquista in determinate aree. Nel XIX secolo le grandi potenze affrontarono la questione d’oriente spartendosi l’africa e riconoscendo le rispettive sfere di influenza nell’estremo oriente. Se gli accordi e i disaccordi tra le potenze per attribuirsi il predominio su certe parti del globo sono quindi una pratica di lunga durata, il concetto di sfera d’influenza, nell’accezione odierna, è soprattutto un prodotto dell’espansione imperialista europea nel tardo XIX secolo. Una sfera di influenza è una zona determinata nella quale una singola potenza esterna esercita un’influenza preponderante che limita l’indipendenza delle entità politiche al suo interno e la libertà di azione delle altre potenze. Ciò che spinge alla configurazione delle sfere di influenza nella politica internazionale è la volontà di potenza tipica di tutta la politica. Nelle relazioni internazionali le sfere d’influenza restano spesso al grado di linee politiche informali, prive di una rappresentazione definita e di legalizzazione internazionale stabile. Esse prescindono dalle linee di confine internazionale e dal principio di sovranità. Ciò significa che la delimitazione delle sfere d’influenza tra le potenze è inanzitutto una pratica politica operativa e quando le potenze riconoscono le rispettive sfere d’influenza non ne deriva necessariamente il riconoscimento di alcun diritto e neppure una legittimazione al controllo di una certa area. Tantomeno ciò accade quando una sfera di influenza viene definita unilav finalmente e in modo implicito. Le sfere di influenza possono avere un carattere negativo, volto all'esclusione di ogni intervento esterno, oppure al contrario, un carattere positivo rivolto all'inclusione. Quindi, possono avere sia carattere conflittuale che cooperativo. L'origine imperialista del concetto di sfera di influenza e il suo contrasto con l'idea dell'uguale sovranità degli Stati spiega, nel nostro secolo, un certo ripudio al suo esplicito utilizzo. Il nostro secolo è caratterizzato da ma una delle più importanti estensioni della sfera di influenza di una di una potenza nei confronti di un'altra, verificatasi quando virgola dopo la fine della guerra fredda, nell'arco di vent'anni, gli Stati Uniti hanno espanso la propria c'era di influenza in profondità nello spazio ex sovietico e nella fascia ex neutrale, cioè nel triangolo tra Balcani occidentali Croazia Mar Baltico Estonia e Caucaso Georgia. il riconoscimento delle sfere di influenza implica anche il riconoscimento di responsabilità politiche nella loro gestione da parte della potenza preponderante. La divisione dello spazio politico internazionale in sfere di influenza corrisponde a un processo politico continuo di conflitto e cooperazione: conflitto per la definizione e l'ampliamento delle sfere di influenza, cooperazione nel controllo del conflitto entro certi limiti. La determinazione delle intese sulle sfere di influenza e perciò un aspetto fondamentale per la coesistenza internazionale perché più tali intese sono imprecise o ambigue piu lo e l'organizzazione dello spazio politico internazionale. D'altronde come si è visto se è vero che storicamente le sfere di influenza possono essere il risultato di intese precedenti al loro stabilimento è vero anche il contrario cioè che il raggiungimento di accordi può essere l'esito dell'esistenza pregressa di sfere di influenza. L'esercizio della potenza, quindi, è ciò che influisce particolarmente sull'organizzazione dello spazio politico internazionale. In questo spazio di cooperazione conflitto si costituiscono anche le alleanze. Capitolo XII Un’alleanza è l'unione delle forze per uno scopo comune. Si tratta di un accordo politico che obbliga gli Stati, i quali non cedono la propria sovranità, a vincoli reciproci e ad impegni politici. L’alleanza si distingue perciò da altre unioni tra Stati invece fondate su una cessione relativa di sovranità come le federazioni, le confederazioni e altre entità politiche legate da patti associativi. Le alleanze presentano almeno tre caratteristiche principali:  una natura cooperativa  la sicurezza come oggetto principale  il carattere formale La regolarità e la frequenza con la quale gli Stati sono ricorsi alle alleanze ne fanno un'istituzione creata per realizzare un interesse comune, per dare protezione o esercitare pressioni. Le alleanze sono il principale strumento di cooperazione internazionale, la quale origina dall'insicurezza e dal timore del conflitto violento che connotano la vita internazionale. La cooperazione presente in ogni alleanza, sia essa difensiva o offensiva o entrambe le cose, è quindi legata alla possibilità della guerra. Le alleanze possono dissolversi se perdono contro il nemico oppure possono disgregarsi dopo aver prevalso sul nemico per via della fine della minaccia che le aveva originate. Le alleanze si distinguono da altre modalità di condotta e cooperazione internazionale tra Stati, quali sono gli allineamenti intesi come lo schieramento generico su posizioni comuni, per diversi motivi:  c’è la volontà politica di condividere la forza armata e la mobilitazione comune delle risorse di violenza organizzata. La dimensione militare ne è di fatto il fondamento. In condizione di anarchia nessuno può sentirsi veramente sicuro; l'insicurezza è una preoccupazione onnipresente dato che il possesso di capacità distruttive comporta sempre il rischio che siano usate. Per Hobbes, infatti, allearsi è un bisogno perché in una condizione di guerra nella quale ognuno, per mancanza di un potere comune che tenga tutti in soggezione, è nemico di ogni altro non c'è nessun uomo che possa difendersi dalla distruzione soltanto con la propria forza senza l'aiuto di alleati.  l'esistenza di un trattato, cioè un accordo formale. Le alleanze riguardano una promessa di impegno esplicita ed estesa nel tempo tramite trattati. La cura con cui i trattati di alleanza sono redatti rispecchia la loro importanza per i contraenti. Inoltre, le implicazioni politiche e psicologiche di un'alleanza possono superare persino gli impegni contenuti negli accordi formali producendo aspettative di mutua assistenza oltre alle circostanze contemplate dal trattato. Tuttavia, storicamente ci sono state alleanze salde e durevoli benché informali; infatti, le alleanze nell’Europa dinastica dipendevano più da matrimoni e accordi familiari che da trattati. La conclusione di un accordo formale, d’altra parte, non dà mai garanzia del suo mantenimento, tantomeno in condizioni di anarchia internazionale. Lo scopo principale di ogni alleanza è ottenere vantaggi e sicurezza, ovvero assistenza e protezione, rispetto alla minaccia del nemico o contro di Nella Grecia antica alleanza significava “combattere insieme” e in questa identificazione, tramandata nel pensiero politico fino ai tempi nostri, si ritrova il legame costante tra alleanza e guerra. esso. Non esistono nemici naturali né alleati naturali e il carattere storicamente mutevole degli allineamenti internazionali lo dimostra. Il nemico è chi nella percezione degli alleati di volta in volta ostacola o cerca di ostacolare la realizzazione dello scopo dell'alleanza. L'impegno comune degli alleati è verso questa minaccia e volge al futuro, a ciò che può accadere o che dovrebbe essere fronteggiato insieme. L'alleanza riguarda perciò una promessa reciproca di sostegno, anche militare, uno scambio di impegni frutto di aspettative su vantaggi comuni. Le alleanze possono assumere forme diverse ed essere:  bilaterali o multilaterali  segrete o pubbliche  temporanee o permanenti  generali o limitate Nonostante ciò, l'essenza di un sistema di alleanza consiste nel fatto che gli impegni presi e gli aiuti attesi siano definiti e credibili. La formalizzazione di un'alleanza rafforza la credibilità dell'impegno perché specifica gli obiettivi comuni, chiarisce gli obblighi e stabilisce la reciprocità delle condotte da tenere. Se l'alleanza non è credibile allora non è efficace perché non produce rassicurazione tra gli alleati né dissuasione verso gli altri. A prescindere dal linguaggio con cui sono formulate, le alleanze hanno sempre natura esclusiva e discriminatoria perché includono alcuni Stati e ne escludono altri. Si tratta quindi di un'istituzione particolare e non universale che separa chi ne è parte da chi non lo è. Tutte le alleanze sono per questo motivo bidimensionali perché non implicano solo le relazioni tra alleati e non alleati, cioè la dimensione esterna dell'alleanza, ma anche i rapporti tra gli alleati stessi, cioè la dimensione interna dell'alleanza, le quali interagiscono. Le funzioni principali delle alleanze sono almeno due:  aggregare la potenza degli alleati  la potenza è l'insieme di risorse a disposizione di uno Stato in relazione a quelle degli altri Stati. L'aggregazione della potenza riguarda specialmente la dimensione esterna delle alleanze, quella in cui si proietta la causa comune degli alleati verso gli Stati terzi, ossia i non alleati. Aggregando la potenza gli Stati perseguono gli interessi comuni, contrastano le minacce e mantengono l'equilibrio di potenza.  fornire uno strumento di controllo dell'ambiente internazionale  quando due potenze stringono un'alleanza per realizzare un fine comune non solo si aiutano l'un l'altra ma ognuno agisce come il controllore dell'altro. A prescindere dagli obiettivi perseguiti, le alleanze permettono di limitare l'incertezza nelle relazioni internazionali creando dei vincoli alla libertà di azione degli Stati e, di conseguenza, rendono più prevedibile la condotta di ognuno inducendo ad agire nel modo più conforme alle
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