Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

riassunto libro Diritto Penale-Palazzo, Dispense di Diritto Penale

è un riassunto discorsivo del libro di diritto penale Palazzo

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 15/02/2023

anitacardelli
anitacardelli 🇮🇹

4

(1)

7 documenti

1 / 161

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto libro Diritto Penale-Palazzo e più Dispense in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! 1 CAPITOLO INTRODUTTIVO: EVOLUZIONE E CARATTERI GENERALI DEL DIRITTO PENALE ITALIANO. 1. Dal codice Zanardelli alla Costituzione e al processo di europeizzazione. Dalla Rivoluzione francese in poi le disposizioni del diritto penale trovano collocazione nel codice. Dalla seconda metà del secolo scorso c’è stata la tendenza a legiferare con leggi extra codicem (cd. leggi complementari o speciali): fenomeno della decodificazione. Il legislatore penale italiano cerca di evitare ciò stabilendo che le nuove disposizioni incriminatrici possono trovare posto solo nel codice o in leggi che disciplinano in modo organico la materia: cd. principio della riserva del codice, art. 3 bis c.p. A. Primo codice: CODICE ZANARDELLI, 1890. àImpronta liberale del codice si coglie: 1. Nel rispetto del principio di ascendenza illuministica di legalità dei reati e delle pene, quale fondamentale garanzia dell’individuo contro i possibili arbitri del potere punitivo statale. 2. L’idea del reato inteso come fatto oggettivo dotato di una sua materiale offensività piuttosto che mera manifestazione di un atteggiamento soggettivo di disobbedienza o di pericolosità. 3. Apparato sanzionatorio: sia x la rinuncia alla pena di morte e x l’adozione di pene nel complesso non esorbitanti. B. CODICE ROCCO, 1931, tuttora in vigora. àprodotto del fascismo. Fa parte di un corpo legislativo penale costituito dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e dal regolamento carcerario. Contenuti fondamentali di ispirazione autoritaria. Questa si coglie in una accentuata concezione statalistico-pubblicitaria degli interessi o beni tutelari nella parte speciale. àpervade istituti della parte generale del diritto penale: 1. Inasprimento sanzionatorio, che si manifesta nel ripristino della pena di morte (eliminata) e nella sua coesistenza con l’ergastolo, e nella misura esorbitante delle pene comminate. 2. Istituti in cui le esigenze repressivo punitive e di prevenzione generale prevalgono sui principi liberalgarantistici di colpevolezza e di rigorosa previsione del fatto oggettivo di reato. Questo codice segna un progresso rispetto al codice precedente attraverso una maggior apertura nei confronti del reo. Questa modernizzazione avviene nel segno dell’inasprimento della risposta sanzionatoria, attraverso “misure di sicurezza” che, quando applicate all’imputabile, si vengono ad aggiungere alle pene vere e proprie (cd. doppio binario). C. LA COSTITUZIONE DEL 1947, 1948. àOrdine di valori diverso attraverso un ordinamento liberal- democratico fondato su valori personalistici e sociali-solidaristici. Contiene il divieto della pena di morte e di ogni pena o trattamento contrari al senso di umanità; vi è un complesso di norme costituzionali dall’insieme delle quali è possibile ricavare il “volto costituzionale” del diritto penale italiano: legalità dei reati e delle pene, colpevolezza come presupposto indefettibile della pena, necessaria oggettiva offensività del reato, finalità rieducativa della penaà sono principi costituzionali che svolgono un ruolo di limite garantista e concorrono a delineare una concezione del diritto penale in cui la ineliminabile contrapposizione “negativa” tra Stato e individuo, tra libertà ed autorità, si converte in una relazione “dialogica” secondo cui il diritto penale è mezzo “positivo” di tutela e di recupero della persona umana, delle vittime e dei rei, in un equilibrato vivere sociale. Tutti i tentativi di riforma sono abortiti lasciando l’Italia l’unica a non avere un codice adeguato al tempo. D. Dopo l’Integrazione europea, il diritto penale italiano deve essere coerente con gli obblighi internazionali promananti dal Consiglio d’Europea e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dall’ordinamento dell’UE del Trattato di Lisbona con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cd. Carta di Nizza). Questi aspetti sono ricaduti sul diritto penale sotto due profili: 1. Garanzie concepite in un’accezione e in un’estensione non sempre coincidenti con quelle nazionali; 2. Oggetti di tutela, imponendo spesso obblighi internazionali di tutela penale in aggiunta a quanto previsto dall’ordinamento interno. 2. Le riforme penali più significative. Dagli anni ’70 del secolo scorso abbiamo avuto la produzione di numerose riforme che hanno trasformato e reso più complicato il sistema. Queste hanno rotto la originaria unitarietà del sistema penale, creando sistemi (o sottosistemi) paralleli a quelli “tradizionali”, dando origine a una nuova “parte generale”. a) Legge 24/11/1981 n. 689: sistema dell’illecito punitivo amministrativo: illecito “para-penale”, che presenta caratteri strutturali e funzionali omogenei a quello penale “tradizionale” ma, essendo sanzionato con pene non limitative della libertà personale ed essendo di conseguenza attribuito alla competenza dell’autorità amministrativa è destinato ad accogliere violazioni di consistenza bagatellare, così da poter riservare l'illecito penale alla repressione dei fatti offensivamente più significativi. C'è stata una razionalizzazione del sistema e di alleggerimento del carico giudiziario. D.lgs. 15/01/2016 n. 7: illecito punitivo civile, per cui alcuni fatti con vittima, realizzati in contesti interpersonali, obbligano l'autore alla riparazione del danno e al pagamento allo Stato di una sanzione pecuniaria civile. b) D.lgs. 28/08/2000 n. 274: competenza penale al giudice di pace. àè un magistrato non togato ed ha una preparazione tecnicamente meno approfondita, alla quale corrisponde una prossimità alle esigenze quotidiane della popolazione e una consistente semplificazione dei moduli di giudizio. Gli è affidata la competenza di reati di 2 modesta gravità, espressione di microconflittualità di interpersonali, da poter essere eventualmente risolti attraverso provvedimenti di conciliazione tra le parti. È un sistema di giustizia minore diverso da quelli tradizionali punitivi. c) D.lgs. 08/06/2001 n. 231, responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche. àsuperando la visione fisico-individualistico dell’illecito e della responsabilità penale (societas delinquere non potest) viene creato un sistema di responsabilità delle persone giuridiche affidato al giudice ordinario. Formalmente amministrativo, presuppone da un lato la commissione di un illecito penale da parte di una persona fisica all’interno dell’organizzazione societaria e, dall’altro, implica una serie di adattamenti degli istituti tradizionalmente penalistici al fine di poter imputare quell’illecito anche alla persona giuridica come tale. Adattamenti che concernono la tipologia sanzionatoria e i criteri di imputazione oggettiva e soggettiva di un fatto criminoso ad un’entità complessa come è la persona giuridica o l’associazione. 3. L’organizzazione sistematica del codice penale italiano. La distinzione tra delitti e contravvenzioni. A) Troviamo leggi extracodicistiche che contengono fattispecie incriminatrici (norme di parte speciale) e disposizioni di parte generale. I rapporti tra codice e leggi extracodicistiche: Art 16 c.p., il quale dispone che le disposizioni del codice “si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali in quanto non sia da queste stabilito altrimenti”. Organizzazione sistematica del nostro codice: è diviso in “Libri”, “Titoli” e “Capi” (e “Sezioni”). Tre sono i Libri: I. parte generale (“Dei reati in generale”); II e III. Parte speciale. B) Bisogna distinguere tra DELITTI e CONTRAVVENZIONI. Ci sono differenze che troviamo nelle ragioni sostanziali, nella disciplina e nei criteri formali. a) ragioni sostanziali: delitti àreati più gravi; contravvenzioni àilleciti di minore gravità. Il legislatore di frequente si avvale della contravvenzione x allestire una tutela “anticipata” nei confronti di determinati beni, incriminando fatti che sono in qualche modo propedeutici ad aggressioni più consistenti del bene tutelato. b) disciplina: differenze riguardano quattro istituti: 1. Disciplina dell’elemento soggettivo del reato (nelle contravvenzioni indifferente tra dolo e colpa, nel delitto è di regola solo dolo; diversa è la responsabilità); 2. Il tentativo (solo delitto); 3. Recidiva (solo delitto non colposo); 4. L’oblazione (solo contravvenzione). c) criteri formali: esigenza di poter stabilire con certezza quando si tratta di delitto e quando di contravvenzione. àcriteri formali nell’art 39 c.p.: “i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice”. Criterio distintivo: specie della pena comminata. L’art 17 c.p. elenca le pene principali, che sono in numerus clausus, distinguendo per i delitti (ergastolo, reclusione, multa) e le contravvenzioni (arresto e ammenda). C) Le disposizioni di parte speciale sono ordinate nei Libri II e III sulla base dell’interesse (o bene giuridico) dirette a tutelare. CAPITOLO I: LA PENA. 1. Diritto penale, reato e pena. Il diritto penale presenta due caratteristiche qualificanti. In primo luogo, esso è incentrato sulla previsione di fatti illeciti (reati). In secondo luogo, il fatto parzialmente illecito si distingue dagli altri illeciti di natura non penale per la particolare specie di sanzione prevista (la pena). A) Il diritto penale indica dei modelli negativi di comportamento, cioè dei fatti “indesiderati” perché socialmente nocivi e di cui pertanto l’ordinamento pretende l’astensione dai consociati. Vi sono altre norme che disciplinano le conseguenze sanzionatorie del fatto illecito, con lo stesso obiettivo finale di prevedere i fatti illeciti. B) La sola previsione della pena distingue un fatto illecito penale da un illecito di altra natura àla pena è il segno distintivo del diritto penale. àl’individuazione di questo ramo presuppone la definizione del concetto di pena. L’esigenza di definire la pena si manifesta per diverse ragioni. a) per un’esigenza didattica e concettuale, per comprendere il genus che accomuna le specie sanzionatorie; b) perché il legislatore non può essere interamente libero di qualificare come “pena” qualunque tipo di conseguenza sanzionatoria a suo totale piacimento. La disciplina penale è il risultato di una lunga tradizione giuridica che l’ha forgiata ed elaborata come tale in rapporto proprio alla pena, così che qualificare come pena una sanzione in realtà significherebbe richiamare una disciplina giuridica del tutto estranea ed eterogenea rispetto alla sanzione utilizzata. c) la disciplina penale è subordinata a una serie di vincoli costituzionali ed euro-convenzionali, ai quali il legislatore non potrebbe sottrarsi qualificando come formalmente extra-penale una sanzione che invece fosse una pena. Dall’esigenza di evitare possibili “truffe delle etichette” da parte dei legislatori nazionali deriva la nozione di “materia penale” elaborata autonomamente dalla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo al fine di identificare 5 all’ordinamento non interessa affliggere ma ripristinare lo status quo ante. Mentre per le sanzioni ripristinatorie ed impeditive è consentito “scaricarne” la componente afflittiva “su soggetti diversi dall’autore della violazione, nelle sanzioni punite questo è precluso. Il carattere afflittivo si lega con il particolare ruolo che il condannato viene a svolgere all’interno del congegno funzionale di prevenzione generale. La sanzione punitiva non realizza nessuna utilità immediata x l’interesse offeso, per questo la sua inflizione ed esecuzione servono a rafforzare un effetto disincentivante sui terzi: da qui il dubbio che alla mancanza di un’immediata utilità della sanzione punitiva si accompagni il rischio di una strumentalizzazione della persona umana del condannato per la tutela degli interessi sociali. Dinanzi al duplice rischio di strumentalizzazione del reo, consistente nel terrorismo sanzionatorio o nel capro espiatorio, il pensiero penalistico ha compiuto inauditi sforzi diretti a impedire la degenerazione, sia nobilitando sul piano ideologico-teorico la sanzione punitiva attraverso la sua legittimazione proveniente dall’idea moralmente pregnante di retribuzione. 4. La retribuzione. Seconda dimensione funzionale: LA RETRIBUZIONEàrisponde ad un’istanza etica di giusta corrispondenza del male col male e del bene col bene. Non ha mai potuto essere totalmente sradicata dal modello punitivo tutt’oggi dominante. Bisogna distinguere due linee direttrici fondamentali, a seconda che la natura retributiva della pena si affermi su un piano prevalentemente oggettivo o costruisca decisivo punto di emersione della persona del reo. A) carattere oggettivoàaccompagna il diritto penale con diversa intensità e premesse culturali e di contenuti giuridici: retribuzione giuridica. In questa prospettiva la sanzione punitiva si giustifica quale necessità logico- giuridica conseguente alla solenne esternazione della volontà legislativa nel testo normativo. Non esiste legge senza autorità e la sanzione è il mezzo x assicurare l’autorità della legge. Nella corrispondenza tra pena e violazione, alla pena rimane del tutto indifferente la possibilità empirica di influenzare i comportamenti, essendole essenziale solo la necessità logica che la legge sia legge. Così finiscono per perdere significato le tipologie sanzionatorie e la persona del colpevole, fino a che diventa addirittura la sanzione indifferente alla persona del colpevole. Da un lato qualunque specie sanzionatoria viene giustificata a prescindere; dall’altro, questo ricollegamento della sanzione all’autorità della legge e questo sanzionare più la legge che il colpevole, mette come parentesi la persona del reo rendendola una quantitè negligeable. Sanzione che finisce per essere indifferente alla persona del colpevole. B) carattere soggettivoàla persona umana del colpevole vi ha un ruolo centrale. È una prospettiva in cui l’affrancamento della pena dal presunto rischio di mortificante utilitarismo avviene mediante l’esaltazione di una componente rigorosamente morale insita nella categoria del “punitivo”. La pena serve alla protezione degli interessi sociali mediante il condizionamento del comportamento dei consociati, ma è meritata dal soggetto colpevole autore della violazione. (meritata=l’afflizione della pena di cui è portatore l’individuo, ne realizza il riconoscimento nel rispetto della legge morale universale). Legge morale universaleàogni essere umano riconosce sè stesso, e cioè la propria universale umanità negli altri. Il disconoscimento insito nel comportamento criminoso equivale a negazione di sé stessi e al proprio abbruttimento. L'inflizione della pena al colpevole significa operare il riconoscimento dell'umanità violata negli altri, attraverso l'espiazione della propria colpa, e riassumere attraverso la pena la propria dignità. La pena deve essere subita dal reo. È indifferente il contenuto che la pena può assumere nella concretezza storica, ferma restando unicamente la necessità che essa abbia un contenuto afflittivo. la pena retributiva e logicamente compatibile con i più diversi contenuti sanzionatori. Essenziale è che il male sia legato da un rapporto di necessità morale con la violazione commessa. Ed è questo rapporto che assume il nome di retribuzione morale ad indicare il fondamento personalistico della pena. 4.1. La colpevolezza, Nell'idea retributiva àdue principi fondamentali: colpevolezza e proporzione. La colpevolezza: costituisce la condizione essenziale in presenza della quale si giustifica moralmente che la reazione sanzionatoria colpisca la persona dell’autore per il fatto commesso. È la condizione in base alla quale il soggetto autore merita il castigo, lui personalmente nella interezza della sua personalità, per il male commesso, perché solo quando il fatto offensivo “appartiene” interamente al suo autore ed esprime la sua personalità, l’autore può essere rimproverato mediante la pena. In assenza, il fatto oggettivamente offensivo è equiparabile ad un accadimento della natura. È espressione della personalità dell’autore perché essa è una sorta di presa di posizione del soggetto nei confronti dei valori sociali tutelati. La colpevolezza trae il suo fondamento giustificativo dalla retribuzione morale, consiste sostanzialmente in un atteggiamento psichico del soggetto nei confronti del fatto criminoso e costituisce un requisito della responsabilità penale. Due componenti strutturali principali: 1. prima componente della colpevolezza è l’esistenza di un nesso psichico tra il fatto e l’autore, cioè di una determinazione psicologica assunta dal soggetto nei confronti del fatto illecito. I nessi psichici attraverso i quali l’uomo partecipa alla realtà del mondo esteriore, nella quale si collocano anche i suoi comportamenti, sono la conoscenza e la volontà. La conoscenza consente all’uomo di orientare sé e la sua condotta nel mondo. La volontà 6 consente all’uomo di modificare la realtà circostante e il proprio rapporto con essa nella direzione ritenuta più confacente ai suoi scopi. Se un fatto si produce al di fuori della sfera di dominabilità conoscitiva e volitiva dell’individuo, esso non è psicologicamente riconducibile al suo autore materiale (caso fortuito e forza maggiore). 2. La seconda componente è costituita da quei presupposti e da quelle condizioni in presenza dei quali si può ipotizzare l’autonomia della determinazione psicologica, cioè a dire la possibilità di una diversa scelta comportamentale del soggetto in senso conforme ai precetti dell’ordinamento. a) La possibilità di determinarsi altrimenti postula l’esistenza nell’uomo del libero arbitrio (o libertà di volere), cioè la generale possibilità di scegliere liberamente il proprio comportamento. L’annosa ed insolubile questione del libero arbitrio si è dibattuta fra le tesi di una libertà di autodeterminazione e di una assoluta necessità di comportamento causalmente determinato. Più plausibile è la tesi intermedia, secondo la quale l’uomo, pur condizionato da fattori influenti sui processi motivazionali, mantiene uno spazio di autonomia nella scelta tra i diversi e contrapposti moventi che si affacciano sulla coscienza. ànon una tesi verificabile e dimostrabile. Nulla impedisce di fondare giuridicamente un giudizio di colpevolezza attraverso la costruzione normativa di modelli di normalità psichica in relazione ai quali è affermabile la possibilità di una diversa determinazione di volontà. È decisivo dal punto di vista dell’ordinamento che le caratteristiche della personalità del soggetto fossero tali x cui la maggioranza delle persone corrispondenti a quei modelli si astiene di regola dal commettere quel reato. L’ordinamento presume il libero arbitrio in presenza di condizioni psichiche “normali”. b) È necessaria la normalità del processo motivazionale, cioè che la specifica e concreta determinazione criminosa non sia stata condizionata da fattori (esogeni o endogeni) di intensità soverchiante. Il diritto penale prende in considerazione solo alcune ipotesi di condizionamento del processo motivazionale collegandovi effetti di esclusione o di attenuazione della responsabilità. Le ipotesi non espressamente previste potranno essere considerate dal giudice nella valutazione della colpevolezza in sede di commisurazione della pena in concreto. Le due componenti rappresentano anche le tappe fondamentali dell’evoluzione storica della teoria della colpevolezza. Originariamente tendeva ad esaurirsi nel collegamento psichico tra fatto ed autore e a identificarsi con un dato psichico fattuale come tale insuscettibile di una graduazione normativa àconcezione psicologica della colpevolezza. La possibilità di determinarsi si esprime attraverso un giudizio che assume come parametro valutativo un modello o uno standard normativo e ideale, rispetto al quale è misurabile il grado di scostamento da parte del soggetto concreto. Il giudizio sulla possibilità di determinarsi ha un carattere normativo anche perché esso contribuisce alla misura di un giudizio di rimproverabilità in quanto dà alla violazione la consistenza di una personale inottemperanza alle pretese dell’ordinamento giuridico, di un momento di intollerabile antitesi tra la volontà dell’individuo e quella dell’ordinamento. àconcezione normativa della colpevolezza. 4.2. La proporzione. Il principio di necessaria proporzione fra gravità della violazione e afflittività della sanzione è un corollario assolutamente imprescindibile dell’idea di giustizia nel rapporto proporzionale che assicura che la pena non diventi ingiusta perché “non meritata” o irrisoria in ogni caso tale da non corrispondere alla dignità dell’uomo che la subisce. L’esigenza della proporzione tra gravità dell’illecito e afflittività della penaàplurime dimensioni. A. proporzione in senso oggettivo e proporzione in senso soggettivo. Nei sistemi giuridici meno evoluti, la proporzione si instaura ed esaurisce su un piano esclusivamente oggettivo, cioè di corrispondenza con il disvalore della violazione come esso risulta dall’obiettivo pregiudizio subito dall’interesse offeso ad opera del comportamento illecito. Trova la sua manifestazione piena e rozza nella frase “occhio per occhio, dente per dente”, in cui la corrispondenza tra violazione e sanzione diventa un’identità qualitativa e quantitativa. È un rapporto instaurabile finché si tratti di violazioni, per lo più concernenti beni ed interessi fisico-individuali. Ma appena cominciano a venire in considerazione e violazioni di diversa natura ne risulta evidente l’impossibilità di instaurare un rapporto di identità contenutistica tra contenuto offensivo dell’illecito e contenuto afflittivo della sanzione. La proporzione su un piano di equivalenza quantitativa tra due grandezze qualitativamente eterogenee: l’afflittività della pena e il danno sociale del reato. Nei sistemi maggiormente sensibili all’aspetto morale della retribuzione, la proporzione deve consentire di commisurare la pena anche all’intensità soggettiva della colpevolezza, al grado di riprovevolezza della volontà come si è manifestato certo nella gravità oggettiva dell’illecito ma anche nella partecipazione e adesione soggettiva della volontà. Oggi in tutti gli ordinamenti evoluti la proporzione pone in rapporto la gravità della pena con la colpevolezza. B. proporzione a livello astratto e proporzione a livello concreto. Astrattoànel rapporto tra reato e pena come previsti dal legislatore; 7 Concretoà nel rapporto tra la gravità assunta dal fatto storico di reato e la gravità della pena in concreto irrogata al reo. C. proporzione assoluta e proporzione relativa. Assolutaàviene in rilievo il rapporto di congruenza tra un determinato reato e la sua pena considerati in sé per sé; Relativoàla proporzione della pena prevista per il reato A viene valutata in relazione comparativa con la gravità della pena prevista per il reato B (tertium comparationis). àle maggiori difficoltà si rilevano nel rintracciare un criterio di ragguaglio, un parametro di commisurazione che consenta di comparare due grandezze eterogenee. L’utilizzazione del tertium comparationis agevola il controllo di costituzionalità sulla proporzione, ma allo stesso tempo lo limita a causa delle incertezze che accompagnano la corretta individuazione del tertium comparationisàdeve presentare una certa omogeneità contenutistica che è sempre opinabile. La Corte costituzionale (propensa alla proporzione relativa) ha fatto meno del tertium comparationis. 4.3. Funzioni di garanzia dei principi di colpevolezza e di proporzione. Colpevolezza e proporzione sono principi radicati nell’idea retributiva della pena. A seguito del processo di secolarizzazione del diritto penale che ha ridimensionato la retribuzione; retribuzione e colpevolezza hanno “mutato pelle”, divenendo principi fondamentali con funzioni garantistiche. Si sono esaltati il loro significato e la loro funzione di contenimento dei rischi di abuso legislativo del diritto penale. Entrambi sono assurti al rango di principi costituzionali. A) principio di colpevolezza: una pena irrogata nei confronti di chi non sia in grado di autodeterminarsi sarebbe avvertita come “ingiusta” dai consociati e non esplicherebbe quell’effetto di orientamento dei comportamenti che è l’obiettivo principale dei precetti penali. Come ha precisato la Corte costituzionale, “punire in difetto di colpevolezza, al fine di dissuadere i consociati dall’attuare le condotte vietate, implicherebbe una strumentalizzazione dell’essere umano x contingenti obiettivi di politica criminale”. àè oggi ricavato dall’art 27.1 Cost, ove è stabilito che “la responsabilità penale è personale”àdivieto di responsabilità oggettiva, senza colpevolezza. B) principio di proporzione: una pena sproporzionata x eccesso costituirebbe un irragionevole sacrificio della libertà personale, che verrebbe ad essere limitata senza giustificazione. La pena sproporzionata produrrebbe un effetto di disorientamento nei consociati in quanto esprimerebbe un giudizio di disvalore dell’ordinamenti non corrispondente al pregio del valore tutelato. L’abuso di pene sproporzionate nell’illusione di rafforzare la prevenzione generale produrrebbe uno stato di terrorismo sanzionatorio capace di indurre un generalizzato rifiuto dei precetti penali da parte dei consociati. àè ricavabile dagli artt. 3,13,27.3 Cost. e dalla Carta europea dei diritti umani. 5. Prevenzione speciale, rieducazione ed espiazione. TERZA FUNZIONE DELLA PENA: prevenzione. àsi pone l’obiettivo di ridurre la probabilità di commissione di futuri reati. Specialeà perché essa ha come destinatario il singolo soggetto condannato. 5.1. Personalismo delle concezioni rieducative ed espiative della pena, Nella prevenzione generale il soggetto condannato viene considerato come uno strumento x l’intimidazione della generalità dei consociati. Nella retribuzione il condannato viene assunto nella sua dignità di essere umano capace di autodeterminazione e di scelta comportamentale, ma rimanendo indifferenti agli effetti concreti che la pena può produrre. La prevenzione speciale attribuisce un ruolo decisivo alla persona del reo e all’impatto della pena personalità del condannato. àforme fondamentali: rieducazione, d’intonazione scientifico-utilitaristica, dominante; ed espiazione, d’intonazione etico-spiritualistica, recessiva. Si pongono una finalità di miglioramento della personalità del condannato e implicano che il contenuto afflittivo della pena si conformi a questo scopo. 5.2. Caratteri differenziali tra rieducazione ed espiazione. A) Differenze sulle radici culturali e su obiettivi. - concezione rieducativa: duplice ispirazione: positivismo scientificoà l’impronta della concezione rieducativa è scientifica, cioè viene prospettato un programma di intervento scientifico sui fattori endogeni ed esogeni in quanto reputati causalmente determinanti l’inclinazione della personalità verso il reato. Quindi l’intervento muove su un presupposto oggettivo della pericolosità e punta ad un processo di riadattamento sociale mediante una progressiva (ri-)educazione all’osservanza delle regole sociali; e solidarismo politico-socialeàla concezione rieducativa presuppone l’impegno solidaristico dello Stato, con l’impiego dei mezzi necessari per offrire un’opportunità di reinserimento sociale. In entrambi i casi, non occorre che l’impegno del condannato modifichi i valori sociali interni dominanti, essendo sufficiente indurlo all’osservanza delle regole sociale, sia mediante l’inserimento sociale e sia mediante l’offerta concreta e alternativa di spazi e opportunità sociali x la realizzazione della personalità individuale. - concezione espiativa: radici nel terreno spiritualistico-religioso, e riflette un orientamento politico-sociale individualistico. La sanzione assume un significato “penitenziale”, per cui il soggetto attraverso la sofferenza 10 dall’evoluzione delle norme comunemente accetta dalla politica penale degli Stati membri del Consiglio d’Europea in tale campo”. àQualunque pena ha un grado di inumanità, di sofferenza e umiliazione volontaria. Con la conseguenza che il limite, il divieto delle pene inumane ha una natura “quantitativa”, determinabile in base alla soglia di tolleranza verso la sofferenza umana che una società raggiunge quale espressione della propria civiltà. Il divieto di pene inumane unisce ad un’assolutezza ed inderogabilità di principio una relatività di contenuto, che ne renda particolarmente difficile l’applicazione. 7.2. L’influenza del principio di umanità sul sistema sanzionatorio. Processo di progressiva penetrazione del principio: A. Il principio di umanità tende ad escludere alcune tipologie sanzionatorie, quale sia la disciplina che assumono di volta in volta. a) pene “corporali”: sanzioni consistenti in una sofferenza inferta mediante l’uso della violenza fisica. b) pena di morte: tendenza abolizionista in campo internazionale (continua ad esserci in alcuni Paesi); II Protocollo addizionale al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politiciàprincipio abolizionista, con la deroga ai delitti di natura militare di gravità estrema commesso in tempo di guerra. Anche questa deroga è stata però abolita. Anche l’Italia si è adeguata a ciò, eliminando totalmente la pena di morte, sostituendola all’ergastolo (legge 589/1994 e legge cost. 1/2007). c) ergastolo/pena detentiva perpetua: problema circa la sua portata annientatrice (di tipo sociale e civile) che la rendeva assimilabile alla pena capitale, secondo alcuni. Secondo la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale italiana, l’ergastolo è legittimo alla condizione che sia prevista la possibilità della sua cessazione, disciplinata dalla legge, allorché il condannato abbia compiuto un percorso di risocializzazione (con successo). à ”ergastolo ostativo”: regime di esecuzione della pena perpetua previsto nell’ordinamento italiano x taluni reati gravi e applicabile in presenza di determinate condizione, in virtù del quale l’ergastolano non può accedere ai benefici penitenziari compresa la liberazione condizione. àL’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, negando la compatibilità dell’ergastolo ostativo in contrasto con l’art 3 della Convenzione. B. Il principio di umanità opera imponendo che la disciplina applicativo-esecutiva delle varie tipologie sanzionatorie compatibili col principio siano immuni da aspetti, profili, contenuti afflittivi intensi o degradanti o estranei al nucleo afflittivo caratteristico di ciascuna specie di pena. àesecuzione della pena detentiva: pur essendo indubbia la compatibilità con il principio, il carattere privativo della libertà può facilmente degenerare. àper questo, “Regole minimi x il trattamento penitenziario” elaborate dal Consiglio d’Europa, alle quali il legislatore italiano si è ispirato con la riforma dell’esecuzione penitenziaria, con l’art 1: “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. In Italia c’è il problema del sovraffollamento carcerario, che è valso più di una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. È stato introdotto uno strumento compensatorio-risarcitorio, stabilendo che il soggetto detenuto o internato che ha subito un pregiudizio consistente nell’aver sofferto (per meno di 15 giorni) di condizioni detentive in contrasto con l’art 3, ha diritto a una riduzione della pena ancora da espiare pari ad un giorno x ogni dieci. Se il periodo da espiare è inferiore, ci sarà una corresponsione pari a 8€/giorno. È stato poi istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o provate della libertà personale, con compiti di vigilanza. 8. “Materia penale” e illeciti punitivi. A) La sanzione punitiva costituisce il criterio d’individuazione del diritto penale o della materia penale. àquesta ha subito un processo di differenziazione interna, che accanto al nucleo centrale del diritto penale in senso stretto, si sono formati ulteriori sistemi di illeciti pur sempre sanzionati con sanzioni punitive ma differenti: illeciti punitivi amministrativi e illeciti punitivi civili. a) Ragioni storiche: natura utilitaristica e pragmaticaàla conoscenza a conoscere gli illeciti è stata riservata all’autorità giudiziaria mediante un meccanismo processuale oneroso e complesso. Ma con la progressiva complessità della società e incremento degli illeciti penali, la magistratura si è sovraccaricata. Da qui l’opzione di differenziare la categoria degli illeciti non penali la cui cognizione poteva essere attribuita ad autorità diverse. b) I fondamentali caratteri differenziali sono: I. autorità competente: illeciti amministrativiàamministrazioni pubbliche dello specifico settore; illeciti civilià giudice civile competente a decidere sul risarcimento del danno. L’ordinamento fornisce una tutela giurisdizionale contro le pretese sanzionatorie della P.A e la competenza a conoscere il ricorso contro l’ordinanza-ingiunzione di pagamento è di regola del giudice di pace. II. contenuto sanzionatorio: carattere pecuniario o patrimoniale o interdittivo (perdita o limitazione di diritti o facoltà il cui esercizio è subordinato ad atti amministrativi autorizzati). È escluso che le sanzioni punitive non penali possono avere contenuto privativo o limitativo della libertà personale. 11 III. funzioni: condividono con la sanzione penale la funzione di prevenzione generale, molto attenuata è la componente retributiva e assente la funzione rieducativa. Sanzioni interdittive: efficacia di prevenzione speciale mediante incapacitazione. Comune a tutte è l’esigenza di proporzione in prospettiva sia garantista sia come requisito interni all’obiettivo general-preventivo perseguito dalle sanzioni non penali. c) alla diversità contenutistica e funzionale delle sanzioni punitive non penali dovrebbe corrispondere la diversa gravità dei rispettivi illeciti. La sanzione punitiva amministrativa e civile dovrebbe essere utilizzata dal legislatore per reprimere fatti illeciti di minore gravità se non bagatellari, mentre la pena dovrebbe essere riservata all’area della criminalità più grave. ànon esistono criteri rigidi. B) L’omogeneità degli illeciti punitivi riconducibili alla “materia penale” si riflette sulla loro disciplina e sui principi di garanzia che li concernono. Sia l’una che gli altri tendono ad assimilarsi alla disciplina e alle garanzie che sono venuti configurandosi in rapporto all’illecito penale. Un certo grado di scostamento da questo è imprescindibile poiché berrebbe meno la ragion d’essere degli illeciti punitivi amministrativi o civili. a) disciplinaà illeciti punitivi amministrativi: legge generale applicabile, salva diversa previsione, a tutti gli illeciti, presenti e futuri, della categoria. Natura “parapenale”. Illeciti punitivi civili: d.lgs. 7/2016 concernente un numero ristretto di illeciti caratterizzati da un contenuto offensivo di natura privatistica e quindi suscettibile di risarcimento. Il legislatore (per prevenzione generale) ha comminato una sanzione pecuniaria, la cui irrogazione è stabilita dal giudice civile. b) garanzieàIl concetto della “materia penale” fu elaborato dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, al fine di contrastare le “truffe di etichette” da parte degli Stati, che, qualificando come formalmente amministrativi illeciti colpiti da sanzioni punitive, intendessero sottrarli alle garanzie previste per i reati. Così la Corte tende a considerare unitarie e identiche le garanzie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo per l’intera materia penale. Questi principi operano anche nell’ordinamento interno (ex art 117 Cost.). La Corte costituzionale ha sviluppato un orientamento più articolato. Le garanzie previste dalla CEDU possono essere indistintamente osservate dal legislatore nazionale per la materia penale, rimane la possibilità di differenziare l’illecito punitivo amministrativo rispetto a quello penale. Così la nostra Corte circoscrive l’operatività alle sole garanzie convenzionali, mantenendo l’illecito amministrativo la sua autonomia rispetto al quadro di garanzie delineato in materia “criminale”. Con la sentenza 63/2019, la Corte costituzionale ha impresso una svolta in tema di estensione delle garanzie previste per l’illecito penale sancendo che rispetto all’illecito punitivo amministrativo trova applicazione il principio di retroattività della legge più favorevole nei termini dell’art 2 c.p. C) la distinzione di più categorie nella materia penale ha posto il problema della garanzia. Non è escluso che il legislatore configuri uno stesso fatto come illecito punitivo di natura penale e amministrativa. àquesto solleva il problema della violazione del principio internazionale ne bis in idem, secondo il quale nessuno può essere chiamato a rispondere due volte x il medesimo fatto. (riconosciuto dall’art 4 del Protocollo 7 del 1984 aggiuntivo alla CEDU e dall’art 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Uomo). È fuori discussione la possibilità di applicare congiuntamente a un illecito sanzioni di natura eterogenea, discutibile è la cumulazione di sanzioni omogenee. ànon esiste un divieto assoluto per il legislatore di cumulare sanzioni tutte punitive, ma è evidente che soluzioni consimili non possono essere tollerate quando in nome di prevalenti esigenze di prevenzione generale sacrificano il principio di proporzione del trattamento con un evidente pregiudizio alla sicurezza giuridica. La giurisprudenza europea ha mostrato difficoltà, giungendo ad affermare il principio secondo cui la risposta sanzionatoria complessiva non deve risultare sproporzionata per eccesso. La Corte di cassazione italiana ha rimesso al giudice penale la valutazione in concreto della sproporzione. 9. La responsabilità “da reato” degli enti collettivi. La nozione di pena è intrisa nel “personalismo”, nel senso che le sue funzioni hanno come destinatario una persona fisica. Anche la stessa prevenzione generale mediante intimidazione implica un soggetto psicologicamente suscettibile di dissuasione per mezzo della minaccia della pena, dotato di una capacità psichica di sentire l’effetto dissuasivo esercitato dal “male” prima minacciato e poi inflitto. Questo vale anche per natura retributiva (un castigo è concepibile solo in rapporto alla consapevolezza di chi lo subisce, ad un riprovevole atteggiamento psicologico nei confronti del fatto illecito) e rieducativa (un “trattamento” diretto a modificare la personalità dell’autore x ottenerne un adattamento sociale, cioè l’adeguamento ai valori socialmente condivisi e protetti). La pena sembra concepibile solo in rapporto al “personalismo psichico” dell’individuo umano. Il diritto penale moderno è ispirato al principio societas delinquere non potest, della radicale esclusione della responsabilità penale degli enti collettivi. 9.1. Il tramonto del principio societas delinquere non potest. A) Protagonisti della vita sociale sono le società commerciali, persone giuridiche e enti collettivi. Molti fatti illeciti traggono la loro origine da queste attività da loro attuate nel loro interesse ma ciascun fatto illecito penale è “materialmente” commesso da una o più persone fisiche. Limitare la repressione penale alle singole persone fisiche autori materiali può essere inadeguato alle esigenze di tutela che si sono fatte pressanti proporzionalmente 12 all’aumentato ruolo svolto dalle persone giuridiche in società, con la conseguenza della crisi del principio societas delinquere (o puniri) non potest. L’inadeguatezza dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche si rivela sotto molteplici profili. a) È insufficiente perseguire penalmente la sola persona fisica autore dell’atto colpendo la società commerciale con sanzioni di altra natura, quali civili e di risarcimento del danno. Questo sia per la difficoltà di accertamento probatorio di individuare la persona fisica responsabile dell’”effetto schermo” prodotto dalla compagine societaria entro la quale i singoli agiscono; e sia perché le sanzioni civili non sono utilizzabili in rapporto a quegli illeciti che non producono danni civilmente risarcibili. b) Ci può essere una strutturale estraneità o non coincidenza tra la persona fisica autore dell’illecito e colpita dalla sanzione penale e i reali centri decisionali dell’attività d’impresa in cui si inserisce la commissione dell’illecito. Molto spesso i soggetti che si trovano in posizione di vertice delegano gran parte dei loro poteri ad altri, essendo responsabili quindi dell’aver omesso il controllo e la vigilanza. I soggetti delegati commetto l’illecito per una decisione assunta sotto la pressione di condizionamenti interni. All’interno dell’organizzazione imprenditoriale la pena trova un impedimento alla pienezza della sua funzione dissuasiva proprio nel fatto che le persone fisiche non possono pienamente “determinanti” x la realizzazione dell’illecito. c) la sanzione penale individuale vede pregiudicata la sua efficacia perché incapace di dispiegare la sua portata afflittiva: se pecuniaria, la pena parametrata sul patrimonio individuale potrebbe essere riassorbita dalla persona giuridica; se detentiva, verrebbe sofferta dalla persona fisica senza che la società venga a subire nessun pregiudizio tutte le volte in cui possa sostituire la persona fisica del colpevole con altra disposta a sua volta a rischiare. Tutto questo ha portato all’erosione del principio societas delinquere non potest. B) responsabilità penale su persone giuridiche: difficoltà. a) Il rischio che la punizione della persona giuridica implichi una responsabilità x fatto altrui, non solo in quanto il soggetto collettivo colpito dalla sanzione è diverso da quello che ha posto materialmente l’illecito ma anche perché con la punizione dell’ente vengono colpite anche persone fisiche estranee all’illecito. b) rischio di configurare una resp. penale senza colpevolezza x la difficoltà di rintracciare in capo all’ente collettivo quella determinazione volitiva riprovevole che pare essere inconcepibile. c) rischio di dar vita ad un sistema di sanzioni penali strutturalmente incapaci di svolgere la funzione retributiva e rieducativa. C) Nell’ordinamento italiano il divieto di una resp. penale per fatto altrui o senza colpevolezza e la funzione rieducativa della pena assurgono al rango di principi costituzionali, così ne viene che la resp. penale delle persone giuridiche è stata da taluno ritenuta incompatibile con la Costituzione. àdubbi superati. Il rischio di una responsabilità per fatto altrui lo si evita attraverso la costruzione di criteri di collegamento che siano in grado di selezionare solo quei fatti che sono riconducibili all’attività e alla sfera d’interesse della persona giuridica. Colpevolezzaàniente esclude che in riferimento a quei fatti sia configurabile una colpevolezza riconfigurata sulla base di una particolare struttura dell’ente, vale a dire una colpevolezza “di organizzazione”, consistente in un sistema di organizzazione e gestione dell’attività imprenditoriale tale da agevolare o non impedire la realizzazione degli illeciti: colpevolezza sprovvista di struttura psichica. La persona giuridica sarà sanzionata con quella pena pecuniaria di cui non si è mancato sottolineare la idoneità rieducativa; niente esclude che possono essere immaginare sanzioni direttamente incidenti sull’attività o sulla struttura x un risanamento dei vizi. 9.2. La disciplina italiana della responsabilità degli enti collettivi. L’ordinamento italiano conosce una responsabilità diretta delle persone giuridiche per i reati commessi dai propri agenti, qualificando come amministrativa la responsabilità da reato degli enti. àsituazione non lineare in cui si tratta di fatti penalmente illeciti di cui la persona fisica che ne è autore risponde penalmente, mentre persona giuridica ne risponde in via amministrativa. A) Il sistema della responsabilità amministrativa degli entià2 limiti: 1. soggettivo: esclude dalla responsabilità dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. 2. oggettivo: limita la responsabilità ai soli reati per i quali la responsabilità amministrativa dell’ente sia espressamente prevista dalla legge. L’elenco di questi reati si è ampliato fino ad arrivare a comprendere anche fattispecie colpose nonché reati ambientali e tributari. B) Presupposti della responsabilità amministrativaàfattispecie complessa i cui elementi, oltre alla realizzazione di un fatto di reato da parte di una persona fisica, sono: a) un rapporto di collegamento tra quel fatto criminoso e l’ente, a sua volta costituito dal duplice requisito di una particolare qualità soggettiva rivestita dall’agente 1) dall’interesse o vantaggio dell’ente in vista del reato 2) ; b) una colpevolezza di organizzazione dell’ente costituita dalla mancanza di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire i reati. a) rapporto di collegamento tra il reato commesso e l’ente, la legge dispone il fatto criminoso deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente (profilo oggettivo); (profilo soggettivo) si distinguono due diverse ipotesi a seconda che il reato sia stato commesso 1. Da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e 15 alla quale non è estraneo il contributo del diritto. La prima istituzione è lo Stato, al quale possono aggiungersi gli altri enti pubblici territoriali. Sono anche altre entità più ridotte dotate di un certo grado di organizzazione. I beni istituzionali possono essere suddistinti a fini descrittivi in: a) beni che, pur essendo di pertinenza di un’istituzione, ricalcano le caratteristiche sostanziali dei beni personali. b) quelli che coincidono in definitiva con complessi organizzativi e funzionali dell’istituzione deputati al raggiungimento di obiettivi essenziali. C) beni strumentali: consistono nell’interesse a che siano realizzati condizioni o situazioni favorevoli alla salvaguardia di beni finali. A questa stessa categoria appartengono le funzioni pubbliche, che consistono nei poteri di controllo conferiti alle pubbliche autorità al fine di meglio tutelare e contemperare interessi particolarmente significativi. 3.3. I valori culturali. A) Il concetto di bene giuridico subisce il processo di smaterializzazione che lo porta alla fine a identificarsi con un valore culturale. Qui la tutela penale non riguarda la situazione obiettiva che è oggetto di valutazione positiva da parte dell’ordinamento in ragione degli interessi o dei valori cui detta situazione è funzionale e coerente. La tutela concerne lo stesso valore in sé, lo stesso orientamento o criterio valutativo che è alla radice della considerazione positiva o negativa di determinate situazioni, persone o cose. Nonostante il processo di secolarizzazione del diritto penale iniziato con la Rivoluzione francese sia tendenzialmente antitetico alla tutela di valori culturali, non v’è dubbio che una totale “materializzazione” degli oggetti di tutela appare improbabile, soprattutto oggi che i valori culturali si impongono. B) La fine dei valori culturali è raggiunta dalla teoria dell’”obbedienza come tale” quale possibile bene giuridico meritevole di tutela. Davanti ad un precetto qualsiasi dell’ordinamento l’oggetto della tutela non sarebbe tanto l’interesse, il bene, lo scopo perseguito da tale precetto, quanto il valore dell’obbedienza in sé che i cittadini debbono ai precetti dell’ordinamento in quanto normativamente cogenti. Oggetto di tutela del precetto è il precetto stesso; l’ordinamento tutela sé stesso. 4. L’oggetto della tutela: sociologia del reato e beni costituzionalmente rilevanti. La tendenza a smussare il principio di offensività deriva della constatazione che la dannosità sociale di un fatto è il risultato di un giudizio di valore che non può essere rimesso allo stesso legislatore. Ds qui i tentativi di dare consistenza al principio di offensività cercando di ricavare questo giudizio di dannosità sociale da criteri esterni al legislatore e preesistenti. Le vie sono due: 1. Quella di individuare la dannosità sociale sul piano sociologico prima che legislativo, come una qualificazione rintracciabile sul piano degli ordinamenti sociali; 2. Quella di ricavare gli oggetti di possibile e legittima tutela penale sul piano costituzionale. 4.1. Valutazioni sociali e decisioni legislative nella individuazione della dannosità sociale. Alla stregua dell'indirizzo sociologico, ogni opzione incriminatrice dovrebbe riflettere la dannosità sociale di un fatto già profilatosi come tale nel giudizio della collettività. Questo orientamento, oltre a dare consistenza pre- legislativa alle valutazioni di dannosità sociale, presenta un connotato di accentuata democraticità sostanziale elevando il consenso sociale a parametro di legittimazione delle opzioni di criminalizzazione. Questo si rivela difficilmente idoneo a porre limiti al legislatore virgola in quanto ogni detentore del potere politico tenderà a ritenere comportamenti da lui individuati come reati socialmente dannosi. La dannosità sociale offre un'indicazione nelle scelte di criminalizzazioneàposto che le nostre società democratiche sono anche caratterizzate da un forte pluralismo di valori, diviene problematico l'utilizzo del diritto penale in tutti quei settori di materie ove fosse accentuato un pluralismo ideologico di valutazioni sociali. Il carattere repressivo del diritto penale, il suo effetto socialmente stigmatizzante e la sua natura di rimedio estremo, convergerebbero a decretare un probabile ostracismo sociale e culturale per quelle posizioni ideologiche minoritarie. Un risultato incompatibile con quello di tolleranza che costituisce la componente sostanziale del principio democratico del consenso sociale, con la conseguenza che il principio del consenso sociale dovrebbe comportare una tendenziale astensione del diritto penale all’intervenire in settori di materie in cui sia particolarmente vivo il pluralismo ideologico. 4.2. La teoria dei beni costituzionalmente rilevanti. Le difficoltà incontrate nella concretizzazione delle garanzie sostanziali virgola di delimitazione dell'area penalmente rilevante, sono all'origine del tentativo di raggiungere quel risultato attraverso l'elaborazione di un catalogo di beni costituzionalmente significativi. Il diritto penale potrebbe munire legittimamente di tutela solo i beni costituzionalmente rilevanti, mentre per tutti gli altri il legislatore dovrebbero utilizzare strumenti di tutela extrapenale, amministrativo ecc. A) La soluzione ha pregi. a) Riflette un'apprezzabile idea di proporzione virgola che dovrebbe essere alla base dell'opzione penale: allo strumento punitivo il legislatore potrebbe ricorrere per la tutela solo dei beni giuridici di rilevanza estrema, come sono quelli che hanno trovato eco positiva nella costituzione. Il significato costituzionalmente vincolante della proporzione è stato ricavato dal principio del bilanciamento tra beni tutti di rilevanza costituzionale. Premesso che la sanzione penale incide sempre su bene individuali di palese rango costituzionale, si è concluso che le 16 limitazioni a questi beni sono legittime solo in vista della tutela di beni di pari dignità costituzionale. La meritevolezza di tutela penale di un bene, in quanto necessariamente valore sommo è fondamentale, si ricaverebbe dalla sua rilevanza costituzionale. b) Se il richiamo alla consistenza sociologica dei valori tutelati non riusciva ad attenuare il ruolo da protagonista esclusivo del legislatore e a dare indicazioni capaci di forza vincolante nei suoi confronti, tutto il contrario avviene con la teoria dei beni di rilevanza costituzionale: in primo luogo, essendo di rango costituzionale il parametro della meritevolezza della tutela penale, esso risulta conseguentemente dotato di efficacia vincolante nei confronti del legislatore. In secondo luogo, da un punto di vista contenutistico, il fatto che i beni meritevoli di legittima tutela penale siano solo quelli di rilevanza costituzionale, attribuisce a questa indicazione una formale vincolatività delle scelte legislative e un grado di certezza e precisione maggiore delle indicazioni sociologiche, visto e considerato che il legislatore potrà avvalersi di un punto di riferimento definito dalle valutazioni sociali. B) Limiti. a) L'idea che l'area del penalmente tutelabile trovasse dei limiti invalicabili nei beni di rilevanza costituzionale e contrastante col dinamismo crescente della politica criminaleànon esiste per il legislatore un obbligo positivo di tutela penale dei beni costituzionalmente rilevanti, e così il divieto di portare la tutela a beni ulteriori potrebbe significare un irrigidimento eccessivo della politica criminale e un disconoscimento di eventuali esigenze avvertiti dal legislatore, nella sua discrezionalità politica, come meritevoli di tutela penale. La costituzione rischierebbe di porsi come una gabbia troppo stretta, comportando la consegna nelle mani della Corte costituzionale di uno strumento di controllo penetrante sulla politica criminale nazionale, favorendo l’alterazione degli equilibri istituzionali. b) Questo limite inficia la teoria dei beni giuridici di rilevanza costituzionaleàla Costituzione non è costruita come un catalogo di beni giuridici, con la conseguenza che non tutti i beni meritevoli di tutela penale trovano espressa menzione. Per superare questa difficoltà si è fatto ricorso alla categoria dei beni solo implicitamente previsti dalla costituzione, o in quanto beni costituenti presupposti logicamente necessari di altri espressamente previsti o in quanto beni strumentali alla salvaguardia di altri costituzionalmente previsti. Dato atto della plausibilità di questo correttivo, queste categorie generali di beni inespressi sono tali da erodere fino ad annullare i vantaggi della teoria dei beni costituzionaliàla possibilità logica di moltiplicare all'infinito i beni in rapporto di strumentalità con altri attenua la reale capacità della teoria di delimitare l'area del penalmente tutelabile. C) L'insufficienza della teoria dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti non esclude che la costituzione possa e debba rappresentare un punto obbligato di orientamento delle scelte di criminalizzazione del legislatore. a) Da un punto di vista generale, la costituzione può ispirare la politica criminale. b) Da un punto di vista specifico virgola non mancano ipotesi in cui esiste una clausola espressa di penalizzazione. La costituzione si spinge ad indicare espressamente l'obbligo per il legislatore di tutelare penalmente determinati beni giuridici. Al di là delle clausole espresse di penalizzazione, si tende ad escludere che il rispetto ai beni costituzionalmente rilevanti sussistano obblighi costituzionali di tutela penale, si trattasse pure di beni e diritti fondamentaliàciò perché deve rimanere nella discrezionalità legislativa, se non la valutazione in ordine alla meritevolezza di tutela del bene, certamente la verifica della presunta maggiore efficacia dello strumento penale rispetto a quello extrapenale e anche perché non appare facile immaginare un rimedio costituzionale contro un'omissione legislativa in particolare l'omissione di una incriminazione penale. Mancherebbe la stessa norma che possa costituire oggetto di una eccezione di illegittimità costituzionale, ma sarebbe impossibile per la Corte colmare la lacuna di tutela senza invadere la sfera dell'attività del legislatore, che in materia penale è l'unico soggetto al quale è riservata la produzione normativa. Oggi obblighi di penalizzazione tendono a manifestarsi anche nel diritto internazionaleàla violazione degli obblighi di incriminazione da parte di uno stato che abbia aderito ad una convenzione che impone la previsione di determinate fattispecie criminose, dà luogo ad una responsabilità intenzionale. 5. Le forme della tutela penale. Ammesso che sia possibile fornire al legislatore qualche indicazione sugli oggetti meritevoli della tutela, ciò non basta assegnare i confini della tutela stessa. Ammesse l'esigenza e la legittimità di proteggere penalmente un determinato bene giuridico, al legislatore si pone un'ulteriore problemaàl'individuazione del bene giuridico meritevole di tutela penale non dice niente sulla diversa intensità della tutela che può essere riservata ad uno stesso beneàil diritto penale può intervenire a sanzionare comportamenti aggressivi più o meno prossimi alla distruzione del bene, variando la sua area d'interventoàsi parla di anticipazione della tutela, che può arrivare a forme di tutela assai avanzata senza che sia facile poter individuare dei limiti ulteriori. Conosciamo diverse forme di tutela in cui si manifesta l'intensità quanto al suo stadio e al grado di anticipazione. 5.1. Reati di offesa e reati di scopo. Reati di lesione e reati di pericolo. Facciamo un esempio: conosciamo 7 tipologie di tuteleà1) la norma dell'omicidio punisce chi cagiona la morte di un uomo (art. 575); 2) l'art. 591 punisce chi, avendone la custodia o la cura, abbandona una persona incapace di provvedere a sé stessa per malattia vecchiaia o altra causa. 3) Il codice della strada punisce il conducente che 17 attraversi l'area di intersezione tra due o più strade col semaforo rosso; 4) punisce il conducente che effettui un sorpasso in prossimità di una curva o di un dosso; 5) l'art. 4.2 della legge 110/1975 stabilisce che senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere nonché qualsiasi altro strumento utilizzabile per l'offesa alla persona. 6) L'art. 451 punisce chi, essendovi obbligato, omette di collocare mezzi destinati all'estinzione di un incendio. 7) Numerose norme speciali impongono alle case private di sottoporre al controllo dell'autorità sanitaria gli apparecchi radiologici. Tutti questi precetti hanno ad oggetto la tutela della vita e dell'incolumità personale, anche se taluni possono perseguire ulteriori interessi. A) Caso 1àsiamo in presenza della tutela più prossima al bene: si tratta del fronte meno avanzato di tutela, quello di cui proprio non è assolutamente possibile fare a meno una volta che si sia deciso di tutelare la vita e l'incolumità personale. Se non si tutelasse la vita contro l'aggressione immortali virgola non avrebbe senso allestire una tutela più avanzataàsi suole dire che queste norme allestiscono una tutela contro la lesione che può subire il bene giuridico (lesione= la distruzione o menomazione ho un peggioramento della consistenza originaria subita dal bene giuridico). B) Casi 2-3-4àla violazione sussiste senza che si realizzi una lesione del bene giuridico, essendo piuttosto l'idea di un pericolo quella che accomuna le tre ipotesi. Il comportamento vietato senza rivelarsi lesivo per la vita e l'incolumità della persona abbandonata o degli altri utenti della strada, crea una situazione di indubbia pericolosità; la sanzione colpirà questi comportamenti per la loro pericolosità, prescindendo da un risultato lesivo della vita o di, mostrando come la tutela sia qui decisamente più avanzata. Gli illeciti si dicono di tutela di pericolo. C) Casi 5-6-7àrealizzano una tutela ancor più anticipata. Nessuna delle situazioni prodotte da quei comportamenti può dirsi di pericolo per i beni della vita e dell'incolumità, se non in un'accezione del pericolo talmente dilatata da essere concettualmente scoperta. Lo scopo di queste norme è anche o principalmente la tutela della vita e dell'incolumità personale; ma mentre le norme da 1a 4 realizzano quello scopo cercando di impedire comportamenti che recano un pregiudizio nella forma o della lesione o del pericolo, al bene tutelato, i casi 5 6 e 7 perseguono quello scopo cercando di ottenere comportamenti che siano in vario modo sfavorevoli al successivo sorgere di situazioni di pericolo. Da qui la distinzione tra reati di offesa e reati di mero scopo (o senza offesa). Nei reati di offesa distinguiamo tra reati di lesione e reati di pericolo. 5.2. Reati di pericolo concreto e pericolo astratto. Il principio di precauzione. A) Il pericolo indica una relazione probabilistica tra una situazione data e un risultato futuro, incerto e sfavorevole: quando si parla di pericolo in rapporto al contenuto offensivo del reato, è chiaro che s’intende per “risultato sfavorevole” la lesione del bene giuridico tutelato. La pericolosità di una situazione data è una qualità che ad essa viene attribuita a seguito di un giudizio prognostico. Un giudizio che collega in termini di probabilità causale la situazione data e il risultato futuro. La formulazione del giudizio di pericolo implica l’utilizzazione di almeno tre parametri: la base del giudizioàè costituita dall’insieme dei dati fattuali esistenti nella situazione concreta; a seconda che si tenga conto di una quantità e qualità di dati maggiore o minore, cambia l’esito del giudizio di pericolo. Il metro del giudizioàè costituito dalle leggi scientifiche o dalle massime d’esperienza che, in presenza di una determinata base fattuale, consentono di formulare la prognosi che a quella situazione conseguirà in termini di certezza o di probabilità la produzione del risultato sfavorevole. Il grado del giudizioàè il quantum di probabilità che, partendo da una determinata base fattuale, si verifichi il risultato sfavorevole. B) Come il concetto di pericolo venga utilizzato nella previsione dei reati di pericoloàsi distingue tra reati di pericolo concreto e di pericolo astratto, a seconda che il giudizio sul pericolo per il bene giuridico sia rimesso dal legislatore al giudice o sia interamente formulato dallo stesso legislatore nella norma incriminatrice. a) reati di pericolo concretoàil legislatore indica nella fattispecie incriminatrice solo una parte della “base” del giudizio di pericolo, che s’identifica con la condotta criminosa e con sue modalità contestuali o suoi risultati naturalistici. Spetta al giudice di tener conto dell’ulteriore indefinita serie di elementi fattuali alla cui stregua formulare in concreto il giudizio definitivo sulla situazione legislativamente descritta. Tecnicamente, nei reati di pericolo concreto quest’ultimo costituisce l’evento del reato. La base del giudizio viene ampliata a tutte quelle condizioni di tempo e di luogo, la cui considerazione è in grado di influire sul giudizio concernente l’esistenza (in concreto) del pericolo. b) reati di pericolo astrattoàil giudizio di pericolo è stato compiutamente ed una volta per tutte effettuato dal legislatore, il quale provvede a descrivere la condotta criminosa ed eventuali altri elementi essenziali in ragione della pericolosità generale attribuitele in astratto a quel tipo di condotta e situazione. E, se è il legislatore l’unico soggetto a formulare il giudizio sul pericolo, è evidente che la base del giudizio potrà essere la situazione descritta legislativamente essendo impossibile per il legislatore di tener conto di elementi fattuali concreto pertinenti al fatto storico. 20 La genesi della fattispecie penale conferma che gli elementi essenziali concorrono alla delimitazione dell'area di tutela, esprimendo quello specifico contenuto di disvalore che è il risultato di un giudizio valutativo complesso che bilancia l'interesse oggetto di tutela con i contro interessi di regola connessi al primo. 7. Il principio di offensività e le c.d. concezione realistica del reato. Principio di offensività nei confronti del giudiceàconcezione realistica del reato. La fattispecie astratta, con l'insieme dei suoi elementi costitutivi descrittivi di un fatto naturalistico, in un contenuto offensivo (o di disvalore) tipico. Con la conseguenza che un fatto storico in quanto conforme alla fattispecie astratta è anche portatore di quel contenuto di disvalore. La concezione realistica del reato risolve il problema muovendo dall'idea che sempre, in rapporto ad ogni previsione criminosa, l'offesa, o meglio il contenuto di disvalore, costituisce un elemento essenziale ulteriore, implicito, che si aggiunge a quelli costitutivi della descrizione della fattispecie tipica. Con la conseguenza che il giudice è tenuto ad accertare che il fatto sia in concreto oltre che conforme la fattispecie anche effettivamente offensivo del bene giuridico. La concezione realistica ha il vantaggio di consentire di risolvere i rari casi di sfasatura in concreto tra tipicità ed offesa nel senso dell'esclusione del reato. Le basi legali di questa concezione sono rinvenute per mezzo di una complessa interpretazione dell'art. 49.2 nella parte in cui condiziona l'esistenza del reato al requisito generale della idoneità dell'azione, che viene intesa come idoneità alla produzione dell'offesa. Si parla di concezione realistica perché l'offesa, oltre a costituire il contenuto di disvalore retrostante alla previsione legislativa, deve realmente sussistere anche nel fatto storico posto in essere. Questa concezione costituisce la massima espressione del principio di offensività ed implica conseguenze rilevanti anche dal punto di vista pratico e applicativo. L'idea dell'offesa come costante requisito implicito ed ulteriore di ogni reato da accertare in concreto da parte del giudice non ha mancato di suscitare serie obiezioniàla concezione realistica comporta l'individuazione di un elemento, l'offesa, che non trova espressione nella legge: la previsione legislativa incriminatrice si limita alla descrizione della fattispecie legale tipica. Dunque, la concezione realistica del reato spinge il giudice a cercare fuori dalla legge un elemento costitutivo del reato inespresso con tutte le difficoltà conoscitive che ciò comporta e pone in forte tensione tra loro il principio di tipicità e quello di offensività. le basi legali della concezione realistica sono deboli, visto che l'art. 49.2 non contiene un chiaro accoglimento di questa concezione, essendo pensato in rapporto al tentativo. I rari casi di sfasatura in concreto tra tipicità e offesa possono spesso essere risolti sul piano interpretativo, senza bisogno di alterare la struttura legale della fattispecie punto sarebbe bene che la concezione realistica, pur godendo di riconoscimento nella giurisprudenza, venisse esplicitamente recepita da un'eventuale riforma del Codice penale. 8. La giurisprudenza della Corte costituzionale. Il principio di offensività è riconosciuto come un principio di rango costituzionale, nonostante non sia oggetto di una previsione espressa e sia stato ricavato dalla interpretazione sistematica ed evolutiva della Costituzione. Il controllo della Corte costituzionale sul rispetto del principio di offensività è problematicoàLa costruzione legislativa della fattispecie penale, l’individuazione del fatto tipico costituisce il risultato di complesse operazioni valutative contrassegnate dalla discrezionalità politica, così che il controllo di legittimità costituzionale sul contenuto delle incriminazioni si pone in tensione col divieto per la Corte costituzionale di sindacare il merito politico delle scelte legislative, ricordando che sulla materia vige il principio di riserva assoluta di legge, con monopolio del legislatore. Se potessimo contare su un catalogo chiuso di beni giuridici costituzionalmente meritevoli di tutela penale, il compito sarebbe semplificato poiché ogni norma incriminatrice che munisse di tutela penale un bene qualsiasi diverso da quelli del catalogo sarebbe incostituzionale. Si porrebbe sempre il problema di verificare quali tecniche e soglie di tutela sarebbero compatibili col principio di offensività. Rimarrebbe aperto l’interrogativo se il controllo di costituzionalità possa ulteriormente spingersi fino a sindacare la scelta politica sul contenuto specifico di disvalore che è alla radice della genesi della fattispecie. Una giurisprudenza costituzionale imponente e articolata mette in evidenza come la Corte costituzionale sia cauta nel riconoscere tutti i contenuti del principio di offensività e non manchi di spingere in profondità il suo controllo sul contenuto delle norme incriminatrici attraverso una serie di criteri riconducibili al parametro generale della ragionevolezza desunto dall'art 3 Cost. A) Quanto al principio di offensività: a) La Corte costituzionale ha affermato l'esistenza del principio di offensività quale parametro di legittimità delle fattispecie incriminatrici e di quelle circostanzianti aggravanti. b) A proposito della natura dei beni e degli interessi legittimamente meritevoli di tutela penale virgola non sembra che la Corte abbia fatto propria la tesi del catalogo chiuso dei beni di rilevanza costituzionale come i soli suscettibili di tutelaànon sono mancati sentenze in cui la Corte ha escluso un vincolo contenutistico per il legislatore per quanto riguarda gli oggetti e gli obiettivi della tutela: non si può in nessun modo ritenere vincolato il legislatore al perseguimento di specifici interessi” (sentenza 71/1978). Non risultano ad oggi sentenze che 21 abbiano dichiarato l'incostituzionalità di una norma incriminatrice in base all'argomento determinante ed esclusivo che il bene tutelato non avesse rilevanza costituzionale. c) Anche per quanto riguarda la legittimità costituzionale delle modalità aggressive e delle soglie di tutela, la Corte ha enunciato il principio generale secondo il quale “le incriminazioni di pericolo presunto non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale” (sentenza 333/1991). d) La Corte costituzionale ha mostrato una sostanziale adesione alla concezione realistica del reatoàle affermazioni della Corte sulla necessità che il fatto storico presenti una concreta dimensione di offensività appaiono sempre più nette. Inequivoca e la Corte quando dice che “può certo discutersi sulla costituzionalizzazione o meno del principio di offensività, ma che lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali e ormai accettato, e l'art. 49.2 non può non giovare all'interprete al fine di determinare la soglia del penalmente rilevante” (Sentenza 62/1986). Una serie di pronunce successive conferma l'idea della Corte che tocchi al giudice escludere l'applicazione della norma incriminatrice a quei fatti storici che risultino concretamente inoffensivi del bene tutelato. B) Quanto al sindacato di costituzionalità sulla ragionevolezza delle previsioni incriminatriciàLa Corte si avvale di criteri duttili: a) Le scelte di criminalizzazione effettuate dal legislatore nella fattispecie sono state sindacate sotto il profilo del bilanciamento dei beni in gioco. b) Un secondo parametro di verifica della ragionevolezza della struttura delle fattispecie incriminatrici e quello dell'adeguatezza del mezzo allo scopo di tutela. c) Viene in considerazione il canone dell'intrinseca meritevolezza dell'interesse tutelato. d) Molto spesso la Corte costituzionale opera attraverso giudizi basati sul tertium comparationis per cui la ragionevolezza di un incriminazione sul piano dell'an, del quomodo o del quantum di pena viene valutata verificando se fatti che esprimono un disvalore analogo sono trattati in modo analogo oppure se fatti esperimenti un diverso disvalore sono trattati in modo diverso. CAPITOLO III: LA LEGGE PENALE. Sez. I: IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ IN GENERALE. 1. Fondamento e significato del principio di legalità. Principi garantistici “formali”àper designare le garanzie attinenti alle modalità, ai mezzi e ai procedimenti di produzione, formulazione ed applicazione delle norme penali: il principio di legalità. àil suo fondamento è riconducibile alla garanzia dell’individuo di fronte ai rischi di sopraffazione e strumentalizzazione insiti nel meccanismo e nel potere punitivo. Contenuto fisionomia duplice: 1. Quale principio concernente le fonti legittimate alla produzione del diritto penale; 2. Principio attinente alla accessibilità e conoscibilità della norma penale da parte del cittadino. 1.1. La legalità come disciplina delle fonti. I principi garantistici, nel porre requisiti alle fonti del diritto penale, sono alimentati dall’esigenza che il diritto penale non assuma contenuti liberticidi. C’è un gran lavoro x selezionare fonti ritenute più idonee e adatte per il diritto penale. Due premesse generali: A) Fonti del diritto penale: quei meccanismi che in un ordinamento sono deputati alla formulazione delle leggi. Il momento applicativo implica la formulazione e la produzione della legge x il caso concreto. La regula iuris decisiva è quella applicata dal giudice nel caso concreto. B) La scelta delle fonti: si fonda su caratteristiche sostanziali, sociologiche e politiche, degli organi addetti al procedimento di formazione-applicazione. Nei diversi modelli di Stato e governo vi sono organi dotati di poteri normativi con una maggiore sensibilità garantista verso l’esigenza che l’applicazione dello strumento penale non esasperi il rapporto di tensione tra la potestà punitiva e il colpevole. Stato assoluto: potere in mano al sovrano, non sensibile all’ideale garantista. Rivoluzione franceseài principi dell’Illuminismo si espressero sulla legge come fonte unica o privilegiata del diritto penale; organo legislativo aveva un ruolo politico. Inghilterraà fonte privilegiata era la produzione giurisprudenziale dei giudici con una sensibilità garantista. Civil lawà i principi garantisti con una concentrazione per la fonte legislativa con una formulazione classica dei principi di legalità. 1.2. La legalità come accessibilità della norma penale. Legalità come accessibilità della norma penale alla conoscenza da parte dei suoi destinatari. A) L’accessibilità non è strettamente collegata ai contenuti del divieto. Più i contenuti saranno omogenei alle norme “di cultura” diffuse e conosciute, più sarà la probabilità che siano conosciuti i precetti penali. L’accessibilità implica una serie di requisiti e condizioni relativi alla formulazione e alla predeterminazione delle norme e alla loro quantità e stabilità. Rimane indifferente a quale organo sia affidata questa realizzazione. 22 B) fondamento: la legalità penale come accessibilità gioca un ruolo funzionale agli scopi e alla natura del diritto penale, rispondendo ad esigenze interne di garanzia verso valori ed esigenze esterne al meccanismo punitivo. C’è un’esigenza di garanzia di libertà appagata dalla accessibilità della norma penale. La libertà sta nella possibilità per il cittadino di esercitare le sue facoltà di autodeterminazione. àsignifica possibilità di decidere il comportamento valutando consapevolmente le conseguenze certe od eventuali delle proprie azioni. Se il soggetto non fosse in condizione di calcolare la propria pena, egli non starebbe esercitando pienamente la sua facoltà di autodeterminazione. Libertà: possibilità di scelta consapevole dell’agire sulla base della conoscenza delle conseguenze. La legalità come accessibilità è meno sensibile ai condizionamenti storici e politico-costituzionali. C) legalità europea: elaborata dalle istituzioni europee e soprattutto dal sistema CEDU. à principio di legalità in materia penale: art. 7 CEDU e Corte di Strasburgo che tende a privilegiare l’anima della legalità più “universalista” relativa alla accessibilità, evidenziando il ruolo garantista. Questo orientamento è dovuto dalla difficoltà di dare un contenuto uniforme e omogeneo alla legalità come fonte. 2. Evoluzione, fonti e contenuti del principio di legalità. 2.1. L’evoluzione. Fino all’Illuminismo: indistinzione del potere giuridico e delle fonti, assenza del principio di legalità. Dopo Illuminismo: teoria della separazione dei poteri à si selezionò un organo a cui affidare la nuova sensibilità garantista: organo legislativo. Attualmente: rimane escluso il potere esecutivo nella partecipazione alla produzione ma si attenua l’ostracismo verso il potere giudiziario. àsi riconosce un diritto giurisprudenziale, con la sua fonte nelle decisioni giudiziarie. Cause sono molte ma si possono riassumere in: 1. crisi della legge: spesso è insufficiente e inadeguata. 2. integrazione europea: l’UE mette le condizioni per una trasformazione della legalità formale. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che il reale contenuto delle norme penali si ricava sia dalla legge ma anche dall’interpretazione giurisprudenziale, con la conseguenza di un’estensione del potere a quello giudiziale. 2.2. Le fonti, costituzionali e di legge ordinaria. A) l’ordinamento italiano s’inserisce tra gli Stati liberal-democratici non avendo abbandonato il principio di legalità formale neppure durante il regime fascista. Il codice Rocco del ’31 riaffermò l’esigenza della legalità in più di una disposizione: art 1 (Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite), art 2, art 14 disposizioni sulla legge. B) il principio di legalità trova fondamento nella Costituzione nell’art 25.2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, e si inserisce in una trama di disposizioni costituzionali dalle quali è possibile ricavare una conferma dell’ispirazione legalitaria. Differenze tra Codice Rocco e Costituzioneàsolo con la fisionomia assunta dalla legge nel quadro costituzionale le fonti di rango legislativo sono vera espressione della sovranità popolare. Nell’ordinamento fascista le affermazioni della legalità si ponevano come espressioni del principio di autorità. In virtù del carattere rigido della Costituzione, solo le enunciazioni costituzionali del principio di legalità si pongono come limitazioni eteronome x il legislatore ordinario, come vincoli che lo condizionano dall’esterno mediante una fonte superiore non derogabile. Solo le enunciazioni costituzionali sono assistite dalla garanzia della loro “indisponibilità” legislativa. C) principio di legalità nelle fonti internazionaliàPatto internazionale sui diritti civili e politici; Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. (ultime due hanno rango costituzionale). 2.3. I contenuti. Molteplicità di profili in cui si manifesta il principio di legalità. Tre sottoprincipi: A) RISERVA DI LEGGE: prevista dall’art 25.2 Cost. opera sul piano delle fonti e della loro tipologia, selezionando quelle autorizzate a produrre diritto penale. La riserva di legge, concentrando nella fonte legislativa la produzione normativa penale, garantisce il primo dell’organo parlamentare. Questa riserva non neutralizza però il potere giudiziario, in quanto è sempre necessario l’intervento del giudice nell’applicazione. Dunque, la preferenza esclusiva e monopolistica accordata alla fonte legislativa dalla riserva di legge può implicare l’esclusione delle altre fonti di produzione, ma non esclude un ricorso alle fonti sostanziali. B) DETERMINATEZZA E TASSATIVITÀ DELLA LEGGE: DETERMINATEZZAàsi fa riferimento a un requisito di formulazione della norma che sia espressiva del precetto da contenere al minimo e tendenzialmente a zero il ricorso integrativo alle fonti sostanziali del giudice. Opera sul piano legislativo della formulazione della norma x chiudere gli spazi interpretativi. TASSATIVITÀ àsi fa riferimento a un divieto applicativo per il quale al giudice viene interdetto di applicare la norma legislativa oltre i casi, cioè il modello di comportamento, da essi previsti (divieto di analogia). Opera nella fase interpretativo-applicativo, ponendosi come autonomo canone ermeneutico generale diretto a vietare il ricorso all’analogia. 25 queste non è coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 25.2 e in quanto la consuetudine possa costituire fonte della disciplina extra penale da cui proviene la causa di giustificazione. Si distinguono gli usi e le regole sociali che possono essere richiamati in funzione integratici dagli elementi normativi per l’individuazione di alcuni elementi della fattispecie. H. Delega per lo stato di guerra: dispone che le Camere conferiscono al Governo poteri necessari. àfra questo rientrano i poteri normativi, fra cui quelli penali. 3.4. Il problema dell’ambito della riserva. La riserva copre tutte le specie di norme penali o solo alcune tipologie? Bisogna fare la distinzione tra norme penali “sfavorevoli”àquelle che prevedono le varie fattispecie di reato, i presupposti generali della responsabilità, le circostanze aggravanti e ogni conseguenza peggiorativa del trattamento sanzionatorio; e norme “favorevoli”à quelle che conducono all’esclusione o attenuazione della punibilità o a conseguenze migliorative del trattamento sanzionatorio. A) In considerazione della ratio di garanzia della riserva a tutela della libertà individuale, è pacifico che la riserva concerne tutte le norme sfavorevoli. B) Per quelle favorevoliàla dottrina si è diversificata. a) Chi ha un parere garantista sulla riserva di legge, conclude che rispetto alle norme favorevoli, restringenti la portata applicativa di quelle incriminatrici, non si pongono esigenze di garanziaàriserva non opera. b) Chi sottolinea il rapporto derogatorio in cui quelle favorevoli si pongono rispetto alle norme incriminatrici conclude diversamente. Il principio della gerarchia delle fonti vieta che una norma possa essere derogata da una norma subordinata. Se le norme incriminatrici devono avere fonte legislativa in virtù della riserva di legge, quelle favorevoli devono essere almeno di fonte legislativa. c) Distinguendo la diversa natura sostanziale delle varie tipologie di norme favorevoli, conclude con la loro preferenza. Le cause di non punibilità in senso stretto e le cause di estinzione della punibilità rivelano una natura derogatoria rispetto a quelle incriminatrici. Queste norme favorevoli non modificano il disvalore tipico del reato, limitandosi ad escludere l’irrogazione della pena in ragioni di interessi eterogenei rispetto a quello tutelato dalla norma incriminatrice e offeso dal fatto criminoso. Le cause di non punibilità e le cause di estinzione della punibilità ànon possono essere previste che da fonti di grado pari o superiore a quelle delle norme incriminatrici. Questo sia per il motivo tecnico-formale e sia per quello garantistico-sostanziale che altrimenti il sistema di tutela penale potrebbe correre il rischio di essere neutralizzato da cause di non punibilità create dal potere esecutivo quali forme di privilegio. Cause di giustificazioniàsituazioni in presenza delle quali l’interesse tutelato dalla norma penale si presenta ab origine immeritevole di tutela o perché mancante o perché soccombente ad un altro interesse, la cui realizzazione può attuarsi mediante il fatto criminoso (astrattamente). Questi interessi traggano origine e sono previsti nei vari settori dell’ordinamento. Le fonti di queste cause possono essere quelle che sono autorizzate a produrre diritto nel settore dell’ordinamento di loro provenienza e anche fonti subordinate alla legge. 3.5. Le questioni di costituzionalità in malam partem. Le sentenze di accoglimento della Corte implicano una modificazione della situazione normativa. In generale, gli interventi sono soggetti a un doppio limite: I) alla Corte è interdetto il sindacato di norme che costituiscono espressioni di scelte discrezionali del legislatore, costituzionalmente non vincolate, sempre che la discrezionalità legislativa non trasmodi nell’irragionevolezza di scelte arbitrarie poiché prive di fondamento. II) la Corte non può introdurre con le proprie sentenze modificazioni normative espressione di una discrezionalità valutativa. In particolare, nella materia penale, a questi limiti se ne aggiunge uno: alla Corte sarebbe precluso il giudizio di costituzionalità sulle questioni in malam partemàmentre sarebbe sempre esercitabile il proprio sindacato sulle norme penali tutte le volte on cui l’accoglimento abbia effetti favorevoli, problematica è la possibilità di affrontare questioni il cui accoglimento produrrebbe effetti sfavorevoli per l’imputato. E questo sotto due punti di vista: A) Rilevanza della questione nel giudizio a quo. Se una norma risultasse sfavorevole, la conseguente modificazione normativa sfavorevole sarebbe destinata a non trovare mai applicazione a danno dell’imputato nel giudizio a quo in virtù del principio di irretroattività della norma più sfavorevole. L’eventuale accoglimento si riflette sulla sentenza assolutoria nel processo anche se rimane ferma l’impossibilità di retroattività della situazione sfavorevole. B) Ammissibilità delle questioni in malam partem. Posto il carattere modificativo delle sentenze, ne vien che esse sono in contrasto con la riserva assoluta di legge in materia penale, la quale comporta l’esclusione di tutte le fonti diverse dalla legge. La ratio garantista della riserva rende ragione di come l’intervento della Corte sia interdetto per le questioni in malam partem. Le sue decisioni non producono effetti sfavorevoli né nel senso di introdurre nuove fattispecie incriminatrici, né nel senso di dilatare l’ambito di fattispecie già esistenti o di aggravarne le conseguenze sanzionatorie. Problemaàinsindacabilità delle questioni in malam partem verrebbe a coprire anche le ipotesi in cui le opzioni legislative sui confini della tutela penale siano inficiate da vizi di irragionevolezza. Bisogna verificare se il limite sia assoluto o se a certe condizioni cede di fronte alla necessità di evirare che il 26 legislatore sia arbitrario. Bisogna individuare i criteri e limiti per evitare che dinanzi a una scelta favorevole ma irragionevole, la sentenza si presenti come un’autonoma scelta della Corte. Distinzione: a) le questioni in malam partem con le quali si chiede la “manipolazione” di una norma che, “delimitando” l’area di intervento penale, esprime scelte legislative di tutela alle quali la Corte finirebbe col sostituire il suo punto di vista. b) le questioni con cui si chiede l’”eliminazione” di una norma che, “sottraendo” un’ipotesi o una situazione all’area applicativa di un’altra norma incriminatrice, deroga ad una scelta di tutela espressa dal legislatore nella norma generali. In tali ipotesi la sentenza conferma l’opzione legislativa espressa nella norma generale, che in effetti riespande la propria portata nei confronti dell’ipotesi sottratte a quella generale per sottoporle a un trattamento più favorevole. La Corte ha affermato che, le prime sono inammissibili sotto il profilo della legalità; le seconde sono ammissibili poiché l’effetto sfavorevole conseguente ad un loro accoglimento discende “automaticamente dalla riespansione della norma generale. La Corte non ha ritenuto estensibile il suo sindacato all’ipotesi in cui la norma favorevole abbia abrogato una precedente disciplina più rigorosa. Questo perché la reviviscenza della norma abrogata significherebbe ripristinare scelte di criminalizzazione ritenute non più attuali. La Corte sindaca la norma abrogatrice di precedente incriminazione quando l’illegittimità discende da un vizio consistente in una carenza di potere legiferante o discenda dal fatto che la norma abrogata attuava un obbligo costituzionale di penalizzazione violato. 3.6. La riserva di legge nella attuale realtà politico-istituzionale. La riserva di legge continua ad essere una garanzia irrinunciabile, ma risulta oggi affievolita per tre ragioni: I) crisi interna della legge: risulta sempre più difficile per la legge riflettere la volontà generale e questo anche grazie alla crisi della rappresentanza parlamentare. Non c’è dubbio, poi, che l’evoluzione in senso maggioritario del sistema parlamentare comporta una riduzione del tasso garantito insito nella riserva a causa del ridimensionamento delle minoranze. E la crisi della legge è dovuta anche alla compromessa concentrazione della proprietà dei mezzi di comunicazione di massa. II) sviluppo assunto dalla attività normativa del potere esecutivo: notevole è il ruolo assunto dall’esecutivo. a. Per il carattere altamente tecnologizzato delle società, in cui la disciplina giuridica richiede competenze specifiche raramente presenti nell’organo parlamentare. Il potere esecutivo riesce ad elaborare una disciplina per campi di materia reclamanti protezione giuridica. b. Nelle società complesse sono numerosi gli interessi che, pur meritevoli di tutela energica, si pongono in conflitto con altri interessi meritevoli di protezione. La tutela di questi non può essere incondizionata e “totalitaria”, dovendo armonizzarsi e conciliarsi con la realizzazione di altri interessi. Impensabile per il legislatore trovare un equilibro e contemperamento tra i vari interessi; sarà l’amministrazione pubblica a risolvere i conflitti. III) recente dilatazione dei poteri della Corte costituzionale: dinanzi alla scadente qualità della legislazione penale, si è trovata ad effettuare sempre più interventi correttivi. 4. La c.d. “riserva di codice”. Art. 3 bis c.p. introdotto dal d.lgs. 21/2018: “Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell'ordinamento solo se modificano il Codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”. ànuove fattispecie trovano posto solo nel codice, a meno che non siano funzionali alla disciplina organica di una materia regolata da una legge ad hoc. La ratio è di assicurare che le fattispecie criminoso trovino la loro sede nel Codice penale, per una agevole accessibilità e conoscibilità delle norme incriminatrici. àLo scopo è di evitare che le norme penali siano disperse nelle diverse leggi nell’ordinamento e spesso nascoste in corpi di leggi di contenuto extra penalistico. Due limiti: 1. Limite di efficaciaàdovuto al fatto che la riserva di codice è prevista da una fonte avente rango legislativo. Rappresenta un vincolo rivolto al legislatore ma lui può essere vincolato solo da Costituzione e leggi aventi rango costituzionale, con la conseguenza che se il legislatore volesse proporre una legge extra codicistica nulla lo vincolerebbe. 2. Limite di operativitààespresso da quell’alternativa o in leggi che disciplinano in modo organico la materia, fatta salva dall’art. 3 bis c.p. Allestendo la disciplina di una certa materia o settore nella quale vi siano fattispecie penali coesistenti o correlate con la normativa extra penale, il legislatore dovrà valutare se la coerenza e l’organicità della disciplina sia pregiudicata dall’estrapolazione delle norme incriminatrici. Il legislatore dovrà effettuare una valutazione in ordine al grado di autonomia delle norme penali rispetto alla disciplina e in base all’art. 3 bis c.p., egli sarà tenuto a collocare tali norme nel codice. àincremento quantitativo del codice. 5. Riserva di legge in materia penale e diritto europeo. 27 Nei rapporti tra leggi interne e di diritto europeo c’è un problema principale, che consiste nella mancanza per gli organi produzione giuridica europea dello stesso grado di legittimazione democratica previsto dall’art. 25 Cost per la produzione della materia penale (deficit democratico). 5.2. Il diritto penale dell’Unione europea. L’UE non è titolare di potestà punitiva penale; non può emanare precetti penalmente sanzionati direttamente obbligatori x i cittadini; non ha un apparato giudiziario e coercitivo. àè titolare di una potestà punitiva amministrativa, di natura patrimoniale interdittiva. Il deficit democratico è tale che gli Stati, per ragioni costituzionali e politiche, mal sopporterebbero una competenza penale europea. àL’Italia riconosce un’efficacia diretta dei regolamenti grazie all’art. 11 Cost. (cessione della sovranità dell’Italia) ma questo con dei limiti, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento (teoria dei controlimiti). Riconosciamo nei principi fondamentali la riserva assoluta di legge in materia penale (art. 25 Cost). Il suo fondamento garantistico, secondo cui sono riservate al Parlamento nazionale le scelte concernenti la libertà e dignità personale, ne fa un diritto fondamentale dell’uomo. Comunque, l’Unione può svolgere un’attività normativa con la funzione di armonizzazione anche per quanto concerne l’amministrazione della giustizia penale. àArt. 67.3 TFUE. È molto vasta da un punto di vista processuale penale, ove l’esigenza di cooperazione tra Stati è forte. Ma l’esigenza armonizzatrice si manifesta anche in materia penale. Punti di incrocio tra produzione giuridica UE e diritto penale: A) Vengono in considerazione interessi che sono di pertinenza diretta dell’Ue, cioè gli interessi istituzionalmente europei. Avendo la disponibilità d’impiego di un ampio budget finanziario x i suoi scopi, si pone la necessità di tutela penale contro le possibili aggressioni fraudolente provenienti dai propri funzionari ma anche dai funzionari dei vari Stati membri. La loro tutela penale non può essere assunta direttamente dall’Unione mediante regolamenti contenenti compiute previsioni incriminatrici, ma dovrà essere necessariamente condivisa con la legislazione nazionale. B) Vengono in considerazione tutte quelle materie che sono state oggetto di misure di armonizzazione e per i quali si manifesta l’esigenza di una tutela anche penaleàArt. 83.2 TFUE. àesigenze di armonizzazione che, manifestatasi in una disciplina extra penale determinata, si prolungano anche rispetto alla normativa penale sanzionatoria delle infrazioni. Ciò al fine di evitare situazioni di disarmonia nella regolamentazione complessiva della materia, che sarebbero capaci di alterare quelle condizioni paritarie alla base dell’UE. C) Vengono in considerazione anche talune forme di criminalità individuate nell’art. 83.1 TFUE. D) Fanno parte del diritto Ue i diritti fondamentali dell’uomo. Art. 6.1 TUE attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati anche alla Carta di Nizza. L’art. 6.3 TUE stabilisce che “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali.” I diritti possono operare quali limiti a norme incriminatrici dell’esercizio di libertà o quali principi di garanzia penalistici. 5.3. I rapporti tra fonti europee e diritto penale interno. Lo scopo di armonizzazione dell’UE deve essere realizzato attraverso il concorso della normativa nazionale dei singoli Stati. Dà luogo a un fenomeno d’integrazione tra fonti europee e diritto penale interno, che può assumere diverse forme di manifestazione ed avvenire a vari livelli. Questi rapporti di integrazione assumono una fisionomia particolare in quanto sono condizionati dalla riserva assoluta della legge. Questo impone alla normativa nazionale un ruolo prevalente nel processo di armonizzazione. Occorre dare atto che, dopo il Trattato di Lisbona, la procedura legislativa ordinaria di produzione degli atti europei non lesina spazio all’intervento del Parlamento europeo, non mancando strumenti di partecipazione dei Parlamenti nazionali; risulta ridotto quel defit democratico. Bisogna distinguere due piani: I. piano interpretativoàcaso per caso mediante l’attività ermeneutica del giudice. Tre meccanismi: 1. obbligo di interpretazione conforme al diritto europeo. Vale sia per i regolamenti e sia per le direttive. Ci sono dei limiti rigorosi degli spazi interpretativi lasciati aperti dalla formulazione della norma penale interna. Con l’esclusione della possibilità di dare contro il tenore letterale della disposizione. 2. la possibilità x il giudice nazionale di individuare il contenuto di elementi normativi presenti nella struttura della fattispecie alla luce della normativa di diritto europeo. Ciò nella stessa misura in cui la riserva di legge consente l’integrazione di un elemento normativo di fattispecie con una fonte secondaria nazionale. 3. in nome del primato del diritto UE, viene in considerazione l’obbligo x il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto UE con effetto diretto. Un’operazione che può risultare complessa, sia per la contraddizione/incompatibilità fra le norme, sia per l’individuazione della disciplina da applicare rispetto quella disapplicata; problematico è in materia penale quando si tratta di dare applicazione diretta di una norma europea formulata in modo generico o di un principio. In campo penale la disapplicazione è ammissibile alla duplice condizione che non sia produttiva di effetti sfavorevoli per l’imputato e che la disciplina applicabile al posto di quella sia sufficientemente determinata. 30 spazi di libertà e sacrificare molti “contro-interessi” meritevoli di considerazione. La determinatezza garantisce la frammentarietà, necessaria, del diritto penale. 7. La formulazione determinata dalla legge penale. Il contenuto del principio di determinatezza è duplice: àsi rivolge al giudice, imponendogli alcune limitazioni interpretative. àsi rivolge al legislatore, imponendogli l’obbligo costituzionale di procedere alla formulazione determinate della legge. àsotto questo aspetto è chiaro che la formulazione determinata della legge s’inserisce nei temi dei rapporti tra diritto e linguaggio. Posto che nei sistemi giuridici evoluti il diritto penale è una produzione legislativa, e dunque affidato ad un testo scritto, la determinatezza della norma penale deve essere affidata al linguaggio con cui si esprime la disposizione legislativa. È pacifico che l’espressione linguistica non sia dotata di un significato originario ed immutabile, ma dipende dall’uso che di quel segno viene fatto per l’individuazione della realtà designata. L’uso linguistico dipende da molteplici e variabili condizionamenti fattuali, storici e sociali. 7.1. Determinatezza e materiale linguistico della fattispecie. A) L’imposizione tradizionale procede all’elaborazione di un catalogo del “materiale linguistico” utilizzabile, nel presupposto che le diverse tipologie di materiale siano dotate di un diverso grado di determinatezza. La dottrina distingue nel materiale di cui può essere costituita la fattispecie, almeno tre specie di elementi: quantitativi, descrittivi (che contengono un’indicazione di un dato della realtà mediante una sua descrizione naturalistica) ed elementi normativi (che riescono a fornire un’indicazione della realtà attraverso una norma giuridica o di una norma sociale). Non si può instaurare una graduatoria di una determinatezza degli stessi. a) elementi quantitativià espressi in forma numerica sono in grado di fornire un grado determinatezza assoluto, conformi al contenuto aritmicamente definito. Proprio il tasso di estrema rigidità li rende spesso inadatti alla necessità di riflettere realtà diverse ma egualmente rilevanti dal punto di vista normativo. b) elementi descrittivià un grado di determinatezza maggiore di quelli normativi. L’affermazione ha un valore puramente tendenziale, come tale privo di qualsiasi reale contributo pratico. c) elementi normativià sia giuridici che sociali. Ve ne sono alcuni con un alto grado di precisione concettuale, altri carenti di determinatezza. Gli elementi quantitativi, descrittivi e normativi possono essere sia determinati che indeterminati. d) contributo di determinatezza delle definizioni legaliànon sembra possibile fornire una indicazione netta ed univoca, dipendendo dal modo con cui le definizioni sono redatte. B) sul piano linguistico il problema della determinatezza è insolubileàmostrato dal fatto che solitamente di ogni segno linguistico, anche indeterminato, è possibile rintracciare un significato semantico. È rarissima una indeterminatezza identificabile con una sorta di assoluto vuoto semantico dell’elemento linguistico e di una intera fattispecie. Anche la più imperfetta delle norme penali sarà in grado di indicare un contenuto semantico minimo certo e determinato. Il principio di determinatezza diventa un canone non assoluto ma di natura quantitativa: il vizio di indeterminatezza di una norma consiste quindi in una insufficiente determinatezza (e non di una totale mancanza). Ogni espressione linguistica e fattispecie criminosa hanno un nucleo centrale di significato, anche minimo, ma indiscutibile e cioè determinato. Il problema nasce dall’”alone” di possibili significati attorno. L’idea di insufficienza postula l’esistenza di un criterio di misurazione. 7.2. La sufficiente determinatezza della legge penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Il principio della formulazione determinata della legge penale presenta un contenuto non afferrabile in termini rigorosi. In questo campo è interessante esaminare la giurisprudenza costituzionale formatasi in argomento, nella concretezza delle questioni di legittimità. La Corte costituzionale osserva in questo campo una estrema cautela; nonostante abbia avuto modo di affermare il carattere costituzionale del principio, ad oggi risultano poche le pronunce di accoglimento per insufficiente determinatezza. Nelle sue sentenze emergono quattro criteri principali utilizzati per la valutazione: 1) criterio della variabilità dello standard di determinatezza: lo standard richiesto non sarebbe sempre lo stesso, mutando in rapporto inverso all’importanza del bene protetto e all’esigenze di tutela appagate dalle varie norme incriminatrici. Quanto più elevato è il rango del bene e più forti le esigenze della sua tutela, tanto meno rigorosa sarebbe la soglia della determinatezza richiesta. 2) criterio del diritto vivente: quando, nonostante la imperfetta formulazione della norma, il diritto giurisprudenziale (vivente) sia consolidato in un’interpretazione uniforme e costante, l’eccezione di incostituzionalità viene respinta sulla base del rilievo che la norma avrebbe trovato il suo contenuto precettivo. Anche là dove esiste qualche incertezza interpretativa, la Corte non ha esitato a fornire indicazioni ermeneutiche. L’argomento del diritto vivente altera gli squilibri tra legislativo e giudiziario nella produzione del diritto penale. Se la determinatezza ha come sua funzione quella di contribuire al monopolio legislativo, l’argomento del diritto vivente finisce per condurre all’attribuzione formale di un ruolo protagonistico al potere giudiziario. 31 3) criterio della verificabilità empirica: nella produzione della Corte non è mancata l’individuazione sporadica di alcuni criteri di alto impegno dogmatico. Nella famosa sentenza che dichiara l’incostituzionalità del delitto di plagio, la Corte utilizzò questo criterio, perché sostenne che “sarebbe assurdo ritenere che possano considerarsi determinate, in coerenza col principio di tassatività della legge, norme che, concettualmente intellegibili, esprimono situazioni e comportamenti irreali o fantastici o non avverabili e tanto meno concepire disposizioni che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili”. Questo criterio si presta a sindacare norme imperniate su eventi o risultanti concernenti la sfera psichica ed emotiva o individuati in termini macroscopici o diffusi da sottrarsi ad un accertamento ed a una verifica praticabili. 4) criterio tipologico: la Corte in talune sentenze ha fatto del tipo criminoso il punto di riferimento della determinatezza della fattispecie. Al di là di qualunque parametro di precisione linguistica, la misura della determinatezza costituzionalmente necessaria è individuata su un piano contenutistico e valutativo: determinata sarebbe quella fattispecie che, attraverso i normali strumenti interpretativi, risulta in grado di esprimere un tipo criminoso elastico ma pur espressivo di un omogeneo contenuto di disvalore, corrispondente alla previsione sanzionatoria determinata. 8. Il divieto di analogia della legge penale. Il principio di determinatezza opera anche in direzione del giudice, con riguardo al momento interpretativo ed applicativo della legge penale. Dal principio di determinatezza deriva il divieto di analogia della legge penale. Tra i contenuti del principio di determinatezza esiste una connessione indissolubile. Da un lato, l’obbligo della formulazione determinata interdice al legislatore di configurare le fattispecie criminose avvalendosi di clausola che sollecitano il giudice a far uso dell’analogia (analogia anticipata). Dall’altro, si consideri che il divieto ha una ragion d’essere solo in un sistema in cui le norme siano formulate in modo rigoroso e tassativo, con la precisa individuazione dei casi ai quali debbono essere applicate. Quando le norme siano formulate in modo onnicomprensivo ed indeterminato, non vi è ragione di vietare la loro applicazione analogica dato che la loro ampia portata applicativa renderà improbabile l’esistenza di casi non previsti rispetto ai quali si prospetti l’esigenza di un eguale trattamento giuridico. 8.1. Fonti e fondamento del divieto di analogia. A) Fonti del divieto di analogiaànumerose. L’art. 14 delle disposizioni preliminari al c.c.: “le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Art. 1 c.p. con l’avverbio “espressamente” esclude la punibilità di fatti che non siano reati. Art. 199 c.p. per la previsione delle misure di sicurezza e dei presupposti per la loro applicazione. Art. 25 Cost. ai commi 2 e 3àcostituzionalizzazione del divieto sia per le pene sia per le misure di sicurezza. Il divieto di analogia è espressamente esteso al campo dell’illecito punitivo amministrativo dall’art. 1.2 della legge 689/1981: “Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerate.” B) caratteristiche essenziali: a) il ricorso all’analogia presuppone l’esistenza di una lacuna di disciplina: l’esistenza di fattispecie non prevista dalla norma, rispetto alla quale sia prospettabile la medesima esigenza di disciplina. L’identità di ratio, o meglio l’esigenza di estendere la stessa disciplina alla fattispecie non contemplata, presuppone che quest’ultima sia simile alla fattispecie contemplata dalla norma. L’analogia presuppone l’esistenza di tre condizioni: 1. Una lacuna di disciplina legislativa; 2. La somiglianza tra la fattispecie disciplinata e quella non disciplinata; 3. Comune esigenza di disciplina. Rispetto a una fattispecie identità a quella legislativamente prevista non pongono problemi di analogia, per la buona ragione che essa risulta “direttamente”, “espressamente” disciplina dalla norma. Rispetto a una fattispecie eterogenea a quella legislativamente prevista, cioè che con quest’ultima non abbia nessun punto di contatto, è chiaro che non si porrà nessuna esigenza di una medesima disciplina giuridica. È la somiglianza tra le due fattispecie a confronto il punto centrale del procedimento: quello dal quale dipende la possibilità di ipotizzare la ragionevolezza di una identità di disciplina. Ma la somiglianza è il risultato di un giudizio valutativo di similitudine condizionato dal criterio di valore assunto. Si dichiara la somiglianza tra due fattispecie a confronto, si privilegia quel criterio di giudizio rispetto al quale sono determinanti e significativi certi elementi comuni. Poiché nell’analogia la fattispecie “simile” non è prevista dalla legge, sussiste il dubbio che possa essere privilegiato l’altro criterio di giudizio rispetto al quale sono determinanti gli elementi differenziali. Il procedimento analogico presuppone un contrasto e poi il superamento tra due (o più) criteri di valutazione della somiglianza e diversità tra le due fattispecie a confronto. Con la conseguenza che alla radice di ogni procedimento analogico sia un’operazione valutativa degli interessi e contro interessi messi in gioco dalla fattispecie non prevista. Questa operazione di individuazione e di ponderazione e componimento dei criteri, non essendo stata fatta dal legislatore, che ha omesso di considerare la fattispecie non prevista, deve essere effettuata dal giudice. 32 b) L’opzione sull’applicazione analogica (o meno) di una certa disposizione impone una operazione valutativa degli interessi in gioco. Il divieto di analogia intende precludere questo genere di operazione al giudice, per tre ordini di ragioni riconducibili alla natura degli interessi nel diritto, in primis quelli alla libertà e dignità personale. 1. Si vuole evitare che conseguenze tanto rilevanti per tali beni ed interessi siano condizionate dall’incertezza insita in un procedimento come quello analogico. Un’incertezza derivante da due momenti valutativi: da un lato quello dell’eventuale individuazione delle ragioni di differenziazione delle fattispecie e quello della loro ponderazione con le contrapposte esigenze di estensione della disciplina (ratio di certezza). 2. Il principio democratico che sta alla base della legalità penale e che pretende una concentrazione del potere normativo penale del legislatore, in quanto unico soggetto investito di legittimazione democratica, porta ad escludere che il giudice possa spingersi in operazioni valutative degli interessi come sono quelle che si celano dietro l’apparente neutralità dell’accertamento della “somiglianza” tra fattispecie nel procedimento analogico. È l’idea del monopolio legislativo che sta alla base anche del divieto di analogia (ratio di garanzia). 3. Bisogna sottolineare come, una volta consentito il superamento dell’argine costituito dalla fattispecie legislativamente prevista, non c’è un limite al processo di penalizzazione in via giudiziaria. Il processo di “assimilazione” tra le fattispecie è in grado di estendere senza controllo l’area del penalmente rilevante. Sulla base della eadem ratio costituita dalle generiche esigenze di tutela di un dato bene giuridico, tutti i comportamenti offensivi di quel bene potrebbero essere coinvolti dal processo di assimilazione in ragione del loro comune carattere pregiudizievole per il bene. Contraddetto il carattere frammentario del diritto penale e del principio di tipicità. 8.2. Il problema della distinzione tra interpretazione e analogia. La distinzione tra un’applicazione analogica (vietata) e un’interpretazione estensiva (consentita) è un problema rilevante e difficile di soluzione sia teorica che pratica. La giurisprudenza spesso presenta come operazioni interpretative applicazioni in realtà analogiche. La difficoltà sta nel fatto che determinate situazioni di fatto sono molto simili per caratteristiche fattuali e valoriali. Tra le due operazioni esistono caratteristiche comuni, ma il criterio distintivo è il significato linguistico della previsione. Si rimarrà nell’interpretazione fintanto che l’interprete si muove all’interno dell’uso linguistico del termine, sia nella sua massima estensione; l’analogia oltre tale limite. L’individuazione del confine costituito dal significato linguistico non è un’operazione facile, ma desumere l’impossibilità di distinzione significherebbe dare un colpo al principio di legalità nel principio di determinatezza. 8.3. Il problema della portata del divieto di analogia: l’analogia in bonam partem. A) Un tradizionale problema del divieto di analogia è quello della sua portata. Essendo che il divieto riguarda le norme sfavorevoli, esso si estende a tutte le norme comprese quelle favorevoli? La soluzione sembrerebbe formulata dall’art. 14 disposizioni preliminari al c.c., il quale parla indistintamente di leggi penali. Il problema viene impostato e risolto muovendo dalla nota contrapposizione delle due rationes poste alla base del divieto di analogia: certezza e garanzia. a) Una parte ritiene che il divieto di analogia sia giustificato nell’incertezza valutativa del procedimento analogico e dei suoi risultati applicativi, così che la sua utilizzazione da parte del giudice impedirebbe di individuare il limite tra lecito ed illecito, conclude nella ampia portata del divieto. Posto che all’individuazione del confine della responsabilità penale concorrono anche le norme favorevoli, ne viene che la loro applicazione analogica contribuirebbe a rendere incerto quel limite. b) Un’altra parte ritiene che il divieto di analogia risponda ad una esigenza di garanzia della libertà personale nei confronti del potere giudiziario, è portato a concludere che questa esigenza di garanzia è posta in pericolo dalla possibilità del giudice di applicare analogicamente le sole norme sfavorevoli, essendo evidente che l’estensione analogica di una norma di favore non pregiudica la libertà. c) Una terza parte, muovendo dalla premessa che le norme di favore sottraggono determinate fattispecie all’area applicativa della norma incriminatrice alla quale accedono, ritiene che l’applicazione dell’analogia alle norme favorevoli sia impossibile per insussistenza della lacuna di disciplina. Se per una fattispecie particolare si pone un problema di estensione analogica, ciò significa che questa è già prevista nell’area applicativa della norma incriminatrice. Argomento predominanteàil divieto di analogia si limita alle norme sfavorevoli. B) Ulteriori implicazioni sulla portata del divieto di analogia derivano dai principi di carattere generale. a) L’analogia non trova limiti quando riguarda una disposizione extra-penale richiamata da una legge penale favorevole o sfavorevole, che effettui il richiamo alla disciplina giuridica così come esistente nell’ordinamento. b) L’analogia non è sempre consentita solo perché concerne una norma penale favorevole. 1) Occorre verificare che non si tratti di una norma avente carattere eccezionale, e come tale esclusa in via generale dall’applicazione analogica in virtù dell’art. 14 disp. prel. c.c. L’opinione tradizionale giunge ad escludere l’applicazione analogica delle cause di non punibilità in senso stretto e delle cause di estinzione del reato e della pena in quanto eccezionali. 35 Il principio di retroattività favorevole ha acquisito anche il carattere di diritto fondamentale dell’uomo, che non può subire deroghe, e di rango di principio costituzionale. C) Il nuovo “status” ha posto una serie di quesiti, anche in ragione del fatto che questa evoluzione è avvenuta in via giurisprudenziale. Ci si chiede quale sia l’esatta portata che la Corte attribuisce alla retroattività favorevole, se incontra limiti o eccezioni. La Corte costituzionale mostra una cautela sul carattere incondizionato del principio. 9.3. Il problema dei mutamenti giurisprudenziali. I principi e le regole della successione di leggi nel tempo si applicano anche ai mutamenti giurisprudenziali? La questione nasce dal crescente ruolo del diritto giurisprudenziale e con la conseguente probabilità di mutamenti di orientamenti giurisprudenziali. Esso si pone sotto la pressione esercitata dalla Corte di Strasburgo: non solo considera la giurisprudenza tra le legittime fonti del diritto penale, ma considera anche la legalità in chiave essenzialmente di conoscibilità del precetto e prevedibilità delle conseguenze giuridiche, lontane dai principi vigenti. Bisognerebbe definire quali siano i precedenti giurisprudenziali rispetto ai quali l’overruling possa dirsi significativo, così da giustificare l’applicazione dei principi e regole relative alla successione di leggi penali. (overrulingàabbandono di un indirizzo precedentemente accolto da una Corte abilitata ed enunciare dei principi di diritto in grado di vincolare gli altri giudici). L’art. 618 c.p.p. àove stabilisce che la sezione semplice della Cassazione, che intenda non condividere il precedente espresso dalle Sezioni unite, deve investire sulla questione quest’ultime. Si attribuisce forza al precedente espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione. Distinguere tra mutamenti giurisprudenziali in senso favorevole o sfavorevole. Il mutamento favorevoleànon trova ostacoli; problema che si pone è se di esso si debba tener conto nei processi contemporanei o successi, o se possa incidere sulla sentenza passata in giudicato. La Corte costituzionale si è pronunciata escludendo che l’overruling possa essere equiparato alla successione di leggi. Il mutamento sfavorevoleàesigenza di tutela della posizione dell’individuo e della sua libertà di autodeterminazione, che non trova una disciplina espressa nel sistema, essendo improponibile un’applicazione analogica dell’art. 2.1 c.p. L’unica soluzione potrebbe essere quella che fa leva sull’inevitabilità dell’errore del precetto penale in cui versava chi ha agito prima dell’overruling sfavorevole supponendo di non agire illecitamente. Quando si susseguono nel tempo due pronunciamenti delle Sezioni Unite, il primo che offre una interpretazione restrittiva della fattispecie e il secondo che estende l’ambito applicativo della fattispecie, vi sono forti ragioni per ritenere che il cittadino che agito tra le due sentenze abbia fatto affidamento sulla prima pronuncia, con la conseguenza che il mutamento sfavorevole introdotto dalla seconda non operi retroattivamente. 10. La disciplina della successione di leggi penali nel tempo (art. 2 c.p.) e i principali problemi applicativi. 10.1. Le disposizioni dell’art.2 c.p. a) PRIMO COMMA: principio della irretroattività della legge più favorevole àprevede l’ipotesi di nuova incriminazione, vietando che una legge che crea una nuova previsione di reato possa trovare applicazione ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. b) SECONDO COMMA: prevede l’ipotesi di abrogazione di una precedente incriminazione (cd. abolitio criminis), cioè l’ipotesi in cui un fatto prima previsto come reato sia successivamente reso penalmente irrilevante dal legislatore. Si stabilisce l’efficacia retroattiva della abolitio criminis, disponendo che l’autore del fatto non può essere punito e che se ha riportato condanna ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. In caso di abolitio criminis l’efficacia retroattiva è senza limiti in quanto si spinge fino a travolgere il giudicato. c) TERZO COMMA E QUARTO COMMA: prevedono l’ipotesi di successione modificativa, nel senso che il fatto continua ad essere previsto come reato tanto dalla prima che dalla seconda legge ma ne muta la disciplina in senso favorevole o sfavorevole. Comma 4àstabilisce il principio generale che tra le due leggi si applica quella più favorevole al reo. Se la legge successiva è sfavorevoleàirretroattività; se la legge è più favorevoleàretroattività, in coerenza coi principi generali. àdue aspetti. 1) La retroattività della legge successiva più favorevole non è senza limiti. Il comma 4 dispone che la legge successiva più favorevole retroagisce fino a che non è intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, perché persistendo la qualificazione di illeceità del fatto, è ragionevole che, dopo la sentenza definitiva, il colpevole sopporti il sacrificio della mancata retroattività in considerazione dell’interesse superiore alla stabilità delle decisioni giudiziarie. Dopo l’avvenuta costituzionalizzazione potrebbe porsi il problema della legittimità del limite, anche se pare plausibile che il principio sia suscettibile di bilanciamento con altri interessi. Il comma 3 prevede una deroga al principio della intangibilità del giudicato per l’ipotesi in cui, essendoci condanna detentiva definitiva, la legge posteriore più favorevole punisca il fatto solo con la pena pecuniaria. Qui la ratio del comma 3 è che pur persistendo la qualificazione di illeceità del fatto, è chiaro che il mutamento consistente nel passaggio della pena detentiva a quella pecuniaria è rilevante per il reo da rendere ragionevole sacrificare le esigenze di stabilità dell’ordinamento per il principio di eguaglianza. 36 2) L’individuazione della legge più favorevole da applicare deve avvenire in concreto, confrontando gli esiti dell’applicazione dell’una e dell’altra al fatto concreto. Può capitare che la modificazione riguarda più aspetti della disciplina del fatto, modificativi in meglio o peggio. Sarebbe impossibile valutare in astratto quale legge è più favorevole. Il giudice dovrà provare ad applicare l’una o l’altra legge e valutare in concreto quali sono i risultati derivanti per il reo dall’applicazione. È chiaro che il giudice non potrà applicare un mixtum compositum delle due leggi. Applica una delle due leggi e valuta i risultati dell’una e dell’altra. d) QUINTO COMMA: prevede la deroga alla retroattività favorevole per la successione delle leggi temporanee o eccezionali. Tanto le une che le altre presentano un periodo di vigenza predeterminato o predeterminabile a priori, in quanto destinate a perdere vigore o con la scadenza del termine finale (leggi temporanee) o col venire meno della situazione eccezionale in cui furono emanate (leggi eccezionali). Ciò che appare ragionevole è che entrambe si applichino necessariamente ai fatti commessi durante la loro vigenza ed esclusivamente ad essi. 1) profilo: l’effetto generalpreventivo dissuasivo della legge incriminatrice temporanea ed eccezionale andrebbe perso se i consociati potessero contare previamente sulla prevista cessazione di efficacia della legge. Del tutto ragionevole è, quindi, l’inapplicabilità della legge comune più favorevole che succede a quella temp. o ecc. 2)profilo: appare ragionevole l’inapplicabilità della legge temporanea od eccezionale più favorevole che succede a quella comune precedente. Sebbene più favorevole, non avrebbe senso far retroagire la legge eccezionale (o temp.) applicandola a fatti che sono stati commessi al di fuori della situazione di eccezionalità. Discussa è l’applicabilità del 5 comma nell’ipotesi di successione di leggi temporanee o eccezionali tra loro, allorché permanga la stessa situazione di eccezionalità valutata diversamente e disciplinata dal legislatore. e) SESTO COMMA: prevede che le regole sulla successione di leggi si applichino nei casi di “decadenza e mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito con emendamenti”. àdeve fare i conti con l’art. 77 Cost. ove è stabilito che il d.l. non convertito perde efficacia ex tunc, come se non fosse mai esistito, escludendo la successione di leggi. Occorre distinguere tra: fatti realizzati prima (pregressi) l’entrata in vigore e fatti realizzati durante l’efficacia del decreto poi decaduto. Per i primià si applica la legge vigente al tempo della loro realizzazione: se sfavorevole, il decreto non potrà trovare applicazione essendo peggiorativo; se favorevoli, non potrà trovare applicazione perché decaduto. Così si evita il rischio di abuso politico che il Governo potrebbe consumare. Per i secondiàil d.l. non troverà applicazione se sfavorevole perché inefficace; se favorevole, la soluzione della non applicazione ex art. 77 Cost si scontra col principio di irretroattività, per cui il soggetto non può rispondere per un fatto che al momento in cui è stato commesso non costituiva reato. 10.2. I principali problemi applicativi dell’art. 2 c.p. 10.2.1. Campo di applicazione dell’art 2 c.p. e tempus committi delicti. A) primo problemaàcampo di applicazione. Si vuole chiarire la portata di “legge penale”. I principi e la disciplina della successione di leggi penali riguardino norme relative all’an, al quantum e al quomodo della responsabilità penale, cioè norme che prevedono reato, forme, manifestazione e conseguenti sanzioni. Accanto a queste norme ve ne sono altre che, non essendo comunque propriamente penali, sono collegate ed hanno un contenuto incidente sulla posizione del soggetto, sui diritti e sulla libertà personale. In un ordine di crescente lontananza del nucleo centrale costituito dal reato e dalla responsabilità penale, possono enumerarsi: norme sulle misure di sicurezza (art. 199 ss. c.p.), norme che prevedono le misure di prevenzione ante delictum (oggi nel codice antimafia), norme disciplinanti l’esecuzione delle pene e l’esecuzione penitenziaria, norme processuali. Le primeàpresuppongo la commissione di un reato ma si fondano su uno stato di pericolosità del soggetto; le secondeàsi basano sul soggetto essendo orientate a prevenire la commissione di futuri reatiàentrambe incidono sulla libertà personale. Norme su esecuzione penitenziariaàdeterminano il contenuto della pena detentiva prevista dalle norme penali, in quanto stabiliscono in cosa consiste, individuando i confini della libertà del detenuto e le ipotesi di esecuzione in libertà. Le ultimeàsono strumentali all’accertamento della responsabilità penale e possono indirettamente influire in meglio o peggio sulle sorti del colpevole e incidere direttamente sulla libertà ed esercizio dei diritti riguardanti le misure cautelari. a) Il divieto di applicazione retroattiva della legge più sfavorevole si riferisca alle misure di sicurezza e alle misure di prevenzione, sussistendo identica la ratio garantistica di evitare che il legislatore possa arbitrariamente attentare alla libertà personale dell’individuo. L’art. 2 c.p. dovrebbe trovare applicazione in rapporto a una misura di sicurezza o di prevenzione che venga introdotta ex novo, per un reato o per un fatto indiziante la pericolosità già previsto come reato, ma non previsto quale presupposto di tali misure. Alla stessa conclusione si dovrebbe pervenire per l’ipotesi di previsione di una nuova misura più sfavorevole per un fatto già previsto come reato. Al di fuori dell’art. 2 c.p., con operatività del principio tempus regit actum e possibilità di applicazione retroattiva di trattamenti più sfavorevoli, rimarrebbe l’ipotesi di modifica concernente le semplici modalità esecutive delle misure. La Corte costituzionale ha ammesso la retroattività di misure di sicurezza più sfavorevoli per fatti già previsti come reati. b) Quanto alle norme dell’esecuzione penitenziaria, per anni prevalse una giurisprudenza che le escludeva dal campo di applicazione dell’art. 2 c.p. Recentemente la Corte ha dichiarato incostituzionale tare orientamento per 37 violazione dell’art. 25.2 Cost, operando una distinzione all’interno di questa categoria. Per quelle norme che disciplinano le semplici modalità esecutive della pena si applica la disciplina legislativa vigente al momento dell’esecuzione, per le norme che comportano una “trasformazione della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato), si applica l’art. 2 c.p., col divieto di retroattività di una disciplina peggiorativa. c) norme processualiàil principio generale è che si applica la legge vigente al momento del compimento del singolo atto processuale (tempus regit actum). La Corte di Cassazione a Sezione Unite ha escluso che una misura cautelare in corso di esecuzione possa subire modifiche per effetto di un nuovo trattamento normativo più sfavorevole. B) secondo problemaàtempus commissi delicti. Presupposto indispensabile per l’individuazione della legge applicabile secondo le disposizioni dell’art. 2 c.p. è la preliminare individuazione del momento in cui deve considerarsi realizzato il reato. Questo momento sia quello di realizzazione della condotta tipica del reato e non dell’evento, quando previsto dalla fattispecie. Se si tratta di condotta omissiva, il momento del commesso reato è quello di scadenza del termine. E se la condotta avesse una durata, il momento si identifica con quello in cui la condotta assume il carattere della tipicità: inizio della consumazione nel reato permanente, e realizzazione del primo atto ripetitivo che segna l’inizio dell’abitualità nel reato abituale. 10.2.2. Il problema delle cd. modifiche mediate, Problema: nel caso in cui la successione di leggi riguardi una norma richiamata da quella incriminatrice, che concorre indirettamente ad individuare e selezionare il fatto penalmente rilevante sulla base delle caratteristiche storico-concrete del fatto realizzato (modifiche mediate). Questo richiamo diventa operativo solo in relazione alle caratteristiche concrete del fatto d’incolpazione. Lo stesso fenomeno di integrazione tra la fattispecie incriminatrice e altre norme da queste richiamate e concorrenti così all’individuazione e selezione dei fatti punibili. Può capitare che, immutata restando la legge che incrimina indirettamente la fattispecie, la successione di leggi riguardi le norme da quella richiamate. In tutti questi casi si parla di modifiche mediate e si pone il problema se e a quali condizioni queste modifiche sono soggette alla disciplina dell’art. 2 c.p. A) Si potrebbe sostenere in primo luogo che la successione riguarda norme extra-penali, con la conseguenza che l’art. 2 c.p. rimarrebbe fuori gioco e la disciplina applicabile sarebbe quella vigente al momento della commissione del fatto. B) In secondo luogo, superando il formalismo della presunta “estraneità” delle norme richiamate, si è distinto a seconda che la modifica legislativa incida sul contenuto di disvalore del fatto che costituisce il fondamento della sua incriminazione, o lo lasci immutato. C) Criterio che si fonda sulla distinzione tra norma extra-penale integratrice del precetto e norma extra-penale non integratrice, riconoscendo solo nel primo caso un reale fenomeno di successione di leggi penali. D) l’ultimo criterio è la soluzione. Anche il fenomeno delle modifiche “mediate” è stato ricondotto alla successione delle leggi penali nel tempo, ritenendole di conseguenza assoggettate alla disciplina dell’art. 2 c.p. e ai principi costituzionali ad essa sovraordinati senza distinzioni di sorta. È la soluzione più coerente coi principi di eguaglianza e garanzia che governano la successione di leggi penali nel nostro ordinamento. Ciò che sembra essenziale è la differenza di trattamento giuridico-penale che per lo stesso fatto consegue alla modifica legislativa seppure mediata. Di fronte alla diversità di disciplina giuridica, tra quella vigente al momento del fatto e quella vigente al momento del giudizio, il principio generale sovraordinato all’intera materia esige che trovi applicazione quella normativa da cui discende il trattamento più favorevole. La Corte di Cassazione ha fatto proprio la soluzione fondata sulla distinzione tra norme integratrici e non. 10.2.3. La distinzione tra abolitio criminis e successione solamente modificativa. Problema: concerne la reciproca delimitazione dei campi di applicazione del secondo e quarto comma dell’art. 2 c.p., cioè dell’abolitio criminis e della successione solamente modificativa. A) Non sempre all’abrogazione di una norma incriminatrice consegue la totale irrilevanza del fatto ivi previsto: si constata di frequente come l’abrogazione di una norma incriminatrice sia accompagnata dall’introduzione di nuove fattispecie con le quali il legislatore intende dare un nuovo assetto alla disciplina di una determinata materia, o come la fattispecie oggetto di abrogazione vada a ricadere nell’ambito applicativo di altra preesistente. In secondo luogo, fermo restando il principio della retroattività della legge più favorevole, la specifica disciplina normativa è diversa a seconda che si tratti realmente di abolizione di una precedente incriminazione o solamente di modifica più favorevole. Nel primo caso, la retroattività è assoluta in quanto travolge anche l’eventuale sentenza definitiva che abbia condannato in base alla norma poi abrogata. Nel secondo caso, la retroattività incontra il limite della seconda definitiva (salvo il terzo comma). Da ciò discende l’importanza pratico-applicativa di accertare con precisione quando ci si trovi di fronte ad un fenomeno realmente abolitivo di precedete incriminazione o di semplice modificazione. È chiaro che il problema si pone solo quando la modifica legislativa successiva riguardi gli elementi di struttura della fattispecie, essendo ogni altra modificazione di aspetti diversi della disciplina qualificabile come un fenomeno di successione modificativa. B) principali criteri: 40 2) Si può muovere dall’idea che sia compito del diritto internazionale individuare i criteri di distribuzione della giurisdizione penale tra Stati diversi in caso di collegamento molteplice. Ogni Stato fa parte della comunità internazionale, all’interno della quale si dovrebbe affermare un equilibrio solidaristico fra Stati capace di contemperare l’interesse di ciascuno alla repressione “in proprio” di certi fatti criminosi e l’interesse generale a che altri fatti non rimangano impuniti. Lungi dalla discrezionalità e libertà degli Stati di determinare l’ambito di applicazione delle proprie leggi penali, si sarebbe una “legalità internazionale” alla quale gli Stati sarebbero soggetti. Questi principi generali internazionali vincolerebbero il legislatore interno grazie al rinvio dell’art. 10 C. B) principi regolativi in generale: 1) In primo luogo, esiste un certo consenso sulla prevalenza del principio di territorialità, secondo il quale è generalmente applicabile la legge dello Stato sul cui territorio è stato realizzato il reato. Ciò è naturale perché il territorio costituisce l’aspetto nel quale si incarna maggiormente la sovranità nazionale, ma anche per ragioni pratiche. È in rapporto ai fatti commessi sul territorio che lo Stato ha l’interesse a realizzare quelle condizioni di ordine e sicurezza cui contribuisce il diritto penale. È chiaro poi, che la giurisdizione può essere esercitata con efficacia maggiore rispetto ai fatti commessi sul proprio territorio in quanto è più facile l’accertamento probatorio. 2) In secondo luogo, l’applicazione extraterritoriale della legge penale finisce per avere carattere eccezionale e residuale, in quanto sussistano condizioni in presenza delle quali essa o corrisponde ad interessi specifici di uno Stato diverso da quello territoriale, o soddisfa esigenze di solidarietà internazionale dirette ad evitare che certi reati rimangano impuniti. a) interessi repressivi del primo tipo (specifici di uno Stato non territoriale)àvengono in gioco il principio della personalità attiva (=è applicabile la legge dello Stato di cui il soggetto attivo è cittadino) e il principio della personalità passiva (o della difesa) (=è applicabile la legge dello Stato di cui la vittima è cittadino o dello Stato i cui interessi sono stati offesi dal reato). Questi principi corrispondono a un interesse repressivo dello Stato di tipo personalistico-garantista nei confronti dei propri cittadini (il primo) e di autotutela (il secondo), che può sussistere nonostante il reato non sia stato commesso sul proprio territorio ma abbia caratteristiche o presenti condizioni tali da rendere importante l’applicazione della legge nazionale. b) interessi repressi del secondo tipo (di solidarietà int.)à viene in gioco il principio di universalità (=la legge nazionale è applicabile a determinati crimini indipendentemente dall’esigenza di un elemento di collegamento, salva la presenza del reo sul territorio dello Stato). Questo ha subito un processi di trasformazione nel diritto internazionale: originariamente aveva valenza “statalistica” (=esprimeva quel punto di vista secondo il quale gli Stati nazionali non trovano limiti esterni all’affermazione dell’ambito applicativo della propria legge penale e tendono ad affermarne l’applicabilità extraterritoriale e universale), oggi ha una valenza universalistica e solidaristica (= viene affermato in relazione a certi reati che presentano carattere di universalità, in quanto offendono beni e valori riconosciuti dall’intera comunità internazionale). Con la conseguenza che ogni Stato è legittimato ad applicare la propria legge e che ciò contribuisce ad evitare che quei crimini possono rimanere impuniti. Il principio di universalità corrisponde ad un’esigenza di giustizia. C) La coesistenza di molteplici criteri di determinazione dell’ambito spaziale della legge penale non esclude l’insorgenza di conflitti di giurisdizione tra Stati diversi: ciò in quanto il diritto internazionale non è pervenuto a determinare un quadro di reciproco coordinamento tra quei criteri. Il diritto internazionale non è rimasto indifferente all’eventualità che sorgano tali conflitti. Si deve constatare come il diritto internazionale generale abbia riconosciuto un criterio di risoluzione dei conflitti di natura empirico-fattuale, attribuendo la prevalenza alle pretese punitive del forum deprehensionis (=dello Stato di cattura del colpevole). Dall’altro lato, è stato elaborato il principio del ne bis in idem (esecutivo), che ha però lo scopo di circoscrivere gli inconvenienti. Esso è diretto ad evitare che, a seguito dell’esercizio della giurisdizione da parte di più Stati che ritengono tutti applicabile la propria legge ad uno stesso fatto, il reo venga assoggettato più volte a pena per il medesimo reato. 11.1.2. La disciplina del codice. Il nostro codice disciplina l’ambito spaziale di applicazione della legge penale italiana agli artt. 6-10 c.p. A) principio di territorialità (art. 6 c.p.): “Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”. àin presenza dell’elemento di collegamento con lo Stato italiano costituito dalla territorialità, si applicherà la legge italiana anche nell’eventualità in cui sussistano uno o più altri elmeenti di collegamento (extraterritoriali) con Stati diversi. In questi casi potrà insorgere un conflitto di giurisdizione tra lo Stato italiano e quello estero qualora quest’ultimo attribuisca rilevanza all’elemento extraterritoriale per affermare l’applicabilità della propria legge penale. B) Gli articoli successivi affermano l’applicabilità della legge penale italiana sulla base di diversi criteri di collegamento extraterritoriali, ma limitatamente a certe determinate categorie di reati e spesso subordinatamente al verificarsi di particolari condizioni. a) principio della difesa (art. 7 c.p.): ove in effetti l’applicabilità della legge penale italiana è stabilita, indipendentemente dalla cittadinanza italiana o straniera del soggetto attivo, per reati commessi all’estero ma riconducibili a categorie offensive di interessi fondamentali e propri dello Stato italiano. 41 Al principio della difesa può essere ricondotto l’art. 8: estende l’applicabilità della legge italiana ai reati, commessi indifferentemente dal cittadino o dallo straniero, di natura politica e proprio in quanto tali più o meno direttamente offensivi di interessi propri dello Stato italiano. L’ultimo comma fornisce una definizione di delitto politico: ricomprendendoci i delitti che offendono un interesse politico dello Stato o un diritto politico del cittadino (delitto oggettivamente politico), ma anche quelli determinati in tutto o in parte, da motivi politici (delitto soggettivamente politico). Questo articolo subordina l’applicabilità della legge nazionale all’esistenza di una richiesta del ministro della giustizia che valuti l’opportunità politica di questa estensione della nostra giurisdizione al di là dei confini territoriali. A queste ipotesi si aggiunge quello della personalità attiva in tutti i casi in cui il reato sua in concreto commesso dal cittadino italiano. b) principio della personalità passiva (art. 10.1 c.p.): che dichiara applicabile la legge italiana quando si tratta di reato commesso all’estero e da cittadino straniero ai danni dello Stato o di un cittadino italiano. Perché si possa applicare la legge italiana devono sussistere molte condizioni. Occorre: che si tratti di reato di una certa gravità (delitto punibile con l’ergastolo o con pena non inferiore nel minimo ad un anno); il reo si trovi nel territorio dello Stato italiano; vi sia la richiesta del ministro della giustizia (oltre l’eventuale querela della persona offesa, se necessaria). c) principio della personalità attiva (art. 9 c.p.): che rende applicabile la legge penale italiana ai reati commessi all’estero dal cittadino italiano. Poiché l’articolo distingue a seconda che si tratti di reato a danno dello Stato o del cittadino italiano o a danno di uno Stato estero o di straniero. Nella prima evenienza l’applicabilità della legge italiana è affermata in ragione anche del principio della difesa o della personalità passiva nonché attiva. Anche l’art. 9 stabilisce una serie di condizioni differenziate a seconda della diversa intensità del vincolo di collegamento e relativa alla gravità del reato, alla presenza del reo nel territorio italiano e all’esistenza della richiesta del ministro della giustizia. d) principio di universalità (art. 10.2 c.p.): che rende applicabile la legge italiana al delitto commesso all’estero dallo straniero a danno di uno Stato estero o di uno straniero (o delle Comunità europee). Nessun collegamento con lo Stato italiano e dunque minimo è l’interesse politico-sostanziale, è logico che l’applicabilità della legge italiana sia subordinata a una serie di condizioni che possano rendere più plausibile l’applicazione della legge. fondamentale è la condizione che il colpevole si trovi nel territorio dello Stato. Occorre la richiesta del ministro della giustizia e che si tratti di delitto con pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni. La legge italiana non sarà applicabile nel caso in cui, vantando qualche altro Stato la giurisdizione, lo Stato italiano rinunci alla propria concedendo l’estradizione del colpevole. La previsione generale ex art. 10.2 c.p. si rivela espressione di una volontà politica di stampo autoritario nel senso della massima espansione possibile dell’ambito applicativo della legge penale italiana. Oggi il principio di universalità può trovare attuazione nella opposta prospettiva della solidarietà che lega la comunità internazionale per la tutela di taluni valori fondamentali di carattere universale, questi beni sono oggetto di convenzioni internazionali che li impegnano all’esercizio della giurisdizione punitiva indipendentemente dall’esistenza di un elemento di collegamento, al fine di evitare che l’inerzia di quegli Stati rispetto ai quali sussiste il collegamento determini la impunità del colpevole di questi crimini internazionali. Il principio di universalità può moltiplicare le teoriche possibilità di conflitti di giurisdizione tra Stati diversi: determinante è l’elemento della presenza del colpevole nel territorio dello Stato di cattura, sempre che non sia proceduto a concedere l’estradizione ad altro Stato che abbia richiesta. e) non mancano norme sparse che, in relazione a determinati reati, introducono deroghe alla regola generale della territorialità. Es. 604 c.p. dispone che i reati di violenza sessuale e di corruzione di minorenne sono puniti secondo la legge italiana anche se commessi all’estero dal cittadino italiano o in danno di esso. Pur essendo il principio di territorialità quello fondamentale in materia, nel complesso la vigente disciplina della legge penale nello spazio riflette un intento politico espansivo dell’ambito applicativo della legge italiana. 11.1.3 Le nozioni di cittadino, territorio dello Stato, locus committi delicti e delitto politico. • Cittadino italiano (art. 4.1 c.p.): agli effetti della legge penale, si considera tale chi appartiene per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e l’apolide residente nel territorio dello Stato. La qualità di cittadino italiano ha rilevanza nell’ipotesi di reato commesso all’estero ai fini dell’eventuale applicazione della legge penale italiana e ad altri effetti diversi. Nei casi in cui la qualità soggettiva di cittadino è elemento essenziale di un reato proprio; o nel caso in cui detta qualità personale operi quale limite all’estradizione. Il diritto penale mutua la nozione di cittadino italiano dalla disciplina privatistica della cittadinanza: l’art. 4.1 c.p. richiama sia la cittadinanza acquisita originariamente in base ad eventi naturali sia quella acquisita in seguito a fatti od atti volontari. Gli apolidi sono considerati italiani se residenti stabilmente. • Territorio dello Stato italiano (art. 4.2 c.p.): agli effetti della legge penale, esso è “il territorio della Repubblica, e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale a una legge territoriale straniera”. 42 Territorio della repubblicaàsuperficie delle terre emesse sulle quali l’Italia vanta un diritto legittimo di sovranità, in base al diritto costituzionale, convenzioni, trattati e titolo riconosciuto dal diritto internazionale. Compreso il sottosuolo e soprasuolo (nel limite della utilizzabilità e con esclusione dello spazio sopra l’atmosfera terrestre), il mare territoriale, compresa la zona di mare fino a 12 miglia marine lungo le coste continentali ed insulari della Rep. Comprende quella porzione di territorio su cui si vanti un potere di governo effettivo, di cui anche il territorio straniero sotto occupazione militare (guerra e non). Navi ed aerei militariàsempre territorio italiano ovunque si trovino e anche se in luoghi di altri Stati. Quelli civili sono territorio italiano quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcun altro Stato. Si applica il principio internazionale della “bandiera”. L’art. 4.2 c.p. non contempla navi e aeromobili stranieri nel territorio italiano, ai quali si applica il principio della bandiera negli stessi termini in cui si applica inversamente. • Locus committi delicti: il problema di individuare il luogo in cui è stato commesso il reato si pone allorché l’esecuzione criminosa si frazioni sul territorio anche di uno o più Stati ulteriori a quello italiano. La condotta criminosa e l’evento naturalistico del reato costituiscono i due elementi costitutivi fondamentali del reato, con la precisazione che non tutti i reati presentano l’elemento dell’evento naturalistico di locus committi delicti fornita dal codice è quella più ampia possibile. Il reato di sola condotta si considera commesso in Italia solo che nel territorio nazionale sia tenuta una parte, un frammento della condotta criminosa; mentre il reato di evento naturalistico si considera commesso in Italia tanto che sul territorio nazionale si sia verificato l’evento quando che sia stata realizzata la condotta criminosa. Questa soluzione riflette la teoria dell’ubiquità, in contrapposizione alle teorie della condotta e dell’evento, le quali considerano commesso il reato nello Stato in cui è stata realizzata la condotta o l’evento. Le ragioni sono viste nella circostanza che il reato è un fatto unitario dal punto di vista del suo disvalore, sia nella circostanza che lo Stato può avere un interesse all’esercizio della sua giurisdizione anche se nel suo territorio viene realizzata una parte del reato. La soluzione dell’ubiquità accentua il rischio della moltiplicazione dei conflitti di giurisdizione. Questa soluzione presenta un problema applicativo, cioè si considera commesso nel territorio dello Stato il reato di cui sia stata realizzata anche solo una parte della condotta, ci si chiede se sia sufficiente la realizzazione anche di un minimo frammento della condotta. Si ritiene che non sia necessario che la condotta raggiunga la soglia della rilevanza penale, integrando gli estremi del tentativo punibile o di un reato preparatorio a quello principale; ma sia necessario che rivesta una significatività nell’economia complessiva dell’esecuzione criminosa in base ad una valutazione ex post del crimine. • Delitto politico (art. 8.3 c.p.): nonostante si parli agli effetti della legge penale, deve essere tenuta distinta dalla nozione del delitto politico quale limite all’estradizione previsto dagli artt. 10.4 e 26.2 Cost. Il divieto di estradizione per delitti politici risponde ad una ratio di garanzia nei confronti dell’individuo, al fine di evitare che con la consegna del colpevole lo Stato che estrada si assuma la corresponsabilità di una possibile discriminazione del colpevole consumata dallo Stato richiedente in ragione della politicità del reato. La natura politica del reato è prevista dall’art. 8 c.p. come ragione di estensione dell’ambito spaziale di applicabilità della legge penale italiana al di là della territorialità, nel presupposto che la politicità del reato renda l’interesse dello Stato italiano alla repressione del fatto prevalente rispetto all’interesse che potrebbe avere lo Stato del territorio. Si tratta di una ratio che affonda le sue radici nel principio della difesa. Si può aggiungere che tale ratio si rivela ispirata da una imposizione autoritaria, nella misura in cui lo Stato italiano pretende di estendere la sua giurisdizione in ragione del fatto che il delitto è anche solo soggettivamente determinato da motivi politici. Art. 8.3 c.p. fornisce una duplice nozione di delitto politico: a) delitto oggettivamente politico: quello che offende un interesse politico dello Stato, da intendere come un interesse concernente lo Stato nella sua interezza. Lo sono quelli contro la personalità dello Stato, rispetto ai quali l’extraterritorialità della legge penale italiana è già assicurata dall’art. 7. Lo è anche quello che offende un diritto politico del cittadino, come l’attentato contro i diritti politici del cittadino o reati in materia elettorale. b) delitto soggettivamente politico: che si fonda sulla motivazione psicologica che ha determinato il soggetto alla commissione del reato. Si deve trattare di una motivazione che trae alimento da una vera ideologia politica, attinente all’organizzazione e al funzionamento dello Stato o ai rapporti tra lo Stato e i cittadini. Occorre evitare di confondere una motivazionale solamente sociale con quella politica. 11.2. La cooperazione internazionale: caratteri e forme. A) Può capitare che l’esercizio della giurisdizione da parte del nostro Stato incontri difficoltà in quanto s’imbatte con la sovranità di altri Stati. Si è accentuata nei tempi moderni col carattere transnazionale assunto da determinate forme di criminalità. Dinanzi a tali situazioni l’applicabilità della legge italiana è impossibile senza un atto di cooperazione internazionale compiuto da uno Stato straniero. Un rapporto cooperativo tra Stato sovrani in materia di giustizia penale è pensabile solo se tra di essi sussiste una base comune di reciproca fiducia e di almeno tendenziale omogeneità tra i rispettivi ordinamenti. Anche in presenza di strumenti normativi internazionali che legano gli Stati alla cooperazione, possono sussistere ragioni politiche per cui lo Stato richiesto della cooperazione tenda a sottrarsi ad essa. Gli obblighi collaborativi di fonte internazionale mirano all’allestimento di quegli strumenti tecnici necessari affinché gli Stati si prestino mutua assistenza nella 45 àSe ha la giurisdizione e non l’ha esercitataà sussiste l’obbligo convenzionale id estradare a meno che le fonti convenzionali non prevedano la clausola aut dedere aut iudicare e lo Stato richiesto proceda all’esercizio della giurisdizione liberandosi dall’obbligo. È concessa dal ministro della giustizia; senza ulteriori adempimenti se vi sia il consenso dell’interessato; in mancanza, è concessa sulla base di una sentenza dell’autorità giudiziaria che ha accertato la sussistenza dei presupposti. Estradizione attiva: richiesta dal ministro della giustizia, di propria iniziativa o su richiesta della magistratura. 11.2.2. Altri strumenti di cooperazione internazionale: dall’armonizzazione al mutuo riconoscimento. A) Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, cd. Convenzione di Palermo: sottoscritta nel 2000, in vigore nel 2003 e ratificata dall’Italia unitariamente ai suoi tre Protocolli aggiuntivi contro la tratta delle persone, traffico di migranti e traffico di armi. È un documento che segna l’armonizzazione delle legislazioni contro la criminalità organizzata transnazionale. Due caratteristiche fondamentali: 1) concerne una pluralità di strumenti di cooperazione, dall’estradizione alla collaborazione per la confisca, dall’esistenza giudiziaria alla cooperazione di polizia, fino alle indagini comuni ecc. 2) prevede una serie di obblighi internazionali che impongono agli Stati l’adozione di una disciplina interna, sostanziale e processuale, conforme agli standard convenzionali, al fine di realizzare un’armonizzazione legislativa. L’ambito applicativo è vasto: è costituito dalla criminalità organizzata transnazionaleàsi tratta sia di categorie di reati nominativamente previsti dalla Convenzione e Protocolli e sia da reati indeterminati caratterizzati dalle particolari gravità della pena con cui sono previsti negli ordinamenti nazionali (serious crimes). Necessaria la transnazionalità. La legge che l’ha ratificata ha riprodotto la definizione della transnazionalità del reato, facendone una circostanza aggravante comune per i reati puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione. B) UEàprincipio del mutuo riconoscimento. Viene in considerazione il MAE (mandato d’arresto europeo): provvedimento giudiziario emesso dalla magistratura di uno Stato membro dell’UE per l’arresto o consegna da parte di un altro Stato membro di una persona ricercata ai fini della sottoposizione a processo o esecuzione della pena o provazione della libertà personale. Viene anche in considerazione il reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’UE, nei limiti in cui sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali nonché di diritti di libertà e giusto processo. Principali caratteristiche di questi istituti rispetto all’estradizione: 1) si realizza una collaborazione diretta tra le autorità giudiziarie di Paesi diversi con l’eliminazione della valutazione politica. Il mutuo riconoscimento comporta che la sua efficacia extratestuale si produca a seguito di un fenomeno di integrazione di legislazioni. 2) la disciplina europea prescinde dal requisito della doppia incriminazione, nel presupposto che il grado di armonizzazione consenta il superamento del principio tradizionale. Le decisioni quadro elencano una serie di categorie generiche di reati nel presupposto che questi siano previsti in tutti i paesi esonerando la verifica della doppia previsione. Le leggi italiane di attuazione obbligano una verifica della corrispondenza del fatto alle fattispecie come riformulate dalle nostre leggi attuative. 11.3. La giustizia penale internazionale. Giustizia penale internazionale: il sistema di quegli organi giurisdizionali internazionali che esercitano la loro potestà punitiva sovranazionale su determinati fatti criminosi, attribuiti alla loro competenza in luogo di quella degli Stati con la cui giurisdizione sussiste un elemento di collegamento, 11.3.1. Caratteri generali. A) l’istituzione di un qualunque sistema di giurisdizione internazionale nasce dalla volontà degli Stati espressa attraverso atti normativi (spesso Convenzioni) adottati nel quadro di istituzioni internazionali generali e dotati dell’efficacia attribuita dal diritto internazionale. Gli organi giurisdizionali internazionali esercitano la loro giurisdizione in luogo di quella degli Stati e rimane delicato il rapporto di competenza delle istituzioni internazionali e quella degli Stati che subiscono una limitazione di una prerogativa essenziale della loro sovranità. L’istituzione degli organi internazionali implica l’individuazione della tipologia di reati di loro competenza e bisogna prevedere delle norme internazionali che assicurino una disciplina sia sostanziale sia processuale di un sistema penale autonomo e diverso da quello degli Stati. Le tradizioni giuridico-penali degli Stati devono riflettersi sul complesso normativo. B) Storia è recenteàprime esperienze col Tribunale di Norimberga e di Tokio dopo la II guerra mondiale, quando si affermò la responsabilità individuale delle persone fisiche anche nel diritto int. Di fronte ai reati commessi da capi di Stato o da soggetti investiti di poteri pubblici si riteneva preclusa la potestà punitiva a causa dell’immunità di cui godevano. Ma superati questi principi, l’estrema gravità dei crimini commesso fece iniziare un processo di sviluppo della giustizia penale int. che porta alla creazione della Corte penale internazionale (1998). C) Tipologia di reati: si distinguono tra reati “transfrontalieri” e reati (crimini) “internazionali”: 1) reati transfrontalieriàquei reati la cui esecuzione si fraziona di regola sul territorio di più Stati e la cui repressione sarebbe più agevole se esercitata da un organo giurisdizionale internazionale che in quanto tale avesse la competenza sull’intero spazio territoriale cui si distribuisce la sovranità di più Stati. Le esigenze repressive 46 collegate a questa tipologia sono soddisfatte principalmente dagli istituti della cooperazione internazionale che dalla giustizia penale internazionale. 2) reati o crimini internazionalià due elementi caratterizzanti: 1) universalità: questa nozione richiama l’idea di fatti aggressivi di valori caratterizzati da una loro natura universale, in quanto comuni e condivisi da tutta la comunità e tali da aspirare una loro tutela; una loro violazione viene avvertita come un’offesa recata all’universalità di valori e tutta l’intera comunità internazionale. 2) crimini di Stato: la loro realizzazione e dimensioni coinvolgono gli stessi pubblici poteri o organizzazioni collaterali e tollerate dagli stessi. La repressione di crimini caratterizzati dal coinvolgimento diretto o meno dello Stato non può che prospettarsi in una visione sovranazionale. 11.3.2. La Corte penale internazionale. La sua creazione si colloca al termine di un processo evolutivo, iniziato con il Tribunale di Norimberga e Tokio (1945/1946), proseguito con i Tribunali per i fatti commessi nella ex Jugoslavia e nel Ruanda e terminato con lo Statuto di Roma che ha introdotto la Corte penale internazionale. I primi tribunali furono istituiti per giudicare gli sconfitti della II guerra mondiale e i restanti due tribunali furono espressione dell’ONU dando adeguate garanzie di imparzialità ed indipendenza del giudizio. La Corte è il risultato di un atto costitutivo che ha visto la partecipazione di un numero ampio di Paesi del mondo (anche se alcuni non hanno aderito come USA, Russia, Cina, India), e essendo “permanente” è anche destinata ad operare per il futuro. A) crimini di competenza della Corteà art 5. St. Roma: la competenza della Corte è limitata ai crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale”; gli artt. Successivi individuano le quattro categorie di crimini internazionali di competenza della Corte: 1) crimini di guerraà consistono in gravi violazioni delle disposizioni del diritto internazionale umanitario disciplinanti i conflitti armati di carattere internazionale (tra Stati sovrani) o di carattere interno (guerre civili). L’art. 8 St. Roma: elenco analitico di singoli fatti ai danni di prigionieri di guerra o della popolazione civile, ai quali si aggiungono due elementi di contesto affinché la Corte possa avere competenza: 1) si deve trattare di fatti in particolare commessi come parte di un piano o di un disegno politico o come parte di una serie di analoghi crimini commessi su larga scala; 2) deve sussiste un collegamento con il conflitto armato. 2) crimine di genocidioà particolare specie di crimini contro l’umanità. L’art. 6 St. Roma lo individua attraverso l’elencazione di una serie di specifici atti di aggressione ad una o più persone membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso che debbono essere accompagnati dall’intento di distruggere il gruppo stesso (in tutto o in parte). 3) crimini contro l’umanità (o contro i diritti fondamentali dell’uomo)àsono individuati dall’art. 7 St. Roma in una serie di fatti specifici sempre che siano commessi in una situazione caratterizzata dalla reiterata e sistematica commissione di quei fatto in attuazione di un disegno politico di uno Stato o dii un org. diretta a realizzare un attacco esteso e sistematico contro popolazioni civili. 4) crimine di aggressioneà non definito dallo Statuto di Roma. Tutti i crimini attribuiti alla Corte consistono in specifici fatti aggressivi di persone fisiche, caratterizzati da elementi di contrasto che comportano una macro-dimensione della loro capacità offensiva. B) Giurisdizione della Corteàdue condizioni cumulative: a) i crimini devono presentare un elemento di collegamento con almeno uno dei Paesi che hanno aderito allo Statuto di Roma: reati commessi o sul territorio di uno di quei Paesi o da un soggetto che abbia la loro nazionalità. b) la giurisdizione è ispirata al principio di complementarietà, il che significa che la giurisdizione int. scatta solo in quanto gli Stati che avrebbero la possibilità di esercitare la propria giurisdizione nazionale, non lo facciano perché incapaci o non abbiano la volontà. Queste limitazioni riflettono la problematicità dei rapporti tra organi giurisdizionali sovranazionali e sovranità nazionale degli Stati. Questo presuppone una collaborazione degli Stati nei processi per arrivare al giudizio. C) Lo Statuto di Roma è significativo per lo sviluppo del diritto internazionale penale àquel diritto che trae origine da fonti internazionali e tende a porsi come un sistema normativo parallelo e autonomo rispetto a quello interno. Mostra un superamento di quella visione positivistica radicata nell’area del diritto penale. Quest’apertura si accompagna a uno sforzo di codificazione che si manifesta sia nella tipizzazione dei crimini internazionale e sia nella disciplina di istituti di parte generale del diritto penale. Tipologia delle pene irrogabiliàsono previste le pene principali come l’ergastolo e la reclusione non superiore nel massimo a 30 anni, nonché pene aggiuntive dell’ammenda e della confisca di profitti, beni ed averi ricavati del crimine. Lascia però al giudice il compito di scegliere qualità e quantità della pena in base al tipo e gravità del reato. CAPITOLO IV: PREMESSE ALL’ANALISI DEL REATO. 47 1. “Parte generale” e “parte speciale del diritto penale. Codici penali divisi in: PARTE SPECIALEà catalogo dei vari reati; PARTE GENERALEàdisposizioni comuni che si riferiscono a tutti i reati previsti. àsi possono tripartire in: a. disposizioni generali che regolano criteri e limiti di validità della legge nel tempo, spazio e nei loro rapporti; b. disposizioni generali che disciplinano aspetti e profili inerenti alla struttura del fatto criminoso; c. disposizioni generale che disciplinano le conseguenze sanzionatorie e i loro profili applicativi. Perché le disposizioni generali se il diritto penale è costituito dai singoli fatti criminosi? A) profilo “tecnico” àuna esigenza di economia legislativa. Il legislatore non ripete la stessa disciplina di aspetti e profili che si ripropongono nei vari reati. àle norme della parte generale si pongono in un rapporto di integrazione con quelle incriminatrici della parte speciale. B) profilo “politico” àle disposizioni comuni presuppongono l’esistenza di un nucleo comune: una struttura unitaria del fatto criminoso, che finisce per costituire il modo di essere del reato. Reato: ciò che è stabilito dalle diverse previsioni incriminatrici e il suo contenuto varia da una norma all’altra, ma l’esistenza di una parte generale presuppone l’individuazione di alcuni profili costanti. àparte generale si pone in un rapporto di tensione con la parte speciale, costituendo lo “stampo” di disciplina entro il quale i singoli precetti penali si calano, a prescindere dalle peculiarità. àtensione sottostante l’art. 16 c.p.: pur stabilendo in via di principio che “le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali”, non esclude che da queste ultime possa essere “stabilito altrimenti”. Parte speciale àvariabili contenuti delle fattispecie; parte generale àschema unitario e relativamente immutabile del reato in sé per sé àun alto grado di astrazione. 2. Considerazione analitica e considerazione sintetica del reato. TEORIA GENERALE DEL REATO àstudia il reato ad un massimo livello di astrazione, costituito dallo schema generale del reato, dallo “stampo” comune a ogni fattispecie, un’ossatura capace di adattarsi ad ogni reato. Può essere considerato da un punto di vista: - Sintetico: si guarda al contenuto di disvalore del reato; cioè i limiti sostanziali alle scelte di criminalizzazione del legislatore; - Analitico: si guarda agli “elementi essenziali” attraverso i quali il legislatore costruisce il fatto criminoso tipico (la fattispecie astratta) riflettente lo specifico contenuto di disvalore della fattispecie. In sede di teoria generale gli elementi essenziali sono quelli in cui si riassumono i dati concettuali costanti e comuni agli elementi essenziali omogenei delle fattispecie: la condotta come espressione unitaria e comune di tutte le condotte descritte nelle fattispecie, come per le modalità. Gli elementi essenziali a livello della singola fattispecie criminosa assolvono la funzione di attuazione dei principi garantistici di legalità e di tipicità, in quanto consentono al legislatore di esprime in modo definitivo e indiretto il contenuto. Rappresentando delle strutture costanti, un materiale utilizzabile per la costruzione di qualsiasi fattispecie, assolvendo la funzione di fornire al legislatore i requisiti ed i caratteri fondamentali della configurazione legislativa del reato in un ordinamento. àla più ampia espressione della “dogmatica” penale, essendo intrisa di concettualismo e caratterizzata da astrazione e distanza dagli specifici contenuti di disvalore degli illeciti penali. Non è priva di profili valutativi, politici, sociali, filosofici-antropologici. 3. Ripartizione e tripartizione nella teoria generale del reato. COMPITI della teoria generale: individuarne gli elementi essenziali, di organizzarli e sistemarli in un ordine coerente e funzionale alle esigenze del diritto e di analizzare e spiegare teleologicamente la disciplina giuridica relativa a ciascuno di essi. Due approcci metodologici: A. approccio naturalistico: gli elementi essenziali vengono individuati e ordinati sulla base di una bipartizione in: elemento oggettivo ed elemento soggettivo àciò che si manifesta nel mondo esteriore, percepibile con i sensi / ciò che attiene alla psiche dell’agente. Parte dell’elemento oggettivo: elementi positivi, la cui presenza è necessaria x l’esistenza del reato; elementi negativi, è necessaria la loro assenza per l’esistenza del reato. B. approccio teleologico: elementi essenziali vengono individuati e ordinati sulla base di una tripartizione in: fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza. (anche al loro interno c’è una contrapposizione tra soggettivo e oggettivo). Questa tripartizione sottolinea la componente valutativa del reato, quale prodotto normativo. Fatto tipico àl’idea di un accadimento naturalistico che esprime uno specifico contenuto di disvalore; antigiuridicitààesprime la relazione di contraddizione tra fatto tipico e l’ordinamento giuridico e i suoi interessi; colpevolezzaàrichiama un giudizio normativo di rimproverabilità dell’atto di autodeterminazione dell’agente. 3.1. Fatto tipico e cause di giustificazione. 50 1.2 Naturalismo e normativismo nel concetto di condanna criminosa. L’individuazione della condotta umana dipende dai diversi punti di vista dai quali possono essere considerate le manifestazioni comportamentali dell’uomo. Nell’area del diritto (penale qui), la condotta rilevante è solo quella assunta dal diritto positivo a fondamento della responsabilità penale e rispondente alle esigenze proprie del diritto penale, cioè quella corrispondente a tipologie di comportamento normativizzate. Questo processo di “normativizzazione” della nozione di condotta criminosa è inevitabile. Posto che il reato è una costruzione legislativa, niente di più naturale che lasciar da parte qualunque definizione pregiuridica della condotta criminosa, accontentandosi di ricavarla di volta in volta dalla portata semantica della indicazione legislativa utilizzata. Il criterio normativo della tipicità sarà decisivo per individuare la condotta criminosa. Non sempre è sufficiente il criterio di individuazione normativo basato sulla corrispondenza del comportamento alla descrizione legale. Sono le stesse esigenze del diritto penale e della responsabilità a richiedere l’utilizzazione di criteri pregiuridici di tipo naturalistico, dovendosi intendere la natura come mondo dell’esperienza umana socio-valutativa con la quale la persona entra in relazione attraverso la sua condotta. 1.2.1 Cogitationis poenam nemo patitur. C’è un’esigenza di garanzia in virtù della quale la condotta criminosa non può che consistere in comportamenti umani esteriori, cioè che si manifestano nel mondo dell’esperienza umana constatabile da soggetti terzi. Il moderno costituzionalismo penale la esprime nel principio di materialità del reato, derivante dal diritto romano. Dalla nozione di condotta criminosa sono esclusi i pensieri non manifestati e tutti gli atteggiamenti interiori, la cui repressione farebbe del diritto p. uno strumento autoritario di un sistema teso a impadronirsi del foro interiore. Il diritto tende ad influire sui comportamenti dotati di rilevanza sociale, che si manifestano all’esterno. Tali comportamenti sono condotte esteriori che trascendono il foro interno del soggetto in quanto capaci di produrre conseguenze negative all’esterno. La limitazione dei pensieri va in contrasti con la libertà di manifestazione del pensiero. Discorso diverso quando il legislatore, posto che il pensiero o gli atteggiamenti interiori non sono conoscibili se non attraverso la manifestazione, incrimina queste ultime assumendole unicamente nel loro valore indiziante del pensiero. È chiaro che sarebbe violata la ratio del principio espresso. 1.2.2. La cd. suitas della condotta. A) Il sistema penale è, grazie alla natura punitiva, imperniato sul principio di personalità, il quale rimanda a sua volta ad un atto di autodeterminazione dell’uomo di fronte alla realtà e ai valori in essa incorporati. Non avrebbe senso punire comportamenti, movimenti corporei, che non potessero essere personalmente imputabili all’uomo agente quali espressione di un suo atto di autodeterminazione. àOccorre un coefficiente psichico di “personale riferibilità” del comportamento al suo autore perché si possa parlare di condotta in senso personalistico. Non si deve crede che questo coefficiente consista necessariamente in uno stato di coscienza vigile e di volontà attuale che debbono sorreggere la condotta. B) questo coefficiente, chiamato suitas, è richiesto dall’art. 42.1 c.p. “Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà”. Il requisito della suitas deve essere inteso nel senso di una coscienza e volontà della condotta sia attuale che anche potenziale. “potenziale”àquella coscienza e volontà che, pur non attuali, avrebbero potuto essere attivate dal soggetto con uno sforzo delle sue facoltà intellettivo-volitive, così che si possa parlare di comportamento dominabile del soggetto. C) privi di suitas (non dominabili e dunque estranei al concetto di condotta giuridicamente rilevante: a) gli atti riflessi, indotti da una stimolazione diretta del sistema nervoso; b) gli atti (o inerzie) realizzati in stato di piena incoscienza (sonno, ipnosi, sonnambulismo); c) gli atti (o inerzie) indotti da forza maggiore o da costringimento fisico irresistibile. L’assenza della suitas al momento della condotta tipica non esclude l’eventuale responsabilità in tutti i casi in cui vi sia un comportamento precedente cosciente e volontario al quale possa essere ricondotta la produzione del fatto lesivo. Sono sorretti dalla suitas gli atti automatici ed abituali, che vengono compiuti inconsapevolmente a seguito di una ripetizione. In tutti questi casi, nonostante l’assenza di una coscienza vigile e di una volontà consapevole, l’atto è dotato di suitas in quanto su di esso il soggetto avrebbe potuto esercitare il controllo della coscienza e volontà. 1.2.3. Pluralità di atti ed unici. Vi sono esigenze applicative che possono rendere necessario ricorrere ad una nozione pre-giuridica di condotta criminosa. àpluralità degli atti tipici. La questione si pone allorché sia realizzata una pluralità di atti tutti tipici. Ognuno dei plurimi comportamenti si presenta in quanto conforme alla condotta criminosa indicata dalla fattispecie, con la apparente conseguenza che sarebbero realizzate tante condotte criminose quanti sono i segmenti comportamenti tipici. Al di là delle pluralità conseguente al criterio normativo della tipicità, il senso comune avverte una unità di comportamento che non può conseguire un criterio pre-giuridico, di tipo naturalistico e socio-valutativo. Occorre individuare i criteri di selezione e unificazione degli atti. 51 Criterio prevalenteàunicità del risultato offensivo riferibile ai più segmenti comportamentali distinti anche se tutti tipici. L’unicità del risultato offensivo permane a due condizioni: 1) pur essendo distinguibili materialmente i segmenti comportamentali, essi si presentano come contestuali, non ci sono cioè tra loro soluzioni di continuità rilevanti. 2) l’unicità della vittima allorché si tratti di reati che offendono beni personali. 1.3 L’omissione. La condotta umana si manifesta in due specie fondamentali: l’azione (o condotta attiva, positiva o azione in senso stretto)àconsiste in un fare, in uno o + movimenti corporei; l’omissione (condotta passiva, negativa)àconsiste in un non fare, in una inerzia corporea. La condotta omissiva ha sempre dato luogo ai maggiori problemi di comprensione concettuale e presentato difficoltà applicative, derivanti dalla sua struttura priva di substrato naturalistico. 1.3.1. La natura normativa dell’omissione. Natura dell’omissione: A) concettualeàl’omissione si presenta come un concetto di relazione e normativo. Di relazione: perché non esiste l’omissione in sé, ma l’omissione di una cosa determinata. Normativo: l’azione omessa viene determinata nella condotta positiva oggetto di una pretesa (o quanto meno di un’attesa) da parte dei consociati. L’azione (omessa) può essere pretesa in base a norme giuridiche o in base a norme e consuetudini sociali. Il diritto penale quando eleva una omissione a condotta criminosa si riferisce solamente a obblighi di agire giuridicamente imposti, sia che si tratti di obblighi posti direttamente dalla legge penale, sia che si tratti di obblighi posti da leggi o norme giuridiche extra-penali indirettamente richiamati dalla fattispecie incriminatrice. Ma non è escluso che si possa dare rilevanza penale ad omissioni di azioni imposte da obblighi puramente sociali, in tutti i casi in cui la descrizione legislativa della condotta lo consenta in quanto la fattispecie mostri di riferirsi al disvalore espresso. B) significato socio-valutativo e politico. a) L’imposizione di determinate azioni positive da parte dell’ordinamento, con l’incriminazione della loro omissione, costituisce una pretesa nei confronti dei consociati più forte e la conseguente incriminazione. Divieto di azioni positiveàlascia una discrezionalità al cittadino di dedicarsi ad altro; l’incriminazione dell’azione omissiva incide più invasivamente nella sfera di libertà individuale. Significa la conformazione in positivo del proprio comportamento secondo il legislatore. Quanto più crescono le pretese di azioni da parte dell’ordinamento tanto più diminuisce lo spazio di libertà lasciato. L’intensificarsi delle relazioni umani e lo sviluppo relazionale hanno portato a un incremento della pretesa di azioni da patte dell’ordinamento nei confronti dei cittadini. Dal punto di vista ideologico ha voluto dire lo sviluppo di un ideale solidaristico che costituisce l’anima della penale rilevanza dell’omissione. àLo sviluppo dell’omissione quale comportamento penalmente rilevante segna uno spostamento d’accento nell’equilibrio tra libertà e solidarietà a vantaggio della seconda. b) Conciliabilità con la fondamentale esigenza garantista che la condotta criminosa sia un comportamento umano esteriore, che si manifesti nel mondo della realtà esterna. Indubbio che l’omissione non si presenta cime una realtà percepibile con i sensi, nessuno può credere che costituisca un mero fatto interno alla psiche. Anche l’azione è concepibile ed esiste in virtù di un apprezzamento socio-valutativo che eleva il dato naturalistico alla dignità del comportamento umano. E nell’omissione l’elemento socio-valutativo dell’attesa e della pretesa di una determina azione che non dà consistenza di comportamento umano a quel naturalistico non facere o nihil. I fenomeni naturali e sociali che si svolgono intorno a lui, l’omissione di tali interventi modificativi rappresenta un a personale presa di posizione nei confronti del mondo. La responsabilità per omissione segna una flessione della libertà individuale a vantaggio della solidarietà sociale. C) La natura normativa dell’omissione, se implica una serie di problemi, rende più agevole l’individuazione della unicità o pluralità di condotte rilevanti. Essendo il criterio della conformità al tipo, cioè della violazione dell’obbligo di agire, l’unico capace di conferire consistenza comportamentale all’omissione, vi saranno condotte omissive come quante saranno gli obblighi di agire inadempiuti. La necessità di determinare se la condotta omissiva sia una o plurima potrà porsi. Il problema interpretativo è quello di accertare se sussistano tanti obblighi quanti sono i lavoratori non denunciati o se si tratta di obbligo unitario. 1.3.2. Le componenti strutturali dell’omissione. Analisi strutturale della condotta omissivaàtre aspetti: A) Limite intrinseco alla configurabilità dell’omissione, costituito dalla impossibilità fisica di compimento dell’azione doverosa. Il mancato compimento dell’azione imposta non è costitutivo di un comportamento umano omissivo quando non sussisteva la possibilità di agire nel modo prescritto, poiché tale non fare non è evidentemente espressivo di una “presa di posizione” del soggetto nei confronti della realtà, ma è da lui subito. L’impossibilità di agire può essere assoluta o relativa. Assolutaàquando il comando impone un’azione che nessuno potrebbe mai compiere, norma illegittima. 52 Relativaàsi può avere tanto nell’ipotesi in cui l’obbligo non può essere adempiuto per limiti derivanti dalle caratteristiche psico-fisiche del soggetto destinatario del comando quanto nell’ipotesi in cui l’obbligo non può essere adempiuto per il sopravvenire di circostanze esterne che fanno da obiettivo ostacolo all’azione (es. causa di forza maggiore, art. 45 c.p.). La diversa qualificazione giuridica delle due forme non sposta niente dato che in ogni caso viene meno, per ragioni diverse, la possibilità logico-giuridica di configurare un comportamento omissivo. Di esclusione della condotta omissiva si può parlare a condizione che il soggetto non si sia posto volontariamente nella condizione della impossibilità di agire. B) Nella struttura dell’omissione si rintracciano i presupposti dell’obbligo di agire. L’obbligo giuridico di compiere un’azione non può essere sganciato da un determinato contesto fattuale, in presenza del quale sorge la necessità o l’utilità dell’azione positiva: ognuno di noi sarebbe sempre soggetto all’obbligo di agire, venendosi a rendere insopportabile la limitazione della libertà connessa alla pretesa normativa di comportamenti positivi. I presupposti dell’obbligo si può dire ciò che vale per tutti gli elementi essenziali della fattispecie, e cioè che essi esprimono le scelte di tutela del legislatore, concorrendo a determinare il contenuto di disvalore del reato. Può verificarsi il caso che i presupposti fattuali dell’obbligo di agire si realizzino nei confronti di una pluralità di soggetti, così che tutti siano all’adempimento. Si pone il problema se l’eventuale adempimento di uno dei soggetti obbligati faccia venir meno l’obbligo nei confronti degli altri. Sulla base di una interpretazione che privilegi il disvalore della disobbedienza al precetto normativo, si dovrebbe concludere nel senso negativo. Muovendo dalla constatazione che l’adempimento dell’obbligo anche da parte di uno solo elimina la situazione di pericolo per il bene protetto come legislativamente individuata dai presupposti dell’obbligo, si potrebbe concludere per il venir meno dell’obbligo e del reato nei confronti degli altri inadempimenti. Interpretazione oggettivo-sostanzialistica che finisce per inserire un ulteriore presupposto implicito dell’obbligo, costituito dall’inadempimento degli altri. C) termine finaleàentro il quale deve essere adempiuto l’obbligo. Dal punto di vista naturalistico l’omissione è un nulla, come tale non collocabile nello spazio e nel tempo, essa è concepibile solo comprendendola entro un termine inziale costituito dal realizzarsi dei presupposti dell’obbligo e un termine finale, senza del quale la pretesa normativa di adempimento continuerebbe a gravare perennemente. Questo termine si approssima ai presupposti dell’obbligo fin quasi a porsi ad essi consecutivo. Il termine dell’omissione, il suo esaurimento, coincide o con la scadenza del termine fissato dalla legge quando si tratti di termine espressamente previsto e perentorio; o con il momento in cui viene meno l’utilità del compimento dell’azione doverosa o quando esso è divenuto impossibile (termine implicito). D) L’assenza di consistenza naturalistica dell’omissione porta a individuare il luogo del suo compimento in quello in cui sarebbe dovuto avvenire l’adempimento, anche se diverso da quello in cui si è trovato fisicamente il soggetto omettente durante il tempo di possibile adempimento. 1.4. Rapporti tra azioni ed omissione. Azione ed omissione costituiscono le due forme di manifestazioni del comportamento umano, irriducibili ma non prive di rapporti. A) Piano legislativoài reati possono distinguersi in quattro diverse categorie: 1) i reati di sola azioneàsono quelli che possono essere realizzati con una condotta esclusivamente attiva, poiché il legislatore ha formulato la fattispecie in modo da indicare solo questa forma di comportamento (art. 609-quinquies); b) reati di sola omissione sono quelli in cui il legislatore ha tipizzato un comportamento esclusivamente omissivo (artt. 593 c.p. omissione di soccorso); c) reati a condotta mistaàsono quelli la cui realizzazione è necessaria tanto una condotta attiva quanto una omissiva (art. 641 c.p.); d) reati a condotta alternativa o liberaàquelli che possono essere realizzati indifferentemente con una o con l’altra forma di comportamento, avendo rivelato il legislatore una sorta di indifferenza rispetto al modo di produzione di risultato omissivo. (art. 378 c.p.). L’individuazione della condotta criminosa descritta dalla legge, e della categoria di reato cui ascrivere la fattispecie, costituisce un problema interpretativo che va risolto prescindendo dalle caratteristiche del fatto concreto e con l’uso degli strumenti ermeneutici. B) È talvolta arduo stabilire se un determinato comportamento concreto costituisca un’azione o un’omissione. Nell’area della responsabilità colposa va registrata la tendenza della giurisprudenza a convertire le ipotesi di realizzazione commissiva in altrettante omissioni, in quanto si scambia l’omessa adozione delle cautele doverose con il comportamento che causa l’evento. Il dubbio di qualificazione si pone in relazione alle caratteristiche peculiari del caso concreto. Così che il problema consiste nell’individuare un criterio “sostanziale” di accertamento della reale natura di comportamento. Dalla qualificazione della condotta come attiva od omissiva possono discendere rilevanti conseguenze giuridiche, e bisogna evidenziare tra i criteri escogitati quello che appare più plausibile e chiaro. La condotta sarà qualificabile come omissiva tutte le volte in cui il “fare” compiuto in concreto dall’autore non ha modificato il decorso causale dell’episodio che si sarebbe avuto anche in assenza del “fare”. 1.5. La durata della condotta. 55 b) imposizione soggettivistica della colpevolezza: la delega costituisce una modalità di adempimento degli obblighi sanzionati, in forza della quale il delegante, assumendo su di sé il rischio dell’inadempimento altrui, assume l’onere di controllare che il delegato adempia puntualmente ai compiti attribuitegli. Il delegante potrà essere chiamato a rispondere per il reato proprio si quado il conferimento non sia stato adeguato all’assolvimento dell’obbligo, sia quando non sia intervenuto per garantire l’adempimento da parte del delegato degli obblighi di cui rimane titolare. Quanto alla posizione del delegato, la sua responsabilità penale sussiste a titolo di concorso dell’extraneus nel reato proprio. c) La giurisprudenza elabora una serie di requisiti di efficacia della delega di funzioni per evitare che il sistema delle deleghe diventi lo strumento attraverso il quale i “vertici” aziendali finiscano per eludere i modelli di responsabilità precostituiti dal legislatore penale. Sono requisiti di efficacia della delega: una complessità organizzativa dell’impresa o delle dimensioni tali da impedire i rendere difficoltosa l’adempimento degli obblighi; il conferimento in base a norme interne all’organizzazione imprenditoriale con atti avente forma scritta; la non ingerenza del delegante nella gestione delle competenze del delegato e l’autonomia decisionale e di spesa di questo; il possesso da parte del delegato di una specifica idoneità tecnico-professionale all’adempimento degli obblighi delegato; la mancata consapevolezza da parte del delegante delle eventuali inadempienze del delegato. d) Il legislatore ha recepito in parte l’elaborazione giurisprudenziale disciplinando la delega di funzioni nella materia della sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008). 3. L’evento. Nella teoria del reato è presente la contrapposizione tra evento in senso giuridico ed evento in senso naturalistico. àin senso giuridico: il contenuto di disvalore del reato che costituisce il fondamento stesso dell’incr5iminazione e che è stato portato ad espressione dal legislatore con la formulazione della fattispecie con l’insieme dei suoi elementi essenziali. Una fattispecie può essere incriminata in quanto dotata di un contenuto di disvalore consistente nella lesione o nel pericolo subiti dal bene giuridico (reati di offesa) o nella contrarietà del fatto agli scopi perseguiti dal legislatore (reati di scopo). L’evento in senso giuridico non è un elemento del fatto tipico, ma il suo complessivo contenuto di disvalore si pone sul piano normativo. L’evento in senso giuridico è estraneo all’analisi del fatto tipico e concerne il principio di offensività. àin senso naturalistico: costituisce un risultato naturalistico-fattuale prodotto dalla condotta umana nel mondo fenomenico della realtà esterna che ci circonda. Esso consiste in una modificazione della realtà fisica o psichica o economico-giuridica o in un comportamento altrui. L’evento deve essere logicamente e cronologicamente distinguibile dalla condotta, nel senso che deve essere possibile concepire l’esaurimento della condotta tipica senza che ne sia implicita la produzione dell’evento. Ogni comportamento umano, attivo od omissivo che sia produce molteplici conseguenze modificative. Il diritto penale non sempre attribuisce “rilevanza giuridica” alle conseguenze del comportamento criminoso, e mai a tutte le conseguenze di esso, né vi attribuisce la medesima rilevanza. Quando ciò accade, l’evento (naturalistico) può assumere rilevanza quale elemento essenziale, entrando a far parte della struttura del fatto tipico o quale circostanza o come condizione obiettiva di punibilità. 3.1. Reati di pura condotta e reati di evento. Gli “elementi essenziali” della fattispecie incriminatrice sono assunti come tali dal legislatore in quanto concorrono alla determinazione dello specifico contenuto di disvalore di quel tipo criminoso. Lo stesso vale per l’evento. L’evento, al pari degli elementi essenziali, concorre alla determinazione del contenuto di disvalore dell’illecito, ancorché quando c’è esso assuma di regola su di sé il peso nell’assolvimento di tale compito. L’evento non è presente in tutte le fattispecie criminose; non sempre le conseguenze del comportamento integrano il contenuto di disvalore tenuto presente dal legislatore. Vi sono tipi criminosi in cui il disvalore si radica ed esaurisce nella sola condotta e altri in cui tale disvalore presuppone la verificazione di un risultato della condotta. Distinguiamo tra: a) reati di pura (o mera) condottaàcon riferimento a quei reati in cui, essendo il disvalore interamente incarnato dalla condotta (disvalore di azione), non avrebbe senso condizionare l’esistenza alla realizzazione di un risultato della condotta; b) reati di eventoàcon riferimento a quei reati il cui disvalore si esprime compiutamente solo attraverso una conseguenza della condotta (disvalore di evento), con la conseguenza che tra gli elementi ess. dovrà esservi il risultato che incarna quel disvalore. 3.2. L’evento nella struttura oggettiva della fattispecie. L’evento contribuisce ad individuare ed esprime il contenuto di disvalore della figura criminosa, assai differente può essere il suo rapporto con il contenuto offensivo del reato. A) Vi sono dei reati in cui si può dire che il risultato della condotta “incarni” l’offesa al bene protetto, sia che si tratti di offesa consistente nella effettiva distruzione del bene sia che si tratti della semplice messa in pericolo. 56 B) Non mancano fattispecie criminose in cui l’evento è individuato nel pericolo che si produca, a sua volta, un ulteriore risultato pregiudizievole per il bene protetto, sia che questo risultato sia individuato in una conseguenza naturalistica o nella stessa offesa al bene giuridico. àreati di pericolo concreto: questo risultato di pericolo è assunto a elemento ess. del fatto tipico in qualità di evento e di risultato naturalistico della condotta. Il “pericolo” è un giudizio probabilistico di relazione più che un dato di consistenza naturalistica. La composizione naturalistica è rarefatta in quelle fattispecie in cui l’oggetto del pericolo, il risultato finale “temuto”, è espresso in termini valutativi. Si può continuare a qualificare i reati di pericolo concreto come reati di evento, nel presupposto che l’elemento del pericolo implica il richiamo di circostanze fattuali ulteriori ed aggiuntive alla mera condotta e sulle quali si deve estendere l’accertamento del giudice. La tecnica incriminatrice che si avvale del pericolo concreto consente di anticipare la tutela rimettendo al giudice l’individuazione della base fattuale del giudizio di pericolo, esonerando il legislatore dal compito di provvedere in astratti e alla descrizione del reato in modo espressivo del contenuto offensivo. C) alcune fattispecie in cui l’evento, pur concorrendo insieme agli altri elementi essenziali a costituire il fatto tipico, si pone in un rapporto indiretto rispetto al contenuto di disvalore del reato (art. 642 c.p.). 3.3. Le diverse forme di rilevanza giuridico-penale dell’evento. L’evento può assumere una diversa rilevanza giuridico-penale, potendo esso costituire un elemento essenziale del reato indispensabile per la sussistenza della responsabilità ed essere previsto come semplice fattore di aggravamento della pena (evento come circostanza aggravante) o quale condizione alla cui realizzazione è subordinata la punibilità di un reato e di una responsabilità già integrata (evento come condizione obiettiva di punibilità). A) livello legislativoà si pone il problema se il legislatore abbia la libertà di qualificare una conseguenza naturalistica di una condotta criminosa in un modo o nell’altra, cioè come elemento essenziale o come circostanza o ancora come condizione obiettiva di punibilità. B) livello interpretativoà si pone il problema della individuazione della natura giuridica dell’evento: se esso sia stato assunto dal legislatore come elemento essenziale, circostanza o condizione obiettiva di punibilità. L’interprete deve stabilire se un certo evento è l’una o l’altra cosa proprio in ragione della diversa disciplina che discende dalla diversa natura giuridica, specie riguardo all’elemento soggettivo, visto che mentre per l’elemento essenziale opera la disciplina ex artt. 42-43, per le circostanze opera l’art. 59 e per le condizioni obiettive di punibilità l’art. 44. Non sempre risulta chiaro quale sia la natura di un certo evento, cui comunque la legge riconnette la minaccia di una cornice edittale. Il problema interpretativo non è di facile soluzione. Il criterio ermeneutico prevalente si basa sul rapporto esistente tra l’evento della cui natura giuridica si dubita e il contenuto di disvalore del fatto: nel senso che dovrebbe essere considerato elemento essenziale quell’evento che concorre in modo determinante a identificare il contenuto di disvalore proprio e specifico del fatto. L’utilizzazione di questo criterio “sostanzialistico” fondato sul contenuto di disvalore del fatto non è immune da incertezze, derivanti dalla difficoltà di individuare con esattezza lo specifico disvalore. 4. Il rapporto di causalità. il rapporto o nesso di causalitààcostituisce un elemento essenziale del fatto tipico di tutti i reati contrassegnati dalla presenza di un evento naturalistico (reati di evento, diversi dai reati di mera condotta). àart. 40.1 c.p. àquando il legislatore attribuisce rilevanza penale ai fini dell’esistenza del reato, ma anche al fine di aggravare la responsabilità ad un determinato evento naturalistico, questo deve essere la conseguenza della condotta criminosa. Se così non fosse, l’evento del reato rimarrebbe un accadimento estraneo al soggetto agente, al pari di qualunque altro fatto naturale od umano di cui il soggetto agente non potrebbe portare alcuna responsabilità. Il nesso di causalità tra evento e condotta è il requisito che consente di ricondurre un fatto della natura ad una persona agente. L’uomo opera nel mondo esterno attraverso il proprio comportamento che è lo strumento di cui egli dispone per rapportarsi col mondoàgli eventi naturalistici, pur collocandosi nella realtà esterna all’individuo e separandosi da esso, si può dire che gli appartengano in quanto siano conseguenza della sua condotta. Il nesso causale è il requisito che consente di attribuire, di ascrivere ad un soggetto determinato, il fatto criminoso comprensivo dell’evento naturalistico come un fatto proprio, in osservanza del principio di responsabilità personale, che vieta l’attribuzione della responsabilità per fatti altrui o non propri del soggetto punito. L’evento e il nesso, pur essendo due elementi essenziali distinti, costituiscono due facce della stessa medaglia. Mentre gli altri elementi essenziali sono fuori l’autore del reato che li trova già esistenti nel mondo, la condotta criminosa e l’evento/causalità sono il prodotto dell’autore, a lui riconducibili come rappresentano la concretizzazione diretta e immediata del suo porsi rispetto al mondo e ai valori socio-giuridici. 4.1. La struttura logica del rapporto di causalità e le sue componenti. Quando si parla di nesso causale si qualifica come “materiale”, anche per contrapporlo ad un nesso di natura psichica che lega il fatto al suo autore. Questo può ingenerare qualche equivoco in quanto può mettere in ombra la consapevolezza che quello della causalità è un requisito che attiene al profilo oggettivo-fisico-naturalistico del 57 reato, ma è un problema di conoscenza, gnoseologico, delle leggi scientifiche che sono individuate e disponibili per la spiegazione causale dei fenomeni naturalistici. È bandita l’idea che il nesso di un evento rispetto ad un altro significhi una sorta di contenenza fisica dell’uno nell’altro, quasi che la conseguenza sia una realtà già contenuta nella causa. Chiarita la consistenza gnoseologica del nesso, significa che il nesso è un fenomeno della natura, ma ne può essere riconosciuta l’esistenza da parte dell’uomo solo nei limiti della conoscenza che ne abbia acquisita un dato momento storico. Le sue componenti: a) la pluralità delle condizioni necessarie; b) il giudizio contraffattale; c) le leggi scientifiche di copertura. 4.1.1. La pluralità delle condizioni necessarie. L’evento è sempre il risultato di una pluralità di condizioni che, nell’insieme, costituiscono causa sufficiente alla produzione dell’evento, mentre ciascuna isolatamente costituisce una condizione necessaria (condicio sine qua non). L’interesse conoscitivo dello scienziato e del giudice penale è diverso: il primo cerca di conoscere la causa sufficiente (il numero più alto possibile delle condizioni necessarie alla produzione dell’evento); ha bisogno di una conoscenza causale completa perché deve offrire la possibilità conoscitiva per influire preventivamente sulla produzione degli eventi riproducendo la causa sufficiente di un determinato evento; il secondo cerca di capire se una condotta umana è qualificabile come condizione necessaria di un evento; avendo l’esigenza di qualificare causalmente la sola condotta umana, ha bisogno di verificare se essa può essere annoverata tra le condizioni necessarie dell’evento. Mentre lo scienziato cerca tutte le condizioni necessarie (la sua causa sufficiente), anche se non possa mai raggiungerne la conoscenza integrale, il giudice ne cerca una nella condotta umana. Per verificare se una certa condotta e condicio sine qua non di un certo evento, anche il giudice ha bisogno di conoscere tutte le condizioni. 4.1.2 Il giudizio controfattuale. Il metodo conoscitivo col quale si procede all’accertamento della natura condizionante dei fattori causali consiste nel processo di eliminazione del singolo fattore al fine di verificare il suo carattere di condicio sine qua non, mediante un giudizio controfattuale (di natura ipotetica), cioè contro i fatti, nel senso che l’eliminazione della condizione è solo ipotetica ed è contro la realtà del fatto già accaduto. 4.1.3 Le leggi scientifiche di copertura. L’individuazione della natura condizionante (condicio sine qua non) dell’antecedente/i avviene attraverso il procedimento di eliminazione della condizione in discussione, procedimento che ha carattere ipotetico e natura controfattuale. Ma il procedimento di eliminazione controfattuale non può pervenire a risultati, non può concludersi con l’affermazione che l’evento si sarebbe o meno verificato, se non utilizza dei criteri, dei parametri scientifici concernenti la regolarità degli accadimenti naturaliàleggi scientifiche di spiegazione causale dei fenomeni naturali. àesprimono la generalizzazione di una successione regolare, verificata o confermata scientificamente ed empiricamente, tra uno o più antecedenti e una o più conseguenze. È solo la conoscenza di tali leggi scientifiche che può funzionare il giudizio controfattuale di eliminazione mentale. Anche nel diritto penale il nesso tra condotta criminosa ed evento viene individuato sulla base di leggi scientifiche di spiegazione causale. Il principio di legalità esclude l’esistenza di un elemento essenziale che possa dipendere dall’intuito, o dalle convinzioni, dell’organo giudicante e non da parametri oggettivi. La legge scientifica può essere formulata anche in modo più complesso della semplice successione tra due eventi. Infatti, queste possono essere formulate in modo più o meno dettagliato a seconda della quantità di condizioni concorrenti che esse prendono in considerazione; quanto più ampio è il numero delle condizioni prese in considerazione dalla legge scientifica, tanto più dettagliata è la spiegazione dell’evento e tanto più alta è la probabilità con cui può essere formulata la legge e il nesso di derivazione di un evento dal suo precedente. Due corollari: a) le leggi scientifiche di spiegazione causale dei fenomeni naturali possono essere di due specie: universali o probabilistiche. UNIVERSALI: le leggi scientifiche che ricollegano un certo evento ad un determinato antecedente in termini di certezza, non essendo quella successione mai stata smentita; PROBABILISTICHE: quelle leggi che, mancando una verifica al 100% della successione fra eventi. instaurano un nesso in termini di probabilità. L’impossibilità di formulare una legge scientifica in termini universali dipende dalla impossibilitò di considerare tutte (o quasi) le condizioni concorrenti. Dato che il fascio di condizioni sconosciute determina la possibilità di una variazione del decorso causale, si può dire che il carattere probabilistico di una legge e il grado della sua probabilità sono una conseguenza della mancata considerazione di determinate condizioni. Massime di esperienza: strumenti per la spiegazione causale dell’evento. Esse si limitano ad instaurare una relazione causale tra due fatti sulla base della semplice constatazione empirica di una successione. Non potranno sostituirsi alla spiegazione scientifica della derivazione causale. Ad esse si potrà far ricorso quando non si dispone di leggi scientifiche (come per la “causalità psichica”). Il carattere probabilistico della legge causale implica che l’evento storico x, solo storicamente collegato all’antecedente y, potrebbe anche essere il prodotto una seriazione causale in cui y sia del tutto inefficiente. La spiegazione causale di un certo evento x ha una plausibilità diversa a seconda che: a) a fronte del carattere probabilistico della legge di copertura, non sia possibile nel caso concreto 60 PRIMO COMMA: limita la sua portata normativa a richiedere il requisito della causalità come uno degli elementi costitutivi del fatto tipico dei reati di evento, senza dire niente su come debba essere intesa la causalità. Richiama l’attenzione sul fatto che nei reati di evento quest’ultimo deve essere collegato alla condanna mediante un requisito di fattispecie legalmente previsto. SECONDO COMMA: concerne la causalità nei reati omissivi, la quale presenta una problematica. 4.4.2 L’art. 41 (e 45) c.p. Questo articolo disciplina il “concorso di cause”. Volendo essa richiamare il fenomeno della convergenza di plurimi fattori causali nella produzione dell’evento, si tratterà di condizioni necessarie che concorrono nel determinare la causa sufficiente. L’art. 41 c.p. intende disciplinare il fenomeno del concorso di condizioni necessarie, pur dovendo dare atto che nella pratica giudiziaria è diffuso l’uso di parlare anche di concorso di cause. PRIMO COMMA: il concorso di condizioni necessarie alla produzione di un evento costituisce assolutamente la norma, poiché in natura nessun evento è il risultato di un unico fattore condizionante. Il concorso di condizione necessarie non può escludere la causalità ed è la stessa: non c’è causa senza concorso di condizioni necessarie. La norma non può essere intesa come descrittiva di questo dato di fatto, ma come criterio di imputazione dell’evento ad una condotta umana. Qui l’art. 41 c.p. è stato inteso come espressione di una scelta legislativa a favore della teoria dell’equivalenza delle condizioni, con la conseguenza che sarebbe sufficiente la natura di condicio sine qua non per attribuire alla condotta efficacia causale penalmente rilevante. SECONDO COMMA: attribuisce efficacia interruttiva del nesso causale alle “cause sopravvenute quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.” C’è una delimitazione alle condizioni sopravvenute; quelle condizioni sono ritenute idonee da escludere il rapporto di causalità. a) Le condizioni “da sole sufficienti” farebbero pensare a una serie causale autonoma; autonoma perché non concorre con le altre condizioni, ma si pone in un rapporto di contestualità o prossimità cronologica, mentre l’art. 41.2 intende disciplinare il concorso di condizioni necessarie. Il rapporto tra serie causali autonome non ha mai dato luogo a reali problemi applicativi di imputazione dell’evento. Se davvero il secondo comma dovesse essere inteso come facente riferimento all’ipotesi di serie causali autonome, il primo comma risulterebbe l’unica norma disciplinante il concorso di condizioni necessarie, con la conseguenza che risulterebbe adottata la soluzione dell’equivalenza delle condizioni senza temperamento. b) Operazione interpretativa resa ardua dalla formulazione letterale della norma. 1) Quelle norme che introducono un criterio di “calcolabilità” umana nella selezione delle condizioni necessarie penalmente rilevanti, identificheranno le condizioni interruttive di cui all’art. 41.2 c.p. in quei fattori che possono dirsi “eccezionali” o “atipici” rispetto lo svolgimento delle azioni di quel tipo. 2) Anche per chi adotta la soluzione della spiegazione causale degli eventi mediante la sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, l’art. 41.2 può svolgere un suo ruolo, in quanto lo si interpreti come generica espressione di una delimitazione dell’equivalenza delle condizioni proprio attraverso il ragionevole impiego delle leggi scientifiche. La norma in esame vale ad escludere la riferibilità dell’evento a quei fattori condizionanti che rimangono estranei ad una spiegazione scientifica, esauriente e ragionevole, dell’evento stesso. c) Interpretare il requisito che queste condizioni siano sopravvenute alla condotta perché possano dispiegare la loro efficacia interruttiva. 1. Le teorie della causalità adeguata ed umana trovano una difficoltà interpretativa. La atipicità o l’eccezionalità del decorso causale innescato da una determinata azione può dipendere anche da una condizione preesistente o simultanea alla condotta criminosa. Le strade sono due. Da un lato, si è fatto ricorso all’interpretazione analogica in quanto in bonam partem. Dall’altra, si è invocato l’art. 45 c.p., riassumendo sotto il caso fortuito tutti i fattori atipici o eccezionali interruttivi del nesso. Nonostante la plausibilità di questa seconda soluzione, non si può negare che finisce per rendere superflua la disposizione dell’art. 41.2 che risulta assorbita. 2. Nella prospettiva della spiegazione causale dell’evento mediante la sussunzione sotto leggi scientifiche, è plausibile limitare l’efficacia interruttiva del nesso ai soli fattori sopravvenuti. Quando si muove dall’evento concreto hic et nunc per spiegarne la verificazione causale, è possibile che la legge scientifica utilizzata consenta una spiegazione esauriente arrestandosi ad una condotta più prossima all’evento, senza bisogno di risalire a condotte più remote, rispetto alle quali la prima si porrà come fattore interruttivo della catena. Ai fattori preesistenti e concomitanti alla condotta, se concorrenti quali condizioni essenziali alla produzione dell’evento, dovranno svolgere un ruolo esplicativo del meccanismo di produzione dell’evento, in quanto essi si sono integrati con la condotta determinandone l’efficacia causale. L’affermazione estesa del nesso cui si perviene dalle basi scientifiche non significa affermazione di più estesa responsabilità. Affinché sia possibile pervenire all’affermazione della responsabilità, occorre che sussista anche l’elemento soggettivo del reato. 4.5. La causalità dell’omissione, 61 La causalità della condotta omissivaàproblemi derivanti dalla mancanza di un substrato naturalistico nell’omissione. La constatazione che dal punto di vista naturalistico, l’omissione consista in un nihil, fa dubitare che essa possa realmente concorrere alla “produzione” di qualcosa di naturalisticamente esistente com’è l’evento. 4.5.1. La distinzione tra reati omissivi propri e impropri e il significato dell’art. 40.2 c.p. A) Il problema della causalità dell’omissione si pone come esclusivo riferimento ai reati di evento, come per la condotta attiva. È fondamentale la distinzione tra reati omissivi propri e reati omissivi impropri. ài primi: quelli privi di evento, di pura condotta omissiva; i secondiàquelli in cui alla condotta omissiva deve seguire la produzione di un evento naturalistico, in quanto elemento costitutivo del reato previsto dalla fattispecie. Art 40.1 c.p.àsi riferisce sia all’azione che all’omissione. La previsione legislativa del fatto tipico dei reati omissivi impropri può derivare da diverse tecniche di tipizzazione. a) In primo luogo, la fattispecie omissiva impropria può essere prevista direttamente dalla stessa norma incriminatrice come tale, nel senso che il legislatore ha descritto una condotta come esclusivamente ed inequivocabilmente omissiva. b) In secondo luogo, il legislatore, nel configurare un reato come “di evento” può indicare la condotta in modo indeterminato, utilizzando un’espressione lessicalmente capace di designare una condotta tanto attiva quanto omissiva. I reati previsti da norme utilizzanti questa tecnica di tipizzazioneàfattispecie causalmente orientata o a condotta libera; quando sono in concreto realizzati mediante una condotta omissivaàreati commissivi mediante omissione. La configurabilità dei reati commissivi mediante omissione non potrebbe essere contestata rivelando che, da un punto di vista naturalistico, la causalità omissiva non esiste, col risultato che l’estensione della responsabilità per l’evento conseguente a condotte omissive realizza un’inammissibile violazione della legalità. Questa responsabilità presuppone la fattispecie a condotta libera; il comma 2 dell’art. 40 c.p. chiarisce come debba essere intesa la causalità omissiva, disponendo che “non impedire un evento equivale a cagionarlo”. àqui è contenuta la clausola di equivalenza: in generale, cioè per tutti i reati di evento a condotta libera, chiarisce che la causalità deve essere intesa nel duplice senso dell’attivazione positiva di un processo causale e della mancata attivazione di fattori impeditivi/interruttivi di un processo causale già in atto (“non impedimento”). Quindi in questa clausola si rinviene il contenuto normativo dell’art. 40 comma 2 c.p. in cui il mancato impedimento dell’evento significa cagionarlo. c) Per le fattispecie descritte dal legislatore con una condotta necessariamente attiva (fattispecie a condotta vincolata attiva), la clausola di equivalenza ex art. 40.2 c.p. non può operare; mai potranno essere convertiti i. reati omissivi propri. La parificazione legislativa del “non impedire” al cagionare è qui preclusa alla tipizzazione in forma esclusivamente attiva della causazione dell’evento, per cui la responsabilità per l’omesso impedimento sarebbe in contrasto con la scelta effettuata dal legislatore, contraria al principio di legalità. Nonostante il diverso avviso della giurisprudenza, non è punibile colui che si procurasse un ingiusto profitto con altrui danno limitandosi ad approfittare dell’errore in cui già versava il contraente, così con una condotta omissiva di mero approfittamento dell’errore preesistente altrui. La clausola di equivalenza non può raddoppiare una fattispecie a condotta attiva vincolata in una omissiva di mancato impedimento; il suo ruolo è quello di equiparare il mancato impedimento dell’evento alla sua produzione attiva in tutte le fattispecie di evento causalmente orientate o a condotta libera. 4.5.2 Naturalismo e normativismo nella causalità dell’omissione. Causalità dell’omissione e le sue peculiarità rispetto a quella dell’azione. àLa causalità omissiva è un fenomeno sostanzialmente normativo, come normativa è l’esistenza dell’omissione. A questo si oppone l’idea che la causalità sia costituita non solo da fattori condizionanti dinamici, che innescano l’azione di forze naturalistiche positive, ma anche da fattori condizionanti statici, che permettono a quelle forze di sviluppare la loro efficacia modificativa della natura. Condizioni statiche, senza le quali quelle dinamiche non sarebbero in grado di operare; condiciones sine quibus non al pari di quelle dinamiche. Non vi è solo una causalità attiva, o dell’azione, ed una omissiva, o dell’omissione, ma l’una e l’altra si intrecciano regolarmente nei concreti processi causali: in natura i fattori condizionanti positivi (dinamici) possono operare in quanto con essi concorrono fattori condizionanti ma negativi (stativi). Così, la causalità è sempre la stessa, naturalistica, sia per l’azione che per l’omissione. Anche all’omissione saranno applicabili quei criteri per la formulazione del giudizio causale che vengono usati per l’azione. Questo sforzo argomentativo diretto a neutralizzare la causalità omissiva è plausibile, ma non può ignorare due aspetti peculiari della causalità omissiva: 1) vi è un’esigenza normativa di selezionare, tra le infinite condizioni statiche, quelle omissioni rispetto alle quali può avere un senso giuridico porre un problema di causalità e responsabilità. 2) il giudizio di causalità dell’omissione, oltre ad essere controfattuale, presenta un secondo grado di ipoteticità in quanto consiste nell’accertare l’efficacia impeditiva dell’evento da parte di un comportamento che non esiste in realtà, cioè l’azione doverosa omessa. 4.5.3. L’obbligo giuridico di impedire l’evento. 62 Quando la norma incriminatrice individua direttamente l’omissione, e cioè l’azione doverosa impeditiva comandata, nulla quaestio poiché è lo stesso legislatore a selezionare nella tipizzazione della fattispecie impropria la condotta rilevante. Quando siamo in presenza di una realizzazione omissiva del reato causalmente orientato (commissivi mediante omissione), la ricerca della condotta omissiva rilevante (e cioè dell’azione impeditiva omessa) non può fondarsi su un giudizio puramente naturalistico di impedibilità, di capacità impeditiva dell’evento da parte dell’azione omessa: non potremmo chiamare in causa tutte le azioni omesse che avrebbero impedito l’evento (condizioni statiche, che hanno contribuito alla realizzazione dell’evento). Se così fosse, sarebbe dissolta la natura normativa dell’omissione che concorre a fondarne la tipicità; sarebbe dilatata oltre ogni ragionevolezza giuridica l’ampiezza della responsabilità omissiva. La fattispecie causalmente orientata realizzata mediante omissione sarebbe priva di una propria tipicità legale. Tra le innumerevoli omissioni concorrenti alla produzione dell’evento lesivo (statico), l’individuazione di quella penalmente rilevante avviene sulla base della contrarietà ad un obbligo giuridico di impedire l’evento. Così, il significato normativo dell’art. 40.2 non si esaurisce nella clausola di equivalenza, ma si estende al criterio di selezione delle omissioni rilevanti, costituito dalla natura giuridica dell’obbligo di attivarsi e dalla finalità di impedimento di quella tipologia di eventi che ispira l’imposizione di quel dovere di agire. Solo dopo aver individuato l’omissione rilevante, cioè l’azione doverosa omessa, l’accertamento della causalità si snoda nel momento diretto a verificare se quella azione doverosa omessa avrebbe avuto nella situazione concreta la capacità di impedire l’evento o se l’evento si sarebbe comunque verificato nonostante il compimento dell’azione. 4.5.3.1 L’esigenza di legalità e le fonti dell’obbligo. L’obbligo giuridico di impedire gli eventi lesivi di un certo tipo presuppone una situazione fattuale in cui il destinatario dell’obbligo si trova in un rapporto di “particolare prossimità” con il bene la cui tutela gli viene affidata mediante l’imposizione dell’obbligo di agire. àposizione di garanzia: da qui traggono origine gli obblighi di garanzia, i quali, in quanto consistenti nell’imposizione di specifiche azioni impeditive dell’evento, sono i veri strumenti di individuazione della o delle omissioni tipiche. Poiché gli obblighi di impedimento concorrono alla individuazione del fatto tipico commissivo mediante omissione, ne viene che rispetto ad essi si pongono esigenze di legalità. Nell’attuale realtà dell’ordinamento giuridico, sia la configurazione legale della posizione di garanzia sia la previsione degli obblighi impeditivi degli eventi lesivi sono affetti da una carenza di legalità. La complessità dei rapporti sociali è tale per cui s’instaurano delle relazioni tra soggetti caratterizzate da un affidato l’uno verso l’altro senza che fonti normative espresse forniscano una disciplina. La posizione di garanzia viene spesso ricavata in via interpretativa dalla presenza di norme che fanno riferimento ad una relazione tra due soggetti o tra uno e la cosa fonte del pericolo. Né le cose vanno meglio per l’individuazione degli obblighi di garanzia. L’esigenza di legalità imporrebbe la specificità dell’obbligo e la fonte rigorosamente legislativa, con esclusione di quelle subordinate. La realtà è diversa, poiché gli obblighi di impedimento vengono tratti da enunciazioni normative generiche che fanno riferimento alla complessiva posizione di garanzia. Nei casi in cui l’ordinamento si spinge alla disciplina più minuziosa degli obblighi di garanzia, avviene ad opera di fonti subordinate della legge. La contrapposizione tra esigenze liberal- garantiste di legalità ed esigenze social-solidaristiche di tutela ha condotto alla elaborazione di due orientamenti contrapposti nella individuazione dottrinale e giurisprudenziale degli obblighi di impedimento dell’evento e loro fonti. A) orientamento funzionale o sostanzialeà la fonte degli obblighi risiede nella posizione di garanzia, intesa come quella situazione di fatto in cui un soggetto viene a trovarsi investito di un potere-dovere di salvaguardai dei beni giuridici di altri soggetti che sono entrati con lui in questo rapporto di affidamento. La matura funzionale- sostanziale di questo orientamento non cambia neppure se si cerchi una copertura normativa della posizione di garanzia in norme generalissime. Appartiene a questo orientamento anche la tesi secondo la quale tra le fonti dell’obbligo di impedire l’evento vi sarebbe anche il precedente compimento di un’attività pericolosa. Questo orientamento risponde alle esigenze solidaristico-sociali di tutela nel desumere gli obblighi dalle situazioni fattuali di reciproco affidamento tra i soggetti e poi si pone in contrasto con le esigenze della legalità sotto il duplice profilo della fonte non legislativa e del contenuto indeterminato degli obblighi di impedimento. L’idea di un obbligo di impedimento derivante dall’esercizio precedente di attività pericolosa sembra confondere la causalità omissiva della mancata adozione di cautele doverose con la causalità attiva della condotta. B) orientamento formaleàoccorre che l’obbligo giuridico di agire sia stabilito da una fonte normativa valida. Se questa tesi è conforme alle esigenze di legalità, i suoi eccessi rischiano di dimenticare le esigenze sostanziali di tutela soggiacenti al reato commissivo mediante omissione. Da un lato, il reato commissivo mediante omissione non può fondarsi sulla mera violazione di un obbligo di agire, senza che l’obbligo sia funzionalmente diretto all’impedimento dell’evento lesivo. Dall’altro lato, non basta l’invalidità della fonte dell’obbligo ad escludere la sua sussistenza e rilevanza penale. La previsione di obblighi giuridici di contenuto del tutto indeterminato solo apparentemente corrisponde alle esigenze di legalità della teoria formale. 65 condotta colposa diventa tipica quando sono violate le regole cautelari, anche la condotta dolosa è tipica solo quando la pericolosità si colloca al di là dell’eventuale area del rischio consentito dall’ordinamento. B) rapporti con la colpevolezzaàatteggiamento psicologico del soggetto nei confronti del fatto tipico e del suo contenuto di disvalore, ed è conseguentemente diversificato per intensità e qualità a seconda che si tratti del dolo o della colpa. Nell’agire doloso viene rimproverato al soggetto di essersi deliberatamente posto contro l’ordinamento, di aver voluto il risultato offensivo proprio dell’agire: si rimprovera all’autore l’ostilità ai valori dell’ordinamento dimostrata con la condotta dolosa. Nell’agire colposo viene rimproverata al soggetto la sua trascuratezza nei confronti della pericolosità insita nel compimento di attività che sono socialmente utili, se svolte entro i limiti cautelari posti dall’ordinamento; viene rimproverato di non aver “controllato” il pericolo per i beni giuridici: si rimprovera l’insensibilità nei confronti dei valori dell’ordinamento. Il dolo o la colpa sono l’oggetto o la base del giudizio di rimprovero in cui consiste la colpevolezza. Questa è alla fine un giudizio di valore, una qualificazione valutativa, mentre il dolo e la colpa sono dati di realtà. àNon colpevolezza senza dolo/colpa. Ma la colpevolezza è anche qualcosa in più. Non si esaurisce nel dolo e nella colpa e nel loro accertamento, ma assumono rilevanza ai fini della sussistenza e della graduazione del rimprovero di colpevolezza anche le condizioni in cui si è formato il processo motivazionale che ha condotto il reo all’assunzione della condotta criminosa. 5.2. La disciplina legislativa dell’elemento soggettivo. A) Il dolo e la colpaàsono manifestazioni dell’elemento soggettivo del reato, esauriscono le possibilità naturali di manifestarsi dell’atteggiamento psicologico dell’autore nei confronti del fatto di reato. Rispetto allo stesso fatto oggettivo tipico, l’elemento soggettivo può consistere o nel dolo o nella colpa, visto il rapporto di alternatività. àil legislatore ha un margine di autonomia nel configurare normativamente l’elemento soggettivo del reato. a) In primo luogo, il legislatore può anche ascrivere un fatto prescindendo dall’esistenza del dolo o della colpa, e sulla sola base della riferibilità fisico-materiale del fatto al soggetto che posto in essere la condotta criminosa. àsono le ipotesi della responsabilità oggettivaàin cui, prescindendosi dal dolo e della colpa, manca la stessa base per un giudizio di colpevolezza: sono ipotesi di responsabilità senza colpevolezza, difficilmente conciliabili con i principi del diritto punitivo e in via di superamento. b) Il legislatore può, poi, configurare l’elemento soggettivo di un certo reato accostando dolo e colpa rispetto a due parti o segmenti diversi del fatto tipico ma costituenti componenti essenziali della stessa fattispecie incriminatrice, dando così luogo ad una terza forma di elemento soggettivo: preterintenzione. àè un atteggiamento che risulta dalla combinazione del dolo o della colpa. Sapendo la loro alternanza, la loro coesistenza non può che presupporre la diversità dei fatti che ne sono oggetto, sebbene costitutivi di uno stesso fatto tipico. Le forme legali che può assumere il nesso di imputazione soggettiva del fatto tipico al suo autore sono quattro: la responsabilità oggettiva, la colpa, la preterintenzione, il dolo, in un crescente di intensità del legame psicologico e conseguentemente del rimprovero di colpevolezza. La resp. oggettiva è assenza di elemento soggettivo (colpevolezza); la preterintenzione è un misto di dolo e colpa; dolo e colpa sono le forme naturali di manifestazione dell’elemento soggettivo del reato. B) L’elemento soggettivo del reato deve essere prevista dalla leggeàla previsione legale risponde a due esigenze: 1) esigenza di una definizione legislativa: il legislatore deve precisare ciò in cui le varie specie di elemento soggettivo consistono. A questo rispondono le definizioni fornite dall’art. 43.1 c.p. per il dolo, preterintenzione e la colpa. Art. 42.3 c.p. riguarda la responsabilità oggettiva, dove si allude alle ipotesi in cui il fatto “è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione”. “altrimenti” =si riferisce alle tre forme di responsabilità colpevole. 2) esigenza del titolo soggettivo di responsabilità: consiste nella necessità che sia il legislatore a stabilire se un determinato reato deve essere punito solo se commesso con dolo o anche con colpa o con preterintenzione. Nella scelta di quali siano i titoli soggetti di responsabilità c’è una fondamentale opzione politico-criminale sull’ampiezza della tutela penale da accordare ad un certo bene con l’incriminazione di cui si tratta. Dalla previsione legislativa del titolo soggettivo di responsabilità del reato viene a dipendere la natura soggettiva della fattispecie, ma anche il numero delle fattispecie incriminate: è ovvio che, quando il legislatore prevede la punibilità dello stesso reato secondo più titoli di responsabilità soggetto, si deve concludere che nell’ordinamento esistono più fattispecie differenziate dalla diversa specie del loro elemento soggettivo. Bisogna fare una precisazione tecnica: il nostro legislatore in una disposizione generale (art. 42 c.p.) ha richiamato la distinzione tra delitti e contravvenzioni fornita dall’art. 39 c.p.: delittiàha stabilito che essi, in assenza di una diversa previsione legislativa nella singola fattispecie, devono essere intesi come dolosi, mentre la loro punibilità o a titolo di colpa, o di preterintenzione o di responsabilità oggettiva deve essere stabilita nella singola norma incriminatrice. contravvenzionià è stabilito che esse sono di regola punibili indifferentemente per colpa o per dolo, con la conseguenza che nelle singole norme incriminatrici di contravvenzioni noi non troveremo mai la menzione della punibilità né a titolo doloro né colposo, essendo certo che le contravvenzioni sono previste e punite per entrambi i 66 titoli soggettivi. Il giudice dovrà accertare se il fatto storico contravvenzionale è stato in concreto realizzato con dolo o con colpa: e ciò ai fini della sussistenza della responsabilità data la regola dell’indifferenza, bensì ai fini della graduazione della pena e poi la legge faccia dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla distinzione colpa e dolo. 6. Il dolo. A) Il dolo consiste nella volontà del fatto tipico. a) Possono essere realmente oggetto di volontà solamente la condotta e, quando esiste, l’evento. Se la condotta trova nella volontà “il motore” psichico capace di suscitare il comportamento dell’individuo agente; l’evento è una modificazione della realtà naturalistica che “dipende” dalla direzione finalistico-causale impressa dal soggetto alla condotta stessa. Tutti gli altri elementi costitutivi del fatto tipico sono assunti come essenziali dalla legge per la loro “inerenza” al comportamento., senza che a rigore siano il risultato di un intervento modificativo del soggetto agente. b) La volontà non esaurisce il contenuto strutturale del dolo, che registra una seconda componente psichica costituita dalla rappresentazione del fatto tipico. Questa componente di natura conoscitiva ha ad oggetto la totalità degli elementi essenziali del fatto. Da un lato, la condotta e l’evento non possono essere logicamente voluti se non sono anche oggetto di rappresentazione: la volontà, se non viene intesa come mera pulsione proveniente dall’inconscio, presuppone la consapevolezza di ciò che su vuole, implica che il “voluto” appaia sullo schermo della coscienza rappresentativa del soggetto. Dall’altro lato, anche tutti i restanti elementi costituivi debbono essere oggetto di rappresentazione, poiché solo così si realizza quell’integrale appartenenza psicologica del fatto al suo autore insita nel dolo. La volontà può concernere solo la condotta e l’evento, è indubbio che la volontà costitutiva del dolo significa volontà di realizzazione del fatto tipico, del fatto come descritto dalla fattispecie. La volontà certo di una condotta/evento, ma “circondati” dagli ulteriori elementi fattuali descritti dalla norma incriminatriceàpresuppone la consapevolezza dell’ambiente fattuale in cui essa viene ad inserirsi fondendosi in quell’unità costitutiva del fatto tipico. c) Pur ribadendo l’esattezza della sintetica definizione del dolo come “volontà del fatto tipico”àDOLO: è la rappresentazione e volontà del fatto tipico. La rappresentazione, che ha ad oggetto tutti gli elementi essenziali del fatto, assume la natura psichica della “conoscenza” quando verte sugli elementi preesistenti e concomitanti alla condotta, della “coscienza” quando è riferita alla condotta e della “previsione” quando concerne elementi futuri qual è essenzialmente l’evento del reato. La volontà si riferisce a rigore e ai soli elementi della condotta dell’evento. B) Questa nozione risponde alla definizione legislativa ricavabile dagli artt. 43.1, primo alinea e 47 c.p. a) art. 43.1 c.p. àmette in luce le due componenti strutturali del dolo consistenti nella rappresentazione e volontà; per l’oggetto, la definizione legislativa in esame è sinteticamente incentrata sull’evento (=fatto tipico). b) art 47 c.p. àdisciplinando l’errore sul fatto contribuisce a definire legislativamente il dolo e la sua componente conoscitiva; c’è un’incompatibilità dell’errore sul fatto col dolo. Comma 1 dell’art. 47àricollega all’errore essenziale un effetto più ampio quando dice che esso “…esclude la punibilità dell’agente”. Il secondo comma si tratta di una punibilità a titolo di dolo, cioè del dolo. La norma continua precisando che l’errore sul fatto è compatibile con la colpa. àl’errore sul fatto esclude il dolo. Per escludere il dolo l’errore deve essere essenziale. È tale quando cade su un elemento del fatto tipico (art. 47.1), che chiarisce che l’errore deve cadere sul fatto che costituisce sul reato. La disciplina dell’errore sul fatto ex art. 47 concorre a confermare legislativamente la necessità della rappresentazione del fatto tipico quale componente del dolo. 6.1. Il momento rappresentativo e l’errore sul fatto. RAPPRESENTAZIONE=conoscenza e deve avere ad oggetto tutti gli elementi essenziali del fatto tipico. Si distingue tra “la struttura”, cioè il fatto psichico in cui consiste la rappresentazione, e l’”oggetto” della stessa, cioè gli elementi che debbono essere conosciuti perché si abbia dolo. A) struttura: 1) va osservato che la conoscenza non può significare una rappresentazione mentale “ad alta definizione” difficilmente compatibile con la previsione di elementi futuri come l’evento risultante dalla condotta: ci si accontenta nei confronti dei singoli particolari che concorrono a dar corpo agli elementi essenziali del fatto in una consapevolezza comprensiva della realtà fattuale. Non è possibile fare a meno di una rappresentazione del fatto storico nella sua globalità abbastanza nitida, sufficiente per consentire all’autore di coglierne la rilevanza sociale dell’ambiente esterno. 2) si deve precisare che, mentre l’errore essenziale esclude il dolo in quanto comporta la mancata conoscenza (ignoranza) del fatto tipico, il dubbio è compatibile col dolo in quanto comporta la rappresentazione del fatto seppur congiuntamente alla rappresentazione alternativa di un fatto diverso da quello reale. B) oggetto: 1) non esiste un’unanimità di vedute sulla necessità che il dolo si estenda agli elementi costitutivi delle qualità personali del soggetto attivo, dall’offesa del reato e dalle cause di giustificazione. La soluzione dipende dalla 67 soluzione accolta a proposito della possibilità o meno di considerare tali dati come elementi essenziali del fatto tipico. Per chi ritiene che le qualità personali del soggetto attivo facciano parte del fatto tipico, ne deriverà che il dolo deve estendersi ad esse; chi considera l’offesa estranea al novero degli elementi del fatto concluderà che essa rimane estranea all’oggetto del dolo. Le cause di giustificazione del legislatore nell’art. 59.4 c.p. stabilisce la disciplina. 2) si deve indugiare per sottolineare che l’oggetto del dolo può non esaurirsi nel mero dato naturalistico dell’elemento essenziale ben potendo estendersi anche al suo significato sociale o normativo. Occorre che il soggetto abbia la percezione sensoriale dei dati naturalistico-materiali costitutivi degli elementi essenziali del fatto tipico e anche la consapevolezza del loro significato sociale. Non di rado gli elementi essenziali del fatto tipico non sono dotati di un loro significato sociale, ma anche di una qualificazione normativa. Stessa cosa per l’altro elemento ess. della modalità spazio-temporale indicata col concetto normativo di “udienza”. Il dolo si arricchisce necessariamente della consapevolezza del significato normativo dell’elemento essenziale del fatto. Con la conseguenza che un errore su tale significato è pur sempre un errore essenziale sul fatto, sebbene non consista in un difetto di percezione. A questo tipo di errore fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 47 c.p. La legge extra penale (art. 47.3 c.p.) è quella fonte normativa che, concorrendo alla qualificazione giuridica dell’elemento essenziale, è indispensabile conoscere per assumere la consapevolezza piena di questa qualificazione e dell’elemento costitutivo del reato. 3) errore sul fatto: - esclude il dolo quando cade su elemento essenziale del fatto tipico (errore sul fatto). L’art. 47.2 c.p. àdice cosa ovvia quando riconoscere che all’assenza del dolo di un determinato reato può accompagnarsi il dolo di un reato diverso. - l’errore sul fatto può essere di percezione, quando consiste in una mancante o difettosa conoscenza sensoriale della realtà. - l’errore sul fatto può essere di valutazione, quando consiste in una mancante o imperfetta consapevolezza del significato sociale o normativo di un elemento essenziale del reato. 6.1.1. Errore sul fatto ed errore sul precetto. A) Il dolo implica la conoscenza sensoriale degli elementi essenziali del fatto tipico e la consapevolezza del loro significato sociale ed eventualmente normativo, ci si può chiedere se anche la consapevolezza del carattere antigiuridico del fatto sia necessaria ai fini del dolo: se, cioè, l’errore sul precetto (ignorantia legis) escluda il dolo al pari dell’errore sul fatto. La coscienza dell’antigiuridicità del fatto non è richiesta per la sussistenza del dolo àl’art. 5 c.p.: “Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale”, salvo che sia inevitabile. Il nostro sistema differenzia la rilevanza giuridica dell’errore sul fatto e dell’errore sul precetto. Errore sul fattoàè in ogni caso incompatibile col dolo in quanto produce il risultato finale di escludere la rappresentazione del fatto, quali che siano le cause del suo insorgere. Errore sul precettoàassume rilevanza in ragione delle cause del suo insorgere, in quanto colpevole od incolpevole. L’ignorantia legis risulta compatibile col dolo: quando è “colpevole” (=evitabile), sussistendo la colpevolezza, il soggetto sarà pienamente responsabile; quando è “incolpevole” perché egli non poteva evitarla, mancherà la colpevolezza e il soggetto non sarà responsabile. Questa diversa rilevanza si basa sul diverso ruolo giocato dalla conoscenza del fatto e dalla conoscenza della norma precettiva nella dinamica dei processi motivazionali dell’agente. È un dato dell’esperienza che ai fini del processo motivazionale è più stretta e significativa la relazione conoscitiva che il soggetto ha con il fatto rispetto a quella che egli ha col diritto. Con la conseguenza che quel nesso di appartenenza psicologico del reato all’autore in cui consiste il dolo non potrà prescindere dalla conoscenza effettiva e attuale del fatto, mentre rispetto al precetto ci si accontenta di qualcosa di meno dal punto di vista psicologico (conoscibilità). L’ordinamento giuridico prende atto di questo dato di esperienza. L’uomo è portato a conoscere il fatto (la realtà in cui si inserisce la condotta) ma rispetto al precetto (che pone limiti alla sua libertà) tende alla disconoscenza. Senza la conoscenza del fatto, della realtà fattuale in cui si trova ad agire, l’uomo non è in grado di prendere decisioni consapevoli di cui possa rispondere a titolo doloso. Avendo la conoscenza del fatto, l’uomo è in grado di assumere conoscenza dei precetti giuridici disciplinanti il proprio agire: ragionevole è che la rilevanza dell’ignorantia sia subordinata all’atteggiamento colpevole o meno che l’ha prodotto. B) Sussiste la necessità di distinguere quando l’errore cada sul fatto e quando sul precettoànel primo caso risulta escluso il dolo. Una distinzione non agevole, soprattutto quando si tratta di errori sulle qualificazioni normative degli elementi del fatto. Non è facile fornire un criterio di massima per distinguerli. L’errore sul fatto, in quanto cade su un dato episodico, individuato e irripetibile della realtà hic et nunc, ha il carattere della concretezza; l’errore sul precetto, in quanto cade su una fattispecie normativa destinata a ricomprendere le infinite forme di manifestazioni fattuali conformi all’errore sul fatto, ha il carattere dell’astrattezza. 6.1.2. L’errore di esecuzione (aberratio). A) All’errore sul fatto, di percezione o valutazione, radicato nel momento di conoscenza rappresentativa della realtà, si contrappone l’errore-inabilitààche si produce nel momento di esecuzione della deliberazione criminosa. àl’errore di esecuzione=aberratioàcostituisce una deviazione nella esecuzione rispetto alla rappresentazione 70 la produzione del fatto unitario x+y. àquesto consente di ricondurre l’evento y alla volontà e dunque al dolo dell’agente e non impedisce di marcare una distinzione psicologica tra la volontà intenzionalmente diretta alla produzione di x e quella che investe y con una minore intensità di partecipazione psichica. Questa seconda forma consiste nella rappresentazione del fatto come certoàdolo diretto. C) dolo eventualeà presuppone che il soggetto abbia agito rappresentandosi la verificazione dell’evento come solamente probabile o possibile. È un evento non perseguito come scopo dell’azione, poiché e così fosse il dolo sarebbe intenzionale. Nell’ipotesi in cui il soggetto agisca rappresentandosi come solo probabile/possibile la verificazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito intenzionalmente, non è facile precisare concettualmente quale sia il reale atteggiamento della volontà rispetto a tale evento. Si consideri che sullo “schermo mentale” dell’agente l’evento accessorio compare come oggetto insieme di un certo numero di probabilità positive di verificazione e di un certo numero di probabilità negative di non-verificazione. La situazione da risolvere è quella della rappresentazione dell’evento che può come non può verificarsi. La rappresentazione dell’evento come possibile o probabile rientra sia nella fattispecie del dolo e sia nella colpa, per questo bisogna individuare il coefficiente volontaristico per l’integrazione di una delle due. Tre sono le interpretazioni più significative della dottrina e della giurisprudenza: a) criterio dell’accettazione del rischioàvi sarebbe dolo eventuale quando il soggetto ha agito nella previsione dell’evento probabile, accettando il rischio della sua verificazione. L’inadeguatezza del criterio: o l’accettazione del rischio finisce per identificarsi con la mera previsione del pericolo connesso alla condotta che viene realizzata, o indica in requisito volontaristico ulteriore che quel criterio non è in grado di individuare. b) criterio del bilanciamentoàsarebbe in dolo eventuale l’agente che fa pesare di più gli interessi realizzati col risultato perseguito con l’azione rispetto al bene offeso dall’evento previsto come possibile o probabile. Si tratta di un criterio dotato di una persuasività in quei casi in cui questa operazione di bilanciamento sia stata realmente effettuata nella psiche dell’agente e sia possibile provarla processualmente. Frequenti i casi in cui quell’operazione mentale di bilanciamento non affiora neppure nella psiche del soggetto che agisce senza quella ponderazione comparativa tra i beni messi in gioco della propria azione. c) formula di Frankàil giudice deve chiedersi se il soggetto avrebbe agito per realizzare il risultato perseguito se si fosse rappresentata come certa la realizzazione dell’evento come accessorio. Nel caso in cui pervenga ad una risposta affermativa, si conclude per la sussistenza del dolo nella forma meno intensa del dolo eventuale. Se la riposta è negativa, si conclude per la sussistenza della colpa si parla della colpa con previsione. La formula di Frank si presenta come la più garantista in quanto la sa struttura logica si fonda sulla parificazione dell’incerta figura del dolo eventuale con quella del tutto pacifica del dolo diretto. I limiti sono evidenti per due ragioniàda un lato, esso implica un accertamento ipotetico, di un qualcosa che in realtà non esiste qual è la rappresentazione della certezza dell’evento e la conseguente decisione dell’agente. dall’altro, esso ha carattere presuntivo, poiché il giudice è chiamato a supporre il formarsi di questa decisione non si sa su quali elementi. d) Sezioni Unite della Cassazioneàsvolta al problema del dolo eventualeàpremessa duplice: 1) tutte le formule escogitate per dare un contenuto concettuale alla nozione di dolo eventuale dono inadeguate o insufficienti, in ragione della impossibilità di afferrare un dato psichico come la volontà umana, specie in una situazione-limite come quella della previsione dell’evento come probabile. 2) un peso decisivo ha il momento dell’accertamento probatorio poiché, non essendo la volontà direttamente percepibile, fondamentali sono gli indicatori dai quali desumere ragionevolmente il dato psichico. Il dolo eventuale ha una ineliminabile componente presuntivaàla Cassazione ha stilato un elenco di indicatori, obiettivizzando la nozione di dolo eventuale rendendola “umanamente praticabile”. Gli indicatori attengono alle modalità della condotta, la sua pericolosità, ai motivi a delinquere, alla personalità del soggetto, al comportamento susseguente al reato ecc. La valutazione dei vari indicatori deve essere complessiva. Il dolo eventuale può sussistere non solo quando il soggetto preveda come probabile/possibile l’evento del reato, ma anche quando egli agisca nel dubbio sull’esistenza o meno di un altro elemento essenziale del reato. 6.3.2. Dolo d’impeto e dolo di proposito, A) sia dolo d’impeto sia dolo di propositoàesprimono una diversa intensità della volizione del soggetto rispetto al fatto tipico. mentre dolo intenzionale, diretto ed eventuale rispecchiano il diverso ruolo giocato dalla rappresentazione del fatto tipico nel processo motivazionale che ha condotto alla deliberazione criminosa, la contrapposizione tra dolo d’impeto e di proposito si riferisce alla presenza di motivi inibitori antagonisti alla spinta a delinquere. Dolo d’impetoàquando la deliberazione criminosa è seguita immediatamente dall’esecuzione della condotta; dolo di propositoàquando tra la formazione della decisione criminosa ed il passaggio all’atto intercorra un consistente lasso di tempo. Queste ipotesi sono caratterizzate da un dato di natura cronologica, il quale però rileva come indizio esteriore di un interno processo motivazionale diverso. Quando il soggetto agente non pone tempo in mezzo tra la formazione del proposito criminoso e la sua esecuzione, si deve ritenere che l’impulso a delinquere ha rivelato una sua efficacia psicologicamente intensa da spiegare all’azione, ma che non vi sia stata possibilità che contro motivi inibitori dispiegassero la loro azione da stimolare un rafforzamento della spinta criminosa fino all’intensità necessaria a vincere i contro motivi stessi. La differenza 71 meramente cronologica che distingue il dolo d’impeto da quello di proposito è il segno esteriore di un diverso processo motivazionale in cui alla assenza o presenza di contro motivi all’azione criminosa corrisponde una minore o maggiore persistenza ed intensità della volontà a delinquere. B) premeditazioneàuna specie particolare di dolo di proposito in cui, all’intervallo di tempo intercorrente tra la decisione che persiste immutata e l’esecuzione criminosa, si aggiunge il requisito di una preparazione accurata del delitto, da intendersi nel senso di una predisposizione materiale di mezzo anche solo nel senso ideologico di una messa a punto del piano criminoso in esecutivo. C) Solo la premeditazione è prevista dalla legge come circostanza aggravante speciale dei delitti di sangue (omicidio e lesioni), senza che il legislatore ne precisi gli elementi costitutivi. Ciò non significa che le altre non assumano una rilevanza giuridica, in quanto espressioni significative della diversa intensità della volontà del fatto tipico. L’art. 133.1 n.3 c.p. prescrive (non menzionando le varie forme di dolo) che il giudice nel determinare la pena in concreto tenga conto della intensità del dolo, la quale sarà desunta dalle forme del dolo. 6.4. Le altre forme del dolo. Varie forme e distinzioni di dolo: alcune sono di derivazione legislativa, in quanto consistono in tecniche di tipizzazione della fattispecie; altre sono creazioni dottrinali o giurisprudenziali per risolvere problemi applicativi. 6.4.1. Dolo generico e dolo specifico. A) Dolo genericoàconsiste nella rappresentazione e nella volontà dell’intero fatto tipico. Dolo specificoàindica un elemento essenziale previsto espressamente dalla fattispecie incriminatrice, avente natura psichica e consistente in uno scopo ulteriore verso cui deve tendere la volontà del soggetto agente, ma che, ai fini della esistenza della fattispecie, non occorre che sia conseguito. Il dolo specifico consiste nella tipizzazione di un obiettivo finalistico ulteriore rispetto alla realizzazione del reato, che il soggetto si deve proporre al momento della condotta, ma di cui non è necessaria la realizzazione. B) Bisogna vedere la compatibilità con il principio di offensività e con quello di materialità. Se esso è soltanto uno scopi da perseguire, una mera intenzione, è evidente come una componente di natura psicologica non incida sulla realtà e non possa offendere il bene giuridico come oggetto di tutela: con la conseguenza che, quando è previsto il dolo specifico, il disvalore del fatto tipico rischia di poggiare sulla cattiva volontà dell’agente. Questo viene affrontato distinguendo le diverse funzioni che il dolo specifico può svolgere nelle dinamiche di tipizzazione del contenuto di disvalore della fattispecie incriminatrice. a) esistono reati in cui il dolo specifico serve ad anticipare la soglia della tutela, ponendosi in una tensione con la necessaria offensività e materialità del reato. Si considerino tutte le fattispecie che incriminano la condotta di associarsi. In queste fattispecie, in cui il dolo specifico incarna l’offesa, la tensione con il principio di offensività- materialità del reato risulta superabile in via interpretativa. Il vero problema è dato dalla circostanza che è la stessa condotta tipica ad essere descritta in termini inoffensivi. L’offensività mancante può essere ricavata dal dolo specifico: valorizzando il legame che sussiste tra la direzione finalistica del soggetto e la pericolosità della condotta tipica, è possibile affermare che la finalità offensiva che anima l’agente deve riflettersi anche sulla condotta tipica. Con la conseguenza che la condotta tipica deve consistere in un comportamento idoneo a raggiungere lo scopo illecito. b) esistono ipotesi in cui la presenza del dolo specifico svolge la funzione di mutare il titolo di reato e di differenziare il trattamento sanzionatorio. In tali ipotesi, l’inasprimento del trattamento sanzionatorio finisce per dipendere da un mero dato soggettivo. Dall’altra parte, far dipendere l’entità della pena anche da componenti psichiche, come movente e scopi che accompagnano la condotta, non sconvolge, alla duplice condizione che, da un lato, il fatto oggettivo sia dotato di un suo contenuto di disvalore e che, dall’altro, il maggior rigore sanzionatorio non sia tanto eccessivo e sproporzionato da rivelare che il disvalore del reato si concentra nel solo dolo specifico. Anche in queste ipotesi il dolo specifico deve riflettersi sulla condotta tipica in termini di idoneità a perseguire lo scopo. c) compatibile con l’offensività è il dolo specifico previsto al fine di ridurre l’ambito della tutela penale. 6.4.2. Dolo iniziale, concomitante e successivo. Dolo generale e dolo alternativo. A) dolo successivoàsi ha quando il soggetto si rappresenta e vuole l’intero fatto tipico solo dopo averlo realizzato senza volerlo. Dolo inizialeàsi ha quando, in presenza di una esecuzione frazionata in più atti, il soggetto si rappresenta e vuole il fatto tipico solo rispetto ai primi atti e non anche rispetto all’ultimo atto che è quello tipico. Iniziale e susseguente sono penalmente irrilevanti in quanto il dolo deve sussistere al momento della condotta tipica e quando si tratta di reati causalmente orientati, al momento dell’ultimo atto che innesca il procedimento causale. àpenalmente rilevante è solo il dolo concomitanteà quello che esiste al momento della realizzazione della condotta tipica. B) dolo generale e dolo alternativoàsono tipologie di casi in cui i problemi attinenti all’individuazione dell’elemento soggettivo si intrecciano con problemi relativi alla tipicità del comportamento tenuto. 72 a) dolo generaleàquelle ipotesi in cui un soggetto vuole realizzare un determinato fatto con una certa condotta e lo realizza con un altro comportamento successivo, volto a compiere un fatto diverso. In un primo momento queste ipotesi sono state risolte nel senso che il soggetto deve rispondere di un solo reato perfetto doloso. Consisterebbe in una rappresentazione e in una volontà generali, che sarebbe essenziale la volontà omicida di produrre l’evento. La corretta qualificazione di questi casi è stata ottenuta sul piano della tipicità. b) dolo alternativoàsi hanno quando un soggetto si rappresenta due fatti di reato, ma non sa quale in concreto si realizzerà, nel senso che egli non vuole i due fatti cumulativamente, ma indifferentemente, o l’uno o l’altro. Al problema se il soggetto che ha realizzato un solo evento debba rispondere anche dell’altro non realizzato, risponde la soluzione che il soggetto abbia agito con dolo diretto o con dolo eventuale. 6.4.3. Il dolo nei reati omissivi. Per il dolo nei reati omissivi tre sono i punti problematici: 1) l’oggetto del momento conoscitivoài problemi derivano dalla natura normativa dell’omissione, di cui è impossibile avere consapevolezza senza la conoscenza di tutte le sue componenti. Il momento rappresentativo del dolo dovrà investire i presupposti di fatto della situazione tipica in presenza dei quali sorge l’obbligo giuridico di agire. In secondo luogo, il momento conoscitivo dovrà estendersi alla possibilità di agire nel senso prescritto dell’obbligo giuridico. Infine, perché sussista la consapevolezza di omettere l’azione giuridicamente imposta occorrerà la conoscenza dell’obbligo di agire. Ma solo la consapevolezza dell’obbligo giuridico di compiere quella data azione gli attribuisce la coscienza di tenere un comportamento omissivo in senso giuridico. La consapevolezza dell’obbligo giuridico di agire è necessaria nei reati omissivi impropri e propri. Per gli impropriàl’obbligo giuridico è di regola di fonte extra-penale, con la conseguenza che l’errore su di esso darà luogo ad un errore rilevante ex art. 47.3 c.p.; propriàla fonte dell’obbligo si identifica con la legge penale che incrimina il fatto omissivo, con la conseguenza che il dolo dei reati omissivi propri comporta una deroga al principio della irrilevanza dell’errore sulla legge penale stabilito dall’art. 5: posta la necessità della coscienza dell’obbligo di agire, ne viene che l’errore o l’ignoranza del precetto penale contenente l’obbligo di agire escluderà il dolo ai sensi dell’art. 47. 2) l’esistenza di un atto decisionale di volontàànei reati d’azione è facile rintracciare il concreto atto decisionale di volontà con cui il soggetto è passato all’azione. Quest’atto avrò un punto di riferimento positivo nel momento in cui l’autore “mette in moto”. Nell’omissione è più ardua l’individuazione di questo atto decisionale di volontà riferita al comportamento omissivo, proprio perché l’evanescenza naturalistica dell’omissione priva la volontà di un suo punto di riferimento determinato in rapporto al quale formarsi e manifestarsi. Un’integrale osservanza dei principi in materia di dolo imporrebbe di rintracciare anche nel reato omissivo un atto di volontà di intensità pari a quello del reato d’azione: si corre il rischio di convertire tacitamente in dolosa una responsabilità colposa. Questo rischio è elevato quando si tratta di reati omissivi propri, dato che in quelli impropri l’esistenza di un evento naturalistico rende meno arduo l’individuazione di un punto di riferimento per la volontà omissiva. 3) la compatibilità del dolo diretto ed eventuale col reato omissivoàuna parte minoritaria della dottrina ritiene dolo diretto ed eventuale incompatibili col reato omissivo improprio. L’evento criminoso non sarebbe una conseguenza accessoria di un risultato positivamente perseguito dal soggetto, bensì di una condotta omissiva, cioè del mancato compimento dell’azione doverosa, che è stata tenuta senza un orientamento finalisticamente volontario del soggetto. Il discorso è diverso nell’ipotesi in cui l’evento lesivo non intenzionale sia accessorio ad un altro evento intenzionalmente perseguito con la condotta omissiva. 7. La colpa. La colpa storicamente è successiva al dolo, nel senso che l’esigenza punitiva è stata prima avvertita nei confronti dei fatti realizzati volontariamente e solo dopo l’uomo ha percepito il disvalore e l’esigenza punitiva dei fatti colposi. Oggi la responsabilità colposa non deroga a nessun principio di imputazione soggettiva dei fatti illeciti e poi dal punto di vista quantitativo sta assumendo una consistenza più vasta anche grazie allo sviluppo della dimensione del pericolo che contrassegna le moderne società “del rischio”. La previsione dolosa di un certo fatto offensivo non può mancare perché esso costituisce l’aggressione più grave e la sua incriminazione appresta la tutela minima; la previsione anche colposa esprime una scelta legislativa motivata dall’intento di estendere la tutela anche a datti offensivi indubbiamente meno gravi e tali da essere oggetto di incriminazione. A causa delle moderne società del rischio, la forma dell’elemento soggettivo del reato è divenuta negli ultimi decenni fonte di approfondimenti teorici e pratici. La sua analisi deve essere condotta a tre livelli: 1) va precisata la struttura del legame di natura psichica che nella colpa si instaura tra il fatto del reato e il suo autore e si definiranno i rapporto tra dolo e colpa; 2) deve essere analizzata la componente normativa della colpa, consistente nella violazione della regola cautelare (misura oggettiva della colpa); 3) va affrontata la componente soggettiva (misura soggettiva), consistente nella attribuibilità della regola cautelare al soggetto, nella quale risiede la colpevolezza. 7.1. Il nesso psichico tra il fatto e l’autore. Colpa e dolo sono incompatibili rispetto allo stesso fattoàdolo: consiste nella rappresentazione e volontà dell’intero fatto oggettivo tipico; colpa: presuppone necessariamente che la rappresentazione e la volontà non 75 A) Possono essere di formazione consuetudinaria: saranno gli usi a costituire la fonte di regole cautelari la cui violazione costituisce colpa generica. a) Questa forma di giuridicizzazione delle regole cautelare presuppone che si tratti di attività e comportamenti che tendono a ripetersi con una certa uniformità, dato che altrimenti non sarebbe possibile la formazione di una consuetudine comportamentale. La regola consuetudinaria consente una maggiore adattabilità della regola alla peculiarità del caso concreto. A questo vantaggio deve essere aggiunto il fatto che il contenuto della cautela è privo di tecnicismo così che l’elaborazione della relativa regola può essere affidata alla produzione spontanea dell’uso. b) La regola cautelare di formazione consuetudinaria, proprio per essere il risultato di una ripetizione costante uniforme e spontanea, è in grado di esprimere la soglia di accettazione del rischio condivisa dalla comunità in relazione all’orientamento ai valori da essa assunti. Ciò attribuisce alla regola cautelare una flessibilità anche nel tempo e nello spazio, di cui il giudice tiene conto nell’accertamento della colpa. c) La duttilità della regola cautelare consuetudinaria dipende dal fatto che essa è capace di adattarsi alle molteplici e differenziate situazioni obiettive in cui è svolta una certa attività pericolosa ed è capace di adattarsi diversamente alle diverse caratteristiche e condizioni del soggetto agente dalle quali dipende la diversa capacità soggettiva di reagire alla situazione di pericolo. L’incidenza delle caratteristiche e capacità del soggetto nell’individuazione delle regole cautelari consuetudinarie è notevole perché può portare alla loro differenziazione e al loro abbandono a favore di una regola “individuale” non standardizzata. È questa l’ipotesi delle “conoscenze superiori”, che si ha quando il soggetto agente concreto è munito di particolari conoscenze, che egli solo possiede e che gli rendono riconoscibile/evitabile un pericolo non fronteggiabile con la regola consuetudinaria. D’altra parte, le conoscenze inferiori dell’agente non possono portare ad un abbassamento della cautela doverosa sotto lo standard consuetudinario minimo relativo a quel tipo di attività. B) L’altra forma di giuridicizzazione delle regole cautelari non scritte si iscrive nella nozione di colpa genericaàè più complessa e realizza un equilibrio tra le contrapposte esigenze di generalizzazione della regola e di adattamento della stessa alla individualità del caso. Nonostante l’uniformità di un certo genere di situazioni pericolose, tale da consentire la standardizzazione delle regole cautelari, accade che la situazione pericolosa si presenti nelle realtà dotata di varianti da rendere inadeguata la regola standardizzata. Così come possono darsi situazioni di pericolo nuove, rispetto alle quale non c’è alcuna regola. In tali evenienze, la prodizione della regola avviene sulla base della situazione di pericolo in concreto: la regola è prova dei caratteri della generalità ed astrattezza e non preesiste ma è successiva alla realizzazione concreta della situazione di pericolo hic et nunc. Qui la regola presenta il grado massimo di individualizzazione e concretezza. Sussiste sempre un’esigenza di standardizzazione poiché diversamente la cautela non sarebbe un’espressione normativa ma una decisione arbitraria, così che l’una equivarrebbe all’altra, senza che quella cautela s’imponesse giuridicamente come fonte di una responsabilità colposa. àper rendere una norma standardizzata possiamo menzionare gli strumenti logici per l’individuazione delle regole cautelari che sono dati dalla riconoscibilità del pericolo e dalla evitabilità del risultato dannoso. Questi criteri di individuazione della regola cautelare, quando si tratta di regole normative o consuetudinarie sono riassorbiti nella esistenza oggettiva della regola che si impone. Tali criteri tornano ad essere in primo piano e si offrono al soggetto agente nella situazione di pericolo per l’individuazione della regola; per la loro utilizzazione, essi conducono a risultati diversi a seconda dei parametri di riconoscibilità ed evitabilità che si assumono. L’ordinamento ha escogitato l’espediente dell’”agente modello”, dell’homo eiusdum condicionis et professionis, per alludere ad un parametro di riferimento che tenga conto delle caratteristiche personali e professionali dell’agente concreto e consenta di pervenire ad una certa standardizzazione della regola nella misura in cui esso s’identifica con un soggetto dotato di ragionevolezza e sensibilità ai valori. In realtà l’agente modello non ha un afferrabilità concettuale netta e precisa, con la conseguenza che questo modello viene alla fine individuato dal giudice, anche se sulla base dell’osservazione criticatamente consapevole della realtà. Non sembra facile poter fare a meno di questo espediente da mettere nelle mani del giudice. Nell’assenza di regole cautelari cristizzallate, il ricorso alla regola estrema non sembra possibile poiché si rinuncerebbe a quel momento normativo insito nella delimitazione del rischio consentito connesso all’esercizio di attività pericolose: la regola cautelare coincidente con quella ricavabile dalla migliore scienza ed esperienza impedirebbe l’adeguamento alle condizioni personali dell’agente concreto, e anche quella valutazione ponderata tra utilità sociale e pericolosità delle attività, che è resa possibile dal ricorso al modello dell’agente. Posto che la colpa per l’inosservanza delle regole individuali appartiene alla colpa generica poiché prescinde da regole scritte, sono indubbie le diversità strutturali tra le sottospecie di colpa generica. Tensione legalità e colpaàla regola cautelare doverosa concorre all’individuazione del fatto tipico colposo. A parte le regole cautelari contenute in leggi, per le altre non è facile affermarne la conciliabilità con la riserva di legge visto che esse trovano la fonte al di fuori della legge. La regola cautelare può essere considerata come una “specificazione tecnica” in quanto, sulla base di conoscenze ed esperienze specialistiche, individua gli strumenti dotati delle caratteristiche naturalisticamente adeguate a fronteggiare la pericolosità di una determinata attività e situazione causalistica. La regola esprime il confine tra il 76 rischio accettato e consentito dall’ordinamento in nome dell’utilità sociale dell’attività pericolosa e il rischio vietato in quanto elevato per i beni giuridici coinvolti. àproblema ancora aperto. 7.2.3. I rapporti tra colpa generica e colpa specifica. Nonostante l’incremento delle regole scritte, la responsabilità colposa rimane segnata dallo stretto rapporto tra colpa specifica e generica che manifesta nella realtà applicativa una tendenza allo scivolamento verso la concretizzazione della regola realizzatasi con la colpa generica. Questo fenomeno comporta sia un tesso di incertezza elevato nell’accertamento della responsabilità colposa derivante da una maggiore indeterminatezza delle regole e sia l’innalzamento degli standard di cautela via via che la regola si avvicina alle peculiarità della situazione concreta. Tre sono gli aspetti principali: 1) In primo luogo, si constata coma sia il legislatore che al momento della formulazione della regola positiva ne dichiara la insufficienza rinviando alle regole non scritteànorma cautelare che solo apparentemente è “positiva” visto che per il modo in cui è formulata così da rinviare ad una sua concretizzazione sulla base della situazione di pericolo, la sua individuazione e violazione hanno le caratteristiche della colpa generica. 2) È opinione consolidata che la regola cautelare positiva possa “cedere” dinanzi ad una regola cautelare derivante dalle peculiarità della situazione concreta. Se entrano in conflitto una regola cautelare positiva e una non scritta prevarrà la seconda. 3) In terzo luogo, il problema è quello che si pone quando, essendo ipotizzabile nella situazione concreta l’adozione di una cautela ulteriore rispetto a quella imposta dalla norma “positiva”, ci si chiede se per escludere la colpa sia sufficiente l’osservanza della regola “positiva” o se residui una colpa generica, sia cioè necessaria l’osservanza della regola non scritta. Il problema è delicato poiché la funzione della colpa specifica è quella di fissare degli standard certi e definiti, cui il soggetto agente possa fare sicuro affidamento nell’esercizio della propria attività, nonché di riservare ad autorità od organi specializzati l’individuazione della soglia del rischio consentito ed accettato dall’ordinamento. Se la colpa generica potesse “riaffiorare” ogni volta sulla base delle caratteristiche peculiari della situazione concreta, è chiaro che andrebbero perduti i vantaggi della colpa specifica e che gli standard delle cautele doverose potrebbero risultare eccessivamente elevati. La ratio della norma cautelare scritta, verificando se nella situazione concreta sono ravvisabili peculiarità fattuali non “calcolate” dalla norma scritta, tali da determinare una speciale pericolosità non corrispondente a quella considerata nella norma positiva. 7.2.4. Il contenuto delle regole cautelari. Il contenuto delle regole, positivizzate e non, è vario, non può essere determinato a priori e non vi è una necessità di procedere ad analisi descrittive dei contenuti delle cautele doverose. Una classificazione delle regole fondata sul loro contenuto precettivo: A) La prima grande distinzione è quella tra le regole cautelari che traggono origine dall’esperienza di certe attività pericolose e regole cautelari che sono dettate da una pura convenzione. La distinzione tra esperienze e convenzioni può assumere una rilevanza decisiva quando regole cautelari diverse si succedono nel tempo, producendo effetti giuridici differenti. Trattandosi di regole dell’esperienza, il loro mutamento nel tempo significa o che l’ordinamento ha assunto come doverose delle cautele prima sconosciute o che è mutata la valutazione comparativa tra utilità sociale e pericolosità della condotta e dunque la soglia del rischio consentito. Il mutamento della regola cautelare di riferimento implica un mutamento delle esigenze di tutela realizzate dall’incriminazione colposa, con la conseguenza che ci troviamo in presenza di un fenomeno di novazione legislativa da disciplinare sulla base dei principi regolanti la successione di leggi penali nel tempo. Nel caso in cui sia mutata una regola cautelare convenzionale, il fatto commesso in violazione della prima regola rimarrà punibile alla sua stregua, non essendosi verificata una trasformazione del contenuto di disvalore dell’illecito colposo e nemmeno un fenomeno di successione di leggi penali. B) Ulteriore classificazione: si distingue a seconda che la regola riguardi le modalità di esercizio dell’attività pericolosa o la sua osservanza si imponga in un momento anteriore all’esercizio dell’attività. Prima categoria: appartengono le regole “modali” che vengono necessariamente a plasmare l’esercizio dell’attività. Seconda categoria: appartengono varie specie di regole cautelari, tutte accomunate dal fatto che la loro osservanza si impone in un momento anteriore rispetto al successivo esercizio dell’attività pericolosa dato che la sua pericolosità non sarebbe fronteggiabile con le regole modali. La regola “dell’astensione” impone al soggetto, privo delle capacità di uniformare la condotta pericolosa all’osservanza delle regole modali, di non intraprendere la condotta stessa. Egli si è assunto il rischio di quelle violazioni e anche degli eventi ad esse connessi (colpa per assunzione). Culpa in eligendo e culpa in vigilandoàquando la condotta pericola è attuata da soggetti terzi e la violazione delle regole cautelari modali non può essere messa a carico di chi si è limitato ad incaricare un terzo dell’esercizio dell’attività pericolosa. Ciò non esclude che il mandante non debba rispondere per la violazione di cautele doverose concernenti la scelta di persona adatta e competente allo svolgimento dell’attività o concernente la vigilanza sull’esercizio dell’attività pericolosa. 7.2.5. La colpa nell’esercizio dell’attività sanitaria, in particolare. 77 La responsabilità per la causazione colposa di morte o lesioni nell’esercizio della professione sanitaria è oggetto di una disciplina speciale prevista dall’art. 590-sexies c.p., introdotto dalla legge 8 marzo 2017 n. 24. àLa ratio è chiaraàla previsione della non punibilità risponde ad un’esigenza di non essere esposti alla spada di Damocle di un’azione penale per ogni evento avverso che si può produrre nell’esercizio di un’attività altamente rischiosa e caratterizzata da una grande incertezza scientifica e complessità tecnica. La norma tende ad evitare il ricorso alla giustizia penale in quanto più rapida e meno costosa dell’azione di risarcimento del danno. La formulazione dell’art. 590-sexies è indecifrabile e risulta oscura in quanto sembrerebbe escludere la punibilità del comportamento non colposa, il che sarebbe ovvio e superfluo; occorrerebbe l’assenza sia di colpa specifica che di quella generica. Interpretazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazioneàla causa di non punibilità opera in relazione all’imperizia, con la conseguenza che ogni causazione di morte o lesioni per negligenza o imprudenza rientra nella disciplina comune. Si ritaglia una particolare forma di violazione che si distingue da quell’osservanza che costituisce un presupposto della causa di non punibilità. Si dovrà distinguere tra l’osservanza consistente nella scelta delle raccomandazioni o buone prassi appropriate e l’inosservanza consistente nella cattiva esecuzione di quelle regole prescelte: quest’ultima sarà esente da pena. 7.2.6. Il principio di affidamento. Una pluralità di condotte tenute da soggetti diversi e tutte pericolose rispetto ad uno stesso evento lesivo interferiscano tra loro, come nel campo della circolazione stradale. Ciascuno è destinatario di regole cautelari di contenuto diverso ma finalizzate ad evitare un medesimo risultato lesivo. Data l’interazione che esiste tra le condotte dei soggetti diversi, ciascuno di loro trova nella condizione di poter prevenire il comportamento eventualmente inosservante degli altri soggetti interagenti, così che diventa destinatario di un generale obbligo cautelare di adeguare la propria condotta all’eventuale inosservanza altrui. Se però l’obbligo cautelare avesse questa estensione, derivante dalla “diffidenza” nei confronti dell’osservanza da parte degli altri concorrenti nello svolgimento di attività necessariamente tra loro coordinate, si determinerebbe un intollerabile intralcio allo svolgimento di attività che sono socialmente utili. Il generico obbligo cautelare di prevenire l’inosservanza delle regole e delle leges artis da parte degli altri soggetti che interagiscono con attività pericolose per il medesimo bene giuridico, trova un limite nel principio di affidamentoàil soggetto che interagisce con altri è autorizzato a fare assegnamento sull’osservanza delle regole cautelari da parte degli altri soggetti. A) Il principio di affidamento ha un duplice fondamento sostanziale che ne fa uno strumento giuridico imprescindibile nelle nostre società, in cui il coordinamento tra attività svolte da più soggetti e tutte pericolose rispetto allo stesso evento lesivo è un fenomeno vasto e diffuso. In primo luogo, il principio di affidamento corrisponde ad un’esigenza di utilità sociale, poiché se la cautela di goni soggetto cooperante dovesse estendersi alla prevenzione dell’altrui negligenza, il fatto stesso della cooperazione si convertirebbe in fattore di ostacolo o di paralisi di attività socialmente utili. In secondo luogo, il principio di affidamento risponde anche ad una logica giuridica, poiché è razionale che l’ordinamento della società si fondi sulla plausibile presunzione che i soggetti si uniformino ai precetti giuridici piuttosto che sulla contraria presunzione di una loro generalizzata inosservanza. La prospettiva di gravare determinati soggetti di ulteriori obblighi cautelari al fine di prevenire l’incautela altrui non sembrerebbe conforme all’idea di giustizia e di un’equa ripartizione dei doveri, poiché si verrebbe a restringere per principio la sfera di libertà di alcuni in ragione del comportamento antigiuridico di altri. B) limitiàvi sono situazioni in cui, non essendo più plausibile l’affidamento sull’altrui osservanza delle regole cautelari, si riespande l’obbligo di prevenire l’altrui comportamento concorrente col proprio nella produzione del pericolo per lo stesso bene giuridico. L’altro limite: opera in presenza di una situazione giuridica in cui il soggetto è tenuto ad un’attività di controllo sull’operato altrui che gli impedisce giuridicamente di fare affidamento sull’osservanza delle regole cautelari da parte degli altri o limita questa possibilità, con la conseguenza che il discrimine della cautela doverosa risulta non individuabile facilmente al confine tra affidamento e controllo. C) La giurisprudenza dopo aver a lungo manifestato la tendenza ad una sottovalutazione del principio di affidamento mediante sopravalutazione dei suoi limiti, sembra più sensibile al principio in nome sia di esigenze di sensatezza del sistema e di equità sia del superiore principio di personalità della responsabilità con conseguente attenzione alle concrete e reali possibilità di prevedere l’altrui inosservanza. 7.2.7. L’imputazione del risultato colposo. A) Affinché possa essere affermata una responsabilità colposa occorre il risultato offensivo tipico che si sia prodotto come conseguenza naturalistica di una condotta inosservante di una determinata regola cautelare e che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo aa fronteggiare il quale è diretta la regola cautelare violata: occorre che il risultato offensivo sia la concretizzazione del pericolo al quale guarda la regola. a) La ragione di questo requisito è che nel reato colposo esistono due momenti di disvalore, che debbono essere tenuti concettualmente distinti e devono trovare una congiunta concretizzazione fattuale. Da un lato, c’è il disvalore della condotta in quanto inosservante della regola cautelare; dall’altro, c’è il disvalore del risultato, del quale il soggetto viene pure chiamato a rispondere: il “rimprovero” a titolo colposo non riguarda solo la 80 I delitti aggravati dall’evento: sono ipotesi normative in cui, ad una condotta criminosa già punita di per sé, si aggiunge la realizzazione di un risultato offensivo cui il legislatore collega la comminatoria edittale di una pena più grave. Devono essere suddivisi in quattro categorie: 1) vi sono quelle fattispecie in cui l’evento non può in nessun caso essere voluto poiché, essendo colposa, la condotta del fatto base, il risultato di essa non può che essere non voluto. 2) vi sono quelle fattispecie in cui l’evento non può che essere voluto, poiché realizza il fine in vista del quale deve essere tenuta la condotta base. 3) vi sono quelle fattispecie in cui l’evento deve essere non voluto, poiché se fosse voluto darebbe integrato un diverso delitto doloso di cui quell’evento costituisce elemento essenziale. 4) vi sono quelle fattispecie in cui è indifferente che l’evento ulteriore sia voluto o meno. A) problema della natura giuridica delle varie tipologie di delitti aggravati dall’evento: se reati autonomi o circostanziati, è chiaro che l’atteggiamento psicologico di ciascuna di esse è compatibile sia con la natura di reato autonomo sia con quella di circostanza. Con la conseguenza che si tratta di un problema interpretativo che si pone in rapporto ad ogni singola fattispecie di parte speciale e che andrà risolto sulla base dei criteri generali elaborati per distinguere tra elementi essenziali e circostanze. Solo le fattispecie della terza categoria, se considerate autonome, potrebbero essere ricondotte alla categoria della preterintenzione in ragione dell’analogia di struttura del loro elemento soggettivo. B) problema dell’elemento soggettivo: si pone in rapporto alla terza e quarta categoria. Terzaàperché si tratta di accertare se l’evento aggravatore, oltre a dover essere non voluto, debba essere riconducibile ad una colpa dell’agente o possa essergli attribuito oggettivamente. Quartaàperché si tratta di accertare se per l’attribuzione dell’evento occorra almeno la colpa o sia sufficiente il mero nesso di causalità oggettiva. Quale che sia la natura di queste fattispecie, autonomo o circostanziate, sia necessario un atteggiamento colposo per l’imputazione dell’evento. Se si concludesse per la natura di circostanza dell’evento, esso dovrebbe essere prevedibile dall’agente in base alla disciplina generale dell’imputazione soggettiva delle circostanze di cui all’art. 59.2. Se si concludesse per la natura di elemento costitutivo della fattispecie, saremmo in presenza di un reato riconducibile allo schema di preterintenzione, in quanto tale implicante la colpa rispetto all’evento aggravante. 8.3. La cd. colpa in attività illecita. Ragioni politico-criminali della costruzione legislativa di queste fattispecie complesse, in cui un evento ulteriore rispetto ad un fatto base doloso viene posto a carico dell’agente sulla base di un atteggiamento colposo e in vista della comminatoria di una pena più grave di quella che risulterebbe dal semplice concorso tra il fatto doloso e quello colposo. Le ragioni di questa speciale gravità risiedono nel rapporto che lega l’evento più grave non voluto a quello volito dall’agente. Nel delitto preterintenzionale si tratta di due eventi caratterizzati da una certa omogeneità e che si pongono in una linea di progressione e approfondimento dell’offesa. Anche nei delitti aggravati dall’evento del terzo tipo, nonché nell’ipotesi di cui all’art. 586 c.p., noi abbiamo che un’attività illecita, potenzialmente pregiudizievole per i beni personali, concretizza la sua pericolosità in un risultato non voluto dal colpevole. Questa caratteristica è in grado di spiegare la peculiarità di queste disposizioni e del loro trattamento sanzionatorio sotto due visioni: 1) lato oggettivo: l’evento ulteriore più grave si colloca all’interno di un’area di rischio e pericolosità determinata dal fatto base. 2) lato soggettivo: si potrebbe osservare che, nel delitto preterintenzionale, la volontà del fatto base di aggredire l’incolumità fisica della vittima spesso si forma e si attua senza proporsi risultati offensivi individuati e distinti. Nei delitti aggravati dall’evento, la consapevolezza del comportamento base implica l’accettazione di quella sua generica pericolosità vero esiti ulteriori. Si nega che l’evento più grave e non volito debba essere attribuito al soggetto sulla base di un atteggiamento colposo, ritenendo sufficiente il mero rapporto di sua derivazione causale del fatto base doloso. Sarebbe impossibile rintracciare una colpa rispetto ad un evento che è conseguenza di una condotta illecita: non è possibile ipotizzare la violazione di regole cautelari rispetto ad una condotta criminosa. L’evento non voluto sarebbe il risultato di un rischio illecito, che non deve essere prodotto, e come tale sarebbe ascrivibile all’autore per il solo fatto di conseguire a quella situazione di radicale illeceità. L’unica regola che s’impone all’agente è quella dell’astensione dalla condotta illecita. A questo orientamento che trasforma la preterintenzione in un misto di dolo e responsabilità oggettiva, si contrappone l’altro che, in nome del principio di colpevolezza, non si accontenta del mero rapporto causale tra fatto voluto ed evento ulteriore, ma ne ribadisce la struttura come un misto di dolo e di colpa. Questa colpa non è cercata nella violazione delle regole inconcepibili rispetto ad attività che sono illecite per essere vietate penalmente. Il che non esclude la necessità di rintracciare una colpa in termini di prevedibilità dell’evento più grave non voluto. Problemaàsi tratta di una prevedibilità solo in astratto o in concreto. Astrattoàper affermare la responsabilità sarebbe sufficiente che l’evento concretamente verificatosi appartenga alla classe di quegli eventi che rientrano nel tipo di rischio astrattamente proprio del fatto base voluto, senza tener conto delle caratteristiche e modalità concrete con cui si realizza. Concretoà la prevedibilità dell’evento andrebbe valutata tenendo conto di tutte le circostanze peculiari del caso concreto capaci di influire sulla possibilità di prevedere l’evento da parte dell’agente modello. àCassazione a Sezioni Unite sulla responsabilità dello spacciatore di droga per la morte dell’assuntore. àtesi della colpa in concreto per violazione di una regola 81 precauzionale, in presenza della prevedibilità ed evitabilità dell’evento da valutarsi alla stregua dell’agente modello; questa è l’unica soluzione compatibile col principio di colpevolezza. La soluzione lascia perplessità per il richiamo all’inosservanza di regole precauzionali doverose e al parametro dell’agente “modello”. Nei casi di colpa in attività illecita, il criterio di imputazione dell’evento risiede in un nesso psicologico di concreta prevedibilità, cioè in una possibilità di conoscenza di un elemento del fatto, piuttosto che in un’antidoverosa violazione di una regola. La prevedibilità andrà accertata sulla base di un agente modello rispetto alle conoscenze ed esperienze del soggetto concreto agente. Attraverso un agente modello si dovranno selezionare quelle circostanze fattuali che se conosciute costituiscono motivo di prevedibilità dell’evento; si dovrà verificare se l’agente reale e concreto che ha agito era a conoscenza delle circostanze. Non è stata raggiunta una soluzione che assicuri un equilibrio tra esigenze di prevenzione generale ed efficace tutela dei beni ed esigenze di integrale rispetto del principio di colpevolezza. CAPITOLO VI: L’ANTIGIURIDICITÀ E LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. 1. L’antigiuridicità in generale. È preferibile la concezione tripartita del reatoàle cause di giustificazione vanno collocate al di là del fatto tipico, nella categoria della antigiuridicità. La ragione sostanziale sta nella diversa natura degli interessi alla cui tutela provvedono l’incriminazione del fatto tipico, individuato nei suoi elementi essenziali, e le cause di giustificazione. Un fatto tipico e colpevole è anche antigiuridico fino a che non sia commesso in una particolare situazione che lo giustificaàantigiuridicità: l’assenza di cause di giustificazione. Nel nostro sistema ispirato alla legalità, le cause di giustificazione (=scriminanti) sono previste nelle fonti formali dell’ordinamento, non potendo il giudice considerare un fatto di reato giustificato in base ad una propria valutazione della situazione in concreto. Le norme che prevedono cause di giustificazione possono essere norme non penali, che provvedono alla tutela degli interessi giudicati, in certe situazioni e a certe condizioni, prevalenti sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici. 1.1. La giustificazione: rapporto tra norme e unità dell’ordinamento. Il fenomeno della giustificazioneàpartiamo da un esempio: l’art. 266 c.p.p. autorizza le intercettazioni ambientali, giustificando un fatto previsto come reato dall’art. 615-bis c.p. Sotto il profilo logico le due norme si coordinano perfettamente in un rapporto di specialità. L’art. 266 prevede un’ipotesi speciale di indiscrezioni nell’altrui vita privata. Questa “sottofattispecie” speciale viene sottratta dall’art. 266 all’aa fattispecie generale di cui all’art 615-bis per disciplinarla in modo diverso e opposto. Non c’è contraddizione perché si tratta di fattispecie diverse, la cui diversità risiede nella relazione di specialità. Il principio di specialità comporta l’applicazione della norma di liceità senza che ciò implichi contraddizione all’ordinamento. La “sottofattispecie” di indiscrezioni nella vita privata ex art. 266 si pone al di fuori dell’art. 615-bis: la scriminante viene a incidere sui limiti di applicazione della fattispecie incriminatrice, a quest’ultima sottraendo una sottofattispecie più particolare. Dal punto di vista sostanziale le indiscrezioni private autorizzate sono diverse dal fatto di indiscrezione atipico rientrante nell’area di indifferenza giuridica, dell’art. 615-bis. Per quest’ultimo l’ord. non ha espresso un giudizio abbandonandolo all’area dell’indifferente giuridico, il fatto giustificato presenta una duplice qualificazione che mette in luce la complessità dell’equilibrio di valori e interessi assicurati con la giustificazione. Da un lato, non perde il suo disvalore; dall’altro, l’ordinamento o fa oggetto di una valutazione positiva, poiché giustificarlo significa assumerlo a contenuto di una facoltà legittima o di un dovere, cioè conferire ad esso il crisma di una giuridicità positiva. Sotto questo profilo, il fenomeno della giustificazione è espressione di una conflittualità di interessi condivisi dall’ordinamento ma rispetto ai quali si pone la necessità di una scelta. Non sempre il conflitto tra norma si risolve con il criterio della specialitààsi verifica quando la “sottofattispecie” della norma incriminatrice è prevista anche da una norma facoltizzante o impositiva di quel comportamento, ma non esaurisce il contenuto di quest’ultima, con la conseguenza che non vi può essere una specialità. Emergono altri criteri, tra cui quelli discendenti dalla gerarchia delle fonti o desunti dalla successione di leggi nel tempo. Quando nemmeno questi criteri siano utilizzabili perché manchi una relazione gerarchica o di successione cronologica tra le norme, non si procederà con i normali mezzi e procedimenti ermeneutici, cercando la voluntas legis che possa far decidere della prevalenza di un interesse sull’altro. 1.2. Cause di giustificazione e legalità. Dalla natura extrapenale delle cause di giustificazione discende una serie di importanti conseguenze. A) Il presupposto delle unità dell’ordinamento porta a parlare di un effetto della giustificazione esteso all’intero ordinamento, nel senso che la norma giustificatrice non si limita ad escludere la rilevanza penale del fatto tipico 82 giustificato, ma ne comporta la liceità totale e piena, appunto per l’intero ordinamento e l’esclusione di qualunque conseguenza sanzionatoria o negativa e non solo della pena. B) Le norme che prevedono cause di giustificazione non soggiacciono a quei requisiti di legalità che valgono per le norme incriminatrici, con la conseguenza che potrebbero essere legittime fonti delle cause di giustificazione anche atti normativi non aventi forza di legge e anche la consuetudine. Ogni norma di giustificazione, concorrendo all’individuazione di una “sottofattispecie” che essa sottrae alla portata applicativa della norma incriminatrice, implica una delimitazione di quest’ultima e una modificazione del suo contenuto normativo risultante dalla legge. Si pone il problema di come sia concepibile che fonti secondarie possano “derogare” la portata di norme legislative. Ci sono opinioni minoritarie che, per il principio della gerarchia delle fonti, hanno postulato la necessità che anche le norme di giustificazione trovino la loro fonte unicamente nella legge. C)L’ammissione che le norme di giustificazione possano trovare la loro fonte anche al di fuori della legge, secondo i principi propri del ramo di ordinamento di provenienza, può implicare costi e rischi elevati. Tre argini: a) Va considerato che anche la disciplina delle cause di giustificazione obbedisce ai principi generali in materia di fonti validi nell’area di provenienza delle scriminanti. Così, anche un regolamento o un atto amministrativo attributivi di facoltà nel nostro ordinamento una potestà normativa del potere esecutivo del tutto autonoma ed indipendente. b) Va osservato che certi beni e interessi, come i diritti di libertà, sono essi stessi coperti dalla riserva assoluta di legge. così che la previsione di facoltà o doveri implicanti limitazioni alla loro tutela penale, risolvendosi in restrizioni a quei diritti e libertà, per tale ragione non può sfuggire alla riserva assoluta di legge. c) Va osservato che l’eventuale norma giustificativa di fonte secondaria deve rispettare i principi contenustici fondamentali dell’ordinamento vigenti nella specifica materia, pena la sua disapplicazione. L’unità dell’ordinamento, come gioca “a svantaggio” della tutela penale consentendo alle norme giustificative secondarie di limitarla, così può giocare anche “a vantaggio”, subordinando la validità di quelle norme alla loro conformità ai principi dell’ordinamento. Non è escluso che alla formazione di quei principi possono concorrere anche le norme incriminatrici, in una circolarità dell’ordinamento che è espressione della sua vitale complessità. 1.3. Cause di giustificazione, dolo ed errore. Nell’analisi dei rapporti tra cause di giustificazione e dolo occorre distinguere delle ipotesi: A) La prima è quella in cui il soggetto agisca nell’ignoranza di una causa di giustificazione in realtà esistente. Siffatta disciplina è coerente con la natura delle cause di giustificazione, che non possono che operare oggettivamente per il fatto della solo loro esistenza, sia che si ritenga che la loro presenza escluda la tipicità sia che si ritenga che escluda l’antigiuridicità. Non mancano orientamenti dottrinali tesi a mettere in luce alcune componenti soggettive implicite e necessarie alla struttura stessa delle scriminanti. Così che la loro mancanza ne esclude la stessa esistenza obiettiva. B) La seconda ipotesi è quella della erronea supposizione di una causa di giustificazione inesistente. Occorre distinguere a seconda che l’erronea supposizione nasca da un errore di diritto (=sulla configurazione legale della scriminante) o da un errore di fatto (=da una difettosa percezione o valutazione della situazione di fatto in cui ci si è trovati ad agire). Per la primaàtrattandosi di un errore sui limiti legali della liceità, esso viene parificato all’errore sul precetto, sulla norma incriminatrice, così da incidere sulla colpevolezza alla condizione che si tratti di errore inevitabile. Per il secondoàtrattandosi di un errore che concerne i limiti fattuali e concreti da cui dipende la liceità del comportamento, esso è stato da legislatore equiparato all’errore sugli elementi essenziali del fatto tipico che esclude il dolo. Dispone l’art. 59.4 che l’erronea supposizione di una causa di giustificazione inesistente esclude incondizionatamente la responsabilità dolosa, lasciano residuare una responsabilità colposa quando il reato sia punito anche a tale titolo e l’errore sia dovuto a colpa. C)Il soggetto può agire in presenza di una causa di giustificazione, ma superandone i limiti: eccesso dei limiti della scriminante. àOccorre distinguere se l’eccesso è realizzato nella consapevolezza o no di oltrepassare i limiti della scriminante. a) consapevolezzaàeccesso doloso, nulla quaestio poiché l’agente risponderà del fatto non giustificato a titolo doloso. b) no consapevolezzaàil fatto, pur volontario, è realizzato nella consapevolezza di una scriminante di cui si oltrepassano inconsapevolmente i limiti di giustificazione per un errore su questi ultimi. Questo errore può consistere in un difetto di valutazione dei limiti o in un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione. àIn entrambi i casi la situazione è analoga all’ipotesi di fatto realizzato nell’erronea supposizione dell’esistenza di una scriminante. E anche il trattamento è il medesimo. Pertanto, la regola generale è che, se l’eccesso non è attribuibile a colpa, il soggetto non è responsabile per mancanza dell’elemento soggettivo; se l’eccesso è colposo, l’art. 55 dispone che l’agente risponderà per colpa, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come colposo. àgrazie alle modifiche (legge 36/2019) è stata introdotta una regola per la legittima difesa domiciliare: se l’eccesso di reazione difensiva è dovuto a condizioni di “minorata difesa” o di “grave turbamento” psichico, anche l’eccesso colposo va esente da responsabilità. 1.4. Antigiuridicità ed illeceità penale. 85 tratta di atti che, secondo le correnti valutazioni sociali, non implicano alcun sacrificio o menomazione per la personalità del titolare, essi si collocano nella fera di disponibilità incondizionata ed indifferenziata tipica dell’esercizio di un potere di autodeterminazione. Nelle ipotesi di atti implicanti un obiettivo sacrificio, un “costo” per il soggetto che li subisce, la possibilità di validamente disporne è subordinata alla considerazione dell’interesse per cui il soggetto rinuncia al bene, sopporta il sacrificio. Con la conseguenza che la possibilità di disporre die propri beni con tali atti verrà a dipendere dal bilanciamento effettuato tra l’entità oggettiva del “sacrificio” in essi implicato e il valore a cui quel sacrificio è strumentale. Questo giudizio di bilanciamento tra disvalore della oggettiva menomazione del bene e valore dell’interesse con essa perseguito entra nella struttura della scriminante attraverso il concetto di disponibilità, previsto dall’art. 50. 2.1.2. Le condizioni di validità del consenso. Per essere efficace il consenso deve essere validoàREQUISITI DI VALIDITÀ relativi all’oggetto, al soggetto e alla formazione dell’atto di volontà. A) oggettoà diritto disponibile. Si distingue fra tre categorie di diritti quanto alla loro disponibilità: 1) diritti assolutamente disponibiliàgli interessi patrimoniali, rispetto ai quali il potere di disposizione costituisce uno dei contenuti imprescindibili dei relativi diritti. 2) assolutamente indisponibiliàil diritto alla vita (la sua indisponibilità deriva dall’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente), gli interessi diffusi e collettivi (deriva dal fatto che facendo essi riferimento ad una pluralità indeterminata di persone non esiste un soggetto determinato o una pluralità di soggetti determinati legittimati a disporne), gli interessi pubblici dello Stato e degli altri enti pubblici (consegue dalla loro oggettiva disciplina e natura giuridica), interessi pubblici che trovano il loro punto di riferimento in termini di titolarità nello Stato comunità. 3) relativamente disponibiliài beni personalistici, quali l’integrità fisica, la libertà, l’onore. Art. 5 c.c.: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume”. Nonostante che la disposizione civilistica faccia riferimento alla sola “integrità fisica”, si ritiene che sia estesa anche agli altri beni personalistici la cui offesa è quantitativamente graduabile, come libertà e onore. La maggioranza della dottrina e la giurisprudenza ritengono che l’art. 5 possa essere richiamato per individuare i limiti di disponibilità dei beni personali, oltre che ai fini della validità civilistica degli atti di loro disposizione, anche ai fini della validità del consenso penalmente scriminante. La portata deve essere ridimensionata in relazione alla sua ratio. Gli atti di disposizione dell’art. 5 sono solo quelli a svantaggio del soggetto disponente; quelli a vantaggio non ricadono sul divieto ancorché comportino una “diminuzione permanente della integrità fisica”. Il consenso è valido entro il limite della “diminuzione permanente” quali siano gli scopi, gli interessi perseguiti dal soggetto, sempre che esso non contrasti con specifiche disposizioni di legge, con l’ordine pubblico o il buon costume. Al di là di quel limite relativo all’intensità della menomazione, il consenso sarà sempre invalido, salvo che particolari previsioni di legge in deroga all’art. 5 autorizzino atti dispositivi in ragione di speciali interessi la cui considerazione è rimessa alla valutazione astratta ed esclusiva del legislatore. I limiti di disponibilità dei beni relativamente disponibili sono fissati in astratto: al di sotto della menomazione permanente ex art. 5 non rilevano gli scopi per cui il soggetto dispone; al di sopra di quel limite, gli scopi sono decisivi ma in quanto valutati specificatamente come meritevoli dal legislatore. B) soggetto legittimato a disporre del bene mediante consensoàil suo titolare: la persona che sarebbe offesa dal fatto criminoso se questo fosse commesso in assenza del consenso. Si ritiene che generalmente il consenso possa essere validamente prestato dal rappresentante volontario o legale del titolare del bene. Nell’ipotesi in cui si verifichi un conflitto tra la manifestazione del rappresentante e quella del rappresentato che sia capace di consentire, è preferibile la tesi che accorda la prevalenza alla volontà del titolare. Nel caso di contitolarità è necessario il consenso di tutti i contitolari dello stesso interesse. Capacitààin assenza di una normativa al riguardo e in considerazione del ruolo del consenso, è sufficiente e necessaria la capacità naturale, cioè di intendere e di volere da accertare dal giudice in concreto con riguardo all’atto di disposizione di cui si tratta. C) formazione del consensoàesso è un atto di volontà avente ad oggetto il fatto tipico. si tratta di un atto di volontà nel senso dell’accettazione della realizzazione del fatto tipico da parte di altri. L’oggetto dell’accettazione è costituito da tutti gli elementi del fatto concreto corrispondenti alla fattispecie, i quali possono essere accettati anche implicitamente. Il consenso può essere condizionato anche dalla presenza di determinate circostanze di fatto estranee alla fattispecie. Come tutti gli atti di volontà, il consenso deve essere immune dai vizi consistente nella violenza, errore ed inganno. Non occorre né la conoscenza del consenso del soggetto attivo né una manifestazione qualsiasi neppure tacita del consenso da parte del titolare, ma semplicemente la sua esistenza “intima” nella psiche del consenziente. àAlla prima conclusione: si giunge grazie all’art. 59.1 c.p., secondo il quale le cause di giustificazione operano oggettivamente, anche se non conosciute dall’agente. Seconda conclusione: si giunge in considerazione del fatto che l’efficacia del consenso dipende dal rapporto di tutela sussistente tra il bene e il suo titolare, da quel legame funzionale tra soggetto e bene che è nella disponibilità della volontà del soggetto, con la 86 conseguenza che la manifestazione esteriore del consenso non può aggiungere niente alla sua efficacia. In assenza di una manifestazione esteriore, si porrà il problema di provarne l’esistenza “intima”. Sarà necessario potersi riferire ad elementi contestuali al fatto, equivoci ma suscettibili di assumere un significato probatorio dell’esistenza del consenso alla luce della successiva dichiarazione processuale. Il consenso deve sussistere al momento del fatto: fino alla realizzazione del fatto offensivo esso è revocabile. Non avrebbe efficacia un consenso successivo. ànon ha rilevanza il consenso presunto, distinto da quello putativo. Consenso putativoàsi ha quando il soggetto ritiene erroneamente esistente un consenso che non c’è. L’art. 59.4 stabilisce che le cause di giustificazione erroneamente supposte escludono la punibilità a titolo di dolo, salva una eventuale responsabilità a titolo di colpa alla duplice condizione che il fatto sia previsto anche nella forma colposa e che l’errore dell’agente sia effettivamente imputabile a sua colpa. Consenso presuntoàl’agente è perfettamente consapevole dell’inesistenza di un consenso che l’interessato non era in grado di manifestare, ma si può supporre che egli, se avesse potuto, avrebbe consentito. Ribadito il principio che il consenso dell’avente diritto non può operare in via presuntiva, si ritiene che le ipotesi in cui il fatto ridondi a vantaggio dello stesso soggetto “offeso”, possano essere giustificate in ragione dell’istituto civilistico della negotiorum gestio e come esercizio di un diritto o adempimento di un dovere. D) Discussa è l’efficacia scriminante del consenso rispetto ad un reato colposoà la giurisprudenza la esclude sul presupposto che nel reato colposo il risultato offensivo deve essere non voluto dall’agente, mentre il consenso dell’avente diritto implica necessariamente l’accettazione volontaria di quel risultato. Sembra che l’orientamento giurisprudenziale presupponga una concezione negoziale dell’avente diritto, cioè l’idea che il consenso implichi un incontro di due volontà sullo stesso oggetto. Il consenso va inteso come un atto di volontà del titolare del bene, la cui efficacia dipende dalla solo sua esistenza “intima” senza necessità né di una manifestazione né di una conoscenza da parte dell’agente. Affinché il consenso possa scriminare un reato colposo, occorre che l’accettazione del titolare non si limiti alla sola attività pericolosa, ma investa anche l’evento lesivo che costituisce la concretizzazione di quel pericolo. Il consenso ad un reato colposo non avrà efficacia scriminante in tutti i casi in cui l’attività pericolosa consentita sia lesiva di interessi anche di terzi. 2.2. Esercizio del diritto e adempimento del dovere, Art. 51 c.p.: “L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. àL’effetto giudicante discende direttamente dalla norma attributiva del diritto o impositiva del dovere in virtù del principio della unità dell’ordinamento giuridico, c con la conseguenza che l’art. 51 si rivela inutile. Opinione condivisa è che la nozione di dirittoàintesa in senso atecnico, comprensiva del diritto soggettivo in senso proprio e di qualsiasi altra facoltà di agire riconosciuta. I problemi interpretativi posti da queste due cause di giustificazione sono simili e concernono: 1) le fonti del diritto e del dovere scriminanti; 2) l’individuazione delle condizioni e dei limiti della loro portata scriminante. 2.2.1. Le fonti del diritto e del dovere scriminanti. A) fontiàprima questione: ammissibilità delle fonti secondarie attributive di diritti e di doveri scriminanti: a) Le cause di giustificazione non soggiacciono al principio di legalità operante per le norme incriminatrici e per quelle che stabiliscono “effetti penali”. Il diritto o il dovere scriminante possono trovare la loro fonte anche in atti subordinati alla legge e si desume dall’art. 51 là dove prevede che il dovere sia imposto da una norma giuridica o da un ordine dell’autorità. È evidente che la previsione di un diritto o di un dovere da parte di una norma extrapenale deve obbedire ai principi sulla produzione delle norme nel settore normativa di cui si tratta. b) Non condivisibile l’idea che sia necessaria la “mediazione” di una fonte primaria affinché il diritto/dovere possa produrre l’effetto giustificante, in ragione del principio della gerarchia delle fonti. Posto che solo la legge può essere fonte di norme incriminatrici, posto che la causa di giustificazione comporta una deroga alla norma incriminatrice, ne conseguirebbe che anche il diritto/dovere scriminante dovrebbe ricavare da una fonte primaria la sua esistenza per poter produrre un effetto derogatorio. La norma di giustificazione proveniente da una fonte extrapenale in senso formale si può dire che “deroghi” alla norma incriminatrice, essendo il principio dell’unità dell’ordinamento a imporre l’instaurarsi di quel rapporto per cui la norma scriminante prevale su quella incriminatrice. A smentire l’indispensabilità di questa “base” o “mediazione” legislativa al diritto/dovere scriminante c’è l’ipotesi in cui il diritto scriminante sembra trovare la sua unica fonte nella consuetudine. Nel nostro ordinamento la produzione normativa è ispirata al principio generale per cui non esistono fonti secondarie dotate di una capacità di produzione normativa autonoma e indipendente dalla legge: il principio di legalità tende ad escludere la possibilità di una fonte secondaria autonoma. c) Inaccoglibile l’idea che sia l’art. 51 a fornire la base o mediazione legislativa affinché fonti secondarie possano produrre l’effetto di giustificazione. Questa opinione si rivelerebbe più di una finzione. L’art. 51 è una norma vuota di contenuti: non può offrire quella cornice contenutistica alle fonti secondarie attributive di diritti o impositive di doveri, che è invece postulata da chi si muove nella prospettiva del rapporto derogatorio tra norma incriminatrice e causa di giustificazione. B) seconda questione: l’efficacia scriminante delle fonti eurounitarie e delle fonti regionali, le quali pur non avendo carattere secondario rispetto alla legge statale pongono problemi. Il principio dell’unità dell’ordinamento 87 costituisce la chiave per comprendere come una norma attributiva di un diritto o impositiva di un dovere possa prevalere su una norma incriminatrice necessariamente legislativa, quale che sia il rango della prima, venendo rispettate le regole sulla produzione giuridica e sia utilizzabile uno dei criteri per la soluzione dei conflitti tra norme. L’unità dell’ordinamento ha subito una crisi e si è assistito ad una diversificazione delle fonti con l’ingresso di fonti non statali, capaci di mettere in discussione la base unitaria e sono: a) fonti eurounitarieàregolamenti europei (direttamente applicabili e primato sul diritto interno) possono attribuire ai cittadini facoltà il cui esercizio può produrre un effetto scriminante, se incompatibile con una norma interna incriminatrice; se la incompatibilità fosse totale, la norma interna sarebbe destinata a non essere più applicata. Punto di vista politico-sostanzialeàpresuppone che sussista una omogeneità di fondo tra gli orientamenti statali e quelli europei, per far sì che il fenomeno della giustificazione resti nella dinamica fisiologica di una vitalità interna ad un ordinamento europeo solo conflittuale che vedrebbe lo Stato nazionale, i suoi interessi e la sua politica soccombenti. b) fonti regionalià è una fonte primariaàqui l’unità potrebbe essere la condizione in virtù della quale la previsione di facoltà scriminanti da parte delle regioni finirebbe per produrre una neutralizzazione della politica criminale perseguita dal parlamento nazionale. È noto come sia frequente un rapporto di contrapposizione fra politiche regionali e nazionali. Dopo la riforma dell’art. 117 Cost. si distingue fra materie di legislazione esclusiva statale, materie concorrenti fra le due e materie di legislazione esclusiva delle regioni. Posto che la norma penale può essere adottata dallo Stato solo in presenza di esigenze di tutela fondamentali, essenziali e non realizzabili, è plausibile la presunzione che la norma penale sia espressione di principi fondamentali della disciplina e come tale non derogabile dalla norma regionale attributiva di tale facoltà. C’è un irrigidimento della dinamica normale dei rapporti tra fonti nell’unità dell’ordinamento, stabilito dalla Costituzione in ragione della natura degli organi titolari del potere di produzione giuridica e della natura delle materie. 2.2.2. La portata scriminante del diritto e del dovere, Il problema dell’esatta individuazione della portata scriminante dei diritti/doveri deriva dalla diversa tecnica di formulazione delle norme incriminatrici e giustificanti. Le norme incriminatriciàdevono obbedire al principio di legalità e a quello di tipicità, per cui prevedono fattispecie delimitate, ipotesi fattuali descrittivamente circoscritte su comportamenti definiti. Norme attributive di diritti/doveriàpresentano una formulazione ampia, in cui non sono stagliati i comportamenti autorizzati o imposti, anche perché spesso i comportamenti funzionali alla realizzazione dell’interesse perseguito dalle norme extrapenali sono numerosi e diversificati. Non sempre il contenuto del diritto scriminante è definito con precisione, esistono diritti il cui contenuto è desunto da una interpretazione. Questa caratteristica differenziale tra le norme incriminatrici e quelle che prevedono diritti/doveri comporta difficoltò sul piano interpretativo per definire il loro rapporto reciproco, per decidere la prevalenza della norma penale o di quella extrapenale. I problemi interpretativi sono tre: 1) Si pone il problema di individuare i limiti del contenuto del diritto/dovere, per verificare se un certo comportamento si ponga al di fuori dell’area dell’esercizio del diritto/dovere. 2) Si pone il problema di accertare se la norma incriminatrice costituisca o meno un limite all’esercizio del diritto/dovere. 3) Si pone il problema di accertare quale debba essere la norma prevalente nelle ipotesi di conflitto di norme che non possa essere risolto sulla base dei criteri logico-formali dei rapporti tra norme. Nonostante l’apparente ovvietà dell’art. 51, a parte i casi in cui il rapporto di specialità unilaterale è desumibile chiaramente dalla formulazione delle norme, l’effettiva portata scriminante di un diritto/dovere determinato è il risultato di una complessa operazione interpretativa, nella quale il giudice finisce per confrontare gli interessi sostanziali tutelati dalle due norme, pur sempre nel quadro collettivo delle indicazioni ricavabili dall’ordinamento. 2.2.3. L’ordine dell’autorità. Il dovere di compiere un fatto previsto dalla legge come reato può essere imposto direttamente da una norma giuridica di portata generale (legge, regolamento) o può discendere da un ordine dell’Autorità. àl’art. 51 si riferisce agli ordini esclusivamente dell’autorità e per questo nessuna efficacia scriminante potrà essere attribuita ad ordini provenienti da privati, seppur in posizione di superiorità di diritto o di fatto. Questo non esclude che della presenza di eventuali ordini privati e dei loro effetti “compulsivi” sulla psiche del soggetto esecutore si possa tener conto in sede di accertamento e graduazione della colpevolezza dell’agente. L’esistenza di un ordine dell’autorità rende complessa la struttura della causa di giustificazione sia a causa della presenza necessaria di due soggetti nella vicenda, sia a causa della relazione di conformità o difformità dell’ordine rispetto alla legge. A) ordine legittimoànon sorgono problemi particolari. Per il superiore che lo impartisce, il fatto di ordinare la commissione di un fatto penalmente tipico, partecipando “moralmente” con una condotta psicologicamente causale alla sua realizzazione (art. 110), costituirà esercizio di una facoltà o adempimento di un dovere previsti dalla norma giuridica da cui l’ordine trae la sua legittimità. Per l’inferiore che lo esegue, la commissione del fatto penalmente tipico costituirà per l’adempimento del dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità (art. 51.1). B) ordine illegittimoà la responsabilità dei due soggetti, superiore e inferiore, si differenzia. 90 dilatarsi sia nel senso ammetterla per la tutela di diritti propri e altrui, sia nel senso di svincolarla tanto dal requisito di proporzione tra gli interessi dell’aggredito e dall’aggressore quanto dal requisito della assoluta necessità difensiva. b) individualisticaà la legittima difesa costituisce il riconoscimento di una specie di diritto “naturale” alla autotutela, che il cittadino vanta nei confronti dello Stato e del suo monopolio dell’uso della forza: un diritto individuale che affonda le sue radici nello stesso istinto di conservazione dell’uomo che non potrebbe essere soppresso senza con ciò violare una libertà fondamentale. La dilatazione dei suoi limiti, essendo evidente che l’interesse del cittadino ingiustamente aggredito poter reagire tempestivamente, efficacemente e sicuramente possibile, così come poter esercitare il suo diritto incondizionatamente senza cioè essere costretto a valutare prima e a adottare vie d’uscita. B) Il problema della legittima difesa è quello di prevenire alla configurazione di una fattispecie dotata di limiti adeguati a contenere quella dilatazione verso la quale la sospinge il suo duplice fondamento. Nella prospettiva statalistica deve essere evitata una involuzione autoritaria dell’istituto in cui la difesa privata divenga lo strumento privilegiato per una tutela anticipata dell’ordinamento, nella prospettiva individualistica deve essere evitato di fare della legittima difesa il veicolo per lo sfogo della litigiosità e dell’aggressività dei cittadini. L’esigenza di contenere la tendenza espansiva della legittima difesa è affidata al limite della proporzione. C) Il fatto difensivo, nei limiti della giustificazione stabiliti dalla legge, è considerato conforme agli scopi e ai valori dell’ordinamento, con la conseguenza che esso sarà lecito, come confermato dall’art. 2044 cc che esclude la conseguenza giuridica anche solo civile per chi agisce in legittima difesa. 2.3.2. I requisiti strutturali della legittima difesa, Elementi di strutturaàdue riforme: 2006 e 2019àoggi esistono due forme di legittima difesa: generale, disciplinata dal primo comma art. 52 e quella speciale cd. domiciliare, disciplinata dai commi seguenti dello stesso art. I due poli della fattispecie sono costituiti dall’aggressione da un lato e dalla reazione difensiva dall’altro. 2.3.2.1. L’aggressione ingiusta. A) L’aggressione ingiusta ha ad oggetto un “diritto proprio o altrui”ànozione di diritto: intesa nell’ampio significato di qualunque situazione giuridica soggettiva attiva di cui sia titolare un soggetto determinato. a) Quelle viste non sono le uniche situazioni giuridiche a poter vantare esigenze difensive tanto nella prospettiva statalistica quanto in quella individualistica dell’istitutoàper diritto devesi intendere, oltre il diritto soggettivo, anche diritto potestativo, l’interesse legittimo, le potestà, ecc. Questa ampiezza deve fare i conti con la compatibilità tra la loro specifica natura e la struttura della legittima difesa. Tutto ciò non esclude che tutte le situazioni giuridiche attive di soggetti determinati siano difendibili. b) Fondamentale è la delimitazione a situazioni giuridiche attive di soggetti determinati, ricavabile dall’art. 52 che parla di diritto proprio o altrui. Non potranno essere oggetto di reazione difensiva gli interessi pubblici dello Stato-ordinamento e gli interessi diffusi e collettivi. Tali andrebbero a snaturare l’istituto, sganciandolo dal suo fondamento costituito dal diritto individuale di autotutela privata e facendone uno strumento di salvaguardia dell’ordinamento e della legalità. c) È possibile reagire in difesa dei diritti propri e altrui (soccorso difensivo)àè conforme all’idea pubblicistica e sanzionatoria dell’istituto, mentre solo valorizzando oltre misura un generale principio di solidarietà sociale il soccorso difensivo potrebbe essere ricondotto ad un fondamento di autotutela privata. B) La situazione aggressiva è indicata dall’art. 52.1 come quella del “pericolo attuale di un’offesa ingiusta” (o a un diritto proprio o altrui). a) pericoloàdeve essere valutato sulla base di tutte le circostanze esistenti al momento del fatto come sono state individuate ex post in sede giudiziale e secondo un parametro scientifico-empirico altrettanto oggettivo. Il pericolo deve essere attuale, presente, mentre futura sarà l’offesa ingiusta. Non vi può essere difesa legittima, tout court, quando l’offesa si sia già realizzata o il pericolo sia passato senza essersi verificata l’offesa. Così come non vi può essere quando il pericolo non sia sorto ancora. Il punto delicato concerne il rapporto che deve legare il pericolo dell’offesa temuta e la reazione difensiva: rapporto che può essere più o meno stretto. Questo requisito fattuale dev’essere interpretato con riferimento alla “necessità” difensiva, vi è una sostanziale unanimità nel ritenere che la difesa sia legittima in tutti i casi in cui il rapporto tra offesa temuta e reazione difensiva si ponga cronologicamente nei termini dell’immediata prossimità dell’offesa o della contestualità o dell’immediata successione della difesa. 1) prima situazioneàl’imminenza dell’offesa è conforme alla logica della legittima difesa implicando essa che la minaccia stia per degenerare nella realizzazione dell’offesa. 2) contestualitààdella reazione all’aggressione in atto, la legittimità della reazione è conforme alle esigenze della difesa contro il rinnovarsi o il protrarsi dell’offesa fino alla sua integrale consumazione. 3) problematica è l’ipotesi di difesa successiva all’offesa (già realizzata) e finalizzata ad impedire il consolidamento della situazione antigiuridica. In quanto l’immediatezza della reazione successiva all’offesa consenta di neutralizzare quest’ultima, conseguendo un risultato “difensivo” che sarebbe impossibile per gli 91 organi repressivi dello Stato, può dirsi che la situazione è conforme alle esigenze della difesa legittima, mentre al di là dell’immediatezza dell’offesa l’intervento successivo del privato presenterebbe difficoltà ed aleatorietà pari o superiore a quelle dell’intervento pubblico, così da non giustificare la sua reazione. 4) problematica è la situazione in cui la reazione difensiva, antecedente l’offesa, sia tenuta prima dell’imminenza perché essa non potrebbe essere efficace. Si tratta delle situazioni in cui l’esigenza difensiva si manifesta “ora o mai più”. Parte della dottrina ha ritenuto tale situazione estranea a quel rapporto di prossimità cronologica che dovrebbe legare pericolo all’offesa e reazione difensiva, con la conseguenza o di espungere dalla legittima difesa le ipotesi in cui la necessità difensiva si pone “ora o mai più” o di pervenire ad un’applicazione analogica della scriminante. Non sembra che esistano ostacoli normativi a ritenere che anche le situazioni dell’ora o mai più possano essere ricondotte all’art. 52. Questo non indica espressamente il rapporto che deve sussistere tra pericolo e difesa, essendo chiaro che l’attualità è riferita esclusivamente al pericolo, che deve essere presente al momento della reazione difensiva. Quel rapporto si precisa implicitamente in base alla ratio della norma, cioè dalla “necessità” di difesa: se di regola la necessità difensiva si manifesta a causa della prossimità cronologica dell’offesa, nei termini prima individuati, niente esclude che anche situazioni prive delle prossimità cronologica possano implicare quella stessa necessità difensiva. b) Il pericolo deve avere ad oggetto un’offesa ingiusta. 1) offesaàindica un fatto aggressivi di una situazione giuridica attiva. Si tratta di un’aggressione proveniente da un uomo, l’aggressore, nei cui confronti viene rivolta la reazione difensiva, sia che sia tenuta dallo stesso soggetto aggredito sia che sia esercitata da un soggetto terzo a vantaggio dell’aggredito (soccorso difensivo). L’offesa consisterà necessariamente in un comportamento umano, che niente impedisce possa essere anche di natura omissiva, legittimando una reazione difensiva violenta per costringerlo ad attivarsi. Sono riconducibili ad un comportamento umano anche le aggressioni provenienti da animali o cose, quando questi siano attivate dall’uomo o quando siano sfuggite al controllo di chi è tenuto all’esercizio di compiti di sorveglianza. Sempre che sussistano gli altri estremi della legittima difesa, la reazione difensiva potrà intervenire operando sia nei confronti del soggetto umano cui è riconducibile l’offesa materialmente recata dall’animale o dalla cosa sia nei confronti direttamente dell’animale o della cosa. 2) Perché sussista la difesa legittima non basta che vi sia il pericolo attuale di una aggressione ad un “diritto”: occorre che l’aggressione sia qualificabile come “ingiusta”. L’aggressione “giusta” (conforme agli obiettivi e regole dell’ordinamento) non potrebbe autorizzare la sua impedibilità. Il concetto di ingiustizia dell’offesa rinvia ad una gamma differenziata di possibili relazioni tra l’aggressione e l’ordinamento. Ad un estremo di questo ventaglio di possibilità vi sono ipotesi in cui l’aggressione ad un diritto individuale è vietata dalla legge, così da essere qualificabile come “ingiusta” in quanto contra ius. All’estremo opposto vi sono le ipotesi in cui l’aggressore è recata iure in quanto oggetto di una facoltà legittima o di un adempimento doveroso, così da poter essere con certezza qualificata come “giusta”. Tra questi due estremi ci sono i casi in cui, non essendo l’aggressione né vietata né contro oggetto di una previsione “positiva”, si tratta di verificare se essa possa essere considerata inferta non iure e qualificata come “ingiusta” nel senso di non giustificata giuridicamente. “non ingiusta” è l’offesa che sia disapprovata solo moralmente o socialmente. Quando sia desumibile da singole norme o dai principi dell’ordinamento una valutazione giuridica negativa, anche a prescindere da conseguenze giuridiche sanzionatorie, il fatto offensivo deve ritenersi “ingiusto” e impedibile con la legittima difesa. 3) Il carattere contra ius e non iure dell’aggressione e dunque la sua qualificazione in termini di antigiuridicità implica la necessità che il comportamento aggressivo sia dotato di tutti i connotati e i contrassegni del fatto illecito. Se l’aggressione è giustificata da una scriminante, essa non potrà legittimare una reazione difensiva. Il fatto aggressivo accompagnato da una causa di non punibilità in senso stretto mantiene la sua antigiuridicità intatta. Più problematica è la soluzione per quanto riguarda le aggressioni realizzate in stato di necessità. Questo, pur escludendo penalmente lecito il fatto necessitato, lascia sopravvivere delle conseguenze civili consistente nell’obbligo di corrispondere un equo indennizzo alla vittima. Lo stato di necessità esclude l’antigiuridicità solamente penale, mentre lascia sussistere quella extrapenale con la conseguenza che il fatto può dirsi realizzato qualificato come un’offesa ingiusta ai fini della legittimità della reazione difensiva contro di esso. Ad analoghe conclusioni si giunge a proposito del fatto commesso in esecuzione di un ordine illegittimo insindacabile. Considerato che di quel fatto criminoso risponderà sempre il superiore che ha dato l’ordine, si deve concludere che anche l’esecuzione di un ordine criminoso insindacabile, pur essendo penalmente lecita, non può dirsi giusta ai fini dell’art. 52, con la conseguenza che sarà legittima la reazione difensiva contro di essa. C’è il problema dell’”ingiustizia” di quei fatti offensivi che obiettivamente antigiuridici siano privi della componente soggettiva di colpevolezza. Qualora si concludesse nel senso che la qualificazione di ingiustizia implica anche la presenza dei coefficienti di colpevolezza, ne conseguirebbe che contro l’aggressione del non imputabile o del psicologicamente coatto non sarebbe legittimo reagire difensivamenteàsoluzione respinta per ragioni politico criminali e perché incompatibile con la ratio della legittima difesa. La reazione difensiva, pur avendo una natura in senso lato sanzionatoria, non è una pena e non postula l’esistenza di una colpevolezza; 92 essendo uno strumento di difesa dell’ordinamento contro le offese non rispondenti alle sue finalità, niente impedisce di utilizzarla legittimamente contro fatti realizzati non iure. 2.3.2.2. La reazione difensiva, La difesa per essere legittima deve essere necessaria e proporzionataàesprime un’esigenza di contenimento della scriminante, per evitare che la “meritevolezza” dell’interesse dell’aggredito rispetto a quello dell’aggressore possa condurre a legittimare sacrifici irragionevoli. L’art. 52.1àcontenimento della facoltà legittima di difesaàla tensione dialettica tra l’interesse aggredito ed esito complessivo della vicenda rimane a condizionare l’interpretazione dei requisiti della necessità e della proporzione. A) la necessitààla reazione difensiva costituisce, nella situazione concreto, l’unico mezzo per salvaguardare il bene in pericolo contro l’offesa ingiusta, il che comporta che, in presenza anche solo di una possibilità di salvezza del bene, l’aggredito è privo della facoltà di difendersi ed è posto dall’ordinamento nell’alternativa tra subire l’aggressione o proteggere il bene senza reagire contro l’aggressore. Un temperamento alla rigorosa tesi della necessità difensiva quale assoluta mancanza di alternative alla reazione difensiva è rappresenta dalla massima del commodus discessus, secondo la quale la necessità difensiva sarebbe esclusa solo in presenza di una possibilità di fuga che non esponga l’aggredito né a rischi né a disagi di alcun tipo. Il requisito della necessità di difesa incide anche sul quantum oltre che sull’an della reazione legittimamente difensiva. Una difesa può dirsi necessaria quando non esistono altre possibilità di salvaguardia dell’interesse diverse dalla reazione contro l’aggressore e quando la misura della reazione non eccede la soglia di quanto indispensabile a neutralizzare l’aggressione: tutto si pone al di là di tale soglia, in quanto non aggiunga nulla all’efficacia della reazione, non può considerarsi necessario alla difesa. B) la proporzione tra offesa e difesaàdeve esprimere l’esigenza di contenimento della difesa legittima. La sproporzione della difesa la rende illegittima, anche nell’eventualità in cui la reazione sproporzionata fosse l’unica a lui possibile. La proporzione viene a dar corpo ad una scelta significativa dell’ordinamento, in quanto implica che l’aggressore non è destinato a subire tutte le conseguenze possibili del fatto ingiusto per il solo motivo di essersi posto contro il diritto. La proporzione rappresenta una scelta di campo dell’ordinamentoàessa introduce un fattore di equilibrio e di misura, che non solo evita reazione difensive (pov utilitaristico) in perdita per l’ordinamento, ma ne mantiene (pov etico-sociale) un orientamento personalistico evitando che l’aggressore sia posto alla mercè dell’aggredito e quasi fuori di ogni forma di tutela. La proporzione della reazione difensiva si rivela coerente con l’idea di una giustizia retributiva, la quale rifiuta sanzioni sproporzionate per eccesso. Anche nella prospettiva individualistica della legittima difesa come espressione di un diritto di autotutela, la proporzione esprime una scelta di civiltà, impedendo che l’esercizio di quel diritto individuale possa trasmodare in comportamenti reattivi espressione di una liberazione degli istinti. a) criteri per l’accertamento della proporzione: escluso è che la proporzione possa essere instaurata tra i mezzi aggressivi e quelli a disposizione dell’aggredito. La proporzione dev’essere instaurata tra il pericolo del fatto aggressivo e quello difensivo, cioè tra i loro contenuti di disvalore. Con la conseguenza che l’accertamento della proporzione deve avvenire a seguito di un giudizio valutativo dalle cadenze non facili. Il contenuto di disvalore del fatto aggressivo e difensivo dipende da due parametri valutativi: la natura del bene giuridico offeso e l’intensità dell’aggressione. àlimitando la comparazione ai due beni così considerati, si potrà andare poco lontano poiché l’aggressione alla libertà è graduabile lungo offese di diversa entità. 1) natura dei beniàle difficoltà di accertamento della proporzione si hanno quando si tratti di beni tra loro eterogenei, rispetto ai quali l’ordinamento offre degli indici univoci di ponderazione. 2) intensità dell’aggressioneàla rilevanza del criterio è tale da mettere in ombra la gerarchia instaurata tra i beni in gioco: ammesso che i beni patrimoniali siano inferiori rispetto a quelli personali, non è implausibile che l’intensità dell’offesa patrimoniale sia tanto elevata rispetto all’esiguità dell’offesa alla persona da capovolgere il giudizio di proporzione formulato in rapporto ai beni in sé considerati. 3) questo criterio deriva dal fatto che l’intensità dell’offesa ingiusta va valutata con riferimento al disvalore intrinseco del fatto aggressivo incombente e anche all’intensità del pericolo, cioè alla più o meno elevata probabilità di realizzazione dell’aggressione. È chiaro che vengono in gioco tutti quegli elementi di fatto che condizionano in senso favorevole o sfavorevole la realizzazione dell’offesa ingiusta. Poiché la proporzione concerne l’obiettivo rapporto di disvalore tra pericolo di aggressione e reazione difensiva, il pericolo va valutato sulla base di tutti gli elementi influenti sulla realizzazione dell’aggressione, anche se ignoti al momento del fatto all’aggressore e all’aggredito. Qualora il soggetto che si difendi ritenesse erroneamente sussistere un pericolo maggiore di quello reale così da reagire con una difesa sproporzionata per eccesso, egli potrà invocare un difetto di colpevolezza o rispondere a titolo di colpa del fatto commesso. b) la meritevolezza dell’interesse per il quale si agire spinge ad un’interpretazione non rigida anche della proporzione. Si deve ritenere che la reazione sia legittima quando sia inferiore o equivalente all’aggressione e quando non trasmodi in un fatto decisamente incomparabile con l’aggressione. A questa conclusione si deve giungere per la considerazione pratica che l’aggredito, nella situazione di tensione ed eccitazione in cui spesso agisce, non ha la possibilità di soppesare in modo matematicamente preciso i rispettivi disvalori dell’aggressione e 95 pericolo. In questa ipotesi il pericolo si risolve in una dichiarazione di intenti da parte del minacciante: quindi è una conseguenza e una variabile della “serietà” della minaccia, cioè dei propositi del minacciante. Con la conseguenza che la sussistenza dello stato di necessità, per quanto attiene all’estremo del pericolo attuale, presuppone l’accertamento da parte del giudice degli elementi capaci di conferire serietà alla minaccia. L’art. 54.3 precisa che “del fatto commesso dalla persona minaccia risponde chi l’ha costretta a compierlo”àipotesi “speciale” di concorso di persone nel reato in presenza di un autore mediato. Mentre il fatto realizzato dal minacciato non costituisce reato per mancanza di un requisito essenziale, la responsabilità del minacciante si fonda sulla realizzazione del reato avvenuta attraverso la mediazione di altro soggetto autore materiale del fatto. La responsabilità dell’autore mediante presuppone che l’autore materiale del reato si trovasse senza vie d’uscita: la possibilità di evitare la commissione del reato senza l’ineluttabilità del danno minacciato rende responsabile l’agente in concorso col minacciato rende responsabile l’agente in concorso col minacciante, in quanto abbia con le sue minacce influito sul proposito criminoso dell’autore materiale senza annullarne la capacità di autodeterminazione. b) L’art. 54.1 stabilisce che lo stato di necessità è invocabile dall’agente quando “il pericolo è da lui non volontariamente causato”àesprime un intento legislativo di limitazione dell’area applicativa della norma, che sembra essere un po' estraneo alla sua ratio intesa nel senso ogg., mentre rivela una maggior coerenza con il fondamento sogg. della esimente. àdubbio interpretativo: non può essere intesa restrittivamente nel senso che il soggetto debba aver “dolosamente” tenuto la condotta produttiva del pericolo, prevedendo e accettando la verificazione della situazione di pericolo. Si deve intendere come volontariamente causata la situazione di pericolo che sia colposamente riconducibile ad una condotta volontaria del soggetto, senza che egli si sia rappresentato il pericolo e l’abbia accettato. Quando la concreta situazione di pericolo è riconducibile a un comportamento volontario inclusivo di quello specifico rischio, sia che questo sia stato preveduto e accettato sia che fosse solo prevedibile, ha senso escludere il soggetto dalla fruibilità della esimente. C) inevitabilità altrimentiàl’art. 54 viene a rafforzare l’estremo della necessitààla necessità difensiva non occorre che sia assoluta, nel senso che la difesa può essere legittima anche se non rappresenta l’unica possibilità di salvataggio dell’aggressione ingiusta: qualora l’alternativa alla difesa implichi per il soggetto aggredito ingiustamente (o per i terzi) dei pregiudizi non rilevantemente inferiori al pericolo dell’aggressione, egli ben potrà optare per la difesa nonostante che quest’ultimo non costituisca l’unica via di salvezza. La diversa struttura dello stato di necessitò, in cui non vi è un interesse “qualificato” in quanto aggredito, dovendosi avere una attenzione particolare all’interesse sacrificato in quanto di un terzo estraneo, comporta che il requisito della necessità di salvamento debba essere concepito in termini assoluti. A ciò provvede il requisito della inevitabilità altrimenti, esigendo che quello specifico e concreto fatto di salvataggio sia l’unica via di salvezza per il soggetto in pericolo. 2.3.4.2. L’azione di salvataggio, A) azione di salvataggioàoccorre che il fatto tipico sia proporzionato al pericolo corso. a) I criteri di accertamento della proporzione sono quelli già visti per la legittima difesa, con la differenza che nello stato di necessità la proporzione potrà essere ritenuta sussistente solo a condizione che la reazione necessitata sia rigorosamente inferiore o pari al pregiudizio corso dal pericolante. b) Si pone il problema se nella valutazione della proporzione si debba anche tener conto degli elementi soggettivi del fatto necessitato: la gravità è calcolata tenendo conto anche dell’elemento psicologico doloso o colposo, nonché della natura dei motivi e di tutte le circostanze che abbiano esercitato una qualche incidenza psichica sul processo motivazionale, così come della idoneità offensiva della condotta valutata ex ante al momento in cui il soggetto si è messo in salvo (o ha prestato soccorso). L’allargamento dei criteri è coerente con una concezione soggettivistica dello stato di necessità. Devono essere considerati gli elementi del dolo e della colpa, che incidono sulla gravità. B) L’art. 54.2 dispone che lo stato di necessità “non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”àpuò derivare sia da norme di diritto pubblico (=vigile del fuoco o dell’agente delle forze di polizia) sia dei rapporti contrattuali privati (=guardia del corpo). Essenziale è che la situazione di pericolo rientri in quelle per far fronte alle quali è imposto il dovere al soggetto. a) Il limite del dovere di esposizione al pericolo non è pienamente coerente con un’impostazione soggettivistica dell’esimente, visto che la situazione di pericolo può esercitare un’efficacia psichicamente cogente anche se il soggetto ha il dovere giuridico di esporsi a quel pericolo. Art 54àl’espressione di un bilanciamento oggettivo effettuato dall’ordinamento tra i due interessiàsi consideri che di regola l’imposizione di un dovere giuridico di esposizione a un (determinato) pericolo presuppone l’addestramento del soggetto e la fornitura di mezzi adeguati a fronteggiare quel pericolo. La ratio “utilitaristica” del limite del dovere di esposizione a pericolo imporrebbe una particolare cautela applicativa del limite in tutti i casi di forte sproporzione tra il pericolo corso e il danno inferto a terzi. b) Il limite del dovere di esposizione a pericolo non opera nel caso di soccorso di necessità. Quando il pericolo riguardi un soggetto diverso da quello gravato dall’obbligo, quest’ultimo ben potrà usufruire dell’esimente rispetto al reato commesso per salvare il pericolante, essendo chiaro che la ratio è quella di impedire che i soggetti 96 obbligati possano sottrarsi al pericolo per salvare sé stessi. La formulazione della disposizione esclude l’operatività dell’esimente solo per quel soggetto che sia gravato del dovere di esposizione a pericolo e la diversa soluzione costituirebbe un caso di applicazione analogica in malam partem. Il limite ex art. 54.2 opera nei casi in cui il soggetto gravato dal dovere di esporsi a pericolo agisca per salvare sé stesso pregiudicando un terzo estraneo o un altro pericolante. La violazione di obblighi giuridici di soccorso può essere scriminata dallo stato di necessità quando il pericolo cui andrebbe incontro l’obbligato soccorrendo il pericolante sia maggiore di quello in cui versa questo. L’obbligo di soccorso è incondizionato, essendo esclusa la possibilità di invocare lo stato di necessità, in tutti quei casi in cui l’obbligo di soccorso è accompagnato dal dovere di esposizione al pericolo. 2.4. L’uso legittimo delle armi. L’art. 52 disciplina l’uso legittimo delle armi. Nella versione attuale modificata nel 1975 la norma risposta composta di due fattispecie distinte. A) prima fattispecieàuso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica per respingere una violenza o vincere una resistenza al fine di compiere un atto doveroso dell’ufficio. a) fondamento àessa costituisce espressione del potere di autotutela esecutiva e diretta della pubblica amministrazione. Direttaàperché immediata. Senza che la legittimità della pretesa amministrativa di dare attuazione all’atto sia preventivamente vagliata da un organo amministrativo o giurisdizionale competente. Esecutivaàperché dinanzi all’impedimento frapposto dal privato la pubblica amministrazione si tutela mediante l’uso della coercizione fisica. Un siffatto potere realizza un momento delicato del rapporto tra autorità pubblica (amm.) e cittadino, con la conseguenza che le forme di manifestazione del potere di autotutela esecutiva e diretta dovrebbero essere puntualmente e precisamente previste dalla legge, così da evitare il conferimento all’autorità amministrativa di un potere generale ed indeterminato nei presupposti che porrebbe il cittadino in una posizione di complessiva subordinazione ed esposizione anche fisica alla volontà dell’autorità. L’art. 53 sembra attribuire alla scriminante una portata indiscriminata e ampia. Vi sono punti di contatto tra l’uso legittimo delle armi e la legittima difesa e l’adempimento del dovere, confermato dall’incipit dell’art. 53. La giustificazione del potere di autotutela attraverso la legittima difesa soggiace ai limiti di quest’ultima, così come l’adempimento del dovere presuppone l’esistenza di una norma che ne precisi gli specifici presupposti e contenuti. La struttura dell’art. 53 si presenta come una disposizione di portata generale. La clausola di riserva a favore degli artt. 52 e 51 non sta a significare altro che il carattere sussidiario e residuale della scriminante dell’uso legittimo delle armi: quest’ultimo troverà applicazione in tutti quei casi che non possono essere ricondotti alla legittima difesa o adempimento del dovere. b) requisiti strutturaliàsono stati interpretati da dottrina e giurisprudenza in modo da pervenire ad una delimitazione del suo ambito applicativo. 1) Primo requisitoàcondizioni soggettive ed oggettive di legittimo esercizio del potere di coercizione fisica. È evidente la necessità di instaurare un collegamento tra l’art. 53 e le varie normative di settore di diritto pubblico disciplinanti titolarità ed esercizio del potere coercitivo. La giustificante sembrerebbe invocabile solo che si trattasse dii un qualunque “pubblico ufficiale” impedito nel compimento di un qualsiasi atto d‘ufficio doveroso. Gli unici soggetti legittimati all’esercizio del potere coercitivo sono i pubblici ufficiali abilitati al porto e all’uso delle armi per l’assolvimento dei propri doveri funzionali: gli appartenenti alla forza pubblica. Affinché l’uso sia legittimo, non basta che provenga dai pubblici ufficiali della forza pubblica ma occorre un requisito di ordine oggettivo, nel senso che l’atto doveroso, per il compimento del quale vengono usate le armi, deve essere tra quelli per i quali si può desumere dall’ordinamento una autorizzazione, anche implicita, all’uso della forza. Non sempre facile è l’individuazione degli atti per cui è legittimo l’uso delle armi da parte della forza pubblica. Oltre agli atti che sono espressione della generica funzione di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, sarebbe prudente regola ermeneutica quella di fondarsi su specifiche previsioni normative sufficientemente univoche. Gli altri soggetti che possono legittimamente fare uso delle armi sono: a) il soggetto gerarchicamente subordinato al pubblico ufficiale che impartisce l’ordine di fare uso delle armi; e in tal caso il subordinato andrà scriminato ex art. 51, adempiendo un dovere derivante da un ordine dell’autorità; b) il privato che “legalmente richiesto dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza” art. 53.2àin tal caso il privato eserciterà una facoltà, il cui effetto scriminante discende dall’art. 53.2. 2) Secondo requisitoàviolenza o resistenza cui il pubblico ufficiale è autorizzato a reagire per il compimento dei propri doveri d’ufficio. Violenzaàl’estrinsecazione di una energia fisica capace di recare un pregiudizio fisico a persone o cose; si comprende anche la minaccia di violenza, sempre che si tratti di violenza prospettata come immediata. Resistenzaàla giurisprudenza è unanime nell’escludere la resistenza passivaài comportamenti del privato “resistente” impediscono il compimento dell’atto per il quale non vi sono modalità diverse di attuazione. 3) proporzione + necessità= costituiscono requisiti impliciti. Necessità della reazioneàdeve costituire l’unico modo per superare l’impedimento frapposto al compimento dell’atto, ma deve essere minima tra le possibilità reattive sufficiente a rimuovere l’impedimento. Il surplus di reazione rispetto a quanto necessario e sufficiente sarebbe superfluo allo scopo e non necessario. Proporzioneàla modulabilità della reazione è suggerita dall’art. 53 che si riferisce alle armi e agli altri mezzi di coazione fisica. La proporzione corrisponde sia al principio di 97 ragionevolezza (art. 3 Cost) sia al principio personalistico (art. 2 Cost). Se la tutela dell’attività amministrativa potesse spingersi oltre la proporzione ne risulterebbe rovesciato il rapporto di valore tra individuo ed autorità. B) seconda fattispecieàart. 53 àquella in cui l’uso delle armi è giustificato dalla necessità di impedire la consumazione dei delitti di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. àla fattispecie implica una situazione di consumazione imminente di uno dei gravi delitti e poiché ciascuno di essi comporta un’offesa ingiusta nei confronti di diritti altrui, è chiaro che la scriminante è riconducibile allo schema del soccorso difensivo. Dubbi di utilità e al significato della modifica introdotto nel 1975. Il significato attiene più alla legittima difesaàquesta fattispecie contiene una specificazione nominativa dei termini della legittima difesa, sia per l’aggressione sia per la reazione difensiva. Il significato normativo di questa disposizione è quello di instaurare una presunzione legale di proporzione tra i due termini di legittima difesa e soccorso difensivo. Il vero problema concerne gli altri requisiti del soccorso difensivo e quello della attualità del pericoloàl’art. 53 non lo menziona espressamente, visto che parla di “necessità di impedire la consumazione” dei delitti, senza indicare a quale stadio di esecuzione si debba trovare. Il significato e l’utilità di questa seconda fattispecie è di introdurre una presunzione legale di proporzione all’interno di una speciale ipotesi di soccorso difensivoàse è così, la norma si presenta come speciale rispetto all’art. 52, così che comprenda tutti gli elementi della norma generale e quelli dell’attualità del pericolo, con la conseguenza che, perché sia legittimo l’uso, occorre che sussista il pericolo attuale della loro realizzazione e che la loro esecuzione si trovi nel tentativo. 3. Le cd. cause di giustificazione non codificate. Il problema delle cause di giustificazione non codificate (o scriminanti tacite o non scritte o extralegislative) si pone a proposito di quelle attività che, pur manifestandosi in fatti tipici, sono considerate lecite in ragione della loro utilità sociale sebbene non sia dato rintracciare una precisa norma di giustificazione. Es. attività medico- chirurgica e violenza sportiva. Non sembra che la teoria delle scriminanti tacite abbia seguitoàl’esistenza di cause di giustificazione di origine extralegislativa va rifiutata per due ordini di motivazioni: A) Le scriminanti tacite mal si conciliano coi principi fondamentali del nostro ordinamento. a) nel nostro ordinamento rientra una nozione di antigiuridicità sostanziale, esprimendo l’antigiuridicità l’idea che il fatto tipico sia contra ius perché non giustificato dalla presenza di alcuna norma giuridica che specificatamente lo imponga o lo autorizzi. Significa che il giudice non potrà trovare la sua fonte di una qualificazione del fatto tipico in termini di antigiuridicità in criteri e parametri sostanzialistici diversi dall’esistenza di norme giuridiche formali di giustificazione. L’ispirazione legalitaria del nostro ordinamento esclude che la giustificazione di un fatto penalmente tipico possa essere rintraccia in principi generici come quelli del bilanciamento degli interessi o dell’azione socialmente adeguata. Il principio del bilanciamento degli interessi è presente e alla base di norme attraverso le quali la ponderazione degli interessi confliggenti è effettuata nei termini espressi dalla fattispecie attributiva della facoltà o impositiva del dovere. Il principio del bilanciamento degli interessi opera attraverso “la necessaria mediazione” di una specifica norma giuridica, senza essere rimesso al giudice. b) Le norme di giustificazione non sono coperte da riserva di legge come le norme incriminatrici, così che si apre la possibilità di una loro applicazione analogica e di una loro formazione in via consuetudinaria. Entrambe queste possibilità si inseriscono nella dinamica “fisiologica” delle scriminanti codificare, senza dare origine ad una categoria di scriminanti tacite. A parte che la legittima difesa e lo stato di necessità che sono formulate ex novo da disposizioni del Codice penale, l’esercizio del diritto e l’adempimento del dovere derivano la loro esistenza dalle aree extrapenali dell’ordinamentoàa quelle norme si applicheranno i principi in materia di fonti dell’area di provenienza. Niente impedisce che una determinata facoltà o dovere siano riconosciuti a seguito di un’interpretazione analogica di una specifica norma o della formazione di una consuetudine. Facoltà o dovere, che svolgeranno il loro effetto giustificante in quanto corrispondenti al normale fenomeno di produzione ed operatività delle scriminanti dell’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere. Anche il contenuto del diritto o dovere risultanti da un’interpretazione analogica o da una consuetudine avrà un grado di specificità e determinatezza omogeneo a quelle delle norme scriminanti espresse e tacite. B) Diffusa è l’opinione della inutilità della nozione delle cause di giustificazione taciteàle attività sembrano riconducibili senza particolari problemi alle cause di giustificazione codificate e all’esercizio del diritto. a) attività medico-chirurgica: ha una base giuridica al suo riconoscimento e alla liceità dell’esercizio. Il problema è l’individuazione dei limiti prendendone atto attraverso l’interpretazione delle norme. Non si può parlare di extra-legalità perché comunque l’opera è delimitazione del contenuto del diritto o dovere scriminante. I limiti e le condizioni dell’efficacia scriminante sono: 1) la necessità terapeutica dell’intervento; 2) la proporzione tra i sacrifici recati e i benefici sperati; 3) il consenso del paziente; 4) il rispetto delle leges artis, delle regole tecnico- scientifiche dell’attività medica. L’esercizio dell’attività medico chirurgica è giustificato dall’esercizio del diritto e dell’adempimento del dovere; l’eventuale l’esito infausto dell’intervento il medico non può rispondere per assenza di dolo/colpa. b) violenza sportiva: situazione analogaàla probabilità di comportamenti violenti può significare una autorizzazione da parte dell’ordinamento all’esercizio della violenza sportiva. Condizioni e limiti: 1) il consenso
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved